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ELENO VERGILI - APPUNTI PER UNA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA-
(Copyright by don Marcello De Grandi)
INTRODUZIONE
I) ARTE, POESIA, CRITICA E STORIA DELLA LETTERATURA.
Per comprendere che cosa sia una Storia della Letteratura, la via più facile e breve è
quella che parte dalle premesse: lArte, la Letteratura in generale e la Poesia in
particolare, la Critica letteraria.
LARTE è la produzione della bellezza estetica o lirica, ossia è la espressione
razionale, pura ed assoluta, della emotività Tale espressione si può chiamare più
semplicemente "lirica" od "estetica". Dire che larte è lirismo
coincide con il definirla creazione della bellezza estetica, ossia espressione pura ed
assoluta delle emozioni,. Queste presentano quattro manifestazioni, facce o modalità
fondamentali: la gioia e la tristezza dolce, mite, contemplativa (IDILLIO/ ELEGIA); la
gioia e la tristezza forte, vibrata, drammatica (EPOPEA/ TRAGEDIA). Con terminologia
sinonima si può parlare di tonalità emotive, di toni lirici, di stati danimo
lirici, di stati affettivi o di registri emozionali...
LA LETTERATURA è lespressione lirica mediante la parola: è larte verbale,
cioè del suono articolato e sensato (intelligente). La parola è, dunque il mezzo
espressivo della letteratura e la distingue dalle altre forme di espressione emotiva (pura
ed assoluta). La parola consta di due componenti o fattori: uno
filosofico-ideale-eidetico-simbolico (in quanto è un suono, divenuto segno o simbolo
convenzionale di una realtà); ed uno acustico-musicale (in quanto è un seguito più o
meno armonioso di suoni fisici, indipendenti dal loro valore razionale.). Perciò
larte verbale o Letteratura ha due manifestazioni specificamente differenti: la
poesia e la prosa. La POESIA usa come mezzi espressivi entrambe le dimensioni della parola
(idea e musica: questultima consiste anzitutto nel verso e nelle rime, nel ritmo
-successione di accenti obbligati- e nelle strofe; e, poi, nella particolare armonia di
consonanti e vocali delle singole parole, propria di ogni poeta). La PROSA si affida quasi
unicamente al valore filosofico-ideale della parola (anche se ogni scrittore ha una sua
armonizzazione, cioè un proprio impasto musicale della parola, della frase, del periodo:
quasi una impronta digitale, cui obbedisce senza accorgersi).
La letteratura non è lunica forma di Arte. Esistono almeno altri tre generi o
gruppi di espressioni estetiche, specificate dallo strumento comunicativo: le arti
figurative (o visive: disegno, pittura, scultura e architettura), la musica, le arti
drammatiche (teatro, opera lirica, cinema e spettacolo televisivo).
LE ARTI FIGURATIVE. Il DISEGNO è larte che si esprime per mezzo di linee composte
in figura. La PITTURA è larte che esprime emozioni attraverso linee e colori. La
SCULTURA è larte che esprime stati danimo attraverso i valori plastici,
tridimensionali della materia trattata (legno, marmo o metallo), nonchè attraverso il
gioco di luci ed ombre (chiaroscuro) che è quasi un cromatismo infuso nella materia
stessa. La ARCHITETTURA è la forma artistica che esprime emozioni attraverso il rapporto
spaziale di pieno e vuoto, cioè sfruttando non solo le parti "tettoniche o
portanti" (il "pieno" dei materiali), ma anche il vuoto abitabile, cioè
lambiente edilizio creato appunto dal rapporto delle pareti, archi, pilastri e
coperture (volte, capriate, soffitti) con gli spazi lasciati sgombri per luso umano
della costruzione.
La MUSICA è larte che esprime laffettività mediante la melodia (successione
emotivogentica di singole note o di accordi complessi, ottenuti armonizzando più note
contemporanee in un unico suono).
Le ARTI DRAMMATICHE (o cinestetiche= cinestesiche) sono le forme di arte che si servono
anche della presenza, della mimica e del movimento degli attori, oltre che di tutti i
mezzi delle altre espressionmi liriche o forme darte (parola, musica, arti
figurative, paesaggio). Le arti drammatiche tendono ad assommare in sè ogni altra forma
di espressione estetica: figuratività degli scenari, inquadramento del paesaggio, musica
di fondo o accompagnata dal canto, recitazione in versi o in prosa. Si potrebbe dire che
esse sono il genere artistico che si serve della persona umana tutta (presenza, bellezza,
forza,mimica, gestualità, movimento od azione, parola, canto) e della natura tutta
(paesaggio naturale, ambiente cittadino, macchinario tecnico, ecc.) per comunicare la
emotività, per coinvolgere, anzi, in una atmosfera lirica. Il TEATRO è il tipo di arte
drammatica che si esprime mediante persone reali, presenti attualmente sulla scena per
coinvolgere gli spettatori negli stati danimo dei personaggi fittizi che esse
incarnano, mediante costumi, gesti, azioni e parole, mimica ed eventualmente anche
attraverso il canto ( OPERA LIRICA O CANTATA). Il CINEMA E LA TELEVISIONE sono le forme
darte che si esprimono mediante la fissazione su materiale adeguato (celluloide o
circuiti elettronici) la ripresentazione di parole, gesti, azioni, canto, presenza ed
avvenenza delle persone vive od attori, che a suo tempo hanno recitato la parte del loro
personaggio fittizio: la tecnica di fissazione e ripresentazione ridona, attraverso luci,
suoni, colori, lillusione della contemporaneità della rappresentazione drammatica,
avvenuta invece una volta sola e poi incarnata nei mezzi tecnici di conservazione e
riproduzione delle figure e dei suoni.
Noi ci occuperemo, ormai, quasi soltanto dellarte della parola, sia in sede di
critica che di storia della LETTERATURA.
LA CRITICA ARTISTICA ( ESTETICO-LETTERARIA in particolare). Anzitutto va detto che la
critica letteraria (o, più in generale, artistica) riguarda, di per sè, lanalisi
di singole opere, di un singolo autore: dapprima per giudicare della loro caratura
estetica; poi, per analizzarne le componenti.
Vi sono, infatti,due tipi di "critica artistica" che van tenute nettamente
distinte. Anzitutto vi è la "critica spontanea". Essa è la capacità di
entrare in risonanza con le emozioni pure ed assolute, cioè col lirismo eventualmente
presente nellopera in esame. Tale primo passo critico risponde alla domanda
"lopera che sto leggendo, guardando, udendo... mi attrae ed interessa per la
espressione di stati emozionali puri ed assoluti; oppure non mi interessa affatto; oppure
mi attrae ed interessa per motivi diversi dalla emotività, come il contenuto ideologico,
leccitazione erotica, la curiosità di conoscere lesito di una vicenda
ingarbugliata...?" La critica spontanea è cioè la facoltà di distinguere un
prodotto artistico da opere appassionanti bensì, ma di carattere socio-politico,
sensuali, poliziesche...Tale facoltà critica è propria di tutti gli uomini, seppure non
nella stessa misura, per quel che concerne il giudizio estetico sulle opere visive,
musicali e teatrali-cinematiche. Per le opere letterarie, invece, occorre la conoscenza
della lingua usata dallautore. La "critica riflessa" presuppone sempre
quella spontanea, ma la completa con lo studio delle componenti essenziali della
espressione stessa. La riflessione e la pratica secolare nella ricerca degli elementi
costituenti loggetto della critica letteraria ha condotto allisolamento di tre
elementi (fattori, componenti, dimensioni, aspetti, parti) della indagine critica, cioè a
distinguere (nelle singole opere letterarie) i motivi ispiratori (ossia le idee da cui han
preso avvio gli stati danimo o i sentimenti, spesso ancora prassici, dello
scrittore); i toni lirici (tonalità emotive, registri emozionali..., cioè le emozioni
pure ed assolute, che egli è riuscito ad esprimere mediante la parola, a partire dai
motivi ispiratori); la tecnica stilistica (stile, mezzi espressivi..., cioè le idee
proprie od acquisite, il tipo di linguaggio e di sintassi, la musicalità, infine,
congenita allautore).
LA STORIA DELLA LETTERATURA. E lo studio non di singole opere, ma della produzione
tutta di uno scrittore o di intere generazioni di poeti e letterati, nel contesto del
TEMPO: la "storia" è il succedersi di un passato, di un presente e di un
futuro. La Storia letteraria studia dunque le opere artistiche di scrittori nella dinamica
del loro divenire, cioè nella loro preparazione, nascere, crescere, definirsi
nellanimo degli artisti verbali, in relazione (di accoglienza o di contrasto) al
contesto della cultura tutta e, in particolare, della produzione letteraria che ha
preceduto e accompagnato la gestazione della loro opera. Mentre, dunque, la Critica
letteraria si limita a studiare le componenti sincroniche (contemporanee) di un lavoro
artistico, cioè i fattori che costituiscono leterna realtà dellopera (motivi
ispiratori, lirismo, stile), la Storia letteraria inquadra la produzione letteraria
diacronicamente, cioè nel succedersi di PREMESSE| COSTITUENTI| CONSEGUENZE (passato,
presente, futuro) della produzione stessa. Anche qui la riflessione e la pratica della
indagine storico-letteraria hanno condotto a concludere che due sono LE PREMESSE (il
passato) di unopera estetica: la PERSONALITA o PSICOLOGIA DELLO SCRITTORE
(vera causa efficiente, cioè produttiva dellopera); e lAMBIENTE, cioè la
cultura, specialmente letteraria, che ha influito nella scelta delle idee (motivi
ispiratori) e di molti elementi stilistici (specie la metrica) dello scrittore (religione,
filosofia, ideologie, contatto con persone, fatti e luoghi particolari; oppure letture di
libri che mettono in contatto con il patrimonio di poesie, prosa letteraria, pensiero,
costumi...del tempo precedente la scrittura dellopera letteraria o la nascita stessa
dello scrittore).
Le "conseguenze, lefficacia, il futuro" dellopera singola o di tutta
la produzione di un autore si riassume in una categoria unica: la FORTUNA. Tale termine
indica fatti discretamente diversi: numero di (famiglie di) manoscritti e, dopo la
invenzione della stampa, di edizioni fatte e di copie vendute; imitazioni aperte o più o
meno coscienti riecheggiamenti da parte di altri poeti o prosatori; studi critici
sullopera o sullo scrittore; sfruttamento dellopera in altra sede culturale od
artistica (rivestimento musicale di versi o intere poesie, traduzione in opera teatrale o
filmica, ecc.).
II) La storia della letteratura, in quanto ITALIANA, sarà allora lo studio delle opere
letterarie scritte in lingua italiana (cioè toscana e più propriamente fiorentina, come
vedremo), a cominciare dal secolo decimoterzo, nelle loro PREMESSE, cioè nella
pesonalità e nel contesto dellambiente di formazione dei loro autori (nel passato ,
nei precedenti delle opere stesse); nella loro SOSTANZA perenne dei motivi ispiratori,
toni lirici, tecnica stilistica; nella PROSECUZIONE (futuro) della loro efficacia, cioè
nella loro fortuna nel corso delle generazioni successive.
III) Quanto di queste componenti della storia letteraria sono strettamente individuali
(soprattutto la personalità, i toni lirici e la fortuna) vanno studiati a livello di
singoli autori. Vi sono però dei fattori che appartengono ad un AMBIENTE
culturale-letterario che non è proprio di uno scrittore, ma comune ad un gruppo che si
son trovati a vivere e formarsi negli stessi tempi e luoghi . E per questo che
spesso, prima di affrontare lo studio di singoli scrittori, dovremo dedicare non poche
pagine a scoprire la radice che caratterizza la mentalità, molti motivi ispiratori,
alcune particolarità dello stile di una intera epoca letteraria. Per gli scrittori più
importanti, poi, lo studio dellambiente dovrà essere ulteriormente precisato,
perchè più uno scrittore è intelligente e artista, più ampio sarà il suo bagaglio
culturale, gli autori del passato utilizzati, le esperienze del suo tempo o della storia
resi oggetto della sua operosità letteraria: si pensi a Dante ed a tutti i personaggi
inseriti nella sua Commedia!
Ci sembra utile mettere qui alcune note metodologiche riguardanti lo studio
dellAmbiente. Immediatamente (specie in riferimento agli influssi sui Motivi
ispiratori) interessano le premesse ideologiche (filosofia, religione, dottrina morale,
conoscenze storiografiche, scientifiche...) e letterarie, messe a disposizione di un
singolo scrittore o di una scuola di poeti e prosatori. Però per la sua natura duplice,
animale e spirituale, luomo è condizionato da molti fattori pratici anche nel suo
pensare e scrivere. Non che luomo sia determinato o necessitato dalle componenti
esteriori della cultura di una epoca storica, ma neppure può prescindere dalle condizioni
concrete e pratiche militari e politiche, tecniche ed economiche, sociali ed
organizzative- del suo tempo, nel formarsi il suo bagaglio di esperienze e di idee. Le
idee (che diverranno i suoi motivi ispiratori) lo scrittore le acquisisce, certo, pensando
liberamente, tanto è vero che non subisce passivamente le dottrine che trova nel suo
ambiente. Pure, gran parte delle proprie convinzioni ogni uomo, anche i più grandi, se le
forma reagendo a quelle trovate nella società a lui contemporanea, ora condividendole,
ora rifiutandole, ora migliorandole. Ma anche quelle che inventa nella misura della
propria acutezza o profondità intellettiva, non lo fa senza la sollecitazione delle
circostanze culturali, in cui si trova a vivere. Daccordo: Dante non avrebbe mai
scritto lOrlando Furioso nè Ariosto la Divina Commedia: per disposizioni congenite.
Ma è da sospettare che Dante non sarebbe stato in grado di scrivere la Divina Commedia
nel corso del Cinquecento nè Ariosto di versificare il Furioso nel Duecento. Ecco che
lambiente (Medioevo- Rinascimento) si fa componente necesaria ala gestazione di
unopera (anche) letteraria. Ed ecco perchè, studiando lAMBIENTE delle varie
epoche, distingueremo quattro grandi settori da prendere in considerazione, cominciando
proprio dalle componenti pratiche, cui seguiranno la mentalità, il gusto (sensibilità
prevalente) ed il costume (vita morale).
Tale studio dellAMBIENTE dovrà introdurre, a maggior ragione, la storia della prima
fioritura letteraria italiana, perchè abbiamo da scoprire il segreto della genesi di
quella forma espressiva fondamentale, di quella tecnica letteraria prima e generalissima
che è la lingua tosco-fiorentina, fatta propria nel corso di secoli da tutta la nazione
italiana. Sarà il primo capitolo della Storia della letteratura italiana.
(p. 6) Cap. I: LAMBIENTE IN CUI SI FORMA LA LINGUA ITALIANA NELLALTO MEDIOEVO
I) LE PREMESSE POLITICO-MILITARI.
Nel 395 muore Teodosio: ben presto le guerre, già endemiche nellimpero romano fin
dalletà di Settimio Severo (cioè dagli anni 193-211 d. C.) sia per le contese
intestine tra vari pretendenti allimpero sia per lurgere dei Parti e dei
Germani ai suoi confini, divennero rovinose per il prevalere, in Occidente, dei barbari
invasori sulle truppe romane. Nel corso dei secoli quinto e sesto d. C., i Visigoti si
stanziano in Spagna, i Franchi in Gallia, i Longobardi in Italia, gli Anglosassoni in
Britannia. L Italia (già saccheggiata dagli Ostrogoti nel 410 con Alarico, dai
Vandali nel 455 e dai Mongoli nel 452) vide la fine di quel che rimaneva dellimpero
romano nel 476 ad opera di Odoacre, che fu ucciso a sua volta da Teodorico, sceso in
Italia a capo degli Ostrogoti nel 493. Nel 535 Giustiniano, imperatore dOriente,
iniziò una guerra diuturna e durissima contro il regno ostrogoto in Italia, durata fino
al 553 con alterne vicende. Fu questo il singolo evento che portò alla decimazione del
popolo latino in Italia, al regresso delle terre coltivate, con il ritorno di foreste ed
acquitrini su molte zone della penisola. Non solo, infatti, lItalia fu percorsa da
eserciti vittoriosi o in ritirata per diciotto anni, ma Borgognoni e Franchi vi fecero
incursioni e razzie, distruggndo, fra laltro, Milano. E, quindici anni dopo la fine
di tale guerra gotico-bizantina, scesero in Italia i Longobardi (568), che portarono nuove
distruzioni e rovine. Essi ridussero i Latini a servi della gleba (aldii, cioè
semiliberi, legati al servizio degli arimanni , gli uomini liberi germanici che, come gli
antichi spartani, si occupavano solo di imprese belliche). Carlo Magno sconfiggerà i
Longobardi nel 774, annettendo lItalia al sistema feudale ed al Sacro Romano Impero.
II) LE PREMESSE SOCIO- CULTURALI.
1) IL REGRESSO DEL SISTEMA SCOLASTICO E DELLA TRADIZIONE LATINA
A) IL FEUDALESIMO è il sistema politico in cui il signore della terra è anche il
detentore dei poteri politici del suo territorio, in sudditanza solo al
"signore" che gli ha concesso -a vita- (non in eredità) la terra. Il feudatario
è il capo militare, il governatore civile, il giudice dei sudditi. Questi sono obbligati
ad arruolarsi sotto di lui e ad un complesso di prestazioni economiche, ma in natura
(giornate lavorative e frutti della stalla e della terra) chè, danaro, fino a Carlo
Magno, i popoli germanici non ne coniano e quel poco in circolazione è moneta di
Bisanzio. Il feudalesimo è un regime politico di pura sopravvivenza, in cui lo stato non
si preoccupa più in là della difesa dai nemici esterni. Tra le conseguenze di questa
restrizione nei compiti della società organizzata (lo stato, appunto) vi è la perdita di
importanza della città, chè il signore feudatario vive nel castello, centro
autosufficiente economicamente, se si tien conto anche della sua "curtis" di
artigiani e contadini; e, soprattutto, difendibile militarmente, diversamente dalla
città, troppo estesa, posta in piano e non circondata da mura. Ma labbandono della
città significa trascuranza della giustizia fra i cittadini lontani dal castello del
signore: di qui la crescente importanza dei vescovi e del clero, che garantivano
lesercizio della giustizia nei tribunali ecclesiastici. E significa anche la
negligenza della vita culturale, visto che Teodorico (muore nel 526) firmava con una
lamina doro intagliata a formarne il nome (in greco) e Carlo Magno (imperatore
dall800 all814) solo in tarda età imparerà la lingua del suo impero, il
latino. Anche questo disinteresse dei popoli vincitori ("cui fu prodezza il
numero,|cui fu ragion loffesa |e dritto il sangue e gloria| il non aver
pietà") riduce i centri di alfabetizzazione e di inculturazione quasi unicamente
alle scuole ecclesiastiche. Certo Pavia è una sede di studi giuridici fondata dai
Longobardi (anche se, come Università, risale solo al 1361) e altre scuole sono state da
loro istituite a Cividale, Spoleto, Salerno, per preparare uomini di leggi e di governo.
Ma questo è uno degli indizi che confermano la scomparsa dei centri romani di istruzione
nelle province italiane, durante i secoli di devastazioni precedenti. Laltro grave
indizio sta nel fatto che altri centri di cultura, conosciuti dalle invasioni alla
"rinascita" sotto Carlo Magno (secc. V-VIII), sono solo quelli di enti
ecclesiastici, cioè le scuole "cattedrali" dove si preparavano i futuri
presbiteri ( ma cui erano ammessi anche laici) e le scuole dei monasteri: Roma Laterano,
Montecassino, Milano, Verona, Vercelli, Modena, Novara, Lucca...
B) IL FALLIMENTO DELLA RINASCITA CAROLINGIA. Anche la promozione della cultura voluta da
Carlo Magno (suo consigliere è langlo Alcuino, diacono e forse monaco) si appoggia
sostanzialmente alle scuole episcopali e abbaziali. La situazione peggiora dopo la sua
morte, tanto che sembra tornare il caos a lui precedente. I suoi nipoti entrano in lotta
col padre Ludovico il Pio dall829, cioè da quando questi modifica la divisione
dellimpero, per ritagliarvi la parte di Ludovico il Calvo, natogli dal secondo
matrimonio. I Musulmani, entrati in Spagna nel 711, si trincerano a Frassineto, in
Provenza (per operare incursioni in Francia e in Liguria: secoli IX-XI); e nelle Puglie,
riuscendo ad tenere in pugno per decenni Bari, Taranto, Lecce ed operando incursioni che
devastano Roma, Montecassino, Genova, Pisa. In Francia vanno aggiunte le scorribande dei
Vichinghi o Normanni, che scendono a primavera con le loro navi snelle e, risalendo i
fiumi, mettono a sacco le città più esposte. Solo nel 911 ottennero la Normandia,
diventando sedentari e vassalli di Carlo III il Semplice. In Italia, i Musulmani
occuparono tutta la Sicilia e la dominarono per due secoli (dall827 al 1091);
dall 898 al 955 si sovrapposero, al Nord, le incursioni degli Ungheri, mentre furono
incessanti le lotte tra i vari pretendenti alla corona del regno o addirittura
dellimpero. Questultima caratteristica, la divisione e litigiosità della
nazione italica, sarà icasticamente definita dal vescovo Liutprando di Cremona (morto
circa il 972) nella sua opera Antapòdosis: "Sempre Itali binis regibus uti
consuerunt, quatenus alterum alterius terrore coèrceant" ("sempre gli Italici
hanno usato eleggersi due re per volta, così da poter tener a bada luno con il
terrore dellaltro").
C) LA SOLUZIONE DEI VESCOVI-CONTI CON OTTONE IL GRANDE. Il fatto che le città
continentali rimangono emarginate rispetto alla vita feudale incentrata nei castelli e
nelle campagne, passando alle cure, responsabilità ed autorità dei vescovi; il fatto che
dal 955 limperatore Ottone I decida di rendere istituzione legale tale condizione di
fatto, creando conti i vescovi e gli abati; il fatto che nei secc. VII, VIII, IX e X non
si trovi in Italia un solo nome di insegnante laico (A. Viscardi, Le Origini, nella Storia
della letteratura italiana, Milano, F. Vallardi, 1939, pp. 489-90), può dare una
indicazione sufficiente delle condizioni sociali e culturali di quei secoli fino al Mille
almeno. Daccordo, il motivo principale che costrinse Ottone I a puntare sui vescovi
e abati, come candidati preferenziali ai feudi, è di carattere politico (e lo vedremo):
ma vi fu certo una componente socio-culturale formidabile a spingere ad una tale
decisione, che si potrebbe chiamare tanto provvidenziale quanto disperata. E il
clero infatti che deve supplire le istituzioni civili, perchè queste reano inadeguate o
latitanti per servizi che richiedono un grado di integrità che nel clero ci si aspetta
sempre più presente; ed una preparazione professionale (conoscere le leggi, oltre la
lingua ufficiale in cui sono scritte) cui troppo pochi laici erano introdotti. I vescovi
debbono agire come giudici e come procuratori dellannona cittadina, come garanti
dellordine in città e nelle vie di accesso: lautorità, di cui li investe
limperatore a titolo di giustizia, è un fardello che essi già portavano in nome
della carità evangelica. Sono, questi, segni dei tempi: tempi in cui la società rischia
lanarchia e il ritorno allo stato selvaggio. Ma vi è un lievito in Europa, una sua
parte scelta (tale è il significato di "clero" in greco) che attinge dalla fede
religiosa non solo un grado di onestà ed altruismo assolutamente eccezionale, ma anche un
bisogno di cultura intellettuale, che, pur con menomazioni inevitabili in un simile
ambiente, dopo simili vicende militari e sociali, rimane ad un livello almeno suffciente.
Sono i secoli in cui il termine "verbum" viene emarginato nel senso di
"parola" in tutta lEuropa che riconosce nel latino la propria lingua
("Romània"), per essere sostituito dalla "par(ab)ola" presa dalla
predicazione cristiana: il vangelo, colle sue parabole, era lunico libro,
lunica forma di istruzione rimasta agli analfabeti, consegnata loro dai sacerdoti in
chiesa (solo più tardi anche dalle pitture e mosaici delle cattedrali, divenuti la
"biblia pauperum", la bibbia dei poevri). Sono gli stessi secoli in cui
lautorità assume il nome di "ministerium" cioè di "servizio",
termine in cui, dei due concetti di riferimento per indicare chi governa ( potere sui
sudditi - in favore dei sudditi) viene sottolineato il secondo, con uno spirito tutto
cristiano. Daltronde il termine latino per la casa in muratura (domus) viene
riservato allunica costruzione in pietra che, almeno in campagna, per secoli e
secoli sussisterà:la chiesa, chiamata appunto "duomo", mentre ai tuguri di
paglia dei contadini passerà il termine latino adeguato, cioè "casa". In
simili stretture non poteva essere salvato tutto il patrimonio di conoscenze trasmesso
dalla civiltà greco-romana. Anzi non si era neppure potuto conservare una conoscenza
adeguata delle forme linguistiche latine, chè neppur gli studiosi (pei quali
lapprendimento della lingua di Roma costituiva il primo passo dellistruzione)
potevano sottrarsi alla deformazione che di quella lingua avveniva inconsapevolmente nelle
loro menti, pel compromesso tra il linguaggio appreso a scuola e quello materno, che era
lingua barbara recente (il germanico per i popoli dove gli invasori avevano la
superiorità anche numerica) o atavica (il celtico dei Galli al nord o letrusco in
Toscana o i vari dialetti italici nel Sud della penisola). Se si vuole, era una specie di
regresso alle prime civiltà mediorientali, egizia e mesopotamica, in cui
listruzione era appunto appannaggio della casta sacerdotale. Pare che, considerate
seriamente le circostanze concrete della società feudale dellAlto Medioevo, sia
stata una provvidenza aver trovato una classe intera di uomini intellettualmente istruiti
e moralmente predisposti a dedicarsi (anche) alla trasmissione del sapere a quella parte
degli abitanti lEuropa già romana ed ora, in parte, "romanza" (romània);
in parte, "gotizzata" (gothia). Pur con tutti i limiti che il sapere nel
frattempo aveva dovuto subire, per il gran travaglio dellassorbimento dei popoli
invasori per lo più analfabeti e la fusione tra questi e i latini superstiti; pur con
tutti i difetti inevitabilmente presenti anche in maestri ecclesiastici, non vè
dubbio che la celerità con cui i secoli di ferro dellAlto Medio Evo cedettero il
posto al fervore di studi e di lavoro, che porterà lEuropain dopo il Mille a
ricuperare ed a superare la grande civiltà greco-romana, fu opera dellimpegno della
Chiesa a mantenere viva la fiaccola degli studi ed a trasmetterne la passione in
popolazioni o le più aliene ad essi (perchè dedite alla guerra, da sempre) o agli studi
ormai da secoli desuete. Quali fossero le lacune tipiche del sapere medioevale, lo diremo
fra non molto.
D) LA RATIO STUDIORUM ossia IL PROGRAMMA DI STUDI MEDIOEVALI. A dir il vero, fu però un
maestro ancor pagano del Nord-Africa a fornire lo strumento minimo di un "piano di
studi" , per far fronte al bisogno di ordine, chiarezza ed efficienza
nellinsegnamento, in unepoca di maestri insufficienti e di carenza, quindi, di
tempo. Ma siamo ancora nel V secolo, nella prima metà del Quattrocento dopo Cristo.
Marciano Cappella compose per suo figlio un trattato didattico intitolato De nuptiis
Mercurii et Philologiae, cioè il connubio tra Mercurio (simbolo delle scienze esatte) e
la filologia ( nome sintetico delle materie umanistiche). Queste erano raccolte in tre
grandi ambiti (onde il nome di TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA E DIALETTICA), mentre le prime
erano ordinate nel QUADRIVIO (ARITMETICA, GEOMETRIA, MUSICA, ASTRONOMIA).Tale corso di
studi ebbe col tempo nome comprensivo: ARTES. Ogni candidato che si presentasse agli studi
di specializzazione nella teologia o nella giurisprudenza o nella medicina doveva aver
già ultimato le Artes. Attraverso scuole organizzate (cattedrali o palatine) o precettori
privati, uno poteva giungere alla soglia degli studi specialistici (alla Università
quando queste saranno organizzate, a cominciare, alla fine dellundicesimo secolo, da
quelle di Salerno e di Bologna) ancor molto giovane. Ma anche le Università si fornirono
di una sezione di ARTES, come introduzione agli studi superiori: vi potevano accedere
adolescenti a cominciare dai quattordici anni.
Se vogliamo dare un giudizio su tale tipo di studi, troveremo meriti e difetti. Il merito
primo è lorizzonte universalistico cui aprivano. Si trattava, infatti, di un
curriculum o programma di studi (ratio studiorum, in latino) che metteva a contatto con
tutto lo scibile, elaborato dagli antichi attraverso le riflessioni metodologiche (nel
campo linguistico), quelle sapienziali (in sede filosofica) ed attraverso le scoperte nei
vari campi della scienza. Sarà tale "enciclopedia" del sapere che favorirà la
nascita di quei capolavori di razionalità e poesia che sono la Somma teologica di S.
Tommaso e la Divina Commedia di Dante. Il secondo vantaggio stava nella validità senza
frontiere dei titoli accademici: lEuropa non solo aveva una sola fede (cattolica),
una sola lingua ufficiale (latina), una sola legislazione fondamentale (quella romana del
Corpus iuris giustinianeo), un solo governo centrale (quello dellimperatore), ma
anche una unità di cultura che permetteva scambio di professori sulle cattedre
universitarie e passaggio di studenti da una università allaltra (clerici vagi),
con riconoscimento del dottorato in ogni nazione della cristianità occidentale, romanza o
germanica che fosse. Il difetto principale stava forse nella trascuranza degli studi
storici. Essi erano considerati parte della "retorica", studio cioè collegato
con la poesia e la prosa oratoria. Anzi la storiografia era ancora considerata "opus
rethoricum maximum", cioè la più alta espressione della dellarte letteraria
in prosa (si deve pensare specialmente ai "discorsi" messi in bocca ai vari
attori della storia, per giustificare la propria azione politica o militare: Tucidide e
Polibio, Tito Livio e Tacito avevano dato esempi affascinanti in proposito). Tale
collocazione tendeva a separare storia e verità. Di tale "acrisia storica"
scopriremo cause più gravi. Ma certo uno dei motivi per cui nel Medio Evo si incontrano
deformazioni storiche o accettazione di leggende sta anche in questa prospettiva erronea
degli studi storiografici. Una conseguenza grottesca di tale miopia s (e siamo al secondo
difetto della cultura medioevale) è la identificazione del termine "grammatica"
con la lingua latina. Nella mentalità antistorica dei medioevali, il fatto che solo il
"latino" dovesse essere studiato (su libri o note di "grammatica",
ovviamente) a scuola, mentre le lingue (dialetti) materne si imparavano senza scuola e
senza grammatica, indusse a ritenere che il latino non fosse mai esistito (neppure ai
tempi di Roma repubblicana ed imperiale, di Cicerone e di Virgilio) come lingua imparata
in famiglia, senza bisogno di scolarizzazione, ma fosse sempre stato una lingua
artificiale, coniata appositamente per scopi di elevata cultura, letteraria, filosofica e
scientifica. Di qui il mito, secondo cui soltanto una simile lingua inventata a tavolino
dai dotti potesse trasmettere il sapere teologico, filosofico e scientifico. Le lingue
"volgari" (cioè "popolari": "vulgus" in latino è il
popolo) resteranno escluse a lungo dallinsegnamento universitario. Dante, come
vedremo, parteciperà candidamente di questa illusione prospettica, anche se sarà fra i
primissimi a tentare di scrivere un testo di alta cultura in lingua "volgare"
fiorentina (il "Convivio").
2) LEMERGERE DEL SOSTRATO PRELATINO.
Tra le premesse socio-culturali per levolversi delle lingue romanze, ve nè
una radicalmente connessa con quelle politico-militari: è la nuova popolazione che viene
in contatto nelle scuole, negli uffici giuridici (notai e giudici), nei luoghi tutti
ove si voleva o doveva parlare latino- con la lingua di Roma. Ora, si badi: le nazioni a
suo tempo conquistate da Roma avevano avuto modo nel corso di generazioni di assorbirne la
lingua in misura notevole, sia attraverso scuole regolarmente funzionanti per chi cercava
un posto distinto nella società dei dominatori; sia attraverso il contatto pratico
(economico e no) con soldati, commercianti, turisti che già parlavano latino, nonchè con
i propri connazionali ormai assuefatti alla lingua dei padroni. Così la lingua celtica
che, dal Portogallo alla Spagna, dalla Francia allItalia settentrionale, dalle
popolazioni ladine (Grigioni svizzeri ed alta Valtellina) alla Romanìa (la Dacia dei
Romani), era divenuta una specie di "coiné" o lingua comune nellEuropa
centro-meridionale, aveva poco a poco ceduto il passo alla lingua latina, il nuovo
strumento obbligato di comunicazione sociale. Non che tutto abbia mutato terminologia: vi
sono tuttora numerose località geografiche nellarea della "romània" che
solo con la chiave del "gaelico", ossia "gallico" ossai
"celtico" (tuttora lingua ufficiale in Irlanda) trovano senso e spiegazione. Per
di più la massa della gente analfabeta aveva fatto un compromesso tra il linguaggio
nativo e quello ufficiale, tra il celtico materno e il latino societario. Pure,
complessivamente la diffusione del latino era stata estesa e andava approfondendosi con il
passare delle generazioni. Ben diverso è invece il contatto tra conquistatori barbari e
popolazioni linguisticamente romanizzate. Politicamente, il latino è ridotto ad essere la
lingua dei vinti: chi governa parla per lo più il germanico. Il risultato
dellincontro parrebbe dover essere un progressivo assorbimento della popolazione
latinizzata nella cultura dei dominatori, così come era successo tra i Celti ed i romani
secoli addietro. Ma succede invece un compromesso. In astratto almeno, il latino torna a
trionfare ed a rimanere la lingua ufficiale del popolo, oltre che della amministrazione,
avviandosi ad emarginare il volgare tedesco ("Deutsch" significa
"popolare"). In concreto, la lingua germanica viene davvero quasi del tutto
emarginata, almeno come corpo di lemmi verbali; la lingua latina, però, paga uno scotto:
regredisce a forme approssimative, ritenute dallopinione pubblica come sempre
esatte, ma in realtà divenute un miscuglio di radicali latini rinnovati secondo un
musicalismo barbaro o di radicali estranei al latino, ma ricoperti dalla morfologia della
lingua di Roma. Che cosa è avvenuto? La componente socio-militare che stiamo esaminando
ci offre tre fatti che aiutano a comprendere levolversi della situazione nel senso
accennato. Il primo fatto assomiglia non poco a quanto era avvenuto dopo il 133 a. C.,
quando Roma si era annessa la Grecia: "Graecia capta ferum victorem cepit" (=la
Grecia, conquistata, fece prigioniero il barbaro vincitore, cioè il popolo romano). I
Germani vincitori avevano bensì una scrittura e almeno un libro, cioè la Bibbia,
tradotta in gotico dal vescovo Ulfila (nel secolo quarto d. C.), ma complessivamente erano
guerrieri ed analfabeti, non esclusi i capi più aperti alla cultura, come Teodorico e
Carlo Magno. Ne risulta che, divenuti sedentari su territorio già romano, sentono
lattrattiva di quella superiore civiltà e ne adottano la lingua per le loro leggi
scritte (editti, capitolari...), mentre cercano la collaborazione di persone colte,
specialmente nel campo della giurisprudenza (notai, giudici, consiglieri politici). Tale
dipendenza culturale porta la lingua latina in primo piano, mentre quella germanica viene
lasciata al popolo incolto. Così capita nella Gallia franca, nella Spagna visigota.
Emarginato il germanico atavico, si tentò con tutta la buona volontà di adottare come
lingua il latino. Ma eccoci al secondo fatto. La cosa fu possibile ai Franchi, come ai
Visigoti in Spagna, anche perchè quei popoli erano cattolici come le nazioni sottomesse
e, perciò, andarono sciogliendo poco a poco lorgoglio e la distanza che li
separavano dai latini, in cui imparavano a riconoscere, gradualmente, dei fratelli. Non si
trattava solo di abbattere delle barriere etico-psicologiche: entrava in gioco la
partecipazione alla liturgia comune, che in quei secoli non poteva essere celebrata
(omelia compresa) che in lingua latina; si accostavano ai giuristi, i consiglieri
ecclesiastici; ed era in questione la possibilità di matrimoni interrazziali e, quindi,
la fusione biologica tra le due popolazioni di cui la unificazione linguistica era un
corollario inevitabile. Infine va tenuto conto della sproporzione numerica fra i pochi
vincitori ed i moltissimi vinti: Clodoveo si fa battezzare, la notte di Natale del 498 o
499, con 10.000 uomini: non era tutto il suo esercito, certo, ma un indizio che la massa
dei Franchi non era poi molto numerosa. E una componente che gioca una parte non
indifferente nel prevalere finale della lingua latina. In simili condizioni, è facile
immaginare lo sforzo di autorità barbare ed ecclesiastiche per preparare il maggior
numero possibile di uomini bilingui, che mediassero le relazioni tra le due popolazioni
nei primi anni. Era un lavoro che non partiva dal nulla: i popoli germani da secoli ormai
avevano rapporti con le colonie militari e civili stanziate sui loro confini: quando fra
essi ed i romani non vera guerra, si instauravano rapporti di commercio, che
richiedevano un intendersi vicendevole, cioè una certa pratica di entrambe le lingue.
Dallaltra vi sarà stato anche la ricerca, da parte della massa del popolo, di
apprendere per via di pratica, fuori della scuola, la lingua latina. A questo punto si
incontrano e scontrano altri fattori di segno opposto. Anzitutto vien meno il fascino
della lingua dei "dominatori" di una volta: il latino perde di splendore e
fascino presso le popolazioni precedenti loccupazione romana (Celti, per lo più),
avviate bensì alla latinizzazione, ma attraverso un processo non mai definitivo (la
lingua materna ha dalla propria parte la memoria più tenace). In secondo luogo, vengono a
cadere molti punti di riferimento scolastico, messi a disposizione dalla amministrazione
romana, per i figli dei propri governatori ed impiegati, ma aperti anche alla popolazione
locale, visto che leditto di Caracalla del 212 aveva reso tutti i
"provinciali" cittadini di Roma. La Chiesa subentra come e per quanto può, ma
non riesce certo a ristabilire un numero di scuole ed a raggiungere una efficacia di
insegnamento quale era possibile alla organizzazione romana, fornita di mezzi troppo
superiori. La Chiesa crea scuole per preparare il proprio clero, offrendo ospitalità
anche a studenti laici, ma nella misura che era consentita dal disordine e dalla povertà
dei regni romano-barbarici. Nella stessa Francia, pur dominata da una monarchia cattolica,
il papa dovette incaricare san Bonifacio di riportare ordine nella chiesa (742-747):
lepoca dei Merovingi, anche per la tradizione di dividere il regno fra tutti i
figli, fu caratterizzata da disordini poco meno che caotici. In questa situazione, non fa
meraviglia che si operasse un regresso nel cammino di latinizzazione per la massa del
popolo, con un ritorno di forme ataviche di linguaggio. In realtà, la popolazione
analfabeta aveva sempre parlato una lingua di compromesso ed ora tale linguaggio esce allo
scoperto senza più persone dotte in numero sufficiente, che testimonino delle distanze
rispetto al latino ciceroniano o comunque ufficiale. Poco a poco la gente si illude di
parlare il latino, mentre si esprime in forme "romanze", cioè in una struttura
che del latino conserva i radicali delle parole, ma le deforma secondo le leggi musicali
presenti nella propria lingua originaria (cioè secondo la sensibilità dominante nella
propria psicologia e già espressa nel musicalismo del linguaggio celtico); e si
costruisce una grammatica e sintassi più semplici e notevolmente diverse. Si crea così
un contrasto-collaborazione fra il latino che resiste come può nelle forme regolari
(specie nella scrittura e nel colloquio fra gente dotta) ed una o più lingue di SOSTRATO
(cioè "strato soggiacente", substratum), diverse almeno in parte da nazione a
nazione, che tentano in ogni modo di piegarlo alle proprie esigenze. I cittadini dei nuovi
stati barbarici si sforzano di adattarsi al latino, probabilmente a malincorpo. Ma lo
recepiscono (magari anche attraverso la scuola, ma una scuola insufficiente nel tempo, non
sempre dotata di maestri competenti e come sopraffatta per la pressione di un uso comune
inarrestabile) in misura condizionata dal prevalente uso della lingua materna fuori di
scuola. In Spagna e Portogallo il latino deve fare i conti con residui celtici e la
parlata visigota. Nella Francia del nord la pressione del germanico e del sostrato celtico
si affrontano: e sorgerà la lingua doi"l od oitanica (poi, francese); al sud
invece è il sostrato celtico che domina, dando origine alla lingua occitanica o
provenzale. In Italia, il latino entra in collisione con un cumulo di sostrati, che vanno
dal celtico al ligure, pel nord, dalletrusco in Toscana alle parlate italiche
(osco-umbro, peligno, marrucino, volsco, siculo) nel centro-sud: oltre che con residui
longobardi, riscontrabili specialmente nei nomi propri fin oltre il Mille. I vari dialetti
italici cederanno il passo a quello toscano, che diventerà la lingua italiana, solo nella
seconda metà del secolo XIII. I popoli della "romània" pervengono, dunque, a
quel compromesso che lascerà loro lillusione, per qualche generazione, di parlare
ancora il latino, finchè verrà il Concilio di Tours (813), che con la 17^ deliberazione
testimonierà della coscienza ormai affermatasi: la lingua del popolo non è più quella
latina. Il clero predichi nelle lingue volgari, per farsi capire dal popolo.
"Affinchè tutti possano capire le cose dette", queste vanno tradotte nella
lingua "romana rustica o in quella tedesca": il concilio legiferava per tutto il
sacro romano impero e la "lingua romana rustica" erano le varie lingue romanze,
ormai differenziatesi profondamente dal latino, così da non essere più confondibili con
esso.
3) IL LATINO PIU DIFFUSO NELLE PROVINCE E QUELLO "VOLGARE".
Non bastano, però, le due cause sopra descritte (rarefazione dellistituto
scolastico e invadenza della lingua di "sostrato") a spiegare levolversi e
il trasformarsi del latino nelle varie lingue romanze in bocca ai vari popoli dellex
impero romano. Occorre tener presente un terzo fattore: la popolazione non scolarizzata
delle varie province apprendeva un latino che non era quello
"classico-ciceroniano", ma quello volgare, cioè dei soldati e commercianti, un
latino non raffinato e neppure molto regolare. Occorreranno in proposito alcune
considerazioni. Il latino era lingua viva: come tale, in continuo graduale sviluppo, come
ogni lingua parlata. Ma le lingue antiche avevano una componente di instabilità maggiore,
pel fatto che mancava ogni istituzione statale (ministero pubblica istruzione, Consiglio
superiore della istruzione, cattedre universitarie...) che filtrasse con qualche autorità
neologismi, leggi di grammatica e sintassi... Erano lingue in regime di "pieno libero
mercato", in cui luso imposto dagli autori, riconosciuti come i migliori dalle
sfere elitarie della classe di senatori e cavalieri intellettualizzati (quello degli
scrittori e degli oratori politici e penalisti), faceva legge. La chiarezza di significato
dei vocaboli e la risonanza più consona con il complessivo musicalismo già affermatosi
nella lingua di Roma (o più brillante ed allettante) decidevano dellammissione di
nuovi termini nel vocabolario (solo mnemonico, allora). Così, nella lingua, vi era posto
per lanalogia (con luso), come per lanomalia (eccezionalità piacevole).
Il risultato costituiva la parlata "classica", cioè della classe più in vista,
la prima delle cinque "classi" che, secondo la leggenda, avrebbe introdotte
Servio Tullio (578-535 a.C) e che dovevano, comunque, essere un istituto molto antico,
basato sul "censo", cioè sulla somma pagata come imposta allo stato. La
tassazione denotava il benessere; e la ricchezza permetteva non solo una istruzione
superiore, ma altresì del tempo libero per ascoltare (leggere) grandi poeti od oratori,
eventualmente per provarsi ad imitarli, parlando e scrivendo come loro. Erano le élites
culturali, che imponevano la lingua (come chissà quante altre mode, dal vestiario al
comportamento sociale). Linnata tendenza delluomo ad imitare chi è ritenuto,
a qualsiasi titolo, superiore portava il popolino, più o meno analfabeta, a far proprie,
per quel che gli riusciva, le forme linguistiche delle classi superiori, operando una
elevazione continua della lingua del volgo verso forme più regolari e più raffinate. La
frequenza del foro, la partecipazione ai processi con lascolto delle orazioni degli
avvocati in tribunale, la conoscenza dei discorsi tenuti in senato da membri
particolarmente famosi, la audizione (o lettura) di versi che i poeti editavano attraverso
le officine di amanuensi, laccesso alla casa degli altolocati attrraverso il legame
di clientelismo od il rapporto di commercio... erano tutte vie per cui, anche senza
giornali o altri strumenti di comunicazione sociale, la plebe finiva per partecipare del
processo di evoluzione della lingua. Non si pensi però che il popolino riuscisse ad
appropriarsi della lingua "classica" perfettamente e riuscisse a seguirne
prontamente le innovazioni. In proposito, si può intuire il processo del continuo ma
sempre parziale accostamento della parlata della massa alla lingua delle classi superiori,
nel fenomeno parallelo del progressivo assimilarsi al fiorentino dei dialetti italiani,
nel corso dei secoli fino alla televisione. Prendiamo il caso del dialetto romanesco. Un
forte processo di italianizzazione fu indotto dai tre papi toscani dei secoli XV e XVI
(Pio II: 1458-64, Leone X: 1513-21 e Clemente VII, 1523-34), un processo che poi
rallentò, sicchè la lingua di G.G. Belli (1791-1863) non è sempre comprensibile al
lettore toscano: per comprenderlo tutto occorre un piccolo dizionario o delle note a piè
pagina. Intervenuta lunificazione dItalia, divenuta Roma la capitale del
Regno, il processo si accelerò con laiuto di due fenomeni sociali nuovi: la
comparsa di giornali, cioè di strumenti quotidiani di comunicazione sociale nella lingua
tosco-fiorentina; e la scolarizzazione crescente, specie dopo la legge Coppino che rendeva
obbligatoria listruzione elementare:1877). Ecco che allora C. Pascarella (1858-1940)
non abbisogna più di simili aiuti: ogni italiano che parli la lingua nazionale lo
comprende, perchè ha fatto un balzo nellaccostarsi al fiorentino, pur mantenendo
alcune inflessioni particolari. Ancora più italianizzato è il romanesco di Trilussa (C.
A. Salustri: 1871-1950), le cui sfumature locali servono solo a render più colorito, più
canzonatorio e pungente il linguaggio. Allepoca della Roma di Cesare e Cicerone,
tale crescita verso il modello superiore avveniva molto più lentamente, lasciando una
distanza fra latino "classico" e latino "volgare" di cui si hanno
testimonianze in opere letterarie e dichiarazioni esplicite di grandi scrittori. E
proprio Cicerone a confessare il doppio livello di "proprietà, purezza,
eleganza" nella scelta dei vocaboli (Epistolae ad familiares, IX, 21) quando
riconosce che scrive nelle lettere in modo più spontaneo e meno curato che non nelle
orazioni, dicendo "quidquid mihi in buccam venit" (qualunque cosa mi viene in
bocca). Il ciceroniano Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.) nelle Institutiones oratoriae,
XII, 10, 40 ed Aulo Gellio nelle Noctes atticae XIX, VIII, 15 riferiscono lo stesso
fenomeno del doppio stile, raffinato e plebeo. Tutti costoro finiscono per testimoniare la
compatibilità fra i due linguaggi, parlati e scritti dalla stessa persona, in tempi e
circostanze diverse. Daltronde, Tito Maccio Plauto (250 ca-184 a. C.), il più
grande commediografo romano, scriveva "bellus" anzichè "pulcher"
(bello), ed usava il "quod" dichiarativo al posto della infinitiva soggettiva od
oggettiva: entrambe le dizioni riaffioreranno nelle lingue neolatine tutte. Risulta,
allora, che il fenomeno di un uso "volgare" della lingua latina fu comune ad
ogni generazione sia repubblicana che imperiale. Naturalmente le vicende del suo regresso
od avanzamento nei confronti del "classico" dipese dallascesa in autorità
deigli aristocratici e dallaliquale benessere del popolo, che si interessava a
sentirli e comunicare con i loro ambienti, che poteva inviare qualcuno dei propri figli
alle scuole per perfezionarvisi. Ma si è sempre ben lontani dal cancellarne luso e
la memoria. Pare, infatti certo che Petronio scrivesse il Satyricon (romanzo picaresco,
ove si canzonano i "nuovi arricchiti", i parvenus, come Trimalcione) in un
periodo letterario se non aureo, certo argenteo, quello di Nerone (54-68 d. C.). Il
linguaggio è di un realismo sconcertante, di una volgarità plebea. Quale distanza dal
contemporaneo Quintiliano, il legiferatore dellaulica lingua ciceroniana! Un secolo
dopo, i Vangeli tradotti in latino dal greco, non si preoccupano certo di classicità di
vocabolario e sintassi. Ad esempio Matteo evita le infinitive oggettive e soggettive e usa
la congiunzione "quia" o "quoniam" (cioè delle congiunzioni causali!)
per introdurre la dichiarativa: si veda ad esempio al capitolo 2, 16 "Tunc Herodes,
videns quoniam illusus esset a Magis" anzichè "percipiens se deceptum esse a
Magis"("Allora Erode, accortosi che era stato ingannato dai Magi...); e tutto il
discorso della Montagna (cc. 5-7), in cui le affermazioni "Avete udito che fu
detto" viene sempre reso con "Audistis quia dictum est". Così pure abbiamo
luso di "unus" anzichè "quidam" per indicare una persona
indeterminata (ad es: in 8, 19: "Et accedens unus scriba, ait illi..."). Sono
forme che si confermeranno nelle lingue romanze. Il secolo terzo dopo Cristo fu per Roma
linizio della fine: frequenti le guerre contro Germani e Parti, non meno frequenti
le lotte civili per la successione allimpero. Ne fanno le spese non solo gli
scolari, ma gli stessi maestri, che arrivano a scuola con in mente parecchi vocaboli
deformati nel suono o nella morfologia. La Appendix Probi, di quel secolo, denuncia gli
errori degli alunni, ma rivelando anche limprecisione del latino nel maestro, chè
alcune correzione sono fatte a sproposito! Comunque, egli ammonisce esattamente a scrivere
"auris, columna, os, senex, equus" (e non
"oricla","colomna", " bucca",
"veclus","caballus"...). Come si constata facilmente, nonostante gli
sforzi di Probo, le variazioni fonetiche e lemmatiche errate finirono per prevalere con
"orecchio, colonna, bocca, vecchio, cavallo". Del secolo successivo, è la
Peregrinatio Aetheriae ad loca sancta, scritta in Aquitania (Gallia sudoccidentale) : essa
deuncia modi di dire diffusi nella parlata popolare, che saranno propri solo del francese
o comuni a tutta la "romània", espressioni che le sfuggono in un testo che
vuole ancora essere perfettamente latino (e, per molta parte, lo è: la scuola è stata
efficace certamente, ma non a sufficienza perchè la parlata domestica non prenda talora
il sopravvento). Ben presto i barbari invaderanno e saranno i dominatori. Si è già
cercato di tracciare le linee di una involuzione che farà dei secoli V-VIII il periodo
più scombinato del Medio Evo e quello in cui il compromesso tra "sostrato" e
"latino" giungerà a maturare le lingue romanze o neolatine. E a mantenere a
lungo la impressione di parlare latino, pur nel permissivismo di fondamentali metamorfosi,
sarà anche il fatto che Roma aveva esportato in quantità molto maggiore il latino
volgare, attraverso soldati e commercianti, che non, attraverso le scuole, quello classico
e ciceroniano.
III) VERSO LA COSCIENZA DELLE LINGUE ROMANZE
1) In una evoluzione, divenuta ormai tumultuosa,un fatto è sorprendente: mentre può
capitare che la dimensione concettuale delle parole si svii ed esse vengano ad assumere
significati solamente affini (e talora anche notevolmente diversi) rispetto alla radice
latina da cui prende le mosse, invece la componente musicale del vocabolo rimane possesso
inconscio bensì, ma sicuro al punto che la trasformazione delle vocali in bocca ai
diversi popoli si verifica con assoluta coerenza al loro valore musicale. La memoria
consapevole del significato può fallare e cambiare il senso alle parole, ma la memoria
inconsapevole del musicalismo si è impressa indelebilmente nellorecchio (meglio:
nei centri neurovegetativi) degli utenti la lingua di Roma e genera coerentemente quella
che i tedeschi chiamano "Lautverschiebung",cioè la spinta, la sollecitazione,
lo slittamento dei suoni. Si vuol dire: è noto che le vocali sia greche che latine
avevano un valore musicale ben preciso: vi sono vocali di durata doppia rispetto ad altre.
Ci sono vocali che, per natura, valgono una "croma" piuttosto che una
"biscroma". Le prime si dicono "lunghe"; le seconde,
"brevi". Ebbene, diversa è la sorte della medesima vocale con "tempo
musicale" diverso: la metamorfosi (Lautverschiebung) cui vanno soggette è costante
per i casi di quantità identica; è diversa per la stessa vocale, di quantità però
semplice piuttosto che doppia. Vedremo fra non molto le leggi costanti di simili
scorrimenti di suoni, che spiegano -a livello di vocali- il passaggio dal latino al
toscano-fiorentino.
2)Sulla "sollecitazione dei significati"che lambiente sociale finisce per
imporre a diverse parole latine passate nelle lingue romanze, ve ne sono alcune che
abbiamo già riferite come testimoni di un predominio radicale della religione nella
cultura di questi secoli: "verbum" (in latino significa semplicemente
"parola") diventa il termine che indica il tempo dellazione espressa in
una frase, mentre il senso universale di "parola" viene desunto dalla
"parabola" di origine evangelica. Così si dica per "domus" che
diventa lunica costruzione in muratura di quei tempi, cioè la chiesa del vescovo
(duomo), mentre i contadini non hanno che una "capanna, cioè, in latino,
"casa". Lo stesso vale per "ministerium" che in latino è il servizio
(dello schiavo, eventualmente) e nel linguaggio cristiano del Medio Evo diventa
"onere di autorità" e "incarico di governo". Su altre variazioni di
senso si è soffermato molto Manzoni, per le sue ricerche linguistiche. Egli nota che
"domina", dal senso latino di "padrona" passa a quello di "donna,
persona femminile": ne nascono combinazioni grottesche, come la "donna di
servizio" che è la serva-padrona! "Infans" significa il bambino che non sa
ancora parlare, ma siccome prende, nelle lingue romanze, il senso generico di
"bambino", ecco che si potrà dire "parola o linguaggio infantile"
(parola o linguaggio di uno che non sa parlare!). "Musculus" significa
"topolino" ed è passato a significare la parte carnosa del corpo umano, perchè
essa è raccolta in fasci che possono richiamare la conformazione del topo. Così
"senior" significa "più vecchio" o "vecchierello": nelle
lingue romanze indica invece il "dominus, il padrone". Ne nasce il comico
"giovin signore" (il giovane vecchierello) del Parini. Eccetera.
Testimonianze di queste trasformazioni imprevedibili sono numerosi documenti
dellepoca merovingia: sia la Historia Francorum (di Gregoirio di Tours, 538-94); sia
carte giuridiche (Breve de Inquisitione di Siena: anno 715); sia i "glossari"
che affiancano testi latini per spiegarne il linguaggio, più o meno classico, ai lettori
che ormai parlano solo una sua volgarizzazione, abbastanza avanzata da rendere
incomprensibile quello autentico; sia gli elenchi di termini latini, cui viene affiancato
il lemma ormai usitato e proveniente dal latino volgare o dal celtico o dal germanico o
dal greco...; sia i glossari o frasari in cui la situazione è rovesciata (nel glossario
di Frisinga del secolo IX, ad esempio, la parola tedesca è tradotta non in latino ma nel
vocabolo romanzo ormai prevalente)...
3) Che cosa impedisce ormai di chiamare "lingue neolatine| romanze" i linguaggi
che si erano formati in bocca a chi credeva di parlare il latino? E la mancanza di
coscienza della diversità ormai insuperabile fra i due tipi di espressione. Si è visto
che il maestro dellAppendix Probi credeva di insegnare latino classico e invece lui
stesso, in qualche caso, insegnava come latino una trasformazione romanza; si è
constatato come Eteria ritenga di scrivere in latino classico e invece lascia sfuggire
espressione che arieggiano al francese o comunque a forme di compromesso fra latino e
lingue neolatine. Gli stessi glossari non decidono a fondo circa la coscienza della
diversità: distinguono bensì un latino classico da un latino volgare: ma una tale
distinzione non era esistita in Roma stessa, in ogni secolo? Quando allora si potrà con
sicurezza collocare la separazione fra i due linguaggi? Quando la società del Sacro
romano impero dimostra la coscienza precisa della loro irreducibile diversità. Quale è
il documento che ci testimonia tale coscienza? Per quanto siamo documentati finora, è il
Concilio di Tours dell813, come si è detto: nella sua diciassettesima deliberazione
viene imposta al clero di pronunciare le omelie in lingua o romana rustica o tedesca,
"affinchè (gli ascoltatori) possano capire le cose dette". Laffiancamento
della "lingua romana rustica" al "tedesco" garantisce della presa di
coscienza circa la diversità fra latino e neolatino: la divergenza fra latino e tedesco
era ovvia a tutti, da sempre.
4) A questo punto possiamo introdurci a scoprire un po più a fondo i segreti del
formarsi della lingua italiana e dei suoi primi passi nei documenti scritti. Ci poniamo
queste domande: Che cosa è la lingua italiana? Perchè, tra i molti dialetti locali,
finì per prevalere come lingua nazionale quello tosco-fiorentino? Quali sono le
caratteristiche di tale lingua neolatina, rispetto al latino classico e rispetto alle
altre lingue romanze? Quali sono i primissimi documenti scritti in volgare italiano?
Perchè tali documenti sono in ritardo rispetto a quelli della lingue francese, provenzale
e tedesca? Perchè le prime manifestazioni di scritti nella nuova lingua hanno il sapore
di una maturità e raffinatezza che presuppone esercizio e malizia nellusare il
nuovo strumento espressivo, sicchè parrebbero presupposte generazioni di attività e
produzione letteraria, che proprio non esistono?
IV)LA LINGUA ITALIANA
1)CHE COSA E LA LINGUA ITALIANA? E lo strumento espressivo verbale,
ufficialmente accettato in Italia e, di fatto, usato dalla enorme maggioranza dei suoi
abitanti.
STORICAMENTE COME SI E FORMATA? attraverso una trasformazione complessivamente
inconsapevole, una evoluzione per lo più inconscia della lingua latina in bocca al popolo
non scolarizzato della Toscana (e, in particolare, di Firenze) nel primo Medioevo (secoli
V-VIII).
QUALI LE CAUSE DI TALE EVOLUZIONE? Sono le tre già viste: venir meno di un sistema
scolastico adeguato ai bisgni delle popolazioni indigene e di quelle sopravvenute con le
invasioni; i condizionamenti del "sostrato" etrusco tuttora attivo, come
genialità espressiva ed esigenze musicali, nella memoria della popolazione toscana (pur
romanizzata da oltre un millennio!); le conseguenze del prevalere, anche in Toscana, del
latino volgare rispetto a quello classico, nella forma assorbita e parlata dal popolo non
scolarizzato, che è quello presso cui si è affermata la trasformazione incosapevole, che
si è imposta poi nel colloquio extrascolastico alle stesse persone dotte.
2)PERCHE IL DIALETTO TOSCO-FIORENTINO PREVALSE SUGLI ALTRI COME LINGUA DI TUTTA
LITALIA? Le cause dellimporsi del "volgare di Firenze" sono
sostanzialmente due. Anzitutto cè la fama e la bellezza delle opere letterarie di
Dante, Petrarca, Boccaccio, che mise in ombra ogni scrittura fatta in diverso linguaggio
tra quelli evolutisi dal latino in Italia. Le opere dei tre grandi scrittori del Trecento
toscano divennero i "modelli", i "classici" del volgare nella
Penisola. Accanto a questa causa, vi è il successo dei banchieri e mercanti fiorentini,
dei loro prodotti e della stessa loro moneta (il fiorino, coniato nel 1252), che
costituirono un punto di riferimento necessitante per le popolazioni che con essi avevano
a trattare: chi ha bisogno accetta la lingua del più forte. E vi sarebbe una terza causa
da mettere in conto. Roma rimaneva pur sempre un centro italiano ideale, per il ricordo
della grandezza dellimpero di Augusto e per la presenza del Papato. Orbene, il
dialetto "romanesco" fu notevolmente intoscanato a cominciare dal senese Pio II
(1458-64), per essere poi fiorentinizzato nel Cinquecento dai due papi Medici (Leone X:
1513-21; Clemente VII: 1523-34): tutti riempirono la curia papale di loro conterranei.
Si noti come, in realtà, le due componenti, quella artistico-letteraria e quella
finanziario-commerciale, non sono poi così estranee: il popolo di Firenze si dimostrava
inventivo sia nel campo umanistico dellarte verbale sia in quello imprenditoriale
del maneggio di affari. Gli Italiani dunque finirono per seguire la lingua della
popolazione esteticamente più brillante e managerialmente più vivace. Si può discutere
allinfinito se una lingua, prescindendo da chi la parla, sia più bella, più
elegante, più affascinante di unaltra. E certo che il toscano in bocca ai
fiorentini diventa la lingua più musicale, più seducente, più artistica dItalia:
i fiorentini si rivelarono ambidestri: geniali nel campo poetico e prosastico, in quello
figurativo e plastico-architettonico, nelle invenzioni tecniche e nello stesso dinamismo
del commercio. Fra essi si rivelarono troppo frequentemente persone inventive: gli
Italiani ne furono coinvolti e trainati. Erano troppo più forti.
3)QUALI SONO LE CARATTERISTICHE PIU NOTEVOLI DELLA PARLATA FIORENTINA RISPETTO AL
LATINO CLASSICO? Accenniamo alle principali soltanto. Nel campo della fonetica, avvengono
mutamenti costanti, secondo leggi musicali inconsapevoli ma tenacissime (se ne è già
parlato). Ecco quelle che riguardano la "Lautverschiebung", lo slittamento dei
suoni vocalici. La "A" rimane tale nel passaggio dal vocabolo latino a quello
toscano, sia essa lunga (ala e sal) o breve (alacer e alumnus). Tutte le altre vocali
rimangono immutate solo se sono lunghe (rete, ebrius| risus,vinum| sol, donum| fructus,
fumus), mentre variano con passaggi fissi, se sentite come brevi dalla lingua latina. La
"e" breve diventa "ie" (mel= miele; pes=piede); la "i" breve
diventa "e" (pirus=pero; siccus=secco); la "o" breve diventa
"uo" (cor=cuore; bonus=buono); la "u" breve diventa "o"
(crux=croce; nux=noce). A livello di grammatica, i sostantivi perdono tutte le desinenze
eccetto quelle che distinguono il singolare dal plurale (e, per gli aggettivi, il maschile
dal femminile): in pratica, scompaiono le declinazioni. Al posto dei cinque
"casi" e loro desinenze , si usano le preposizioni (di, a, da, in, con, su, per,
tra, fra); i verbi presentano la formazione del futuro in via perifrastica, mediante la
forma dellinfinito unita al verbo avere (al latino "amabo" corrisponderà
dunque: ho da amare=amare ho= amerò). Viene inoltre introdotta la forma del "futuro
relativo ad un passato" (cioè dipendente da un verbo passato nella frase reggente):
è il condizionale, che si costruisce pure perifrasticamente col passato remoto del berbo
"avere": "Amerei" =ebbi da amare= amare ebbi= amerei. Quanto alla
sintassi, allinterno delle singole frasi (sintassi semplice) si ebbe luso di
moltissime preposizioni non solo "proprie", ma altresì "improprie"
(avverbi ad uso di preposizioni) e "composite" (dei complementi, cioè, in uso
di preposizioni), come si è detto a proposito dellabbandono delle declinazioni.
Nella sintassi composta (ossia del "periodo") le frasi dichiairative esplicite
soppiantano quasi sempre le forme infinitive delle oggettive e soggettive latine. Si è
visto, in proposito, che già in Plauto e poi nel tardo latino tale uso non era ignoto ai
romani: un "quod" dichiarativo anticipava il "che" italiano,
mantenendo il verbo al modo finito e mutando solo i tempi a secondo del tempo della frase
reggente. ( So che io non so nulla=so me non sapere niente=Scio me nihil scire| E
noto che Cesare fu ucciso in senato= E noto Cesare essere stato ucciso in
senato=Notum est Caesarem occisum esse in senatu).
4)I DUE TRATTI PIU NOTEVOLI DELLA LINGUA FIORENTINA RISPETTO ALLE ALTRE LINGUE
ROMANZE. Anzitutto essa non termina mai le parole in consonante: in questo essa è rimasta
fedele alla sensibilità della lingua originaria di tutte le lingue indoeuropee: quella
ariana. .In secondo luogo, essa esclude i suoni "offuscati, dimezzati" delle
vocali: le vocali sono sempre "pure". In particolare non esistono i suoni di
u" e di o", come invece in francese, in tedesco e nei dialetti dellItalia
settentrionale, che hanno compromesso il latino col celtico.
5)I PRIMI DOCUMENTI IN LINGUA NEOLATINA ( ed ITALIANA in specie). Come si è detto, i
linguaggi evolutisi dal latino in lingue romanze e destinati ad assumere una importanza
letteraria durevole o addirittura a diventare lingua ufficiale di uno Stato, sono il
portoghese, lo spagnolo, il francese (lingua doi"l od oitanica), il provenzale
(lingua doc od occitanica), il fiorentino, il ladino (diffuso in Trentino, Friuli e
Grigioni, dove, come "romancio", è la quarta lingua ufficiale della Svizzera)
ed il rumeno. Fatto capo al Concilio di Tours (anno 813) come a punto sicuro per
documentare la presa di coscienza della insuperabile differenza dei nuovi linguaggi dal
latino, si trova la prima testimonianza scritta del francese nel "giuramento di
Strasburgo", neanche trentanni dopo: anno 841. Gli eserciti di Carlo il Calvo e
di Ludovico il Germanico si giurano fedeltà vicendevole nella lotta contro
lesercito del fratello Lotario. Per farsi intendere dallalleato, i francesi di
Carlo giurano in tedesco; i Germani di Ludovico, in francese. Per avere una testimonianza
scritta con tale chiara coscienza di novità linguistica, lItalia deve attendere
fino al 960: oltre un secolo ancora! Vedremo più avanti linsieme dei perchè, delle
cause di tale ritardo. Diamo uno sguardo, per ora, a questo primo documento della lingua
italiana. Si tratta anche qui di un giuramento, fatto da vari testimoni e conservato nel
Placito di Capua, redatto dal giudice Arechisi nel marzo del 960. Erano in tribunale i
conti dAquino a contestare il possesso di certe terre allabbazia di
Montecassino. Si decide, in mancanza di altri documenti probatori, con il principio della
prescrizione giuridica per "usucapione": il possesso non contestato di un bene
immobile, per almeno trenta anni, fa documento di proprietà. E, in favore del grande
monastero, vari contadini testimoniano tale durata di possesso. Perchè possano farlo,
occorre far tacere il latino in cui avviene il dibattimento ed è steso latto
finale, per farli parlare nella lingua materna locale: o, almeno, in una lingua che i
contadini comprendano (occorre sempre sospettare una differenza tra la lingua viva,
parlata dallanalfabeta e quanto ne capisce e mette per lui in scritto
lalfabetizzato). Si tratta comunque di una forma di volgare italico. Eccola:
"Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte
Sancti Benedicti" , cioè "So che le terre, per quelle estensioni di confini che
sono descritti nella memoria od abbreviatura che ho davanti, le ha possedute per trenta
anni la parte (cioè lamministrazione patrimoniale) di San Benedetto". E
la cosiddetta "Carta di Capua", il primo dei vari "Placiti cassinesi"
di questo tempo, a favore dellabbazia di Montecassino. Si è fatto notare dagli
esperti che il "sostrato" pregresso a questa forma di italiano è di tipo
osco-umbro. Ormai dellinizio del secolo XIII sono i ritmi "Laurenziano"
(Salva lo vescovo senato) e "Cassinese" (di S. Alessio: dialogo tra i due
asceti, orientale ed occidentale).
A dir il vero, esiste un altro scritto che aspira al primato nel documentare luso
dellitaliano, anticipando addirittura il Giuramento di Strasburgo: è il cosiddetto
"Indovinello veronese" che suona così: "Se pareba boves| alba pratalia
araba| et albo versorio teneba| et negro semen seminaba". Presentandoli divisi in
quattro versi di tipo neolatino, noi li abbiamo già confezionati come se si trattasse di
un documento di lingua romanza. Non è così: si tratta di due esametri ritmici
(ipermetro, lultimo), abituali in scritti latini dellepoca longobarda.
Comunque, questi versi appartengono od alla fine del secolo VIII (fin dal 774 Carlo Magno
stabilì in Verona la capitale dellItalia franca) od al principio del secolo IX. Ma,
come la metrica è ambigua, così lo è la lingua dei versi: più romanza che latina, ma
non univocamente romanza (boves, semen, et). Lindovinello, conosciuto nellAlto
Medioevo ben prima di questa versificazione e facile da spiegarsi (descrive lo
"scrivano"), resta invece enimmatico a proposito della lingua in cui è scritto
o, almeno, della coscienza con cui lo vergò lamanuense (come divertimento) sullo
spazio libero del terzo foglio nel codice LXXXIX della Biblioteca capitolare veronese (un
codice contenente latino liturgico e vergato decenni prima in Spagna). Era per lui,
lindovinello, un testo latino come quelli che ricopiava abitualmente, sia pure di
forme meno regolari; oppure era già per lui unautocanzonatura vergata in una lingua
nuova e non riducibile a quello? Non avremo probabilmente mai la risposta. Così, questo
"aratore di bianchi fogli" (pratalia, prati: ma bianchi) che "spinge avanti
a sè" (se pareba: "parare" è proprio lo spinger avanti il bestiame da
parte del pastore) le cinque dita (quasi buoi) della mano, tenendo la bianca penna
doca come un aratro ("versorio"), si configura alla nostra mente proprio
come lanello di congiunzione tra le due lingue e le due metriche, in un
rimaneggiamento di indovinello medioevale, che combina larte del trascrittore dotto
(dello stesso versificatore, dunque) con una immagine idillica di vita semplice,
campestre, pastorale e georgica: ponte di armonia fra due culture linguistiche come fra
due mondi operativi, fra contemplazione ed azione, anzi fra lavoro e preghiera secondo la
formula benedettina (questo è suggerito dal fatto che, subito dopo lindovinello,
egli scrive una frase di ringraziamento a Dio), la formula che ha rappacificato il frutto
terrestre della civiltà romana con i frutti spirituali disseminati dal Vangelo, in una
sintesi di umanesimo cristiano ("ora et labora"); che è il primo ad affiorare
nei secoli, ma che costituisce lanima di ogni cultura cristiana, di quella
medioevale in particolare, germogliante appena, come nelletà carolingia o in piena
fioritura, come nei secoli dopo il Mille.
6)LE CAUSE DEL RITARDO NELLA COMPARSA DI DOCUMENTI SCRITTI IN VOLGARE ITALIANO. Se,
dunque, lIndovinello veronese fosse scritto sicuramente in volgare italico, il
nostro popolo avrebbe il primato nella documentazione dellimporsi della nuova lingua
anche ai dotti: si tratterebbe infatti di una scrittura in versi. Eppure sarebbe un
primato poco più che simbolico: per arrivare alla produzione di composizioni
letterariamente impegnate, si dovrebbe aspettare, poi, più di quattro secoli, fino al
terzo decennio del Milleduecento. Viceversa, già attorno alla metà del Mille (secolo
undecimo) in Francia ha inizio la storia della letteratura nazionale in lingua
doi"l (Chanson de Roland). Prima della fine dello stesso secolo troviamo testi
di poesia in lingua doc (Guglielmo IX di Aquitania: 1071-1126). Più o meno
contemporanea al Minnesang (poesia damore) tedesco, nasce la epopea spagnola con El
cantar del mio Cid. Siamo, per la Germania e la Spagna, verso il 1140, un secolo dopo la
Chanson francese, ma pur sempre in anticipo di quasi un secolo sul Cantico di frate sole
(San Francesco: 1124) e sulla lirica della Scuola siciliana (iniziata attorno al 1230),
che sono le prime manifestazioni della letteratura scritta in lingua volgare, in Italia.
Perchè un tale ritardo, rispetto alle altre nazioni europee? Le cause fondamentali paiono
essere state tre. Anzitutto la maggior conoscenza della lingua latina, presso un maggior
numero di persone, toglieva lo stimolo pratico a fare uso scritto della lingua volgare,
perchè i dotti non avevano difficoltà a servirsi del latino, sia per gli atti di ufficio
sia per ogni uso inteso come particolarmnete dignitoso e nobile. In secondo luogo, la
nuova lingua, quando fu percepita come ormai diversa dal latino, era lunica
conosciuta dal "vulgus", dalla gente analfabeta. Il suo uso diventava così
sinonimo di "plebeo, volgare, ignobile, umiliante": ci si poteva rassegnare a
parlarlo, ma non a scriverlo. Lultima motivazione è politica. In Italia manca un
centro di unità nazionale, essendo falliti i tentativi di Guido da Spoleto (889-94),
Berengario I (880-23) e II (950-61) e di Arduino (1002) a stabilire una indipendenza
dellItalia dallimpero germanico, nei secoli IX, X, XI. Una delle conseguenze
è la mancanza di un centro di diffusione e prestigio per un dialetto quello della
capitale- nei confronti dei molteplici altri che pullulavano da noi ancor più numerosi
che in Francia, Spagna e Germania.
7)MATURITA E RAFFINATEZZA, FINO ALLA SOFISTICAZIONE, DELLA NOSTRA PRIMA SCUOLA
POETICA. Il ritardo nella produzione di scritti letterari in volgare ha un effetto che è,
nel suo complesso, vantaggioso. La nostra letteratura nasce colta ed elaborata, matura
fino alla sofisticazione stilistica. Ciò dipende dal fatto che essa ha alle spalle la
conoscenza sia dei classici di Roma, sia della innologia del latino liturgico e delle
composizioni latine profane (canti goliardici, la Elegia di Arrigo da Settimello, ecc.),
sia soprattutto della poesia lirica provenzale, sulla quale la Scuola siciliana si
rispecchia come a modello immediato. Ora, la produzione occitanica aveva oltre un secolo
esercizio e, al principio del secolo decimoterzo, aveva vissuto quella tragedia che ne
avrebbe segnato la fine nel corso di qualche decennio, cioè giusto il tempo perchè
morisse lultima generazione, formatasi prima della "crociata contro gli
Albigesi" (1208-1209) ordinata da papa Innocenzo III e guidata da Simone di Monfort.
La crociata che, contro le intenzioni del papa, finì per distruggere tutta la cultura
provenzale e per annettere ai feudatari francesi del Nord la Francia meridionale, ebbe
però un effetto purificatore sulla poco affidabilità etica della lirica iniziata dal
libertino conte di Poitiers, Guglielmo IX di Aquitania. Questo tratto discendente della
parabola poetica occitanica, mentre in certe composizioni ha il fascino di un tramonto
autunnale, porta però la espressione ad una forma estremamente intellettualizzata,
ragionata, calcolata: si giunge al "trobar clus", cioè al comporre
"ermetico", difficile, misterioso, sofisticato. E un modo di poetare fatto
più per altri "iniziati" ai segreti stilistici di un club chiuso, che non per i
comuni lettori. E tale tipo di poesia provenzale che è fatta propria dai
compositori della prima scuola darte italiana, quella che fiorisce alla corte di
Federico II.
Va qui notato che con tale magistero, la Francia si conferma come la dominatrice
letteraria e culturale in Europa fino dentro la metà del secolo decimoterzo. Attraverso
la Chanson de Roland ha aperto le porte alla poesia epica spagnola ed europea in genere.
Attraverso i capolavori di Chrétien de Troyes su Lanciallotto, Perceval ecc., dà inizio
ai poemi cavallereschi che troveranno imitatori anche in Italia, ove le leggende della
Tavola rotonda e dei paladini di Carlo Magno avranno sviluppi in versi e in prosa, in
forme dapprima separate e, poi, grottescamente frammiste, in tono serio o canzonatorio: ma
quasi sempre in lingua francese o franco-veneta, quasi che linventore avesse imposto
il copyright della propria lingua sul complesso della produzione! Attraverso la lirica
damore provenzale, essa ha generato il Minnesang tedesco e la poesia siciliana in
Italia. Attraverso il Roman de la Rose (con le sue due parti, idelistica la prima di
Guglielmo di Lorris; realistica la seconda, di Jean de Meung) ha dato origine alla poesia
allegorica che trroveranno imitatori anche italiani, nel Trèsor e nel Tesoretto di
Brunetto Latini e nella Divina Commedia di Dante Alighieri.. Attraverso infine la
Università di Parigi, essa ha dato allEuropa le Somme di filosofia, teologia e di
diritto canonico, che hanno avviato la riflessione dell Occidente cristiano verso
una profondità superiore alla stessa tradizione greca, da cui aveva preso le mosse.
E un primato che andrà però perdendosi, dapprima in Italia e, poi, attraverso
Petrarca, anche in Spagna. Intanto chi opera a Parigi la conversione
dellaristotelismo alla mentalità cristiana è, sia pure a Parigi, un docente
tedesco: Alberto Magno; e chi prenderà lo spunto per una organizzazione sublime della
teologia è un altro docente della Sorbona, ma italiano: San Tommaso dAquino. Subito
dopo la morte di questo, su impulso del francescanesimo e della filosofi scolastica,
nascerà il Dolcestilnovo, mentre Dante darà un colpo dala così geniale alla
poesia didascalica, che il richiamo al Roman de la rose vale ancora meno di quanto servano
i romanzi di W. Scott a spiegare I Promessi Sposi. LItalia col Milleduecento si
avvia ad un primato nella letteratura europea che durerà fin dentro il Millecinquecento
rinascimentale.
(mutare pagina) Cap. II: LE PRIME ESPRESSIONI LETTERARIE NELLA LINGUA ITALIANA: DAL
CANTICO DI FRATE SOLE ALLA VIGILIA DEL DOLCESTINOVO.
LE PREMESSE CULTURALI
LAMBIENTE POLITICO-MILITARE.
Col 955 lEuropa centrale è libera per secoli da invasioni di altri popoli: gli
Ungheri, battuti a Lechfeld (Augusta) da Ottone il grande, si stanziano sul Tibisco e
Danubio e si cristianizzano col re Santo Stefano attorno allanno Mille. I disordini
dei Normanni in Francia sono cessati dallanno 911, quando il loro capo, Rollone, si
accorda con Carlo III il Semplice, che concede loro in feudo le terre che ne prenderanno
il nome (Normandia). Proprio i Normanni metteranno ordine, pace e organizzazione
nellItalia meridionale, sconfiggendo Musulmani, Bizantini e Longobardi e costituendo
un unico regno che annette anche la Sicilia ritolta ai Saraceni fra il 1061 e il 1091.
Non mancheranno guerre nei secoli seguenti, ma saranno lotte intestine al mondo europeo.
Vi saranno guerre per la contesa di potere: tra imperatori, re e feudatari minori che
volevano la ereditarietà del possesso; dei nobili rientrati in città, per strappare il
potere ai vescovi ; tra Chiesa e Impero per la scelta dei vescovi (lotta delle
Investiture, 1075-1122) o per la elezione di un imperatore degno (la lotta si prolunga
fino alla morte di Federico II: 1250). Vi sono guerre di difesa contro i Musulmani, giunti
a pochi chilometri da Costantinopoli (le sette crociate classiche, tra il 1096 e il 1270).
E vi sono guerre di espansione dellEuropa ad est, con la conquista del Magdeburgo,
Slesia e Posnania nel secolo X; e del Mecklemburgo, Pomerania, Brandeburgo e Prussia nel
secolo XII. Nel frattemo Polacchi, Boemi e Moravi diventano popoli indipendenti (secolo
IX, con i santi Cirillo e Metodio in Boemia; sec. X con la conversione della Polonia),
anchessi partecipi della fede cristiana e della civiltà agricola e progredita,
grazie ai conventi benedettini che diventano centri di istruzione teorica e pratica, che
insegnano a studiare i libri, ma anche a coltivare i campi. Negli anni dopo il Mille, il
risveglio demografico, economico, culturale dellEuropa produce in Spagna il
movimento della "reconquista" che vedrà il popolo spagnolo impegnato in una
lotta secolare per la cacciata dei Mori o Saraceni (nel 711 hanno passato lo stretto di
Gibilterra e sono penetrati sino in Francia, dove li ferma Carlo Martello: Poitiers, 733).
Tra avanzate e sconfitte, i due regni di Castiglia e di Aragona, aiutati dai cristiani di
tutta Europa, convocati dalla proclamazione di una crociata apposita da parte di Innocenzo
III, sconfiggono definitivamente i Mori nel 1212 a Las Navas de Tolosa e solo le divisioni
e contrasti dei due regni cristiani rallenteranno il ricupero di tutta la penisola (1236:
rioccupata Cordova; 1248, Siviglia; 1266, Cadice; 1492, Granata). I popoli jugoslavi
faranno da cuscinetto, resistendo o regredendo, indomitamente cristiani od assimilati ai
vincitori musulmani: sino alla fine del milleseicento la Ungheria sarà lo stato cristiano
più orientale nella Europa del Sudest.
Il mondo feudale si deteriora al venir meno della mano forte di Carlo Magno, di un potere
centrale rispettato e temuto. Nasce allora il suo problema tipico: la ereditarietà,
voluta dai detentori del feudo in nome della voce del sangue; negata dal feudatario
superiore , in nome delle esigenze di fedeltà e di sicurezza che erano la ragione stessa
del sistema feudale (avere libertà di scelta, onde poter mettere, in posti di
responsabilità e di potere, uomini capaci e fedeli). Ottone I pensò di risolvere in
radice il problema, ponendo un gran numero di vescovi e di abati quali feudatari, perchè
persone fidate e ligie (per la professione relgiosa) e perchè privi di eredi legittimi
(per lo stato celibatario). Per un secolo circa, gli scopi furono raggiunti, ma a scapito
del carattere religioso dei titolari o almeno di molti di essi. La professione
ecclesiastica, a certi livelli, diventava una carriera anche politica, con risvolti di
potere e di ricchezze seducenti. Le famiglie nobiliari si contesero tali posizioni,
costringendo o sollecitando alla vita ecclesiastica i loro figli (in genere, i cadetti,
chè ai feudatari maggiori Carlo il Calvo aveva concesso fin dall877 la
ereditarietà, con il capitolare di Kiersy), onde garantire loro una vita di grande
potere, senza più preoccupazioni per la loro dignitosa sistemazione. In Germania, le
regioni attorno al Reno furono così saturate da vescovi-conti (o principi: Colonia,
Treviri, Magonza) da far chiamare quel percorso la Pfaffengasse, la via dei preti. Fino a
quando alcuni fra i cadetti della nobiltà lombarda, non entrati nel clero e scesi in
città ad abitare, non si ribellarono allarcivescovo Ariberto dIntimiano
(1044), le città italiane furono tenute da vescovi-conti; e le cose, come vedremo,
camminarono dapprima così favorevolmente anche per il complesso della vita religiosa
europea , che fu proprio quel sistema di feudalesimo ecclesiastico a creare la tipica
cultura medioevale che culminerà nel secolo XIII, con Innocenzo III, Francesco
dAssisi e Domenico di Guzman, Bonaventura di Bagnoregio e Tommaso dAquino,
Luigi IX di Francia e Alberto Magno di Colonia. Ma, alla distanza, non potevano non
evidenziarsi gli effetti negativi insiti in un sistema politico il più alieno dal comando
di Cristo: "Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di
Dio"(Mt: 22, 21). Se per molti aspetti si poteva pensare ad una teocrazia (il potere
era in buona parte in mano al clero), in realtà si trattava di un sistema
"cesaropapista" (il potere civile dominava la Chiesa), visto che
limperatore e i re comandavano a tal punto che anche la scelta dei candidati alle
sedi vescovili era finita spesso nelle loro mani. Il feudalesimo ecclesiastico finì
presto in Italia, proprio perchè qui i vescovi erano per lo più scelti dal clero e dal
popolo, sicchè gli eletti non insistettero a pretendere il potere civile, quando i laici
se ne credettero allaltezza e vogliosi di tornare a gestirlo essi stessi. Le
resistenze a cederlo furono quanto mai moderate. Ma che la società ancora al principio
del secolo XII non potesse fare a meno del clero per svolgere decentemente le proprie
funzioni, lo dimostra il fatto che, nella seconda fase delle lotte per le investiture
(1075-1122), fu da tutti respinta la proposta di papa Pasquale II (1099-1118) di
rinunciare ai feudi ecclesiastici e di riportare vescovi ed abati alla sola funzione
religiosa e pastorale. Si dovrà allora giungere al compromesso sancito nel Concordato di
Worms (1122), che lasciava per lItalia la precedenza della "investitura
ecclesiastica" (cioè la scelta del candidato allepiscopato od abbazia, secondo
norme di elezione tradizionali nella Chiesa) rispetto a quella politica, che precedeva
invece per le nazioni transalpine. Anche in Germania la scelta del candidato vien fatta
dal clero locale, ma prevede la presenza dellimperatore allatto dello
scrutinio; prevede il suo voto decisivo in caso di incertezza; prevede la precedenza della
prestazione di omaggio allimperatore rispetto alla consacrazione episcopale....
Con una panoramica del papato di Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni: 1198-1216) non
solo possiamo farci una idea degli effetti culturali socio-religiosi derivanti dalla
impostazione feudo-ecclesiastica nella conduzione della politica europea, ma abbiamo anche
un quadro del potere politico assunto, di fatto, dal clero nel mondo medioevale, per
simile mescolanza di servizi e potestà (ministeri). Innocenzo III non rivela soltanto i
corollari culturali del sistema, ma aggiunge di fatto nuove tessere e forze
allautorità politica della Chiesa. A dir il vero vi sono anche cause accidentali
allassommarsi del potere di fatto di questo papa: il figlio del Barbarossa, Enrico
VI, muore nel 1197 dopo appena sei anni di regno, lasciando un figlioletto di tre anni,
affidato proprio al papa dalla madre Costanza dAltavilla, deceduta un anno dopo il
marito, proprio quando era eletto al soglio pontificio Lotario di Segni. E le doti
personali di questo papa eccezionale hanno giocato indubbiamente un ruolo importante nel
determinare il successo della sua opera e pastorale e politica. Così tre fattori si
incontrano a favorire lapogeo del papato allinizio del scolo decimoterzo: un
popol cristiano per cui la fede era davvero tutto, sorgente di ordine, giustizia, pace,
cultura e lavoro (le abbazie benedettine come modelli dellagricoltura); un vuoto di
potere politico, causato dalla scomparsa inattesa del titolare dellimpero; la
statura intellettualmente e moralmente geniale di Innocenzo terzo. Ed eccone le opere
davvero sorprendenti. Anzitutto la decretale "Venerabilem" (1202). Per essa un
pubblico peccatore, scomunicato, non può accedere allimpero. Siccome il re di
Germania è automaticamente limperatore dellEuropa cristiana, i principi
tedeschi scelgano pure il loro re, ma lascino al papa il diritto di giudicarne i costumi
religioso-morali e, quindi, la dignità ad essere eletto imperatore: tocca infatti al papa
ungerlo, consacrarlo, coronarlo... Appoggiò la elezione di Ottone di Brunswick contro il
fratello di Enrico VI (Filippo di Svevia), ma poi lo scomunicò per la politica
antiecclesiastica e gli oppose Federico II, che la vittoria di Augusto II di Francia a
Bouvines (1214) assicurarono al trono: nel 1215 Federico II, a ventanni, era
imperatore. Tenne a freno la scostumatezza di vari re della cristianità: Alfonso, re del
Portogallo, Filippo II Augusto di Francia, Giovanni Senzaterra dInghilterra..
Ricevette lomaggio feudale da Calojano di Bulgaria, Giovanni dInghilterra, dai
re di Polonia e Danimarca, da Pietro dAragona che venne a Roma a farsi incoronare
dal papa. Lanciò tre crociate: contro i Mori di Spagna, che condusse alla vittoria
decisiva di Las Navas de Tolosa (1212); contro gli Albigesi, che sradicò la eresia catara
(e, purtroppo, ridusse agli estremi anche la cultura , la lingua e la letteratura
provenzale); contro i Musulmani, per liberare i Luoghi santi, (1204: ebbe però esito
grottesco in quanto, per machiavellici calcoli dei capi crociati, contro ogni intenzione
del papa, finì per occupare Costantinopoli e la Grecia a favore dei Veneziani e dei
Francesi). Tenne il Concilio ecumenico Lateranense IV (1215), che fu una assise di tutto
il mondo cristiano, anche laico. Tentò, infatti, (in sole tre sessioni: dellundici,
venti e trenta novembre) di risolvere equamente la questione della spartizione delle terre
nel Sud della Francia, dopo la vittoria dei feudatari del Nord (con a capo Simone IV di
Montfort, signore della contea di Leicester in Inghilterra) contro Raimondo VI di Tolosa.
Condannò le eresie del catarismo, dei Valdesi, del millenarismo (abate Gioachino da
Fiore: ca 1130-ca 1202); precisò alcuni doveri dei fedeli (obbligo Confessione e
Comunione pasquale); emanò pene canoniche contro i matrimoni clandestini; proibì di
venerare reliquie non riconosciute dallautorità ecclesiastica; restrinse luso
delle indulgenze, per impedirne gli abusi; represse la simonia, ecc. Durante il suo
pontificato nascono i due ordini religiosi più importanti dopo i Benedettini, cioè i
Francescani (1210) che ebbero da lui la prima aprovazione (orale: Onorio III, suo
successore la fermerà per iscritto); ed i Domenicani (1215). Entrambi questi ordini, a
differenza dei Benedettini chiusi nelle abbazie, si affiancano al clero diocesano, ne
suppliscono i difetti, ne completano le attività: si danno alla predicazione ed alle
opere di misericordia, allinsegnamento ed alla attività missionaria presso i non
cristiani (nel 1219 lo stesso S. Francesco si fa ricevere dal sultano dEgitto Malik
al-Kamil).
Eppure a tale apogeo del papato segue un periodo che disorienta la cristianità e logora
definitivamente entrambi i suoi poteri universali. Lo scontro fra Impero e Chiesa relegò
lautorità imperiale alla sola Germania, mentre linflusso della Chiesa fu
salvato ancora per un paio di generazioni (mezzo secolo) dalla presenza di San Lugi IX. Il
declino delo spirito cristiano in Europa si farà sentire pesantemente solo nel secolo
XIV. Vediamo i fatti. Morto Innocenzo III, Federico II trovò modo di farsi scomunicare
ben tre volte dai papi che succe- dettero al suo protettore (1227: Gregorio IX, per
deciderlo a partire per la crociata in Terra santa; 1239, quando Federico II elesse suo
figlio Enzo re di Sardegna, che era feudo papale; nel 1245, al Concilio di Lione).
Sconfitto dai comuni guelfi alla Fossalta, nel modenese (1249: il figlio Enzo, fatto
prigioniero, non tornerà mai più libero), morirà improvvisamente lanno seguente,
mentre preparava la rivincita. Linterregno che vede limpero vacante fino al
1273 e gli imperatori, poi, meno preoccupati della situazione italiana, non significano
però un trionfo del potere della Chiesa e del suo influsso sulla cultura. Con il declino
dellImpero come potenza europea, entra in crisi infatti anche lautorità
politica della Chiesa in Europa: lo "schiaffo di Anagni" (7.09.1303) ne sarà la
clamorosa manifestazione. Tre fatti sembrano favorire una simile paradossale parabola.
Anzitutto vi è il contraccolpo di mezzo secolo di lotte tra papato e impero che ha finito
per logorare entrambi i contendenti. Limpero finirà per divenire un affare interno
al popolo tedesco: lo ammette implicitamente la bolla doro di Carlo IV di
Lussemburgo(1356), che riserva a soli sette principi tedeschi (i tre arcivescovi di
Colonia, Treviri e Magonza; il re di Boemia, il conte palatino del Reno, il duca di
Sassonia e il margravio del Brandeburgo) la elezione dellimperatore. La Chiesa
finisce per esser vista come potenza politica ed italiana, perdendo del suo fascino di
guida spirituale ed universale, "al di sopra delle parti" e testimone di valori
evangelici. Un secondo fattore (casuale ma, comunque, non senza gravi conseguenze) è
stata la mancanza, dalla morte di Innocenzo IV (1254) alla elezione di Bonifacio VIII
(1294) di un papa che abbia regnato abbastanza a lungo da esplicare una attività
conclusiva: ben 12 papi riempiono quei quaranta anni; e lanno 1276 vide ben quattro
papi, essendo morti due neoeletti! Furono anche papi senza una forte personalità? Ad ogni
modo, anche questi elementi van teneuti presenti per comprendere il risultato negativo di
una guerra apparentemente conclusasi in favore della Chiesa. Un terzo fattore sta
nellaumento di ricchezza per il progredire della economia, il migliorare delle
comunicazioni, della sicurezza, delle invenzioni tecniche. Lindividualismo e
ledonismo, con la indifferenza religiosa conseguente, ne discendono tanto più
facilmente, quanto minore è il controllo dellautorità civile e religiosa, entrambe
impegnate a combattersi per motivi ormai non più sentiti come importanti dalla
cristianità europea (la questione delle crociate; la diatriba tra guelfismo e
ghibellinismo...). Vediamone un sintomo. Tra la politica ecclesiastica di Federico
Barbarossa (1155-90) e di Federico II (1215-50) sta anche questa differenza: il nonno
insisteva nelleleggere antipapi; il nipote non vi pensò mai. Cera più
anticlericalismo nellavo; cè meno fede nellabiatico: non vi è più la
preoccupazione di giustificarsi di fronte alla coscienza propria ed europea, illudendosi
di essere scomunicati da papi indegni od illegittimi e sostituendoli con altri a sè
favorevoli. Per la generazione di Federico II, tale problema non esiste più. Nel giro di
altre due generazioni (nel 1303: poco più di cinquanta anni dopo la morte di
questultimo)si giungerà alloltraggio di Anagni: il papa fato prigioniero dal
Nogaret, a nome di un re Filippo IV il Bello- che era nipote di un santo.
Ma, allora, che cosa ha conservato anche nella seconda metà del secolo XIII una atmosfera
così cristiana in Europa, da favorire la costruzioni di cattedrali, il moltiplicarsi di
università con statuti cristiani, il sorgere particolarmente in Italia del Dolcestilnovo
e della Divina Commedia? Disitnto ci si riferirebbe allo strascico di
Francescanesimo e Domenicanesimo, che erano leredità più grandiosa dellepoca
di Innocenzo III. Ma tre generazioni di permanenza in una mentalità e costume,
socialmente condiviso oltre la morte di Innocenzo, Francesco, Domenico, non sono
spiegabili senza un ulteriore rilancio, senza la mediazione di un nuovo catalizzatore che
ne fondi la continuità. Ebbene luomo che impedisce un tramonto precipite della
civiltà medioevale, che anzi la sostiene facendo riecheggiare sino alla fine del secolo
gli ideali dei tre eccezionali ammiragli della nave di Cristo, è il re di Francia San
Luigi IX (1214; 1226-1270). La sua presenza discreta eppur luminosa prolungò
"leffetto S. Francesco" particolarmente in Francia ed Italia, dando modo
allesprimersi dei capolavori letterari supremi del Medio Evo cristiano. Ecco in
Francia lultima fioritura, spirituale ed edificante, della letteratura provenzale
(con Guglielmo di Montanhagol: 1229-58); ecco la scrittura della prima parte del Roman de
la Rose (Guglielmo di Lorris, circa il 1230), in cui la ricerca del fiore damore (la
rosa) avviene attraverso la conquista di conoscenza e virtù; ecco la realizzazione delle
grandi cattedrali (Chartres è ultimata nel 1245; Reims è costruita fra il 1210 e il
1270); ecco la esplosione del fenomeno universitario, con la costruzione del collegio
della Sorbona, destinato dapprima ad ospitare docenti e studenti poveri (1255), poi, ad
essere sede della facoltà teologica ed a dare il nome a tutta la università di Parigi,
quella università che con maestri del livello di Alberto Magno e Tommaso dAquino
andava assurgendo ad essere il centro di studi più rinomato dEuropa; ed ecco
infine, il mito della Francia di Luigi IX mantenersi vivo in Italia fino ad influenzare
cristianamente i motivi ispiratori del Dolcestilnovo, fino a lasciarsi sospettare come uno
dei garanti del sottofondo teologico tutto della Divina Commedia. Senza Luigi IX non si
può spiegare, in una società dissipata dal danaro e disorientata dalle lotte fra le due
guide naturali più alte, il perseverare e perfezionarsi di un pensiero e di un costume
profondamente imbevuti di evangelismo: vivace ed entusiasta al punto da manifestarsi in
opere del valore intellettuale della Somma teologica e della intensità emozionale del
capolavoro dantesco. E per questo che, tra le personalità politiche che servono ad
introdurci nella cultura medioevale prevalente, dobbiamo fissare i dati fondamentali della
sua opera. Regnò dal 1226 al 1270. Fatto re a 12 anni, governò fino al 1242 sotto la
reggenza della madre, Bianca di Castiglia. Pur schierato in linea di principio dalla parte
del papa (tanto da ospitarne a Lione il Concilio, dopo che la flotta pisana aveva
catturato a nome di Federico II i vescovi francesi, diretti a Roma su navi genovesi:
battaglia dellisola del Giglio, 1241), egli si astenne dallintervenire
praticamente nel contrasto, sembrandogli a buon diritto essere in ogni caso rovinosa una
simile lotta. Cosciente dei suoi doveri di regnante feudale, egli organizzò la Francia in
modo esemplare: ad ogni primavera ascoltava di persona, a Vincennes, le ragioni dei
litiganti, per costituire davvero il tribunale supremo dei suoi sudditi, contro le
eventuali ingiustizie dei tribunali feudali inferiori. Egli rispettò le autonomie dei
feudatari (lesenzione dalle tasse, ad esempio), ma ne esigette ladempimento
dei doveri, soprattutto il servizio militare ogni qual volta il re ne facesse richiesta.
Tale dipendenza, limitata ma esatta, impose anche ai feudatari inglesi stanziati nelle
regioni sud occidentali del paese, che vinse in guerra, non per togliere loro le terre, ma
per costringerli alladempimento dei doveri feudali.. Curò la solidità della
moneta, che lasciò intatta al figlio, nonostante avesse organizzato le due ultime
crociate (1248-54 e 1270). Anzi, fatto prigioniero nel corso della prima, potè avere
laiuto finanziario dai feudatari per il riscatto, come esigevano gli statuti in
proposito. Allinizio della seconda, morirà di peste. Era stato educato da una madre
coerentemente cristiana e il fascino della sua personalità nasceva soprattutto dalla sua
condotta, sicchè egli era celebrato come santo già in vita. Per questo, venne ricercato
come mediatore nella contesa tra lo Hainaut e le Fiandre (arbitrato di Péronne: 24. 09.
1256) e tra Giovanni Senzaterra ed i baroni inglesi (arbitrato dAmiens del 24.
01.1264). Addirittura il fratello Carlo dAngiò, ben lontano dalla altezza
spirituale di lui, ne sfruttò il riverbero e scese in Italia, invitato dal papa, a
sconfiggere il figlio naturale di Federico II, Manfredi (battaglia di Benevento, 1266), a
farsi signore dellItalia meridionale e sostenitore del guelfismo (Napoli, Firenze:
questultima sostituì Milano come portainsegna del guelfismo, dopo che, nel 1311, vi
rientrarono i Visconti ghibellini, sostenuti, contro i Torriani amati dal popolo,
dallimperatore Enrico VII). E da un tale equilibrio tra virtù e forza, dalla
sua umana completezza di signore e giudice, di guerriero ed amministratore che nasce
laura e il fascino, che fanno della sua presenza in Europa il punto di riferimento,
lantenna di ripetizione, la roccia di riecheggiamento del momento sublime ed unico
del cristianesimo medioevale, cioè del primo quindicennio del tredicesimo secolo, con
Innocenza, Francesco, Domenico.
Il figlio di San Luigi, Filippo III lArdito, morì in una spedizione contro Pietro
III dAragona (1285: cfr. Purgatorio, 103-6). Gli succedette Filippo IV il Bello, che
sarà lopposto del nonno. Egli sembrò sostituire lideale della giustizia di
Dio (fino a morirne in crociata) con legoismo e la volontà di potenza, fino alla
menzogna ed alla guerra aggressiva. Distrusse la pace coi feudatari, annettendosi terre
del Nord e dellOvest ; rovinò la finanza dello stato, battendo moneta adulterata;
si inimicherà col papa (BonifacioVIII), giungendo a falsificare le sue bolle, per poterlo
far dichiarare eretico e deporlo davanti ad un Concilio: a tal fine tentò farlo
prigioniero con loltraggio ("schiaffo") dAnagni, mediante Guglielmo
Nogaret ed i Colonna; si circondò di consiglieri fraudolenti, come il famigerato
Musciatto Franzesi di cui parlano i cronisti fiorentini; per amore di danaro, non esiterà
a far condannare a morte i Templari, onde incamerarne l agognato patrimonio;
renderà schiavo il papato fino a farlo emigrare in Francia, prono ai suoi voleri. Morirà
a caccia, squarciato dal corno di un cinghiale (1314: cfr. Purgatorio, cc. 32 e 33;
Paradiso, c.19). E un "segno dei tempi": come nasce in questi anni
(1268-78) la seconda parte del Roman de la Rose, compilato da Jean de Meung in chiave
realistica ed impudente, così la Francia si allontana dallo spirito cristiano e si avvia
a quella mondanità che, se non è sempre frutto di mancanza di fede, è però prova di
incoerenza morale e di decadenza umana: le conseguenze si vedranno nello scoppio e nelle
sconfitte della guerra dei Cento anni, della quale Filippo il Bello pose le premesse
attraverso le prepotenze contro i feudatari del Regno. Se il nonno aveva reso grande la
Francia con la scrupolosa osservanza della giustizia, il regno di Filippo IV può essere
riassunto nella condanna: "odiò la giustizia", spiacque ai buoni, condusse a
perdizione se stesso, il popolo e lo stato di Francia. Occorrerà unaltra santa,
Giovanna dArco, a richiamare la nazione alle proprie radici cristiane ed a
ricondurla alla pace. Ma ormai lEuropa aveva disperso il tesoro di Francesco e di
Domenico, di Luigi e di Innocenzo: dallesilio di Avignone si passerà al grande
scisma occidentale, poi al grande nepotismo dei papi rinascimentali, poi a Lutero e,
infranto larginde del Concilio di Trento con la guerra dei Trenta anni (1618-48), si
giungerà allIlluminismo ed alla Rivoluzione francese. Tout se tien: la attività
umana obbedisce ad una legge inesorabile: la logica, la coerenza, la consequenzialità.
E la presa di posizione rispetto a Dio che determina con logica imperterrita tutto
il pensiero e il comportamento della umanità: dalla condotta morale alla condizione
politico-sociale.
LAMBIENTE SOCIO-ECONOMICO.
IL PROGRESSO COMPLESSIVO DELLEUROPA DOPO IL MILLE. Nonostante le guerre difensive
sul lato sudorientale (Jugoslavia) della società europea; nonostante le lotte intestine
in molte direzioni (Chiesa e Impero, impero e comuni liberi, re e feudatari...);
nonostante le guerre di conquiste nel nordest della Germania, non si prospetterà mai più
il pericolo di un regresso per la vita e materiale e culturale del mondo occidentale
cristiano.Se attorno al 950 si presume che la sua popolazione toccasse i 28.600.000
abitanti, questi crescono ai 54.400.000, nel corso del milleduecento.
La crescita demografica fa scattare una legge psicologica sicura: luomo sano e
onesto produce più di quanto consuma. Nel giro di qualche tempo, si estende la
coltivazione dei campi, si ricuperano alla vita umana foreste ed acquitrini, ci si applica
agli studi, si sente lesigenza di partecipare alla vita associata sia letteraria che
economica (circolazione di scritti, aperture di aziende, assemblee amministrative, ecc.).
Col tempo si fondano scuole, si favoriscono le arti architettoniche (costruzione di case,
chiese, palazzi pubblici...) e figurative, si aspira alla partecipazione alla vita
pubblica, specie da parte di uomini giuridicamente formati. Nella Europa occidentale si
giunge alla creazione della Università (1076-88: a Bologna, il maestro Pepo fa scuola di
diritto a titolo privato; nel 1111, Irnerio ottiene lapprovazione ufficiale della
contessa Matilde di Canossa, signora di Bologna come della Toscana; nel 1158 nasce la
prima università moderna, lAlma mater studiorum di Bologna appunto. Sorgono i primi
ospedali. Nasce, verso la metà del secolo undecimo, la Chanson de Roland (forse prima: il
più antico riferimento rimanda al 1085 e la suppone già nota); qualche decenio dopo, con
Guglielmo IX marchese dAquitania (1071-1126) inizia la lirica provenzale
damore. Intanto a Milano i nobili iniziano lo smantellamento dellistituto dei
vescovi-conti, ottenendo la rappresentanza della nobiltà acccanto al vescovo: dopo la
morte di Federico II, sarà la volta della borghesia ad occupare lautorità nel
"comune libero".
Vari fattori incidono sulla liberalizzazione della società dopo lanno Mille.
Contratti di enfiteusi vengono facilmente concessi, per liberare terre improduttive da
boscaglie ed acquitrini: la servitù della gleba comincia automaticamente a recedere. Le
crociate impoveriscono i feudatari e in genere contribuiscono a smantellare il sistema
feudale, almeno in Italia: i capi che non perirono nella spedizione, ebbero spesso bisogno
di vendere o di trovare contratti diversi con i loro stessi dipendenti, con vantaggio
reciproco. Inoltre dei semplici soldati ottengono cariche e promozioni di tipo feudale,
proprio per il loro comportamento meritorio durante la spedizione: i Visconti sono stati
creati nobili durante la prima crociata (1096-1099). A questi motivi terreni si aggiunge
non raramente il principio religioso, quello che aveva contribuito alla fine della
schiavitù presso i Romani convertiti al Vangelo. Le affrancazioni di singoli servi della
gleba od anche di gruppi avvengono in varie città già prima di S. Francesco, in
occasione di feste liturgiche, dapprima nei feudi ecclesiastici e poi anche in quelli
laicali. Col secolo XIII il movimento francescano rende "collettive" (e
"cittadine") le affrancazioni. Nel 1210 vi è la "Concordia di
Assisi"; nel 1257 a Bologna si stende la costituzione detta "Paradisus"
dalla parola iniziale, che è un "senal" dello spirito cristiano con cui è
fatta la affrancazione; nel 1289 anche Firenze eliminerà dal suo costume e dalle sue
leggi questo istituto. Il dilatarsi della vita economica al di là dei bisogni di
sopravvivenza ridà importanza alle città come centri di produzione e di commercio: il
castello e la curtis van perdendo sempre più dinteresse, finchè le città
obbligheranno i nobili ad abitarvi, smantellando eventualmente i loro castelli di
campagna.
Ed ecco il contributo del progresso tecnico.Poco dopo il Mille, si copiò dagli Arabi
limpiego della forza del vento e dellacqua: furono impiegate anzitutto per i
mulini; lacqua troverà poi applicazioni anche nellindustria.
Allestrazione dei minerali dà un contributo la invenzione di argani, pompe,
ventilatori. Le valli di Bergamo e Brescia, in Italia, alimentano lindustria
metallurgica per armi (Brescia), aghi (Milano), coltelli (Lucca). Lagricoltura
aggiunge alle colture tradizionali (cereali, olio, vino), quella del gelso per i bachi da
seta e quella del riso.Le crociate portarono in Europa, oltre il gioco degli scacchi,
luso dello zucchero di canna, della carta fabbricata con gli stracci e la paglia (in
sostituzione di pergamena e papiro). I Bizantini, intanto, avevano scoperto il "fuoco
greco" che riuscirono, però, per secoli a mantenere segreto (si conservava acceso
anche sotto getti dacqua, sicchè era usato in battaglie navali). I maestri comacini
riscoprirono luso dellarco e della volta (anche a crociera), mentre col secolo
XIII gli architetti dello stile gotico svilupparono luso dellogiva, che gli
arabi già avevano scoperto, limitandone però lapplicazione a finestre e portali.
Scoperta la validità dellimpiego anche per le volte, essa permise
linnalzamento ed alleggerimento degli edifici, a cominciare dalla cattedrali e
chiese (la prima in tale stile è quella di S. Martino, ne lIle de France). Nel
commercio, i banchieri italiani (Bonsignori a Siena, Bardi, Peruzzi, Acciaioli e Medici a
Firenze, Datini a Prato, Fieschi a Genova...) facilitarono il trasferimento di danaro con
lapertura di succursali estere del "banco" originario, con la lettera di
cambio e il conto corrente. Anche la "partita doppia" (due registri diversi per
entrate ed uscite) è innovazione italiana. Dopo la coniazione di monete in argento, ecco
quella aurea (1252: fiorino; genoino; 1284: ducato veneziano, che diventerà lo zecchino
nel secolo XVI). LItalia diviene la capitale nella lavorazione della seta (Lucca) e
nel raffinamento di quella della lana (Firenze). Si fanno molto frequentate le vie
Francigena (Moncenisio- Milano- Firenze- Roma ) e teutonica (Brennero- Bologna- Firenze-
Roma: il Gottardo verrà scoperto solo col secolo XIV). Dagli Arabi (che le avevano
apprese a loro volta dallIndia) vennero le "cifre" per il calcolo
decimale, così come la trigonometria, che sviluppava la geometria greca. In Italia fu il
pisano Leonardo Fibonacci (ca 1170- ca 1250), che scrisse anche trattati di geometria ed
algebra (a Gerberto dAurillac è attribuita la invenzione dellabbaco, uno
strumento fra il pallottoliere e la tavola pitagorica). Pietro di Maricourt scopre le
proprietà fondamentali del magnetismo, fenomeno che farà il suo ingresso nella poesia
del Dolcestilnovo con il fondatore Guido Guinizelli. Il benedettino Guido dArezzo
(995-1050) inventa il tetragramma, dando il nome alle note e fissando la intonazione dei
neumi della musica gregoriana : ne deriverà il pentagramma, con laggiunta della
nota più alta (il "si"). Nei secoli XI-XII si sviluppa, a partire
dallItalia settentrionale, larte romanica (maestri comacini); dalla Francia,
come si è detto, giunge nei secoli seguenti larte gotica, con le cattedrali di
Notre Dame di Parigi, Chartres, Reims, Rouen; in Germania sorge il duomo di Colonia e, in
Italia, quelli di Orvieto e Milano, nonchè la facciata del duomo romanico di Siena. Nella
pittura si umanizza la figura con Cimabue e Giotto, contro le stilizzazioni ossessive
dello stile bizantino.
LA CULTURA DEL MEDIO EVO (Dominante e Minoritaria).
Favorita da un ambiente politico ancorato per necessità alla Chiesa, è naturale che la
CULTURA DOMINANTE delleà medioevale europea sia improntata alla fede cattolica, sia
pure con caratteri marginali propri. Ecco le coordinte di fondo.
LA RELIGIONE ESSENZIALE ED IL PRIMATO DI DIO. Mettere Dio al primo posto significa
anzitutto aderirvi con la fede più certa (credere in Dio più che in ogni altra realtà,
più che in se stessi, perchè Egli è Verità infinita); con la speranza più ferma (
abbandonarsi a Dio come sommamente affidabile, nonostante il mistero del dolore nella
vita) e con la carità suprema (perchè Egli è Bene infinito: "dei tuoi amori, a Dio
guarda il sovrano": Paradiso, 26, 48). Ne discende la fede nella Vita eterna, la
concezione della vita terrena come " tempo di prova, occasione per trafficare i
talenti, luogo di pellegrinaggio" verso il Premio che è il godimento di Dio stesso.
La fede in unanima personale ed immortale reca con sè il principio della priorità
della vita spirituale su quella del corpo, con tutte le esigenze morali che si
concretizzano nel Decalogo dellAntica legge e nel precetto della carità, anche
verso il prossimo, del Vangelo.
RELIGIONE RIVELATA, PECCATO ORIGINALE E REDENZIONE. a) Le novità del Cristianesimo sono
praticamente le componenti "diacroniche o storiche" della religione umana, che
hanno mutato due volte radicalmente i rapporti delluomo con Dio: in peggio, il
peccato originale; in meglio, la Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo,
vero Dio e vero uomo. b) A far conoscere alluomo tali avvenimenti, decisivi per i
suoi rapporti con Dio, deve intervenire la Rivelazione o parola di Dio agli uomini.
Attraverso Abramo e Mosè, i Profeti e il Figlio fattosi uomo, Egli si è rivelato e, da
una parte, ha ricordato alla umanità verità altrimenti cadute dalla memoria (la colpa
delle origini); dallaltra, ha insegnato verità sulla sua natura e sulle Sue opere
di salvezza, che hanno in sè troppo di sovrumano perchè luomo possa comprenderle a
pieno (misteri).Tale discorso di Dio agli uomini è sostanzialmente contenuto nelle pagine
della Bibbia, divisa in Antico e Nuovo Testamento (Patto, Alleanza prima stabilita con
Abramo ed il popolo eletto di Israele; Nuovo ed eterno Patto fondato nel sangue di Cristo
per tutti i battezzati ed i chiamati a salvezza). c)Alle verità non totalmente aperte
alla spiegazione della mente umana (ma non ad essa contrarie, insegna la fede) fa parte
quella sulla natura di Dio, che si fa scoprire "Uno e Trino" (cioè una sola
Sostanza, vivente in tre Persone). d) Ma i due capisaldi, che distinguono il cristianesimo
da ogni altra religione, rimangono quelli della colpa orginale e della Redenzione
"vicaria", operata a nome della umanità peccatrice da Cristo, sommamente santo
e santificatore. e) Tali verità inducono una nuova antropologia o concezione
delluomo. Da una parte, questi rimane indebolito dalle conseguenze della colpa
originale, pur rimessa sostanzialmente nel battesimo: senza laiuto straordinario
meritato da Cristo redentore (Grazia sanante od attuale), luomo colle sole sue forze
non riesce a vivere in misura pienamente umana, integralmente onesta, secondo totale
giustizia. Dallaltra, luomo è innalzato ad una vocazione e missione che vanno
al di là delle forze puramente naturali: fatto figlio adottivo di Dio (Grazia
santificante od elevante) attraverso la fratellanza con Cristo redentore, egli è chiamato
alla imitazione di Cristo, in un grado superiore di spiritualità che sorpassa la semplice
giustizia e spazia nel campo immenso della carità. Vi è, dunque, una triplice
prospettiva delluomo nel cristianesimo. In linea teorica (cioè prescindendo dalle
concrete componenti storiche suddette), luomo è visto come una creatura
meravigliosa: in san Tommaso si trovano espressioni non meno esaltanti che nei più
ottimisti pensatori del Rinascimento: "Luomo è ciò che di più perfeto vi è
in natura". "Nelluomo in qualche modo ci sono tutte le cose..., cioè la
ragione, per la quale partecipa alla vita degli angeli; le facoltà sensitive, per le
quali conviene con gli animali; le forze naturali, per le quali si ritrova con le piante;
e il corpo stesso, per il quale fa parte del mondo minerale (inanimato). La ragione però
ha nelluomo una posizione dominante e non di un soggetto a dominio (altrui)."
"Luomo, composto di anima e di corpo, vive sullorizzonte del tempo e
delleternità" E la teoria delluomo "copula (legame, sintesi)
delluniverso" dellUmanesimo rinascimentale. Ma nella considerazione più
concreta e statisticamente solita, luomo risulta una delusione, un fallimento, un
essere da guardare con sospetto e compassione. E la concezione che il cristiano
Kirkegaard ha messo in voga anche tra i profani, precorrendo lEsistenzialismo:
luomo chiamato bensì alla verità, ma approdante allerrore od al dubbio;
proteso alla felicità, ma avviato al dolore, alla disperazione, al fallimento; aspirante
alla integrità morale, ma reo confesso di peccati, di delitti, di guerre, di suicidio...
Lumanesimo cristiano risulta sempre piuttosto cauto e timoroso, non certo
incondizionato ed allegro. E sempre un umanesimo realistico che, distinguendo fra
prospettiva astratta e concreta dell'uomo, risulta ambiguo, non ipocritamente elusivo o
reticente, ma esplicito nel denunciarne la (sia pur solo parziale) inaffidabilità. Nel
Medio Evo tale "ambiguità" rimane solitamente equilibrata perchè compensata
dalla carità operosa e dalla considerazione della Grazia redentiva e restauratrice di
Cristo. Ma da alcune espressioni estreme si intuisce che era diffuso un pessimismo verso
luomo che tentava alla sfiducia ed alla disperazione. Si pensi alla ballata di fra
Jacopone da Todi: "Quando te alegri, omo de altura". Si pensi al trattatello di
Innocenzo III, così pessimista già nel titolo "De miseria humanae
condicionis"; e che prende in considerazione solo gli aspetti ripugnanti
(fisicamente, oltre che spiritualmente) del povero mortale. Si pensi alla stessa "De
Imitatione Christi" che, scritta nel secolo XIV, rappresenta ancora la mentalità
triste e timida delluomo, che solo in convento può trovare la perfezione
("Tutte le volte che fui tra gli uomini, ne tornai meno uomo"); solo
nellessere ignorato e disprezzato può trovare scampo dalla superbia ("ama
essere ignorato e reputato uomo da nulla"); in nessun luogo avrà mai rimedio alla
sofferenza ("dovunque tu vada, la tua croce ti segue"); nella stessa scienza
teologica incontra ostacoli alla vita spirituale ( Sono, questi scritti, le punte di
iceberg che denunciano una mentalità generale che guarda luomo con sospetto e con
una notevole sfiducia. Un confronto fra gli scritti (tutti intellettuali, quasi
razionalisti) di Dante e Tommaso dAquino e quelli (fin troppo sentimentali) del
Petrarca danno una idea del poco interesse del Medioevo per la sfera psicologica (che
implica attenzione alla emotività come componente nel concreto agire delluomo).
Lerrore più clamoroso che ne discese fu la mancata intuizione che lattività
artistica proprio nella emozione e non nella ragione trova la sua dimensione distintiva.
Daccordo: la causa fondamentale di tale "distrazione" è da riporre nella
mancanza di conoscenze dettagliate sulla natura e dinamismo della attività
emotivo-istintiva. Tuttavia una certa corresponsabilità può ben esser addebitata
allatteggiamento di sospetto e di disistima delluomo medioevale nei confronti
di quanto fosse legato alla carne ed alla concupiscenza, cioè alla facilità della sfera
emotiva a debordare nel capriccio e nellabuso, a svincolare luomo dalla
verità della ragione spirituale per renderlo schiavo delle passioni animali. Di qui anche
la fuga dal mondo (per le donne, la stretta clausura, essendo per loro pericoloso anche
lesercizio delle opere di misericordia, a contatto degli uomini); il moltiplicarsi
di digiuni e penitenze (oltre la Quaresima, vi erano le vigilie di ogni grande solennità,
Natale compreso); la radicalità della povertà francescana, che proibiva ai frati minori
di accettare danaro in elemosina (come aveva spinto San Bernardo nel secolo XII in
Francia, a riformare i Benedettini nel senso di una povertà non solo personale, ma anche
collettiva, con conventi e chiese squallidi, anche artisticamente poveri , senza gli
estesi benefici feudali in appannaggio). Anzi, nella Regola di San Francesco vi è
sospetto verso la stessa cultura: un analfabeta, che bussasse al convento per esservi
ammesso, non doveva essere istruito! Solo la umiltà e dottrina, lequilibrio e la
santità di santAntonio decideranno il rigido "Poverello" a permettere
linsegnamento della teologia ai suoi Frati. Questi estremi ci avviano, però, a
comprendere una terza forma di "umanesimo medioevale". Si tratta di un Umanesimo
che non fa conto più solo sulle forze (incrinate) delluomo peccatore, ma è fondato
sulla considerazione delluomo redento, delluomo guarito ed elevato dalla
Grazia salvifica di Cristo. Allora non abbiamo un "umanesimo cristiano", ma un
Cristianesimo umano": che restituisce stima alluomo, perchè ha fede nella
onnipotenza liberatrice di Dio; che conosce entusiasmi ed esaltazioni per gli uomini che
si sono lasciati "lavorare" da Dio e sono divenuti giganti nella vita
soprannaturale come suoi figli e, per ciò stesso, intercessori di miracoli a favore
delluomo, straordinari operatori di misericordia per bisognosi di ogni genere; che
si propone un ideale di vita straordinaria, appunto nella rinuncia delle cose più
allettanti alla sensibilità delluomo, per potenziare le virtù più specificamente
umane, quella vita spirituale della sapienza e della carità che ricupera, in nome di Dio,
anche la cura del prossimo, linteresse per i valori terreni, la costruzione di una
"civiltà dellamore". f) Lideale umanistico del Medioevo coincide
allora con lideale della santità. Un segno dei più sicuri è il culto delle
reliquie, che raggiunge livelli di fanatismo, di commercio, di furto persino. Innocenzo
III nel Concilio lateranense IV dovette proibire il culto di reliquie non approvate
dallautorità eccelsiastica: dunque le novelle di Boccaccio sul commercio di
reliquie false non sono pure invenzioni! Lavanzata dei Turchi in Oriente mette a
repentaglio il corpo dei santi apostoli e martiri là sepolti: ed ecco il
salvamento-trafugamento, da parte di commercianti e crociati, delle reliquie di San Marco
(a Venezia), di San Nicola (a Bari)... Il Barbarossa distrugge Milano, ove sono venerate,
in SantEustorgio, le reliquie dei tre Magi (anchesse trasportate
dalloriente: a cura di S. Elena e di Costantino?!): egli le lascia trafugare in
Germania dal vescovo di Colonia Rainaldo di Dassel ove il duomo gotico sorgerà come
sarcofago, come aereo mausoleo per la loro conservazione e venerazione. Che più? Il
santo, come dono di Dio, testimone privilegiato della redenzione di Cristo, gode di tale
ammirazione, che nessun miracolo sembra alieno dalla sua vita. Egli non può non aver
operato miracoli: se i dati sulla sua esistenza si ignorano, ebbene sarà lecito supporli
ed inventarli. Da questa disponibilità a credere, nasce quel fanatismo degli agiografi
medioevali, che riempiono di "meraviglioso" la biografia dei loro personaggi:
fino alla "Legenda aurea" del vescovo e beato Jacopo da Varazze (ca. 1228-1298)
e fino a Giovanni Villani, che scrive nel Milletrecento, ma si è formato nella Firenze
del secolo precedente e porta un candore di fiaba nel suo gusto per il miracoloso ed il
meraviglioso. La cosa (dovuta, per altro, molto più alla insufficienza di senso critico
storiografico, cui si è già accennato e di cui parleremo più estesamente a suo luogo)
dilaga talmente, da "forzare" il significato di una parola latina.
"Legenda" significa letteralmente in latino "cose da leggersi": era
probabilmente il titolo di raccolte agiografiche (vite di santi) che i monaci dovevano
leggere in refettorio durante la refezione. Ma riformatosi, col dilatarsi degli studi, il
senso critico, troppe di quelle notizie risultarono pie invenzioni e trapassarono a
significare "miti, fatti fantastici, racconti inventati": "leggende",
appunto. Sono, tutti questi, segni dei tempi: di una fede, fiducia e amore verso gli
uomini, ma in quanto redenti e sublimati dalla redenzione divina. Luomo in sè è
inaffidabile: luomo "graziato" da Dio è sovrumano, perchè santo,
partecipe della potenza angelica, della vita divina. g) Con la nuova antropologia, la
nuova "filosofia della storia": una concezione delle vicende umane tutte che è
diretta dalla Provvidenza e segnata dai rapporti, due volte mutati radicalmente,
delluomo con Dio. La filosofia della storia coincide, allora, con la "teologia
della storia": è una "storia sacra", che ha per caposaldi la creazione, la
caduta originale, la preparazione della venuta di Dio a salvare luomo attraverso la
"vocazione di Abramo" e le vicende del popolo eletto dIsraele;
lIncarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, cioè di Dio fattosi uomo.
Ecco che le peripezie dei popoli pagani sono "accadimenti" accidentali; le
vicende degli ebrei sono "avvenimenti" già vicini al centro della storia umana,
ma solo la Vita di Cristo, dalla incarnazione alla risurrezione costituiscono
levento, lhappening, lErlebnis attorno a cui ruota tutto il divenire
umano. Di qui il dividersi del tempo in "avanti" e "dopo" Cristo; di
qui la tendenza degli storiografi medioevali a iniziare ogni "storia" (anche la
cronaca della propria città) da Adamo ed Eva, per inserire ogni vicenda nel piano eterno
della Provvidenza; di qui la centralità dei fatti e personaggi ecclesiastici
nellinsieme del groviglio di opere pacifiche e guerresche dellumanità (in
proposito si vedano Purgatorio, cc. 29-33 e Paradiso, c. 6, 1-111, che propongono una
sintesi di storia della Chiesa, dalla Incarnazione allesilio di Avignone, in cui il
senso dellimpero romano sta tutto nel realizzare la redenzione di Cristo e nel
preparare i tempi cristiani).
IL CATTOLICESIMO, RELIGIONE VOLUTA DA CRISTO COME SOCIALMENTE ORGANIZZATA, COSTITUITA
CIOE A MISURA DUOMO PERFETO.
Il cattolicesimo a) è la forma di religione che realizza anche la dimensione
"sincronica o sociale", propria delle attività tutte delluomo.
Costituisce, perciò,la perfezione della vita religiosa, perchè esaudisce anche quella
esigenza innata (la vocazione "spaziale o politica o sociale" appunto) che rende
possibile alluomo non solo la sopravvivenza, ma il progresso in ogni campo,
materiale e spirituale. b) La socialità implica tre fattori fondamentali: un fine unico,
la divisione dei compiti per raggiungerlo più celermente e più facilmente (con minor
fatica e con più prontezza) e lautorità che coordini la divisione delle funzioni e
ne garantisca la efficacia. Il fine della religione è quello del culto di Dio e della
salvezza dellanima attraverso la "giustizia" animata dalla carità; la
distinzione dei compiti coincide con la gerarchia (od "ordine") di poteri sacri
e di autorità, voluta da Cristo stesso tra gli "apostoli", i
"discepoli" e "coloro che crederanno per la loro parola", cioè tra
pastori e gregge e, allinterno degli stessi apostoli, tra Simone-Pietro e gli altri
undici: distinzione che si concreterà tra "clero" (parte scelta) e
"laòs" ( popolo), tra il successore di Pietro (il papa) e i successori degli
altri apostoli (i vescovi), con i presbiteri come delegati dei vescovi, i diaconi, ecc.
c)La fede nella Chiesa, come Corpo mistico di Cristo e "redentrice vicaria"
sulla terra, porta con sè quellossequio al papa, ai vescovi, ai sacerdoti che
permette loro di godere di autorità morale maggiore di quella dei potenti della politica;
che priverà Enrico IV di ogni potestà, una volta scomunicato da Gregorio VII e lo
condurrà alla penitenza di Canossa (1077) per ottenerne il perdono e la restituzione del
potere presso nobili e popolo. d) Di quale stima goda questa autorità, visto anche
lavallamento giuridico datole da Ottone I nel secolo X, lo si può intuire dal
problema che si impone come tormentoso e lacerante nel campo della esegesi su alcuni dati
rivelati e sul loro rapporto al diritto morale fondamentale. Con una disinvoltura
interpretativa davvero sorprendente (ma abituale nel Medioevo: ne riparleremo)da parte sia
guelfa che ghibellina si portano avanti fatti e frasi della Scrittura a sostegno del
"primato" della Chiesa (del papa) sul potere temporale o viceversa. Ecco un
"fatto scritturistico " spiegato "allegramente" secondo la scuola
esegetica alessandrina. La creazione dei due astri, maggiore e minore per la vita umana,
il sole e la luna (Genesi,14,19) viene riferita senzaltro alla istituzione dei due
poteri, quello religioso e quello civile, con opposte esegesi da parte dei due
schieramenti. La propensione alla armonizzazione in unità di tutto il reale ("il
vero, il buono e luno si implicano a vicenda: Verum, bonum et unum
convertuntur") portava ad intendere come senzaltro unificati nella
subordinazione i due poteri, come i due astri. Per i giuristi papali, il sole è la
Chiesa, incarnata nel papa, cui lo Stato, impersonato dallimperatore, è sottomesso.
Viceversa pensavano i giuristi filoimperiali (compresi quelli dello studio di Bologna, che
insegnavano secondo il Diritto romano: "quidquid regi placet, lex est" (tutto
ciò che piace al re è legge). La questione assunse momenti drammatici, quando Bonifacio
VIII emanò la bolla "Unam sanctam" (1302), che si chiude con una definizione
dogmatica ("Dichiariamo, diciamo, definiamo e pronunciamo che la sottomissione di
ogni creatura umana al Pontefice romano è di necessità per la salvezza"),cui
Filippo IV rispose con il tentativo di imprigionare il papa (oltraggio di Anagni). Tale
definizione, spiegata dallo stesso papa secondo un senso ortodosso (ogni creatura è
sottoposta al papa "ratione peccati", cioè la soggezione di ogni uomo al potere
spirituale riguarda solo lambito della vita morale, dipendendo dal potere di
assolvere o no i peccati degli uomini), letta però senza la dovuta acribia (senso
critico) poteva suonare come pretesa teocratica superbissima. E non vè dubbio che
nella mente del papa e dei suoi teologi (la "bolla" riprende il pensiero di
Egidio Romano, un discepolo di San Tommaso) la soggezione era intesa secondo
lestensione del pensiero di Gregorio VII ed Innocenzo III, cioè come potere di
scomunicare un imperatore indegno e di esonerarne i sudditi dalla ubbidienza: ma tale
intenzione allargata non viene definita dalla bolla. In favore una dominazione del papa
anche in campo politico fu interpretata anche una frase di San Paolo: "Luomo
spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno " (1
Corinzi, 2, 14-15). Nel contesto, il principio non si riferisce minimamente alla questione
del primato autoritativo del potere eccelsiastico su quello civile: ma la acrisia
(mancanza di senso critico) medioevale prevalse anche qui e condusse i guelfi clericali ad
intenderlo in tale senso. E fu unaltra carta di disorientamento messa in gioco.
Doveva arrivare Dante Alighieri (un non giurista, un non eccelsiastico!) a risolvere
equamente il problema con la teoria (che vedremo) dei "due soli", delle due
potestà pariteticamente sovrane nel loro ordine di finalità societarie. Ed anche un
versetto di Luca (c.22, 38: "Signore, ecco qui due spade. Ma Egli rispose:
-Basta-") fu tratto a significare i due poteri, spirituale e temporale, che Cristo
avrebbe concesso alla Chiesa. Anche qui si tratta di acrisia tipica medioevale: il
contesto parla di un diritto alla legittima difesa da parte degli apostoli di fronte alla
ostilità generale che sta per scatenarsi contro Gesù ed i suoi discepoli, nel giro di
poche ore la notte sul Venerdì di passione; o forse vuol solo sottolineare la assurda
gravità del momento. e) Naturalmente (e lo si è già detto) la Chiesa viene ad occupare
una parte predominante nelle vicende umane prese in considerazione dagli storiografi
medioevali. E vengono svalutati molti personaggi pur notevolissimi per intelligenza,
genialità artistica e persino per moralità fuori del Cristianesimo e della Chiesa. Così
si considera tempo sventurato e maledetto quello del paganesimo, del quale si dice
(Inferno, 1, 72): "al tempo degli dei falsi e bugiardi"; (Paradiso,8, 6):
"le genti antiche nellantico errore"; ivi, 20, 124-6: il troiano Rifeo,
esempio eccezionale di giustizia a Troia, viene illuminato da Dio e convertito alla fede
nella redenzione di Cristo venturo ("ondei credette in quella e non sofferse|
da indi il puzzo più del paganesmo:| e riprendeane le genti perverse"). Dei pagani
non si salva nessuno, se non per miracoloso intervento illuminatore di Dio: oltre al
troiano Rifeo (personaggio tratto da Virgilio -Eneide, II, 339, 394, 426-7), Dante salva,
attraverso una pia leggenda, anche limperatore Traiano (Purg., 10, 73-93 e Par., 20,
43-54 e 100-117), ma precisando che entrambi "dei corpi suoi non uscir, come credi|
Gentili, ma cristiani, in ferma fede...". Vengono così condannati allInferno
la sua stessa guida (Virgilio) e Socrate, Aristotele, Platone ecc. (Inferno, c.4). La
stessa grandezza di Roma, col suo impero più che millenario, in che cosa consiste? Ecco
il pensiero del Medioevo nei versi di Dante:"La quale e il quale, a voler dir lo
vero,| fur stabiliti per lo loco santo| u siede il successor del maggior Piero"
(Inferno, 2, 22-4). Quando si pensa che Dante stima poi moltissimo queste persone quali
poeti od artisti o condottieri (si veda lo stesso canto, ora citato, che è quello del
Limbo), si comprenderà il modo di pensare medioevale, non certo indifferente ai valori
terreni, intellettuali e morali, ma incapace di distinguere tra "oggettiva"
necessità della Redenzione di Cristo alla salvezza e responsabilità soggettiva della
persona, che rende implicitamente partecipi di tale Redenzione chiunque agisca secondo una
sua "sincera" coscienza morale. La mentalità medioevale è così saldamente
convinta dellobbligo di passare attraverso Cristo ( vivente ed operante nella Sua
Chiesa) per giungere alla salvezza eterna, da dimenticare quanto dice la lettera agli
Ebrei, che cioè il minimo richiesto per la salvezza è la fede in Dio e nella
Provvidenza, che si manifesta nel giudizio per la vita eterna (c.11, v. 6:
"credere...oportet accedentem ad Deum quia est et inquirentibus se remunerator
fit"). Non si è ancora scoperta la verità che "Dio non nega la Grazia a chi fa
quanto è in suo potere per la propria salvezza" (Facientibus quod in se est, Deus
non denegat Gratiam).
NOTABENE: GLI ASPETTI POSITIVI DI TALE CULTURA. Alcuni punti forza di tale cultura sono
fatti storici innegabili (come innegabili sono alcuni limiti): altri aspetti saranno
dibattibili in pro od in contro.
l) A civilizzare i barbari, Roma usava lesercito e poco più; cercava di mantenere
le distanze, sicchè dominatori e dominati stentavano a fondersi, quando non si
mantenevano ostili. La Chiesa medioevale usò i monaci per insegnare il lavoro; mise a
disposizione abbazie e curie episcopali per avviare scuole, aperte anche ai barbari;
insegnò e praticò a tal segno la fratellanza che portò, già nel 217 d. C., una persona
nata schiava al sommo pontificato (Callisto II: morto martire nel 224); scoraggiò la
schiavitù col suo insegnamento e prassi liturgica (alla mensa eucaristica non vera
distinzione tra padroni e schiavi), fino a farla scomparire e, quando i Germani la
reintrodussero con la servitù della gleba, fino a rifiutarla per principio e ad abolirla
giuridicamente.
2) Con linsegnamento e la pratica della carità, la Chiesa riuscì rappacificare
vincitori e vinti dopo le invasioni barbariche, facilitando matrimoni ed altri legami al
di là delle frontiere razziali o potestative. Limpero, carolingio prima e tedesco
poi, fu sì il tentativo di risuscitare l'mpero romano, ma fu ancor più il
rispecchiarsi nella vita sociale dellunità religiosa dei vari popoli battezzati. Si
giunse così a perseguire non solo lunità politica (un solo imperatore, come un
solo papa), ma anche linguistica (il latino, lingua della liturgia, era anche la lingua
ufficiale e dotta, non solo per la "romània", ma anche per la gothia") e
giuridica (il codice giustinianeo). Questa forza "rappacificatrice ed
unificatrice" della religione cattolica è celebrata dal Carducci nella Chiesa di
Polenta: "E qui, percossi e dispogliati anchessi| i percussori e spogliatori,
un giorno| vengano. Come ne la spumeggiante| vendemmia, il tino|| ferve e de colli
italici la bianca| uva e la nera, calpestata e franta| sè disfacendo, il forte e
redolente| vino matura;|| qui, nel cospetto a Dio vendicatore| e perdonante, vincitori e
vinti,| quei che al Signor pacificò, pregando,| Teodolinda;|| quei che Gregorio
invidi"ava a servi| ceppi, tonando nel tuo verbo, Roma| memore forza e amor
novo spiranti,| fanno il comune!"
3)E positiva si mostrò tale civiltà producendo una innumerevole schiera di santi
eccezionali, che furono i pilastri dellordine roman e/o la sorgente di un ordine
ripristinato in nome e nello spirito del Vangelo, cioè dellamore che sublima la
giustizia. Citiamo solo i più noti: Patrizio (390-460: conversione dellIrlanda);
Bendetto (480 ca-547ca, fondatore dei Benedettini, maestri di sapienza e di agricoltura a
tutta Europa), San Colombano e la schiera dei monaci irlandesi, missionari in Europa (540
ca-615), Bonifacio (missionario in Olanda, Germania del nord-est (673-754), Pier Damiani
(1007-1072: eremita e cardinale, consigliere di papi per la riforma del clero e dei
monasteri), Bruno(-ne: fondatore degli eremiti certosini: ca 1035-1101), Bernardo
(riformatore dei Benedettini, detti poi chiaravallensi, consigliere di papi, promotore
principe della seconda crociata: 1090-1153), Domenico (1170-1221: fondatore dei Domenicani
o frati predicatori), Francesco (1182-1226), Chiara (sua discepola: ca 1193- 1253),
Elisabetta dUngheria (seguace di S. Francesco da sposata e da vedova: 1207-31),
Alberto Magno (ca 1205-1280: domenicano, autore principe delladeguamento
dellaristotelismo alla fede cristiana), Bonaventura (ca1217-1274: guardiano generale
dei francescani), Tommaso dAquino (ca 1225- 1274: domenicano, il più grande dottore
della Chiesa), Brigida (svedese, fondatrice dellordine che porta il suo nome:
1302-1373), Caterina da Siena (domenicana: stimolo a papa Gregorio XI per il ritorno a
Roma:1347-1380); i santi re (Venceslao di Boemia: ca 907-936; Stefano dUngheria: ca
969-1038; Enrico II di Germania: 973-1024; Luigi di Francia: 1214-70). E van qui ricordati
i movimenti penitenziali o rinnovatori: quello dellAlleluia (ca 1230), dei
Flagellanti (ca 1260), dei servi di Maria (Alessio Falconieri e compagni: dal 1233, in
Firenze; Servi della B. V. Maria gloriosa, detti frati "godenti". 1233,
istituiti per garantire governanti onesti ai comuni italiani)....
4)Nelle arti non si deve credere che sia stata la temperie cristiana a generare gli stili
architettonici romanico e gotico. Larco e la volta, base della costruzione romanica,
erano invenzioni dellantichità greco-romana; logiva, base della architettura
gotica, era una scoperta musulmana. Ma fu ben cattolico listinto di costruire, con
lo sviluppo di simili princìpi, chiese prima che palazzi comunali o case private; fu
corollario di una religosità vivacissima quello di voler primeggiare nella grandiosità
della propria chiesa cattedrale o comunale (Bologna progettò il suo san Petronio più
lungo e vasto del san Pietro di Roma: ai 186 metri della basilica romana volle opporre una
chiesa di duecentoventiquattro, anche se si accontentarono poi di centotrentadue, al di
sotto dei centocinquntasette del duomo di Milano e dei centosettantacinque della
cattedrale exmoschea- di Cordova); fu effetto di uno spirito evangelico quello di
offrirsi volontari al lavoro per sconto di peccati pubblici di cui ci si era prima
confessati, con fatiche più degne di animali da soma che di carne battezzata. Del 1030 è
(linizio) della costruzione della cattedrale (romanica) di Spira, cui seguono nel
1050 Le Puy, nel 1063 Pisa, nel 1075 San Giacomo di Compostela, nel 1079 Wincester, nel
1087 San Nicola di Bari, nel 1099 Modena, nel 1131 Cefalù, nel 1153 Noyon, nel 1163
Notra-Dame di Parigi (già gotica), nel 1175 Caterbury. Il secolo XIII, come vide
moltiplicarsi lapertura di università, così assistette alla fioritura di decine di
cattedrali gotiche in tutta Europa. E, a parte la quantità di tali imprese edificatorie,
testimonia il valore della cultura cristiana medioevale la qualità estetica, che si
impone nei capolavori delle cattedrali di Chartres, di Reims, di Colonia, delle facciate
di Orvieto e di Siena, del campanile di Giotto e del duomo di Milano. E, in pratica, quasi
solo le chiese dettero lavoro a pittori e scultori: da Cimabue a Giotto a Duccio da
Buoninsegna; dai tre scultori "Pisano" (Bonanno, Nicola, Giovanni) a Giotto
(dalla basilica di S. Francesco alla cappella Scrovegni di Padova, a quelle Bardi e
Peruzzi, oltre al progetto del campanile, in Firenze). Quanto alla poesia, si è già
accennato alla Chanson de Roland, a Chrétien de Troyes,al Cantar de mio Cid (ca.1140), al
Dolcestilnovo ed al capolavoro dantesco. Lo stesso realistico Guglielmo IX, iniziatore
della lirica, apprese dai monaci di Tolosa a comporre musica e versi. Difatti
"trovare" (trouvier, trobador, trovatore) deriva da "tropare", che
designava linventare parole e melodia- per i versetti delle "antifone"e
per i versi delle "sequenze" liturgiche- da parte dei monaci. Si noti di
passaggio che frutto dellarte del "tropare" fu anche la musica
meravigliosa e la più bella composione poetica latina di tutto il Medioevo, cioè la
sequenza pentecostale "Veni, sancte Spiritus", dellarcivescovo di
Canterbury Stefano Langton (1150-1228).
5)Se la salvezza dellanima è ciò che più importa, allora la vita spirituale (le
attività che distinguono luomo dallanimale: pensiero e volizione, conoscenza
astratta e libero arbitrio, ragionamento e azione morale) viene stimata e sviluppata al
massimo, a costo di sacrificare le potenze e lattività emotive ed istintive
delluomo. Di qui, nel Medioevo, la stima, lamore, la passione non solo per la
vita morale, ma anche per lo sviluppo di quella intellettuale, intesa come ricerca della
verità in genere e specialmente come "filosofia", cioè studio sulla natura e
senso della vita, delluomo, del cosmo intero; e come teologia, cioè indagine sulle
verità religiose connesse con la sua eterna salvezza. Di qui una vera
"esaltazione" per la metafisica e per Aristotele (scoperto attraverso le
traduzioni arabe dal greco) che in sede filosofica aveva avuto le più profonde intuizioni
e aveva trasmesso la più organica sistemazione. Di qui il chiamare Aristotele
"maestro di color che sanno" (Inferno, IV, 131) ed anzi "il filosofo"
per antonomasia, fino a farsene un mito, una autorità come di "pensatore
infallibile", sulla cui parola si può giurare. Si noti fin dora che sarà
questo uno dei motivi della condanna di Galileo, incoraggiata dal fanatico aristotelismo
dei professori di filosofia a Padova (compreso qualche docente materialista come Cesare
Cremonini, aristotelico solenne che fece scrivere sulla propria tomba "hic jacet
Cremoninus totus"): la Chiesa in genere seguiva il dettato di studiosi per le
questioni scientifiche, sia nel ritenere umanizzato il feto solo dopo un certo periodo di
vita in seno alla madre, sia nellaccettare il sistema tolemaico per la astronomia.
Ma, a parte simili eccessi, viene da tale passione per il ragionamento la costruzione di
quella "cattedrale filosofica" che è la Somma teologica di San Tommaso: essa è
bensì la organizzazione del dato rivelato nella Bibbia in un sistema progressivo di
dottrine (dallesistenza e natura di Dio parte I-, alla vita sacramentale della
Chiesa- parte III-,attraverso lo studio della legge morale nella parte II), ma
"razionalizzato" al meglio attraverso lapplicazione e sviluppo dei
princìpi filosofici (per lo più aristotelici, anche se non unicamente). Ecco perchè il
pensiero filosofico tomistico può apparire "goticizzante": la trama, cioè la
parte più in evidenza, è quella teologica, ma lordito, cioè la parte portante è
quella filosofica, di una tale acutezza nella esposizione dei princìpi probativi, di una
tale vastità nelle questioni prese in esame, di una tale profondità nella coerenza dei
principi applicati alla soluzione dei problemi, di una chiarezza espositiva così
sorprendente e di una sobrietà così essenziale di linguaggio, da costituire un testo che
"misura il lettore dalla radice del naso in su", cioè costituisce un metro
della intelligenza per lo studioso di ogni tempo. Questa sfida alla capacità di
riflessione, di chiarificazione ed approfondimento degli interrogativi più disorientanti
per luomo rendono ancor oggi le sue opere il miglior testo di allenamento per la
facoltà raziocinante, il miglior esercizio di logica e di indagine filosofica. E ciò
rimane vero, nonostante singoli errori tanto clamorosi quanto trasparenti: dovuti in
genere alla disinformazione scientifica, pregressa alla riflessione filosofica, essi hanno
il vantaggio rispetto agli svarioni dei pensatori moderni- di essere ovvii, da tutti
individuabili, perchè non contrabbandono la loro fallosità sotto il fascino estetico di
formule ermetiche od ambigue: lamore alla verità si impone proprio anche per il
candore con cui il gioco del pensiero è condotto e, quindi, per lapertura al
riesame ed alla controprova (o falsificazione) da parte di chiunque.
6)Leffetto più clamoroso nel campo degli studi fu la fondazione degli "STUDI
GENERALI, ben presto chiamate "UNIVERSITA, per le "aggregazioni di
studenti" (da una parte) e di "docenti" dallaltra, prima che per la
"aggregazione di tutti i rami di sapere" (allinterno della
"università degli studenti" si formavano i gruppi delle "nationes",
cioè degli studenti appartenenti ad una stessa lingua od etnia). Del piano di studi delle
"Artes" si è detto: si poteva seguire tale corso anche fuori
delluniversità, che conosceva poi tre specializzazioni soltanto: diritto (per cui
era famosa Bologna), medicina (Salerno e Montpeller), teologia (Parigi). Le artes
divennero ben presto (1213) una facoltà a sè stante. Quella di teologia era la facoltà
più stimata, almeno in teoria: a Parigi, tutti gli studenti dovevano iscriversi al clero,
tanto che ben presto il termine "clericus" valse come "studente
universitario" e "clericus vagus" significò lo studente che passava da una
sede universitaria all'altra, non sempre per puro amore di sapere. A parte Salerno, Pavia,
Bologna, le università o erano fondate direttamente dal vescovo o trovavano in lui la
garanzia per la loro indipendenza di governo, contro ingerenze statali. Ecco una
cronologia sulla fondazione delle sedi universitarie medioevali. Si è già detto di Pavia
e Salerno, studi generali le cui origini risalgono a date molto antiche. Bologna sorge per
iniziativa privata del magister Pepo; poi, sotto Irnerio, ottiene lapprovazione di
Matilde di Canossa, signora della città; nel 1158 diviene università, prima del sorgere
di Parigi (1180). Poi è la volta di Cambridge (1209), Oxford (1214), Salamanca (1218),
Montpeller (1220), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Orléans (1229), Roma
(1244), Siena (1246), Piacenza (1248), Perugia e Coimbra (1308),Treviso (1318),Verona
(1339), Pisa (1343), Praga (1348), Firenze (1349), Cracovia (1364), Vienna (1365),
Heidelberg (1382), Colonia (1388), Lipsia (1409), Lovanio (1426), Basilea (1459), Tubinga
(1476), Uppsala (1477), Copenaghen (1479).
7)UNIVERSALITA ED EQUILIBRIO EMOTIVO. Alla prospettiva cattolica della esistenza va
imputato anche quella completezza di manifestazioni emotive, che armonizzano con le
complesse vicende della umana esistenza. La Bibbia ispira lidillio col Paradiso
terrestre e la nascita a Betlemme; offre occasione alla commozione e tenerezza nella
vicenda di Giuseppe venduto dai fratelli e chiamato dalla Provvidenza ad amministrare
lEgitto, nella vocazione di Samuele e di Eliseo, nella venerazione di Davide verso
lunto del Signore (il re Saul) che egli potrebbe uccidere due volte e che due volte
lascia in vita, nelle parabole del figliuol prodigo e del buon samaritano; piange
elegiacamente con Abramo che sale il monte Moria per offrire in sacrificio Isacco, con
Anna, la madre che implora un figlio da Dio (sarà Eliseo), con Gesù che piange su
Gerusalemme la settimana santa; presenta episo di tragica sofferenza, come la cacciata dei
progenitori dal Paradiso terrestre, luccisione di Abele, il diluvio e la dispersione
degli uomini dopo torre di Babele, la schiavitù in Egitto, le piaghe e la peripezia dei
quaranta anni nel deserto, con le varie disperazioni e ribellioni del popol (a cominciare
dal vitello doro), le sconfitte ad opera dei Cananei e dei Filistei fino a Davide,
le angosce dellesilio di Babilonia e le minacce e il pianto dei profeti, sino alle
fatiche per ricostruire il tempio e per combattere contro il persecutore Antioco IV nel
secondo secolo a. C., la Passione e morte di Cristo, infine; celebra epicamente la
onnipotenza di Dio e le vittorie concesse al suo popolo: i sei giorni della creazione, il
passaggio del Mar rosso, del Giordano, le vittorie sugli Amaleciti, su Og e Magog, le
profezie di Balaam (Numeri, cc. 22-4) e quella di Giacobbe sulla discendenza di Giuda, le
imprese di Davide contro Golia fino alla conquista di Gerusalemme, la figura e le opere
del profeta Elia e le predizioni consolatorie di Isaia sul glorioso ritorno
dallesilio di Babilonia, la trasfigurazione e la risurrezione di Cristo, la discesa
dello Spirito santo e la predicazione di Pentecoste... Educato da un simile complesso di
vicende e da una visione antropologica così spazzante (esauriente), il cristiano
medioevale è aperto a tutti i sentimenti e li sperimenta con lequilibrio di chi sa
di essere chiamato a vivere tanto i misteri gaudiosi che quelli dolorosi, come
preparazione di quelli gloriosi. La Divina Commedia è il poema che esprime questa
UNIVERSALITA ED ARMONIA degli stati danimo, in cui la gioia è temperata dal
timore del peccato e del castigo, la tristezza è consolata dalla fiducia nella
Provvidenza e nel trionfo finale del bene, il dramma è tragedia solo per i dannati
allinferno e lepopea è attenuata dalla coscienza che vittoria sarà solo
nella Vita futura, sicchè non diviene mai euforia ed esaltazione. Manca il riso nella
Bibbia, perchè la vita è incompleta quaggiù, dove prevale il senso dell impegno,
del servizio, della faticosa conquista di quella gioia finale, dove soltanto essa
diventerà "un riso delluniverso" (Paradiso, 3, 27, 4). Il Medioevo è
così predisposto al realismo (Inferno), al romanticismo (Purgatorio) ed al classicismo
(Paradiso): ciò che non capiterà mai più nella evoluzione della storia
rrdellOccidente, ove prevarranno a turno i vari stati danimo, senza mai più
attingere la completezza e la armonia di tutte le tonalità affettive delluomo.
GLI ASPETTI NEGATIVI, I LIMITI DELLA CULTURA MEDIOEVALE.
I principali difetti della cultura delletà di mezzo ci paiono questi: acrisia
filologica, acrisia storiografica, acrisia estetica, acrisia scientifica,
iperspiritualismo, Inquisizione (retaggio germanico di violenza?). Si tratta, in pratica,
di un unico difetto generale, la mancanza di "senso critico", che è
particolarmente accentuato in alcuni settori della conoscenza.. Sarebbe però più esatto
parlare di una "insufficienza di senso critico": una mancanza totale è forse
impossibile in quellanimale intelligente che è luomo. Il "senso
critico", poi, è la capacità a distinguere , a giudicare tra vero e falso, bello e
brutto, bene e male: "crìno" (greco) significa "distinguere|
giudicare" (in italiano ne è derivato anche "cribro| cribrare"=setacciare,
separare, distinguere cose materiali di diverso spessore o peso). Oltre alle cause
specifiche per ognuno dei settori di "acrisia" vi è una causa che li interessa
tutti. Si tratta della "disinformazione": quella "storiografica", è
carenza di notizie su personaggi-avvenimenti del passato; quella "scientifica",
è carenza di notizie sulla costituzione e funzionamento di molte realtà (dal cervello al
corso degli astri), notizie che solo il futuro avrebbe portato.
l) ACRISIA FILOLOGICA. Fu anzitutto il mancato padroneggiamento, la insufficiente
conoscenza della lingua latina (per tacere della quasi scomparsa dello studio della lingua
greca). Corollari ne furono: a) lillusione di scrivere il latino
classico-ciceroniano, pur avendo perso la capacità delluso delle infinitive (le
soggettive ed oggettive sono sostituite dal "quod" con indicativo, alla maniera
delle lingue romanze); b) il ritenere che la "grammatica", cioè il latino
studiato nelle scuole medioevali, non fosse mai stato una lingua viva, ma solo una
"convenzione fra dotti", onde possedere una lingua artificiale, ma universale e
cristallizzata, per esprimere concetti difficili con precisione, cosa impervia alle lingue
"volgari" (che, in compenso, erano credute parlate nei vari cantucci
dellimpero anche ai tempi di Cesare ed Augusto!); c) lincapacità a rilevare
eventuali errori nella copia del documento di studio, per una ingenua fiducia nella
tradizione manoscritta e per la pratica impossibilità ad accedere ad eventuali altre
copie con lezioni divergenti; d) la inabilità a "datare" un testo in base alla
lingua impiegata, cioè al tipo di latino usato, così da stabilire, in base al solo tempo
di composizione, il valore probante o meno di un certo documento (ne consegue la
incapacità a distinguere un documento storiografico autentico da uno falso o sospetto).
Tale acrisia filologica ricade in acrisia storiografica, perchè impedisce, alla fin fine,
di distinguere quel tanto di verità che lo scritto può sempre contenere dalla sua
eventuale deformazione interessata o totale tradimento. Non è quindi sempre possibile
separare nettamente "acrisia filologica" ed "acrisia storiografica".
In questo settore, il caso più clamoroso fu la accettazione ingenua (acritica) della
autenticità della cosiddetta "Donazione di Costantino", a papa Stefano I (che
lo avrebbe guarito dalla peste), di tutta la parte occidentale dellimpero romano.
Tale "Constitutum Constantini" risulta ormai che fu compilato nella seconda
metà del secolo VIII; entrò nel secolo IX nella collezione pseudoisidoriana delle
"false decretali" ed è stato usato solo a partire dal secolo XII a sostegno del
dominio temporale dei papi. La più recente ipotesi circa la sua origine lo vuole
"una compilazione agiografica, messa ssieme in un ambiente greco, come era quello di
San Silvestro in Capite, dove si erano stabiliti monaci greci fuggiti dallOriente
per le persecuzioni iconoclaste. Solo molto più tardi e praeter mentem auctoris (al di
fuori della intenzione dellautore), la parte dispositiva cessa di avere semplice
valore encomiastico e viene chiamata a fondare preminenze e sovranità che per
laddietro non si attribuivano a concessioni imperiali, bensì di Cristo e di S.
Pietro". Qualunque sia il fine e il luogo di origine del documento, è rivelatore di
acrisia filologica il fatto che il solo dato della lingua latina (tardiva ed abnorme
rispetto a quella ancor classica del tempo di Costantino) non abbia smascherato
immediatamente la falsità dello scritto, che fu invece accettato praticamente da tutti
gli studiosi medioevali. Solo Ottone III, Federico Barbarossa (cioè, i loro consiglieri),
Nicola Cusano e Lorenzo Valla rifiutarono la sua autenticità: il Cusano e il Valla con
argomenti convincenti (sec. XV: siamo in pieno Umanesimo).
A parte questo caso mastodontico, vi sono ancora le "False Decretali",composte
fra lanno 847 e 852 in territorio francese (il luogo più sospettato per
falsificazioni è la curia di Reims???), per difendere lautorità ecclesiastica di
fronte alle invadenze dei re carolingi (Carlo il Calvo). Esse conglobarono anche il
Constitutum di cui si è parlato; e questa collezione fu accolta da tutto il Medioevo come
un insieme di testi autentici, quasi fossero emanazione di imperatori e papi!
Vogliamo aggiungere un caso singolare di acrisia filologica: è quello della
interpretazione della Bibbia alla maniera di fra Salimbene de Adam (francescano: 1221-
dopo 1288). Che già nellantichità esistessero due scuole di "esegesi"
biblica, di cui quella di Antiochia era realistica e stava anzitutto alla lettera del
testo sacro, mentre quella di Alessandria era simbolica e allegorizzante, daccordo;
che fra i padri della Chiesa, Agostino stesse con Antiochia nei suoi commenti, mentre
Ambrogio optava per Alessandria, è pure noto: ma che si arrivasse al punto di voler
vedere profezie sulle vicende politiche ed ecclesiastiche del proprio secolo nelle parole
dellAntico e del Nuovo Testamento, questo diventa ridicolo! Eppure è quello che fa
la Chronica di fra Salimbene da Parma che scopre nella Bibbia predizioni di singoli
incidenti nellla lotta tar limperatore svevo e la Chiesa. Per dimostrare, poi,
essere Federico II lanticristo predetto da San Paolo, non esita a mettere assieme
passi della Scrittura, delle sibille pagane (Eritrea, Tiburtina...) e degli scritti
autentici ed apocrifi dellabate Gioacchino da Fiore. Conclusione: con Federico II
finisce la seconda età (quella di Cristo, cioè del Figlio incarnato; e della Chiesa col
clero diocesano, non abbastanza santo: è quella che segue letà prima, quella del
Padre nellAntico Testamento) e inizia la terza età, quella dello Spirito santo
(età della perfezione, del clero soltanto più religioso, in cui la umanità sarà
finalmente tutta santa e ci si avvierà alla fine del mondo). Eppure egli si rivela una
mente vivace, arguta, curiosa ed acuta nei giudizi su personaggi a lui contemporanei:
risulta così un critico esigente sulla realtà storica sperimentata, ingenuo e fantastico
nel leggere i documenti delle epoche antiche, specie delle pagine sacre della Bibbia. Egli
ha spirito critico per la realtà umana che contatta direttamente; ne è privo ancora per
fatti e personaggi letti e trovati nelle fonti manoscritte. La disinformazione storica si
rivela così frutto di uno spirito acritico generale, sul tipo di quello di don Ferrante
nei confronti delle notizie scientifiche di Plinio il vecchio (Pr. Sp., c.27): tale
mentalità disarmata si manifesta anzitutto come mancanza di ogni sospetto circa il valore
della fonte (scritta od orale) che tramanda le notizie; o nellinterpretarla in
maniera cervellotica. Era una incapacità di giudicare in campo filologico, prima che
storiografico. Anche le citate letture del "sole e della luna" in Genesi,1,14-18
e delle "due spade" in Lc. 22,38 testimoniano di un disorientamento critico
disperato. Si ricorderà che, di questo passo, il titolo di manuali contenenti le vite di
santi, "da leggersi" (in latino "legenda") durante i pasti dei monaci,
passò a significare racconto inventato, falso, cioè "leggenda"!
2) ACRISIA STORIOGRAFICA. Di "leggende" il Medioevo non ne fabbricò solo nel
campo santorale: basta leggere il "Novellino" per accorgersi del disorientamento
di uomini, pur aspiranti ad una certa cultura, circa personaggi e fatti dellepoca
precedente a quella loro contemporanea. E come se la storia antica, benchè
grandiosa in sè e necessaria per comprendere le istituzioni più elementari o più
fondamentali della società in cui vivevano, fosse un labirinto inesplorato, in cui
emergesse ogni tanto qualche scintilla di luce, con cui illudersi di capirne il disegno;
qualche traccia, da cui arguire una via duscita. In realtà i personaggi sono
ambientati nelle istituzioni, nella cultura contemporanea allo scrittore: di riuscire ad
ambientrasi nel mondo passato non cè indizio. Così Narciso è un cavaliere
medioevale; Socrate, un cittadino romano; Pitagora, un personaggio spagnolo; i Romani,
contemporanei di Alessandro Magno, contro cui hanno combattuto... Leggendo il Novellino si
ha la impressione di navigare senza bussola cronologica: luniverso storico è
appiattito allorizzonte del presente medioevale. Naturalmente, maggiore è il
bagaglio culturale, minori sono gli abbagli storiografici. Ma anche uno degli spiriti più
profondi di ogni tempo, Dante Alighieri, accetta leggende sbalorditive. Romeo da Villanova
(nato circa il 1170) fu, nella storia, primo ministro, conestabile e gran siniscalco del
conte di Provenza Raimondo Berengario IV e rimase amministratore della contea alla morte
del suo signore nel 1245, riuscendo a far sposar e la figlia Betarice con Carlo
dAngiò. Morì in Provenza cinqu anni dopo. Ma ecco i dati leggendari messi in versi
dal sommo poeta: Romeo è accettato dalla voce popolare come un pellegrino che, di ritorno
da Compostela e capitato in Provenza, viene fatto dignitario di corte da Raimondo
Berlinghieri, signore del luogo. Fra gli altri benefici a lui fatti, cè il
matrimonio con eredi regali di tutte e quattro le figlie. Ma non basta questo a
conservargli la fiducia di Raimondo, che scaccia il calunniato ministro, costringendolo a
morire povero e mendicante. E ancora: assieme a tutta la "intellighenzia"del
tempo, Dante accetta da San Tommaso (S. T., Suppl., q.71,a.5) la leggenda
sullimperatore Traiano, che si trova anche in Novellino 69 e che è una
interpretazione cristiana di un particolare, narrato nella Storia romana di Dione Cassio
Cocceiano ( XIX, 5). Lumiltà di quel grande, che non avrebbe esitato a differire
una spedizione militare per far giustizia ad una povera donna (Purgatorio, 10, 73-93),
avrebbe indotto S. Gregorio papa a intercedere per la sua salvezza eterna, richiamando
lanima di Traiano dallinferno (Paradiso, 20, 100-117). Si è già detto che il
campo del disorientamento storiografico non è solo quello santorale. Bisogna però
ammettere che fu quello più fecondo di fantasticherie. Vi furono santi inventati di sana
pianta (Cristoforo è un caso notevole, ma non è lunico nome cancellato
dallaggiornamento legato al Concilio Vaticano II del 1962-5); ve ne furono molti
esistiti certamente, ma la cui biografia si è gratuitamente arricchita nellAlto
Medioevo di fatti straordinari, di miracoli affascinanti. E che la fede giocasse una parte
nel far accettare troppo facilmente il "soprannaturale", non si può negare. Si
pensi, ad esempio, che ancora alla metà del milleduecento, Jacopo da Varazze (da
Varagine: ca. 1228-1298), frate domenicano e vescovo di Genova, scrive la "Legenda
aurea" (o "Legenda sanctorum") con tutta la buona volontà di eliminare
dalle biografie tramandate dallantichità quanto i giullari vi avevano inserito di
troppo inverosimile e fiabesco, salvo poi ad accettare dalle fonti latine ogni fatto
miracoloso, senza alcuna preoccupazione documentaria. Qui ci si accorge che le
"invenzioni" non nascono da malizia o da calcolo, ma da una semplicità di fede,
che estendeva troppo facilmente larea dellintervento divino nelle vicende
storiche (od aveva paura a negare il miracolo, per timore di venir meno alle esigenze di
una fede scrupolosa). E partendo da simile infantilismo credulo, che il prossimo
Umanesimo griderà allo scandalo e, a sua volta acritico circa i meriti sia pure limitati
dei migliori studiosi di quei secoli, darà la croce addosso ai propri padri nella cultura
(complesso di Edipo, solito in campo intellettuale!), perchè non erano riusciti ad
impossessarsi di tutto il bagaglio storiografico, che essi finalmente avevano ora il tempo
di ricostruire con viva preoccupazione critica! Ma non si accorgevano che già uomini
"creduloni" come Jacopo da Varazze e fra Salimbene da Parma erano spiriti
critici sia pur incompleti: entrambi (lo si è detto ) cominciano a comprendere che le
inverosimiglianze sono accettabili solo per fede e che, perciò, vanno rifiutate tutte
quelle che con la fede non hanno riferimento. E grazie alla loro inziale opera di
"discernimento", allo sgombero delle astruserie più gravi da loro effettuato,
che si prepara il terreno ad un senso critico maggiore, ad una libertà di giudizio ancor
più coerente. Ed ecco, però, in Giovanni Villani (ca. 1280-1348), un laico che scrive la
"Cronica" della sua città di Firenze rivelando una ingenuità tanto simpatica
quanto inaffidabile. Gli capita di aver più "fede" lui nei miracoli attribuiti
alla Madonna posta nella loggia dellOrto di San Michele (Orsanmichele) che non i
frati francescani e dominicani (Cronica, 7, 154); e di accettare la leggenda guelfa su
Federico II, fatto nascere demoniacamente da una untracinquantenne Costanza
dAltavilla, forzata ad essere sposa ad Enrico VI. Intendiamoci: era davvero già in
convento, come monaca, ma fu regolarmente dispensata dai voti; era davvero piuttosto
anziana, per i criteri sponsali del tempo (ultratrentenne: Enrico VI aveva ventanni
solo), ma pur sempre in età da essere regolarmente madre. Ed anchegli (con Dante e
Dino Compagni) condivide pacificamente il principio che chi perde è dalla parte del torto
ed è punizione divina la sua sconfitta: "E perchè molti fecero questione chi avesse
il torto della discordia dalla chiesa allo impero..: per dimostrazione di miracolo divino
si mostrò apertamente che lo impero ebbe il torto palese e Dio ne mostrò aperta e
visibile vendetta sopra lui e sua progenie dopo il suo mal fare" Davvero non si
trattava di "acrisia agiografica" soltanto, ma di "acrisia
storiografica" in genere: il Medioevo manca troppo spesso di prospettiva diacronica,
cioè quasi mai possiede sufficienti notizie sul passato e, praticamente, mai la chiave
per leggerne i documenti con acume razionale adeguato.
3) ACRISIA ESTETICA. Significa, ci pare, soprattutto tre cose: insufficiente interesse per
la facoltà emozionale delluomo; conseguente abbaglio sulla natura della attività
estetica od artistica; poco interesse per la "psicologia", cioè poca attenzione
al complicato intreccio di componenti razionali e fattori emotivi nelle azioni
delluomo. Vediamo i singoli casi.
a) Intanto non ci si sofferma sulla distinzione tra emozioni ed istinti, riconducendo
tutta questa attività alle "passiones| pathèmata". Ciò dipende sicuramente da
assenza di nozioni fisiologiche (questo tipo di "acrisia" è riconducibile,
quindi, a quella scientifica) adeguate, che arriveranno daltronde, soltanto nei
primi decenni del secolo ventesimo. Se in questo poco interesse abbia lo zampino anche la
diffidenza che la fede nel peccato originale induceva nei confronti della sfera
neurovegetativa (ed animale: quella emozionale ed istintiva, appunto) delluomo,
questo è un problema la cui soluzione affidiamo all"oltranza" di indagine
nella sfera dellinconscio, propria di freudiani e psicanalisti, specializzati sempre
nel "superare coloro che stanno inseguendo". A noi basta non aver esclusa questa
eventuale "concausa" secondaria. b) Da tale ignoranza-trascuranza nasce quella
interpretazione intellettualistica del fenomeno "arte", per cui essa viene
intesa nel Medioevo come sinonimo di "artigianato", cioè come tecnica puramente
razionale e, perciò, riconducibile a regole ed insegnabile. Per testimonianze, nelle
opere maggiori di filosofia scolastica, si vedano le stesse pagine del nostro libro
"Musica in parole", citato nella nota sessanta. Una volta intesa larte
come "tecnica", il traslocamento di quella verbale alla sfera della dottrina,
della filosofia non è difficile. Di qui lillusione dello stesso Dante che il valore
del suo poema dipendesse dalla profondità delle idee esposte, anche attraverso le
"allegorie". Basterà leggere i severi ammonimenti del poeta a penetrare il
senso della sua simbologia (Inferno, 9, 61-3; Purgatorio, 8, 19-21, ecc.) e la lettera a
Cangrande della Scala, in cui linteresse del Paradiso pare dipendere tutto dalla
comprensione della sua allegoria. Sembra quasi che Dante voglia farsi perdonare di avere
scritto il capolavoro assoluto della poesia umana, anzichè un trattato di filosofia o
teologia... c) E, probabilmente, dalla stessa ignoranza-trascuranza (oltre che da
propensioni innate, meno geniali, poniamo, che in Petrarca) deriva quella scarsezza di
notazioni psicologiche che è stata rimproverata alla Divina Commedia. Non che ivi
manchino del tutto. Ma non sono frequenti, come ci si aspetterebbe. Per comprendere bene
il problema, ricorriamo a citazioni che documentano nel poema le non frequenti descrizioni
dirette dellanimo dei personaggi. Ecco Inferno, 9, 10-15 (Virgilio si turba per il
ritardo nellarrivo dellangelo soccorritore contro i demoni della città di
Dite): "Io vidi ben sì comei coperse| lo cominciar con laltro che poi
venne,| ma nondimen paura il suo dir dienne,| perchio traeva la parola tronca| forse
a peggior sentenza che non tenne". Un altro caso "infernale" è quello di
16, 106-23 (siamo sulla soglia dellottavo cerchio, quello della malizia, che è
custodito dallimmagine della frode, Gerione): "Io aveva una corda intorno
cinta| e con essa pensai alcuna volta| prender la lonza alla pelle dipinta.| Poscia che
lebbi tutta da me sciolta,| sì come il duca mavea comandato,| porsila a lui
aggroppata e ravvolta;| ondei si volse invèr lo destro lato,| e alquanto di lungi
dalla sponda| la gittò giuso in quellalto burrato.| -E pur convien che
novità risponda-| dicea fra me medesmo al nuovo cenno| che il maestro con
locchio sì seconda.-| Ahi, quanto cauti gli uomini esser denno| presso a color che
non veggon pur lopra,| ma per entro i pensier miran col senno!| Ei disse a me:
-Tosto verrà di sopra| ciò chio attendo e che il tuo pensier sogna;| tosto convien
chal tuo viso si scopra". In Purgatorio, 3, 1-13 abbiamo il rimorso di Virgilio
per essersi lasciato affascinare dal canto di Casella, rimorso colto nelle sue
manifestazioni più ovvie, ma pur sempre sorprendenti: "Avvegna che la subitana fuga|
dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga,| io mi restrinsi
alla fida compagna:| e come sare io sanza lui corso?| chi mavria tratto su per
la montagna?| Ei mi parea da se stesso rimorso:| o dignitosa cosci"emza e netta,|
come tè picciol fallo amaro morso!| Quando li piedi suoi lasciar la fretta,| che
lonestade ad ogni atto dismaga,| la mente mia che prima era ristretta,| lo intento
rallargò, sì come vaga...". Nei versi 79-93, vi è la psicologia dello stupore per
la presenza corporale di Dante nellOltretomba, rivelata dallombra che egli
proietta: "Come le pecorelle escon dal chiuso| a una, a due, a tre e laltre
stanno| timidette atterrando locchio e il muso | e ciò che fa la prima, e
laltre fanno,| addossandosi a lei, sella sarresta,| semplici e quiete e
lo mperchè non sanno;| sì vidio muovere a venir la testa| di quella mandra
fortunata allotta,| pudica in faccia e nellandare onesta.| Come color dinanzi vider
rotta| la luce in terra dal mio destro canto,| sì che lombra era da me alla
grotta,| restaro e trasser sè indietro alquanto;| e tutti gli altri, che venieno
appresso,| non sappiendo il perchè,| fenno altrettanto". Infine, in 21,103-120
sorprende piacevolmente il groviglio di sentimenti che si agitano nei tre poeti, quando
Stazio celebra i meriti di Virgilio, che egli ignora essere ivi presente come guida di
Dante: "Volser Virgilio a me queste parole| con viso che, tacendo, disse
Taci-;| ma non può tutto la virtù che vuole;| chè riso e pianto son tanto
seguaci| alla passion da che ciascun si spicca| che men seguon voler nei più veraci.| Io
pur sorrisi come luom chammicca;| per che lombra si tacque e
riguardommi| negli occhi, ove il sembiante più si ficca;| e Se tanto labore in bene
assommi-| disse-, perchè la faccia tua testeso| un lasmpeggiar di riso dimostrommi?-| Or
son duna parte e daltra preso;| luna mi fa tacer, laltra
scongiura| chio dica; ondio sospiro, e sono inteso| dal mio maestro; e
Non aver paura-| mi dice- di parlar; ma parla e digli| quel chei domanda con
cotanta cura". Belle eccezioni, ripetiamo, che fanno spiacere di più la rarità di
simili analisi. Assenza che caratterizza un po tutto il Medioevo: la psicologia
manca al Novellino, che è interessato ai fatti molto più che ai personaggi ed ai suoi
stati danimo; e trova ancora troppo poco spazio nel Decameròn, che costruisce delle
novelle sulla magia e, quindi, sullinverosimile e sullantipsicologico per
eccellenza. Pure qualche sforzo di penetrazione cè, come nella novella di
Andreuccio da Perugia. Croce lha analizzata come espressione del passaggio dalla
ingenuità alla scaltrezza; ma occorre molta "buona volontà" da parte del
lettore per leggervi una simile metamorfosi psicologica. In realtà la novella fa parte
delle molte ispirate alla "Fortuna" od al "caso"; e il suo interesse
nasce dalla "peripezia dei colpi di scena", cioè dalla "meraviglia"
per la circostanza imprevedibile, che capovolge la condizione del protagonista, al di
fuori dei suoi calcoli e progetti. La situazione economica di Andreuccio muta in meglio
per puro "caso", nonostante la sua dabbenaggine, che lo porta ad associarsi ai
primi avventurieri che incontra. La prima avventuriera (e soci) lo deruba e tenta
ucciderlo maldestramente; altri malviventi lo aggregano alla ribalderia di un furto
sacrilego in chiesa. Daccordo, egli approfitta delleccesso della loro malizia
(lo vogliono chiudere in un sarcofago, dove lo hanno introdotto per derubare un
ecclesiastico sepolto con preziosi indosso), per seppellirvi i suoi complici occasionali e
aspiranti carnefici. Ma questo avviene non per calcolo preventivo, ma per necessità
estrema della situazione: la sua non è furbizia, ma operazione da disperato che agisce
per legittima difesa in circostanze tragiche. Di "risveglio psicologico" in
Andreuccio ve nè ben poco: la novella, una volta conosciuta la peripezia, chi la
rilegge più? Bisognerà aspettare Petrarca per ritrovare un maestro di lettura
dellanimo umano.
4)ACRISIA SCIENTIFICA. Gli antichi, dagli Egiziani ai Babilonesi, da Talete a Pitagora, da
Aristotele a Tolomeo, da Euclide ad Archimede avevano fatto progredire gli studi della
geometria e della astronomia; oppure avevano collezionato le comuni convinzioni sulla
medicina (Ippocrate, Galeno). I Romani avevano affastellato con Plinio il vecchio (23-79
d. C.) verità e favole su ogni campo dello scibile esplorato più o meno criticamente: la
"Naturalis Historia", in 37 libri. Il Medioevo si accontentò di conservare
quello che gli arabi spagnoli traducevano dal greco e che la scuola di Toledo riportava
poi in latino. La nuova numerazione venne dallIndia, sempre tramite gli Arabi, cui
si deve, in proprio, il nuovo ramo della geometria detto trigonometria. Di novità, gli
Occidentali ne introdussero bensì sul piano tecnico, per i lavori (finimenti per animali
da soma, aratro moderno, sestante, gualchiere per rassodare la lana, fusione delle
campane, orologio meccanico da torre...) o su quello sperimentale (scoperta del
magnetismo), ma sul piano teoretico occorrerà aspettare il sec. XVI per le formule di
soluzione delle equazioni fino al quarto grado. Il più formidabile organizzatore del
sapere scientifico in quella età fu S. Alberto Magno, che operò con i criteri da
collezionista scrupoloso e da curioso dilettante sul tipo dellopera di Plinio.Egli,
vissuto fra il 1205 circa e il 1280, dedicò gli ultimi trentacinque anni della sua vita a
scrivere 23 opere, che vanno dalle nozioni di fisica alle osservazioni sulla natura del
sonno e della respirazione, dallo studio sulle varie età delluomo (con notazioni
sulla sua vita e morte), ai ventisei libri sugli animali ed ai sette sui vegetali! E
una vera "summa de creaturis" (enciclopedia sul creato),ma è sostanzialmente
opera di divulgazione. Egli parafrasa le conoscenze di Aristotele (sulla traduzione di
Gherardo da Cremona e di Michele Scoto), rendendosi benemerito a tutto loccidente
per lo scopo dichiarato di divulgare la scienza (Fisica, libro primo): tale opera rimase
in circolazione fino al secolo XVII, proprio perchè utile (fa parte della biblioteca di
don Ferrante, stando al malizioso catalogo che ne ha inventato Manzoni nel c. 27 del
romanzo). Non che manchino integrazioni ad Aristotele, con notizie da Platone e da altre
fonti, greche, giudaiche e latine; non che sia del tutto assente una intenzione critica
(egli confuta Aristotele dove è in contrasto col pensiero cristiano; suggerisce sue
soluzioni a problema ancora aperti). Ma quello che scarseggia è la acutezza critica:
nessun principo nuovo, nessuna grande visione che rivelasse metodi, criteri di indagine
per il futuro. Ad esempio egli non supera il tradizionale punto di vista che ,
distinguendo nettamente la teologia dalla filosofia per la diversa origine delle loro
certezze (lautoirtà di Dio, per la prima; la sola ragione, per la seconda),
mantiene unite filosofia e scienza per il comune strumento (la ragione appunto) della
indagine, non accorgendosi che il metodo filosofico-matematico è per lo più deduttivo,
mentre induttivo è, per lo più, quello delle scienze sperimentali. Ed è questo ora
accennato lastigmatismo di fondo, se non la sorgente prima della "acrisia
scientifica". Ne discendono o vi sono connessi gli errori piccoli o clamorosi della
scienza medioevale. Tra i casi solamente divertenti, vi è quello della melanzana,
ritenuta fonte di pazzia ("malum insaniae", cioè mela della follia); tra quelli
destinati a divenire tragici, la accettazione del "sistema geocentrico", che
vedeva la terra ferma al centro delluniverso ed il sole, anzi il cielo tutto ruotare
attorno ad essa, secondo un assurdo gioco di percorsi in avanti od a ritroso delle varie
parti del cielo, come aveva vittoriosamente proposto Tolomeo, scienziato alessandrino del
secolo secondo dopo Cristo, nella sua opera "Almagesto" ( nome arabo usato nel
M.E.: in greco il titolo era "Megàle Syntàxis", cioè "grande
coordinamento del sapere", enciclopedia). Per ladesione medioevale, si può
vedere la Somma Teologica, p. 1, q. 2. a.3 ; il Convivio di Dante, primi capitoli del
secondo libro; Commedia, passim. Connesso con questa "svista" mastodontica"
sta laltro errore (di derivazione anchesso greco-aristotelica) sulla natura
"spirituale" e "incorruttibile" dei corpi celesti: si può leggerla in
Somma Teologica, parte I, q. 66, a. 2; parte terza, Supplemento, 74, 4 e 91, 2, 5; in
Dante, Convivio, II, 14; Commedia, passim e Paradiso, 2, 46-105. La edizione leonina della
Somma rimanda ai vari passi aristotelici (Metafisica, libro 5, text. 10 e 26; De
generatione, 1, 50; De coelo, 1,5). E, sempre in tale contesto, viene accettata anche la
dottrina (resa immortale da Manzoni nel ragionamento di don Ferrante alla fine del c. 37)
dei quattro elementi fondamentali del mondo (fuoco, aria, acqua, terra), cui va aggiunto
il "quinto elemento", appunto la materia incorruttibile dei cieli (cfr.i passi
citati per la differenza tra corpi terrestri e corpi celesti).
5) IPERSPIRITUALISMO. Non si deve imputare al vivo senso del primato di Dio,
dellanima e del fine spirituale della vita (anzi "soprannaturale", cioè
divino, perchè connessosia pure accidentalmente- con Dio stesso) la credenza nella
spiritualità della materia del cosmo extraterrestre: era proprio una illusione ereditata
dalla scienza profana dellantichità. Neppure si può farne discendere gli errori
iperspiritualistici condannati dalla Chiesa come eresie e perseguiti anche con la violenza
della Inquisizione, alleata al braccio secolare: il catarismo ed il pauperismo. Il primo
movimento deriva dal manicheismo persiano e, attribuendo al demonio la creazione di tutto
ciò che è materiale, giungeva a dichiarare illeciti e peccato sia il cibo che il
matrimonio che il danaro. Non bastando le condanne del Concilio ecumenico Lateranense III
(1179), contro gli Albigesi (Catari di Provenza) fu scagliata da Innocenzo III la crociata
(1208-9) che sradicò, con leresia, anche la lingua e letteratura occitanica. Il
Concilio Lateranense IV del 1215 ribadì poi la condanna. Il pauperismo era invece una
eresia più ristretta e basata, in apparenza, sul Vangelo: Cristo Gesù, proclamando beati
i poveri (Lc., 6, 20) e inviando i discepoli senza borsa e senza danaro (Mt. 10, 9-10; Lc.
10, 4-5), avrebbe proibito alla Chiesa ed agli ecclesiastici di possedere beni terreni.
Dapprima sorse Pietro Valdo, in Francia ("i poveri di Lione": condannati già
nel 1184 nel sinodo di Verona); poi ci si provò lala più radicale del
francescanesimo, che trovò nel ministro generale dei Minori, Michele da Cesena un
sostenitore (fu, perciò, scomunicato da papa Giovanni XXII nel 1328).Questo va detto,
senza nulla togliere al carattere di evangelica contestazione che pur ebbe la libera
scelta di una esistenza povera da parte di San Francesco e San Domenico, che in una
mortificazione da brividi (si proibivano di accettare elemosine in danaro; di avere due
vesti, di portare calzature, di dormire su un pagliericcio...) volevano sottolineare con
forza quale fosse, secondo il Vangelo, la via più sicura per assicurarsi la salvezza
eterna; e richiamare la necessità per tutti della virtù di temperanza nelluso e
nella ricerca della ricchezza, per pervenire allo stesso traguardo della sequela di
Cristo.
I princìpi di spiritualità cristiana citati hanno invece influito su altri errori tipici
del Medioevo, anche ortodosso. Il principale fu certo quello della condanna del prestito
ad interesse: il termine "usura" aveva nel Medioevo questo semplice significato,
proprio della lingua latina. Di usura nel senso di "prestito ad interessi eccessivi,
da usuraio" si parlerà solo nei tempi moderni, quando il pregiudizio contro il
prestito a interesse ragionevole sarà decaduto. Ci si crederà sentendoci dire che la
base ppiù impellente di tale posizione iperspiritualista viene dal mondo pagano, da
Aristotele? E lui che dà la motivazione filosofica, ad esempio in Politica, l. 1,
c. 7 ("usuraria acquisitio pecuniarum est maxime praeter naturam"), citata da
Somma Teologica (parte) II, (della parte) II, q. 78, a. 1. Solo luomo col lavoro
merita il salario (il danaro), mentre il danaro non genera danaro. Gli argomenti ricavati
dallAntico Testamento sono già discutibili: la proibizione riguarda solo i fratelli
del popolo di Israele, ma non gli stranieri, cui è lecito prestare ad interesse (Esodo,
22, 25; Salmo 15, 5; Ezechiele,18, 8). Nel Nuovo Testamento, solo Luca, 6, 35 ha il
"consiglio" (non il precetto universale, ma la raccomandazione libera) di
prestare senza sperare ricompensa. I padri della Chiesa sono piuttosto pesanti contro il
prestito ad interesse, ma è un modo di difendere i poveri: non ne fanno un dovere
assoluto. E notevole che, con un appoggio filosofico così massiccio, con una
opinione pubblica tanto consenziente in teoria quanto transigente nella pratica (anche
perchè, se il dare ad interesse era ritenuto ovviamente illecito, altrettanto ovviamente
era ritenuto lecito chiederlo, spinti dalla necessità) non si sia giunti ad una
definizione dogmatica. Non che condanne della "usura" siano mancate: si comincia
con S. Leone Magno (Lettera del 10 Ottobre 443 ai vescovi della Campania, Toscana, Piceno:
cfr. Denzinger-Scho"nmetzer, Enchiridion Symbulorum, definitionum et declarationum,
Barcellona, Herder, 1973, numeri 280-1); si continua con Innocenzo II (1139:Concilio
ecumenico Lateranense II, canone 13: Denz. Scho"nm., 716), per finire con Benedetto
XIV (Enciclica "Vix pervenit" ai vescovi dItalia, del 1 Novembre 1745:
Denz. Scho"nm: 2546-50). Ma non vi è mai stata una definizione dogmatica esplicita:
il Concilio Lateranense II del 1139 condanna bensì solennemente, ma non lusura in
se stessa, bensì la "insaziabile rapacità degli usurai". Un credente potrebbe
vedere in tale "depistaggio" delloggetto di condanna un motivo per credere
che davvero lo Spirito santo assiste il magistero della Chiesa, visto che le impedisce di
definire quello che pure era nelle intenzioni di papa Innocenzo II come di tutti i vescovi
del Concilio (per non parlare della fede comune del tempo), cioè la illiceità del
prestito ad interesse, dirottando " sapientemente" la condanna del canone
conciliare dalla pratica del prestito ad interesse allavidità dei prestatori. A
questo modo, lerrore resta imputabile agli uomini di Chiesa del tempo (fino a
Benedetto XIV: con Pio VIII, latteggiamento diviene più possibilista e realista:
Risposta al vescovo di Rennes, in Francia, del 18 agosto 1830: Denz. Scho"nm.
2722-4).
LA INQUISIZIONE O LA VIOLENZA CONTRO GLI ERETICI. La Chiesa ha praticato la condanna anche
fisica degli eretici, attraverso un accordo colla autorità statale ("braccio
secolare", che eseguiva materialmente le condanne), almeno a partire dal 1184 ,
essendo papa Lucio III ed imperatore Federico Barbarossa ("inquisizione
episcopale", affidata ai vescovi delle diocesi). I nuovi accordi tra Gregorio IX e
Federico II portarono ad una centralizzazione della Inquisizione che, da una parte,
esaudiva le decisioni del Concilio lateranense IV (1215) e, dallaltra, veniva
inserita nelle Costituzioni di Melfi, emanante nel 1231 dallimperatore. Non ci
interessano qui le ulterori forme organizzative (Inquisizione spagnola del 1478 e romana
del 1542), quanto le approvazioni pronunciate in documenti pontifici o conciliari. La
teorica legittimità del processo inquisitivo fino alla consegna al braccio secolare è
indirettamente affermata attraverso condanne di eretici che, tra le altre cose, negavano
anche questo "diritto" della Chiesa: contro Giovanni Hus (Concilio di Costanza,
sessione XV, 6 luglio 1415: conferma di papa Martino V il 22 febbraio 1418: Denz.
Sco"nm. 1214); contro Lutero (bolla "Exsurge, Domine" di Leone X: 15 giugno
1520: Denz: Scho"nm. 1483-4). E ci interessano le elucubrazione teologiche, per
cercare di intendere le motivazioni di un simile istituto che pare del tutto opposto al
Vangelo. Rimandando alla Somma di San Tommaso, troveremo citazioni da SantAgostino,
il primo padre della Chiesa che (a differenza del suo maestro S. Ambrogio e di Giovanno
Crisostomo) approva luso della forza per la conversione degli (ultimi) pagani,
interpretando troppo letteralmente il "costringili ad entrare" nella parabola
degli invitati alle nozze (Lc. 14, 23). Bisogna dire che la Chiesa non ha mai insegnato la
liceità di costringere i non battezzati al battesimo. Anzi la motivazione di San Tonmmaso
circa la liceità delluso della forza per mantenere fedeli i battezzati è proprio
basata su un parallelo con la libertà da lasciare ai non battezzati: nella Somma
teologica, (II, II, 10, 8, ad 3), S. Tommaso afferma: "Come il fare un voto è
proprio della volontà (libera), mentre il mantenerlo è una necessità, così
laccettare la fede è proprio della volontà libera, ma il tenerla una volta
accettata è un fatto di necessità". Naturalmente, per i Medioevali (diversamente
che per noi), da una parte le promesse (voti) battesimali fatte dai genitori valevano
definitivamente come se linfante stesso le avesse consapevolmente pronunciate;
dallaltra, la corruzione della fede era un fatto cui anche la società civile era
interessata e coinvolta. Ed ecco allora le tesi conclusive di S.Tommaso, che più ci
interessano: "Infideles, qui numquam fidem susceperunt, ut Judaei et gentiles, nullo
modo sunt ad fidem compellendi; at infideles haeretici et apostatae sunt cogendi, ut id
adimpleant quod promiserunt" (S.T.II, II, 10, 8); "Quamquam haeretici tolerandi
non sunt ipso illorum demerito, usque tamen ad secundam correptionem expectandi sunt, ut
ad sanam redeant Ecclesiae fidem; qui vero post secundam correptionem in suo errore
obstinati permanent, non modo excommunicationis sententia, sed etiam saecularibus
principibus exterminandi, tradendi sunt" (ib. II, II, 11, 3); "Quamquam
haeretici revertentes semper recipiendi sint ad poenitentiam quotiescumque relapsi
fuerint, non tamen semper sunt recipinedi et restituendi ad bonorum huius vitae
partecipationem" (ib.a.4); "Quum quis per sententiam denuntiatur propter
apostasiam excommunicatus, ipso facto eius subditi a dominio et iuramento fidelitatis eius
liberati sunt" (II, II, 12, 2).
LA CULTURA MINORITARIA DEL MEDIOEVO. Lattribuire ad una epoca un pensiero
monolitico, una cultura unica ed esclusiva è frutto di ingenuità o disinformazione. La
libertà cui luomo è più gelosamente attaccato è quella del pensiero, tanto che
le guerre di religione sono inaspettatamente numerose (esagerando, B. Croce disse in una
intervista famosa, alla vigilia della seconda guerra mondiale, che sono le uniche guerre
degne di essere combattute). E, nella condizione concreta dellumanità, è
pressochè impossibile trovare tutti daccordo su tutti i principi cui un uomo debba
ispirare la propria vita e sui quali una società debba reggersi. La multipolarità delle
prese di posizione ideologiche venne alla luce anche nel Medioevo, non appena i pensatori
ebbero modo di scrivere, insegnare, divulgare le proprie convinzioni. Fu Pietro Abelardo
(1079-1142) che, iniziando linsegnamento della "teologia sistematica" a
Parigi, diede principio anche alla scollatura dalla cultura dominante, sia in campo
filosofico (sulla natura degli "universali" e, quindi, sul valore delle
"idee"), che teologico ( sul mistero trinitario, sulla natura di Cristo, sul
valore delle opere per la salvezza...). Anche Federico I Barbarossa (imperatore dal 1155
al 1190), pel fatto solo che eleggeva antipapi, dimostrava di avere idee
"singolari" sulla costituzione della Chiesa. Ma le grandi discrepanze avvenivano
a livelli più elementari e radicali: alcune posizioni esulavano dalla dottrina
"ortodossa" del Medioevo cristiano, per eccesso; altre, per difetto.
IPERSPIRITUALISMO ERETICALE. Le prime sono già state accennate tra gli inconvenienti, i
limiti e difetti della cultura dominante: si tratta di un iperspiritualismo non accettato
dal magistero della Chiesa e,perciò, rifiutato anche dal popolo e dagli intellettuali
comuni. Tutte hanno il colore di una ribellione contro la corruzione occasionata dalla
crescita delle ricchezze e dalla progressiva recessione del potere politico dei vescovi e
della Chiesa sulla società civile. La matrice ideologica però è persiana: si tratta del
Manicheismo, che prevedeva due divinità per i due tipi di creature esistenti. Gli angeli
e lanima ed i valori spirituali erano creazione di Ormuz, il dio del bene; tutta la
materia era opera di Arìmane, la divinità del male. Di qui la condanna di quanto è
corporeo: cibo, matrimonio, danaro. Fra queste devianze abbiamo i poveri di Lione
(valdesi: Pietro Vaud inizia la sua predicazione nel 1174), che tendevano a condannare non
solo il possesso del danaro, ma la stessa reale incarnazione del Figlio di Dio e, quindi
la la vera umanità del Cristo, la santità della Chiesa, il valore dei sacramenti...
Invece meno estesi furono i riflessi della mentalità manichea nei catari (albigesi,
bulgari, patarini) che fece in tempo ad intaccare anche lala più spiritualista dei
francescani, fino a comprendere il ministro generale Michele da Cesena, che predicava il
possesso del danaro come proibito alla Chiesa (condanna 1318, destituzione da ministro
generale nel 1328, morte nel 1342). Lungo questo pessimismo radicale sulla società
medioevale, si pone il "millenarismo" dellabate Gioacchino da Fiore (detto
dal luogo ove fondò il monastero dedicato a S. Giovanni, in Calabria: ca.1130-1202), che
predica lesistenza di tre "testamenti" od epoche religiose: lantica
alleanza del Padre e degli ebrei; la nuova, quella del Figlio e dei cristiani col clero
diocesano (senza il voto di povertà e, quindi, tendenzialmente corrotto od almeno non
perfetto); lultima (considerata più o meno imminente) dello Spirito santo e dei
"religiosi" (definitiva e perfetta: senza più corruzione nè peccati).
LASTROLOGIA E IL DETERMINISMO ANTROPOLOGICO.
Era una eredità del paganesimo, questa, che subordinava allinflusso degli astri o
delle loro congiunzioni le scelte umane, a scapito del libero arbitrio, cioè della
libertà interiore delluomo. Tale negazione conduceva ad una visione materialistica,
cioè alla negazione dellanima distinta dal corpo, della sua spiritualità ed
immortalità. Il suo esito ultimo era la negazione di Dio, sotituito da "caso e
necessità" (per dire le cose in temrini moderni: in realtà, il "caso
apparente" delle vicissitudini umane era comandato dalla "necessità del cammino
ed incontro degli astri). La Chiesa era intervenuta molto presto contro una simile
credenza, assimilandola alla magia, cioè ai peccati contro la fede in Dio e il primo
comandamento.Già nel concilio (regionale) di Toledo, nel secolo quinto, chi crede nella
astrologia viene anatemizzato, cioè escluso dalla comunione della Chiesa (scomunica). Il
concilo bracarense (di Braga, in Portogallo), nellanno 551, sussumerà le condanne
del Toletano, specificandole ulteriormente. Infine verrà la condanna subito dopo il
concilio di Trento (1564), nella Bolla "Dominici gregis" di papa Pio IV (è la
Bolla che stabilisce le regole per la iscrizione degli stampati allIndice dei libri
proibiti e che comprende anche quelli concernenti lastrologia: Denz. Sch., 1859).
Essa è contrastata da S. Tommaso in nome sia della ragione (Contra Gentes, III, 85) che
della fede (Somma teologica, I, q. 115, a. 4; II, II, q. 95, a. 5). Dante nella Commedia
fa difendere la libertà dellanima dal grande saggio Marco Lombardo nel canto 16,
64-81 del Purgatorio. Tra gli eretici per astrologia troviamo nel Milleduecento Guido
Bonatti (morto vecchissimo nel 1296) e Michele Scotto (fu al servizio di Federico II e
tradusse Averroè nel 1235): entrambi sono messi da Dante allInferno (20, 115-8)
come indovini. Ma il più famoso astrologo del tempo di Dante fu un suo antagonista anche
come poeta (scrisse i poveri versi del poema "Lacerba", cioè
"acervo, mucchio": sinonimo di "satira", nel senso originario di
" piatto saturo, carico di cose disparate"): Francesco Stabili, detto Cecco
dAscoli (1269-1327). Fu docente a Bologna di astrologia, avendola appresa a Salerno
e Parigi: dapprima fu allontanato dalla cattedra ma, ricaduto nellinsegnamento del
determinismo astrologico, fu condannato per eresia ed arso vivo. Del resto, alla corte di
Federico II, imperatore islamizzante, lastrologia era tenuta in gan conto. Il figlio
(naturale) Manfredi pare proprio che abbia perso la battaglia contro Carlo dAngiò
(Benevento, 1266), perchè aspettò che gli astrologi gli assicurassero lora più
propizia, in base alla congiunzione delle stelle favorevoli: per vincere, gli sarebbe
bastato aspettare, chè le truppe guelfe non avevano scorte di viveri...
III) LEROTISMO GRATUITO E LA VENDETTA EREDITARIA CASI NOTEVOLI DI MANCATA PERFEZIONE
CRISTIANA.
Non che lerotismo gratuito sia lunico peccato od il peggiore, che permanga in
una cultura pur imbevuta di fede cristiana, ma esso è il caso più facilmente espresso in
letteratura, sia in versi che in prosa. Abbiamo intravisto lavarizia quale premessa
alle eresie pauperiste e la violenza della Inquisizione come probabile residuo dei costumi
guerrieri germanici; abbiamo dovuto constatare il perdurare della idolatria pagana nella
astrologia deterministica... Ma è difficile pensare che un poeta canti
lattaccamento al danaro o celebri la forza bruta delle guerre e delle carneficine,
mentre riusciva a farsi tollerare od a sfuggire al controllo della censura sociale il
canto dellamore, anche se adultero o disorientato nella pura ricerca del piacere. In
proposito la poesia lirica romanza nasce sotto cattiva stella: il suo iniziatore,
Guglielmo IX dAquitania, è poeta realista e sbrigliato, nonostante
leducazione ricevuta a Poitiers presso i Benedettini. Tra le espressioni della
poesia provenzale, troviamo dei magnifici quadretti di "albas": erano la
descrizione del momento di addio allamata, dopo una notte di amori libertini (ed
adulteri, spesso). Benchè in Italia (lo si è detto) la produzione trobadorica giungesse
nella sua forma più purificata, in seguito alla crociata antialbigese del 1208, tuttavia
non ci si può illudere che la "poetica" spiritualistica di un Guglielmo di
Montanhagol (1229-1258) o il movimento francescano (riecheggiato, si è detto,
dallesemplare figura di san Luigi IX) abbiano estirpato la concupiscenza
dallanimo umano con la voluttà di alleare listinto alla intelligenza in
espressioni versificate, abbastanza ambigue per lasciar spazio ad emozioni artistiche, ma
abbastanza ammiccanti per allettare anche con gli spunti venerei frammisti. Alcuni dei
racconti collezionati nel "Novellino" sono, a dir il vero, sbracati e ben
lontani dallarte, ma non si può negare successo poetico al "contrasto" di
Cielo dAlcamo che inizia con il verso "Rosa fresca aulentissima" e che,
dopo aver epsresso la resistenza puntigliosa di una ragazza alle profferte realistiche di
un giullare, ne segnala, allultimo, la resa (strofe di alessandrini monorimi
sdruccioli, con distico finale di endecasillabi: ne riparleremo nello studio della
"Poesia realistica"; qui basti aggiungere che tale contrasto è del tempo di
Federico II che, quanto a moralità sessuale, si governava come un sultano orientale).
Linferno di Dante (29, 1-36) testimonia un costume che andava scomparendo, ma che i
Germani avevano insinuato nel mondo cristiano, mantenendolo pertinace per sette secoli: la
vendetta di sangue. Si tratta di un prozio del poeta (Geri del Bello, fratello del nonno
Bellincione) che si trova nella nona bolgia, tra i seminatori di discordie e si sente
ancora umiliato perchè la sua morte violenta non è stata vendicata da un parente. Ecco
come Dante esprime la situazione:"O duca mio, la violenta morte| che non gli è
vendicata ancor- dissio-| per alcun che dellonta sia consorte,| fece lui
disdegnoso; ondel sen gìo,| senza parlarmi, così comio estimo:| ed in ciò
mha el fatto a sè più pio". Il fatto è tuttaltro che isolato; anzi fin
dentro il secolo XIV (quello in cui fu scritta la Commedia) si trovano testamenti in cui
leredità è legata alla esecuzione della vendetta. E un altro costume barbaro è
quello del duello: durerà sino allinizio del sec. XX (fine della prima guerra
mondiale)! Questi fatti provano una verità necessaria a ben giudicare della evoluzione
storica e nella società civile ed in quella religiosa. la. Una fusione di popoli, implica
uno scambio di culture. E una illusione che o luna o laltra sia
assorbita culturalmente senza conservare ed anzi trasmettere qualche sua concezione o
costume. La Chiesa, convertendo lEuropa del Nord, abitata per lo più da Germani,
guerrieri e nomadi, non diede soltanto, ma anche ricevette. Si può distinguere
linflusso dei Germani sul mondo cristiano in due categorie: per alcuni usi e
abitudini essi riuscirono a far acecttare dallo stesso magistero ecclesiastico il loro
punto di vista ; per altri aspetti, essi mantennero a lungo le loro tradizioni in linea di
fatto soltanto, chè esse furono condannate ed esorcizzate dal magistero e dalla opinione
pubblica. Tra i primi casi vi fu luso della violenza nel difendere la fede con la
Inquisizione; tra i secondi, quelli appunto della vendetta e del duello.
B) IL CANTICO DI S. FRANCESCO E LA POESIA RELIGIOSA DEL DUECENTO
I) IL CANTICO DI FRATE SOLE
La prima scrittura italiana che meriti considerazione non per significato genericamente
culturale, ma per specifico valore artistico, è il CANTICO DI FRATE SOLE (detto anche
"Laude o Cantico delle creature"). E opera di S. Francesco che lo compose
nel 1224, giacendo infermo dopo aver ricevuto nel suo corpo le ferite (stimmate), quali
Cristo ebbe in croce nelle mani, nei piedi, nel costato, in una estasi sul monte della
Verna.
I Motivi Ispiratori. Sono sostanzialmente due: il senso religioso del creato e della vita;
e il senso umanistico della bellezza e della forza presenti nelle creature tutte,
finalizzate alluomo, pur peccatore e ingrato a Dio (umanesimo cristiano).
Il senso religioso consiste nel sentimento della presenza di Dio nel cosmo come nella
esistenza delluomo: Iddio Creatore e Signore, Giudice inappellabile e rigoroso, ma
soprattutto Padre comune degli uomini (e, in un certo senso, anche di animali e piante),
che diventano perciò fratelli e sorelle fra loro.La stessa morte è sorella, perchè apre
le porte, per gli uomini di buona volontà, alla Vita eterna. Ecco allora le espressioni
ben note: "Altissimu, onnipotente, bon Signore,| tue so le laude, la gloria e
lhonore et omne benedictione..."; "Guai a quilli che morranno nelle
peccata mortali..."; "frate sole, sora luna, frate vento, sora acqua, sora
nostra morte corporale".
Il senso umanistico comprende a sua volta due momenti. Da una parte, vi è il tema della
bellezza e della forza delle creature infraumane, che apre il cuore ad una letizia senza
ombre (la leggeremo analizzando i toni lirici). Dallaltra, vi è il senso
delluomo come creatura ambigua, indegno di lodare Dio ("nullo homo ène dignu
Te mentovare": nessun uomo è degno di nominarti), capace di odiare e meritare
linferno. Eppure egli rimane il re del creato e tutte le realtà terrestri sono
finalizzate a lui: il sole e il fuoco illuminano e riscaldano la terra per luomo;
lacqua non è solo "umile et casta", ma anche "utile et
pretiosa". Daltronde luomo è anche capace di virtù e di perdono, di
amare e vivere nella volontà di Dio. Questa ambiguità dellumaneismo francescano
sarà propria anche di Dante e lo distingue dallumanesimo rinascimentale, che non
avrà invece riserve nella sua stima, fiducia e amore per luomo. Lumanesimo
cristiano implica sempre un realismo dettato dalla fede, oltre che dalla esperienza: il
peccato originale e la condotta delluomo medio suggeriscono stima ma anche sospetto,
fiducia non senza timore, amore non disgiunto dalla prudenza. Tra gli uomini, infatti, vi
sono quelli (beati!) "ke perdonano per lo Tuo amore e sostengo(n) infirmitate e
tribulatione", ma vi sono anche quelli (guai!) "che morranno ne le peccata
mortali".
I Toni lirici del Cantico. In perfetto parallelismo ai due motivi ispiratori di fondo,
troviamo due registri emozionali dominanti. Ideazione e risposta emotiva sono
perfettamente pertinenti. Si noti, però, che la finale del Cantico è meno felice:
prevale unangoscia non poetica, che svela una incrinatura dettata
dallumanesimo cristiano.
Il motivo religioso introduce un lirismo epicizzante, celebrativo della onnipotenza e
bontà di Dio: esprime esultanza e solennità. I primi otto versetti iniziano in genere
con impeto epico ("Altissimu, onnipotente...|Laudato si, mi Signore...). Lo
slancio, però, non dura a lungo. Lepopea tende a discendere e confondersi con
laltro registro emotivo, lidillio che insorge sulla contemplazione della
serena, fraterna bontà del creato.
Ecco allora che il Motivo umanistico genera la letizia francescana, alla quale sono
particolarmente intonati i versetti meritamente celebri per la luna e le stelle
("clarite et pretiose et belle"), per la terra (madre di fiori e frutti), per la
limpida acqua, ecc. La tendenza al sinergismo, alla fusione tra i due registri lirici crea
brevi attimi di estasi, che sono i migliori della composizione. Ecco i versetti dedicati a
"messor lo frate sole,| lo qual è iorno, et allumini noi per lui..." ed a
"frate focu| per lo quale enallumini la nocte:| ed ello è bello et iocundo et
robustoso et forte".
Come già accennato, meno felice risulta il dramma della paura di fronte alla fragilità e
malizia delluomo: la componente pessimistica, prevalente nellumanesimo
medioevale, sinserisce negli ultimi "versetti", dettati poco prima di
morire. Essi documentano bensì il travaglio del grande cuore del Santo di fronte alla
umanità peccatrice, ma non sublimano in purezza ed assolutezza di emotività le sue
preoccupazioni pratico-missionarie: vi si legge langoscia dellapostolo, non la
commozione del poeta.
La tecnica stilistica. Il "Cantico delle creature o di frate sole" è una Lauda
sacra, cioè un componimento ritmico di contenuto religioso, che imita la "sequenza
liturgica", i versetti che, nella celebrazione della Messa in latino, seguivano la
seconda lettura (lEpistola o brano di una lettera di apostolo). Di tale forma
ritmica in lingua volgare, S. Francesco è liniziatore: essa avrà continuatori
innumeri, anche se la forma muterà notevolmente. Non si tratta di versificazione vera e
propria, ma di prosa assonanzata, che alla forma poetica si avvicina, assumendo delle vere
e proprie rime in certe cadenze (Signore- honore, stelle- belle, vento- sostentamento...).
Solitamente vi è però solo la "terminazione di due o più parole, a cominciare
dalla silaba accentata, con le sole vocali identiche (assonanza: sole- splendore, tempo-
vento, acqua- casta, nocte- forte...). Per questo si parla di "versetti", come
per le divisioni dei Salmi, che il Cantico imita evidentemente, anche se innova
genialmente (si veda specialmente il Salmo 148, oltre a Daniele, 3, 52-90).
La musicalità è duplice, adeguata cioè ai due filoni ideali e lirici. Il senso
religioso-epico viene tradotto in una trama di vocali larghe (A|O) o addirittura di
dittonghi (AU), suoni sostenuti da consonanti forti e solenni (labiali, gutturali,
dentali). Queste parti del Cantico vanno lette a voce alta, spiegata, cioè in tono
sostenuto. Il tono idillico si appogiia ad un vocalismo medio (E) o stretto (I|U),
addolcito dallarmonia di consonanti liquide (L|R), nasali (N|M), fruscianti (F|V)
più numerose che nella media del discorso comune. Questi versetti andranno letti
sommessamente, quasi sussurrati, in tono umile, dimesso. Là dove i due registri si
confondono, la vocale O prevale sulla A, mentre le consonanti dolci ed aspre, deboli
eforti si alternano in modo così composito da trasmetetre la complessità dello stato
danimo che detta la forma espressiva. Specialmente i righi su "frate focu"
(già riportati) con linvenzione del neologismo "robustoso", creano il
fascino di quellideale di virilità mansueta, di forza pacata, proprio del gigante
poverello, dello sposo di madonna Povertà. Là dove vien meno o si attenua la spinta
emotiva -nei versetti finali- la musicalità diviene anodina, poco significativa: ci
troviamo di fronte ad un impasto medio, equilibratamente scialbo, segno di una caduta
destro, di un calo dispirazione. Il "sintagma" coincide col
"paradigma", linvenzione personale si appiattisce sul modulo tradizionale.
Degna di nota è anche la lingua (il dialetto) usato nel testo assisiate cui ci si rifà
di preferenza. Si tratta di un linguaggio ibrido. Vi sono, cioè, mescolanze di
caratteristiche umbre ("u" latino rimasto in "Altissimu, nullu,
dignu..."; mancato raddoppiamento della "n" in "konfano"; mancata
palatizzazione di "diurnus", che diventa "iorno" anzichè
"giorno"; "sostengo" con valore di terza persona plurale= sostengono),
con tratti fiorentini ( la soppressione di una vocale o consonante? a fine
parola latina, non causa la metafonesi, cioè il mutamento della vocale precedente, come
accade nei dialetti ad est del Tevere, Assisi compresa, ma la lascia intatta, come avviene
nei dialetti toscani), con prestiti francesi ("messor" da "monsieur")
e con residui latini (et| laude| benedictione| de| cum| iorna| fructi...).
DA S. FRANCESCO A IACOPONE DA TODI.
Lesempio e il movimento di S. Francesco coinvolsero anche il campo letterario in
misura imprevedibile. Col suo "Cantico" inizia la "Lauda sacra"
lirica, che si evolverà poi in Lauda drammatica (dialogata ed eventualmente recitata in
scena), influendo notevolmente sulla evoluzione del "Dramma liturgico" verso
forme letterariamente più esigenti. Più genericamente lo spirito francescano
(riecheggiante in Italia e fuori, grazie anche, come si è detto, allaura diffusa
dalla figura del santo re Luigi IX) lo si può intuire sotteso ai versi di Guittone
dArezzo dopo la conversione; non è estranea ai versi (dialettali) di Bonvesin de la
Riva e di Giacomino da Verona; ha parte nella ispirazione spiritualistica del
Dolcestilnovo e ci dona (ahimè! assieme a molte altre composizioni inutilmente infuocate
e retoriche) un altro piccolo capolavoro, con il PIANTO DELLA MADONNA di Jacopone da Todi,
che vedremo a parte.
Non sono, però, questi i soli scritti religiosi del Duecento. Solo che le altre prose o
poesie sono in lingua latina, sicchè le accenenremo qui per inquadrare più da vicino uno
degli aspetti culturali essenziali che preparano la Divina Commedia. Cominciando dalle
composizioni in versi, ricordiamo quelle di San Tommaso, entrate nella liturgia per la
festa del Corpus Domini: "Pange lingua, gloriosi| Corporis mysterium" (Canta, o
lingua, il mistero del glorioso Corpo del Signore); "Adoro Te devote, latens
deitas" (Ti adoro devotamente, divinità nascosta); "Lauda, Sion,
Salvatorem" (Loda, o Gerusalemme, il Salvatore); "Verbum supernum prodiens"
(O Verbo divino, che incarnandoti). Di Jacopone da Todi (probabilmente) abbiamo la
notevole Sequenza sulla Passione "Stabat Mater dolorosa", cantata in tutte le
chiese cristiane durante la pratica della Via crucis (tradotta nelle lingue nazionali,
dopo il Comcilio Vaticano II). Attribuita a Tommaso da Celano (uno dei primi seguaci di
San Francesco, che ne scrisse anche la biografia) vi è la giustamente famosa
"Sequenza" per la Messa funebre, conosciuta dalle parole iniziali "Dies
irae" (pare però sia di anonimo del secolo XII, molto anteriore, quindi). In prosa
abbiamo opere fondamentali non solo per la vita culturale e letteraria del tempo, ma
rimaste nel patrimonio perenne della filosofia e teologia. Dalle due "Somme"
(enciclopedie) di S. Tommaso, il "doctor angelicus", si è già citato. Qui
basti accennare che La "Summa theologica" e la "Summa contra Gentes"
(filosofica: dimostrazione della fede cristiana contro i pagani o "gentili": le
"Gentes idolorum" si oppongono al "popolo di Dio") non sono le uniche
opere dellAquinate, che nei suoi quarantanove anni di vita (1225 ca-1274) scrisse
unintera biblioteca di volumi. Accanto a lui, domenicano, troviamo il francescano
"doctor seraphicus" San Bonaventura da Bagnoregio (1217ca-1274), guardiano
generale dellOrdine, scrittore cordiale di cose spirituali, ben presenti a Dante
(Itinerarium mentis in Deum: Itinerario dellanima a Dio); e della biografia
ufficiale del fondatore (Legenda sancti Francisci= cose da leggersi su san Francesco=
storia di...). Altre biografie, tratte dalla familiarità col santo assisiate, sono quelle
di Tommaso da Celano (Legenda prima sancti Francisci, del 1227-8| Legenda secunda, 1246-7
ca). E ci sono le opere di Jacopo da Varazze: la Legenda aurea, di cui si è già
discorso; i Sermones (prediche), il Liber marialis (Libro sulla Madonna). E questa
cultura che domina ancora nella seconda metà del Duecento e che spiega il viraggio
etico-religioso di movimenti interi, come quello del Dolcestilnovo o le conversioni a tale
motivo ispiratore in Guittone dArezzo e nello stesso Dante Alighieri.
Rimandando a luogo più opportuno autori in lingua volgare pur coinvolti nella ispirazione
etico-religiosa (Guittone dArezzo, che segna il passaggio tra la poesia siciliana e
quella del Dolcestilnovo; Bonvesin de la Riva e Giacomino da Verona, che appartengono a
miglior ragione ai poeti didascalici), ci occupiamo qui solo di JACOPONE DA TODI, poeta
autentico nel PIANTO DELLA MADONNA (o "DONNA DEL PARADISO").
Vita e ambiente (secondo lantica biografia a noi pervenuta). JACOPONE DE
BENEDETTI nacque a Todi fra il 1230 e il 1236 e fu procuratore legale nella sua città:
era dunque notaio, cioè laureato a Bologna. Sposo a Vanna di Bernardino dei conti di
Coldimezzo, condusse vita brillante, dissipata. Ma il crollo di una soffitta durante una
festa uccise la moglie, alla quale fu trovato indosso un duro cilicio (strumento di
penitenza con cui espiare la vita mondana cui il marito la costringeva?). Questi due fatti
cambiarono radicalmente la sua vita (1268): distribuì le sue ricchezze ai poveri e si
fece "bizzocco", persona vivente nel mondo, ma con abito e pratiche dei
religiosi. Seguiva la spiritualità francescana, ma a stento e tardi fu ricevuto
nellOrdine come fratello laico: per lo più solitario in vita eremitica, si aggirava
altre volte fra la gente, malvestito e come fuor di sè, per farsi deridere e peggio. Una
volta accolto (1278), parteggiò in modo acceso per la corrente degli
"spirituali", che professava il rigore più severo nellinterpretare la
Regola di S. Francesco soprattutto circa la pratica della povertà. I
"conventuali", più realisti ed accomodanti, erano il bersaglio dello zelo di
fraJacopone. La divisione era esplosa dopo la scomparsa di S. Bonaventura (1274),
che aveva saputo mediare le diverse esigenze, non inconciliabili. Siccome papa
BonifacioVIII (Benedetto Caietani: 1294-1303) si schierò per i conventuali, egli fu tra i
ribelli che firmarono a Longhezza- il manifesto che dichiarava invalide le
dimissioni di papa Celestino V e sosteneva la conseguente nullità della elezione di papa
Bonifacio. Chiusosi in Palestrina con i Colonna, nemici del Caietani, fu posto in prigione
quando, nel 1298, la fortezza venne espugnata (si veda il consiglio fraudolento di Guido
da Montefeltro a papa Bonifacio, in Inferno, tutto il c. 27, specie i vv.79-111). Non
essendosi egli sottomesso nè disdetto, solo con lavvento del mite Benedetto XI
potè esser liberato nel 1303. Moriva tre anni dopo, in un convento francescano presso
Todi (Collazzone).
La individualità di Jacopone. Lo riteniamo un collerico , con poco spirito critico, cioè
un "emotivo, attivo, primario (instabile)", senza una intelligenza adeguata a
controllare gli impulsi di tale vitalità tempestosa. Dotato, dunque, di una carica
emozionale superiore alla media (emotivo) e portato a tradurla in azione (attivo), era
però incostante, variabile, instabile (primario) e mancante di uno sufficiente
intelligenza che percepisse i suoi limiti accanto alle sue virtù e si sforzasse di
equilibrarsi e controllarsi. Ne esce una personalità irrequieta, tormentata e
tormentatrice, agitata e conflittuale. Non equilibrato ma estremista, è euforico nella
disspazione, tetro nella penitenza. Ardente nella fede, rimase però poco umile,
imprudente e ingenuo, senza molta carità. Violento contro se stesso e contro i nemici
della perfezione pauperistica, satireggiò grottescamente la propria sorte di prigioniero
maltrattato ("Que farai, fra Iacovone? Ei venuto al paragone...") così
come i poveri mondani ormai sfatti nel sepolcro ("Quando taliegre, omo de
altura..") o come il papa nemico ("O papa Bonifazio, molthai iocato al
monno..."): a se stesso, poi, augurava ogni sorta di mali ("Segnor, per
cortesia, mandami la malsanìa..."). E, come nella vita pratica fu uno sconfitto,
perchè utopista ed eccessivo in tutto, così rischiò di essere un fallito anche nella
espressione poetica: lo salva il PIANTO DELLA MADONNA (o "DONNA DEL PARADISO").
Diamo anzitutto uno sguardo allopera complessiva.
LInsieme dei suoi versi. A Jacopone sono attribuiti un po più di cento
composizioni, quasi tutte Laudi, ma non tutte di sicura paternità. I temi del suo canto
(Motivi ispiratori) sono religiosi ed ascetici: si va dalla condanna del mondo e del
peccato ("Quando taliegre, omo de altura...") alla celebrazione della
povertà, dellamore e dellallegrezza spirituale ("Povertade
ennamorata", "O iubelo del cuore| che fai cantar damore!"); dalla
polemica contro se stesso ("Che farai, fra Jacovone? Ei venuto al
paragone...", "Segnor, per cortesia, mandami la malsanìa..."), alla
polemica contro gli uomini di Chiesa ("Plange la Chiesa, plange e dolora...",
"O papa Bonifazio, molthai iocato al monno"). Gli approdi lirici sono
rari: i suoi versi sono sfoghi passionali, che non hanno trovato una decantazione
contemplativa completa: sono non emozioni pure, ma sentimenti ancora coinvolti nella
attività esistenziale, nella prassi della vita ecclesiastico-politica. Benedetto Croce
potrebbe dire (come dice delle tragedie di Vittorio Alfieri) che si tratta di versi che
sostituiscono in qualche modo il gesto dellazione. Sono una specie di scritti
propagandistici, materiale per polemica giornalistica o comiziale. Ecco i residui di
impazienza, di collera, di malvolere o di autolesionismo che si traducono spesso
inespressioni forzate, impacciate, dissone sia musicalmente che intellettualmente. Con
questo non si vuol negare quanto già Francesco De Sanctis ha giustamente rilevato proprio
nelle composizioni citate, cioè la presenza di qualche momento di sarcasmo o di
compassione che salva qualche verso o strofa. Della Tecnica stilistica vale quanto
sentensziò amaramente Giulio Perticari: "le sue parole sono spesso coniate alla
libera e più veramente alla pazza e tanto ridevoli da degradarne il Zanni della
commedia"
Eppure commuove ancor oggi il suo capolavoro, che ha raggiunto quellattitudine
distaccata, serena, impersonale per cui i sentimenti diventano emozione assoluta che
convince e coinvolge tutti in consonanza con gli stati danimo del poeta.
Il pianto della Madonna. Il motivo ispiratore è la passione di Cristo contemplata da
quattro punti di vista diversi: quello del discepolo (S. G. Evangelista?), delle folle, di
Cristo in croce e della Madonna, la Madre addolorata. La prospettiva del discepolo è
latteggiamento dello smarrimento e della agitazione; quella della folla, di odio e
di rabbia; quella di Cristo Signore, del pieno dominio della morte, nella visione della
vicina Resurrezione; quella di Maria, di una mite ma acerbissima sofferenza, di straziante
eppur paziente dolore.
I toni lirici: In coerente corrispondenza alle quattro prospettive ideali, stanno i
quattro stati danimo sublimati nella liricità della contemplazione artistica. Il
discepolo esprime il dramma della paura e della ribellione impotente. La folla esprime la
tragedia della violenza e della eccitazione forsennata. Cristo, vero Pantocrator, cioè
signore della vita e della morte, esprime lepopea pacata della calma sovrana, della
regale sicurezza e della divina padronanza degli eventi. La Madonna traduce la dolcezza
della sua personalità in una tenera nota elegiaca, che trascorre per tutta la Lauda: è
infatti Lei che interloquisce con ogni altro personaggio e dissolve le asperità delle
espressioni di folla e discepolo od asseconda la dolcezza del Figlio. Cè in Lei
tutta la volontà di bene, lequanimità, la ragionevolezza, la mite umiltà appresa
alla scuola di Nazaret, dove ha raffinato la propria fede e sublimato il proprio amore,
mentre educava il Figlio a crescere in sapienza, età e grazia.
Per tutti questi valori lirici, il Pianto della Madonna è buona opera poetica, anche se
non un capolavoro supremo.
Note stilistiche. Donna del Paradiso è una lauda drammatica. Spieghiamo i due termini.
Dopo S. Francesco, probabilmente ad opera di Guittone dArezzo, la Lauda ha assunto
la veste metrica della ballata profana, veste che la seguirà in tutta lepoca
classica della sua esistenza (fino al Cinquecento). E dunque ormai composta
anchessa di strofe (stanze: parte recitata o cantata da un solista, mentre il coro
"sta", cioè è fermo) monorime, salvo lultimo verso che rima con
lultimo verso del "ritornello" o "ripresa", cioè della
strofetta (uno, due, tre, al massimo quattro versi) intercalata ad ogni stanza e recitata
dal coro in movimento di danza. Nel nostro caso, il ritornello è di tre versi settenari,
di cui i primi due rimano fra loro ("Donna del Paradiso| lo tuo figliuolo è
priso") e il terzo ( "Iesu Cristo beato") rima con lultimo verso di
ognuna delle strofe. Queste sono quartine di settenari ("Accurre, Donna, et vide| che
la gente lallide:| credo che lo soccide,| tanto lho flagellato").
In quanto drammatica, la lauda mette in versi i sentimenti del poeta, ma affidandoli
allespressione di più personaggi, che dialogano fra loro, come nellopera
drammatica per eccellenza, cioè il teatro. Il linguaggio risente talora del latino e del
Vangelo: questo vien riprodotto alla lettera nel "Crucifìge" nel v. 27; quello
affiora spesso sotto la traduzione in volgare (v.2: Jesu Cristo; v. 4: accurre et vide; v.
5: allìde=flagella; v. 19: adiuta; vv.106-7: Ioanne, eletto, appellato...). Il linguaggio
tradisce la geografia del suo luogo di origine: è ad est del Tevere che la parlata
italica si rivela in contrasto col fiorentino attraverso forme come
"lho=lhon=lhanno" del v. 7; "traduto= tradito" del
v.12; "piena=pena, ambascia" del v. 17; ca=che=perchè" del v.21;
"pozzo=posso" del v. 25; ecc. La libertà della sintassi jacoponica affiora
anche in questa composizione: ad esempio nel v. 44 "figlio occhi iocundi=dagli occhi
giocondi"; nei vv. 48-9 "Madonna, ecco la cruce,| che la gente
ladduce..."= ecco la croce e la gente che lo conduce"... Ma nè i
latinismi nè le dissonanze rispetto al nostro orecchio (educato alla musicalità del
parlare fiorentino) nè un certo permissivismo nel vocabolario e sintassi riescono a
spegnere londa emozionale, che la Lauda suscita ad ogni strofa nellanimo del
lettore. Anche perchè il musicalismo nel linguaggio di ciascuno dei quattro personaggi è
così distinto e coerente, da assorbire anche tali vocaboli ed espressioni nel comune
timbro del contesto, attutendo il senso delle differenze linguistico-grammaticali. Ci si
accorge subito che il discepolo usa molto spesso le dentali in posizione di rima (vide,
allide| traduto, venduto, avuto| adiuta, sputa, muta). Viceversa le locuzioni di Maria
sono tramate di liquide e nasali (porria, follia, spene mia| Maddalena, piena, se mena|
fare, tormentare, mustrare...): Le parole di Cristo si appoggiano pacate alla vocale
"a", larga, solenne (lagni, remagni, compagni| mate, caritate, pi"etate)
oppure alla vocale media ("e") rafforzata da dentali forti (affletto, metto,
eletto).
C) LA PRIMA SCUOLA DARTE ITALIANA: POETI SICILIANI NELLAMBITO DELLA CORTE DI
FEDERICO II
I) I PRINCIPALI POETI. Poco dopo la poesia di San Francesco, tra la fine degli anni venti
e i due decenni successivi, troviamo un gruppo di poeti che scrivono con una sorprendente
unità di motivi ispiratori e di tecniche stilistiche ed appartengono o gravitano attorno
alla "Magna curia" (reggia) di Federico II. La comunanza ambientale e quella
contenutistico-formale permette di considerarli una SCUOLA, la prima scuola darte
(poetica) italiana, nota come SCUOLA SICILIANA. Essa è stata la matrice della successiva
produzione lirica ed è stata riconosciuta, in questa sua importanza radicale, già da
Dante (il quale ne parla sia nel De vulgari eloquentia che in Purgatorio, 24, 49-63) e da
tutti i collezionatori di liriche italiane delle origini (tutti i codici che le raccolgono
iniziano sempre con i poeti siciliani).
I Nomi dei compositori che appartengono o ruotano attorno alla corte siciliana sono molti,
a cominciare dallo stesso Federico II e dal figlio Enzo. Ma la esilità dei risultati
propriamente estetici della più parte di essi consiglia di segnalare qui solo i nomi più
importanti o comunque più conosciuti (anche se per motivi non poetici), salvo a riparlare
più estesamente di quei compositori che ci hanno lasciato versi artisticamente validi.
GIACOMO DA LENTINI (notaio di Federico, noto perciò come "il Notaro" per
antonomasia): animatore del gruppo e autore, fra laltro, del sonetto "Io
maggio posto in cuore a Dio servire".
PIER DELLE VIGNE: gran cancelliere dellimpero.
PERCIVALLE DORIA: podestà imperiale in Italia ed in Provenza e poeta anche in lingua
occitanica.
STEFANO PROTONOTARO, messinese, forse più giovane degli altri (visse fino al 1300), ci ha
lasciato una canzone fortemente sicilianizzata nella lingua, cioè secondo la scrittura
più probabilmente autentica e comune a tale gruppo, scrittura che fu poi
"toscanizzata" dai critici-collezionisti, fiorentini, dei secoli seguenti.
RINALDO DAQUINO: autore della canzonetta "Già mai non mi conforto".
GIACOMINO PUGLIESE: autore, fra laltro, di quattro canzoni discrete: "La dolce
cera piagente", "Isplendiente stella", "Donna, di voi mi
lamento", "Morte, perchè mhai fatto sì gran guerra?".
GUIDO ed ODO DELLA COLONNE: forse parenti (erano entrambi di Messina). Del primo (GUIDO)
si conoscono cinque canzoni molto lodate da Dante nel De Vulgari eloquentia (vi sono anche
atti pubblici che egli redige od in cui è nominato). Ma i suoi versi non dicono molto
alla nostra emotività, anche se tecnicamente perfette. Al secondo (ODO) succede
lopposto: sprovveduto di qualsiasi riferimento documentario che ce lo faccia
conoscere come persona storica, oggi si vede contestata anche la paternità di una
canzonetta che, invece, ancor parla al nostro cuore: "Oi lassa namorata".
LAMBIENTE IN CUI SORGE LA SCUOLA SICILIANA.
Due le componenti che caratterizzano tale ambiente: luna, strettamente letteraria;
laltra, politica. Politicamente, la Scuola Siciliana è legata alla "corte
ideale" di Federico II ed alla sua persona.Una conseguenza potrebbe essere quella
della univocità dellargomento dei canti (quello amoroso), che esclude ogni motivo
politico od etico. Letterariamente, i rimatori siciliani si pongono programmaticamente,
puntigliosamente sulla scia della poesia provenzale. Vengono a costituirne quasi la
provincia italica, così come il "Minnesang" (poesia damore cortese) ne fu
la "marca" tedesca. Si deve però ricordare che la Scuola siciliana nasce quando
la crociata contro gli Albigesi ha avviato lassorbimento della civiltà provenzale
da parte della cultura francese del Nord: la poesia occitanica denuncia la sua età
attraverso la sofisticazione dello stile chiamato "trobar clus" o versificazione
ermetica. Parallelamente, il contenuto si andava purificando, preparando il terreno a quel
Guglielmo di Montanhagol (1229-58), che canterà un amore elevante, edificante da cui
muove la castità ("Damor mou=muove= castitatz") come ogni altra virtù.
Per tale "acculturazione", da una parte la versificazione dei
"Siciliani" risulterà formalmente perfetta, ma anche difficile e manieristica;
dallaltra, molto più castigata risulterà la loro produzione rispetto a quella
provenzale del periodo classico. A spiegare,poi, la loro conoscenza e sistematica sequela
della "dottrina poetica" e dei modelli concreti occitanici, si tenga presente il
fatto che la più parte di tali verseggiatori erano reduci dagli studi universitari di
Bologna, sicchè la esigenza di perfezione metrica e di levigatezza musicale era un abito,
che li sorreggeva al lavoro di "lima" e di rifinimento delle loro composizioni.
Mediatori tra la poesia provenzale e quella italo-siciliana furono vari trovatori vissuti
in Italia o alle corti di vari signori, come Aimeric de Peguilhan ( presso gli Estensi a
Ferrara ed i Malaspina in Lunigiana) o direttamente al servizio di Federico e dei suoi
alleati (Elia Cairel, provenzale; Folchetto Romano, italiano, della famiglia di Ezzelino).
III) MOTIVI ISPIRATORI GENERALI. Dire che lunico tema cantato è quello amoroso è
un po troppo, anche se non è lungi dal vero. I rimatori siculi si dedicarono a
mettere in versi (mediante il componimento detto "tenzone") anche questioni
sapienziali, subfilosofiche. Ma le due tenzoni di Giacomo da Lentini, in dialogo discorde
ora col solo abate di Tivoli, ora con Pier delle Vigne e Jacopo Mostacci, riguardano
ancora la "natura damore". Eccoli allora a cantare lamore proprio a
partire dalla sua definizione ("Amore è un desio che ven da core": Giacomo Da
Léntini, sonetto) per proseguire poi con la protesta del proprio sentimento e con la
richiesta del contraccambio ("Meravigliosamente": canzonetta dello stesso); dal
giubilo per la corrispondenza ottenuta ("Per finamor vao sì
allegramente": Rinaldo dAquino; "Gioiosamente canto": Guido delle
Colonne) al lamento per la sordità della donna ingrata ("Madonna, dir vi
voglio": G. da Lentini); dallo sconcerto per la cessazione di un legame già sicuro
("Poi non mi val merzè nè ben servire": dello stesso) alla disperazione, ora
per il tradimento (canzonetta "Oi lassa namorata" : Odo delle Colonne?),
ora per la partenza dellamato (canzonetta "Già mai non mi conforto":
Rinaldo dAquino), ora per la morte della donna ("Morte, perchè mhai
fatto sì gran guerra?": Giacomino Pugliese)... E esclusa la ispirazione
politica, che si imporrà invece , assieme al tema morale, nei prosecutori toscani, da
Guittone dArezzo a Dante Alighieri. Questo non significa che siano assenti scrupoli
etici o fede religiosa, ma sono attitudini che sono richiamate solo in riferimento alle
vicende amorose: così G. da Lentini, nel sonetto "Io magio posto in core a Dio
servire" esclude lerotismo dal suo affetto amoroso; Giacomino Pugliese si
lamenta con il Signore che gli ha tolto la sua donna, salvo ad arrendersi rassegnatao al
Suo volere; per R. dAquino, si veda "Già mai non mi conforto".
IV) VALORE LIRICO. Si è già lasciato intendere che alla perfezione tecnica non
corrisponde una grande carica lirica nella enorme maggioranza delle composizioni: tanto
che di molti esponenti abbiamo trascurato persino i nomi. Va detta qui anche una delle
cause ambientali (che si aggiunge, ovviamente, alla presenza od assenza della genialità
poetica dei singoli compositori, sorgente prima del successo o meno dei loro versi): i
trovatori occitanici, maestri dei nostri siciliani, rivolgevano le loro peosie
damore a donne sposate o addirittura alla "castellana", cioè alla moglie
del signore che era loro ospitante e mecenate. Lamore, in tale contesto, può
esprimersi come "omaggio" (celebrazione della bellezza, saggezza, virtù...) o
come "devozione" (riconoscenza e volontà di servizio): e fermi lì! Nei poeti
siculi, a dir il vero, cè molta più libertà nella scelta delle donne del loro
canto (che di solito paiono o vere innamorate o liberamente sdegnose), tuttavia la cautela
socio-politica dei loro modelli provenzali sembra passata loro in eredità. Il risultato
è una notevole aridità di sentimenti e genericità di espressioni, che rasentano
facilmente la retorica; o, comunque, rivelano che la preoccupazione tecnica ha emarginato
lespressione lirica. Ma già i critici romantici del secolo diciannovesimo han
saputo segnalare i non molti componimenti che sono emotivamente vivaci, portatori di un
plus-valore estetico: il loro giudizio rimane insuperato, ci pare, ai fini della storia
letteraria (anche se non si vuol negare interesse agli studi di tecnica stilistica
sorprendentemente progrediti nel secolo ventesimo). Possiamo gustare ancor oggi alcune
delle poesie già segnalate come testimoni dei motivi ispirtaori, cui dovremo aggiungerne
poche altre: del Notaro G. da Léntini, il sonetto "Io magio posto in core a
Dio servire"; di Rinaldo dAquino, la canzonetta "Già mai non mi
conforto"; di Odo delle Colonne (?), la canzonetta "Oi lassa
namorata"; di Giacomino Pugliese, le canzoni "Morte, perchè mhai
fatto sì gran guerra" , "La dolce cera piagente", Isplendi"ente
stella, Donna, di voi mi lamento". Composizioni appena discrete, cui si fa fatica ad
aggiungere qualche altra "lucciola" di intermittente e debole splendore.
Cè il già citato sonetto "Amore è un desio che ven da core" del Notaro:
fa parte di una tenzone con Jacopo Mostacci e Pier delle Vigne; o i due versi che Carducci
cita da una canzone di questultimo ("O potessio venire a voi, amorosa,|
come il ladrone ascoso, e non paresse!"): ma, letti nella lingua originale, che il
poeta maremmano toscanizza abbellendola, anche queste due "perle" si riducono a
povera cosa, versi ostici e scialbi per rozzezza linguistica...
V) TECNICA STILISTICA. 1) Ermetismo e giochi di parole (trobar clus). Si è già detto che
questa scuola, nascendo a ridosso della ormai sofisticata poesia occitanica, rischia di
gareggiare con essa in complicazioni intellettualistiche, in una espressione ermetica, in
un parlare coperto, quale per primo aveva introdotto il guascone Marcabruno nel secolo
XII. Ecco degli esempi di queste prevaricazioni verbali: "Eo viso e son diviso da lo
viso| e per aviso credo ben visare;| però distinguo viso da lo viso,|
chaltrè lo viso che lo divisare" (G. da Léntini). Sempre del Notaro
sono questi altri "concettini" presecentisti: "Oi lasso, lo meo core| che
in tante pene è miso;| che vive quando more| per ben amare, e teneselo a vita"
(dalla canzone "Madonna, dir vi voglio"); "A laire claro ho visto
piogia dare,| ed a lo scuro rendere clarore;| e foco arzente ghiaccia diventare,| e fredda
neve rendere calore..." (tutto il sonetto procede così, con altri esempi dalla
fenomenologia naturale, per dimostrare i contrastanti effetti dellamore
nellanima innamorata). La tendenza al "gioco stilistico", alla bravura
sbalorditiva continuerà anche nei rimatori siculi-toscani (in quella che un tempo si
chiamava "scuola di transizione" al Dolcestilnovo).
2)La prima "scuola darte" in Italia.Tali sottigliezze espressive non
devono però venir considerate soltanto come segno di aridità affettiva e di abuso (per
compenso) del calcolo intellettuale. Esse sono anche la testimonianza di una coscienza
"estetica" ben precisa, che eleva questi compositori ben al di sopra dei
giullari di piazza e dei cantastorie conviviali. Limpegno e la serietà di questi
candidati poeti implica infatti la cosapevolezza che il loro scrivere ha un valore
indipendente dalla ricerca di guadagno (giullari) o dalla edificazione etico-religiosa
(composizioni liturgiche) o da altre finalità pratiche (sollecitazione di istinti o
eccitazione di passioni per attirare lettori| ascoltatori; o sobillare le masse): la
poesia è percepita come attività seria, impegnativa, degna della intelligenza e
spiritualità delluomo. Purtroppo neppure essi possedevano, però, una dottrina
estetica precisa, sicchè finivano per scambiare la indipendenza della bellezza artistica
da ogni finalismo pratico-utilitario come assenza di ogni contenuto intellettuale od
affettivo quale punto di partenza (motivo ispiratore), da cui elevarsi poi allo stato
spassionato delle emozioni pure, che si esprime in moduli verbali capaci di ridestare lo
stesso stato danimo nel fruitore. Ed ecco allora quel fenomeno, solitamente segno di
stanchezza e vecchiaia di una moda poetica, che consiste nel sottovalutare il tema del
canto, per concentrarsi sulle formule espressive o tecnica stilistica. Si giunge a
comporre allinsegna di un (inconsapevole, per ora) programma di "arte per
larte", di "poesia pura", che ricerca una bellezza così assoluta da
escludere ogni contaminazione sentimentale, ogni premessa ideale. Ci si concentra allora
sulle ingegnosità espressive, riducendo la letteratura ad una gara di acutezze
intellettuali e di sorprese stilistico-espressive. Si passa da unestremità
allaltra.
3)Toscanità e sicilianità nelle composizioni della prima scuola darte italiana. La
lingua in cui si presentano i versi dei poeti siciliani nei codici più antichi (il
Vaticano 3793 ed il Laurenziano-rediano 9) non è molto diversa da quella di Dante, dalla
lingua poetica anche recente. La cosa è apparsa strana a chi ha riflettuto che il primo
Duecento era ben lontano dalla convinzione che la lingua toscana dovesse valere come
lingua nazionale. In realtà dominava il pluralismo più libero, sicchè risulta
impensabile che in Sicilia si conoscesse ed accettasse il "volgare" fiorentino.
Il problema è di non facile soluzione. Van tenute presenti due circostanze storiche:
l una, di composizione dei testi; laltra, della loro trasmissione. Cominciamo
da questultima, la più chiara. Il testo da noi letto oggi è quello trascritto da
copisti dellarea toscana, che "correggevano" secondo la loro parlata il
dettato che avevano sotto mano (cosa normale per i criteri di trascrizione del tempo). La
conferma ci viene da due riscontri. Un filologo del Cinquecento (G.M. Barbieri) ci ha
tramandato il testo fedele di una intera canzone di Stefano Protonotaro e di frammenti di
composizioni del re Enzo, nella lingua originale: questa risulta molto sicilianizzata,
anche se non coincide perfettamente con il linguaggio che (a partire dal sec. XIV) abbiamo
di scritture prosastiche in dialetto siciliano. Ancora: il confronto fra gli stessi codici
toscanizzati rivela diversità di correzioni, che lasciano intravedere facilmente il testo
corretto: a livello di vocali in rima, almeno. Segnaliamo alcune di queste particolarità.
Il siciliano non trasforma le vocali "brevi" del latino, come indicato a suo
luogo per il passaggio al volgare fiorentino: rimangono immutate. In compenso,
"E" ed "O", in fine di parola e senza accento, diventano
rispettivamente "I" ed "U". Avremo risultati di questo genere:
"pilu| nuce" fan rima con "filo| luce| velo| voce"; "perisca, con
incresca"; "gire, con gaudere"; "avete, con vedrite";
"ride" con "vede"; "servire", con "valere";
"amuri" è "amore" e "doluri" è
"dolore";"ridente" diventa uguale a "ridenti";
"cheo stesse" è = "chio stessi"; "tormente =
tormenti"; "mi pare = tu mi pari (sembri)"; "Deo, meo, reo, eo"
non diventano "Dio, mio, rio, io"...
Più complessa la seconda circostanza, che risulta dal confluire di atteggiamenti
psicologici e sociali. Ci sembra che si debba estendere il principio estetico di fondo
(dignità, anzi nobiltà del fare poesia) ad un corollario spontaneo: la lingua per una
tale poesia deve essere quale la voleva Dante: illustre,aulica, curiale, cardinale... Di
qui la tendenza a creare una lingua media o comune, che risultasse bensì dal contributo
delle parlate locali, ma tendesse a riunirle e superarle in un linguaggio che fosse
comprensibile ed accetto alle "élites" degli studenti e laureati della
penisola. Benchè lo studio comparato dei manoscritti ci riveli un sottofondo siciliano
nelle composizioni dei poeti federiciani, tuttavia la vicinanza complessiva della trama
linguistica alla lingua toscana rimane inspiegabile senza altre chiavi di lettura. Con
quali criteri, sotto quali spinte si è, dunque, formata la "coinè" letteraria
di cui si deve sospettare, per comprendere la troppo poca sicilianità della lingua della
scuola siciliana? Ci paiono utili questi tre criteri di spiegazione: la conoscenza e
luso comune del latino; la sede universitaria di Bologna, ambiente di coagulazione
delle varie parlate neoromanze dItalia; il riferimento alla ormai famosissima poesia
provenzale come a modello obbligato. a) La lingua latina era la base dello studio per ogni
aspirante alla università: e tutti i compositori della "magna curia" imperiale
erano addestrati alluso cancellieresco della lingua ufficiale dellEuropa
cristiana. Ora, luso vivo (anche se approssimativo, come si è detto a suo luogo)
della lingua originaria dei vari dialetti dItalia smussava le evoluzioni regionali,
per riportare facilmente ad un linguaggio il più vicino alla lingua madre. Tutti sono
spinti allimpiego di un linguaggio il più vicino possibile alla lingua di Roma
anche dal pregiudizio che i dialetti usati dal popolino sono "volgari", cioè
indegni di accedere alla espressione di una poesia che aspirasse alla gloria e non al
divertimento, che cantasse i temi della virtù, della guerra e dellamore, i tre più
alti argomenti del parlare e comunicare umano (cfr. Dante: De vulgari eloquentia). b)
Anche più banalmente, bisogna ricordare che a Bologna, allalma mater studiorum,
occorreva pur intendersi fra studenti della stessa nazione e che, ammesso pure
lassenza di qualsiasi altro fattore di accorpamento dei vari linguaggi italici, il
solo gioco del libero incontro degli studenti, avvantaggiava decisamente la lingua della
sede universitaria e del gruppo di studenti quantitativamente maggioritario. Naturalmente
la legge della gravitazione era in favore della massa maggiore di studenti settentrionali,
mentre la lingua più vicina al latino si rivelava il toscano: in favore di questo idioma
neolatino giocava cioè il primo motivo (sociale) ed il secondo (psicologico), senza dire
del probabile peso qualitativo della maggior musicalità della continuazione del latino in
bocca ad un fiorentino, rispetto a tutte le altre trasformazioni regionali. E ancora: a
Bologna insegnava Guido Faba (o Fava, nato prima del 1190; autore di libri per una
elegante prosa latina già nel 1229; iniziatore della prosa illustre volgare con
"Gemma purpurea" e con "Parlamenta et epistole" del 1239; morto dopo
il 1243), che doveva stimolare lamore per una lingua volgare non indegna del modello
latino, visto che le ultime due opere presentano modelli di discorsi e lettere nelle due
lingue. A Bologna, egli insegnava già nel secondo decennio del Duecento: ne avran sentito
linflusso i curiali federiciani nella loro giovinezza di studenti? c) Infine va
tenuto presente il riferimento alla poesia provenzale: questa finiva per favorire la
scelta di parole più vicine alle parlate settentrionali che non agli idiotismi
meridionali o, addirittura, per suggerire vocaboli estranei ad entrambi i gruppi di
idiomi, ma divenuti patrimonio comune alla nascente lingua poetica, dovunque venisse
impiegata.
Non che si pretenda di comprendere il complicato interferire di una parlata italica con le
altre, ma forse il triplice fattore latino-bolognese-occitanico rende più comprensibile
il convergere verso il toscano, pur nelle peculiarità siciliane, dello strumento
espressivo della prima scuola poetica in Italia.
4)Residui della lingua latina e provenzale. Come per il Cantico di S. Francesco e per i
versi di Jacopone, la lingua latina affiora quasi intatta (Rinaldo dAquino, Già mai
non mi conforto, la espressione ripetuta due volte: "O santus, santus Deo")
oppure in compromessi evidenti (ivi, il vocabolo "la die" per "il
giorno").
Più insistenti le reminiscenze franco-provenzali (oitaniche ed occitaniche). Basti
qualche esempio da G.da Lentini: allumina (illumina), leanza (lealtà, fedeltà), ben
appreso, nodruto ed insegnato (ben educato, allevato e formato), caunoscenza (saggezza),
(i)ntamato (leso),plagenza (piacere), dottanza (timore), aigua (acqua), allungato
(lontano), arrosa (irriga), la dolze mi amore (il mio...), ciera (volto), la flor
(il fiore), cominzare, amanza, amistade, amistanza, intendenza, ascio (agio| ho), disascio
(disagio), gioia (è parola rimasta: ma si trova anche "gioi, gio e
gaugio"), sol(l)azzo, argoglio, avenente, g(i)ente (gentile), adesso (parola rimasta:
ma dapprima significava "subito"), longiamenti (lungamente), miraturi
(specchio), tutisuri (=toujours= sempre)...
4)La metrica della Scuola siciliana. a)Gli schemi compositivi son quelli dei Provenzali
(canzone, canzonetta, discordo, tenzone, sirventese, contrasto o pastorella o villanella),
con una sola novità: il sonetto. Forse inventato da G. da Lentini, è probabilmente una
stanza isolata di canzone. Benchè si trovino anche sonetti di sedici endecasillabi, ben
presto la sua metrica si stabilizzerà definitivamente: quattordici endecasillabi, divisi
in due quartine e due terzine. Le quartine ammettono solo due rime; le terzine, anche tre.
La posizione delle rime può variare (alternata ABAB o baciata, accoppiata AABB o
incrociata, chiusa ABBA).
b)Va per altro notato come in questa prima generazione di poeti la precisione metrica non
è sempre osservata. La mescolanza od indistinzione tra settenari, ottonari e novenari è
già presente in Jacopo da Lentini. Ad esempio la canzone "Guiderdone aspetto
avere" presenta ottonari nella fronte, settenari nella sirma, un novenario nella
fronte della terza stanza ("Fina donna, cheo non perisca"), mentre
quaternari e quinari si alternano in libertà nel terzo e sesto verso di ogni stanza.
Lanisosillabismo (ineguaglianza nel numero delle sillabe) trova una ragion
dessere probabile nella mancata coscienza che quanto interessa pel musicalismo
metrico non è tanto il numero delle sillabe, ma la posizione dellultimo accento nel
verso, anche se il verso prende il nome dal numero di sillabe più solito, che è quello
del verso che termina con parola piana (accento sulla penultima sillaba: la posizione di
gran lunga più solita per la lingua italiana). Tale disorientamento era facile per
verseggiatori che avevano i loro modelli più ovvi nelle lingue francese (oitanica) e
provenzale (occitanica), che hanno laccento sempre sullultima sillaba
pronunciata (sono praticamente tutte parole tronche). Un verso di otto sillabe in tali
lingue corrisponde in realtà ad un novenario italiano, perchè si tratta di un verso che
finisce in parola tronca e conta perciò una sillaba in più. c) parallelo è
lanisostrofismo, la irregolarità metrica per cui non sempre le strofe hanno lo
stesso numero di versi. Nel "Notaro" troviamo questo fenomeno per il discordo
"Del cor mi vene", che imita il turbamento del cuore e il susseguirsi di
sentimenti diversi anche nel relativo disordine di versi e strofe (un po come nel
ditirambo greco). d) In compenso si hanno tecnicismi di una perfezione allucinante, come
nelle canzoni "unissonans", cioè costruite tutte sulle stesse rime della prima
stanza, rime che quindi si rincorrono di strofa in strofa nelle medesime posizioni
(esempio del Notaro: "Ben mè venuto prima cordoglienza"); o come in
quelle dette "capifinidas", cioè costruite in modo che lultima parola di
una stanza sia anche la prima della strofa seguente (sempre di G. da Lentini: "Poi no
mi val merzè nè ben servire": che è anche unissonans!).
ALCUNI POETI LIRICAMENTE SIGNIFICATIVI.
GIACOMO DA LENTINI (il "Notaro"). Si hanno di lui atti pubblici dal 1233 al
1240. Considerato iniziatore della "scuola", occupa il primo posto in ogni
collezione di poeti siciliani. Primo ad usare il sonetto, lo si considera suo inventore.
Ci ha lasciato circa 40 composizioni: canzoni, sonetti, un discordo e, in più, la
partecipazione ad una "tenzone" sulla natura damore tra Jacopo Mostacci e
Pier delle Vigne; e ad unaltra con labate di Tivoli. Appena tollerabili ci
sembrano i sonetti "Amor è un desio che ven dal core"; "Madonna ha in sè
virtute con valore" e "Chi non avesse mai veduto foco". Venato di lirismo
autentico, laltro: "Io maggio posto in core a Dio servire", ove note
di idillio candido si alternano col sorriso di umorismo discreto, in un gioco tra
ingenuità e malizia che rende simpatico lautore, anche se rischia di operare una
"dissolvenza incrociata", per la sovrapposizione elidente (corrosiva) dei due
contrastanti stati danimo.
GIACOMINO PUGLIESE. E un poeta difficile da identificare come personaggio della
curia di Federico. Più valorizzato dai critici romantici e positivisti del secolo
diciannovesimo che dagli antichi: Dante non lo cita nel De vulgari eloquentia. Pur nella
esilità del canzoniere pervenutoci (sette tra canzoni e canzonette, più un discordo),
presenta però almeno quattro composizioni esteticamente sufficienti: "La dolce cera
piagente", "Isplendi"ente stella", "Donna, di voi mi
lamento", "Morte, perchè mhai fatto sì gran guerra?". Il motivo
ispiratore è unico: lamore: Ora è celebrativo, ora è polemico, ora è luttuoso,
ma i toni lirici sono soltanto contemplativi, oscillanti fra lidillio e la elegia.
La celebrazione, dunque, non è epica; non drammatica è la polemica; non ribelle, la
protesta contro la morte, che gli ha tolto la donna amata. Alla radice di questa
univocità di tono lirico (un idillio mesto ed una tristezza consolata) sta naturalmente
la psicologia del poeta: quella stessa probabilmente, per cui il suo nome
"Giacomo" è stato spontaneamente tradotto nel diminutivo. Si tratta di
unanima timida e discreta, più inclinato alla mestizia meditativa che alla stessa
gioia pacata. In "Donna, di voi mi lamento" cè una parte vivace e
battagliera: è quella della donna, la quale (figuriamoci se se ne sta zitta!) risponde
non senza ironia alle garbate rimostranze dellinnamorato. Per raggiungere
drammaticità ed umorismo, Giacomino Pugliese deve attribuirle ad altra persona, deve
uscire da se stesso. La stessa canzone "Morte, perchè mhai fatto sì gran
guerra" è sì una protesta contro la villana potenza "che non ha(i)
pietà(nza)", ma fatta in tono da gentiluomo, che non trasmette sdegno ma commozione
e che finisce con la rassegnazione ("or sia il voler di Dio, da cha llui
piace") e con una tenera preghiera: "La Sua virtude sia, bella, con teco| e la
sua pace". La tecnica stilistica è in perfetta coerenza (come sempre, nelle poesie
riuscite) con i toni lirici. Troviamo, infatti, domande flebili, sofferte, inutili, da
quella che apre la canzone ("Morte, perchè...") a quelle che riempiono tutta la
terza stanza ("Oi Deo, perchè mhai posto in tale iranza?... Madonna, chi lo
tene lo tuo bel viso?...) a quella che si prolunga per metà della stanza successiva
("Ovè Madonna e lo suo insegnamento... e cortesia?"). La musicalità
conferma la congenialità del tono elegiaco in Giacomino:la prevalenza di liquide (L,R,
GL) e fruscianti (S,Z) è fin eccessiva; anche le nasali sono in buon numero, con le
palatali C(i) e G(i), sebbene in frequenza meno sproporzionata del gruppo precedente. In
fatto di musicalismo, si è però sorpresi dalla durezza della non grande schiera dei
suoni forti. Pochi, sì, ma decisi: gutturali (CH, GH), dentali, labiali si schierano a
battaglia fin dal primo verso di "Morte, perchè mhai fatto sì gran
guerra?"Come mai non comunicano il senso drammatico, nonostante il rafforzamento che
viene loro dalla presenza nunmerosa di vocali larghe, anche in posizione di rima; e dalla
vocale "I" con iato (sia, mia, compagnia) che risulta suono stridente,
tagliente? E il contesto di liquide e nasali che prevale: almeno fino a un certo
punto. Si vuol dire: la impressione finale è quella detta: elegia prevalente. Ma quanta
parte ha la musicalità nellattenuarla, ridurla di efficacia e di calore? La doppia
tastiera sonora su cui gioca il poeta è un segno sicuro di una certa distonia della sua
anima, cioè di una tendenza ad oscillare da un estremo allaltro degli stati
danimo; ma è causa di una sminuizione della potenza lirica, per cui la poesia di
Giacomino è sufficiente e leggibile con gusto... ma non troppo sovente, chè non
affascina nè commuove a fondo.
RINALDO DAQUINO. Attivo già prima del 1230, visto che la canzonetta "Già mai
non mi conforto" riguarda sicuramente la sesta crociata che fu attuata (si fa per
dire) da Federico II fra il 1227 e il 1229: "le navi sono al porto e vogliono
collare" (partire dal porto di Brindisi). Che fosse fratello di S.Tommaso
dAquino è stato supposto, ma senza documenti probanti. Dante ne cita la canzone
"Per finamor vao sì allegramente", per motivi stilistici: da un punto di
vista artistico hanno ragione i romantici a salvare solo il "Lamento per la partenza
del crociato". Esso presenta unità sostanziale, pur nella dispersione dei dettagli
nel motivo ispiratore: la disperazione per labbandono delluomo amato che parte
per la guerra. Il tono lirico è drammaticamente coerentissimo. Sembra proprio di udire
una ragazza così agitata per la notizia dellinevitabile distaccoe imminente, da
perdere la testa e parlare in maniera discontinua, quasi fuori di senno. La amarezza del
fatto in sè; la stizza che egli neppure labbia avvisata della partenza; la
rievocazione di un amore tempestoso, contrastato dai genitori e pagato di persona dalla
ragazza, che pure ne è sempre affettivamente prigioniera; la imprecazione contro
limperatore, che dovrebbe mantenere la pace e invece organizza le guerre (don
Abbondio, nel c. 29 dei Promessi, verso il castello dellInnominato, riprenderà
largomento!); la preghiera insistente al Signore, perchè riconduca sano e salvo
luomo che parte al servizio della Sua "santa cruce": tutto pare così
spontaneo e vero, che quando nellultima strofa esce fuori la richiesta ad un
verseggiatore di scrivere per lei un sonetto da far pervenire al crociato, dispiace.
Dunque, la canzonetta è un puro esercizio poetico di un rimatore scaltrito (Rinaldo,
appunto), in stile popolareggiante, non senza qualche sorrisetto di canzonatura alle
spalle della giovane imprudente, cascata anche lei!- in un amore di caserma che si
poteva ben prevedere come sarebbe andato a finire... Ma è notevole che il poeta, partendo
da un motivo che non lo tocca da vicino (anche se di esperienze del genere avrà avuto
più volte notizia), abbia saputo incarnarsi nel personaggio, ricostruendo un guazzabuglio
di sentimenti e di ricordi, di timori e di speranze quali una ragazza di popolo si
immagina possa soffrire davvero in un caso simile; e soprattutto partecipare,
cordialmente, al tumulto affettivo della giovane, che la fa vagare a sbalzi da un
particolare allaltro, ma sempre nella coerenza del tormento, dellangoscia,
dellagitazione. Guazzabuglio di rievocazioni, ma tenacia di sentimento: una ragazza
con poca testa e molto cuore: simpatica alla fin fine nonostante la sua ingenuità, grazie
alla malizia del poeta! La canzonetta è in otto strofe di otto settenari ciascuna, con
schema di rime ababcbcb. Vi si incontrano residuati latini (già segnalati: la die| santus
Deus) e francofoni (la dolze mi amore| dottata = temuta| giente = gentile) nonchè
meridionalismi (abentare = aver pace, riposare). La musicalità è franta (rotta, cioè
forte e triste), con vocali prevalentemente larghe (forti, quindi) in posizione ictata e
qualche consonant duretta (T+R: "contrata"): ma la più parte delle consonanti
è inclinata alla dolcezza delle liquide, nasali, fruscianti, palatali: tristezza ribelle,
arrabbiata,disperata, insomma.
LAMENTO DI DONNA ABBANDONATA (già attribuita ad Odo delle Colonne). Rimasta adespota,
dopo che i critici hanno messo in forse la stessa esistenza di un Odo delle Colonne, cui
era tradizionalmete attribuita, la canzonetta merita, però, citazione ed esame per la
forza di certe espressioni, che non trovano paragone in tutta la letteratura della Scuola
siciliana. "Oi lassa namorata" è il grido straziante di una donna gelosa
per lintromissione di una mala femmina a contrastare il suo amore.
Lindigrnazione esacerbata non è però portata alla purificazione totale dalla
passionalità pratico-operativa: si sente la rabbia beluina non del tutto decantata in
versi come questi: "O Dio, chi me lo intenza (contende)| mora di mala lanza| e senza
penitenza"; "ma ferilla che il tene (colpisci colei che lo tiene
prigioniero del suo amore)| aucìdela sen(za) fallo". Per questo la canzonetta piace
fino a un certo punto: non è sublime, ma mediocre. Si noti che il difetto è radicale,
non occasionale: anche lidillio che occupa la penultima strofa e gli ultimissimi
versi (a comminciare da "Va, canzonetta fina,| al buon aventuroso...") non
convince del tutto: cè unansia di efficienza che rovina il vagheggiamento
amoroso. Il musicalismo è coerentemente drammatico: le vocali larghe ictate (le poche
tenui sono accentuate e diventano taglienti: pria, balìa, fina...) lavorano in sinergismo
a consonanti forti (dentali, labiali, gutturali) con abbinamenti aspri (pr, rg, rn...).
RIMATORI SICULO-TOSCANI (O DI "TRANSIZIONE" AL DOLCE STILNOVO)
I)Le circostanze della transizione. Quale sia stata la causa per cui si ritrovano nel
Centro Italia (e più specialmente in Toscana) i risultati e la imitazione della Scuola
siciliana, dopo la morte di Federico II, è problema non del tutto chiarito. Non che
manchino ipotesi ragionevoli per una soluzione della questione, ma si tratta di induzioni,
senza prove di fatto (confessioni degli interessati o testimonianze di contemporanei). Ad
esempio si fa notare che re Enzo, figlio dellimperatore, fu prigioniero in Bologna
dal 1249 (battaglia alla Fossalta, in cui fu catturato) al 1272 (anno della morte):
avrebbe lui diffuso la consuetudine. Si risponde che, al più, Enzo potè accentuare una
traslazione già in atto, perchè è inverosimile che Bonagiunta degli Orbicciani (nato
nel 1220 ca e coinvolto in documenti pubblici già nel 1242) abbia atteso i
trentanni per comporre poesie, anche perchè, nel 1249, non era più studente a
Bologna. Si fa allora notare che a Bologna dovevano pur aver diffusione le novità
letterarie, per il fatto solo che vi era una massa di studenti, nelletà in cui
moltissimi si sentono poeti e inclinati a scrivere in versi: come era nota la produzione
(declinante) in lingua provenzale, così doveva circolare la produzione siciliana. E
il ragionamento già addotto: il "crogiuolo" della università come sorgente
prima del linguaggio sovraregionale usato dagli scrittori della scuola siciliana. Ma resta
allora da giustificare il fatto che non solo i quattro nomi degli
imitatoriinnovatori più noti della poetica sicula sono tutti e solo toscani
(Bonagiunta, di Lucca, Guittone di Arezzo, Chiaro Davanzati e Compiuta Donzella, di
Firenze), ma che anche i minori e minimi (e se ne citano una trentinafanno capo a città
toscane, come Lucca e Pisa, Pistoia e Siena. Ci sembra che ai due fattori ambientali prima
esposti (università di Bologna e presenza di re Enzo) si debba aggiungere la padronanza
della espressione verbale e il gusto per larte in genere e per la letteratura in
particolare, così frequenti nella popolazione toscana. Che Bonagiunta e Guittone si siano
trovati a Bologna, lo dimostra la loro attività (giuridica, pel primo e politica, per il
secondo): lhobby della poesia perdurò nel passare degli anni verdi e nonostante la
loro professione ed i loro impegni pratici. Chissà quanti, provenienti da tutta Italia,
avran sentito il fascino delle muse: ma sarà stata infatuazione adolescenziale: la
costatazione che "litterae non dant panem" li avrà poi ristretti alle sole
attività pratiche e redditizie...
Ma il fatto che i tre rimatori siano tutti toscani e si conoscano ed anzi si scrivano
(Guittone a Compiuta Donzella), non autorizza a parlare di una "scuola": manca
un programma e un punto di riferimento nuovi. Essi prendono le mosse dal modello dei
Siciliani e, quando innovano rispetto a loro, corrono ciascuno il certame poetico secondo
un proprio, singolare sviluppo interiore. "Scuola", no, dunque: ma
"transizione", sì. Difatti sarebbe difficile spiegare il sorgere del
Dolcestilnovo senza la mediazione di Guittone dArezzo, il quale introduce per primo
la tematica etico-politica fra i motivi ispiratori della poesia profana. E per
questo che continuiamo a considerare Guittone il poeta più importante del gruppo,
nonostante che Bonagiunta lo preceda e, probabilmente, abbia aperto lui la strada alla
imitazione della prima scuola darte in Italia. Con la sua produzione di cinquanta
canzoni e di duecentocinquanta sonetti (o giù di lì), egli è divenuto il faro cui si
rivolsero i candidati alla poesia della generazione fra il milleduentocinquanta ed il
milleduecentosettantacinque, fra cui Guido Guinizelli che, accostatosi alla poesia come
seguace dellAretino, ad un certo punto se ne stacca polemicamente, per una
espressione più spontanea e pià calda, più cordiale e meno intellettualistica. Ecco,
lanalisi che Dante fa per spiegare il successo delle proprie rime a Bonagiunta,
trovato in Purgatorio (24, 52-63: "Ed io a lui: - Io mi son un che quando| Amor mi
spira, noto, e a quel modo| che ditta dentro, vo significando"), ci pare da
interpretare nel senso ovvio, così come la risposta del verseggiatore lucchese ("O
frate, issa veggio disselli il nodo| che il Notaro e Guittone e
me ritenne| di qua dal dolce stil novo chi odo"). Significa assenza o
insufficienza di affettività in favore di un tecnicismo razionalistico, tipico tanto del
trobar clus nella Scuola siciliana ed in Bonagiunta, che del moralismo in Guittone. Questi
poeti guittoniani ebbero dunque una funzione propedeutica allaura poetica dello
Stilnovo e soprattutto di Dante. Tuttaltro che inutile, dunque, il loro lavoro,
perchè stimolò la vena artistica di più scrittori geniali, inserendo
nellorizzonte della loro ispirazione la idealità etico-politica e innalzando così
il livello culturale di tutta lattività letteraria successiva. Benchè non
eccezionali come livello lirico, non possiamo, perciò, trascurare i quattro verseggiatori
menzionati come antesignani e battistrada della miglior poesia che si preparava.
BUONAGIUNTA DEGLI ORBICCIANI. Notaio, era di Lucca. Se ne trova il nome in documenti dal
1242 al 1257. Con tali estremi di attività matura, la sua nascita vien posta circa il
1220 e la sua operosità poetica la si colloca ben prima di quella di Guittone, più
giovane di circa quindici anni. Ma del suo linguaggio si lamenta implicitamente Dante nel
De vulgari eloquentia, quando afferma che vocaboli come "issa" nel senso di
"adesso" (cfr. Purgatorio, 24, riportato) sono indegni del volgare illustre.
E per questo grigiore prosastico che non ebbe seguaci, come invece Guittone, da cui
forse fece in tempo a prendere più che a dare, in quei passi in cui si allontana dalla
sequela pedissequa dei siciliani. Se si fosse conosciuto di più, avrebbe cantato il
modesto ma sentito motivo della natura. Ci si accorge che ne è commosso quando vi
accenna, ma purtroppo egli non ne fa mai motivo centrale del suo poetare: la natura
interviene nei paragoni per spiegare il suo stato amoroso o, meglio, per obliterarlo in
sentenze etico-psicologiche, che si appoggiano a qualche immagine ispirata dalla
contemplazione del paesaggio.
II) GUITTONE DAREZZO. Figlio di Viva di Michele, nato attorno al 1230-5 e morto nel
1294, crebbe in ambiente guelfo, esule perciò dopo Montaperti (1260), quando la Toscana
divenne ufficialmente ghibellina. Pare che già nel 1257 inizi quella crisi religiosa e
morale, che altri vorrebbe collegare invece con la sconfitta di Montaperti, tre anni dopo.
Comunque egli, che era sposato e padre di tre figli e scriveva poesie damore
(benchè già ricche di preoccupazioni morali) parla di una "conversione" a
metà della sua vita. Essa lo porterà ad entrare nei "Cavalieri di Maria Vergine
"(Milites B. Virginis Mariae, detti comunemente "frati godenti"), fondati
nel 1261 nel nobile tentattivo di portare onestà nella gestione dei "comuni"
che ormai, dopo la morte di Federico II, erano ridotti a chiamare un podestà annuale da
altre città, per evitare che le fazioni e i loro interessi contrastassero con la
giustizia amministrativa ed il bene comune dei cittadini. Da questo momento i temi morali
e religiosi o politici assorbiranno tutta la sua ispirazione, portando avanti quella fama
di "dittatore letterario " nellItalia centrale, che affascinò per qualche
tempo anche il fondatore dello Stilnovo, G. Guinizelli; e che continuò nel suo poetare e
nel suo magistero anche dopo la nascita della nuova corrente letteraria. Tra i suoi
meriti, non va dimenticato quello di essere stato il primo ad usare nella realtà della
corrispondenza epistolare un volgare illustre, cioè gli va riconosciuto il primato di una
"prosa darte volgare" (Guido Faba pubblicava lettere e discorsi fittizi,
di esercitazione, ma non ci ha lasciato nessun documento di oratoria o lettera reale).
Egli ebbe anche il pregio di una erudizione enciclopedica, cosa ancora rara per i suoi
tempi. Sullampliamento dellorizzonte contenutistico della poesia si è già
detto più volte: egli operò la transizione dal tema puramente amoroso a quelli etici e
politici, dando allispirazione poetica un respiro più universale, unumanità
più matura, un contenuto più ideale , un volo più alto. Ma di lui disse bene il De
Sanctis: "Guittone non è poeta, ma sottile ragionatore in versi... gli manca misura
e melodia... E privo di gusto e di grazia... Luomo ci è... morale e
credente... E cè anche luomo colto, una mente esercitata alla meditazione e
al ragionamento". Egli spiega gli ideali alla mente, ma non facendoli sentire al
cuore. In proposito va notato che neppure nelle poesie damore, precedenti la
"conversione", affascina: è sempre lo stesso intellettuale arido. Dante che si
sintonizzava sugli artisti di razza e non sui predicatori più o meno istruiti, gli fu
critico severo, sbalordito che avesse avuto tanto seguito.
Questo non toglie che una poesia degna di nota sussista: è il commento amaro e lacrimante
alla sconfitta di Montaperti: "Ahi lasso, or è stagion di doler tanto". Ma è
la migliore delle sue composizioni, non una poesia sufficiente: manca di forza sintetica;
è troppo perifrastica e lenta nellesporre; non sa scegliere fra tristezza per la
sventura di Firenze e sarcasmo per i danni che anche le città ghibelline (pesante
tassazione e gravosa ospitalità ai soldati tedeschi di Manfredi) ne avranno. Rimangono
dei versi o delle espressioni (di stampo elegiaco) che convincono e si ricordano
volentieri: Firenze che, già "fior sempre granata" (feconda di frutti),
"fior che sempre rinnovella", ora è divenuta "sfiorata Fiore",
perchè ha abbandonato lealtà, valore, giustizia e amore di pace... A queste felici
immagini, si contrappongono vocaboli forzati come "forte" nel senso di destino;
"dannaggio", di danno; "mante", di molte.
Nelle altre composizioni egli gioca sulle parole, come un presecentista: "Amore
quanto a morte vale a dire"; "E amo solo lei che modia a morte";
"féra non è sì strana che non fosse (sic!) divenuta pietosa"... Fra tanti
concettini, che saranno ripresi dal Petrarca e, attraverso lui, diffusi in Spagna (la
quale li riporterà peggiorati già nel Quattrocento in Italia, attraverso Benedetto
Gareth, detto il Cariteo e Serafino de Cimminelli, detto lAquilano), si
ritrova però un grande concetto che farà strada: la nobiltà non dipende dalla nascita
fisiologica (dai "natali"), ma dalla virtù personale. E una dottrina ben
presente nella filosofia scolastica di San Tommaso, che sarà rilanciata da G. Guinizelli,
il quale ne farà il concetto fondamentale tra quelli caratteristici del Dolcestilnovo
(cfr. "Al cor gentil rempaira sempre Amore").
CHIARO DAVANZATI. Fiorentino, fu probabilmente quello dei due personaggi noti con
tal nome che morì nel 1304. Ci ha lasciato sessantun canzoni e un centinaio di
sonetti. Non ebbe, però, fantasia innovatrice nè per i temi trattati (imita i
provenzali, i siciliani e talvolta prende pure da Guittone) nè per i moduli stilistici
(si esprime con fredda chiarezza, degna di un fiorentino di buon sangue, ma nulla più),
sicchè merita un cenno solo per il sonetto "La splendi"ente luce
quandapare": idillio riuscito, anche se appena sufficiente per la volontà
celebrativa (epicizzante) che crea dissolvenza incrociata: un tono lirico tende ad elidere
laltro, senza riuscire a fondersi in estasi di vagheggiamento.
COMPIUTA DONZELLA. E lo pseudonimo ( giovane donna perfetta) con cui si firmava una
rimatrice fiorentina del secolo XIII. Si tende ad accettarne oggi la esistenza reale,
anche perchè si hanno lettere a lei di Guittone dArezzo. Si hanno tre soli sonetti
di lei; e i primi due sono artisticamente più che sufficienti. Il migliore è il primo,
diviso fra l'dillio (nel contemplare donne e uomini soddisfatti nel loro amore) e
dramma (nel protestare contro la propria situazione di "sposa" forzata dal padre
a maritarsi con un uomo che non ama). Le due parti sono ben distinte fra loro e non si ha
elisione. Il secondo sonetto è già più incerto, oscillando fra elegia e ribellione, fra
tristezza per la propria situazione e contestazione di un mondo così malvagio, che la
ipotesi di una monacazione riparatrice diventa altamente suggestiva. Il terzo sonetto
risposta ad un anonimo estimatore e consolatore la vede disposta a
"servire con buona cortesia| a ciascuno chama senza fallimento": ma la
vivacità poetica è tramontata. Ad ogni modo sorprende favorevolmente la scioltezza
espressiva in una donna, degna della chiarezza e della disinvoltura mentale della miglior
fiorentinità; e la capacità di trasfigurazione emozionale della sua situazione,
purificata da rigurgiti passionali e sublimata in un atteggiamento transpersonale (almeno
nei due primi sonetti).
IL DOLCESTILNOVO
IL NOME, LA SCUOLA, GLI ADEPTI. In Purgatorio 24, 57 è così chiamata da Dante il
cenacolo letterario che, seguendo lesempio di Guido Guinizelli, si espresse non solo
con raffinato impegno stilistico, ma anche con risultati lirici eccezionali
nellambito di una "poetica" (concetto della poesia) comune. E
proprio la discreta convergenza nella comune dottrina circa lessenza,
loggetto, gli scopi del poetare che permette di chiamare "scuola" questo
gruppo di rimatori tosco-emiliani, che venivano operando in sede letteraria quella
rivoluzione che Cimabue e Giotto stavano attuando nel campo della pittura: dalla dignità
linda ma stereotipa dello stile bizantino e del primo romanico alla cordialità viva,
commossa del gotico. Daltronde i poeti di questo "circolo ideale" si
scambiavano poesie fra loro, che non erano solo più tenzoni su materie astratte, ma
lettere di confidenze personali (GuidoCavalcanti a Guido Orlandi: "Una figura della
donna mia"; Gianni Alfani a G. Cavalcanti: "Guido, quel Gianni cha te fu
laltrieri"; Dante a Guido: "Guido, i vorrei che tu e Lapo ed
io") ovvero di rimprovero (G. Orlandi a G. Cavalcanti: "Savessi detto,
amico, di Maria"; G. Cavalcanti a Dante: "I vegno il giorno a te infinite
volte"...). Non erano ancora unaccademia, ma si sentivano consapevoli di
rappresentare una élite di ingegni eccezionalmente dotati e uniti da una comune
ispirazione. E vero che, tutto sommato, si tratta di una manciata o poco più di
verseggiatori, di cui solo un paio riusciti grandi poeti... Eccone i nomi. Del fondatore
anzitutto: GUIDO GUINIZELLI (bolognese: 1235 ca-1276). Poi, del poeta più grande: DANTE
ALIGHIERI (1265-1321:quello giovanile, della Vita Nova e delle Rime, escluse però le
"petrose" che vedremo). Dellaltro grande poeta: GUIDO CAVALCANTI (pur lui
fiorentino e amico di Dante:1260 ca-1300). E, poi, dei minori: CINO DA PISTOIA (270
ca-1336 o 1337), DINO FRESCOBALDI (fiorentino:1271 ca- 1316), LAPO GIANNI (fiorentino:
1275-1328), GIANNI (degli) ALFANI (fiorentino, a cavallo tra il secolo XIII e XIV).
Stanchi, ma sempre eleganti continuatori della prima generazione sono SENNUCCIO DEL BENE
(fiorentino:1275 ca- 1349) e MATTEO FRESCOBALDI (probabilmente figlio di Dino, morto nel
1348).
LAMBIENTE IN CUI NASCE. Abbiam parlato di una "poetica" comune, ma non
labbiamo spiegata. Per comprenderla, infatti, occorre anzitutto rifarsi
allambiente complesso (socio-politico, religioso, filosofico e scientifico) di
Bologna, dove opera il Guinizelli.
Lambiente socio-politico. Morto Federico II (1250) e nonostante la breve ripresa con
Manfredi (da Montaperti, 1260, a Benevento,1266), il ghibellinismo si avvia al tramonto.
Con esso perde importanza, nellItalia centrale ed in Lombardia, la nobiltà, legata
per lo più al vertice della aristocrazia, limperatore appunto. La borghesia che è
in ascesa, per lo più è guelfa; essa le succede nel governo dei liberi comuni: in
Toscana il fenomeno sarà così perentorio che tenterà, con gli "Ordinamenti di
giustizia" di Giano della Bella (1293), di escludere del tutto i nobili dalla dalla
vita politica comunale. Col 1295 si giungerà al compromesso, per cui gli aristocratici
potranno avervi parte, a patto di iscriversi ad una delle "arti" in cui
borghesia e popolo erano organizzati. Dovevano adattarsi ad imborghesirsi anchessi.
Dovevano metter da parte la "boria" della discendenza e del passato. Ebbene, le
rime del Dolcestinovo sono influenzate da quasta svolta socio-politica: sia Guido
Guinizelli che Dante (nobile, sia pure impoverito) dedicano intere poesie a cantare il
principio tomistico-guittoniano, secondo cui la nobiltà dipende dalla virtù
nelloperare delle singole persone e non dalla ricchezza o dalla fama accumulata dal
casato. La canzone- manifesto del Dolcestilnovo del Guinizelli ("Al cor gentil
rempaira sempre Amore") fa perno su tale dottrina filosofico-sociale.
Le componenti religiose. Vi è il riflesso della produzione ultima provenzale,
purificatasi dopo la crociata del 1208: contro la sensualità precedentemente dilagante
(causa non ultima allaffermarsi delleresia catara, che dichiarava diabolico
tutto quanto è legato alla materia: il matrimonio, i soldi, lo stesso cibo...), ecco
affermarsi la poetica di Guglielmo di Montanhgol (1229-58) che privilegia la funzione
educativa, moralizzatrice, elevante dellamore, giacchè "Damor mou
(muove, nasce) Castitatz": laffetto ed il servizio alla donna aiuta
linnamorato a dominare i propri istinti. Già nel secolo precedente, il trovatore
Marcabruno, guascone che fu in Spagna al servizio di Alfonso VII di Castiglia, aveva
tuonato, con linvettiva ed il sarcasmo, contro il libertinaggio dei poeti provenzali
suoi colleghi, ma era rimasto voce isolata. Nel Duecento invece anche Sordello da Goito
(muore nel 1269 feudatario di Carlo dAngiò, dopo aver poetato in Italia, Provenza e
Spagna), qualunque fosse la sua vita concreta, mette almeno una parte dei suoi versi al
servizio di un ideale di moralità e di elevatezza di sentimenti (compianto per la morte
di ser Blacatz: 1236). Nel frattempo in Francia Guillaume de Lorris compone, a cominciare
dal 1230, i primi quattromilacinquantotto versi del Roman de la Rose, che sono attenti ad
idealizzare ed allegorizzare la conquista della donna amata (la "rosa",
appunto), attraverso una spiritualizzazione dellArs amandi di Ovidio. Per spiegare
un simile viraggio (anche teoretico) delloperosità poetica nel Duecento non basta
però la nuova prospettiva amorosa degli ultimi poeti provenzali. A nostro parere non
basta neppure il fenomeno, pur grandioso, del francescanesimo. San Francesco può aiutare
a capire una certa moralizzazione dellItalia centrale (Bologna non esclusa: si pensi
anche solo allaffrancamento dei servi della gleba) finchè fu in vita: ma per
spiegare il "retentissement o riecheggiamento" del suo colpo dala in
Francia ed oltre, si deve far riferimento al regno di Luigi IX, che con la sua onestà,
religiosità, equilibrio e sapienza di governo mantenne nellEuropa neolatina
occidentale unatmosfera cristiana che (oltre ad assicurare, attraverso il fratello
Carlo dAngiò, la vittoria del guelfismo e lannacquamento del residuo
ghibellinismo in Italia), coinvolse anche i letterati in un processo di spiritualizzazione
ed elevazione dei propri motivi di canto. NellItalia centro-settentrionale, il
miglioramento dei costumi del clero era già stato operato dal movimento patarino che,
attraverso il martirio del diacono S. Arialdo giunge fino allelezione di papa
Alessandro II (metà del sec. XI). Ora si passa allaffrancamento dei servi della
gleba, ai movimenti di massa come quella dellAlleluia (1233), dei Flagellanti
(Ranieri Fasani), al sorgere del teatro sacro e della Lauda drammatica, alla presenza dei
religiosi nella cittadella universitaria per aiutare una vita più cristiana negli
studenti. (?) La società europea continuava così il periodo di apogeo del Medioevo
cristiano, potendo esprimere dopo i grando capitani (Innocenzo III, Francesco e Chiara
dAssisi, Domenico di Guzman) anche dei grandi "cadetti": un S. Luigi IX,
S.Alberto magno, S. Bonaventura da Bagnoregio, S. Tommaso dAquino e S. Elisabetta
dUngheria... Tale cumulo di esperienze va tenuto presente per comprendere lo
spiritualità dellamore nel Dolcestilnovo.
Le componenti filosofiche e scientifiche. Superati, ad opera di Alberto Magno, i sospetti
e le condanne contro laristotelismo, i libri e le dottrine dello Stagirita entravano
a piene vele nelle aule universitarie. I nuovi studenti non ricorrono più ai
"lapidari" ed ai "bestiari" che pretendevano di insegnare le virtù
morali o influssi fisici connessi con ciascuna forma di vita o di esistenza. Ora essi
hanno a disposizione i testi di quella "filosofia naturale" che era scienza,
propedeutica alla metafisica (il sapere scientifico, chiaramente distinto dalla teologia,
era ancora considerato parte della filosofia, perchè anchesso usava come metodo di
ricerca la sola ragione). Con la sua "Summa de creaturis" (enciclopedia delle
cose naturali) il grande domenicano allargò le notizie tramandate da Aristotele e da
Plinio il vecchio e fu maestro per molte generazioni di studiosi (la sua opera fa parte
della biblioteca di don Ferrante!). Naturalmente anche le opere di San Tommaso (Somma
telogica e Somma filosofica o "contro i pagani") vengono conosciute, così come
si diffonde il Tractatus de gradibus amoris (Riccardo da S. Vittore), mentre il De Amore
di Andrea Cappellano (del 1185 circa: fu la sorgente per il "rituale" amoroso
nei trovatori ed ebbe diffusione su scala europea) viene letto secondo il suo vero titolo
ed intento: "Larte di amare onestamente" (De arte honeste amandi: è un
libro condannato, però, da Stefano Tempier, arcivescovo di Parigi, nel 1277). Troveremo
nei Dolcestilnovisti tracce di questa multiforme cultura, sia filosofica che scientifica e
psicologica.
Continua linflusso dei modelli siculo-guittoniani, se non altro come bersagli
polemici da superare, da inverare in un "canto nuovo" caratterizzato da una
ispirazione amorosa più complessa e profonda, da una sincerità affettiva che detti versi
commossi, cioè davvero goduti o sofferti, da una raffinatezza di stile che non tenda a
sbalordire ma ad esprimere adeguatamente lamore sperimentato. (cfr. Purgatorio, 24,
citato).
I POETI PIU RAPPRESENTATIVI (ovviamente Dante sarà studiato in un capitolo a
parte).
GUIDO GUINIZELLI (Guinicelli| Guinizzelli). Nato (come pare) a Bologna fra il 1230 e il
1240 (la data 1235 è un punto di riferimento non improbabile), morì esule nel 1276 a
Monselice (Padova). Era ghibellino e la vittoria dei Geremei guelfi nel 1274 lo ridusse ad
uscire dalla città colla sua fazione dei Lambertazzi. Egli ci ha lasciato cinque canzoni
e quindici sonetti (ci sono, in più, tre canzoni di non sicura attribuzione). Aveva
cominciato come siculo-guittoniano (un paio di canzoni artificiose ed un sonetto di
omaggio a Guittone), ma ebbe poi la folgorazione di una nuova forma poetica, che lo
condusse a polemizzare collantico maestro ed a scrivere quella che può essere
considerata la canzone-manifesto del Dolcestilnovo: "Al cor gentil rempaira sempre
Amore". Anche se i seguaci toscani (Dante e Cavalcanti, specialmente) fecero più e
meglio di lui, tuttavia non ebbero torto a cosiderarlo loro maestro, poichè già nei suoi
versi si trovano sia i concetti base sia alcuni motivi psicologici sia qualche esempio
riuscito di poesia sulla linea della affettività, spontaneuità, cordialità e vivacità
che saranno fatti propri dai seguaci. Egli merita dunque di esser chiamato da Dante:
"il padre| mio e degli altri miei miglior che mai| rime damor usar dolci e
leggiadre" (Purg. 26, 97-99).
Ed ecco la trama delle novità tematiche introdotte dal Guinizelli. La nobiltà è
gentilezza danimo, non dote ereditaria ma virtù morale acquisista. Anche
lamore, in quanto è volontà di bene, è una virtù morale: tale deve essere inteso
anche lamore per la donna, che non è, dunque, brama di piacere, ma affetto puro del
cuore. Lamore e la nobiltà sono affini e si richiamano a vicenda. Un cuore nobile,
cioè virtuoso, tende ad amare in maniera nobile, pura, virtuosa. Lamore, poi, se
spirituale, mette nel cuore la nobiltà e la gentilezza. Lamore, proprio perchè
virtù che nobilita, eleva a Dio. Tra gentilezza ed amore vi è la stessa relazione che
fra "atto e potenza": la gentilezza è la potenzialità alla virtù;
lamore ne è una delle attuazioni. E lo stesso fenomeno che si può vedere in
ogni parte del creato: vi sono pietre preziose (come lo smeraldo) e minerali potenti (come
la calamita) che sono depositari di virtù, le quali si attuano nello splendore o nella
forza di attrazione.La donna è quasi un angelo di Dio "mandata in terra a miracol
mostrare", perchè di Dio riflette la bellezza ed a Dio innalza il cuore
dellinnamorato, come alla sorgente di ogni bellezza e beatitudine. Siamo di fronte
ad un amore ad impronta religiosa, anzi misticheggiante. Questo amore-virtù è, poi,
psicologicamente analizzato come uno spirito che abita nel cuore (della donna); che si
rivela attraverso gli occhi e, attraverso questi, passa nel cuore dellinnamorato (è
questa la trasposizione, ad uso dei letterati, delle dottrine psicologiche circolanti
negli ambienti universitari: le virtù sono "facoltà o potenze"
dellanima, che operano attraverso i sensi del corpo). Attraverso questa mescolanza
di filosofia e di teologia, di ragione e religione, si giunge al concetto di amore
affettivo: lontano cioè dalla sensualità bruta e selvaggia, ma anche più ricco della
semplice lode, del freddo omaggio, dellarida ammirazione intellettualistica che
caratterizzava il feudale canto dei trovatori provenzali e loro seguaci europei per la
donna alta e sdegnosa. Si opera sul piano letterario il passaggio che Cimabue e Giotto
stavano operando nella pittura: dallo stilismo raffinato ma freddo del bizantinismo alla
espressione di emotività e sentimenti. E quanto Dante protesta a Bonagiunta, come
già visto, in Purgatorio, 24, 52-4: "Io mi son un che, quando| amor mispira,
scrivo ed a quel modo| chei ditta dentro, vo significando". Lamore,
infine, getta il cuore gentile che ne è preso, in uno stato di beatitudine e di
sbigottimento, di estasi e di inquietudine nello stesso tempo: lispirazione passa
dalla descrizione e lode della donna amata alla soggettività
dellautobiografismo,cioè delle reazioni prodottte dallamore nellanimo
del poeta. Il Sapegno nota perspicacemente che, in fondo, il motivo ispiratore del
Dolcestinovo "non è la rappresentazione... della bellezza femminile nè la
confessione immediata di una passione ardente, sì piuttosto lo studio degli effetti di
quella bellezza e di quella passione sullanima del poeta amante".
Taleinteriorizzazione, tale "spin" della sorgente di poesia sarà condotto alle
estreme conseguenze dal Petrarca e dal Petrarchismo.
I toni lirici.Prevale nel Guinizelli lidillio adolescenziale del vagheggiamento e
della estasi amorosa, animata però da una nota più adulta di celebrazione, di
ammirazione mossa e vivace (che tende alla epicità): in lui è assente il tormento e
prevale invece una sensibilità gaudiosa e giovanilmente esultante. Oltre (e più) che la
canzone-manifesto ("Al cor gentil rempaira sempre Amore"), ci sembrano da
ricordare questi sonetti: "Lo vostro bel saluto e l gentil sguardo",
"Vedutho la lucente stella di"ana", "Io vo del ver la mia
donna laudare", Chi vedesse a Lucia un var capuzzo" (un cappuccio di
vaio), Pur a pensar mi par grann meraviglia"(ispirato non allamore, ma alla
corruzione della società), "Volvol ti levi, vecchia rabbi"osa" (un turbine
ti porti via...: è uneccezione nel canzoniere gentile del Guinizelli: drammatica
imprecazione contro una vecchia odiosa).
Note stilistiche. Prevale, dunque, una musicalità dolce, cioè senza asprezze di ritmo,
armoniosa, soave, coerente col tono idillico e il motivo ispiratore (affetto spirituale )
che vuole esprimere. Ma tale attitudine non è disincarnata nè evanescente: sia perchè
il pensiero si appoggia ad osservazioni concrete, allattenzione a dati esteriori
della donna (come il vestito ed i suoi colori), sia perchè esso fa riferimento frequente
ad immagini e paragoni tratti dalla natura, ingenui ma simpatici (stelle, acqua, fuoco,
tuono, caccia con la balestra, calamita...). A questo modo egli armonizza forza e
gentilezza nel "canto novo", rendendo complice il lettore anche della furia
sbrigliata e sbarazzina contro la seccaggine della vecchia fastidiosa.
La cordialità tenera del poeta è affidata alla dominanza discreta delle consonanti
liquide|nasali|dentale debole "D"| fruscianti "S-F-V"|palatali
"C-G-GN"... Viceversa, la forza sottesa resta indiziata dalle numerose vocali
larghe: domina specialmente la "O", mentre la "A" è bilanciata dalla
media "E" e da "U-I" in posizione di rima, ma sostenute da un contesto
rinforzante, corroborante. Giottesco nella gioia robusta, nella cordialità gentile. Ancor
oggi il Guinizelli ci appare come un innovatore nella giovane letteratura italiana, il
caposcuola di un modo di far poesia con lintuito esatto di ciò che è essenziale ad
essa: lamore come affetto. Offrendo a Dante questa chiave (precisa nella sua
nebulosità: "Io mi son un che quando| Amor mispira..."), egli prepara la
mente u- mana a scoprire che lamore non è che uno degli affetti necessari
allarte del poetare e avvia il processo di graduale scoperta dellaffetto come
stato danimo, dello stato danimo come emozione.
Peccato che si tratti di una minoranza di composizioni nel già sparuto gruppo di liriche
a noi giunte (e, daltronde, egli è morto così giovane!): la più parte delle sue
rime infatti risentono della moda faticosa ed astrusa dei siciliani e guittoniani più
tipici. Sembra talora di leggere i versi di due persone differenti!
GUIDO CAVALCANTI.
I giorni e le opere. Nasce da Cavalcante Cavalcanti (lepicureo condannato da Dante
in Inferno, 10) a Firenze, poco prima del 1260. Guelfo di parte bianca, seguace di Viero
deCerchi contro Corso Donati, partecipò alla vita politica della città, pur
consapevole della poca congenialità del proprio casato alla attività pubblica. Fu sposo
-per motivi di pacificazione cittadina- a Beatrice Uberti, figlia del grande Farinata; e
ne ebbe un figlio (Andrea). Corso Donati tentò di farlo uccidere durante un viaggio verso
Compostela in Spagna: riuscì solo ad interromperne il pellegrinaggio ed a scatenarne
ancor più lanimo già ostile. Dopo altri incidenti in cui ebbe parte, Guido fu
esiliato nel 1300 a Sarzana con tutti i capiparte più pericolosi, proprio durante il
priorato dellinesorabile amico Dante. Pare che a Sarzana contraesse la malaria:
richiamato per unamnistia a Firenze, vi morì il 29 di agosto dello stesso anno.
Ci sono pervenute 52 composizioni (36 sonetti, 11 ballate, 2 canzoni, due stanze isolate e
1 mottetto)
Individualità. Impulsivo e precariamente attivo, in quanto impaziente di indugio e
incapace di perseveranza, fu sostanzialmente un introverso, un nervoso con residui di
attivismo,alla maniera dello shakespeariano Amleto. Sdegnoso e chiuso orgogliosamente alla
massa della gente, era stimato e temuto più che non amato ed egli stesso fin troppo
consapevole delle proprie doti eccezionali di sensibilità ed intelligenza era
cosciente di mancare di quella tenacia e longanimità che è il segreto dei capi politici
e militari. Tutte le tesimonianze antiche (dal confratello politico Guido Orlandi, che ne
piange la miscredenza -?dove?- al Boccaccio del "Comento alla Commedia" e del
Decameron, che ne celebra il supremo disdegno per la folla e la prontezza di risposta
vellutatamente insolente, a Dino Compagni e Giovanni Villani, che ne elogiano la tendenza
alla riflessione e pensosità, ma ne denunciano la ipersensibilità e la collera) sono
concordi nel darci la figura di un personaggio eccezionale a livello emotivo ed
intellettivo, ma inconcludente e pericoloso sul piano pratico. Assieme a Foscolo, è
lAmleto della nostra storia letteraria.
I motivi ispiratori. Le idee del Dolcestilnovo sullamore trovano eco in lui, che
anzi complica la dottrina degli "spiriti" trapassanti da cuore a cuore
attraverso gli occhi, fino alla mitomania ed al sofisma. "Spiriti" (anzi
"spiritelli") sono ludito e la vista virtù sensibili
delluomo, che ha in comune con gli animali; spiriti sono la ragione e la volontà
facoltà spirituali,esclusive delluomo: lamore, che risiede nella donna
angelicata, è pur esso uno spirito che, entrando nel cuore dellinnamorato, vi
abbatte gli spiriti sensibili, le stesse facoltà vitali. Quando egli esprime troppo
sistematicamente queste distinzioni di virtù sensibili e spirituali e dello scontro fra
loro e degli effeti sulluomo, non riesce sempre poeta: fallita è, in particolare,
la faticosa ed arzigogolata canzone "Donna, me prega". Citiamo questa
composizione, perchè è al centro della disputa circa la ortodossia od eresia, il
carattere tomistico od averroistico del suo pensiero: anche in sede di poetica (dottrina
sulla poesia). Ma non sempre le sottigliezze razionali spengono la ispirazione e la
riuscita dei versi: notevole è, ad esempio, in questo gruppo di poesie psicologiche, la
ballata FRESCA ROSA NOVELLA. E poesia serena, idilliaca: cosa rara e simpatica nel
tormentato amico di Dante.
Ma la ispirazione più tipica, più congeniale al Cavalcanti è quella autobiografica,
intimistica, la descrizione cioè dei propri stati danimo in presenza della donna
amata. Davvero cè in lui un presentimento del Petrarca, che trova nellesame
dei propri sentimenti la vera fonte della commozione artistica. Ma mentre in Petrarca le
emozioni, insorgenti dalla meditazione sui propri sentimenti nei confronti di Laura, hanno
tutte una tonalità contemplativa, oscillando fra elegia prevalente e sprazzi di idillio,
in Guido la tonalità lirica volge decisamente al dramma. Sbigottimento, angoscia,
tormento, paura, sofferenza quasi dagonizzante: la donna induce nel poeta uno
smarrimento che confina col presentimento della morte. Esempio può esserne la ballata ERA
IN PENSIER DAMOR, QUANDIO TROVAI. Ma lespressione sublime di un simile
turbamento è la ballata-capolavoro PERCHI NO SPERO DI TORNAR GIAMMAI. Qui la
causa immediata della condizione di sgomento ed ambascia è la malattia del poeta, infermo
a Sarzana (od a Ni^mes, nel viaggio verso Compostela?): egli vuol comunicare, alla propria
donna lontana, la prostrazione fisica e psicologica in cui si trova, , ma lo fa parlando
alla propria "ballatetta", cioè al proprio pensiero stesso, quasi in un
soliloquio sbalordito davanti al processo di devitalizzazione dei propri spiriti
nellappressarsi della morte.
Un terzo gruppo di motivi ispiratori sono occasionali, ma non sempre trascurabili quanto
ad esiti lirici. Se non convince del tutto il sarcasmo contro il parente Nerone
Cavalcanti, immerso nella politica di parte senza averne le doti ("Novelle ti so dir,
odi, Nerone"), invece è altamente riuscito il rimprovero a Dante, impegolatosi in
una vita plebea dopo la morte di Beatrice (sonetto I VEGNO IL GIORNO A TE INFINITE
VOLTE).
I toni lirici. Il registro più congeniale a Guido Cavalcanti è quello drammatico,
proprio di una natura distonica, risentita e forte, ma incerta, non tenace, instabile,
oscillante (primaria). Più facilmente il dramma si esprime come sbigottimento, angoscia,
brivido, tormento, paura. Se questo è il registro più frequente, non è però quello in
cui egli attinga i risultati ottimali della sua poesia.Ma sono comunque degne di rilettura
e di ricordo queste composizioni (tutti sonetti, eccetto lultima che è una
ballata): "Un amoroso sguardo spiritale", "Lanima mia vilmente è
sbigottita" , "Tu mhai sì piena di dolor la mente", "A me
stesso di me pietade véne", "I prego voi che di dolor parlate"
(ballata)... Il dramma assume forza di stupore,violenza di sdegno, veemenza di rimprovero
nel già citato I VEGNO IL GIORNO A TE INFINITE VOLTE. Si tratta di un gioiello dove
lispirazione morale assurge a poesia perchè il rimprovero mantiene una carica di
amicizia e cordialità che brucia ogni residuo di passionalità immediata, che supera ogni
grettezza di finalismo pratico e crea unatmosfera di idealità universale: è
lindignazione contro ogni viltà di ciascunanima che si arrenda alla
disperazione e si abbandoni alla volgarità, illudendosi di obliare così il dolore della
sventura.
Il dramma si colora di sarcasmo nel citato sonetto a Nerone Cavalcanti, datosi alla
politica nonostante vi sia negato. Si rasserena invece (ironia bonaria) nei sonetti su una
giovane non precisamente avvenenete ("Guata, Manetto, quella scrignutuzza") o su
un amico che ha preso casa in campagna ("Se non ti caggia la tua santalena",
cioè il bisante doro con la effigie di SantElena): anche se non attinge qui
momenti di commozione sublime.
Il capolavoro (PERCHI NO SPERO DI TORNAR GIA MAI) nasce in una atmosfera
di commozione complessa, plurivalente: elegia e dramma, compassione per se stesso e
smarrimento di fronte alla ineluttabilità di una prostrazione percepita come
irreversibile, si fondono in un sinergismo il cui risultato è uno stato danimo
vicino allaccoramento, che previene il trascolorare di Pia nel c. 6 del Purgatorio.
Momenti eccezionalmente idillici si trovano nella mediocre ballata "Fresca rosa
novella"; in quella ben più riuscita "Era in pensier damor,
quandi trovai" (canta una Mandetta, ammirata ed amata in Tolosa, non
senza ombre di nostalgia pungente per la patria, Firenze); nel modesto sonetto "Avete
in voi li fiore la verdura" e in quello ben superiore "Biltà di donna e
di saccente core", nonchè in altre rime pure non supreme, fra cui anche una
"pastorella" (dialogo tra il poeta e una pastora).
Note di tecnica stilistica. Nella atmosfera già idealizzata e raffinata del Dolcestinovo,
il Cavalcanti introduce una ulteriore estenuazione, una più accentuata aristocraticità
mediante lelezione privilegiata di interessi (motivi ispiratori) astratti e mediante
un linguaggio particolarmente rarefatto. Linteresse più congeniale al poeta è il
suo mondo psicologico: egli si aggira, dunque, in un mondo di realtà accidentali (non
sostanziali come le cose e le persone), quali sono le facoltà dellanima (potenze
spirituali) o le loro attività: i sentimenti, la ragione, il libero volere, la virtù
vitale, la timidezza, la paura, la servitù damore, lo smarrimento di fronte alla
bellezza od alla malattia, il presentimento della morte... Egli vive in un mondo
signorile, ma decadente, nobile, ma evanescente: è una realtè romantica ove amore e
morte si corteggiano ed inseguono. E romanico-decadente vorremmo definire la linea
portante della sua personalità e del suo pensiero, come della sua emotività e tecnica
stilistica. La distonia neurovegetativa si prolunga e si esprime in una oscillazione del
pensiero che offre sempre i due corni di un probema e mai la loro sutura risolutrice; egli
vive fra incertezze religiose e metafisiche, in un mare di dubbi che affondano le radici
nella sua insicurezza emozionale: e la rinforzano. E loscillazione a tale livello,
lo si è visto, altalena fra elegia e dramma, fra satira e compassione. Ebbene, anche il
suo stile è adeguatao a tale "crisi" di valori intellettuali ed emotivi.
E una tecnica espressiva che non fa riferimento a spunti visivi o concreti (tanto
meno tridimensionali), ma si affida piuttosto alla dimensione musicale della parola. Non
la pittura di paesgagi, ma la confessione autobiografica è il suo orizzonte privilegiato:
non descrive lesterno lineare o cromatico di una cosa o persona e neppure le
circostanze storico-ambientali che possono aver occasionato i diversi stati danimo,
ma è affascinato dalle cause interiori che li suscitano. E uno scrittore che
"guarda dietro langolo": la presenza della donna è lasciata intravedere,
ma solo come sorgente del turbamento del propio mondo intimo; la bellezza di lei è
intuibile, ma solo come trasparenza nel gioco di spiriti e spiritelli messi in movimento
dalla sua contemplazione da parte del poeta. Forse lui stesso è giunto a capire i rischi
di un simile orizzonte di ispirazione, che è una perenne autobiografia, mentre vorrebbe
essere una celebrazione dellamore e dellamata. Ci si domanda infatti fra i
critici se il sonetto "Pegli occhi fere un spirito sottile" voglia offrirci una
analisi esauriente del fenomeno amoroso (descritto con gli "strumenti tolemaici"
di una psicologia primitiva) ovvero sia la parodia di tale pseudoscienza, ingemua fino
alla comicità: la parola "spirito" vi ritorna infatti quattordici volte,
esattamente una per ogni verso...
GLI ALTRI DOLCESTILNOVISTI. Non essendo particolarmente importanti per poesie altamente
liriche, basterà darne qualche notizia su vita ed opere e sui loro rapporti con Dante e
Cavalcanti o con lo svolgimento successivo (petrarchesco) della lirica damore.
Lapo Gianni. Di questo fiorentino ed amico di Dante (che lo cita nel De vulgari eloquentia
e nel sonetto "Guido, i vorrei che tu e Lapo ed io") si conoscono pochi
dati di vita. Notaio (attivo dal 1298 al 1328), autore di un canzoniere di 17 componimenti
fra cui stanze isolate, canzoni ma soprattutto ballate, visse forse fra il 1275 e il 1328.
Le sue poesie sono leggibili senza fatica (piane, senza astruserie ed anche musicalmente
scorrevoli), ma sono liricamente tenui e modeste. Unica eccezione è il sonetto
doppiamente caudato "AMOR, EO CHERO MIA DONNA IN DOMINO", scritto a
imitazione dei "plazer" provenzali. Eappunto una fantasticheria dilettosa,
disinvolta e scherzevole, un sogno baldanzoso e birichino verso un paradiso terrestre,
quale anche Dante si diletterà di vagheggiare, nel sonetto "Guido, i vorrei
che tu e Lapo ed io...". Purtroppo la attribzione di "Amor, eo chero..."
non è sicurissima. Sicuramente sue, ma flebilmente artistiche, sono "Questa rosa
novella" e "Angelica figura novamente". In questultima si ritrova
lespressione tipica "questangela che par di ciel venuta": è il
"senhal", cioè il sigillo del poeta dolcestilnovista.
Gianni (degli) Alfani. Anche di questo rimatore non si riesce ad identificare gli estremi
di vita, essendo candidati a tale identità, in modo equipollente, tre personaggi ben
diversi per età e professione, tre fiorentini omonimi. Delle sei ballate, ci sembra degna
di citazione quella che inizia "Quanto più mi disdegni, più mi piaci", che
però non continua con lo slancio del primo verso. La settima composizione che di lui ci
rimane è un sonetto burlesco, di corrispondenza col Cavalcanti, il maestro che
lAlfani segue non solo nello schema della ballata, ma anche nella prospettiva
amorosa, in chiave di paure e di morte.
Dino Frescobaldi. Orlandino (onde "Dino") nacque a Firenze attorno al 1271 e
morì circa il 1316. Figlio di potente famiglia guelfa (di parte nera), che commerciava in
lane ed in operazioni bancarie, aveva un padre scrittore di versi (Lambertucci) ed un
figlio (Matteo) che fu lestreo fiore del Dolcestinovismo. In lui vi è continuazione
di temi sia guinizelliani sia cavalcantiani.: del primo riprende il concetto
dellamore come virtù morale, lopposto del vizio; del secondo, quello
dellamore come angoscia, che infonde desiderio di morte. Per questultima
ispirazione, si veda il sonetto "Per tanto pianger quanto gli occhi fanno". Ma
anzichè animare tali tematiche con la partecipazione emotiva, egli le complica con una
insistenza eccessiva sulle immagini: lAmore è un arciere; gli occhi sono il suo
arco; gli sguardi sono le saette.... Si preannuncia qui il peggior Petrarca, quello stanco
ed arido delle sofisticazioni presecentiste: si veda il sonetto "La foga di
quellarco che saperse". Altre volte, invece, risente già della poesia di
Dante non solo dello Stilnovo, ma forse già della Commedia: si vedano le canzoni
"Morte avversara, poi chio son contento" e "Voi che piangete nello
stato amaro".
Cino da Pistoia. (Guittoncino dei Sinibuldi o Sigisbuldi o Sighibuldi). Visse dal 1270 ca
al 1336 o 1337. Docente universitario di diritto (agli Studi di Siena, Perugia, Napoli),
lasciò opere notevoli nel suo campo di competenza (Lectura in codicem con
Addictiones- è la sua opera principale). Benchè di parte nera (e fu in esilio dal 1303
al 1306), sostenne il potere civile contro quello ecclesiastico e appoggiò il tentativo
di Arrigo VII. Amicissimo di Dante (De vulgari eloquentia, I, 10, 2), fu in corrispondenza
poetica con lui, che gli indirizzò anche una lettera in latino dallinizio famoso:
"Exulanti Pistoriensi, Florentinus exul immeritus...". Cino scrisse una canzone
in morte dellamico ("Su per la costa, Amor, de lalta mente"...),
pianto ed elogiato a sua volta dal Petrarca, quando scomparve ("Piangete, donne e con
voi pianga Amore"). Autore del più ricco Canzoniere dolcestilnovistico (165
composizioni di sicura attribuzione e 25 dubbie), egli conta poco, però, a livello
artistico-letterario, cioè propriamente lirico-poetico. Ma ha grande importanza sia a
livello stilistico, sia per il viraggio che la prospettiva amorosa (il concetto di Amore
nel Dolcestilnovo) subisce in lui: egli segna il passaggio tra laerea spiritualità
di Beatrice e la terrestre mondanità di Laura; è il mediatore fra la religiosità del
concetto di Amore nei Dolcestilnovisti e il fascino tutto umano della donna, nella
temperie culturale che si preannunciava per il Trecento anche in Italia.
Possiamo comunque privilegiare alcuni sonetti, tipici della scorrevolezza musicale di
Cino, anche se, esteticamente, di poco più elevati rispetto agli altri: "Omo
smarruto, che pensoso vai" (40simo); "Se lo cor vostro de lo nome sente"
(55), "Se conceduto mi fosse da Giove" (62), "Omé, chio sono
allamoroso nodo" (75). Il caapolavoro (che venne alla fine) è però il sonetto
"Tutto chaltrui aggrada, me disgrada". Il primo dei sonetti citati ha
risonanze cavalcantiane, quelle della ballata capolavoro di lui "Perchi
no spero di tornar giammai". Il secondo introduce un gioco di parole tra la
"vita selvaggia" che gli è data in sorte e il nome della donna
-"Selvaggia", appunto che egli ama con cuore appassionato ("vita non
avrò se non selvaggiamente"). Il terzo, contiene tre reminiscenze dantesche. Il
quarto ha evidenti presentimenti delle trecce di Laura ("Erano i capi doro a
laura sparsi..." "oimè che sono allamoroso nodo| legato con due
belle trecce bionde..."). Ma proprio la vicinanza al Petrarca deve mettere in guardia
contro la pienezza della adesione di Cino allo spirito del Dolcestilnovo. Certo, Cino
canta un amore non corrisposto dalla donna (non per nulla "Selvaggia" anche di
nome): di qui le sofferenze e i presentimenti di morte nel poeta, i cui spiriti vengono
meno come nel Cavalcanti. Ma son più i legami che, a valle, lo inclinano verso il
Petrarca: vi è una atmosfera che va ben oltre le trecce bionde che legano il cuore dei
due poeti. Laffetto di Cino non è realtà religiosa o metafisica: la donna non è
angelo che da Dio è mandata in terra per condurre gli uomini a Lui, aiutandoli a
sublimare la passione in volontà di bene: è piuttosto creatura terrestre che fa dannare
linnamorato. Daccordo, si tratta di un amore candido nella espressione e
cristiano, come quello che cantano i dolcestinovisti. Ma è un amore che nasce dal cuore
del poeta e si rivolge alla donna: non è generato dalle virtù morali della donna, ma
dalla bellezza del suo volto. E insomma una realtà meno eterea e rarefatta,
espressa con minori astrazioni, sinbolismi, sublimazioni o estenuazioni. Beatrice
"dolce guida e cara" verso Dio sta cedendo il posto a Laura "fera bella e
mansueta" che è invece inciampo tra il poeta ed il Cielo. E si può trovare anche
unaltra analogia tra il Pistoiese e lAretino: in entrambi lispirazione
è istigata più facilmente dalla memoria passata che dalla contemplazione attuale:
laura emotiva insorge più nel rivivere situazioni precedenti che nel descrivere un
vagheggiamento presente. Purtroppo neppure questa concordanza col cantore di Laura salva
Cino dalla mediocrità: la vena poetica è sempre smorta, quando pure non è inaridita.
Forse la causa vera è nel contrasto esistente tra la conformazione psicologica di Cino e
il mondo doclestilnovistico cui ha aderito inrovvidamente. Egli aveva un temperamento
collerico (emotivo e attivo, ma primario, cioè instabile). Questo risulterebbe anzitutto
dal successo complessivo della sua vita, in più di un campo di attività (insegnamento
universitario, politica cittadina). In secondo luogo, sembra suggerito dal tono lirico del
sonetto capolavoro citato. Prima di riflettere su questo particolare, vorremmo notare che
il temperamento ipotizzato è aperto ad entrambi gli esiti della drammaticità: la
tragedia (se meno violenta, la si chiama semplicemente "dramma", per
antonomasia) e la epopea: che sono i due registri melodici del sonetto "Tutto
chaltrui aggrada, me disgrada". Sono quattordici versi scattanti, con ritmo
brioso: musicalmente, si direbbero scritti con un tempo "andante-mosso e con
allegria". E una poesia da collera per scherzo. Il poeta, infatti, da una parte
si augura ogni sorta di male per trovarsi immerso in un mondo ingiusto e scortese;
dallaltra lo fa in termini così apocalittici, da lasciar trapelare la intenzione
comica: si sente che anche lui (come loste della Luna piena nei Promessi Sposi, c.
15) sta parlando "per celia". A questo modo lo sdegno violento della protesta (o
disperazione? tragedia?) e la gioia del divertimento scanzonato (epopea? commedia!) non si
elidono, ma si fondono in un risultato sorridente ed irridente, dove cè farsa ma
rimane un fondo di scontento reale, anche se rassegnato. Se non ci fosse una tale
sfumatura, il tono lirico del sonetto sarebbe addirittura "cecchiano", cioè
simile alla comicità di Cecco Angiolieri, di cui dovremo interessarci ben presto. In
terzo luogo, lanalisi dello stile generale di Cino rivela una composizione musicale
della sua lingua in urto con i motivi dolcestilnovistici che intraprende a cantare. Questi
sono vagheggiamento estatico e contemplazione religiosa; oppure sono tormento e pena per
sofferenze interiori, non risentimento e ribellione contro mali esterni. Ora la lingua del
Pistoiese non ha nè consonantismo nè vocalismo disponibili per tali tematiche. Difatti
le consonanti hanno un impasto medio ed equilibrato, ma non univocamente dolce: dentali
dure con liquide morbide, palatali forti con fruscianti carezzevoli. Quante "T"
anche raddoppiate! quanti suoni urtanti formati da "R" impura, cioè unita ad
altra consonante a dare un suono stridente! Eppure quale percentuale di suoni consonantici
(liquide, soprattutto) ad effetto ovattante, ammorbidente! Se veniamo alle vocali, allora
il predominio delle larghe "A ed O" è sottolineato dal fatto che le troviamo in
posizioni di "ictazione" ed anche di rima. In conclusione, a nostro rischio e
pericolo, vorremmo avanzre una ipotesi radicale. Se Cino non avesse incontrato sulla sua
strada la "moda" dolcestilnovistica, egli forse avrebbe potuto abbandonarsi più
spontaneamente alla sua natura di ribelle o di burlone, per regalarci rime più sentite o
risentite, più vive e briose. Saremmo cioè di fronte ad una ingegnosità (non diciamo
"genialità") poetica disorientata dallo sforzo di fedeltà ad un programma, ad
una scuola non consoni con la sua natura, con la sua psicologia, alla materia grigia del
suo cervello che poneva dei limiti e dei viraggi precisi alla sua anima di artista (mentre
ne poneva solo di potenzialmente efficaci, ma superabili, al suo pensiero ed alla sua
attività morale). Non che egli ci avrebbe potuto dare capolavori sublimi. Se così fosse
stato, se cioè il Pistoiese avesse avuto una emotività prepotente ed una intelligenza
geniale, avermmo avuto un altro Dante; od avremmo avuto, comunque, un poeta conscio delle
sue possibilità, attento a non incappare nei temi a lui indifferenti ed alieni e dedito
sistematicamente a cantare argomenti forti e solenni, tragici od epici o comici. Se cioè
egli avesse obbedito sempre al suo "dittatore" intimo, alle preferenze suggerite
dalla sua psicologia spontanea, (forte, collerica, a prevalenza ortosimpatetica), noi
avremmo avuto un dolcestinovista in meno ma un buon poeta in più. Salvo errori od
omissioni!
LA POESIA REALISTICA
GENESI POLEMICA E SPONTANEA. Lidealismo della poesia dolcestilnovistica trovò ben
presto chi ne fece la parodia e creò controfigure alla donna angelicata. Almeno tale è
la impressione che lasciano certi rimatori contemporaneo al movimento (come Cecco
Angiolieri) o subito posteriori ad esso (Tebaldi Pieraccio, ad esempio).
Questultimo, fiorentino (1290 1350 ca: podestà e castellano) ci ha lasciato
un canzoniere di 41 sonetti eclettico nella ispirazione (ve ne sono di religiosi e di
rimorso), ma a prevalenza giocosi (contro i ricchi e la moglie) e realistici (amore
sensuale in contrapposizione evidente a quello spirituale dei dolcestilnovisti). Cecco
Angiolieri sembra deformare la sua "Becchina" in contrapposizione alla Beatrice
dantesca: anzichè donna celestiale che salva, riesce una femmina diabolica, che danna
allinferno già sulla terra il povero innamorato.
Ma non furono certo necessarie certe esagerazioni misticheggianti del Dolcestilnovo a
generare una poesia realistica. Il REALISMO, infatti, è uno degli atteggiamenti
fondamentali di fronte alla vita umana: consiste nel guardarne (Motivi ispiratori) gli
aspetti brutti e sconcertanti (le lande desolate per gelo o per aridità; i corpi deformi
per malattia o difetti congeniti; le anime ripugnanti per colpe e delitti); nel riviverli
con emozioni (Toni lirici) pertinenti alla propria individualità psicologica (che possono
essere tanto quelli drammatici e sofferti dellorrore e dello sdegno, quanto quelli
divertiti e comici dello scherno e della canzonatura); nellesprimerli (Tecnica
stilistica) attraverso la denuncia della aberrazione fra norma e realtà, senza curarsi
troppo di osservare le regole della buona creanza, del pudore o della misura (ne fanno le
spese il vocabolario che può essere volgare, la grammatica che può venir disattesa e la
metrica, che può restar zoppicante. Siamo nel genere tragico o grottesco
dellInferno di Dante. Non vè epoca della storia umana che non abbia
coltivato, assieme allatteggiamento classico e romantico, anche questo "
viraggio" espressivo. Esso nel corso del Milleduecento rimase minoritario, almeno a
livello di espressioni affidate alla scrittura, per il prevalere della cultura cristiana
già ricordata. Sia nei versi che nella prosa di tale indirizzo, vi sono stati risultati
estetici di qualche conto, anche se non paragonabili al livello artistico della poesia
seria già esaminata. E soprattutto per questo che ce ne occupiamo, anche se il
trattarne ci servirà pure come propedeutica a comprendere contenuto, sentimenti e stile
della prima cantica della Commedia (lInferno), che è quella del peccato e della
disperazione, scritta appunto nello stile "realistico" o (come insegnavano nelle
scuole medioevali) "elegiaco o basso".
RAPPRESENTANTI NOTEVOLI. Un tempo si dividevano questi rimatori in "popolari" e
"popolareggianti": i primi sarebbero stati giullari o comunque verseggiatori
ingenui, poco istruiti, espressione spontanea del popolo; gli altri erano invece i
"dotti" che volevano far propri argomenti, sentimenti, strumenti espressivi del
popolo. E una questione oggi superata: la letteratura in versi del Duecento è tutta
"popolareggiante", cioè opera di persone colte che si avvicinano ora
ironici e canzonatori, ora complici e consenzienti- ai modi popolari di pensare, di
sentire, di esprimersi, cioè ai loro valori, stati danimo e linguaggio.
Naturalmente rimangono gradazioni diverse di cultura/spontaneità, ma non si deve cercare
in nessuno il candore dello sprovveduto poeta estemporaneo, quasi voce riassuntiva di una
genialità inconsapevole, presente nei popoli primitivi od analfabeti (pregiudizio
vichiano). A ben pensare, poesie realistiche ne hanno composte sia G. Guinizelli
("Volvol te levi, vecchia rabbi"osa"), sia G. cavalcanti ("Guata,
Manetto, quella scrignutuzza"), Cino da Pistoia e Dante stesso (tenzone con forese
Donati). Ogni uomo ha, almeno come tentazione, momenti di gusto realistico, per rabbia o
per capriccio.
Cielo (Michele) dAlcamo. é lautore siciliano del "contrasto"
conosciuto col nome tratto dal primo verso ( "Rosa fresca aulentissima"). Fu
scritto certamente fra il 1231 e il 1250, essendo dato come ancor vivo Federico II e già
promulgate nel 1231 appunto- le Costitutzioni Melfitane ( e coniati gli augustali,
moneta doro di Federico II). Risulta di 32 strofe di 5 versi ciascuna: tre
alessandrini a rima unica e due endecasillabi a rima baciata, per un totale di 160 versi.
Lo si legge volentieri la prima volta, per la curiosità di sapere come va a finire il
dialogo tra il corteggiatore e la ragazza che cerca ( pare proprio sinceramente) di
rifiutarsi: il contrasto è condotto infatti con sapienza e la ragazza sembra ben armata
di argomenti per respingere linnamorato insolente, che incalza con disinvoltura
impudente. Alla fine il seduttore la spunta sulla ritrosia della giovane, ma solo dopo
averle giurato sui Vangeli fedeltà perenne ( la cosa equivaleva praticamente ad un
matrimonio, quale si trova anche in Boccaccio, nonostante la proibizione di simili
modalità, da parte del Concilio Lateranense IV). E lo si rilegge ancora, ma per
suggestioni equivoche. Da una parte, vi è certamente una discreta forza drammatica tanto
in alcune delle espressioni con cui il seduttore avanza le sue proposte a doppio senso,
quanto nelle risposte decise della ragazza che si difende fino ad assicurarsi in qualche
modo della fedeltà delluomo: siamo, per tali strofe, di fronte ad unemozione
estetica. Ma vi è la seduzione erotica non poi così latente, chè le allusioni
dellaggressore sono volgari e trasparenti: con questo (che riteniamo la maggior
attrattiva del componimento) siamo fuori dellemotività lirica e, quindi,
dellarte. Anche i versi che vivono del dramma del contrasto, comunque, di lirismo ne
rivelano solo un esile rivolo. Quando Dante nel De vulgari eloquentia classificava
negativamente la composzione, per la bassezza della lingua (esempio di volgare mediocre
siciliano: I, XII, 6), centrava il bersaglio: vi è infatti un linguaggio raramente
adeguato alla forza drammatica che si è detta, per lo più inattinente per pressapochismi
di termni e di musicalità. Lespressione troppo raramente è pertinente alla
intenzione (o, se si vuole, la duplicità della intenzione nel rimatore produce notevoli
casi di elisione per dissolvenza incrociata).
Ciacco dellAnguillaia. Fiorentino, è autore sicuro del contrasto "Gemma
lezi"osa", vicino per contenuto e nello spirito a "Rosa fresca,
aulentissima". E però ancora inferiore come esiti artistici. Oggi si tende ad
escludere che sia lo stesso personaggio di Inferno, 6 e di Decameron, IX, 8).
Ruggieri Apugliese. Nato a Siena, visse oltre la prima metà del Duecento. Fu notaio e
giullare professionista. Entro i limiti di una sufficienza (non oltre!), pure piace, sia
quando scherza su se stesso (canzone degli opposti: "Umile sono ed orgoglioso",
perchè ama una donna eccezionale...ma non e è riamato); sia quando si presenta con la
pretesa del "faccio-tutto-io", cioè dellonnicompetenza (sirventese:
"Tantaggio ardire e conoscenza"); sia quando piange se se stesso,
perseguitato dallautorità ecclesiastica perchè ritenuto amico dei
"patarini") ("Genti, intendete questo sermone:| Ruggieri ha fatto la sua
passione"). Freme in lui ora lumor gaio dello scherzo facile,
dallallegria autoironica; ora la drammaticità della protesta per le ingiustizie
sofferte e da soffrire.
Anonimo dai "Memoriali bolognesi"."For della bella cayba| fuge lo
lixignolo" è il ritornello di una triste ballatetta, che finge il pianto di un bimbo
cui è fuggito lusignolo dalla gabbia. Le quattro strofette di senari, con il
ritornello riportato, sono interessanti per vari motivi. Anzitutto hanno un loro valore
lirico: si tratta di elegia discreta: il rimatore è riuscito ad immedesimarsi con lo
stato danimo del suo tema, del bambino dolente. In secondo luogo, pare che in questo
caso si sia proprio davanti a composizione popolare, ingenua, naif; sembra lopera di
un giullare poco provveduto o di improvvisatore dotato da natura, ma culturalmente grezzo.
Non è lunico di tal genere che si abbia nel secolo decimoterzo, ma è lunico
che possa aspirare allOlimpo dellarte letteraria italiana. In terzo luogo è
interessante la circostanza che ce lo ha conservato. A Bologna una legge di fine secolo
XIII imponeva la trascrizione, per ogni contratto o testamento, in tre copie su tre
registri diversi. I giuristi addetti alla "Camera actorum" (Ufficio degli atti
pubblici) pensarono bene di occupare le eventuali parti di fogli, non coperte dalla
scrittura del documento legale, con poesie a loro note, affinchè non capitasse che lo
spazio libero venisse abusato per aggiunte furtive allatto rogato. La cosa è durata
per due decadi, quelle a cavallo fra il sec. XIII e il XIV. Per lo più ci han tramandato
testi di poesie dotte, siciliane o toscane; spesso però si son divertiti a trascrivere
canti o composizioni popolari, preferibilmente di contenuto, sentimenti e stile
realistici. Non è che, così, ci abbiano tramandato tesoro di grande livello lirico;
però ci han dato testimonianza circa la diffusione di mentalità, gusti e stilismi in
contrasto con quella cultura, cristiana e perciò moralmente elevata, dominante ma non
unica anche nel Medioevo. Spesso tali versi documentano passioni vioente o mancanza di
pudore. La nostra ballatetta è la cosa artisticamente migliore; e rappresenta anche una
voce di candore e di intimità in mezzo al vociare sbracato di unumanità al
guinzaglio di istintività e violenza.
Rustico Filippi (cioè, di Filippo). Fiorentino, di parte ghibellina, vissuto
probabilmente fra il 1230 ed il 1300. Ha al suo attivo 58 sonetti (amorosi, giocosi,
politici, di corrispondenza), in cui dimostra di aver fatto tesoro delle esperienze dei
Provenzali, dei Siciliani e di Guittone dArezzo. Questo, almeno per le composizioni
amorose o serie, che sono la metà del suo canzoniere. Ma qui egli si rivela poco felice,
seguace impacciato od innovatore maldestro (satira misogina). Il suo ingegno (non diremo
"genialità) risalta nei sonetti satirico-caricaturali, di cui è liniziatore.
Le canzonature che egli imbastisce volentieri, hanno monenti felici, di presa in giro
efficace. Le macchiette politico-militari (veri capitan Fracassa: "Una bestiuola ho
visto molto fera") o gli sgorbi di natura che pur posano a gran signori ("Quando
Dio messer Messerin fece") danno la misura del suo talento e dei suoi limiti di
satiro, che, ha sprazzi di fusione tra impeto fustigatore e comicità divertita:
"ridendo castìgat mores"; si diverte e diverte. Ne escono farse, con tratti
esemplari, quali non gli riesce mai di attingere in certi suoi versi beffardamente
inpudenti in materia amorosa. Ma si tratta di pochi versi indovinati, chè la vena comica
non resiste intatta neppure per il breve giro di un intero sonetto: inizi baldanzosi,
scattanti, ma proseguimento presto o tardi faticoso, forzato. Dopo le prime battute, gli
mancano i termini adeguati e ricorre a parole approssimative nel senso (nel sonetto
"Su, donna Gemma co la farinata" il verbo "argomentare" è inserito
nel senso di "curare, guarire"; "ha legati i denti", per "non
riesce a mangiare"); o nella grafia che non sa sentire dove raddoppiare le consonanti
(ivi: sotiletta| acendete| boca| tute| gonella...) o nella sintassi (ivi: "la
gonella" se ne porian far due" sta per "della gonna" se ne potrebbero
ora far due, tanto Mita, la donna malata,è dimagrita...). E sì che Brunetto Latini gli
dedicò il suo "Favolello", con parole di grande stima (Francesco da Barberino
invece lo ricorda come vituperatore del gentil sesso). Ma apre la strada alle invettive
politiche e morali del concittadino Dante (che, però, nel De vulgari eloquentia, non lo
nomina: segno che almeno la lingua di Rustico non piaceva neanche a lui).
CECCO ANGIOLIERI. La biografia. E senese: nato circa il 1260 e già morto prima del
1313. Ebbe individualità forte ma disordinata e riuscì uno scioperato nella vita. Figlio
insolente e ribelle, augura la morte al padre; marito infedele e libertino, canta
lamante Becchina come croce e delizia dei suoi giorni; cittadino inaffidabile ed
indisciplinato, vien punito per diserzione e vagabondaggio notturno; padre incosciente,
dissipa i beni di famiglia, tanto che i figli rinunciano alla eredità...di debiti
(davanti a notaio; e prima che il padre muoia!). Ma, benchè donnaiolo, ubriacone e
giocatore accanito, egli risulta simpatico in molte pagine del suo canzoniere, formato da
più che110 sonetti di sicura attribuzione. Lallegra estrosità con cui celebra i
suoi vizi o lanimosità drammatica con cui aggredisce chi considera nemico (il
padre, soprattutto, prudente amministratore delleconomia domestica; Dante, persino,
simile a lui nelle sventure se non nei vizi; Becchina, addirittura, quando non è cortese
con un tal amante; il mondo intero, infine, contro le cui leggi vuole campare e godersi la
vita) forniscono una copertura almeno fino a un certo segno- alla indegnità dei
motivi ispiratori, alla sfrontatezza delle passioni espresse.
I Motivi Ispiratori. La sua versificazione (abbastanza spesso poeticamente riuscita) più
che uno specchio fedele è una lente amplificante, se non deformante, della sua vita. Se,
da una parte, i documenti scritti della Siena a lui contemporanea ci han confermato colle
prove ufficiali molti suoi spropositi messi in versi; dallaltra, non si può
ignorare il gusto cinico con cui egli si osserva, si descrive, si esalta nella bruta
irrazionalità della condotta. Una parte della sua malizia sta anche
nellautocelebrazione delle le sue bravate, che lasciano, quindi, il sospetto
dellesagerazione. Qualitativamente uomo e versi si corrispondono; quantitativamente
deve esser concesso un distacco fantastico, cioè il gusto per il "colpo di
pollice" che fa traboccar la bilancia oltre la verità di fatti e sentimenti reali.
In realtà non va dimenticato che limproperium e il vituperium erana parte del
genere comico, ben conosciuto dalla tradizione medioevale: egli ha dato loro una carica
lirica non facile a ritrovarsi in composizioni troppo legate alla passionalità
pratico-esistenziale. Questi precedenti lasciano sperare che il poeta Angiolieri esasperi
il suo atteggiamento nel cantarlo, un atteggiamento che non poteva non riconoscere lui
stesso rovinoso per la salute e le finanze. Anchegli, sacro allievo delle muse,
doveva essere "un cervello bizzarro e un po balzano che, nei discorsi e nei
fatti, aveva più dellarguto e del singolare che del ragionevole" (Promessi
Sposi, c. 14). Se non fosse così, il senese "Cecco" risulterebbe un mostro
insopportabile. Egli maledice il padre (taccagno? "Il pessimo e crudel odio
chi porto..."; "Non si disperin quelli de lonferno...");
vorrebbe distruggere il mondo ("Si fossi foco, ardrei l
mondo"); proclama sua betaitudine i vizi più rovinosi ("Tre cose sommamente
menno in grado| le quali posso non ben ben fornire,| cioè la donna, la taverna e
l dado..."). Ma deve esserci molta millanteria: quella stessa oltranza che
certamente esiste, quando si proclama perseguitato da centomila malanni ( "La mia
malinconia è tanta e tale"; "La stremità mi richer per figliuolo": chi
davvero soffre profondamente non ha tempo nè estro per scrivere versi). E il paio di
sonetti di palinodia (ritrattazione), in cui definisce il parlare contro il padre come il
peggiore dei vizi capitali e si lamenta della malvagità del mondo ("Chi dice del suo
padre altro chonore"; "Egli è sì poco di fede e damore"),
possono aiutare a dar ragione a Luigi Russo, che parla di un "cinismo verbale" e
del "compiacimento espressivo dellingiuria in se stessa". Entro questi
limiti, resta però innegabile che i temi che eccitano la sua musa sono Becchina e la
passione sessuale, il vino e losteria, il gioco ed i danari. In più cè la
rabbia e la tristezza che segue alla incontentabilità, connaturata in tali passioni
edonistiche ed antisociali.
Tonalità liriche. Non unico è latteggiamento emotivo che egli assume di fronte ai
disvalori che dettano la sua vita ed i suoi versi. Ora canta gli "anti-ideali"
per cui spasima; ora si ribella contro la disgrazia di non poterli realizzare a fondo; ora
impreca contro chi gli impedisce di goderne libertinamente; ora ride delle proprie e delle
altrui miserie. Mai elegiaco nè idillico, si caratterizza complessivamente per una
baldanza celebrativa che sa di epopea, ma che si mescola allallegria che la
trascolora in farsa: anche il lamento assume la violenza dellurlo, addomesticato da
una residua briosità, che ne salva la dimensione umana ed artistica ed apparenta la
tragedia alla epicità. Esempi di epicità farsesca: "Tre cose sommamente
mènno in grado" (specie la prima quartina), "Si fossi foco,
arderei il mondo" (specie lultima terzina),"Dante Alighier, si
so bon begolardo" e i due capolavori "Becchinamor! Che vuoi, falso
tradito?" | "Becchina mia! Cecco nol ti confesso". Fra dramma ed
epopea ci sembrano stare questi altri: "Io son sì altamente innamorato" (in
lode di Becchina), "Senno non val a cui fortuna è contra". Dramma puro,
ribelle: "La mia malinconia è tanta e tale", "La stremità mi richer per
figliuolo", "Maledetta sie lorel punto e l giorno"
(che Petrarca rovescerà in benedizione, in un sonetto ispirato a questo
dellAngiolieri), "Becchina, poi che tu mi fosti tolta", "I son
sì magro, che quasi traluco", "Qual è senza denari
nnamorato","Il pessimo e crudel odio chi porto",
"Egli è sì poco di fede e damore" (contro la malvagità del mondo),
"Chi dice del suo padre altro chonore" (palinodia). Manzoni commenterebbe
arguto: "Che non si creda che a condurre vita scioperata siano tutte rose!" In
verità la musa di Cecco è una megera piena di stizza, rancore, tristezza e rabbia, di
ironia anche a proprie spese, di amarezza contro tutta la vita, non esclusi (alla fine)
anche i propri vizi. Ma, fin che gli riuscì, seppe mescolare un guizzo di riso alle
proprie, alle comuni disgrazie: e riuscì poeta.
Note di tecnica stilistica. Veristici i motivi ispiratori, grotteschi i toni lirici (fra
canti e risa) realistici anche il vocabolario, la sintassi, la sonorità della
espressione. Senza giungere alla volgarità e oscenità di un Rustico Filippi, tuttavia la
espressione lascia trasparire la brutalità dei suoi desideri; e arriva talora alla
empietà blasfema contro il padre. Il suo vocabolario è originale, con ascendenze
goliardiche e senza debiti verso gli altri poeti giocosi e realistici. Per di più, nei
suoi sonetti sono assenti del tutto gli avverbi, rari gli aggettivi persino in posizione
predicativa (dopo il verbo essere o affini): lAngiolieri è un poeta che lavora su
sostantivi e verbi!.Questo fatto conferisce al suo modo di parlare-scrivere una corposità
visiva che manca di sfumature, di gentilezza e di chiaroscuro e fanno di lui un poeta
naturalista in alto grado. Anche la musicalità ha i caratteri della banda in una fiera
paesana: nel predominio sicuro delle vocali larghe ("A" ed "O" in
posizione ictata: il tamburo e la batteria come rumori emergenti), si innesta la frequente
combinazione della "R" con altre consonanti a dare un senso rusticano, quasi il
suono del trombone in bocca ad un avvinazzato. A questo punto, però, ci si deve accorgere
di un impasto meno fragoroso e più ovattato che sta sullo sfondo ed incivilisce il
risultato complessivo, permettendo alla esibizione un livello darte, sia pur
mediocre, che la sottrae al genere del cancan e della baraonda. Questo accompagnamento
generale è costituito dallequilibrio tra i suoni duri delle dentali e gutturali, da
una parte, e quelli dolci delle liquide e nasali, fricanti e sibilanti, dallaltra:
è come un alito di gentilezza diffuso da flauti e corni, da oboe ed arpe. Tale effetto è
rafforzato dalla frequenza delle vocali deboli "I", "U" ed
"E" in posizione rimata. I versi del Senese assumono così un cordialità
popolana ma non sbracata; il suo corpo bandistico non offrirà musica di alta lirica
operistica, ma motivi vivaci di liete danze o di lamenti gridati, congeniali al contadino
analfabeta ma non sgraditi al cittadino acculturato. La sintassi nelle rime più
riuscite- è la meno complicata possibile: nei due sonetti-capolavoro il dialogo riduce le
frasi a coordinate che durano un emistichio (mezzo verso). Quando egli complica il
periodo, non sai dire se la musa lo ha abbandonato per pirma o se il ragionamento
lha scacciata: comunque la poesia sbiadisce e scompare. Eppure siamo lontanissimi
dal naif, dal popolano incolto e spontaneo. Egli ha presente Guittone ed i
Dolcestilnovisti, ma si adegua allabiezione della sua vita ed alla cerchia degli
ascoltatori del suo rango. Sapegno parla (giustamente, ci pare) di un "gusto della
esagerazione e delliperbole", di "uno spirito di vanteria ciarlatana"
che fa indovinare la "presenza di un pubblico di gusti ed abitudini conformi, e quasi
leco delle grasse risate che dovevano accompagnare la lettura di quei sonetti nella
veglia della taverna" (Compendio, cit. I, 91-2).
FOLGORE DA SAN GIMIGNANO (Jacopo di Michele, detto).
Note biografiche.Nato circa il 1270, lo si sa già morto nel 1332. Il soprannome di
"Folgòre" gli venne dallo splendore del suo estro poetico. A Siena prestò il
suo servizio poetico. Ci ha lasciato 32 sonetti: 14 formano la collana dei mesi (con un
sonetto di introduzione ed uno di conclusione); 8, la collana della settimana (con uno di
introduzione); 5 sono sonetti per "armatura di cavaliere" (collana incompiuta);
7 sono di ispirazione morale e politica (di questi ultimi, quattro sono invettive dolenti
contro i ghibellini, causa, per lui guelfo che ha combattuto a piedi ed a cavallo per il
comune, della decadenza politica). Più che poeta realista, egli va considerato
"poeta del plazer" di stampo provenzale (cfr. anche Dante "Guido, io vorrei
che tu e Lapo ed io.."). Egli si oppone al poeta dellennueg (noia), che è
Benvicenne (Cenne) della Chitarra (Arezzo, seconda metà del Duecento).
Motivi ispiratori. Si è tentati di definirli coi famosi versi che Dante mette in bocca a
Guido del Duca: "Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi| che ne invogliava
amore e cortesia| là dove i cuor son fatti sì malvagi" (Purgatorio, 14, 109-11;
vedi anche Giov. Villani, VII, 89). Non è tutta la verità: egli canta bensì la
cavalleria del mondo feudale ma, mentre celebra la classe aristocratica, gentile e
magnanima, rivela uno scetticismo che non è in accordo col quadro ideale vagheggiato dal
personaggio romagnolo della Commedia. Intanto la brigata cui egli si trova associato a
Siena come amico e giullare, commensale ed aedo, è così gaudente da lasciare il sospetto
che coincida con i dodici compagnacci riunitisi a dissipare le ricchezze dei padri in orge
conviviali; e definiti, perciò, "brigata spendereccia": Dante non potrebbe
addurla come esempio mitico di un mondo cortese, poichè lha già bollata con ironia
sardonica in Inferno, 29, 121-32. Inoltre Folgòre, guelfo viscerale, si rivela
anticlericale e miscredente: lambiente che egli auspica è quello ove "chiesa
non vabbia nè monistero:| lasciate predicare i preti pazzi,| che hanno assai bugie
e poco vero" (collana dei mesi: "Di Marzo), tanto che Sapegno attribuisce al
sodalizio "un ideale epicureo" (Compendio, cit, I, 93). Infine il mondo da lui
descritto così felicemente ("guidato da buon gusto e da un raro senso della eleganza
mondana": Sapegno, cit.), affascina bensì per laffluenza e la spensieratezza,
ma sconcerta per il vuoto di occupazioni e di idealità: lattività più impegnativa
è la caccia; il resto sono danze e giochi, baci e dolciumi, giostre cavalleresche e
passeggiate su destrieri che riconducono al desco, al bere, al mangiare. E un mondo
senzanima, senza valori morali, senza impegni sociali, senza lavoro nè
responsabilità: è tutto materiato di sensi e di egoismo. Ma le sue ultime rime rivelano
il rovescio della medaglia:la gaudiosa brigata si è dissolta ed allo splendido trovatore
vengono a mancare i mecenati, onde egli deve lamentarsi per la taccagneria dei tempi
("Cortesia, cortesia chiamo| e da nessuna parte mi risponde...") : che la
"vigna e la gran fronda" (selva) di Caccia dAscian fossero state ormai del
tutto scialacquate in conviti e sollazzi? (Inferno, 29, cit.).
Toni lirici. Ci limitiamo ad esaminare le cose migliori, cioè le due collane di sonetti
per i mesi dellanno e i giorni della settimana. Vi scopriamo un registro lirico
molto personale, in cui convergono epopea ed idillio, pur senza riuscire a creare
laura dellestasi, per la presenza di una venatura comica di fondo, che limita
la purezza e la intensità. dei due registri, o comunque ne impedisce la perfetta fusione.
La nota comica nasce dalla coscienza che lesistenza auspicata e vagheggiata non è
più che la "favola bella" che sempre cillude. Ma è una consapevolezza
affiorante a stento: non abbastanza per rompere del tutto lincanto della favola
stessa e lattesa, quindi, dellestasi, la sua promessa se non il suo fascino.
Si tratta, dunque, di unemotività alterna: scattante e vellutata, energica e
morbida, che precorre la voce e fa presagire il timbro del Rinascimento. Essa fa dei suoi
versi una fontana fresca e impetuosa, zampillante di energia giovanile, di mondana
letizia, di spensierata festosità, di spontaneità fantasiosa; li rende capaci di evocare
unesistenza di eleganza e di galanteria, di bellezze e di amori, di divertimenti e
di abbandoni, di magie e di incantesimi: che sottraggono leletta compagnia alla
realtà di dolore e di morte, per immergerla in unatmosfera di fiabe e di sogni, che
sembra possedere il talismano della perenne giovinezza, privilegiare col dono di un
dinamismo inarrestabile, introdurre nel segreto del moto perpetuo, concedere lelisir
della intramontabile felicità. Folgòre sa creare insomma un paradiso profano (o un Luna
Park virtuale), in cui egli è il mago che anticipa il castello incantato di Atlante, le
donne e i cavalier, larme e gli amori di cui canteranno Dante ed Ariosto. Fulgido il
poeta, ammaliante il suo mondo, splendida lillusione: ma non perfetta. La vicinanza
di epopea ed idillio non giunge a creare quel sinergismo lirico, che è lestasi,
cioè l oblio del reale nel rapimento verso quel mare di ineffabili visioni, di
gioie interminate in cui è dolce naufragare. Il perchè è stato detto: sta in agguato
nellanimo del poeta un fattore di parziale dissolvenza: è un pulviscolo di ironia
che obnubila tutta la trasfigurazione fabulosa. Permane in Folgòre la consapevolezza che
i suoi asupici di una vita felice, la sua magnanima elargizione di gaudi sublimi sono
"uno scherzo, uno scherzo, tutto (e soltanto) uno scherzo" (Elsa Morante, La
Storia, Torino, Einaudi, 1974).
Note di tecnica stilistica. 1. Tra Idealiazzazione e Realismo. Lambiguità
dellattitudine di Folgòre di fronte al suo mondo di canto si rivela nelle
caratteristiche contrastanti del suo stile sorprendente. Da una aprte, vi è un processo
di idealizzazione che lo sfuma verso il sogno e la fiaba; dallaltra vi è una
concretezza che lo tiene ancorato saldamente alla realtà profana, sensibile e, anzi,
implicitamente, sensuale. Da una parte il paesaggio viene liberato da ogni pesantezza ed
elevato ad una passerella di eleganza luminosa e di raffinata levigatezza, che fa perdere
allumano agitarsi ogni fretta e fatica, ogni ruvidezza e volgarità, ogni senso di
sforzo e di pesantezza. Ma, dallaltra, la vita è, come si è detto, epicurea, la
società sembra senzanima, il tempo si spende senza ideali nè impegni, l ozio
si risolve in occupazioni gratuite, materiate di sensi e di piaceri. Una vita epicurea,
per quanto tirata a lucido, resta pur sempre materialista; unesistenza egoistica,
per quanto elegante e piacevole, non è molto distante dal livello animale.
2. Elasticità. Questa caratteristica della espressione oscilla fra il servizio
allidillio e quello alla epicità. Abbiamo, cioè, un secondo gado di ambiguità
verbale, allinterno dellalternanza fra idelità e realismo. Il risultato è
una atmosfera di armonia fra duttilità e vigore: di elasticità vicina a quella (ben più
esperta e sapiente) che troveremo in Poliziano. Da una parte, dunque, vi è il predominio
della forza di sostantivi e verbi che giocano in favore della dimensione epicizzante;
dallaltra, lidillio trova frequenti vie furtive per farsi presente, perchè
gli aggettivi, pur minoritari, hanno una flessuosità eccezionale: "i giovani fagiani
e la minuta erbetta, la brigata nobile, cortese e la gentile campagna, la brigata franca e
i giovani prodi, i bellissimi arbuscelli e le frutta savorose"; si veda, in Febbraio,
anche leffetto luminoso dellaggettivo "razzante"). Lequilibrio
tra forza e dolcezza è mantenuto anche attraverso espressioni attributive che corteggiano
un sostantivo e, praticamente, hanno funzione aggettivale: "con allegrezza
stando", "costumanza alla francesca", "compagnia che vi diletti e
piaccia"; od attraverso un elenco di sostantivi "ornamentali"
("Vi"ole e rose e fior, chogni uom vabbagli").
Ulteriormente la fusione fra sostantivi ed aggettivi è generata dalluso di
diminutivi e vezzeggiativi: "salette, donzelle, cavri"oli, gonnelle, navicelle,
montagnetta, castelli, cittadella, fiumicelli, fontanetta, praticelli, erbetta"; o
dallimpiego di aggettivi sostantivati, come "scirocco, gherbino, rovaio, nidaci
(falchetti, cioè uccelli presi dal nido ed allevati alla caccia)".
La musicalità, infine, è il correttivo più efficace alla supponenza dei sostantivi
invadenti: dittonghi e trittonghi che scivolano levigati o carezzevoli ("febbraio,
razzaio, rovaio, peschiera, riviera, schiera, primiera, mestiero..."); od eleganti
dialefe (iati), come in "treggea, cortesie, vie, viole, graziose...". I suoni
forti dele vocali larghe (A/O) che, con la media (E) prevalgono in rima, sono compensati
ed addolciti dallimpasto consonantico inclinato ad una tal prevalenza di liquide
(L/R) e nasali (M/N), di fruscianti (F/V) e sibilanti (S/Z) e palatali dolci (anche
raddoppiate: GG/GL/GN), da sommergere le pur presenti dentali, palatali forti, gutturali.
Questa simbiosi di concretezza sostantiva, ammorbidita dalla fluidità musicale, con
lausilio di una subdola aggettivazione strisciante, è il segreto della mente, dello
spirito, del fulgore espressivo nel nostro poeta, che ne ha tratto il soprannome.
E cè dellaltro a provocare quellinsieme di brio, festevolezza,
cordialità ed energia, in equilibrio tra epicità ed idillio. Egli rovescia il rapporto
fra signori convitanti ed aedo parassita: è lui che, con piglio magnanimo, da munifico
principe, "dà, offre, regala" in quasi tutti i sonetti dei mesi e dei giorni:
"E di febbraio vi dono bella caccia", " Di maggio sì vi do molti
cavagli", "Di giugno dovvi una montagnetta"... Insomma Fulgore è tanto
magnifico, che rischia di rendere simpatica anche la prevaricazione e religiosa ed etica e
sociale. Un simile sinergismo, più esperto, più sapiente, più maturo, più ricco tra
fleessuosità e potenza, fra energia e morbidezza lo ritroveremo nel primo Rinascimento
fiorentino: sarà il Poliziano, nella cerchia del magnifico Lorenzo deMedici e della
sua allegra brigata di... compagnacci.
F) LA POESIA ALLEGORICO-DIDATTICA
Oramai del Duecento artistico-letterario ci rimane solo più Dante: la produzione in versi
che andremo esaminando e la prosa che la seguirà non hanno grandi pregi estetici: al più
il "Novellino" può sorprendere un attimo in qualche pagina meno arida e
schematica. Perchè, allora, studiare tali opere? Lo si fa, sia per procurarci una
panoramica meno incompleta della cultura nel primo secolo letterario dItalia, ma per
predisporre a comprendere quellopera suprema che è la Divina Commedia la quale, per
molti aspetti ideali e stilistici, affonda avidamente le proprie radici nella congerie di
operosità poetica e prosastica che si svolgeva attorno a Dante o che era da poco entrata
nel commercio culturale della sua generazione. Iniziamo, dunque, dai versi scritti per
istruire ed educare: che è (provvidenzialmente solo nelle intenzioni) anche la missione
affidata da Dante al suo capolavoro. Cominciamo a spiegare, delle rime che ora prenderemo
in esame, i due caratteri enunciati nel titolo. "Allegorica" è quella
letteratura che si rifà ad una persona (il poeta stesso, eventualmente) ed a sue vicende
o storiche o finte (di solito: un viaggio dello scrittore) che vengono assunti con
funzione di simbolo proiettato a finalità didattico-pedagogiche (di istruzione e di
educazione).
"Didattica" sottolinea la funzione ammaestrativa o istruttiva di queste opere,
che però spesso pretendono di essere accolte anche come "pedagogiche", cioè
educative.
Anche in questo campo, maestra è la Francia. Con le due parti del Roman de la Rosa
(Guillaume de Lorris, prima metà del Duecento: scrive i primi quattromila versi
dellopera; Jean de Meung (che, nella seconda metà del secolo, scrive altri
diciassettemila versi ottosillabi rimati) e con i poemi della volpe (Reinardo o Rainaldo)
e del lupo (Isengrino), essa offre i modelli di varia sapienza, attraverso il simbolo di
un fiore o di animali, di un viaggio per impadronirsi di quello o per imparare dalla
scaltrezza e forza di questi. La sapienza che si intende comunicare è diversa nei vari
autori: in particolare è più spirituale e morale nel Lorris e più mondana e
spregiudicata nel de Meung.
Non è da intendersi, però, che tutti i nostri verseggiatori si rifacciano
necessariamente a tali composizioni: dei tre che accosteremo, solo Brunetto Latini è
suggestionato da tali modelli, mentre Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva sono più
indipendenti e nai"f.
Giacomino da Verona. Vissuto nella seconda metà del Duecento, egli stesso si firma come
frate francescano ("de lOrden de Minori"). E autore di un poemetto
in volgare veronese, diviso in due parti: 280 versi per celebrare il Paradiso (De
Jerusalem celesti) e 336 per descrivere lInferno (De Babilonia civitate infernali).
I titoli in latino sono frequenti in questo secolo, anche per chi scrive opere in volgare.
Le fonti sono (oltre la fantasia dellautore) lApocalisse, la letteratura
francescana e il repertorio dei predicatori. La metrica è quella delle quartine di
alessandrini (doppi settenari) monorimi: talora però lottonario subentra al posto
del settenario e la assonanza al posto della rima. Se luso dellalessandrino fa
riferimento ad un influsso, diretto od indiretto, del modello francese,
lapprossimazione del metro è invece indizio di popolarità. Questa è confermata
dallinvito dellautore, fatto ai signori teologi, a non sottilizzare con la
loro dottrina nel giudicarae unopera destinata al popolo. E, in verità, la rozzezza
della versificazione, la grossolanità dei particolari, la ingenuità delle situazioni
rendono culturalmente insignificante e poeticamente fallimentare questopera, che
può essere stata, però, conosciuta da Dante per la prima e terza cantica del suo poema.
Al più si possono ricordare alcuni versi come, nella Jerusalem, il quinto e ottavo della
seconda strofa e qualche strofa intera su Maria santissima (versi 217-240: 277-80); e i
versi sullincontro tra padre e figlio nellinferno della Babilonia (285-340).
Tra questi ultimi, è notevole il v. 300,che parla di "rapine, osure e
maltoleto" con una terminologia che si avvicina a quella del canto undecimo
nellInferno dantesco.
Bonvesin de la Riva. Vissuto fra il 1240 ca e il 1315 ca, deve probabilmente il suo nome
al fatto che abitava a Ripa di Porta ticinese, in Milano (dove non nacque, ma dimorò
sicuramente almeno dal 1290). Fu "doctor in gramatica" e insegnò privatamente.
Si sposò due volte e fu membro (frate laico) del terzordine degli Umilati. Pare che
abbia fondato un ospedale a Legnano. E lo scrittore più dotto dellItalia
settentrionale nel Duecento, potendo riferirsi alle opere latine e francesi in voga. Che
egli avesse una inclinazione alla poesia, lo testimonia la sua discreta produzione in
versi latini e milanesi. Ma sempre luomo di cultura e di religione offusca il poeta:
egli è più interessato a diffondere listruzione e la moralità che non a
comunicare emozioni. Per questo la sua scrittura è "standard", cioè quanto mai
prosastica e finalizzata alla conoscenza della mente, non alla gioia del cuore (in
linguaggio strutturale si direbbe: egli comunica attraverso la "langue"
convenzionale, non la "parole" personalizzata; in lui prevale il paradigma, non
il sintagma). Con questo intento di divulgazione della sapienza di vita, egli ha sfornato
opere in continuazione, disinvolto bensì ma troppo poco preoccupato di raffinatezza e
lirismo: al suo confronto, Giacomino da Verona si rivaluta per vivacità e partecipazione
affettiva (sia pure passionale, non decantata dalla foga praticistica). Egli rispondeva ai
bisogni di una parte (borghese) della sua generazione, che desiderava istruirsi anche al
di fuori delle opere in lingua latina, scritte per studiosi cattedratici e studenti
universitari. La aridità e prosasticità della sua scrittura si potrebbe intuire da un
dato vocabolaristico: mancano del tutto gli avverbi; rarissimi, gli aggettivi. Dominano
assoluti verbi e sostantivi, senza i compensi od i risultati di un Folgore o di un Cecco
Angiolieri.
Ha, dunque, lasciato libri in prosa ed in versi latini ( De magnalibus urbis Mediolani:
uno scritto in prosa sulle grandezze della città di Milano; De vita scholastica: distici
elegiaci sui doveri di maestri e discepoli). Ha, inoltre, edito traduzioni dal latino (i
Dicta o Disticha Catonis, opera del II-III secolo d. C., con aggiunte cristiane
dellalto Medioevo: sentenze morali e insegnamenti di vita saggia). La più parte
della sua produzione, però, è in volgare milanese: i titoli in latino non devono trarre
in inganno. Ha scritto "laude", "miracoli", ma le sue cose migliori
sono una ventina di poemetti. Fra essi ci sono "Contrasti" (quello più
interessante è la "Disputatio rosae cum viola": "Disputa fra la rosa e la
viola"). Ecco altri titoli, che documentano la vastità di interessi e la gentilezza
di ispirazione di questo "professor artis gramaticae " del Duecento: De
quinquaginta curialitatibus ad mensam (Cinquanta cortesie da desco), Laudes de Virgine
Maria (Lodi della Vergine Maria), De elemosynis (Le elemosine), De die iudicii, Istoria de
li misi (Trattato dei mesi), Vita di SantAlessio. Ma il più noto ed anche il
migliore di tali poemetti è IL LIBRO DELLE TRE SCRITTURE (già finito nel 1274), che
descrive rispettivamente lInferno (scrittura nera), la Passione di Cristo (scrittura
rossa) e il Paradiso (scrittura aurea). Il poemetto è molto più dignitoso e ragionevole
che non quello di Giacomino da Verona: la rappresentazione dellinferno è forte,
senza cadere in grossolanità; quella della passione del Signore è seria e devota, senza
retorica o patetismi; quella del paradiso ne descrive con candore lo stato beatificante,
ma non riesce a comunicarla alla nostra emotività: è opera di un fedele dotto, non di un
poeta ispirato. Comunque, il poemetto rappresenta il precursore meno indegno della
Commedia, per la sapienza letteraria nella rappresentazione dei due regni
doltretomba, attraverso limpiego di scene concrete e visioni mosse. Come negli
altri poemetti, infatti, Bonvesin tende congenialmente al "racconto" di fatti
veri o verosimili, che danno interesse di particolari storici o tradizionalmente accettati
(il maestro milanese ha un discreto senso critico, per cui si fa scrupolo di consultare le
fonti scritte su personaggi e loro vicende, pur senza riuscire ad emendarle dei dati
leggendari ormai entrati nella coscienza medioevale, purtroppo storiograficamente
ingenua).
Brunetto Latini. Fiorentino, nacque dopo il 1220 e morì nel 1294. Fu notaio di parte
guelfa: sulla via del ritorno da una ambasceria in Castiglia per invocare aiuti contro
Manfredi, fu raggiunto dalla notizia della vittoria ghibellina a Montaperti (1260) e
dellesilio inflittogli: si fermò in Francia. Ivi esercitò larte notarile,
grazie al valore europeo dei titoli accademici. Approfittò dell vacanza da impegni
pubblici per scrivere: forse tutte le opere che ci ha lasciato (eccetto quelle legate agli
uffici pubblici che ricoprì ancora, dopo che la vittoria di Carlo dAngiò a
Benevento nel 1266, lo restituì a Firenze) le redasse durante lesilio francese,
comprese quelle in lingua toscana. Ma se anche limpegno politico e privato gli tolse
opportunità di pubblicare, tuttavia la fama raggiunta lo elevava ad un magistero ideale
presso i concittadini, che Dante immortalerà nella Commedia. Egli lo esercita anzitutto
con lesempio (divenne priore nel 1287); con la lingua elegante che introduce negli
atti pubblici, con la conversazione intelligente e con la esortazione esplicita allo
studio ed allattività letteraria. Il probo Giovanni Villani scriverà che il Latini
fu "cominciatore e maestro in digrossare i fiorentini e fargli accorti in ben
parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica". E
Dante in Inferno (15, 22-120) ricorda "la cara e buona immagine paterna" di lui,
che gli insegnava "come luom setterna": pur condannandolo con
mirabile, inesorabile coerenza al fuoco che tormenta senza fine i sodomiti. Lopera
politica del Latini non interssa particolarmente, non contando al suo attivo iniziative di
portata storica. Pare però dimostrato che fu lui a introdurre nella cancelleria di
Firenze lo stile "alto", cioè quel modo di scrivere in latino, che Pier delle
Vigne aveva solennizzato negli atti imperiali di Federico II. Merita, invece, ricordo il
fatto che egli dedicò la sua opera letteraria alla istruzione-educazione dei concittadini
anche ignoranti di latino: ad un livello decisamente superiore di quello umile del
grammatico di Milano. Egli tende ad offrire una "somma" od enciclopedia di tutto
lo scibile, cominciando dalla teologia per discendere alla vita morale e concludere con la
retorica, invertendo cioè lordine tradizionale delle materie: egli passa dalle
finalità agli strumenti, così come è sua intenzione preparare cittadini cristiani,
onesti e infine competenti nelle responsabilità amministrative e politiche (in realtà,
tale inversione metodologica gli è consentita, in quanto egli si rivolge ad un pubblico
adulto, mentre la scuola doveva adattare le specializzazioni dellinsegnamento alla
graduale maturazione degli studenti). Così è organizzato il "Trésor" (o,
meglio, "Li livres dou Trésor"): il primo libro tratta di teologia, storia e
scienze naturali; il secondo, di morale e di economia (e qui traduce e riduce lEtica
nicomachea di Aristotele, spiluzzicando da altri trattati latini e francesi allora in
voga); il terzo libro specifica ulteriormente linsegnamento pratico, con chiaro
viraggio politico: la parte dedicata alla retorica fa ampio uso del "De
Inventione" di Cicerone, che viene però chiaramente ritoccato in funzione di una
repubblica comunale del Duecento italiano. Il tutto, scritto nella prosa di quella
Francia, allora più che mai monarchica. Il Trésor fu subito tradotto in volgare toscano
e in altre lingue europee, con larga diffusione: era uno strumento di cultura e
preparazione alla vita pubblica, che eludeva per la prima volta la via della
"grammatica", cioè del latino appreso a scuola. Volle far conoscere opere di
Cicerone e perciò tradusse i primi diciassette libri del De inventione che gli era già
servito per il Trésor (la pubblicò col titolo "La Rettorica", che univa anche
la versione della Rethorica ad Herennium, creduta allora opera dellArpinate); in
più tradusse le orazioni "Pro Ligario", "Pro rege Deiotaro" e
"Pro Marcello" (e fu il primo in Europa!). Ma a noi interessano evidentemente
molto più le opere scritte direttamente in volgare toscano ed in versi, cioè in
italiano. Sono tre: il "Favolello", la canzone "Seo son distretto
innamoratamente" ed il TESORETTO. Il "Favolello" è unepistola in
versi a Rustico Filippi per confutare il suo pessimismo radicale sulla amicizia: gli amici
veri son rari (e bisogna, perciò, stare in guardia contro quelli falsi), ma esistono. La
canzone è in pretto stile siciliano e non ha valore poetico. Ma neppure lopera
migliore, il TESORETTO (sintesi, in settenari a rima baciata, della materia contenuta nel
Trésor, ma esposta entro la trama di unallegoria) nasce da un vero pathos
dellanimo: è solo abile versificazione di una sapienza che affonda le radici in una
erudizione notevole, spiegata da una intelligenza non comune. Di queste doti del poemetto
si potrà avere uno scampolo in unesortazione ai fiorentini, sempre tentati di
fazioni e personalismi, che è esposta in alcuni versi, fra i migliori dellopera:
"ma tutti per comune| tirassero la fune| di pace e di ben fare,| chè già non può
scampare| terra rotta di parte..." (sono i versi 175-8). Ma su 2944 versi, questi
quattro sono troppo pochi per qualificare come esteticamente rilevante lopera...
Pure ci sono due motivi per cui il Tesoretto non può essere dimenticato. Benchè
piuttosto arido (poemetto didattico e pedagogico non solo nelle intenzioni, ma
ahimè!- anche nella realizzazione: è una sintesi del Trésor, di cui è un sunto
in versi), il lavoro risulta di una chiarezza di ideazione e di una fluidità di
espressione, da lasciar addietro ogni altra opera del genere prima della Commedia. Si
sente la presenza di una mente fiorentina (o almeno toscana: il padre era nativo della
Lastra, notaio lui pure) che espone, in versi scorrevoli e senza forzature, un pensiero
preciso e concreto. Anche nelle prose (di traduzione) egli rappresenta il massimo grado di
chiarezza e naturalezza, di precisione e sobrietà raggiunto dalla prosa italiana nel
Duecento: la stessa opera giovanile di Dante, la "Vita nova" è, nelle parti in
prosa, meno limpida ed immediata. Si vuol dire: B. Latini ha costretto la classe colta
italiana a svestirsi delle sofisticazioni di un linguaggio contorto e pressapochista,
perifrastico e retorico ed a parlare con disinvoltura, ritenendo dello studio scolastico
soltanto la lucidità del pensiero e labito della concretezza e dellordine,
della sobrietà e della precisione. La seconda ragione, che rende il Tesoretto (come il
suo antecedente Trésor) degno di memoria, è la suggestione esercitata su Dante per la
trama del suo capolavoro. Entrambi sono basati sulla allegoria di un viaggio, con lo
smarrimento in una selva, con lapparizione (di stampo boeziano) di personaggi ( qui
si tratta della Natura, della Virtù, del Piacere, ecc.) che offrono spunti per
trattazioni dottrinali ed educative. Già questo spiega perchè Dante si consideri un
po come figlio spirituale del Latini ("la cara e buona immagine paterna").
Ma ad un certo punto, il Tesoretto si esprime in questi temrini: "e io, in tal
corrotto (per la sconfitta dei guelfi a Montaperti),| pensando a capo chino,| perdei il
gran cammino| e tenni a la traversa| duna selva diversa.| Ma, tornando a la mente,|
mi volsi e posi mente| intorno alla montagna;| e vidi turba magna| di diversi animali...|.
Parrebbe che il Latini scrivesse la brutta copia per il suo discepolo Dante: che sublimò
certo a livello estetico troppo superiore questi particolari, ma non ebbe a durare fatica
ad inventarseli: li trovava già pronti ad opera del concittadino e maestro.
G) LA PROSA IN LINGUA VOLGARE NEL DUECENTO
La condizione della prosa in volgare italico nella coscienza dei letterati nel Duecento in
Italia.
Dopo la fioritura poetica della Scuola siciliana e del Dolcestilnovo, la lingua volgare
italica si è imposta come capace di esprimere idee e sentimenti elevati: non subisce più
sospetti di essere, perchè "volgare", (usata dalla plebe) inadeguata per la
produzione lirica. Nella coscienza degli intellettuali, aspiranti rimatori, essa è
sentita allaltezza del provenzale (ormai al tramonto, dopo la conquista da parte del
Nord francofono od oitanico, in occasione della crociata antialbigese) e del latino (che
resta così relegato alla produzione poetica della Liturgia). Lunico pseudoproblema
rimasto (che turba anche Dante, inducendolo a scrivere il De vulgari eloquentia) è il
tipo di "volgare italico" degno di essere usato per cantare i temi ispiratori
più alti (moralità e religione, guerra o lotta per la sopravvivenza fisica, amore o
funzione riproduttiva-educativa delluomo). Il problema si risolverà con i fatti
della esecuzione letteraria concreta e con la preminenza economica della Toscana nel
Trecento, ma anche per la inconsistenza della questione: non esiste, infatti, una lingua
più poetica di unaltra, ma esistono solo "parlanti" concreti in ogni
lingua (dialetto) più o meno geniali nelluso estetico (od artistico o lirico od
emotivogenetico) della parola. L auspicio di Dante per una specie di "banca
lessicale e musicale" assemblata dal "meglio" dei dialetti italici, da
riservare alla canzone, cioè allo schema metrico destinato ai tre motivi supremi di canto
sopra ricordati, è una utopia che ha pesato sulla definizione della vera lingua italiana
per tutti i secoli fino allOttocento inoltrato, quando le dottrine di Manzoni
sulluso come arbitro delle scelte linguistiche sgombrarono il campo dai falsi
problemi e dai falsi titoli di "dignità/volgarità, bellezza/bruttezza
oggettiva" delle singole parole, a prescindere dalla genialità o meno di chi le usa.
Anzi, non solo la "poesia lirica", ma anche il poemetto didattico (il Tesoretto,
del Latini) ha sfondato il muro di sfiducia e di disdegno e si è imposto ai lettori,
perchè allaltezza dellinsegnamento e della missione educativa. Siccome alla
produzione teatrale si pensa solo in relazione alla Liturgia e il dramma sacro è ai suoi
primi inizi, senza risultati clamorosi diffusi oltre le città di recitazione, rimane un
solo genere di espressione in versi da affrontare e acquistare alla lingua italica: quello
della poesia epica. Difatti là dove essa va diffondendosi al seguito della fioritura
romanza iniziata con la Chanson de Roland, cioè nellItalia nordorientale (Veneto),
pesa il pregiudizio che solo la lingua originaria (francese, oitanica) sia
allaltezza di creare imitazioni, prosecuzioni, complicazioni dei vari cicli
(classico, arturiano, carolingio) nati in Francia. Di qui la composizione di poemi in
lingua francese schietta od in uno strano patois franco-veneto.
A questa chiarezza complessiva di visione linguistica per la poesia, fa riscontro ancora a
fine secolo una incertezza di indirizzi nel campo della prosa, che genera disorientamento
e pluralismo di scelte. Il latino è la lingua cancellieresca, che passa imperterita dalla
curia imperiale e corte papale alle aule dei principi ed ai palazzi dei comuni. Le rare
eccezioni di "statuti comunali" redatti in volgare (Montagutolo
dellArdighesca, ad esempio) si trovano ben presto di fronte al movimento
preumanistico di un Lovato de Lovati e di un Albertino Mussato (vissuti fra il 1241
e il 1329, con centro della loro attività in Padova, sede universitaria più varia e
vivace che non Bologna), che farà regredire tali velleitarismi per un paio di secoli
ancora. Il francese, oltre che linguaggio epico, è lo strumento più prestigioso di
comunicazione in terra di lingua romanza: detiene un primato non solo in via di fatto, ma
anche in asserzioni di diritto. E preferito per le opere narrative come il
Divisament dou monde (o Livres des merveilles du monde? o De mirabilibus mundi?) di Marco
Polo, che noi conosciamo in traduzione toscana come Il Milione; di opere storiche, come la
Cronique des Venicien, di Martino Canale; di opere enciclopediche e didattiche, come il
già considerato Trésor del Latini. E si trovano affermazioni teoretiche circa la
superiorità del francese sulla varia dialettalità italica, almeno per quanto riguarda i
lavori in prosa. Così dicono tanto il Latini ("la lengue franceise cort parmi le
monde), che il Canale ("est plus delitable a lir et a ouir que nule autre");
così ripete, allinizio del Trecento, Dante, come opinione corrente che egli non
vuole ribattere ("Allegat ergo pro se lingua oi"l quod propter sui faciliorem ac
delectabiliorem vulgaritatem quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaicum,
suum est": De vulgari eloquentia, I, X). Di fronte a questa coscienza ancora
indecisa, è però già in atto il processo concreto che, nella prima metà del secolo
seguente, deciderà di fatto la questione in favore della prosa toscana, in attesa che
linizio del sec. XVI ne definisca anche in sede teoretica la adeguatezza come
e con quella latina- a trattare ogni genere di soggetti, ad esprimere dottrine difficili o
sentimenti elevati. Gli scritti dei grandi trecentisti sgombrano ogni dubbio. Tale
processo di chiarificazione parte dagli scritti di prosatori del duecento (come il giovane
Dante della "Vita nova" o lignoto autore del "Novellino");
ovvero senesi (come lautore della Sconfitta di "Monte Aperto"); o comunque
toscani (come i vari che elencheremo fra breve): autori che dimostrano ancora una volta,
rispetto alla restante generazione di italici, il maggior dinamismo emotivo, la miglior
risonanza musicale, la superiore acutezza razionale di una popolazione discendente da un
ceppo già eccezionale (gli Etruschi) e forse ulteriormente potenziata dallinnesto
di cromosomi e di geni longobardi. Firenze e la Toscana, di uomini geniali nel bene e nel
male, nel pensiero e nellarte, nella santità e nella delinquenza ne han dati molti
lungo i secoli, rivelando di essere abitate da uomini incapaci di essere mediocri.
Il cammino del graduale ascendere della lingua scritta verso la univocità della lingua
toscana e verso la dignità di lingua nazionale.
Le tre opere in prosa toscana ora citate le lasciamo per ultime, perchè sono in qualche
misura imparentate con larte. Per ora ci occuperemo di scritti che, senza essere
artisticamente significativi, scandiscono però la crescita verso la coniazione o la
scelta del vocabolario più congeniale, musicalmente, al complesso della parlata
tosco-fiorentina (passaggio dalla dispersione dialettale allunità della lingua di
scrittura); verso la chiarificazione e fissazione dei nessi sintattici definitivi
(passaggio dal pressapochismo popolare ad una lingua colta e dignitosa); e verso chiarezza
di giudizi e coerenza di ragionamenti (passaggio dal semplicismo elementare alla maturità
razionale già raggiunta dalla civiltà greca e latina). Ma dobbiamo premettere un fattore
non facilmente misurabile nella misura del suo contributo alla costruzione di una lingua
unificata e purificata per lItalia: si tratta della "attuaristica od arte
notarile" che, specialmente in Bologna, testimonia di un ascendere verso forme
linguistiche sempre più conformi ai tre criteri ora indicati. La redazione dei documenti
legali si fa sempre più esigente come definizione di schemi grammaticali e sintattici,
sempre più elegante per la trasposizione dei modelli latini di prosodia, sempre meno
lontana dalla parlata fiorentina.
1) Cominciamo con un nodo di scrittori, che collocheremmo sul gradino di infima qualità
linguistica, rispetto alla vittoriosa lingua fiorentina. Vi possiamo sistemare le non
molte prose nate fuori di Toscana: una traduzione veneta dei "Disticha Catonis"
e due opere in romanesco ("Storie de Troia e de Roma" e "Miracole de
Roma"). Molto deludenti anche due fonti importanti del Novellino: "Fiori e vita
di filosafi" e "Conti di antichi cavalieri". Vi è in questi una
imprecisione insopportabile di vocabolario, diversi svarioni sintattici, ingenuità
storiografiche e filosofiche, aridità espositiva: difetti che il Novellino supererà solo
in parte, ma che si farà perdonare, in alcuni racconti, per certa sapienza che attinge il
comico.
2)Un secondo gruppo possiamo accozzarlo con un bel gruzzolo di traduzioni in toscano: il
fatto di avere nelloriginale un pensiero già organizzato permette al traduttore di
concentrarsi sulla componente espressiva, che risulta discreta. Il titolo in latino o
francese non deve trarci in inganno, come già segnalato. Ecco un elenco: Disciplina
clericalis (di Pietro Alfonsi), Liber consolationis et consilli (Albertano da Brescia), De
regimine principum (Egidio Colonna), Li livres dou Trésor (Brunetto Latini), Conti morali
(traduzione senese di parte delle Vitae patrum), Libro dei sette savi (traduzione dal
francese dellopera indiana "Syntipas"), Istorietta troiana (traduzione da
una prosa francese, a sua volta tratta dal Roman de Troie). A questo livello
"stilistico" accomunerei opere originali. Le "Lettere" di Guittone
dArezzo, che egli scrisse con lintento di riportare in volgare la retorica
latina, ma il cui risultato è deludente, perchè esse risultano supponenti, pedanti,
noiose e predicatorie. Mediocre anche il "Libro de vizi e delle virtudi"
di Bono Giamboni (vedremo subito che egli è più felice come traduttore che come
scrittore in proprio). Non molto migliori la "Istoria fiorentina" di Ricordano
da Malaspina e la "Composizione del mondo" di Ristoro dArezzo
(questultima ha, invece, un certo valore pel contenuto, perchè è opera di buona
divulgazione di notizie scientifiche: fu scritta attorno al 1282).
3)Un passo innanzi, fin sulla soglia della artisticità, segna la traduzione in toscano
del "Divisament dou monde" (ou sont decrite les merveilles du monde; altro
titolo possibile, in latino: De mirabilibus mundi), col titolo "Il Milione" (dal
soprannome già antico nella famiglia di Marco Polo). Egli è lautore
dellopera, in quanto ne fu il narratore. Chi lo scrisse fu Rustichello da Pisa:
entrambi erano prigionieri di Genova, dopo una battaglia minore presso Laiazzo, perchè
nel 1298 Pisa era alleata con Venezia contro Genova (non pare che Marco sia stato fatto
prigioniero alla battaglia, ben più importante e famosa, di Curzola). Loriginale
divulgato da Rustichello è andato perduto, ma sono giunte traduzioni a non finire, in
più di centocinquanta codici. Prima del 1309 loriginale perso fu tradotto-ridotto
in toscano, dal francese (o, meglio, dal franco-italiano) in cui Rustichello laveva
scritto, da ignoti che conoscevano imperfettamente il francese. Se si tien conto delle
"meraviglie" descritte nel libro, allora il suo interesseè scontato. Ma è un
intersse contenutistico, non estetico: di curiosità intellettuale, non di impressione
emotiva. Ciò non toglie che la traduzione toscana proceda di solito spedita e concisa,
con un certo suo vigore ed impeto che sfiora il dramma, dà il senso del movimento
(cinestesia). Nessun brano, però, raggiunge un livello di forza tale da risultare
artisticamente sufficiente. Dei capitoli si leggono volentieri (e sono riportati nelle
antologie) quelli a contenuto sorprendente: la leggenda del "Veglio della
montagna" con la supposta origine degli "assassini" come mangiatori di
hasish; luso della carta-moneta e del carbone in Cina, secoli prima che in
Occidente; il sistema postale che lEuropa si sognava a quellepoca;
lesistenza dellamianto che non brucia al fuoco... Allo stesso livello di
chiarezza e forza espositiva, con presentimenti artistici, collocheremmo le traduzioni di
B. Giamboni ("Della miseria delluomo", da "De miseria conditionis
humanae" di Innocenzo III), di B. Latini (orazioni di Cicerone: pro Ligario, pro
Marcello, pro rege Deiotaro). Vi aggiungeremmo i "Fatti di Cesare" (traduzione
dal francese "Li fet des Romains": tra le varie volgarizzazioni e
rimaneggiamenti che il testo conobbe in Italia, quella seneseggiante che caratterizza il
"gruppo B" è notevole per chiarezza e forza); e la "Tavola rotonda"
(probabilmente già del sec. XIV: è comunque la migliore narrazione delle avventure
facenti parte al ciclo di re Artù, perchè è chiara negli episodi singoli, organica nel
loro susseguirsi oltre che vivace nello stile).
4)Concludiamo colle opere che, insegnando ad applicare alla parlata volgare le regole
prosodiche del latino, rivelano la coscienza della capacità della lingua romanza ad
attingere risultati espressivi pari a quelli della lingua di Roma. Tale equipollenza è
testimoniata dalle prime opere che allenano ad una prosa italica illustre: Guido Faba
scrisse (tra il 1229 ed il 1248, come già ricordato) la sua "Gemma purpurea" ed
i "Parlamenta et epistole" nelle due lingue, applicando le stesse clausole
ritmiche e stilistiche del latino anche alla traduzione italiana di esempi fittizi di
lettere e di discorsi (che dovevano servire da modello per quelli reali, come di fatto
avvenne nel Due- e Trecento). Certo, il suo linguaggio è intriso di emilianismi, perchè
la sua parlata aveva, come punto di riferimento, Bologna, nella cui Università insegnava.
Anche per questo, oggi le due operette ci interessano per i loro contemuti (studente
squiattrinato che chiede soldi al padre; diatriba fra Quaresima e Carnevale per il primato
nella vita...) e non per la forma letteraria. Pure è notevole che egli insegni ad
introdurre anche nel volgare la esemplificazione dei tre "stili", maggiore,
minore e minmo,a seconda della importanza o meno della persona cui è indirizzato il
discorso o la lettera. Lessico scelto e costruzione stilistica variano in coerenza (Dante
parlerà di stile tragico o sublime, comico o medio,elegiaco od umile).
Fra Guidotto. Anchegli è bolognese, maestro di grammatica, autore del "Fiore
di rettorica" e, pel resto, del tutto ignoto. Il libro fu edito fra il 1258 e il 1266
(è dedicato a Manfredi, che fu re di Sicilia in quegli anni). Egli vi rimaneggia
liberamente la Rhetorica ad Herennium (opera pseudociceroniana, come sappiamo), ma in un
toscano così puro che insinua il sospetto che il testo a noi giunto sia, in realtà,
opera di trascrittori successivi.
Brunetto Latini lo riprendiamo come punto di riferimento della maturazione degli scrittori
italiani nei tre sensi sopra indicati. Ebbene, la sua "Rettorica" (traduzione
dei primi 17 libri del De inventione di Cicerone oltre che della Rethorica ad Herennium)
rivelano una lingua fiorentina sciolta e naturale, ma piuttosto vernacolare, poco
illustre, poco raffinata: in questo, il "Fiore di rettorica" di fra Guidotto è
più elegante, musicale, vicino alla poesia (così come lo si è detto- più
artistiche risultano le traduzioni dello stesso Latini alle orazioni di Cicerone ). Ma
superiore è la densità e concretezza di pensiero del Latini: egli procede chiaro, acuto,
logico, dimostrandosi persona colta in filosofia, oltre che un buon letterato.
Le opere in prosa che rientrano nellarea dell arte letteraria. Vi sarebbe
soprattutto la "VITA NOVA", ma quella verrà esaminata assieme alle altre opere
dellAlighieri, nel capitolo apposito. Rimangono allora due scritti: La sconfitta di
Monte aperto e Il Novellino.
La sconfitta di Monte Aperto. E la versione che i ghibellini di Siena (vincitori) ci
han lasciato di quella terribile giornata "che fece lArbia colorata in
rosso" (Inf. X, 86). Nella relazione dellanonimo si intuisce uno stato
danimo che sottintende la disperazione, langoscia di fronte al pericolo di
risultare sconfitti. Sono affetti drammatici che affiorano al di sotto di un sentimento
che vuole essere maggiore: il coraggio, lamore della patria, la volontà di
rischiare la vita per non soggiacere ai temuti fiorentini. Ne risulta un tono di
"ardore soffocato", di dolente patriottismo che tocca il culmine nella gara per
lonore di essere "il primo feditore a cavallo", onore pericolosissimo come
è facile immaginare. La scena (degna di un romanzo) con cui Gualtieri strappa allo zio
Arrigo tale privilegio è davvero commovente. Il resto della non lunga narrazione non
rimane però allaltezza di tale felice momento: cè impaccio nella scelta dei
vocaboli, lentezza nella descrizione degli altri particolari della vicenda: manca
concisione razionale e coerenza musicale.
Il Novellino o "Le cento novelle antiche". Con questi nomi si indica una
collezione di cento novelle, trascelte durante il Trecento da una raccolta scritta verso
il 1280, che ne conteneva una buona ventina in più. Paiono proprio opera di un fiorentino
anonimo, dalla intelligenza semplice e dalla cultura elementare, ma con i suoi ideali di
vita e un discreto bagaglio di letture alle spalle. Difatti le novelle sono tratte anche
da fonti francesi e provenzali, oltre che latine ed italiane (Fiori e vita di filosafi;
Conti di antichi cavalieri).
Motivi ispiratori. Varie, per tempi e per luoghi, le vicende dei perosnaggi: da Cristo
Signore al re Davide; da Ercole (mitologia greca) a Tristano (materia favolosa romanza),
da Giasone a Lanciallotto, da Pitagora a Marco Lombardo, da Socrate a Diogene, dal Veglio
della Montagna ad Ezzelino da Romano, da Traiano a Riccardo Cuor di leone, da Federico II
a Carlo dAngiò, dal Saladino al re giovane dInghilterra, da Maestro Accursio
ai maghi ed astrologi, dalla volpe al mulo, dal falco cacciatore al lupo, dal contadino
ignorante al mercante ladro, dalla carità eroica di S. Paolino di Nola alla lussuria di
molti ecclesiastici...
In tanta materia di uomini e situazioni, lo scrittore intende mantenere fede ad un
proposito di "onestade e... cortesia" che non disdica a "cuori gentili e
nobili", "parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro, che
namò prima che elli ne criasse, e prima che noi medesimi ci amassimo" (novella
prima). Nè si può dire che la fede e la morale cristiana vengano rinnegate
esplicitamente; vi sono inoltre racconti commentati in senso cordialmente evangelico (nov.
28: rammarico per la non osservanza del comandamento del perdono, insegnato da Cirsto a
prezzo della sua vita ). Ma se la mentalità dichiarata esplicitamente è quella
cristiana; se questa trova appoggio poi in numerose altre tematiche morali od ascetiche,
tuttavia almeno altrettante sono le peripezie che discordano dalla regola di vita
cristiana e che vengono narrate senza commento sfavorevole, ma con distacco e disimpegno
sconcertanti. Il caso forse più rilevante al di là di qualcuna anche
grossolanamente sensuale- rimane quella del giudeo che narra imperterrito la novella sulla
equivalenza delle tre religioni fondamentali (ebrea, cristiana, musulmana), per liberarsi
dal dovere di pronunciare un giudizio compromettente di fronte al malizioso sultanto, che
gli ha posto il problema circa la vera religione, per toglierlo di mezzo ed appropriarsi
delle sue ricchezze (73). Lautore del Novellino ignora che di fronte al male ed
allerrore non è lecito rimanere neutrali, ma occorre prendere posizione
responsabile. Se, dunque, la "cultura cristiana" nel Novellino è
tuttaltro che garantita, quali sono i valori che si salvano con coerenze definitiva
nellopera? Sono valori tipici di un umanesimo metamedioevale o subpagano: la
intelligenza o genialità di azione a servizio della vita terrena, a costo di emarginare
quella sprituale dellanima. Ecco allora lacutezza di spirito (con la
avvedutezza dellebreo e i motti di spirito), la magnanimità sociale (e la
munificenza: "cortesia" la chiamava testè Folgòre), la coerenza professionale
(e la prodezza, quindi: ci si riferisce per lo più a cavalieri). Non si tratta più di
"fioretti", in cui il santo dimostra la propria grandezza nella abnegazione di
sè e nel servizio degli altri, ma di eventi, di happenings in cui un ingegno pronto
risolve a proprio favore (con una battuta di spirito) una situazione svantaggiosa o
addirittura pericolosa; o un uomo di coraggio sottomette a sè le volontà meno resistenti
degli altri. Solo la generosità del danaro (ma non in favore dei poveri!) e la fedeltà
nella professione (ma non necessariamente a servizio della giustizia) tentano di
"mediare" questo mondo di raffinato egoismo con quello della sapienza che viene
dalla fede e del disinteresse che nasce dalla carità: ma senza convincere troppo.
Umanesimo rinascimentale in agguato? Non necessariamente: si tratta di residui pagani
presenti in ogni epoca, e non poi troppo latenti neppure nel cristiano Medioevo. La
civiltà cristiana non è mai un dato definitivo, ma conquista di ogni generazione: è il
risultato della lotta continua per costruire la perfezione umana contro il ricatto dello
scimmione atavico: è lo sforzo umano per accettare fino in fondo il dono divino della
Redenzione, che inizia da capo per ogni persona e non è scontato che riesca in tutte. Il
Novellino è una delle spie sicure che neppure il Medioevo è riuscito a costruire una
società a cultura monolitica; che permane un pluralismo di idee come ve ne è uno di
costume. Che una cultura piuttosto che unaltra abbia il sopravvento, è un dato
inevitabile, posta la libertà delluomo; e sono corsi e ricorsi storici, come ci
insegnano questi venti secoli di cristianità. Rallegrarsene o dolersene non è compito
della storiografia, ma della filosofia della storia; e del singolo uomo, impegnato su un
fronte piuttosto che sullopposto delle scelte radicali della mente e del volere:
quelle religiose e morali, appunto.
Toni lirici. Il discorso più attinente per questa operetta è apunto quello relativo alla
mentalità ispiratrice: di emozioni, infatti, ve ne sono espresse raramente e debolmente
Lumorismo è quella più azzeccata: il figlio di Papirio che snobba la curiosità
della madre sui dibattiti (segreti) del senato romano (67); il medico sornione che ripudia
la nipote del vescovo, guardandosi bene dallaccusarla di fornicazione
prematrimoniale (lo ha reso padre dopo due mesi di matrimonio!); e adducendo invece come
motivo il timore di non riuscire a mantenere la figliolanza di una moglie...così
prolifica (49); soprattutto messer Bito che si gioca quellavaraccio di messer Frulli
(96) sono personaggi che destano un sorriso convinto. A tale spirito di serena comicità
non si adeguano altri motti degni di memoria per la sapienza, ma più amari come spirito:
Marco Lombardo, che mette a tacere il giullare canzonatore (44), sentenzia troppo
saggiamente ma ben pessimisticamente sulla stoltezza e ingiustizia del mondo(... quello
del suo tempo, sintende...: egli non ha vinto nulla alla festa, perchè vi erano
molte persone dai gusti degni della giulleria; e nessuno, degni di lui). E la volpe che si
beffa del lupo ingannato (94) ha dellamaro nel suo cinismo! Quasi nullaltro,
chè casi come quelli del "funo che sta al suono, come la moneta sta
allarrosto" (9) è solo potenzialmente unoristica: lautore non ha saputo
sfruttare il materiale.
Note stilistiche. Qui potremmo parlare a lungo, ma solo in sesno negativo, per evidenziare
cioè, attraverso le stranezze lessicali, sintattiche, storiche ecc. la mentalità
elementare, ingenua, poco matura dello scrittore. Basterà allora accennare a qualche
fenomeno più evidente. Acrisia storiografica: i Romani combattono contro Alessandro Magno
(67); Socrate è cittadino romano (61); Pitagora è spagnolo (33); Narciso è un
"bellissimo cavaliere" (46); i Greci del tempo di Roma hanno per re il Soldano
(61); ecc. In realtà ogni personaggio ed avvenimento tende ad essere ridimensionato alla
società aristocratico-feudale-giullaresca (o mercantile, almeno). Il sec. XIII non ha
avuto ancora il numero di studiosi sufficienti per far ricuperare la distanza
spazio-cronologica di uomini e fatti; e tende ad appiattire tutta la storia umana nella
cornice standard del proprio tempo (o poco più). Un fenomeno, questo, che si ritrova
parzialmente anche in personalità dottissime (come Tommaso e Dante), sicchè non lo si
può ritenere colpa daltri che delle difficoltà oggettive a riaversi del
"vuoto di notizie" verificatosi durante i secoli di incessanti invasioni
barbariche, dai Germani agli Ungheri, dalla fine del secolo IV a metà di quello X.
Il lessico è penosamente improntato al francese in troppi casi: barlione (borraccia);
rughe (=routes=strade), berbici (=brébis=pecore), mesle (mischia), ren(=rien=nulla);
onita (=honnie=disonorata), algura (auguri), petronciano (melanzana), caendo (cercando),
inguistare (caraffa), domòni (demoni), sacreto (segreto). Tutto sommato è molto piò
corretto (cioè, più fiorentino) il linguaggio di Bono Giamboni, di Guidotto da Bologna,
di Brunetto Latini.
Per la sintassi, basti dire che, se gli anacoluti (verbo rimasto senza soggetto o
viceversa) sono rari, ciò dipende solo dal fatto che il periodare è brevissimo e,
quindi, le occasioni sono poche. Ma si veda: "Il giovane, stando sulla ringhiera per
rispondere agli ambasciatori, il tempo era turbato e pioveva" (5); "Stando lo
mperadore Federico e facea dare lacqua, le tavole coverte, si giunsero a lui
tre maestri di negromanzia" (21); "In Alessandria, la quale è nelle parti di
Romania (acciò che son dodici Alessandrie, le quali Alessandro fece il marzo, dinanzi
chegli morisse), in quella Alessandria sono le rughe, ove stanno i saracini, li
quali fanno li mangiari a vendere" (9: oltre lanacoluto e il francesismo
"rughe" per "strade", si noti luso di "acciò che" con
valore causale di "poichè", al posto del senso "finale" di
"affinchè" ).
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