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Don  Marcello De Grandi

 

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ELENO VERGILI - APPUNTI PER UNA STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA-

(Copyright by don Marcello De Grandi)


INTRODUZIONE


I) ARTE, POESIA, CRITICA E STORIA DELLA LETTERATURA.
Per comprendere che cosa sia una Storia della Letteratura, la via più facile e breve è quella che parte dalle premesse: l’Arte, la Letteratura in generale e la Poesia in particolare, la Critica letteraria.
L’ARTE è la produzione della bellezza estetica o lirica, ossia è la espressione razionale, pura ed assoluta, della emotività Tale espressione si può chiamare più semplicemente "lirica" od "estetica". Dire che l’arte è lirismo coincide con il definirla creazione della bellezza estetica, ossia espressione pura ed assoluta delle emozioni,. Queste presentano quattro manifestazioni, facce o modalità fondamentali: la gioia e la tristezza dolce, mite, contemplativa (IDILLIO/ ELEGIA); la gioia e la tristezza forte, vibrata, drammatica (EPOPEA/ TRAGEDIA). Con terminologia sinonima si può parlare di tonalità emotive, di toni lirici, di stati d’animo lirici, di stati affettivi o di registri emozionali...
LA LETTERATURA è l’espressione lirica mediante la parola: è l’arte verbale, cioè del suono articolato e sensato (intelligente). La parola è, dunque il mezzo espressivo della letteratura e la distingue dalle altre forme di espressione emotiva (pura ed assoluta). La parola consta di due componenti o fattori: uno filosofico-ideale-eidetico-simbolico (in quanto è un suono, divenuto segno o simbolo convenzionale di una realtà); ed uno acustico-musicale (in quanto è un seguito più o meno armonioso di suoni fisici, indipendenti dal loro valore razionale.). Perciò l’arte verbale o Letteratura ha due manifestazioni specificamente differenti: la poesia e la prosa. La POESIA usa come mezzi espressivi entrambe le dimensioni della parola (idea e musica: quest’ultima consiste anzitutto nel verso e nelle rime, nel ritmo -successione di accenti obbligati- e nelle strofe; e, poi, nella particolare armonia di consonanti e vocali delle singole parole, propria di ogni poeta). La PROSA si affida quasi unicamente al valore filosofico-ideale della parola (anche se ogni scrittore ha una sua armonizzazione, cioè un proprio impasto musicale della parola, della frase, del periodo: quasi una impronta digitale, cui obbedisce senza accorgersi).
La letteratura non è l’unica forma di Arte. Esistono almeno altri tre generi o gruppi di espressioni estetiche, specificate dallo strumento comunicativo: le arti figurative (o visive: disegno, pittura, scultura e architettura), la musica, le arti drammatiche (teatro, opera lirica, cinema e spettacolo televisivo).
LE ARTI FIGURATIVE. Il DISEGNO è l’arte che si esprime per mezzo di linee composte in figura. La PITTURA è l’arte che esprime emozioni attraverso linee e colori. La SCULTURA è l’arte che esprime stati d’animo attraverso i valori plastici, tridimensionali della materia trattata (legno, marmo o metallo), nonchè attraverso il gioco di luci ed ombre (chiaroscuro) che è quasi un cromatismo infuso nella materia stessa. La ARCHITETTURA è la forma artistica che esprime emozioni attraverso il rapporto spaziale di pieno e vuoto, cioè sfruttando non solo le parti "tettoniche o portanti" (il "pieno" dei materiali), ma anche il vuoto abitabile, cioè l’ambiente edilizio creato appunto dal rapporto delle pareti, archi, pilastri e coperture (volte, capriate, soffitti) con gli spazi lasciati sgombri per l’uso umano della costruzione.
La MUSICA è l’arte che esprime l’affettività mediante la melodia (successione emotivogentica di singole note o di accordi complessi, ottenuti armonizzando più note contemporanee in un unico suono).
Le ARTI DRAMMATICHE (o cinestetiche= cinestesiche) sono le forme di arte che si servono anche della presenza, della mimica e del movimento degli attori, oltre che di tutti i mezzi delle altre espressionmi liriche o forme d’arte (parola, musica, arti figurative, paesaggio). Le arti drammatiche tendono ad assommare in sè ogni altra forma di espressione estetica: figuratività degli scenari, inquadramento del paesaggio, musica di fondo o accompagnata dal canto, recitazione in versi o in prosa. Si potrebbe dire che esse sono il genere artistico che si serve della persona umana tutta (presenza, bellezza, forza,mimica, gestualità, movimento od azione, parola, canto) e della natura tutta (paesaggio naturale, ambiente cittadino, macchinario tecnico, ecc.) per comunicare la emotività, per coinvolgere, anzi, in una atmosfera lirica. Il TEATRO è il tipo di arte drammatica che si esprime mediante persone reali, presenti attualmente sulla scena per coinvolgere gli spettatori negli stati d’animo dei personaggi fittizi che esse incarnano, mediante costumi, gesti, azioni e parole, mimica ed eventualmente anche attraverso il canto ( OPERA LIRICA O CANTATA). Il CINEMA E LA TELEVISIONE sono le forme d’arte che si esprimono mediante la fissazione su materiale adeguato (celluloide o circuiti elettronici) la ripresentazione di parole, gesti, azioni, canto, presenza ed avvenenza delle persone vive od attori, che a suo tempo hanno recitato la parte del loro personaggio fittizio: la tecnica di fissazione e ripresentazione ridona, attraverso luci, suoni, colori, l’illusione della contemporaneità della rappresentazione drammatica, avvenuta invece una volta sola e poi incarnata nei mezzi tecnici di conservazione e riproduzione delle figure e dei suoni.
Noi ci occuperemo, ormai, quasi soltanto dell’arte della parola, sia in sede di critica che di storia della LETTERATURA.
LA CRITICA ARTISTICA ( ESTETICO-LETTERARIA in particolare). Anzitutto va detto che la critica letteraria (o, più in generale, artistica) riguarda, di per sè, l’analisi di singole opere, di un singolo autore: dapprima per giudicare della loro caratura estetica; poi, per analizzarne le componenti.
Vi sono, infatti,due tipi di "critica artistica" che van tenute nettamente distinte. Anzitutto vi è la "critica spontanea". Essa è la capacità di entrare in risonanza con le emozioni pure ed assolute, cioè col lirismo eventualmente presente nell’opera in esame. Tale primo passo critico risponde alla domanda "l’opera che sto leggendo, guardando, udendo... mi attrae ed interessa per la espressione di stati emozionali puri ed assoluti; oppure non mi interessa affatto; oppure mi attrae ed interessa per motivi diversi dalla emotività, come il contenuto ideologico, l’eccitazione erotica, la curiosità di conoscere l’esito di una vicenda ingarbugliata...?" La critica spontanea è cioè la facoltà di distinguere un prodotto artistico da opere appassionanti bensì, ma di carattere socio-politico, sensuali, poliziesche...Tale facoltà critica è propria di tutti gli uomini, seppure non nella stessa misura, per quel che concerne il giudizio estetico sulle opere visive, musicali e teatrali-cinematiche. Per le opere letterarie, invece, occorre la conoscenza della lingua usata dall’autore. La "critica riflessa" presuppone sempre quella spontanea, ma la completa con lo studio delle componenti essenziali della espressione stessa. La riflessione e la pratica secolare nella ricerca degli elementi costituenti l’oggetto della critica letteraria ha condotto all’isolamento di tre elementi (fattori, componenti, dimensioni, aspetti, parti) della indagine critica, cioè a distinguere (nelle singole opere letterarie) i motivi ispiratori (ossia le idee da cui han preso avvio gli stati d’animo o i sentimenti, spesso ancora prassici, dello scrittore); i toni lirici (tonalità emotive, registri emozionali..., cioè le emozioni pure ed assolute, che egli è riuscito ad esprimere mediante la parola, a partire dai motivi ispiratori); la tecnica stilistica (stile, mezzi espressivi..., cioè le idee proprie od acquisite, il tipo di linguaggio e di sintassi, la musicalità, infine, congenita all’autore).
LA STORIA DELLA LETTERATURA. E’ lo studio non di singole opere, ma della produzione tutta di uno scrittore o di intere generazioni di poeti e letterati, nel contesto del TEMPO: la "storia" è il succedersi di un passato, di un presente e di un futuro. La Storia letteraria studia dunque le opere artistiche di scrittori nella dinamica del loro divenire, cioè nella loro preparazione, nascere, crescere, definirsi nell’animo degli artisti verbali, in relazione (di accoglienza o di contrasto) al contesto della cultura tutta e, in particolare, della produzione letteraria che ha preceduto e accompagnato la gestazione della loro opera. Mentre, dunque, la Critica letteraria si limita a studiare le componenti sincroniche (contemporanee) di un lavoro artistico, cioè i fattori che costituiscono l’eterna realtà dell’opera (motivi ispiratori, lirismo, stile), la Storia letteraria inquadra la produzione letteraria diacronicamente, cioè nel succedersi di PREMESSE| COSTITUENTI| CONSEGUENZE (passato, presente, futuro) della produzione stessa. Anche qui la riflessione e la pratica della indagine storico-letteraria hanno condotto a concludere che due sono LE PREMESSE (il passato) di un’opera estetica: la PERSONALITA’ o PSICOLOGIA DELLO SCRITTORE (vera causa efficiente, cioè produttiva dell’opera); e l’AMBIENTE, cioè la cultura, specialmente letteraria, che ha influito nella scelta delle idee (motivi ispiratori) e di molti elementi stilistici (specie la metrica) dello scrittore (religione, filosofia, ideologie, contatto con persone, fatti e luoghi particolari; oppure letture di libri che mettono in contatto con il patrimonio di poesie, prosa letteraria, pensiero, costumi...del tempo precedente la scrittura dell’opera letteraria o la nascita stessa dello scrittore).
Le "conseguenze, l’efficacia, il futuro" dell’opera singola o di tutta la produzione di un autore si riassume in una categoria unica: la FORTUNA. Tale termine indica fatti discretamente diversi: numero di (famiglie di) manoscritti e, dopo la invenzione della stampa, di edizioni fatte e di copie vendute; imitazioni aperte o più o meno coscienti riecheggiamenti da parte di altri poeti o prosatori; studi critici sull’opera o sullo scrittore; sfruttamento dell’opera in altra sede culturale od artistica (rivestimento musicale di versi o intere poesie, traduzione in opera teatrale o filmica, ecc.).
II) La storia della letteratura, in quanto ITALIANA, sarà allora lo studio delle opere letterarie scritte in lingua italiana (cioè toscana e più propriamente fiorentina, come vedremo), a cominciare dal secolo decimoterzo, nelle loro PREMESSE, cioè nella pesonalità e nel contesto dell’ambiente di formazione dei loro autori (nel passato , nei precedenti delle opere stesse); nella loro SOSTANZA perenne dei motivi ispiratori, toni lirici, tecnica stilistica; nella PROSECUZIONE (futuro) della loro efficacia, cioè nella loro fortuna nel corso delle generazioni successive.
III) Quanto di queste componenti della storia letteraria sono strettamente individuali (soprattutto la personalità, i toni lirici e la fortuna) vanno studiati a livello di singoli autori. Vi sono però dei fattori che appartengono ad un AMBIENTE culturale-letterario che non è proprio di uno scrittore, ma comune ad un gruppo che si son trovati a vivere e formarsi negli stessi tempi e luoghi . E’ per questo che spesso, prima di affrontare lo studio di singoli scrittori, dovremo dedicare non poche pagine a scoprire la radice che caratterizza la mentalità, molti motivi ispiratori, alcune particolarità dello stile di una intera epoca letteraria. Per gli scrittori più importanti, poi, lo studio dell’ambiente dovrà essere ulteriormente precisato, perchè più uno scrittore è intelligente e artista, più ampio sarà il suo bagaglio culturale, gli autori del passato utilizzati, le esperienze del suo tempo o della storia resi oggetto della sua operosità letteraria: si pensi a Dante ed a tutti i personaggi inseriti nella sua Commedia!
Ci sembra utile mettere qui alcune note metodologiche riguardanti lo studio dell’Ambiente. Immediatamente (specie in riferimento agli influssi sui Motivi ispiratori) interessano le premesse ideologiche (filosofia, religione, dottrina morale, conoscenze storiografiche, scientifiche...) e letterarie, messe a disposizione di un singolo scrittore o di una scuola di poeti e prosatori. Però per la sua natura duplice, animale e spirituale, l’uomo è condizionato da molti fattori pratici anche nel suo pensare e scrivere. Non che l’uomo sia determinato o necessitato dalle componenti esteriori della cultura di una epoca storica, ma neppure può prescindere dalle condizioni concrete e pratiche —militari e politiche, tecniche ed economiche, sociali ed organizzative- del suo tempo, nel formarsi il suo bagaglio di esperienze e di idee. Le idee (che diverranno i suoi motivi ispiratori) lo scrittore le acquisisce, certo, pensando liberamente, tanto è vero che non subisce passivamente le dottrine che trova nel suo ambiente. Pure, gran parte delle proprie convinzioni ogni uomo, anche i più grandi, se le forma reagendo a quelle trovate nella società a lui contemporanea, ora condividendole, ora rifiutandole, ora migliorandole. Ma anche quelle che inventa nella misura della propria acutezza o profondità intellettiva, non lo fa senza la sollecitazione delle circostanze culturali, in cui si trova a vivere. D’accordo: Dante non avrebbe mai scritto l’Orlando Furioso nè Ariosto la Divina Commedia: per disposizioni congenite. Ma è da sospettare che Dante non sarebbe stato in grado di scrivere la Divina Commedia nel corso del Cinquecento nè Ariosto di versificare il Furioso nel Duecento. Ecco che l’ambiente (Medioevo- Rinascimento) si fa componente necesaria ala gestazione di un’opera (anche) letteraria. Ed ecco perchè, studiando l’AMBIENTE delle varie epoche, distingueremo quattro grandi settori da prendere in considerazione, cominciando proprio dalle componenti pratiche, cui seguiranno la mentalità, il gusto (sensibilità prevalente) ed il costume (vita morale).
Tale studio dell’AMBIENTE dovrà introdurre, a maggior ragione, la storia della prima fioritura letteraria italiana, perchè abbiamo da scoprire il segreto della genesi di quella forma espressiva fondamentale, di quella tecnica letteraria prima e generalissima che è la lingua tosco-fiorentina, fatta propria nel corso di secoli da tutta la nazione italiana. Sarà il primo capitolo della Storia della letteratura italiana.
(p. 6) Cap. I: L’AMBIENTE IN CUI SI FORMA LA LINGUA ITALIANA NELL’ALTO MEDIOEVO
I) LE PREMESSE POLITICO-MILITARI.
Nel 395 muore Teodosio: ben presto le guerre, già endemiche nell’impero romano fin dall’età di Settimio Severo (cioè dagli anni 193-211 d. C.) sia per le contese intestine tra vari pretendenti all’impero sia per l’urgere dei Parti e dei Germani ai suoi confini, divennero rovinose per il prevalere, in Occidente, dei barbari invasori sulle truppe romane. Nel corso dei secoli quinto e sesto d. C., i Visigoti si stanziano in Spagna, i Franchi in Gallia, i Longobardi in Italia, gli Anglosassoni in Britannia. L’ Italia (già saccheggiata dagli Ostrogoti nel 410 con Alarico, dai Vandali nel 455 e dai Mongoli nel 452) vide la fine di quel che rimaneva dell’impero romano nel 476 ad opera di Odoacre, che fu ucciso a sua volta da Teodorico, sceso in Italia a capo degli Ostrogoti nel 493. Nel 535 Giustiniano, imperatore d’Oriente, iniziò una guerra diuturna e durissima contro il regno ostrogoto in Italia, durata fino al 553 con alterne vicende. Fu questo il singolo evento che portò alla decimazione del popolo latino in Italia, al regresso delle terre coltivate, con il ritorno di foreste ed acquitrini su molte zone della penisola. Non solo, infatti, l’Italia fu percorsa da eserciti vittoriosi o in ritirata per diciotto anni, ma Borgognoni e Franchi vi fecero incursioni e razzie, distruggndo, fra l’altro, Milano. E, quindici anni dopo la fine di tale guerra gotico-bizantina, scesero in Italia i Longobardi (568), che portarono nuove distruzioni e rovine. Essi ridussero i Latini a servi della gleba (aldii, cioè semiliberi, legati al servizio degli arimanni , gli uomini liberi germanici che, come gli antichi spartani, si occupavano solo di imprese belliche). Carlo Magno sconfiggerà i Longobardi nel 774, annettendo l’Italia al sistema feudale ed al Sacro Romano Impero.
II) LE PREMESSE SOCIO- CULTURALI.
1) IL REGRESSO DEL SISTEMA SCOLASTICO E DELLA TRADIZIONE LATINA
A) IL FEUDALESIMO è il sistema politico in cui il signore della terra è anche il detentore dei poteri politici del suo territorio, in sudditanza solo al "signore" che gli ha concesso -a vita- (non in eredità) la terra. Il feudatario è il capo militare, il governatore civile, il giudice dei sudditi. Questi sono obbligati ad arruolarsi sotto di lui e ad un complesso di prestazioni economiche, ma in natura (giornate lavorative e frutti della stalla e della terra) chè, danaro, fino a Carlo Magno, i popoli germanici non ne coniano e quel poco in circolazione è moneta di Bisanzio. Il feudalesimo è un regime politico di pura sopravvivenza, in cui lo stato non si preoccupa più in là della difesa dai nemici esterni. Tra le conseguenze di questa restrizione nei compiti della società organizzata (lo stato, appunto) vi è la perdita di importanza della città, chè il signore feudatario vive nel castello, centro autosufficiente economicamente, se si tien conto anche della sua "curtis" di artigiani e contadini; e, soprattutto, difendibile militarmente, diversamente dalla città, troppo estesa, posta in piano e non circondata da mura. Ma l’abbandono della città significa trascuranza della giustizia fra i cittadini lontani dal castello del signore: di qui la crescente importanza dei vescovi e del clero, che garantivano l’esercizio della giustizia nei tribunali ecclesiastici. E significa anche la negligenza della vita culturale, visto che Teodorico (muore nel 526) firmava con una lamina d’oro intagliata a formarne il nome (in greco) e Carlo Magno (imperatore dall’800 all’814) solo in tarda età imparerà la lingua del suo impero, il latino. Anche questo disinteresse dei popoli vincitori ("cui fu prodezza il numero,|cui fu ragion l’offesa |e dritto il sangue e gloria| il non aver pietà") riduce i centri di alfabetizzazione e di inculturazione quasi unicamente alle scuole ecclesiastiche. Certo Pavia è una sede di studi giuridici fondata dai Longobardi (anche se, come Università, risale solo al 1361) e altre scuole sono state da loro istituite a Cividale, Spoleto, Salerno, per preparare uomini di leggi e di governo. Ma questo è uno degli indizi che confermano la scomparsa dei centri romani di istruzione nelle province italiane, durante i secoli di devastazioni precedenti. L’altro grave indizio sta nel fatto che altri centri di cultura, conosciuti dalle invasioni alla "rinascita" sotto Carlo Magno (secc. V-VIII), sono solo quelli di enti ecclesiastici, cioè le scuole "cattedrali" dove si preparavano i futuri presbiteri ( ma cui erano ammessi anche laici) e le scuole dei monasteri: Roma Laterano, Montecassino, Milano, Verona, Vercelli, Modena, Novara, Lucca...
B) IL FALLIMENTO DELLA RINASCITA CAROLINGIA. Anche la promozione della cultura voluta da Carlo Magno (suo consigliere è l’anglo Alcuino, diacono e forse monaco) si appoggia sostanzialmente alle scuole episcopali e abbaziali. La situazione peggiora dopo la sua morte, tanto che sembra tornare il caos a lui precedente. I suoi nipoti entrano in lotta col padre Ludovico il Pio dall’829, cioè da quando questi modifica la divisione dell’impero, per ritagliarvi la parte di Ludovico il Calvo, natogli dal secondo matrimonio. I Musulmani, entrati in Spagna nel 711, si trincerano a Frassineto, in Provenza (per operare incursioni in Francia e in Liguria: secoli IX-XI); e nelle Puglie, riuscendo ad tenere in pugno per decenni Bari, Taranto, Lecce ed operando incursioni che devastano Roma, Montecassino, Genova, Pisa. In Francia vanno aggiunte le scorribande dei Vichinghi o Normanni, che scendono a primavera con le loro navi snelle e, risalendo i fiumi, mettono a sacco le città più esposte. Solo nel 911 ottennero la Normandia, diventando sedentari e vassalli di Carlo III il Semplice. In Italia, i Musulmani occuparono tutta la Sicilia e la dominarono per due secoli (dall’827 al 1091); dall’ 898 al 955 si sovrapposero, al Nord, le incursioni degli Ungheri, mentre furono incessanti le lotte tra i vari pretendenti alla corona del regno o addirittura dell’impero. Quest’ultima caratteristica, la divisione e litigiosità della nazione italica, sarà icasticamente definita dal vescovo Liutprando di Cremona (morto circa il 972) nella sua opera Antapòdosis: "Sempre Itali binis regibus uti consuerunt, quatenus alterum alterius terrore coèrceant" ("sempre gli Italici hanno usato eleggersi due re per volta, così da poter tener a bada l’uno con il terrore dell’altro").
C) LA SOLUZIONE DEI VESCOVI-CONTI CON OTTONE IL GRANDE. Il fatto che le città continentali rimangono emarginate rispetto alla vita feudale incentrata nei castelli e nelle campagne, passando alle cure, responsabilità ed autorità dei vescovi; il fatto che dal 955 l’imperatore Ottone I decida di rendere istituzione legale tale condizione di fatto, creando conti i vescovi e gli abati; il fatto che nei secc. VII, VIII, IX e X non si trovi in Italia un solo nome di insegnante laico (A. Viscardi, Le Origini, nella Storia della letteratura italiana, Milano, F. Vallardi, 1939, pp. 489-90), può dare una indicazione sufficiente delle condizioni sociali e culturali di quei secoli fino al Mille almeno. D’accordo, il motivo principale che costrinse Ottone I a puntare sui vescovi e abati, come candidati preferenziali ai feudi, è di carattere politico (e lo vedremo): ma vi fu certo una componente socio-culturale formidabile a spingere ad una tale decisione, che si potrebbe chiamare tanto provvidenziale quanto disperata. E’ il clero infatti che deve supplire le istituzioni civili, perchè queste reano inadeguate o latitanti per servizi che richiedono un grado di integrità che nel clero ci si aspetta sempre più presente; ed una preparazione professionale (conoscere le leggi, oltre la lingua ufficiale in cui sono scritte) cui troppo pochi laici erano introdotti. I vescovi debbono agire come giudici e come procuratori dell’annona cittadina, come garanti dell’ordine in città e nelle vie di accesso: l’autorità, di cui li investe l’imperatore a titolo di giustizia, è un fardello che essi già portavano in nome della carità evangelica. Sono, questi, segni dei tempi: tempi in cui la società rischia l’anarchia e il ritorno allo stato selvaggio. Ma vi è un lievito in Europa, una sua parte scelta (tale è il significato di "clero" in greco) che attinge dalla fede religiosa non solo un grado di onestà ed altruismo assolutamente eccezionale, ma anche un bisogno di cultura intellettuale, che, pur con menomazioni inevitabili in un simile ambiente, dopo simili vicende militari e sociali, rimane ad un livello almeno suffciente. Sono i secoli in cui il termine "verbum" viene emarginato nel senso di "parola" in tutta l’Europa che riconosce nel latino la propria lingua ("Romània"), per essere sostituito dalla "par(ab)ola" presa dalla predicazione cristiana: il vangelo, colle sue parabole, era l’unico libro, l’unica forma di istruzione rimasta agli analfabeti, consegnata loro dai sacerdoti in chiesa (solo più tardi anche dalle pitture e mosaici delle cattedrali, divenuti la "biblia pauperum", la bibbia dei poevri). Sono gli stessi secoli in cui l’autorità assume il nome di "ministerium" cioè di "servizio", termine in cui, dei due concetti di riferimento per indicare chi governa ( potere sui sudditi - in favore dei sudditi) viene sottolineato il secondo, con uno spirito tutto cristiano. D’altronde il termine latino per la casa in muratura (domus) viene riservato all’unica costruzione in pietra che, almeno in campagna, per secoli e secoli sussisterà:la chiesa, chiamata appunto "duomo", mentre ai tuguri di paglia dei contadini passerà il termine latino adeguato, cioè "casa". In simili stretture non poteva essere salvato tutto il patrimonio di conoscenze trasmesso dalla civiltà greco-romana. Anzi non si era neppure potuto conservare una conoscenza adeguata delle forme linguistiche latine, chè neppur gli studiosi (pei quali l’apprendimento della lingua di Roma costituiva il primo passo dell’istruzione) potevano sottrarsi alla deformazione che di quella lingua avveniva inconsapevolmente nelle loro menti, pel compromesso tra il linguaggio appreso a scuola e quello materno, che era lingua barbara recente (il germanico per i popoli dove gli invasori avevano la superiorità anche numerica) o atavica (il celtico dei Galli al nord o l’etrusco in Toscana o i vari dialetti italici nel Sud della penisola). Se si vuole, era una specie di regresso alle prime civiltà mediorientali, egizia e mesopotamica, in cui l’istruzione era appunto appannaggio della casta sacerdotale. Pare che, considerate seriamente le circostanze concrete della società feudale dell’Alto Medioevo, sia stata una provvidenza aver trovato una classe intera di uomini intellettualmente istruiti e moralmente predisposti a dedicarsi (anche) alla trasmissione del sapere a quella parte degli abitanti l’Europa già romana ed ora, in parte, "romanza" (romània); in parte, "gotizzata" (gothia). Pur con tutti i limiti che il sapere nel frattempo aveva dovuto subire, per il gran travaglio dell’assorbimento dei popoli invasori per lo più analfabeti e la fusione tra questi e i latini superstiti; pur con tutti i difetti inevitabilmente presenti anche in maestri ecclesiastici, non v’è dubbio che la celerità con cui i secoli di ferro dell’Alto Medio Evo cedettero il posto al fervore di studi e di lavoro, che porterà l’Europain dopo il Mille a ricuperare ed a superare la grande civiltà greco-romana, fu opera dell’impegno della Chiesa a mantenere viva la fiaccola degli studi ed a trasmetterne la passione in popolazioni o le più aliene ad essi (perchè dedite alla guerra, da sempre) o agli studi ormai da secoli desuete. Quali fossero le lacune tipiche del sapere medioevale, lo diremo fra non molto.
D) LA RATIO STUDIORUM ossia IL PROGRAMMA DI STUDI MEDIOEVALI. A dir il vero, fu però un maestro ancor pagano del Nord-Africa a fornire lo strumento minimo di un "piano di studi" , per far fronte al bisogno di ordine, chiarezza ed efficienza nell’insegnamento, in un’epoca di maestri insufficienti e di carenza, quindi, di tempo. Ma siamo ancora nel V secolo, nella prima metà del Quattrocento dopo Cristo. Marciano Cappella compose per suo figlio un trattato didattico intitolato De nuptiis Mercurii et Philologiae, cioè il connubio tra Mercurio (simbolo delle scienze esatte) e la filologia ( nome sintetico delle materie umanistiche). Queste erano raccolte in tre grandi ambiti (onde il nome di TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA E DIALETTICA), mentre le prime erano ordinate nel QUADRIVIO (ARITMETICA, GEOMETRIA, MUSICA, ASTRONOMIA).Tale corso di studi ebbe col tempo nome comprensivo: ARTES. Ogni candidato che si presentasse agli studi di specializzazione nella teologia o nella giurisprudenza o nella medicina doveva aver già ultimato le Artes. Attraverso scuole organizzate (cattedrali o palatine) o precettori privati, uno poteva giungere alla soglia degli studi specialistici (alla Università quando queste saranno organizzate, a cominciare, alla fine dell’undicesimo secolo, da quelle di Salerno e di Bologna) ancor molto giovane. Ma anche le Università si fornirono di una sezione di ARTES, come introduzione agli studi superiori: vi potevano accedere adolescenti a cominciare dai quattordici anni.
Se vogliamo dare un giudizio su tale tipo di studi, troveremo meriti e difetti. Il merito primo è l’orizzonte universalistico cui aprivano. Si trattava, infatti, di un curriculum o programma di studi (ratio studiorum, in latino) che metteva a contatto con tutto lo scibile, elaborato dagli antichi attraverso le riflessioni metodologiche (nel campo linguistico), quelle sapienziali (in sede filosofica) ed attraverso le scoperte nei vari campi della scienza. Sarà tale "enciclopedia" del sapere che favorirà la nascita di quei capolavori di razionalità e poesia che sono la Somma teologica di S. Tommaso e la Divina Commedia di Dante. Il secondo vantaggio stava nella validità senza frontiere dei titoli accademici: l’Europa non solo aveva una sola fede (cattolica), una sola lingua ufficiale (latina), una sola legislazione fondamentale (quella romana del Corpus iuris giustinianeo), un solo governo centrale (quello dell’imperatore), ma anche una unità di cultura che permetteva scambio di professori sulle cattedre universitarie e passaggio di studenti da una università all’altra (clerici vagi), con riconoscimento del dottorato in ogni nazione della cristianità occidentale, romanza o germanica che fosse. Il difetto principale stava forse nella trascuranza degli studi storici. Essi erano considerati parte della "retorica", studio cioè collegato con la poesia e la prosa oratoria. Anzi la storiografia era ancora considerata "opus rethoricum maximum", cioè la più alta espressione della dell’arte letteraria in prosa (si deve pensare specialmente ai "discorsi" messi in bocca ai vari attori della storia, per giustificare la propria azione politica o militare: Tucidide e Polibio, Tito Livio e Tacito avevano dato esempi affascinanti in proposito). Tale collocazione tendeva a separare storia e verità. Di tale "acrisia storica" scopriremo cause più gravi. Ma certo uno dei motivi per cui nel Medio Evo si incontrano deformazioni storiche o accettazione di leggende sta anche in questa prospettiva erronea degli studi storiografici. Una conseguenza grottesca di tale miopia s (e siamo al secondo difetto della cultura medioevale) è la identificazione del termine "grammatica" con la lingua latina. Nella mentalità antistorica dei medioevali, il fatto che solo il "latino" dovesse essere studiato (su libri o note di "grammatica", ovviamente) a scuola, mentre le lingue (dialetti) materne si imparavano senza scuola e senza grammatica, indusse a ritenere che il latino non fosse mai esistito (neppure ai tempi di Roma repubblicana ed imperiale, di Cicerone e di Virgilio) come lingua imparata in famiglia, senza bisogno di scolarizzazione, ma fosse sempre stato una lingua artificiale, coniata appositamente per scopi di elevata cultura, letteraria, filosofica e scientifica. Di qui il mito, secondo cui soltanto una simile lingua inventata a tavolino dai dotti potesse trasmettere il sapere teologico, filosofico e scientifico. Le lingue "volgari" (cioè "popolari": "vulgus" in latino è il popolo) resteranno escluse a lungo dall’insegnamento universitario. Dante, come vedremo, parteciperà candidamente di questa illusione prospettica, anche se sarà fra i primissimi a tentare di scrivere un testo di alta cultura in lingua "volgare" fiorentina (il "Convivio").
2) L’EMERGERE DEL SOSTRATO PRELATINO.
Tra le premesse socio-culturali per l’evolversi delle lingue romanze, ve n’è una radicalmente connessa con quelle politico-militari: è la nuova popolazione che viene in contatto —nelle scuole, negli uffici giuridici (notai e giudici), nei luoghi tutti ove si voleva o doveva parlare latino- con la lingua di Roma. Ora, si badi: le nazioni a suo tempo conquistate da Roma avevano avuto modo nel corso di generazioni di assorbirne la lingua in misura notevole, sia attraverso scuole regolarmente funzionanti per chi cercava un posto distinto nella società dei dominatori; sia attraverso il contatto pratico (economico e no) con soldati, commercianti, turisti che già parlavano latino, nonchè con i propri connazionali ormai assuefatti alla lingua dei padroni. Così la lingua celtica che, dal Portogallo alla Spagna, dalla Francia all’Italia settentrionale, dalle popolazioni ladine (Grigioni svizzeri ed alta Valtellina) alla Romanìa (la Dacia dei Romani), era divenuta una specie di "coiné" o lingua comune nell’Europa centro-meridionale, aveva poco a poco ceduto il passo alla lingua latina, il nuovo strumento obbligato di comunicazione sociale. Non che tutto abbia mutato terminologia: vi sono tuttora numerose località geografiche nell’area della "romània" che solo con la chiave del "gaelico", ossia "gallico" ossai "celtico" (tuttora lingua ufficiale in Irlanda) trovano senso e spiegazione. Per di più la massa della gente analfabeta aveva fatto un compromesso tra il linguaggio nativo e quello ufficiale, tra il celtico materno e il latino societario. Pure, complessivamente la diffusione del latino era stata estesa e andava approfondendosi con il passare delle generazioni. Ben diverso è invece il contatto tra conquistatori barbari e popolazioni linguisticamente romanizzate. Politicamente, il latino è ridotto ad essere la lingua dei vinti: chi governa parla per lo più il germanico. Il risultato dell’incontro parrebbe dover essere un progressivo assorbimento della popolazione latinizzata nella cultura dei dominatori, così come era successo tra i Celti ed i romani secoli addietro. Ma succede invece un compromesso. In astratto almeno, il latino torna a trionfare ed a rimanere la lingua ufficiale del popolo, oltre che della amministrazione, avviandosi ad emarginare il volgare tedesco ("Deutsch" significa "popolare"). In concreto, la lingua germanica viene davvero quasi del tutto emarginata, almeno come corpo di lemmi verbali; la lingua latina, però, paga uno scotto: regredisce a forme approssimative, ritenute dall’opinione pubblica come sempre esatte, ma in realtà divenute un miscuglio di radicali latini rinnovati secondo un musicalismo barbaro o di radicali estranei al latino, ma ricoperti dalla morfologia della lingua di Roma. Che cosa è avvenuto? La componente socio-militare che stiamo esaminando ci offre tre fatti che aiutano a comprendere l’evolversi della situazione nel senso accennato. Il primo fatto assomiglia non poco a quanto era avvenuto dopo il 133 a. C., quando Roma si era annessa la Grecia: "Graecia capta ferum victorem cepit" (=la Grecia, conquistata, fece prigioniero il barbaro vincitore, cioè il popolo romano). I Germani vincitori avevano bensì una scrittura e almeno un libro, cioè la Bibbia, tradotta in gotico dal vescovo Ulfila (nel secolo quarto d. C.), ma complessivamente erano guerrieri ed analfabeti, non esclusi i capi più aperti alla cultura, come Teodorico e Carlo Magno. Ne risulta che, divenuti sedentari su territorio già romano, sentono l’attrattiva di quella superiore civiltà e ne adottano la lingua per le loro leggi scritte (editti, capitolari...), mentre cercano la collaborazione di persone colte, specialmente nel campo della giurisprudenza (notai, giudici, consiglieri politici). Tale dipendenza culturale porta la lingua latina in primo piano, mentre quella germanica viene lasciata al popolo incolto. Così capita nella Gallia franca, nella Spagna visigota. Emarginato il germanico atavico, si tentò con tutta la buona volontà di adottare come lingua il latino. Ma eccoci al secondo fatto. La cosa fu possibile ai Franchi, come ai Visigoti in Spagna, anche perchè quei popoli erano cattolici come le nazioni sottomesse e, perciò, andarono sciogliendo poco a poco l’orgoglio e la distanza che li separavano dai latini, in cui imparavano a riconoscere, gradualmente, dei fratelli. Non si trattava solo di abbattere delle barriere etico-psicologiche: entrava in gioco la partecipazione alla liturgia comune, che in quei secoli non poteva essere celebrata (omelia compresa) che in lingua latina; si accostavano ai giuristi, i consiglieri ecclesiastici; ed era in questione la possibilità di matrimoni interrazziali e, quindi, la fusione biologica tra le due popolazioni di cui la unificazione linguistica era un corollario inevitabile. Infine va tenuto conto della sproporzione numerica fra i pochi vincitori ed i moltissimi vinti: Clodoveo si fa battezzare, la notte di Natale del 498 o 499, con 10.000 uomini: non era tutto il suo esercito, certo, ma un indizio che la massa dei Franchi non era poi molto numerosa. E’ una componente che gioca una parte non indifferente nel prevalere finale della lingua latina. In simili condizioni, è facile immaginare lo sforzo di autorità barbare ed ecclesiastiche per preparare il maggior numero possibile di uomini bilingui, che mediassero le relazioni tra le due popolazioni nei primi anni. Era un lavoro che non partiva dal nulla: i popoli germani da secoli ormai avevano rapporti con le colonie militari e civili stanziate sui loro confini: quando fra essi ed i romani non v’era guerra, si instauravano rapporti di commercio, che richiedevano un intendersi vicendevole, cioè una certa pratica di entrambe le lingue. Dall’altra vi sarà stato anche la ricerca, da parte della massa del popolo, di apprendere per via di pratica, fuori della scuola, la lingua latina. A questo punto si incontrano e scontrano altri fattori di segno opposto. Anzitutto vien meno il fascino della lingua dei "dominatori" di una volta: il latino perde di splendore e fascino presso le popolazioni precedenti l’occupazione romana (Celti, per lo più), avviate bensì alla latinizzazione, ma attraverso un processo non mai definitivo (la lingua materna ha dalla propria parte la memoria più tenace). In secondo luogo, vengono a cadere molti punti di riferimento scolastico, messi a disposizione dalla amministrazione romana, per i figli dei propri governatori ed impiegati, ma aperti anche alla popolazione locale, visto che l’editto di Caracalla del 212 aveva reso tutti i "provinciali" cittadini di Roma. La Chiesa subentra come e per quanto può, ma non riesce certo a ristabilire un numero di scuole ed a raggiungere una efficacia di insegnamento quale era possibile alla organizzazione romana, fornita di mezzi troppo superiori. La Chiesa crea scuole per preparare il proprio clero, offrendo ospitalità anche a studenti laici, ma nella misura che era consentita dal disordine e dalla povertà dei regni romano-barbarici. Nella stessa Francia, pur dominata da una monarchia cattolica, il papa dovette incaricare san Bonifacio di riportare ordine nella chiesa (742-747): l’epoca dei Merovingi, anche per la tradizione di dividere il regno fra tutti i figli, fu caratterizzata da disordini poco meno che caotici. In questa situazione, non fa meraviglia che si operasse un regresso nel cammino di latinizzazione per la massa del popolo, con un ritorno di forme ataviche di linguaggio. In realtà, la popolazione analfabeta aveva sempre parlato una lingua di compromesso ed ora tale linguaggio esce allo scoperto senza più persone dotte in numero sufficiente, che testimonino delle distanze rispetto al latino ciceroniano o comunque ufficiale. Poco a poco la gente si illude di parlare il latino, mentre si esprime in forme "romanze", cioè in una struttura che del latino conserva i radicali delle parole, ma le deforma secondo le leggi musicali presenti nella propria lingua originaria (cioè secondo la sensibilità dominante nella propria psicologia e già espressa nel musicalismo del linguaggio celtico); e si costruisce una grammatica e sintassi più semplici e notevolmente diverse. Si crea così un contrasto-collaborazione fra il latino che resiste come può nelle forme regolari (specie nella scrittura e nel colloquio fra gente dotta) ed una o più lingue di SOSTRATO (cioè "strato soggiacente", substratum), diverse almeno in parte da nazione a nazione, che tentano in ogni modo di piegarlo alle proprie esigenze. I cittadini dei nuovi stati barbarici si sforzano di adattarsi al latino, probabilmente a malincorpo. Ma lo recepiscono (magari anche attraverso la scuola, ma una scuola insufficiente nel tempo, non sempre dotata di maestri competenti e come sopraffatta per la pressione di un uso comune inarrestabile) in misura condizionata dal prevalente uso della lingua materna fuori di scuola. In Spagna e Portogallo il latino deve fare i conti con residui celtici e la parlata visigota. Nella Francia del nord la pressione del germanico e del sostrato celtico si affrontano: e sorgerà la lingua d’oi"l od oitanica (poi, francese); al sud invece è il sostrato celtico che domina, dando origine alla lingua occitanica o provenzale. In Italia, il latino entra in collisione con un cumulo di sostrati, che vanno dal celtico al ligure, pel nord, dall’etrusco in Toscana alle parlate italiche (osco-umbro, peligno, marrucino, volsco, siculo) nel centro-sud: oltre che con residui longobardi, riscontrabili specialmente nei nomi propri fin oltre il Mille. I vari dialetti italici cederanno il passo a quello toscano, che diventerà la lingua italiana, solo nella seconda metà del secolo XIII. I popoli della "romània" pervengono, dunque, a quel compromesso che lascerà loro l’illusione, per qualche generazione, di parlare ancora il latino, finchè verrà il Concilio di Tours (813), che con la 17^ deliberazione testimonierà della coscienza ormai affermatasi: la lingua del popolo non è più quella latina. Il clero predichi nelle lingue volgari, per farsi capire dal popolo. "Affinchè tutti possano capire le cose dette", queste vanno tradotte nella lingua "romana rustica o in quella tedesca": il concilio legiferava per tutto il sacro romano impero e la "lingua romana rustica" erano le varie lingue romanze, ormai differenziatesi profondamente dal latino, così da non essere più confondibili con esso.
3) IL LATINO PIU’ DIFFUSO NELLE PROVINCE E’ QUELLO "VOLGARE".
Non bastano, però, le due cause sopra descritte (rarefazione dell’istituto scolastico e invadenza della lingua di "sostrato") a spiegare l’evolversi e il trasformarsi del latino nelle varie lingue romanze in bocca ai vari popoli dell’ex impero romano. Occorre tener presente un terzo fattore: la popolazione non scolarizzata delle varie province apprendeva un latino che non era quello "classico-ciceroniano", ma quello volgare, cioè dei soldati e commercianti, un latino non raffinato e neppure molto regolare. Occorreranno in proposito alcune considerazioni. Il latino era lingua viva: come tale, in continuo graduale sviluppo, come ogni lingua parlata. Ma le lingue antiche avevano una componente di instabilità maggiore, pel fatto che mancava ogni istituzione statale (ministero pubblica istruzione, Consiglio superiore della istruzione, cattedre universitarie...) che filtrasse con qualche autorità neologismi, leggi di grammatica e sintassi... Erano lingue in regime di "pieno libero mercato", in cui l’uso imposto dagli autori, riconosciuti come i migliori dalle sfere elitarie della classe di senatori e cavalieri intellettualizzati (quello degli scrittori e degli oratori politici e penalisti), faceva legge. La chiarezza di significato dei vocaboli e la risonanza più consona con il complessivo musicalismo già affermatosi nella lingua di Roma (o più brillante ed allettante) decidevano dell’ammissione di nuovi termini nel vocabolario (solo mnemonico, allora). Così, nella lingua, vi era posto per l’analogia (con l’uso), come per l’anomalia (eccezionalità piacevole). Il risultato costituiva la parlata "classica", cioè della classe più in vista, la prima delle cinque "classi" che, secondo la leggenda, avrebbe introdotte Servio Tullio (578-535 a.C) e che dovevano, comunque, essere un istituto molto antico, basato sul "censo", cioè sulla somma pagata come imposta allo stato. La tassazione denotava il benessere; e la ricchezza permetteva non solo una istruzione superiore, ma altresì del tempo libero per ascoltare (leggere) grandi poeti od oratori, eventualmente per provarsi ad imitarli, parlando e scrivendo come loro. Erano le élites culturali, che imponevano la lingua (come chissà quante altre mode, dal vestiario al comportamento sociale). L’innata tendenza dell’uomo ad imitare chi è ritenuto, a qualsiasi titolo, superiore portava il popolino, più o meno analfabeta, a far proprie, per quel che gli riusciva, le forme linguistiche delle classi superiori, operando una elevazione continua della lingua del volgo verso forme più regolari e più raffinate. La frequenza del foro, la partecipazione ai processi con l’ascolto delle orazioni degli avvocati in tribunale, la conoscenza dei discorsi tenuti in senato da membri particolarmente famosi, la audizione (o lettura) di versi che i poeti editavano attraverso le officine di amanuensi, l’accesso alla casa degli altolocati attrraverso il legame di clientelismo od il rapporto di commercio... erano tutte vie per cui, anche senza giornali o altri strumenti di comunicazione sociale, la plebe finiva per partecipare del processo di evoluzione della lingua. Non si pensi però che il popolino riuscisse ad appropriarsi della lingua "classica" perfettamente e riuscisse a seguirne prontamente le innovazioni. In proposito, si può intuire il processo del continuo ma sempre parziale accostamento della parlata della massa alla lingua delle classi superiori, nel fenomeno parallelo del progressivo assimilarsi al fiorentino dei dialetti italiani, nel corso dei secoli fino alla televisione. Prendiamo il caso del dialetto romanesco. Un forte processo di italianizzazione fu indotto dai tre papi toscani dei secoli XV e XVI (Pio II: 1458-64, Leone X: 1513-21 e Clemente VII, 1523-34), un processo che poi rallentò, sicchè la lingua di G.G. Belli (1791-1863) non è sempre comprensibile al lettore toscano: per comprenderlo tutto occorre un piccolo dizionario o delle note a piè pagina. Intervenuta l’unificazione d’Italia, divenuta Roma la capitale del Regno, il processo si accelerò con l’aiuto di due fenomeni sociali nuovi: la comparsa di giornali, cioè di strumenti quotidiani di comunicazione sociale nella lingua tosco-fiorentina; e la scolarizzazione crescente, specie dopo la legge Coppino che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare:1877). Ecco che allora C. Pascarella (1858-1940) non abbisogna più di simili aiuti: ogni italiano che parli la lingua nazionale lo comprende, perchè ha fatto un balzo nell’accostarsi al fiorentino, pur mantenendo alcune inflessioni particolari. Ancora più italianizzato è il romanesco di Trilussa (C. A. Salustri: 1871-1950), le cui sfumature locali servono solo a render più colorito, più canzonatorio e pungente il linguaggio. All’epoca della Roma di Cesare e Cicerone, tale crescita verso il modello superiore avveniva molto più lentamente, lasciando una distanza fra latino "classico" e latino "volgare" di cui si hanno testimonianze in opere letterarie e dichiarazioni esplicite di grandi scrittori. E’ proprio Cicerone a confessare il doppio livello di "proprietà, purezza, eleganza" nella scelta dei vocaboli (Epistolae ad familiares, IX, 21) quando riconosce che scrive nelle lettere in modo più spontaneo e meno curato che non nelle orazioni, dicendo "quidquid mihi in buccam venit" (qualunque cosa mi viene in bocca). Il ciceroniano Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.) nelle Institutiones oratoriae, XII, 10, 40 ed Aulo Gellio nelle Noctes atticae XIX, VIII, 15 riferiscono lo stesso fenomeno del doppio stile, raffinato e plebeo. Tutti costoro finiscono per testimoniare la compatibilità fra i due linguaggi, parlati e scritti dalla stessa persona, in tempi e circostanze diverse. D’altronde, Tito Maccio Plauto (250 ca-184 a. C.), il più grande commediografo romano, scriveva "bellus" anzichè "pulcher" (bello), ed usava il "quod" dichiarativo al posto della infinitiva soggettiva od oggettiva: entrambe le dizioni riaffioreranno nelle lingue neolatine tutte. Risulta, allora, che il fenomeno di un uso "volgare" della lingua latina fu comune ad ogni generazione sia repubblicana che imperiale. Naturalmente le vicende del suo regresso od avanzamento nei confronti del "classico" dipese dall’ascesa in autorità deigli aristocratici e dall’aliquale benessere del popolo, che si interessava a sentirli e comunicare con i loro ambienti, che poteva inviare qualcuno dei propri figli alle scuole per perfezionarvisi. Ma si è sempre ben lontani dal cancellarne l’uso e la memoria. Pare, infatti certo che Petronio scrivesse il Satyricon (romanzo picaresco, ove si canzonano i "nuovi arricchiti", i parvenus, come Trimalcione) in un periodo letterario se non aureo, certo argenteo, quello di Nerone (54-68 d. C.). Il linguaggio è di un realismo sconcertante, di una volgarità plebea. Quale distanza dal contemporaneo Quintiliano, il legiferatore dell’aulica lingua ciceroniana! Un secolo dopo, i Vangeli tradotti in latino dal greco, non si preoccupano certo di classicità di vocabolario e sintassi. Ad esempio Matteo evita le infinitive oggettive e soggettive e usa la congiunzione "quia" o "quoniam" (cioè delle congiunzioni causali!) per introdurre la dichiarativa: si veda ad esempio al capitolo 2, 16 "Tunc Herodes, videns quoniam illusus esset a Magis" anzichè "percipiens se deceptum esse a Magis"("Allora Erode, accortosi che era stato ingannato dai Magi...); e tutto il discorso della Montagna (cc. 5-7), in cui le affermazioni "Avete udito che fu detto" viene sempre reso con "Audistis quia dictum est". Così pure abbiamo l’uso di "unus" anzichè "quidam" per indicare una persona indeterminata (ad es: in 8, 19: "Et accedens unus scriba, ait illi..."). Sono forme che si confermeranno nelle lingue romanze. Il secolo terzo dopo Cristo fu per Roma l’inizio della fine: frequenti le guerre contro Germani e Parti, non meno frequenti le lotte civili per la successione all’impero. Ne fanno le spese non solo gli scolari, ma gli stessi maestri, che arrivano a scuola con in mente parecchi vocaboli deformati nel suono o nella morfologia. La Appendix Probi, di quel secolo, denuncia gli errori degli alunni, ma rivelando anche l’imprecisione del latino nel maestro, chè alcune correzione sono fatte a sproposito! Comunque, egli ammonisce esattamente a scrivere "auris, columna, os, senex, equus" (e non "oricla","colomna", " bucca", "veclus","caballus"...). Come si constata facilmente, nonostante gli sforzi di Probo, le variazioni fonetiche e lemmatiche errate finirono per prevalere con "orecchio, colonna, bocca, vecchio, cavallo". Del secolo successivo, è la Peregrinatio Aetheriae ad loca sancta, scritta in Aquitania (Gallia sudoccidentale) : essa deuncia modi di dire diffusi nella parlata popolare, che saranno propri solo del francese o comuni a tutta la "romània", espressioni che le sfuggono in un testo che vuole ancora essere perfettamente latino (e, per molta parte, lo è: la scuola è stata efficace certamente, ma non a sufficienza perchè la parlata domestica non prenda talora il sopravvento). Ben presto i barbari invaderanno e saranno i dominatori. Si è già cercato di tracciare le linee di una involuzione che farà dei secoli V-VIII il periodo più scombinato del Medio Evo e quello in cui il compromesso tra "sostrato" e "latino" giungerà a maturare le lingue romanze o neolatine. E a mantenere a lungo la impressione di parlare latino, pur nel permissivismo di fondamentali metamorfosi, sarà anche il fatto che Roma aveva esportato in quantità molto maggiore il latino volgare, attraverso soldati e commercianti, che non, attraverso le scuole, quello classico e ciceroniano.
III) VERSO LA COSCIENZA DELLE LINGUE ROMANZE
1) In una evoluzione, divenuta ormai tumultuosa,un fatto è sorprendente: mentre può capitare che la dimensione concettuale delle parole si svii ed esse vengano ad assumere significati solamente affini (e talora anche notevolmente diversi) rispetto alla radice latina da cui prende le mosse, invece la componente musicale del vocabolo rimane possesso inconscio bensì, ma sicuro al punto che la trasformazione delle vocali in bocca ai diversi popoli si verifica con assoluta coerenza al loro valore musicale. La memoria consapevole del significato può fallare e cambiare il senso alle parole, ma la memoria inconsapevole del musicalismo si è impressa indelebilmente nell’orecchio (meglio: nei centri neurovegetativi) degli utenti la lingua di Roma e genera coerentemente quella che i tedeschi chiamano "Lautverschiebung",cioè la spinta, la sollecitazione, lo slittamento dei suoni. Si vuol dire: è noto che le vocali sia greche che latine avevano un valore musicale ben preciso: vi sono vocali di durata doppia rispetto ad altre. Ci sono vocali che, per natura, valgono una "croma" piuttosto che una "biscroma". Le prime si dicono "lunghe"; le seconde, "brevi". Ebbene, diversa è la sorte della medesima vocale con "tempo musicale" diverso: la metamorfosi (Lautverschiebung) cui vanno soggette è costante per i casi di quantità identica; è diversa per la stessa vocale, di quantità però semplice piuttosto che doppia. Vedremo fra non molto le leggi costanti di simili scorrimenti di suoni, che spiegano -a livello di vocali- il passaggio dal latino al toscano-fiorentino.
2)Sulla "sollecitazione dei significati"che l’ambiente sociale finisce per imporre a diverse parole latine passate nelle lingue romanze, ve ne sono alcune che abbiamo già riferite come testimoni di un predominio radicale della religione nella cultura di questi secoli: "verbum" (in latino significa semplicemente "parola") diventa il termine che indica il tempo dell’azione espressa in una frase, mentre il senso universale di "parola" viene desunto dalla "parabola" di origine evangelica. Così si dica per "domus" che diventa l’unica costruzione in muratura di quei tempi, cioè la chiesa del vescovo (duomo), mentre i contadini non hanno che una "capanna, cioè, in latino, "casa". Lo stesso vale per "ministerium" che in latino è il servizio (dello schiavo, eventualmente) e nel linguaggio cristiano del Medio Evo diventa "onere di autorità" e "incarico di governo". Su altre variazioni di senso si è soffermato molto Manzoni, per le sue ricerche linguistiche. Egli nota che "domina", dal senso latino di "padrona" passa a quello di "donna, persona femminile": ne nascono combinazioni grottesche, come la "donna di servizio" che è la serva-padrona! "Infans" significa il bambino che non sa ancora parlare, ma siccome prende, nelle lingue romanze, il senso generico di "bambino", ecco che si potrà dire "parola o linguaggio infantile" (parola o linguaggio di uno che non sa parlare!). "Musculus" significa "topolino" ed è passato a significare la parte carnosa del corpo umano, perchè essa è raccolta in fasci che possono richiamare la conformazione del topo. Così "senior" significa "più vecchio" o "vecchierello": nelle lingue romanze indica invece il "dominus, il padrone". Ne nasce il comico "giovin signore" (il giovane vecchierello) del Parini. Eccetera.
Testimonianze di queste trasformazioni imprevedibili sono numerosi documenti dell’epoca merovingia: sia la Historia Francorum (di Gregoirio di Tours, 538-94); sia carte giuridiche (Breve de Inquisitione di Siena: anno 715); sia i "glossari" che affiancano testi latini per spiegarne il linguaggio, più o meno classico, ai lettori che ormai parlano solo una sua volgarizzazione, abbastanza avanzata da rendere incomprensibile quello autentico; sia gli elenchi di termini latini, cui viene affiancato il lemma ormai usitato e proveniente dal latino volgare o dal celtico o dal germanico o dal greco...; sia i glossari o frasari in cui la situazione è rovesciata (nel glossario di Frisinga del secolo IX, ad esempio, la parola tedesca è tradotta non in latino ma nel vocabolo romanzo ormai prevalente)...
3) Che cosa impedisce ormai di chiamare "lingue neolatine| romanze" i linguaggi che si erano formati in bocca a chi credeva di parlare il latino? E’ la mancanza di coscienza della diversità ormai insuperabile fra i due tipi di espressione. Si è visto che il maestro dell’Appendix Probi credeva di insegnare latino classico e invece lui stesso, in qualche caso, insegnava come latino una trasformazione romanza; si è constatato come Eteria ritenga di scrivere in latino classico e invece lascia sfuggire espressione che arieggiano al francese o comunque a forme di compromesso fra latino e lingue neolatine. Gli stessi glossari non decidono a fondo circa la coscienza della diversità: distinguono bensì un latino classico da un latino volgare: ma una tale distinzione non era esistita in Roma stessa, in ogni secolo? Quando allora si potrà con sicurezza collocare la separazione fra i due linguaggi? Quando la società del Sacro romano impero dimostra la coscienza precisa della loro irreducibile diversità. Quale è il documento che ci testimonia tale coscienza? Per quanto siamo documentati finora, è il Concilio di Tours dell’813, come si è detto: nella sua diciassettesima deliberazione viene imposta al clero di pronunciare le omelie in lingua o romana rustica o tedesca, "affinchè (gli ascoltatori) possano capire le cose dette". L’affiancamento della "lingua romana rustica" al "tedesco" garantisce della presa di coscienza circa la diversità fra latino e neolatino: la divergenza fra latino e tedesco era ovvia a tutti, da sempre.
4) A questo punto possiamo introdurci a scoprire un po’ più a fondo i segreti del formarsi della lingua italiana e dei suoi primi passi nei documenti scritti. Ci poniamo queste domande: Che cosa è la lingua italiana? Perchè, tra i molti dialetti locali, finì per prevalere come lingua nazionale quello tosco-fiorentino? Quali sono le caratteristiche di tale lingua neolatina, rispetto al latino classico e rispetto alle altre lingue romanze? Quali sono i primissimi documenti scritti in volgare italiano? Perchè tali documenti sono in ritardo rispetto a quelli della lingue francese, provenzale e tedesca? Perchè le prime manifestazioni di scritti nella nuova lingua hanno il sapore di una maturità e raffinatezza che presuppone esercizio e malizia nell’usare il nuovo strumento espressivo, sicchè parrebbero presupposte generazioni di attività e produzione letteraria, che proprio non esistono?
IV)LA LINGUA ITALIANA
1)CHE COSA E’ LA LINGUA ITALIANA? E’ lo strumento espressivo verbale, ufficialmente accettato in Italia e, di fatto, usato dalla enorme maggioranza dei suoi abitanti.
STORICAMENTE COME SI E’ FORMATA? attraverso una trasformazione complessivamente inconsapevole, una evoluzione per lo più inconscia della lingua latina in bocca al popolo non scolarizzato della Toscana (e, in particolare, di Firenze) nel primo Medioevo (secoli V-VIII).
QUALI LE CAUSE DI TALE EVOLUZIONE? Sono le tre già viste: venir meno di un sistema scolastico adeguato ai bisgni delle popolazioni indigene e di quelle sopravvenute con le invasioni; i condizionamenti del "sostrato" etrusco tuttora attivo, come genialità espressiva ed esigenze musicali, nella memoria della popolazione toscana (pur romanizzata da oltre un millennio!); le conseguenze del prevalere, anche in Toscana, del latino volgare rispetto a quello classico, nella forma assorbita e parlata dal popolo non scolarizzato, che è quello presso cui si è affermata la trasformazione incosapevole, che si è imposta poi nel colloquio extrascolastico alle stesse persone dotte.
2)PERCHE’ IL DIALETTO TOSCO-FIORENTINO PREVALSE SUGLI ALTRI COME LINGUA DI TUTTA L’ITALIA? Le cause dell’imporsi del "volgare di Firenze" sono sostanzialmente due. Anzitutto c’è la fama e la bellezza delle opere letterarie di Dante, Petrarca, Boccaccio, che mise in ombra ogni scrittura fatta in diverso linguaggio tra quelli evolutisi dal latino in Italia. Le opere dei tre grandi scrittori del Trecento toscano divennero i "modelli", i "classici" del volgare nella Penisola. Accanto a questa causa, vi è il successo dei banchieri e mercanti fiorentini, dei loro prodotti e della stessa loro moneta (il fiorino, coniato nel 1252), che costituirono un punto di riferimento necessitante per le popolazioni che con essi avevano a trattare: chi ha bisogno accetta la lingua del più forte. E vi sarebbe una terza causa da mettere in conto. Roma rimaneva pur sempre un centro italiano ideale, per il ricordo della grandezza dell’impero di Augusto e per la presenza del Papato. Orbene, il dialetto "romanesco" fu notevolmente intoscanato a cominciare dal senese Pio II (1458-64), per essere poi fiorentinizzato nel Cinquecento dai due papi Medici (Leone X: 1513-21; Clemente VII: 1523-34): tutti riempirono la curia papale di loro conterranei.
Si noti come, in realtà, le due componenti, quella artistico-letteraria e quella finanziario-commerciale, non sono poi così estranee: il popolo di Firenze si dimostrava inventivo sia nel campo umanistico dell’arte verbale sia in quello imprenditoriale del maneggio di affari. Gli Italiani dunque finirono per seguire la lingua della popolazione esteticamente più brillante e managerialmente più vivace. Si può discutere all’infinito se una lingua, prescindendo da chi la parla, sia più bella, più elegante, più affascinante di un’altra. E’ certo che il toscano in bocca ai fiorentini diventa la lingua più musicale, più seducente, più artistica d’Italia: i fiorentini si rivelarono ambidestri: geniali nel campo poetico e prosastico, in quello figurativo e plastico-architettonico, nelle invenzioni tecniche e nello stesso dinamismo del commercio. Fra essi si rivelarono troppo frequentemente persone inventive: gli Italiani ne furono coinvolti e trainati. Erano troppo più forti.
3)QUALI SONO LE CARATTERISTICHE PIU’ NOTEVOLI DELLA PARLATA FIORENTINA RISPETTO AL LATINO CLASSICO? Accenniamo alle principali soltanto. Nel campo della fonetica, avvengono mutamenti costanti, secondo leggi musicali inconsapevoli ma tenacissime (se ne è già parlato). Ecco quelle che riguardano la "Lautverschiebung", lo slittamento dei suoni vocalici. La "A" rimane tale nel passaggio dal vocabolo latino a quello toscano, sia essa lunga (ala e sal) o breve (alacer e alumnus). Tutte le altre vocali rimangono immutate solo se sono lunghe (rete, ebrius| risus,vinum| sol, donum| fructus, fumus), mentre variano con passaggi fissi, se sentite come brevi dalla lingua latina. La "e" breve diventa "ie" (mel= miele; pes=piede); la "i" breve diventa "e" (pirus=pero; siccus=secco); la "o" breve diventa "uo" (cor=cuore; bonus=buono); la "u" breve diventa "o" (crux=croce; nux=noce). A livello di grammatica, i sostantivi perdono tutte le desinenze eccetto quelle che distinguono il singolare dal plurale (e, per gli aggettivi, il maschile dal femminile): in pratica, scompaiono le declinazioni. Al posto dei cinque "casi" e loro desinenze , si usano le preposizioni (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra); i verbi presentano la formazione del futuro in via perifrastica, mediante la forma dell’infinito unita al verbo avere (al latino "amabo" corrisponderà dunque: ho da amare=amare ho= amerò). Viene inoltre introdotta la forma del "futuro relativo ad un passato" (cioè dipendente da un verbo passato nella frase reggente): è il condizionale, che si costruisce pure perifrasticamente col passato remoto del berbo "avere": "Amerei" =ebbi da amare= amare ebbi= amerei. Quanto alla sintassi, all’interno delle singole frasi (sintassi semplice) si ebbe l’uso di moltissime preposizioni non solo "proprie", ma altresì "improprie" (avverbi ad uso di preposizioni) e "composite" (dei complementi, cioè, in uso di preposizioni), come si è detto a proposito dell’abbandono delle declinazioni. Nella sintassi composta (ossia del "periodo") le frasi dichiairative esplicite soppiantano quasi sempre le forme infinitive delle oggettive e soggettive latine. Si è visto, in proposito, che già in Plauto e poi nel tardo latino tale uso non era ignoto ai romani: un "quod" dichiarativo anticipava il "che" italiano, mantenendo il verbo al modo finito e mutando solo i tempi a secondo del tempo della frase reggente. ( So che io non so nulla=so me non sapere niente=Scio me nihil scire| E’ noto che Cesare fu ucciso in senato= E’ noto Cesare essere stato ucciso in senato=Notum est Caesarem occisum esse in senatu).
4)I DUE TRATTI PIU’ NOTEVOLI DELLA LINGUA FIORENTINA RISPETTO ALLE ALTRE LINGUE ROMANZE. Anzitutto essa non termina mai le parole in consonante: in questo essa è rimasta fedele alla sensibilità della lingua originaria di tutte le lingue indoeuropee: quella ariana. .In secondo luogo, essa esclude i suoni "offuscati, dimezzati" delle vocali: le vocali sono sempre "pure". In particolare non esistono i suoni di u" e di o", come invece in francese, in tedesco e nei dialetti dell’Italia settentrionale, che hanno compromesso il latino col celtico.
5)I PRIMI DOCUMENTI IN LINGUA NEOLATINA ( ed ITALIANA in specie). Come si è detto, i linguaggi evolutisi dal latino in lingue romanze e destinati ad assumere una importanza letteraria durevole o addirittura a diventare lingua ufficiale di uno Stato, sono il portoghese, lo spagnolo, il francese (lingua d’oi"l od oitanica), il provenzale (lingua d’oc od occitanica), il fiorentino, il ladino (diffuso in Trentino, Friuli e Grigioni, dove, come "romancio", è la quarta lingua ufficiale della Svizzera) ed il rumeno. Fatto capo al Concilio di Tours (anno 813) come a punto sicuro per documentare la presa di coscienza della insuperabile differenza dei nuovi linguaggi dal latino, si trova la prima testimonianza scritta del francese nel "giuramento di Strasburgo", neanche trent’anni dopo: anno 841. Gli eserciti di Carlo il Calvo e di Ludovico il Germanico si giurano fedeltà vicendevole nella lotta contro l’esercito del fratello Lotario. Per farsi intendere dall’alleato, i francesi di Carlo giurano in tedesco; i Germani di Ludovico, in francese. Per avere una testimonianza scritta con tale chiara coscienza di novità linguistica, l’Italia deve attendere fino al 960: oltre un secolo ancora! Vedremo più avanti l’insieme dei perchè, delle cause di tale ritardo. Diamo uno sguardo, per ora, a questo primo documento della lingua italiana. Si tratta anche qui di un giuramento, fatto da vari testimoni e conservato nel Placito di Capua, redatto dal giudice Arechisi nel marzo del 960. Erano in tribunale i conti d’Aquino a contestare il possesso di certe terre all’abbazia di Montecassino. Si decide, in mancanza di altri documenti probatori, con il principio della prescrizione giuridica per "usucapione": il possesso non contestato di un bene immobile, per almeno trenta anni, fa documento di proprietà. E, in favore del grande monastero, vari contadini testimoniano tale durata di possesso. Perchè possano farlo, occorre far tacere il latino in cui avviene il dibattimento ed è steso l’atto finale, per farli parlare nella lingua materna locale: o, almeno, in una lingua che i contadini comprendano (occorre sempre sospettare una differenza tra la lingua viva, parlata dall’analfabeta e quanto ne capisce e mette per lui in scritto l’alfabetizzato). Si tratta comunque di una forma di volgare italico. Eccola: "Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Benedicti" , cioè "So che le terre, per quelle estensioni di confini che sono descritti nella memoria od abbreviatura che ho davanti, le ha possedute per trenta anni la parte (cioè l’amministrazione patrimoniale) di San Benedetto". E’ la cosiddetta "Carta di Capua", il primo dei vari "Placiti cassinesi" di questo tempo, a favore dell’abbazia di Montecassino. Si è fatto notare dagli esperti che il "sostrato" pregresso a questa forma di italiano è di tipo osco-umbro. Ormai dell’inizio del secolo XIII sono i ritmi "Laurenziano" (Salva lo vescovo senato) e "Cassinese" (di S. Alessio: dialogo tra i due asceti, orientale ed occidentale).
A dir il vero, esiste un altro scritto che aspira al primato nel documentare l’uso dell’italiano, anticipando addirittura il Giuramento di Strasburgo: è il cosiddetto "Indovinello veronese" che suona così: "Se pareba boves| alba pratalia araba| et albo versorio teneba| et negro semen seminaba". Presentandoli divisi in quattro versi di tipo neolatino, noi li abbiamo già confezionati come se si trattasse di un documento di lingua romanza. Non è così: si tratta di due esametri ritmici (ipermetro, l’ultimo), abituali in scritti latini dell’epoca longobarda. Comunque, questi versi appartengono od alla fine del secolo VIII (fin dal 774 Carlo Magno stabilì in Verona la capitale dell’Italia franca) od al principio del secolo IX. Ma, come la metrica è ambigua, così lo è la lingua dei versi: più romanza che latina, ma non univocamente romanza (boves, semen, et). L’indovinello, conosciuto nell’Alto Medioevo ben prima di questa versificazione e facile da spiegarsi (descrive lo "scrivano"), resta invece enimmatico a proposito della lingua in cui è scritto o, almeno, della coscienza con cui lo vergò l’amanuense (come divertimento) sullo spazio libero del terzo foglio nel codice LXXXIX della Biblioteca capitolare veronese (un codice contenente latino liturgico e vergato decenni prima in Spagna). Era per lui, l’indovinello, un testo latino come quelli che ricopiava abitualmente, sia pure di forme meno regolari; oppure era già per lui un’autocanzonatura vergata in una lingua nuova e non riducibile a quello? Non avremo probabilmente mai la risposta. Così, questo "aratore di bianchi fogli" (pratalia, prati: ma bianchi) che "spinge avanti a sè" (se pareba: "parare" è proprio lo spinger avanti il bestiame da parte del pastore) le cinque dita (quasi buoi) della mano, tenendo la bianca penna d’oca come un aratro ("versorio"), si configura alla nostra mente proprio come l’anello di congiunzione tra le due lingue e le due metriche, in un rimaneggiamento di indovinello medioevale, che combina l’arte del trascrittore dotto (dello stesso versificatore, dunque) con una immagine idillica di vita semplice, campestre, pastorale e georgica: ponte di armonia fra due culture linguistiche come fra due mondi operativi, fra contemplazione ed azione, anzi fra lavoro e preghiera secondo la formula benedettina (questo è suggerito dal fatto che, subito dopo l’indovinello, egli scrive una frase di ringraziamento a Dio), la formula che ha rappacificato il frutto terrestre della civiltà romana con i frutti spirituali disseminati dal Vangelo, in una sintesi di umanesimo cristiano ("ora et labora"); che è il primo ad affiorare nei secoli, ma che costituisce l’anima di ogni cultura cristiana, di quella medioevale in particolare, germogliante appena, come nell’età carolingia o in piena fioritura, come nei secoli dopo il Mille.
6)LE CAUSE DEL RITARDO NELLA COMPARSA DI DOCUMENTI SCRITTI IN VOLGARE ITALIANO. Se, dunque, l’Indovinello veronese fosse scritto sicuramente in volgare italico, il nostro popolo avrebbe il primato nella documentazione dell’imporsi della nuova lingua anche ai dotti: si tratterebbe infatti di una scrittura in versi. Eppure sarebbe un primato poco più che simbolico: per arrivare alla produzione di composizioni letterariamente impegnate, si dovrebbe aspettare, poi, più di quattro secoli, fino al terzo decennio del Milleduecento. Viceversa, già attorno alla metà del Mille (secolo undecimo) in Francia ha inizio la storia della letteratura nazionale in lingua d’oi"l (Chanson de Roland). Prima della fine dello stesso secolo troviamo testi di poesia in lingua d’oc (Guglielmo IX di Aquitania: 1071-1126). Più o meno contemporanea al Minnesang (poesia d’amore) tedesco, nasce la epopea spagnola con El cantar del mio Cid. Siamo, per la Germania e la Spagna, verso il 1140, un secolo dopo la Chanson francese, ma pur sempre in anticipo di quasi un secolo sul Cantico di frate sole (San Francesco: 1124) e sulla lirica della Scuola siciliana (iniziata attorno al 1230), che sono le prime manifestazioni della letteratura scritta in lingua volgare, in Italia. Perchè un tale ritardo, rispetto alle altre nazioni europee? Le cause fondamentali paiono essere state tre. Anzitutto la maggior conoscenza della lingua latina, presso un maggior numero di persone, toglieva lo stimolo pratico a fare uso scritto della lingua volgare, perchè i dotti non avevano difficoltà a servirsi del latino, sia per gli atti di ufficio sia per ogni uso inteso come particolarmnete dignitoso e nobile. In secondo luogo, la nuova lingua, quando fu percepita come ormai diversa dal latino, era l’unica conosciuta dal "vulgus", dalla gente analfabeta. Il suo uso diventava così sinonimo di "plebeo, volgare, ignobile, umiliante": ci si poteva rassegnare a parlarlo, ma non a scriverlo. L’ultima motivazione è politica. In Italia manca un centro di unità nazionale, essendo falliti i tentativi di Guido da Spoleto (889-94), Berengario I (880-23) e II (950-61) e di Arduino (1002) a stabilire una indipendenza dell’Italia dall’impero germanico, nei secoli IX, X, XI. Una delle conseguenze è la mancanza di un centro di diffusione e prestigio per un dialetto —quello della capitale- nei confronti dei molteplici altri che pullulavano da noi ancor più numerosi che in Francia, Spagna e Germania.
7)MATURITA’ E RAFFINATEZZA, FINO ALLA SOFISTICAZIONE, DELLA NOSTRA PRIMA SCUOLA POETICA. Il ritardo nella produzione di scritti letterari in volgare ha un effetto che è, nel suo complesso, vantaggioso. La nostra letteratura nasce colta ed elaborata, matura fino alla sofisticazione stilistica. Ciò dipende dal fatto che essa ha alle spalle la conoscenza sia dei classici di Roma, sia della innologia del latino liturgico e delle composizioni latine profane (canti goliardici, la Elegia di Arrigo da Settimello, ecc.), sia soprattutto della poesia lirica provenzale, sulla quale la Scuola siciliana si rispecchia come a modello immediato. Ora, la produzione occitanica aveva oltre un secolo esercizio e, al principio del secolo decimoterzo, aveva vissuto quella tragedia che ne avrebbe segnato la fine nel corso di qualche decennio, cioè giusto il tempo perchè morisse l’ultima generazione, formatasi prima della "crociata contro gli Albigesi" (1208-1209) ordinata da papa Innocenzo III e guidata da Simone di Monfort. La crociata che, contro le intenzioni del papa, finì per distruggere tutta la cultura provenzale e per annettere ai feudatari francesi del Nord la Francia meridionale, ebbe però un effetto purificatore sulla poco affidabilità etica della lirica iniziata dal libertino conte di Poitiers, Guglielmo IX di Aquitania. Questo tratto discendente della parabola poetica occitanica, mentre in certe composizioni ha il fascino di un tramonto autunnale, porta però la espressione ad una forma estremamente intellettualizzata, ragionata, calcolata: si giunge al "trobar clus", cioè al comporre "ermetico", difficile, misterioso, sofisticato. E’ un modo di poetare fatto più per altri "iniziati" ai segreti stilistici di un club chiuso, che non per i comuni lettori. E’ tale tipo di poesia provenzale che è fatta propria dai compositori della prima scuola d’arte italiana, quella che fiorisce alla corte di Federico II.
Va qui notato che con tale magistero, la Francia si conferma come la dominatrice letteraria e culturale in Europa fino dentro la metà del secolo decimoterzo. Attraverso la Chanson de Roland ha aperto le porte alla poesia epica spagnola ed europea in genere. Attraverso i capolavori di Chrétien de Troyes su Lanciallotto, Perceval ecc., dà inizio ai poemi cavallereschi che troveranno imitatori anche in Italia, ove le leggende della Tavola rotonda e dei paladini di Carlo Magno avranno sviluppi in versi e in prosa, in forme dapprima separate e, poi, grottescamente frammiste, in tono serio o canzonatorio: ma quasi sempre in lingua francese o franco-veneta, quasi che l’inventore avesse imposto il copyright della propria lingua sul complesso della produzione! Attraverso la lirica d’amore provenzale, essa ha generato il Minnesang tedesco e la poesia siciliana in Italia. Attraverso il Roman de la Rose (con le sue due parti, idelistica la prima di Guglielmo di Lorris; realistica la seconda, di Jean de Meung) ha dato origine alla poesia allegorica che trroveranno imitatori anche italiani, nel Trèsor e nel Tesoretto di Brunetto Latini e nella Divina Commedia di Dante Alighieri.. Attraverso infine la Università di Parigi, essa ha dato all’Europa le Somme di filosofia, teologia e di diritto canonico, che hanno avviato la riflessione dell’ Occidente cristiano verso una profondità superiore alla stessa tradizione greca, da cui aveva preso le mosse. E’ un primato che andrà però perdendosi, dapprima in Italia e, poi, attraverso Petrarca, anche in Spagna. Intanto chi opera a Parigi la conversione dell’aristotelismo alla mentalità cristiana è, sia pure a Parigi, un docente tedesco: Alberto Magno; e chi prenderà lo spunto per una organizzazione sublime della teologia è un altro docente della Sorbona, ma italiano: San Tommaso d’Aquino. Subito dopo la morte di questo, su impulso del francescanesimo e della filosofi scolastica, nascerà il Dolcestilnovo, mentre Dante darà un colpo d’ala così geniale alla poesia didascalica, che il richiamo al Roman de la rose vale ancora meno di quanto servano i romanzi di W. Scott a spiegare I Promessi Sposi. L’Italia col Milleduecento si avvia ad un primato nella letteratura europea che durerà fin dentro il Millecinquecento rinascimentale.

(mutare pagina) Cap. II: LE PRIME ESPRESSIONI LETTERARIE NELLA LINGUA ITALIANA: DAL CANTICO DI FRATE SOLE ALLA VIGILIA DEL DOLCESTINOVO.
LE PREMESSE CULTURALI
L’AMBIENTE POLITICO-MILITARE.
Col 955 l’Europa centrale è libera per secoli da invasioni di altri popoli: gli Ungheri, battuti a Lechfeld (Augusta) da Ottone il grande, si stanziano sul Tibisco e Danubio e si cristianizzano col re Santo Stefano attorno all’anno Mille. I disordini dei Normanni in Francia sono cessati dall’anno 911, quando il loro capo, Rollone, si accorda con Carlo III il Semplice, che concede loro in feudo le terre che ne prenderanno il nome (Normandia). Proprio i Normanni metteranno ordine, pace e organizzazione nell’Italia meridionale, sconfiggendo Musulmani, Bizantini e Longobardi e costituendo un unico regno che annette anche la Sicilia ritolta ai Saraceni fra il 1061 e il 1091.
Non mancheranno guerre nei secoli seguenti, ma saranno lotte intestine al mondo europeo. Vi saranno guerre per la contesa di potere: tra imperatori, re e feudatari minori che volevano la ereditarietà del possesso; dei nobili rientrati in città, per strappare il potere ai vescovi ; tra Chiesa e Impero per la scelta dei vescovi (lotta delle Investiture, 1075-1122) o per la elezione di un imperatore degno (la lotta si prolunga fino alla morte di Federico II: 1250). Vi sono guerre di difesa contro i Musulmani, giunti a pochi chilometri da Costantinopoli (le sette crociate classiche, tra il 1096 e il 1270). E vi sono guerre di espansione dell’Europa ad est, con la conquista del Magdeburgo, Slesia e Posnania nel secolo X; e del Mecklemburgo, Pomerania, Brandeburgo e Prussia nel secolo XII. Nel frattemo Polacchi, Boemi e Moravi diventano popoli indipendenti (secolo IX, con i santi Cirillo e Metodio in Boemia; sec. X con la conversione della Polonia), anch’essi partecipi della fede cristiana e della civiltà agricola e progredita, grazie ai conventi benedettini che diventano centri di istruzione teorica e pratica, che insegnano a studiare i libri, ma anche a coltivare i campi. Negli anni dopo il Mille, il risveglio demografico, economico, culturale dell’Europa produce in Spagna il movimento della "reconquista" che vedrà il popolo spagnolo impegnato in una lotta secolare per la cacciata dei Mori o Saraceni (nel 711 hanno passato lo stretto di Gibilterra e sono penetrati sino in Francia, dove li ferma Carlo Martello: Poitiers, 733). Tra avanzate e sconfitte, i due regni di Castiglia e di Aragona, aiutati dai cristiani di tutta Europa, convocati dalla proclamazione di una crociata apposita da parte di Innocenzo III, sconfiggono definitivamente i Mori nel 1212 a Las Navas de Tolosa e solo le divisioni e contrasti dei due regni cristiani rallenteranno il ricupero di tutta la penisola (1236: rioccupata Cordova; 1248, Siviglia; 1266, Cadice; 1492, Granata). I popoli jugoslavi faranno da cuscinetto, resistendo o regredendo, indomitamente cristiani od assimilati ai vincitori musulmani: sino alla fine del milleseicento la Ungheria sarà lo stato cristiano più orientale nella Europa del Sudest.
Il mondo feudale si deteriora al venir meno della mano forte di Carlo Magno, di un potere centrale rispettato e temuto. Nasce allora il suo problema tipico: la ereditarietà, voluta dai detentori del feudo in nome della voce del sangue; negata dal feudatario superiore , in nome delle esigenze di fedeltà e di sicurezza che erano la ragione stessa del sistema feudale (avere libertà di scelta, onde poter mettere, in posti di responsabilità e di potere, uomini capaci e fedeli). Ottone I pensò di risolvere in radice il problema, ponendo un gran numero di vescovi e di abati quali feudatari, perchè persone fidate e ligie (per la professione relgiosa) e perchè privi di eredi legittimi (per lo stato celibatario). Per un secolo circa, gli scopi furono raggiunti, ma a scapito del carattere religioso dei titolari o almeno di molti di essi. La professione ecclesiastica, a certi livelli, diventava una carriera anche politica, con risvolti di potere e di ricchezze seducenti. Le famiglie nobiliari si contesero tali posizioni, costringendo o sollecitando alla vita ecclesiastica i loro figli (in genere, i cadetti, chè ai feudatari maggiori Carlo il Calvo aveva concesso fin dall’877 la ereditarietà, con il capitolare di Kiersy), onde garantire loro una vita di grande potere, senza più preoccupazioni per la loro dignitosa sistemazione. In Germania, le regioni attorno al Reno furono così saturate da vescovi-conti (o principi: Colonia, Treviri, Magonza) da far chiamare quel percorso la Pfaffengasse, la via dei preti. Fino a quando alcuni fra i cadetti della nobiltà lombarda, non entrati nel clero e scesi in città ad abitare, non si ribellarono all’arcivescovo Ariberto d’Intimiano (1044), le città italiane furono tenute da vescovi-conti; e le cose, come vedremo, camminarono dapprima così favorevolmente anche per il complesso della vita religiosa europea , che fu proprio quel sistema di feudalesimo ecclesiastico a creare la tipica cultura medioevale che culminerà nel secolo XIII, con Innocenzo III, Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman, Bonaventura di Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, Luigi IX di Francia e Alberto Magno di Colonia. Ma, alla distanza, non potevano non evidenziarsi gli effetti negativi insiti in un sistema politico il più alieno dal comando di Cristo: "Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio"(Mt: 22, 21). Se per molti aspetti si poteva pensare ad una teocrazia (il potere era in buona parte in mano al clero), in realtà si trattava di un sistema "cesaropapista" (il potere civile dominava la Chiesa), visto che l’imperatore e i re comandavano a tal punto che anche la scelta dei candidati alle sedi vescovili era finita spesso nelle loro mani. Il feudalesimo ecclesiastico finì presto in Italia, proprio perchè qui i vescovi erano per lo più scelti dal clero e dal popolo, sicchè gli eletti non insistettero a pretendere il potere civile, quando i laici se ne credettero all’altezza e vogliosi di tornare a gestirlo essi stessi. Le resistenze a cederlo furono quanto mai moderate. Ma che la società ancora al principio del secolo XII non potesse fare a meno del clero per svolgere decentemente le proprie funzioni, lo dimostra il fatto che, nella seconda fase delle lotte per le investiture (1075-1122), fu da tutti respinta la proposta di papa Pasquale II (1099-1118) di rinunciare ai feudi ecclesiastici e di riportare vescovi ed abati alla sola funzione religiosa e pastorale. Si dovrà allora giungere al compromesso sancito nel Concordato di Worms (1122), che lasciava per l’Italia la precedenza della "investitura ecclesiastica" (cioè la scelta del candidato all’episcopato od abbazia, secondo norme di elezione tradizionali nella Chiesa) rispetto a quella politica, che precedeva invece per le nazioni transalpine. Anche in Germania la scelta del candidato vien fatta dal clero locale, ma prevede la presenza dell’imperatore all’atto dello scrutinio; prevede il suo voto decisivo in caso di incertezza; prevede la precedenza della prestazione di omaggio all’imperatore rispetto alla consacrazione episcopale....
Con una panoramica del papato di Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni: 1198-1216) non solo possiamo farci una idea degli effetti culturali socio-religiosi derivanti dalla impostazione feudo-ecclesiastica nella conduzione della politica europea, ma abbiamo anche un quadro del potere politico assunto, di fatto, dal clero nel mondo medioevale, per simile mescolanza di servizi e potestà (ministeri). Innocenzo III non rivela soltanto i corollari culturali del sistema, ma aggiunge di fatto nuove tessere e forze all’autorità politica della Chiesa. A dir il vero vi sono anche cause accidentali all’assommarsi del potere di fatto di questo papa: il figlio del Barbarossa, Enrico VI, muore nel 1197 dopo appena sei anni di regno, lasciando un figlioletto di tre anni, affidato proprio al papa dalla madre Costanza d’Altavilla, deceduta un anno dopo il marito, proprio quando era eletto al soglio pontificio Lotario di Segni. E le doti personali di questo papa eccezionale hanno giocato indubbiamente un ruolo importante nel determinare il successo della sua opera e pastorale e politica. Così tre fattori si incontrano a favorire l’apogeo del papato all’inizio del scolo decimoterzo: un popol cristiano per cui la fede era davvero tutto, sorgente di ordine, giustizia, pace, cultura e lavoro (le abbazie benedettine come modelli dell’agricoltura); un vuoto di potere politico, causato dalla scomparsa inattesa del titolare dell’impero; la statura intellettualmente e moralmente geniale di Innocenzo terzo. Ed eccone le opere davvero sorprendenti. Anzitutto la decretale "Venerabilem" (1202). Per essa un pubblico peccatore, scomunicato, non può accedere all’impero. Siccome il re di Germania è automaticamente l’imperatore dell’Europa cristiana, i principi tedeschi scelgano pure il loro re, ma lascino al papa il diritto di giudicarne i costumi religioso-morali e, quindi, la dignità ad essere eletto imperatore: tocca infatti al papa ungerlo, consacrarlo, coronarlo... Appoggiò la elezione di Ottone di Brunswick contro il fratello di Enrico VI (Filippo di Svevia), ma poi lo scomunicò per la politica antiecclesiastica e gli oppose Federico II, che la vittoria di Augusto II di Francia a Bouvines (1214) assicurarono al trono: nel 1215 Federico II, a vent’anni, era imperatore. Tenne a freno la scostumatezza di vari re della cristianità: Alfonso, re del Portogallo, Filippo II Augusto di Francia, Giovanni Senzaterra d’Inghilterra.. Ricevette l’omaggio feudale da Calojano di Bulgaria, Giovanni d’Inghilterra, dai re di Polonia e Danimarca, da Pietro d’Aragona che venne a Roma a farsi incoronare dal papa. Lanciò tre crociate: contro i Mori di Spagna, che condusse alla vittoria decisiva di Las Navas de Tolosa (1212); contro gli Albigesi, che sradicò la eresia catara (e, purtroppo, ridusse agli estremi anche la cultura , la lingua e la letteratura provenzale); contro i Musulmani, per liberare i Luoghi santi, (1204: ebbe però esito grottesco in quanto, per machiavellici calcoli dei capi crociati, contro ogni intenzione del papa, finì per occupare Costantinopoli e la Grecia a favore dei Veneziani e dei Francesi). Tenne il Concilio ecumenico Lateranense IV (1215), che fu una assise di tutto il mondo cristiano, anche laico. Tentò, infatti, (in sole tre sessioni: dell’undici, venti e trenta novembre) di risolvere equamente la questione della spartizione delle terre nel Sud della Francia, dopo la vittoria dei feudatari del Nord (con a capo Simone IV di Montfort, signore della contea di Leicester in Inghilterra) contro Raimondo VI di Tolosa. Condannò le eresie del catarismo, dei Valdesi, del millenarismo (abate Gioachino da Fiore: ca 1130-ca 1202); precisò alcuni doveri dei fedeli (obbligo Confessione e Comunione pasquale); emanò pene canoniche contro i matrimoni clandestini; proibì di venerare reliquie non riconosciute dall’autorità ecclesiastica; restrinse l’uso delle indulgenze, per impedirne gli abusi; represse la simonia, ecc. Durante il suo pontificato nascono i due ordini religiosi più importanti dopo i Benedettini, cioè i Francescani (1210) che ebbero da lui la prima aprovazione (orale: Onorio III, suo successore la fermerà per iscritto); ed i Domenicani (1215). Entrambi questi ordini, a differenza dei Benedettini chiusi nelle abbazie, si affiancano al clero diocesano, ne suppliscono i difetti, ne completano le attività: si danno alla predicazione ed alle opere di misericordia, all’insegnamento ed alla attività missionaria presso i non cristiani (nel 1219 lo stesso S. Francesco si fa ricevere dal sultano d’Egitto Malik al-Kamil).
Eppure a tale apogeo del papato segue un periodo che disorienta la cristianità e logora definitivamente entrambi i suoi poteri universali. Lo scontro fra Impero e Chiesa relegò l’autorità imperiale alla sola Germania, mentre l’influsso della Chiesa fu salvato ancora per un paio di generazioni (mezzo secolo) dalla presenza di San Lugi IX. Il declino delo spirito cristiano in Europa si farà sentire pesantemente solo nel secolo XIV. Vediamo i fatti. Morto Innocenzo III, Federico II trovò modo di farsi scomunicare ben tre volte dai papi che succe- dettero al suo protettore (1227: Gregorio IX, per deciderlo a partire per la crociata in Terra santa; 1239, quando Federico II elesse suo figlio Enzo re di Sardegna, che era feudo papale; nel 1245, al Concilio di Lione). Sconfitto dai comuni guelfi alla Fossalta, nel modenese (1249: il figlio Enzo, fatto prigioniero, non tornerà mai più libero), morirà improvvisamente l’anno seguente, mentre preparava la rivincita. L’interregno che vede l’impero vacante fino al 1273 e gli imperatori, poi, meno preoccupati della situazione italiana, non significano però un trionfo del potere della Chiesa e del suo influsso sulla cultura. Con il declino dell’Impero come potenza europea, entra in crisi infatti anche l’autorità politica della Chiesa in Europa: lo "schiaffo di Anagni" (7.09.1303) ne sarà la clamorosa manifestazione. Tre fatti sembrano favorire una simile paradossale parabola. Anzitutto vi è il contraccolpo di mezzo secolo di lotte tra papato e impero che ha finito per logorare entrambi i contendenti. L’impero finirà per divenire un affare interno al popolo tedesco: lo ammette implicitamente la bolla d’oro di Carlo IV di Lussemburgo(1356), che riserva a soli sette principi tedeschi (i tre arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza; il re di Boemia, il conte palatino del Reno, il duca di Sassonia e il margravio del Brandeburgo) la elezione dell’imperatore. La Chiesa finisce per esser vista come potenza politica ed italiana, perdendo del suo fascino di guida spirituale ed universale, "al di sopra delle parti" e testimone di valori evangelici. Un secondo fattore (casuale ma, comunque, non senza gravi conseguenze) è stata la mancanza, dalla morte di Innocenzo IV (1254) alla elezione di Bonifacio VIII (1294) di un papa che abbia regnato abbastanza a lungo da esplicare una attività conclusiva: ben 12 papi riempiono quei quaranta anni; e l’anno 1276 vide ben quattro papi, essendo morti due neoeletti! Furono anche papi senza una forte personalità? Ad ogni modo, anche questi elementi van teneuti presenti per comprendere il risultato negativo di una guerra apparentemente conclusasi in favore della Chiesa. Un terzo fattore sta nell’aumento di ricchezza per il progredire della economia, il migliorare delle comunicazioni, della sicurezza, delle invenzioni tecniche. L’individualismo e l’edonismo, con la indifferenza religiosa conseguente, ne discendono tanto più facilmente, quanto minore è il controllo dell’autorità civile e religiosa, entrambe impegnate a combattersi per motivi ormai non più sentiti come importanti dalla cristianità europea (la questione delle crociate; la diatriba tra guelfismo e ghibellinismo...). Vediamone un sintomo. Tra la politica ecclesiastica di Federico Barbarossa (1155-90) e di Federico II (1215-50) sta anche questa differenza: il nonno insisteva nell’eleggere antipapi; il nipote non vi pensò mai. C’era più anticlericalismo nell’avo; c’è meno fede nell’abiatico: non vi è più la preoccupazione di giustificarsi di fronte alla coscienza propria ed europea, illudendosi di essere scomunicati da papi indegni od illegittimi e sostituendoli con altri a sè favorevoli. Per la generazione di Federico II, tale problema non esiste più. Nel giro di altre due generazioni (nel 1303: poco più di cinquanta anni dopo la morte di quest’ultimo)si giungerà all’oltraggio di Anagni: il papa fato prigioniero dal Nogaret, a nome di un re —Filippo IV il Bello- che era nipote di un santo.
Ma, allora, che cosa ha conservato anche nella seconda metà del secolo XIII una atmosfera così cristiana in Europa, da favorire la costruzioni di cattedrali, il moltiplicarsi di università con statuti cristiani, il sorgere particolarmente in Italia del Dolcestilnovo e della Divina Commedia? D’isitnto ci si riferirebbe allo strascico di Francescanesimo e Domenicanesimo, che erano l’eredità più grandiosa dell’epoca di Innocenzo III. Ma tre generazioni di permanenza in una mentalità e costume, socialmente condiviso oltre la morte di Innocenzo, Francesco, Domenico, non sono spiegabili senza un ulteriore rilancio, senza la mediazione di un nuovo catalizzatore che ne fondi la continuità. Ebbene l’uomo che impedisce un tramonto precipite della civiltà medioevale, che anzi la sostiene facendo riecheggiare sino alla fine del secolo gli ideali dei tre eccezionali ammiragli della nave di Cristo, è il re di Francia San Luigi IX (1214; 1226-1270). La sua presenza discreta eppur luminosa prolungò "l’effetto S. Francesco" particolarmente in Francia ed Italia, dando modo all’esprimersi dei capolavori letterari supremi del Medio Evo cristiano. Ecco in Francia l’ultima fioritura, spirituale ed edificante, della letteratura provenzale (con Guglielmo di Montanhagol: 1229-58); ecco la scrittura della prima parte del Roman de la Rose (Guglielmo di Lorris, circa il 1230), in cui la ricerca del fiore d’amore (la rosa) avviene attraverso la conquista di conoscenza e virtù; ecco la realizzazione delle grandi cattedrali (Chartres è ultimata nel 1245; Reims è costruita fra il 1210 e il 1270); ecco la esplosione del fenomeno universitario, con la costruzione del collegio della Sorbona, destinato dapprima ad ospitare docenti e studenti poveri (1255), poi, ad essere sede della facoltà teologica ed a dare il nome a tutta la università di Parigi, quella università che con maestri del livello di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino andava assurgendo ad essere il centro di studi più rinomato d’Europa; ed ecco infine, il mito della Francia di Luigi IX mantenersi vivo in Italia fino ad influenzare cristianamente i motivi ispiratori del Dolcestilnovo, fino a lasciarsi sospettare come uno dei garanti del sottofondo teologico tutto della Divina Commedia. Senza Luigi IX non si può spiegare, in una società dissipata dal danaro e disorientata dalle lotte fra le due guide naturali più alte, il perseverare e perfezionarsi di un pensiero e di un costume profondamente imbevuti di evangelismo: vivace ed entusiasta al punto da manifestarsi in opere del valore intellettuale della Somma teologica e della intensità emozionale del capolavoro dantesco. E’ per questo che, tra le personalità politiche che servono ad introdurci nella cultura medioevale prevalente, dobbiamo fissare i dati fondamentali della sua opera. Regnò dal 1226 al 1270. Fatto re a 12 anni, governò fino al 1242 sotto la reggenza della madre, Bianca di Castiglia. Pur schierato in linea di principio dalla parte del papa (tanto da ospitarne a Lione il Concilio, dopo che la flotta pisana aveva catturato a nome di Federico II i vescovi francesi, diretti a Roma su navi genovesi: battaglia dell’isola del Giglio, 1241), egli si astenne dall’intervenire praticamente nel contrasto, sembrandogli a buon diritto essere in ogni caso rovinosa una simile lotta. Cosciente dei suoi doveri di regnante feudale, egli organizzò la Francia in modo esemplare: ad ogni primavera ascoltava di persona, a Vincennes, le ragioni dei litiganti, per costituire davvero il tribunale supremo dei suoi sudditi, contro le eventuali ingiustizie dei tribunali feudali inferiori. Egli rispettò le autonomie dei feudatari (l’esenzione dalle tasse, ad esempio), ma ne esigette l’adempimento dei doveri, soprattutto il servizio militare ogni qual volta il re ne facesse richiesta. Tale dipendenza, limitata ma esatta, impose anche ai feudatari inglesi stanziati nelle regioni sud occidentali del paese, che vinse in guerra, non per togliere loro le terre, ma per costringerli all’adempimento dei doveri feudali.. Curò la solidità della moneta, che lasciò intatta al figlio, nonostante avesse organizzato le due ultime crociate (1248-54 e 1270). Anzi, fatto prigioniero nel corso della prima, potè avere l’aiuto finanziario dai feudatari per il riscatto, come esigevano gli statuti in proposito. All’inizio della seconda, morirà di peste. Era stato educato da una madre coerentemente cristiana e il fascino della sua personalità nasceva soprattutto dalla sua condotta, sicchè egli era celebrato come santo già in vita. Per questo, venne ricercato come mediatore nella contesa tra lo Hainaut e le Fiandre (arbitrato di Péronne: 24. 09. 1256) e tra Giovanni Senzaterra ed i baroni inglesi (arbitrato d’Amiens del 24. 01.1264). Addirittura il fratello Carlo d’Angiò, ben lontano dalla altezza spirituale di lui, ne sfruttò il riverbero e scese in Italia, invitato dal papa, a sconfiggere il figlio naturale di Federico II, Manfredi (battaglia di Benevento, 1266), a farsi signore dell’Italia meridionale e sostenitore del guelfismo (Napoli, Firenze: quest’ultima sostituì Milano come portainsegna del guelfismo, dopo che, nel 1311, vi rientrarono i Visconti ghibellini, sostenuti, contro i Torriani amati dal popolo, dall’imperatore Enrico VII). E’ da un tale equilibrio tra virtù e forza, dalla sua umana completezza di signore e giudice, di guerriero ed amministratore che nasce l’aura e il fascino, che fanno della sua presenza in Europa il punto di riferimento, l’antenna di ripetizione, la roccia di riecheggiamento del momento sublime ed unico del cristianesimo medioevale, cioè del primo quindicennio del tredicesimo secolo, con Innocenza, Francesco, Domenico.
Il figlio di San Luigi, Filippo III l’Ardito, morì in una spedizione contro Pietro III d’Aragona (1285: cfr. Purgatorio, 103-6). Gli succedette Filippo IV il Bello, che sarà l’opposto del nonno. Egli sembrò sostituire l’ideale della giustizia di Dio (fino a morirne in crociata) con l’egoismo e la volontà di potenza, fino alla menzogna ed alla guerra aggressiva. Distrusse la pace coi feudatari, annettendosi terre del Nord e dell’Ovest ; rovinò la finanza dello stato, battendo moneta adulterata; si inimicherà col papa (BonifacioVIII), giungendo a falsificare le sue bolle, per poterlo far dichiarare eretico e deporlo davanti ad un Concilio: a tal fine tentò farlo prigioniero con l’oltraggio ("schiaffo") d’Anagni, mediante Guglielmo Nogaret ed i Colonna; si circondò di consiglieri fraudolenti, come il famigerato Musciatto Franzesi di cui parlano i cronisti fiorentini; per amore di danaro, non esiterà a far condannare a morte i Templari, onde incamerarne l’ agognato patrimonio; renderà schiavo il papato fino a farlo emigrare in Francia, prono ai suoi voleri. Morirà a caccia, squarciato dal corno di un cinghiale (1314: cfr. Purgatorio, cc. 32 e 33; Paradiso, c.19). E’ un "segno dei tempi": come nasce in questi anni (1268-78) la seconda parte del Roman de la Rose, compilato da Jean de Meung in chiave realistica ed impudente, così la Francia si allontana dallo spirito cristiano e si avvia a quella mondanità che, se non è sempre frutto di mancanza di fede, è però prova di incoerenza morale e di decadenza umana: le conseguenze si vedranno nello scoppio e nelle sconfitte della guerra dei Cento anni, della quale Filippo il Bello pose le premesse attraverso le prepotenze contro i feudatari del Regno. Se il nonno aveva reso grande la Francia con la scrupolosa osservanza della giustizia, il regno di Filippo IV può essere riassunto nella condanna: "odiò la giustizia", spiacque ai buoni, condusse a perdizione se stesso, il popolo e lo stato di Francia. Occorrerà un’altra santa, Giovanna d’Arco, a richiamare la nazione alle proprie radici cristiane ed a ricondurla alla pace. Ma ormai l’Europa aveva disperso il tesoro di Francesco e di Domenico, di Luigi e di Innocenzo: dall’esilio di Avignone si passerà al grande scisma occidentale, poi al grande nepotismo dei papi rinascimentali, poi a Lutero e, infranto l’arginde del Concilio di Trento con la guerra dei Trenta anni (1618-48), si giungerà all’Illuminismo ed alla Rivoluzione francese. Tout se tien: la attività umana obbedisce ad una legge inesorabile: la logica, la coerenza, la consequenzialità. E’ la presa di posizione rispetto a Dio che determina con logica imperterrita tutto il pensiero e il comportamento della umanità: dalla condotta morale alla condizione politico-sociale.
L’AMBIENTE SOCIO-ECONOMICO.
IL PROGRESSO COMPLESSIVO DELL’EUROPA DOPO IL MILLE. Nonostante le guerre difensive sul lato sudorientale (Jugoslavia) della società europea; nonostante le lotte intestine in molte direzioni (Chiesa e Impero, impero e comuni liberi, re e feudatari...); nonostante le guerre di conquiste nel nordest della Germania, non si prospetterà mai più il pericolo di un regresso per la vita e materiale e culturale del mondo occidentale cristiano.Se attorno al 950 si presume che la sua popolazione toccasse i 28.600.000 abitanti, questi crescono ai 54.400.000, nel corso del milleduecento.
La crescita demografica fa scattare una legge psicologica sicura: l’uomo sano e onesto produce più di quanto consuma. Nel giro di qualche tempo, si estende la coltivazione dei campi, si ricuperano alla vita umana foreste ed acquitrini, ci si applica agli studi, si sente l’esigenza di partecipare alla vita associata sia letteraria che economica (circolazione di scritti, aperture di aziende, assemblee amministrative, ecc.). Col tempo si fondano scuole, si favoriscono le arti architettoniche (costruzione di case, chiese, palazzi pubblici...) e figurative, si aspira alla partecipazione alla vita pubblica, specie da parte di uomini giuridicamente formati. Nella Europa occidentale si giunge alla creazione della Università (1076-88: a Bologna, il maestro Pepo fa scuola di diritto a titolo privato; nel 1111, Irnerio ottiene l’approvazione ufficiale della contessa Matilde di Canossa, signora di Bologna come della Toscana; nel 1158 nasce la prima università moderna, l’Alma mater studiorum di Bologna appunto. Sorgono i primi ospedali. Nasce, verso la metà del secolo undecimo, la Chanson de Roland (forse prima: il più antico riferimento rimanda al 1085 e la suppone già nota); qualche decenio dopo, con Guglielmo IX marchese d’Aquitania (1071-1126) inizia la lirica provenzale d’amore. Intanto a Milano i nobili iniziano lo smantellamento dell’istituto dei vescovi-conti, ottenendo la rappresentanza della nobiltà acccanto al vescovo: dopo la morte di Federico II, sarà la volta della borghesia ad occupare l’autorità nel "comune libero".
Vari fattori incidono sulla liberalizzazione della società dopo l’anno Mille. Contratti di enfiteusi vengono facilmente concessi, per liberare terre improduttive da boscaglie ed acquitrini: la servitù della gleba comincia automaticamente a recedere. Le crociate impoveriscono i feudatari e in genere contribuiscono a smantellare il sistema feudale, almeno in Italia: i capi che non perirono nella spedizione, ebbero spesso bisogno di vendere o di trovare contratti diversi con i loro stessi dipendenti, con vantaggio reciproco. Inoltre dei semplici soldati ottengono cariche e promozioni di tipo feudale, proprio per il loro comportamento meritorio durante la spedizione: i Visconti sono stati creati nobili durante la prima crociata (1096-1099). A questi motivi terreni si aggiunge non raramente il principio religioso, quello che aveva contribuito alla fine della schiavitù presso i Romani convertiti al Vangelo. Le affrancazioni di singoli servi della gleba od anche di gruppi avvengono in varie città già prima di S. Francesco, in occasione di feste liturgiche, dapprima nei feudi ecclesiastici e poi anche in quelli laicali. Col secolo XIII il movimento francescano rende "collettive" (e "cittadine") le affrancazioni. Nel 1210 vi è la "Concordia di Assisi"; nel 1257 a Bologna si stende la costituzione detta "Paradisus" dalla parola iniziale, che è un "senal" dello spirito cristiano con cui è fatta la affrancazione; nel 1289 anche Firenze eliminerà dal suo costume e dalle sue leggi questo istituto. Il dilatarsi della vita economica al di là dei bisogni di sopravvivenza ridà importanza alle città come centri di produzione e di commercio: il castello e la curtis van perdendo sempre più d’interesse, finchè le città obbligheranno i nobili ad abitarvi, smantellando eventualmente i loro castelli di campagna.
Ed ecco il contributo del progresso tecnico.Poco dopo il Mille, si copiò dagli Arabi l’impiego della forza del vento e dell’acqua: furono impiegate anzitutto per i mulini; l’acqua troverà poi applicazioni anche nell’industria. All’estrazione dei minerali dà un contributo la invenzione di argani, pompe, ventilatori. Le valli di Bergamo e Brescia, in Italia, alimentano l’industria metallurgica per armi (Brescia), aghi (Milano), coltelli (Lucca). L’agricoltura aggiunge alle colture tradizionali (cereali, olio, vino), quella del gelso per i bachi da seta e quella del riso.Le crociate portarono in Europa, oltre il gioco degli scacchi, l’uso dello zucchero di canna, della carta fabbricata con gli stracci e la paglia (in sostituzione di pergamena e papiro). I Bizantini, intanto, avevano scoperto il "fuoco greco" che riuscirono, però, per secoli a mantenere segreto (si conservava acceso anche sotto getti d’acqua, sicchè era usato in battaglie navali). I maestri comacini riscoprirono l’uso dell’arco e della volta (anche a crociera), mentre col secolo XIII gli architetti dello stile gotico svilupparono l’uso dell’ogiva, che gli arabi già avevano scoperto, limitandone però l’applicazione a finestre e portali. Scoperta la validità dell’impiego anche per le volte, essa permise l’innalzamento ed alleggerimento degli edifici, a cominciare dalla cattedrali e chiese (la prima in tale stile è quella di S. Martino, ne l’Ile de France). Nel commercio, i banchieri italiani (Bonsignori a Siena, Bardi, Peruzzi, Acciaioli e Medici a Firenze, Datini a Prato, Fieschi a Genova...) facilitarono il trasferimento di danaro con l’apertura di succursali estere del "banco" originario, con la lettera di cambio e il conto corrente. Anche la "partita doppia" (due registri diversi per entrate ed uscite) è innovazione italiana. Dopo la coniazione di monete in argento, ecco quella aurea (1252: fiorino; genoino; 1284: ducato veneziano, che diventerà lo zecchino nel secolo XVI). L’Italia diviene la capitale nella lavorazione della seta (Lucca) e nel raffinamento di quella della lana (Firenze). Si fanno molto frequentate le vie Francigena (Moncenisio- Milano- Firenze- Roma ) e teutonica (Brennero- Bologna- Firenze- Roma: il Gottardo verrà scoperto solo col secolo XIV). Dagli Arabi (che le avevano apprese a loro volta dall’India) vennero le "cifre" per il calcolo decimale, così come la trigonometria, che sviluppava la geometria greca. In Italia fu il pisano Leonardo Fibonacci (ca 1170- ca 1250), che scrisse anche trattati di geometria ed algebra (a Gerberto d’Aurillac è attribuita la invenzione dell’abbaco, uno strumento fra il pallottoliere e la tavola pitagorica). Pietro di Maricourt scopre le proprietà fondamentali del magnetismo, fenomeno che farà il suo ingresso nella poesia del Dolcestilnovo con il fondatore Guido Guinizelli. Il benedettino Guido d’Arezzo (995-1050) inventa il tetragramma, dando il nome alle note e fissando la intonazione dei neumi della musica gregoriana : ne deriverà il pentagramma, con l’aggiunta della nota più alta (il "si"). Nei secoli XI-XII si sviluppa, a partire dall’Italia settentrionale, l’arte romanica (maestri comacini); dalla Francia, come si è detto, giunge nei secoli seguenti l’arte gotica, con le cattedrali di Notre Dame di Parigi, Chartres, Reims, Rouen; in Germania sorge il duomo di Colonia e, in Italia, quelli di Orvieto e Milano, nonchè la facciata del duomo romanico di Siena. Nella pittura si umanizza la figura con Cimabue e Giotto, contro le stilizzazioni ossessive dello stile bizantino.
LA CULTURA DEL MEDIO EVO (Dominante e Minoritaria).
Favorita da un ambiente politico ancorato per necessità alla Chiesa, è naturale che la CULTURA DOMINANTE dell’eà medioevale europea sia improntata alla fede cattolica, sia pure con caratteri marginali propri. Ecco le coordinte di fondo.
LA RELIGIONE ESSENZIALE ED IL PRIMATO DI DIO. Mettere Dio al primo posto significa anzitutto aderirvi con la fede più certa (credere in Dio più che in ogni altra realtà, più che in se stessi, perchè Egli è Verità infinita); con la speranza più ferma ( abbandonarsi a Dio come sommamente affidabile, nonostante il mistero del dolore nella vita) e con la carità suprema (perchè Egli è Bene infinito: "dei tuoi amori, a Dio guarda il sovrano": Paradiso, 26, 48). Ne discende la fede nella Vita eterna, la concezione della vita terrena come " tempo di prova, occasione per trafficare i talenti, luogo di pellegrinaggio" verso il Premio che è il godimento di Dio stesso. La fede in un’anima personale ed immortale reca con sè il principio della priorità della vita spirituale su quella del corpo, con tutte le esigenze morali che si concretizzano nel Decalogo dell’Antica legge e nel precetto della carità, anche verso il prossimo, del Vangelo.
RELIGIONE RIVELATA, PECCATO ORIGINALE E REDENZIONE. a) Le novità del Cristianesimo sono praticamente le componenti "diacroniche o storiche" della religione umana, che hanno mutato due volte radicalmente i rapporti dell’uomo con Dio: in peggio, il peccato originale; in meglio, la Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, vero Dio e vero uomo. b) A far conoscere all’uomo tali avvenimenti, decisivi per i suoi rapporti con Dio, deve intervenire la Rivelazione o parola di Dio agli uomini. Attraverso Abramo e Mosè, i Profeti e il Figlio fattosi uomo, Egli si è rivelato e, da una parte, ha ricordato alla umanità verità altrimenti cadute dalla memoria (la colpa delle origini); dall’altra, ha insegnato verità sulla sua natura e sulle Sue opere di salvezza, che hanno in sè troppo di sovrumano perchè l’uomo possa comprenderle a pieno (misteri).Tale discorso di Dio agli uomini è sostanzialmente contenuto nelle pagine della Bibbia, divisa in Antico e Nuovo Testamento (Patto, Alleanza prima stabilita con Abramo ed il popolo eletto di Israele; Nuovo ed eterno Patto fondato nel sangue di Cristo per tutti i battezzati ed i chiamati a salvezza). c)Alle verità non totalmente aperte alla spiegazione della mente umana (ma non ad essa contrarie, insegna la fede) fa parte quella sulla natura di Dio, che si fa scoprire "Uno e Trino" (cioè una sola Sostanza, vivente in tre Persone). d) Ma i due capisaldi, che distinguono il cristianesimo da ogni altra religione, rimangono quelli della colpa orginale e della Redenzione "vicaria", operata a nome della umanità peccatrice da Cristo, sommamente santo e santificatore. e) Tali verità inducono una nuova antropologia o concezione dell’uomo. Da una parte, questi rimane indebolito dalle conseguenze della colpa originale, pur rimessa sostanzialmente nel battesimo: senza l’aiuto straordinario meritato da Cristo redentore (Grazia sanante od attuale), l’uomo colle sole sue forze non riesce a vivere in misura pienamente umana, integralmente onesta, secondo totale giustizia. Dall’altra, l’uomo è innalzato ad una vocazione e missione che vanno al di là delle forze puramente naturali: fatto figlio adottivo di Dio (Grazia santificante od elevante) attraverso la fratellanza con Cristo redentore, egli è chiamato alla imitazione di Cristo, in un grado superiore di spiritualità che sorpassa la semplice giustizia e spazia nel campo immenso della carità. Vi è, dunque, una triplice prospettiva dell’uomo nel cristianesimo. In linea teorica (cioè prescindendo dalle concrete componenti storiche suddette), l’uomo è visto come una creatura meravigliosa: in san Tommaso si trovano espressioni non meno esaltanti che nei più ottimisti pensatori del Rinascimento: "L’uomo è ciò che di più perfeto vi è in natura". "Nell’uomo in qualche modo ci sono tutte le cose..., cioè la ragione, per la quale partecipa alla vita degli angeli; le facoltà sensitive, per le quali conviene con gli animali; le forze naturali, per le quali si ritrova con le piante; e il corpo stesso, per il quale fa parte del mondo minerale (inanimato). La ragione però ha nell’uomo una posizione dominante e non di un soggetto a dominio (altrui)." "L’uomo, composto di anima e di corpo, vive sull’orizzonte del tempo e dell’eternità" E’ la teoria dell’uomo "copula (legame, sintesi) dell’universo" dell’Umanesimo rinascimentale. Ma nella considerazione più concreta e statisticamente solita, l’uomo risulta una delusione, un fallimento, un essere da guardare con sospetto e compassione. E’ la concezione che il cristiano Kirkegaard ha messo in voga anche tra i profani, precorrendo l’Esistenzialismo: l’uomo chiamato bensì alla verità, ma approdante all’errore od al dubbio; proteso alla felicità, ma avviato al dolore, alla disperazione, al fallimento; aspirante alla integrità morale, ma reo confesso di peccati, di delitti, di guerre, di suicidio... L’umanesimo cristiano risulta sempre piuttosto cauto e timoroso, non certo incondizionato ed allegro. E’ sempre un umanesimo realistico che, distinguendo fra prospettiva astratta e concreta dell'uomo, risulta ambiguo, non ipocritamente elusivo o reticente, ma esplicito nel denunciarne la (sia pur solo parziale) inaffidabilità. Nel Medio Evo tale "ambiguità" rimane solitamente equilibrata perchè compensata dalla carità operosa e dalla considerazione della Grazia redentiva e restauratrice di Cristo. Ma da alcune espressioni estreme si intuisce che era diffuso un pessimismo verso l’uomo che tentava alla sfiducia ed alla disperazione. Si pensi alla ballata di fra Jacopone da Todi: "Quando te alegri, omo de altura". Si pensi al trattatello di Innocenzo III, così pessimista già nel titolo "De miseria humanae condicionis"; e che prende in considerazione solo gli aspetti ripugnanti (fisicamente, oltre che spiritualmente) del povero mortale. Si pensi alla stessa "De Imitatione Christi" che, scritta nel secolo XIV, rappresenta ancora la mentalità triste e timida dell’uomo, che solo in convento può trovare la perfezione ("Tutte le volte che fui tra gli uomini, ne tornai meno uomo"); solo nell’essere ignorato e disprezzato può trovare scampo dalla superbia ("ama essere ignorato e reputato uomo da nulla"); in nessun luogo avrà mai rimedio alla sofferenza ("dovunque tu vada, la tua croce ti segue"); nella stessa scienza teologica incontra ostacoli alla vita spirituale ( Sono, questi scritti, le punte di iceberg che denunciano una mentalità generale che guarda l’uomo con sospetto e con una notevole sfiducia. Un confronto fra gli scritti (tutti intellettuali, quasi razionalisti) di Dante e Tommaso d’Aquino e quelli (fin troppo sentimentali) del Petrarca danno una idea del poco interesse del Medioevo per la sfera psicologica (che implica attenzione alla emotività come componente nel concreto agire dell’uomo). L’errore più clamoroso che ne discese fu la mancata intuizione che l’attività artistica proprio nella emozione e non nella ragione trova la sua dimensione distintiva. D’accordo: la causa fondamentale di tale "distrazione" è da riporre nella mancanza di conoscenze dettagliate sulla natura e dinamismo della attività emotivo-istintiva. Tuttavia una certa corresponsabilità può ben esser addebitata all’atteggiamento di sospetto e di disistima dell’uomo medioevale nei confronti di quanto fosse legato alla carne ed alla concupiscenza, cioè alla facilità della sfera emotiva a debordare nel capriccio e nell’abuso, a svincolare l’uomo dalla verità della ragione spirituale per renderlo schiavo delle passioni animali. Di qui anche la fuga dal mondo (per le donne, la stretta clausura, essendo per loro pericoloso anche l’esercizio delle opere di misericordia, a contatto degli uomini); il moltiplicarsi di digiuni e penitenze (oltre la Quaresima, vi erano le vigilie di ogni grande solennità, Natale compreso); la radicalità della povertà francescana, che proibiva ai frati minori di accettare danaro in elemosina (come aveva spinto San Bernardo nel secolo XII in Francia, a riformare i Benedettini nel senso di una povertà non solo personale, ma anche collettiva, con conventi e chiese squallidi, anche artisticamente poveri , senza gli estesi benefici feudali in appannaggio). Anzi, nella Regola di San Francesco vi è sospetto verso la stessa cultura: un analfabeta, che bussasse al convento per esservi ammesso, non doveva essere istruito! Solo la umiltà e dottrina, l’equilibrio e la santità di sant’Antonio decideranno il rigido "Poverello" a permettere l’insegnamento della teologia ai suoi Frati. Questi estremi ci avviano, però, a comprendere una terza forma di "umanesimo medioevale". Si tratta di un Umanesimo che non fa conto più solo sulle forze (incrinate) dell’uomo peccatore, ma è fondato sulla considerazione dell’uomo redento, dell’uomo guarito ed elevato dalla Grazia salvifica di Cristo. Allora non abbiamo un "umanesimo cristiano", ma un Cristianesimo umano": che restituisce stima all’uomo, perchè ha fede nella onnipotenza liberatrice di Dio; che conosce entusiasmi ed esaltazioni per gli uomini che si sono lasciati "lavorare" da Dio e sono divenuti giganti nella vita soprannaturale come suoi figli e, per ciò stesso, intercessori di miracoli a favore dell’uomo, straordinari operatori di misericordia per bisognosi di ogni genere; che si propone un ideale di vita straordinaria, appunto nella rinuncia delle cose più allettanti alla sensibilità dell’uomo, per potenziare le virtù più specificamente umane, quella vita spirituale della sapienza e della carità che ricupera, in nome di Dio, anche la cura del prossimo, l’interesse per i valori terreni, la costruzione di una "civiltà dell’amore". f) L’ideale umanistico del Medioevo coincide allora con l’ideale della santità. Un segno dei più sicuri è il culto delle reliquie, che raggiunge livelli di fanatismo, di commercio, di furto persino. Innocenzo III nel Concilio lateranense IV dovette proibire il culto di reliquie non approvate dall’autorità eccelsiastica: dunque le novelle di Boccaccio sul commercio di reliquie false non sono pure invenzioni! L’avanzata dei Turchi in Oriente mette a repentaglio il corpo dei santi apostoli e martiri là sepolti: ed ecco il salvamento-trafugamento, da parte di commercianti e crociati, delle reliquie di San Marco (a Venezia), di San Nicola (a Bari)... Il Barbarossa distrugge Milano, ove sono venerate, in Sant’Eustorgio, le reliquie dei tre Magi (anch’esse trasportate dall’oriente: a cura di S. Elena e di Costantino?!): egli le lascia trafugare in Germania dal vescovo di Colonia Rainaldo di Dassel ove il duomo gotico sorgerà come sarcofago, come aereo mausoleo per la loro conservazione e venerazione. Che più? Il santo, come dono di Dio, testimone privilegiato della redenzione di Cristo, gode di tale ammirazione, che nessun miracolo sembra alieno dalla sua vita. Egli non può non aver operato miracoli: se i dati sulla sua esistenza si ignorano, ebbene sarà lecito supporli ed inventarli. Da questa disponibilità a credere, nasce quel fanatismo degli agiografi medioevali, che riempiono di "meraviglioso" la biografia dei loro personaggi: fino alla "Legenda aurea" del vescovo e beato Jacopo da Varazze (ca. 1228-1298) e fino a Giovanni Villani, che scrive nel Milletrecento, ma si è formato nella Firenze del secolo precedente e porta un candore di fiaba nel suo gusto per il miracoloso ed il meraviglioso. La cosa (dovuta, per altro, molto più alla insufficienza di senso critico storiografico, cui si è già accennato e di cui parleremo più estesamente a suo luogo) dilaga talmente, da "forzare" il significato di una parola latina. "Legenda" significa letteralmente in latino "cose da leggersi": era probabilmente il titolo di raccolte agiografiche (vite di santi) che i monaci dovevano leggere in refettorio durante la refezione. Ma riformatosi, col dilatarsi degli studi, il senso critico, troppe di quelle notizie risultarono pie invenzioni e trapassarono a significare "miti, fatti fantastici, racconti inventati": "leggende", appunto. Sono, tutti questi, segni dei tempi: di una fede, fiducia e amore verso gli uomini, ma in quanto redenti e sublimati dalla redenzione divina. L’uomo in sè è inaffidabile: l’uomo "graziato" da Dio è sovrumano, perchè santo, partecipe della potenza angelica, della vita divina. g) Con la nuova antropologia, la nuova "filosofia della storia": una concezione delle vicende umane tutte che è diretta dalla Provvidenza e segnata dai rapporti, due volte mutati radicalmente, dell’uomo con Dio. La filosofia della storia coincide, allora, con la "teologia della storia": è una "storia sacra", che ha per caposaldi la creazione, la caduta originale, la preparazione della venuta di Dio a salvare l’uomo attraverso la "vocazione di Abramo" e le vicende del popolo eletto d’Israele; l’Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo, cioè di Dio fattosi uomo. Ecco che le peripezie dei popoli pagani sono "accadimenti" accidentali; le vicende degli ebrei sono "avvenimenti" già vicini al centro della storia umana, ma solo la Vita di Cristo, dalla incarnazione alla risurrezione costituiscono l’evento, l’happening, l’Erlebnis attorno a cui ruota tutto il divenire umano. Di qui il dividersi del tempo in "avanti" e "dopo" Cristo; di qui la tendenza degli storiografi medioevali a iniziare ogni "storia" (anche la cronaca della propria città) da Adamo ed Eva, per inserire ogni vicenda nel piano eterno della Provvidenza; di qui la centralità dei fatti e personaggi ecclesiastici nell’insieme del groviglio di opere pacifiche e guerresche dell’umanità (in proposito si vedano Purgatorio, cc. 29-33 e Paradiso, c. 6, 1-111, che propongono una sintesi di storia della Chiesa, dalla Incarnazione all’esilio di Avignone, in cui il senso dell’impero romano sta tutto nel realizzare la redenzione di Cristo e nel preparare i tempi cristiani).
IL CATTOLICESIMO, RELIGIONE VOLUTA DA CRISTO COME SOCIALMENTE ORGANIZZATA, COSTITUITA CIOE’ A MISURA D’UOMO PERFETO.
Il cattolicesimo a) è la forma di religione che realizza anche la dimensione "sincronica o sociale", propria delle attività tutte dell’uomo. Costituisce, perciò,la perfezione della vita religiosa, perchè esaudisce anche quella esigenza innata (la vocazione "spaziale o politica o sociale" appunto) che rende possibile all’uomo non solo la sopravvivenza, ma il progresso in ogni campo, materiale e spirituale. b) La socialità implica tre fattori fondamentali: un fine unico, la divisione dei compiti per raggiungerlo più celermente e più facilmente (con minor fatica e con più prontezza) e l’autorità che coordini la divisione delle funzioni e ne garantisca la efficacia. Il fine della religione è quello del culto di Dio e della salvezza dell’anima attraverso la "giustizia" animata dalla carità; la distinzione dei compiti coincide con la gerarchia (od "ordine") di poteri sacri e di autorità, voluta da Cristo stesso tra gli "apostoli", i "discepoli" e "coloro che crederanno per la loro parola", cioè tra pastori e gregge e, all’interno degli stessi apostoli, tra Simone-Pietro e gli altri undici: distinzione che si concreterà tra "clero" (parte scelta) e "laòs" ( popolo), tra il successore di Pietro (il papa) e i successori degli altri apostoli (i vescovi), con i presbiteri come delegati dei vescovi, i diaconi, ecc. c)La fede nella Chiesa, come Corpo mistico di Cristo e "redentrice vicaria" sulla terra, porta con sè quell’ossequio al papa, ai vescovi, ai sacerdoti che permette loro di godere di autorità morale maggiore di quella dei potenti della politica; che priverà Enrico IV di ogni potestà, una volta scomunicato da Gregorio VII e lo condurrà alla penitenza di Canossa (1077) per ottenerne il perdono e la restituzione del potere presso nobili e popolo. d) Di quale stima goda questa autorità, visto anche l’avallamento giuridico datole da Ottone I nel secolo X, lo si può intuire dal problema che si impone come tormentoso e lacerante nel campo della esegesi su alcuni dati rivelati e sul loro rapporto al diritto morale fondamentale. Con una disinvoltura interpretativa davvero sorprendente (ma abituale nel Medioevo: ne riparleremo)da parte sia guelfa che ghibellina si portano avanti fatti e frasi della Scrittura a sostegno del "primato" della Chiesa (del papa) sul potere temporale o viceversa. Ecco un "fatto scritturistico " spiegato "allegramente" secondo la scuola esegetica alessandrina. La creazione dei due astri, maggiore e minore per la vita umana, il sole e la luna (Genesi,14,19) viene riferita senz’altro alla istituzione dei due poteri, quello religioso e quello civile, con opposte esegesi da parte dei due schieramenti. La propensione alla armonizzazione in unità di tutto il reale ("il vero, il buono e l’uno si implicano a vicenda: Verum, bonum et unum convertuntur") portava ad intendere come senz’altro unificati nella subordinazione i due poteri, come i due astri. Per i giuristi papali, il sole è la Chiesa, incarnata nel papa, cui lo Stato, impersonato dall’imperatore, è sottomesso. Viceversa pensavano i giuristi filoimperiali (compresi quelli dello studio di Bologna, che insegnavano secondo il Diritto romano: "quidquid regi placet, lex est" (tutto ciò che piace al re è legge). La questione assunse momenti drammatici, quando Bonifacio VIII emanò la bolla "Unam sanctam" (1302), che si chiude con una definizione dogmatica ("Dichiariamo, diciamo, definiamo e pronunciamo che la sottomissione di ogni creatura umana al Pontefice romano è di necessità per la salvezza"),cui Filippo IV rispose con il tentativo di imprigionare il papa (oltraggio di Anagni). Tale definizione, spiegata dallo stesso papa secondo un senso ortodosso (ogni creatura è sottoposta al papa "ratione peccati", cioè la soggezione di ogni uomo al potere spirituale riguarda solo l’ambito della vita morale, dipendendo dal potere di assolvere o no i peccati degli uomini), letta però senza la dovuta acribia (senso critico) poteva suonare come pretesa teocratica superbissima. E non v’è dubbio che nella mente del papa e dei suoi teologi (la "bolla" riprende il pensiero di Egidio Romano, un discepolo di San Tommaso) la soggezione era intesa secondo l’estensione del pensiero di Gregorio VII ed Innocenzo III, cioè come potere di scomunicare un imperatore indegno e di esonerarne i sudditi dalla ubbidienza: ma tale intenzione allargata non viene definita dalla bolla. In favore una dominazione del papa anche in campo politico fu interpretata anche una frase di San Paolo: "L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno " (1 Corinzi, 2, 14-15). Nel contesto, il principio non si riferisce minimamente alla questione del primato autoritativo del potere eccelsiastico su quello civile: ma la acrisia (mancanza di senso critico) medioevale prevalse anche qui e condusse i guelfi clericali ad intenderlo in tale senso. E fu un’altra carta di disorientamento messa in gioco. Doveva arrivare Dante Alighieri (un non giurista, un non eccelsiastico!) a risolvere equamente il problema con la teoria (che vedremo) dei "due soli", delle due potestà pariteticamente sovrane nel loro ordine di finalità societarie. Ed anche un versetto di Luca (c.22, 38: "Signore, ecco qui due spade. —Ma Egli rispose: -Basta-") fu tratto a significare i due poteri, spirituale e temporale, che Cristo avrebbe concesso alla Chiesa. Anche qui si tratta di acrisia tipica medioevale: il contesto parla di un diritto alla legittima difesa da parte degli apostoli di fronte alla ostilità generale che sta per scatenarsi contro Gesù ed i suoi discepoli, nel giro di poche ore la notte sul Venerdì di passione; o forse vuol solo sottolineare la assurda gravità del momento. e) Naturalmente (e lo si è già detto) la Chiesa viene ad occupare una parte predominante nelle vicende umane prese in considerazione dagli storiografi medioevali. E vengono svalutati molti personaggi pur notevolissimi per intelligenza, genialità artistica e persino per moralità fuori del Cristianesimo e della Chiesa. Così si considera tempo sventurato e maledetto quello del paganesimo, del quale si dice (Inferno, 1, 72): "al tempo degli dei falsi e bugiardi"; (Paradiso,8, 6): "le genti antiche nell’antico errore"; ivi, 20, 124-6: il troiano Rifeo, esempio eccezionale di giustizia a Troia, viene illuminato da Dio e convertito alla fede nella redenzione di Cristo venturo ("ond’ei credette in quella e non sofferse| da indi il puzzo più del paganesmo:| e riprendeane le genti perverse"). Dei pagani non si salva nessuno, se non per miracoloso intervento illuminatore di Dio: oltre al troiano Rifeo (personaggio tratto da Virgilio -Eneide, II, 339, 394, 426-7), Dante salva, attraverso una pia leggenda, anche l’imperatore Traiano (Purg., 10, 73-93 e Par., 20, 43-54 e 100-117), ma precisando che entrambi "dei corpi suoi non uscir, come credi| Gentili, ma cristiani, in ferma fede...". Vengono così condannati all’Inferno la sua stessa guida (Virgilio) e Socrate, Aristotele, Platone ecc. (Inferno, c.4). La stessa grandezza di Roma, col suo impero più che millenario, in che cosa consiste? Ecco il pensiero del Medioevo nei versi di Dante:"La quale e il quale, a voler dir lo vero,| fur stabiliti per lo loco santo| u’ siede il successor del maggior Piero" (Inferno, 2, 22-4). Quando si pensa che Dante stima poi moltissimo queste persone quali poeti od artisti o condottieri (si veda lo stesso canto, ora citato, che è quello del Limbo), si comprenderà il modo di pensare medioevale, non certo indifferente ai valori terreni, intellettuali e morali, ma incapace di distinguere tra "oggettiva" necessità della Redenzione di Cristo alla salvezza e responsabilità soggettiva della persona, che rende implicitamente partecipi di tale Redenzione chiunque agisca secondo una sua "sincera" coscienza morale. La mentalità medioevale è così saldamente convinta dell’obbligo di passare attraverso Cristo ( vivente ed operante nella Sua Chiesa) per giungere alla salvezza eterna, da dimenticare quanto dice la lettera agli Ebrei, che cioè il minimo richiesto per la salvezza è la fede in Dio e nella Provvidenza, che si manifesta nel giudizio per la vita eterna (c.11, v. 6: "credere...oportet accedentem ad Deum quia est et inquirentibus se remunerator fit"). Non si è ancora scoperta la verità che "Dio non nega la Grazia a chi fa quanto è in suo potere per la propria salvezza" (Facientibus quod in se est, Deus non denegat Gratiam).
NOTABENE: GLI ASPETTI POSITIVI DI TALE CULTURA. Alcuni punti forza di tale cultura sono fatti storici innegabili (come innegabili sono alcuni limiti): altri aspetti saranno dibattibili in pro od in contro.
l) A civilizzare i barbari, Roma usava l’esercito e poco più; cercava di mantenere le distanze, sicchè dominatori e dominati stentavano a fondersi, quando non si mantenevano ostili. La Chiesa medioevale usò i monaci per insegnare il lavoro; mise a disposizione abbazie e curie episcopali per avviare scuole, aperte anche ai barbari; insegnò e praticò a tal segno la fratellanza che portò, già nel 217 d. C., una persona nata schiava al sommo pontificato (Callisto II: morto martire nel 224); scoraggiò la schiavitù col suo insegnamento e prassi liturgica (alla mensa eucaristica non v’era distinzione tra padroni e schiavi), fino a farla scomparire e, quando i Germani la reintrodussero con la servitù della gleba, fino a rifiutarla per principio e ad abolirla giuridicamente.
2) Con l’insegnamento e la pratica della carità, la Chiesa riuscì rappacificare vincitori e vinti dopo le invasioni barbariche, facilitando matrimoni ed altri legami al di là delle frontiere razziali o potestative. L’impero, carolingio prima e tedesco poi, fu sì il tentativo di risuscitare l'’mpero romano, ma fu ancor più il rispecchiarsi nella vita sociale dell’unità religiosa dei vari popoli battezzati. Si giunse così a perseguire non solo l’unità politica (un solo imperatore, come un solo papa), ma anche linguistica (il latino, lingua della liturgia, era anche la lingua ufficiale e dotta, non solo per la "romània", ma anche per la gothia") e giuridica (il codice giustinianeo). Questa forza "rappacificatrice ed unificatrice" della religione cattolica è celebrata dal Carducci nella Chiesa di Polenta: "E qui, percossi e dispogliati anch’essi| i percussori e spogliatori, un giorno| vengano. Come ne la spumeggiante| vendemmia, il tino|| ferve e de’ colli italici la bianca| uva e la nera, calpestata e franta| sè disfacendo, il forte e redolente| vino matura;|| qui, nel cospetto a Dio vendicatore| e perdonante, vincitori e vinti,| quei che al Signor pacificò, pregando,| Teodolinda;|| quei che Gregorio invidi"ava a’ servi| ceppi, tonando nel tuo verbo, Roma| memore forza e amor novo spiranti,| fanno il comune!"
3)E positiva si mostrò tale civiltà producendo una innumerevole schiera di santi eccezionali, che furono i pilastri dell’ordine roman e/o la sorgente di un ordine ripristinato in nome e nello spirito del Vangelo, cioè dell’amore che sublima la giustizia. Citiamo solo i più noti: Patrizio (390-460: conversione dell’Irlanda); Bendetto (480 ca-547ca, fondatore dei Benedettini, maestri di sapienza e di agricoltura a tutta Europa), San Colombano e la schiera dei monaci irlandesi, missionari in Europa (540 ca-615), Bonifacio (missionario in Olanda, Germania del nord-est (673-754), Pier Damiani (1007-1072: eremita e cardinale, consigliere di papi per la riforma del clero e dei monasteri), Bruno(-ne: fondatore degli eremiti certosini: ca 1035-1101), Bernardo (riformatore dei Benedettini, detti poi chiaravallensi, consigliere di papi, promotore principe della seconda crociata: 1090-1153), Domenico (1170-1221: fondatore dei Domenicani o frati predicatori), Francesco (1182-1226), Chiara (sua discepola: ca 1193- 1253), Elisabetta d’Ungheria (seguace di S. Francesco da sposata e da vedova: 1207-31), Alberto Magno (ca 1205-1280: domenicano, autore principe dell’adeguamento dell’aristotelismo alla fede cristiana), Bonaventura (ca1217-1274: guardiano generale dei francescani), Tommaso d’Aquino (ca 1225- 1274: domenicano, il più grande dottore della Chiesa), Brigida (svedese, fondatrice dell’ordine che porta il suo nome: 1302-1373), Caterina da Siena (domenicana: stimolo a papa Gregorio XI per il ritorno a Roma:1347-1380); i santi re (Venceslao di Boemia: ca 907-936; Stefano d’Ungheria: ca 969-1038; Enrico II di Germania: 973-1024; Luigi di Francia: 1214-70). E van qui ricordati i movimenti penitenziali o rinnovatori: quello dell’Alleluia (ca 1230), dei Flagellanti (ca 1260), dei servi di Maria (Alessio Falconieri e compagni: dal 1233, in Firenze; Servi della B. V. Maria gloriosa, detti frati "godenti". 1233, istituiti per garantire governanti onesti ai comuni italiani)....
4)Nelle arti non si deve credere che sia stata la temperie cristiana a generare gli stili architettonici romanico e gotico. L’arco e la volta, base della costruzione romanica, erano invenzioni dell’antichità greco-romana; l’ogiva, base della architettura gotica, era una scoperta musulmana. Ma fu ben cattolico l’istinto di costruire, con lo sviluppo di simili princìpi, chiese prima che palazzi comunali o case private; fu corollario di una religosità vivacissima quello di voler primeggiare nella grandiosità della propria chiesa cattedrale o comunale (Bologna progettò il suo san Petronio più lungo e vasto del san Pietro di Roma: ai 186 metri della basilica romana volle opporre una chiesa di duecentoventiquattro, anche se si accontentarono poi di centotrentadue, al di sotto dei centocinquntasette del duomo di Milano e dei centosettantacinque della cattedrale —exmoschea- di Cordova); fu effetto di uno spirito evangelico quello di offrirsi volontari al lavoro per sconto di peccati pubblici di cui ci si era prima confessati, con fatiche più degne di animali da soma che di carne battezzata. Del 1030 è (l’inizio) della costruzione della cattedrale (romanica) di Spira, cui seguono nel 1050 Le Puy, nel 1063 Pisa, nel 1075 San Giacomo di Compostela, nel 1079 Wincester, nel 1087 San Nicola di Bari, nel 1099 Modena, nel 1131 Cefalù, nel 1153 Noyon, nel 1163 Notra-Dame di Parigi (già gotica), nel 1175 Caterbury. Il secolo XIII, come vide moltiplicarsi l’apertura di università, così assistette alla fioritura di decine di cattedrali gotiche in tutta Europa. E, a parte la quantità di tali imprese edificatorie, testimonia il valore della cultura cristiana medioevale la qualità estetica, che si impone nei capolavori delle cattedrali di Chartres, di Reims, di Colonia, delle facciate di Orvieto e di Siena, del campanile di Giotto e del duomo di Milano. E, in pratica, quasi solo le chiese dettero lavoro a pittori e scultori: da Cimabue a Giotto a Duccio da Buoninsegna; dai tre scultori "Pisano" (Bonanno, Nicola, Giovanni) a Giotto (dalla basilica di S. Francesco alla cappella Scrovegni di Padova, a quelle Bardi e Peruzzi, oltre al progetto del campanile, in Firenze). Quanto alla poesia, si è già accennato alla Chanson de Roland, a Chrétien de Troyes,al Cantar de mio Cid (ca.1140), al Dolcestilnovo ed al capolavoro dantesco. Lo stesso realistico Guglielmo IX, iniziatore della lirica, apprese dai monaci di Tolosa a comporre musica e versi. Difatti "trovare" (trouvier, trobador, trovatore) deriva da "tropare", che designava l’inventare parole e melodia- per i versetti delle "antifone"e per i versi delle "sequenze" liturgiche- da parte dei monaci. Si noti di passaggio che frutto dell’arte del "tropare" fu anche la musica meravigliosa e la più bella composione poetica latina di tutto il Medioevo, cioè la sequenza pentecostale "Veni, sancte Spiritus", dell’arcivescovo di Canterbury Stefano Langton (1150-1228).
5)Se la salvezza dell’anima è ciò che più importa, allora la vita spirituale (le attività che distinguono l’uomo dall’animale: pensiero e volizione, conoscenza astratta e libero arbitrio, ragionamento e azione morale) viene stimata e sviluppata al massimo, a costo di sacrificare le potenze e l’attività emotive ed istintive dell’uomo. Di qui, nel Medioevo, la stima, l’amore, la passione non solo per la vita morale, ma anche per lo sviluppo di quella intellettuale, intesa come ricerca della verità in genere e specialmente come "filosofia", cioè studio sulla natura e senso della vita, dell’uomo, del cosmo intero; e come teologia, cioè indagine sulle verità religiose connesse con la sua eterna salvezza. Di qui una vera "esaltazione" per la metafisica e per Aristotele (scoperto attraverso le traduzioni arabe dal greco) che in sede filosofica aveva avuto le più profonde intuizioni e aveva trasmesso la più organica sistemazione. Di qui il chiamare Aristotele "maestro di color che sanno" (Inferno, IV, 131) ed anzi "il filosofo" per antonomasia, fino a farsene un mito, una autorità come di "pensatore infallibile", sulla cui parola si può giurare. Si noti fin d’ora che sarà questo uno dei motivi della condanna di Galileo, incoraggiata dal fanatico aristotelismo dei professori di filosofia a Padova (compreso qualche docente materialista come Cesare Cremonini, aristotelico solenne che fece scrivere sulla propria tomba "hic jacet Cremoninus totus"): la Chiesa in genere seguiva il dettato di studiosi per le questioni scientifiche, sia nel ritenere umanizzato il feto solo dopo un certo periodo di vita in seno alla madre, sia nell’accettare il sistema tolemaico per la astronomia. Ma, a parte simili eccessi, viene da tale passione per il ragionamento la costruzione di quella "cattedrale filosofica" che è la Somma teologica di San Tommaso: essa è bensì la organizzazione del dato rivelato nella Bibbia in un sistema progressivo di dottrine (dall’esistenza e natura di Dio —parte I-, alla vita sacramentale della Chiesa- parte III-,attraverso lo studio della legge morale nella parte II), ma "razionalizzato" al meglio attraverso l’applicazione e sviluppo dei princìpi filosofici (per lo più aristotelici, anche se non unicamente). Ecco perchè il pensiero filosofico tomistico può apparire "goticizzante": la trama, cioè la parte più in evidenza, è quella teologica, ma l’ordito, cioè la parte portante è quella filosofica, di una tale acutezza nella esposizione dei princìpi probativi, di una tale vastità nelle questioni prese in esame, di una tale profondità nella coerenza dei principi applicati alla soluzione dei problemi, di una chiarezza espositiva così sorprendente e di una sobrietà così essenziale di linguaggio, da costituire un testo che "misura il lettore dalla radice del naso in su", cioè costituisce un metro della intelligenza per lo studioso di ogni tempo. Questa sfida alla capacità di riflessione, di chiarificazione ed approfondimento degli interrogativi più disorientanti per l’uomo rendono ancor oggi le sue opere il miglior testo di allenamento per la facoltà raziocinante, il miglior esercizio di logica e di indagine filosofica. E ciò rimane vero, nonostante singoli errori tanto clamorosi quanto trasparenti: dovuti in genere alla disinformazione scientifica, pregressa alla riflessione filosofica, essi hanno il vantaggio —rispetto agli svarioni dei pensatori moderni- di essere ovvii, da tutti individuabili, perchè non contrabbandono la loro fallosità sotto il fascino estetico di formule ermetiche od ambigue: l’amore alla verità si impone proprio anche per il candore con cui il gioco del pensiero è condotto e, quindi, per l’apertura al riesame ed alla controprova (o falsificazione) da parte di chiunque.
6)L’effetto più clamoroso nel campo degli studi fu la fondazione degli "STUDI GENERALI, ben presto chiamate "UNIVERSITA’, per le "aggregazioni di studenti" (da una parte) e di "docenti" dall’altra, prima che per la "aggregazione di tutti i rami di sapere" (all’interno della "università degli studenti" si formavano i gruppi delle "nationes", cioè degli studenti appartenenti ad una stessa lingua od etnia). Del piano di studi delle "Artes" si è detto: si poteva seguire tale corso anche fuori dell’università, che conosceva poi tre specializzazioni soltanto: diritto (per cui era famosa Bologna), medicina (Salerno e Montpeller), teologia (Parigi). Le artes divennero ben presto (1213) una facoltà a sè stante. Quella di teologia era la facoltà più stimata, almeno in teoria: a Parigi, tutti gli studenti dovevano iscriversi al clero, tanto che ben presto il termine "clericus" valse come "studente universitario" e "clericus vagus" significò lo studente che passava da una sede universitaria all'altra, non sempre per puro amore di sapere. A parte Salerno, Pavia, Bologna, le università o erano fondate direttamente dal vescovo o trovavano in lui la garanzia per la loro indipendenza di governo, contro ingerenze statali. Ecco una cronologia sulla fondazione delle sedi universitarie medioevali. Si è già detto di Pavia e Salerno, studi generali le cui origini risalgono a date molto antiche. Bologna sorge per iniziativa privata del magister Pepo; poi, sotto Irnerio, ottiene l’approvazione di Matilde di Canossa, signora della città; nel 1158 diviene università, prima del sorgere di Parigi (1180). Poi è la volta di Cambridge (1209), Oxford (1214), Salamanca (1218), Montpeller (1220), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Orléans (1229), Roma (1244), Siena (1246), Piacenza (1248), Perugia e Coimbra (1308),Treviso (1318),Verona (1339), Pisa (1343), Praga (1348), Firenze (1349), Cracovia (1364), Vienna (1365), Heidelberg (1382), Colonia (1388), Lipsia (1409), Lovanio (1426), Basilea (1459), Tubinga (1476), Uppsala (1477), Copenaghen (1479).
7)UNIVERSALITA’ ED EQUILIBRIO EMOTIVO. Alla prospettiva cattolica della esistenza va imputato anche quella completezza di manifestazioni emotive, che armonizzano con le complesse vicende della umana esistenza. La Bibbia ispira l’idillio col Paradiso terrestre e la nascita a Betlemme; offre occasione alla commozione e tenerezza nella vicenda di Giuseppe venduto dai fratelli e chiamato dalla Provvidenza ad amministrare l’Egitto, nella vocazione di Samuele e di Eliseo, nella venerazione di Davide verso l’unto del Signore (il re Saul) che egli potrebbe uccidere due volte e che due volte lascia in vita, nelle parabole del figliuol prodigo e del buon samaritano; piange elegiacamente con Abramo che sale il monte Moria per offrire in sacrificio Isacco, con Anna, la madre che implora un figlio da Dio (sarà Eliseo), con Gesù che piange su Gerusalemme la settimana santa; presenta episo di tragica sofferenza, come la cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre, l’uccisione di Abele, il diluvio e la dispersione degli uomini dopo torre di Babele, la schiavitù in Egitto, le piaghe e la peripezia dei quaranta anni nel deserto, con le varie disperazioni e ribellioni del popol (a cominciare dal vitello d’oro), le sconfitte ad opera dei Cananei e dei Filistei fino a Davide, le angosce dell’esilio di Babilonia e le minacce e il pianto dei profeti, sino alle fatiche per ricostruire il tempio e per combattere contro il persecutore Antioco IV nel secondo secolo a. C., la Passione e morte di Cristo, infine; celebra epicamente la onnipotenza di Dio e le vittorie concesse al suo popolo: i sei giorni della creazione, il passaggio del Mar rosso, del Giordano, le vittorie sugli Amaleciti, su Og e Magog, le profezie di Balaam (Numeri, cc. 22-4) e quella di Giacobbe sulla discendenza di Giuda, le imprese di Davide contro Golia fino alla conquista di Gerusalemme, la figura e le opere del profeta Elia e le predizioni consolatorie di Isaia sul glorioso ritorno dall’esilio di Babilonia, la trasfigurazione e la risurrezione di Cristo, la discesa dello Spirito santo e la predicazione di Pentecoste... Educato da un simile complesso di vicende e da una visione antropologica così spazzante (esauriente), il cristiano medioevale è aperto a tutti i sentimenti e li sperimenta con l’equilibrio di chi sa di essere chiamato a vivere tanto i misteri gaudiosi che quelli dolorosi, come preparazione di quelli gloriosi. La Divina Commedia è il poema che esprime questa UNIVERSALITA’ ED ARMONIA degli stati d’animo, in cui la gioia è temperata dal timore del peccato e del castigo, la tristezza è consolata dalla fiducia nella Provvidenza e nel trionfo finale del bene, il dramma è tragedia solo per i dannati all’inferno e l’epopea è attenuata dalla coscienza che vittoria sarà solo nella Vita futura, sicchè non diviene mai euforia ed esaltazione. Manca il riso nella Bibbia, perchè la vita è incompleta quaggiù, dove prevale il senso dell’ impegno, del servizio, della faticosa conquista di quella gioia finale, dove soltanto essa diventerà "un riso dell’universo" (Paradiso, 3, 27, 4). Il Medioevo è così predisposto al realismo (Inferno), al romanticismo (Purgatorio) ed al classicismo (Paradiso): ciò che non capiterà mai più nella evoluzione della storia rrdell’Occidente, ove prevarranno a turno i vari stati d’animo, senza mai più attingere la completezza e la armonia di tutte le tonalità affettive dell’uomo.
GLI ASPETTI NEGATIVI, I LIMITI DELLA CULTURA MEDIOEVALE.
I principali difetti della cultura dell’età di mezzo ci paiono questi: acrisia filologica, acrisia storiografica, acrisia estetica, acrisia scientifica, iperspiritualismo, Inquisizione (retaggio germanico di violenza?). Si tratta, in pratica, di un unico difetto generale, la mancanza di "senso critico", che è particolarmente accentuato in alcuni settori della conoscenza.. Sarebbe però più esatto parlare di una "insufficienza di senso critico": una mancanza totale è forse impossibile in quell’animale intelligente che è l’uomo. Il "senso critico", poi, è la capacità a distinguere , a giudicare tra vero e falso, bello e brutto, bene e male: "crìno" (greco) significa "distinguere| giudicare" (in italiano ne è derivato anche "cribro| cribrare"=setacciare, separare, distinguere cose materiali di diverso spessore o peso). Oltre alle cause specifiche per ognuno dei settori di "acrisia" vi è una causa che li interessa tutti. Si tratta della "disinformazione": quella "storiografica", è carenza di notizie su personaggi-avvenimenti del passato; quella "scientifica", è carenza di notizie sulla costituzione e funzionamento di molte realtà (dal cervello al corso degli astri), notizie che solo il futuro avrebbe portato.
l) ACRISIA FILOLOGICA. Fu anzitutto il mancato padroneggiamento, la insufficiente conoscenza della lingua latina (per tacere della quasi scomparsa dello studio della lingua greca). Corollari ne furono: a) l’illusione di scrivere il latino classico-ciceroniano, pur avendo perso la capacità dell’uso delle infinitive (le soggettive ed oggettive sono sostituite dal "quod" con indicativo, alla maniera delle lingue romanze); b) il ritenere che la "grammatica", cioè il latino studiato nelle scuole medioevali, non fosse mai stato una lingua viva, ma solo una "convenzione fra dotti", onde possedere una lingua artificiale, ma universale e cristallizzata, per esprimere concetti difficili con precisione, cosa impervia alle lingue "volgari" (che, in compenso, erano credute parlate nei vari cantucci dell’impero anche ai tempi di Cesare ed Augusto!); c) l’incapacità a rilevare eventuali errori nella copia del documento di studio, per una ingenua fiducia nella tradizione manoscritta e per la pratica impossibilità ad accedere ad eventuali altre copie con lezioni divergenti; d) la inabilità a "datare" un testo in base alla lingua impiegata, cioè al tipo di latino usato, così da stabilire, in base al solo tempo di composizione, il valore probante o meno di un certo documento (ne consegue la incapacità a distinguere un documento storiografico autentico da uno falso o sospetto).
Tale acrisia filologica ricade in acrisia storiografica, perchè impedisce, alla fin fine, di distinguere quel tanto di verità che lo scritto può sempre contenere dalla sua eventuale deformazione interessata o totale tradimento. Non è quindi sempre possibile separare nettamente "acrisia filologica" ed "acrisia storiografica". In questo settore, il caso più clamoroso fu la accettazione ingenua (acritica) della autenticità della cosiddetta "Donazione di Costantino", a papa Stefano I (che lo avrebbe guarito dalla peste), di tutta la parte occidentale dell’impero romano. Tale "Constitutum Constantini" risulta ormai che fu compilato nella seconda metà del secolo VIII; entrò nel secolo IX nella collezione pseudoisidoriana delle "false decretali" ed è stato usato solo a partire dal secolo XII a sostegno del dominio temporale dei papi. La più recente ipotesi circa la sua origine lo vuole "una compilazione agiografica, messa ssieme in un ambiente greco, come era quello di San Silvestro in Capite, dove si erano stabiliti monaci greci fuggiti dall’Oriente per le persecuzioni iconoclaste. Solo molto più tardi e praeter mentem auctoris (al di fuori della intenzione dell’autore), la parte dispositiva cessa di avere semplice valore encomiastico e viene chiamata a fondare preminenze e sovranità che per l’addietro non si attribuivano a concessioni imperiali, bensì di Cristo e di S. Pietro". Qualunque sia il fine e il luogo di origine del documento, è rivelatore di acrisia filologica il fatto che il solo dato della lingua latina (tardiva ed abnorme rispetto a quella ancor classica del tempo di Costantino) non abbia smascherato immediatamente la falsità dello scritto, che fu invece accettato praticamente da tutti gli studiosi medioevali. Solo Ottone III, Federico Barbarossa (cioè, i loro consiglieri), Nicola Cusano e Lorenzo Valla rifiutarono la sua autenticità: il Cusano e il Valla con argomenti convincenti (sec. XV: siamo in pieno Umanesimo).
A parte questo caso mastodontico, vi sono ancora le "False Decretali",composte fra l’anno 847 e 852 in territorio francese (il luogo più sospettato per falsificazioni è la curia di Reims???), per difendere l’autorità ecclesiastica di fronte alle invadenze dei re carolingi (Carlo il Calvo). Esse conglobarono anche il Constitutum di cui si è parlato; e questa collezione fu accolta da tutto il Medioevo come un insieme di testi autentici, quasi fossero emanazione di imperatori e papi!
Vogliamo aggiungere un caso singolare di acrisia filologica: è quello della interpretazione della Bibbia alla maniera di fra Salimbene de Adam (francescano: 1221- dopo 1288). Che già nell’antichità esistessero due scuole di "esegesi" biblica, di cui quella di Antiochia era realistica e stava anzitutto alla lettera del testo sacro, mentre quella di Alessandria era simbolica e allegorizzante, d’accordo; che fra i padri della Chiesa, Agostino stesse con Antiochia nei suoi commenti, mentre Ambrogio optava per Alessandria, è pure noto: ma che si arrivasse al punto di voler vedere profezie sulle vicende politiche ed ecclesiastiche del proprio secolo nelle parole dell’Antico e del Nuovo Testamento, questo diventa ridicolo! Eppure è quello che fa la Chronica di fra Salimbene da Parma che scopre nella Bibbia predizioni di singoli incidenti nellla lotta tar l’imperatore svevo e la Chiesa. Per dimostrare, poi, essere Federico II l’anticristo predetto da San Paolo, non esita a mettere assieme passi della Scrittura, delle sibille pagane (Eritrea, Tiburtina...) e degli scritti autentici ed apocrifi dell’abate Gioacchino da Fiore. Conclusione: con Federico II finisce la seconda età (quella di Cristo, cioè del Figlio incarnato; e della Chiesa col clero diocesano, non abbastanza santo: è quella che segue l’età prima, quella del Padre nell’Antico Testamento) e inizia la terza età, quella dello Spirito santo (età della perfezione, del clero soltanto più religioso, in cui la umanità sarà finalmente tutta santa e ci si avvierà alla fine del mondo). Eppure egli si rivela una mente vivace, arguta, curiosa ed acuta nei giudizi su personaggi a lui contemporanei: risulta così un critico esigente sulla realtà storica sperimentata, ingenuo e fantastico nel leggere i documenti delle epoche antiche, specie delle pagine sacre della Bibbia. Egli ha spirito critico per la realtà umana che contatta direttamente; ne è privo ancora per fatti e personaggi letti e trovati nelle fonti manoscritte. La disinformazione storica si rivela così frutto di uno spirito acritico generale, sul tipo di quello di don Ferrante nei confronti delle notizie scientifiche di Plinio il vecchio (Pr. Sp., c.27): tale mentalità disarmata si manifesta anzitutto come mancanza di ogni sospetto circa il valore della fonte (scritta od orale) che tramanda le notizie; o nell’interpretarla in maniera cervellotica. Era una incapacità di giudicare in campo filologico, prima che storiografico. Anche le citate letture del "sole e della luna" in Genesi,1,14-18 e delle "due spade" in Lc. 22,38 testimoniano di un disorientamento critico disperato. Si ricorderà che, di questo passo, il titolo di manuali contenenti le vite di santi, "da leggersi" (in latino "legenda") durante i pasti dei monaci, passò a significare racconto inventato, falso, cioè "leggenda"!
2) ACRISIA STORIOGRAFICA. Di "leggende" il Medioevo non ne fabbricò solo nel campo santorale: basta leggere il "Novellino" per accorgersi del disorientamento di uomini, pur aspiranti ad una certa cultura, circa personaggi e fatti dell’epoca precedente a quella loro contemporanea. E’ come se la storia antica, benchè grandiosa in sè e necessaria per comprendere le istituzioni più elementari o più fondamentali della società in cui vivevano, fosse un labirinto inesplorato, in cui emergesse ogni tanto qualche scintilla di luce, con cui illudersi di capirne il disegno; qualche traccia, da cui arguire una via d’uscita. In realtà i personaggi sono ambientati nelle istituzioni, nella cultura contemporanea allo scrittore: di riuscire ad ambientrasi nel mondo passato non c’è indizio. Così Narciso è un cavaliere medioevale; Socrate, un cittadino romano; Pitagora, un personaggio spagnolo; i Romani, contemporanei di Alessandro Magno, contro cui hanno combattuto... Leggendo il Novellino si ha la impressione di navigare senza bussola cronologica: l’universo storico è appiattito all’orizzonte del presente medioevale. Naturalmente, maggiore è il bagaglio culturale, minori sono gli abbagli storiografici. Ma anche uno degli spiriti più profondi di ogni tempo, Dante Alighieri, accetta leggende sbalorditive. Romeo da Villanova (nato circa il 1170) fu, nella storia, primo ministro, conestabile e gran siniscalco del conte di Provenza Raimondo Berengario IV e rimase amministratore della contea alla morte del suo signore nel 1245, riuscendo a far sposar e la figlia Betarice con Carlo d’Angiò. Morì in Provenza cinqu anni dopo. Ma ecco i dati leggendari messi in versi dal sommo poeta: Romeo è accettato dalla voce popolare come un pellegrino che, di ritorno da Compostela e capitato in Provenza, viene fatto dignitario di corte da Raimondo Berlinghieri, signore del luogo. Fra gli altri benefici a lui fatti, c’è il matrimonio con eredi regali di tutte e quattro le figlie. Ma non basta questo a conservargli la fiducia di Raimondo, che scaccia il calunniato ministro, costringendolo a morire povero e mendicante. E ancora: assieme a tutta la "intellighenzia"del tempo, Dante accetta da San Tommaso (S. T., Suppl., q.71,a.5) la leggenda sull’imperatore Traiano, che si trova anche in Novellino 69 e che è una interpretazione cristiana di un particolare, narrato nella Storia romana di Dione Cassio Cocceiano ( XIX, 5). L’umiltà di quel grande, che non avrebbe esitato a differire una spedizione militare per far giustizia ad una povera donna (Purgatorio, 10, 73-93), avrebbe indotto S. Gregorio papa a intercedere per la sua salvezza eterna, richiamando l’anima di Traiano dall’inferno (Paradiso, 20, 100-117). Si è già detto che il campo del disorientamento storiografico non è solo quello santorale. Bisogna però ammettere che fu quello più fecondo di fantasticherie. Vi furono santi inventati di sana pianta (Cristoforo è un caso notevole, ma non è l’unico nome cancellato dall’aggiornamento legato al Concilio Vaticano II del 1962-5); ve ne furono molti esistiti certamente, ma la cui biografia si è gratuitamente arricchita nell’Alto Medioevo di fatti straordinari, di miracoli affascinanti. E che la fede giocasse una parte nel far accettare troppo facilmente il "soprannaturale", non si può negare. Si pensi, ad esempio, che ancora alla metà del milleduecento, Jacopo da Varazze (da Varagine: ca. 1228-1298), frate domenicano e vescovo di Genova, scrive la "Legenda aurea" (o "Legenda sanctorum") con tutta la buona volontà di eliminare dalle biografie tramandate dall’antichità quanto i giullari vi avevano inserito di troppo inverosimile e fiabesco, salvo poi ad accettare dalle fonti latine ogni fatto miracoloso, senza alcuna preoccupazione documentaria. Qui ci si accorge che le "invenzioni" non nascono da malizia o da calcolo, ma da una semplicità di fede, che estendeva troppo facilmente l’area dell’intervento divino nelle vicende storiche (od aveva paura a negare il miracolo, per timore di venir meno alle esigenze di una fede scrupolosa). E’ partendo da simile infantilismo credulo, che il prossimo Umanesimo griderà allo scandalo e, a sua volta acritico circa i meriti sia pure limitati dei migliori studiosi di quei secoli, darà la croce addosso ai propri padri nella cultura (complesso di Edipo, solito in campo intellettuale!), perchè non erano riusciti ad impossessarsi di tutto il bagaglio storiografico, che essi finalmente avevano ora il tempo di ricostruire con viva preoccupazione critica! Ma non si accorgevano che già uomini "creduloni" come Jacopo da Varazze e fra Salimbene da Parma erano spiriti critici sia pur incompleti: entrambi (lo si è detto ) cominciano a comprendere che le inverosimiglianze sono accettabili solo per fede e che, perciò, vanno rifiutate tutte quelle che con la fede non hanno riferimento. E’ grazie alla loro inziale opera di "discernimento", allo sgombero delle astruserie più gravi da loro effettuato, che si prepara il terreno ad un senso critico maggiore, ad una libertà di giudizio ancor più coerente. Ed ecco, però, in Giovanni Villani (ca. 1280-1348), un laico che scrive la "Cronica" della sua città di Firenze rivelando una ingenuità tanto simpatica quanto inaffidabile. Gli capita di aver più "fede" lui nei miracoli attribuiti alla Madonna posta nella loggia dell’Orto di San Michele (Orsanmichele) che non i frati francescani e dominicani (Cronica, 7, 154); e di accettare la leggenda guelfa su Federico II, fatto nascere demoniacamente da una untracinquantenne Costanza d’Altavilla, forzata ad essere sposa ad Enrico VI. Intendiamoci: era davvero già in convento, come monaca, ma fu regolarmente dispensata dai voti; era davvero piuttosto anziana, per i criteri sponsali del tempo (ultratrentenne: Enrico VI aveva vent’anni solo), ma pur sempre in età da essere regolarmente madre. Ed anch’egli (con Dante e Dino Compagni) condivide pacificamente il principio che chi perde è dalla parte del torto ed è punizione divina la sua sconfitta: "E perchè molti fecero questione chi avesse il torto della discordia dalla chiesa allo impero..: per dimostrazione di miracolo divino si mostrò apertamente che lo impero ebbe il torto palese e Dio ne mostrò aperta e visibile vendetta sopra lui e sua progenie dopo il suo mal fare" Davvero non si trattava di "acrisia agiografica" soltanto, ma di "acrisia storiografica" in genere: il Medioevo manca troppo spesso di prospettiva diacronica, cioè quasi mai possiede sufficienti notizie sul passato e, praticamente, mai la chiave per leggerne i documenti con acume razionale adeguato.
3) ACRISIA ESTETICA. Significa, ci pare, soprattutto tre cose: insufficiente interesse per la facoltà emozionale dell’uomo; conseguente abbaglio sulla natura della attività estetica od artistica; poco interesse per la "psicologia", cioè poca attenzione al complicato intreccio di componenti razionali e fattori emotivi nelle azioni dell’uomo. Vediamo i singoli casi.
a) Intanto non ci si sofferma sulla distinzione tra emozioni ed istinti, riconducendo tutta questa attività alle "passiones| pathèmata". Ciò dipende sicuramente da assenza di nozioni fisiologiche (questo tipo di "acrisia" è riconducibile, quindi, a quella scientifica) adeguate, che arriveranno d’altronde, soltanto nei primi decenni del secolo ventesimo. Se in questo poco interesse abbia lo zampino anche la diffidenza che la fede nel peccato originale induceva nei confronti della sfera neurovegetativa (ed animale: quella emozionale ed istintiva, appunto) dell’uomo, questo è un problema la cui soluzione affidiamo all’"oltranza" di indagine nella sfera dell’inconscio, propria di freudiani e psicanalisti, specializzati sempre nel "superare coloro che stanno inseguendo". A noi basta non aver esclusa questa eventuale "concausa" secondaria. b) Da tale ignoranza-trascuranza nasce quella interpretazione intellettualistica del fenomeno "arte", per cui essa viene intesa nel Medioevo come sinonimo di "artigianato", cioè come tecnica puramente razionale e, perciò, riconducibile a regole ed insegnabile. Per testimonianze, nelle opere maggiori di filosofia scolastica, si vedano le stesse pagine del nostro libro "Musica in parole", citato nella nota sessanta. Una volta intesa l’arte come "tecnica", il traslocamento di quella verbale alla sfera della dottrina, della filosofia non è difficile. Di qui l’illusione dello stesso Dante che il valore del suo poema dipendesse dalla profondità delle idee esposte, anche attraverso le "allegorie". Basterà leggere i severi ammonimenti del poeta a penetrare il senso della sua simbologia (Inferno, 9, 61-3; Purgatorio, 8, 19-21, ecc.) e la lettera a Cangrande della Scala, in cui l’interesse del Paradiso pare dipendere tutto dalla comprensione della sua allegoria. Sembra quasi che Dante voglia farsi perdonare di avere scritto il capolavoro assoluto della poesia umana, anzichè un trattato di filosofia o teologia... c) E, probabilmente, dalla stessa ignoranza-trascuranza (oltre che da propensioni innate, meno geniali, poniamo, che in Petrarca) deriva quella scarsezza di notazioni psicologiche che è stata rimproverata alla Divina Commedia. Non che ivi manchino del tutto. Ma non sono frequenti, come ci si aspetterebbe. Per comprendere bene il problema, ricorriamo a citazioni che documentano nel poema le non frequenti descrizioni dirette dell’animo dei personaggi. Ecco Inferno, 9, 10-15 (Virgilio si turba per il ritardo nell’arrivo dell’angelo soccorritore contro i demoni della città di Dite): "Io vidi ben sì com’ei coperse| lo cominciar con l’altro che poi venne,| ma nondimen paura il suo dir dienne,| perch’io traeva la parola tronca| forse a peggior sentenza che non tenne". Un altro caso "infernale" è quello di 16, 106-23 (siamo sulla soglia dell’ottavo cerchio, quello della malizia, che è custodito dall’immagine della frode, Gerione): "Io aveva una corda intorno cinta| e con essa pensai alcuna volta| prender la lonza alla pelle dipinta.| Poscia che l’ebbi tutta da me sciolta,| sì come il duca m’avea comandato,| porsila a lui aggroppata e ravvolta;| ond’ei si volse invèr lo destro lato,| e alquanto di lungi dalla sponda| la gittò giuso in quell’alto burrato.| -E’ pur convien che novità risponda-| dicea fra me medesmo —al nuovo cenno| che il maestro con l’occhio sì seconda.-| Ahi, quanto cauti gli uomini esser denno| presso a color che non veggon pur l’opra,| ma per entro i pensier miran col senno!| Ei disse a me: -Tosto verrà di sopra| ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;| tosto convien ch’al tuo viso si scopra". In Purgatorio, 3, 1-13 abbiamo il rimorso di Virgilio per essersi lasciato affascinare dal canto di Casella, rimorso colto nelle sue manifestazioni più ovvie, ma pur sempre sorprendenti: "Avvegna che la subitana fuga| dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga,| io mi restrinsi alla fida compagna:| e come sare’ io sanza lui corso?| chi m’avria tratto su per la montagna?| Ei mi parea da se stesso rimorso:| o dignitosa cosci"emza e netta,| come t’è picciol fallo amaro morso!| Quando li piedi suoi lasciar la fretta,| che l’onestade ad ogni atto dismaga,| la mente mia che prima era ristretta,| lo intento rallargò, sì come vaga...". Nei versi 79-93, vi è la psicologia dello stupore per la presenza corporale di Dante nell’Oltretomba, rivelata dall’ombra che egli proietta: "Come le pecorelle escon dal chiuso| a una, a due, a tre e l’altre stanno| timidette atterrando l’occhio e il muso | e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,| addossandosi a lei, s’ella s’arresta,| semplici e quiete e lo ‘mperchè non sanno;| sì vid’io muovere a venir la testa| di quella mandra fortunata allotta,| pudica in faccia e nell’andare onesta.| Come color dinanzi vider rotta| la luce in terra dal mio destro canto,| sì che l’ombra era da me alla grotta,| restaro e trasser sè indietro alquanto;| e tutti gli altri, che venieno appresso,| non sappiendo il perchè,| fenno altrettanto". Infine, in 21,103-120 sorprende piacevolmente il groviglio di sentimenti che si agitano nei tre poeti, quando Stazio celebra i meriti di Virgilio, che egli ignora essere ivi presente come guida di Dante: "Volser Virgilio a me queste parole| con viso che, tacendo, disse —Taci-;| ma non può tutto la virtù che vuole;| chè riso e pianto son tanto seguaci| alla passion da che ciascun si spicca| che men seguon voler nei più veraci.| Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;| per che l’ombra si tacque e riguardommi| negli occhi, ove il sembiante più si ficca;| e —Se tanto labore in bene assommi-| disse-, perchè la faccia tua testeso| un lasmpeggiar di riso dimostrommi?-| Or son d’una parte e d’altra preso;| l’una mi fa tacer, l’altra scongiura| ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso| dal mio maestro; e —Non aver paura-| mi dice- di parlar; ma parla e digli| quel ch’ei domanda con cotanta cura". Belle eccezioni, ripetiamo, che fanno spiacere di più la rarità di simili analisi. Assenza che caratterizza un po’ tutto il Medioevo: la psicologia manca al Novellino, che è interessato ai fatti molto più che ai personaggi ed ai suoi stati d’animo; e trova ancora troppo poco spazio nel Decameròn, che costruisce delle novelle sulla magia e, quindi, sull’inverosimile e sull’antipsicologico per eccellenza. Pure qualche sforzo di penetrazione c’è, come nella novella di Andreuccio da Perugia. Croce l’ha analizzata come espressione del passaggio dalla ingenuità alla scaltrezza; ma occorre molta "buona volontà" da parte del lettore per leggervi una simile metamorfosi psicologica. In realtà la novella fa parte delle molte ispirate alla "Fortuna" od al "caso"; e il suo interesse nasce dalla "peripezia dei colpi di scena", cioè dalla "meraviglia" per la circostanza imprevedibile, che capovolge la condizione del protagonista, al di fuori dei suoi calcoli e progetti. La situazione economica di Andreuccio muta in meglio per puro "caso", nonostante la sua dabbenaggine, che lo porta ad associarsi ai primi avventurieri che incontra. La prima avventuriera (e soci) lo deruba e tenta ucciderlo maldestramente; altri malviventi lo aggregano alla ribalderia di un furto sacrilego in chiesa. D’accordo, egli approfitta dell’eccesso della loro malizia (lo vogliono chiudere in un sarcofago, dove lo hanno introdotto per derubare un ecclesiastico sepolto con preziosi indosso), per seppellirvi i suoi complici occasionali e aspiranti carnefici. Ma questo avviene non per calcolo preventivo, ma per necessità estrema della situazione: la sua non è furbizia, ma operazione da disperato che agisce per legittima difesa in circostanze tragiche. Di "risveglio psicologico" in Andreuccio ve n’è ben poco: la novella, una volta conosciuta la peripezia, chi la rilegge più? Bisognerà aspettare Petrarca per ritrovare un maestro di lettura dell’animo umano.
4)ACRISIA SCIENTIFICA. Gli antichi, dagli Egiziani ai Babilonesi, da Talete a Pitagora, da Aristotele a Tolomeo, da Euclide ad Archimede avevano fatto progredire gli studi della geometria e della astronomia; oppure avevano collezionato le comuni convinzioni sulla medicina (Ippocrate, Galeno). I Romani avevano affastellato con Plinio il vecchio (23-79 d. C.) verità e favole su ogni campo dello scibile esplorato più o meno criticamente: la "Naturalis Historia", in 37 libri. Il Medioevo si accontentò di conservare quello che gli arabi spagnoli traducevano dal greco e che la scuola di Toledo riportava poi in latino. La nuova numerazione venne dall’India, sempre tramite gli Arabi, cui si deve, in proprio, il nuovo ramo della geometria detto trigonometria. Di novità, gli Occidentali ne introdussero bensì sul piano tecnico, per i lavori (finimenti per animali da soma, aratro moderno, sestante, gualchiere per rassodare la lana, fusione delle campane, orologio meccanico da torre...) o su quello sperimentale (scoperta del magnetismo), ma sul piano teoretico occorrerà aspettare il sec. XVI per le formule di soluzione delle equazioni fino al quarto grado. Il più formidabile organizzatore del sapere scientifico in quella età fu S. Alberto Magno, che operò con i criteri da collezionista scrupoloso e da curioso dilettante sul tipo dell’opera di Plinio.Egli, vissuto fra il 1205 circa e il 1280, dedicò gli ultimi trentacinque anni della sua vita a scrivere 23 opere, che vanno dalle nozioni di fisica alle osservazioni sulla natura del sonno e della respirazione, dallo studio sulle varie età dell’uomo (con notazioni sulla sua vita e morte), ai ventisei libri sugli animali ed ai sette sui vegetali! E’ una vera "summa de creaturis" (enciclopedia sul creato),ma è sostanzialmente opera di divulgazione. Egli parafrasa le conoscenze di Aristotele (sulla traduzione di Gherardo da Cremona e di Michele Scoto), rendendosi benemerito a tutto l’occidente per lo scopo dichiarato di divulgare la scienza (Fisica, libro primo): tale opera rimase in circolazione fino al secolo XVII, proprio perchè utile (fa parte della biblioteca di don Ferrante, stando al malizioso catalogo che ne ha inventato Manzoni nel c. 27 del romanzo). Non che manchino integrazioni ad Aristotele, con notizie da Platone e da altre fonti, greche, giudaiche e latine; non che sia del tutto assente una intenzione critica (egli confuta Aristotele dove è in contrasto col pensiero cristiano; suggerisce sue soluzioni a problema ancora aperti). Ma quello che scarseggia è la acutezza critica: nessun principo nuovo, nessuna grande visione che rivelasse metodi, criteri di indagine per il futuro. Ad esempio egli non supera il tradizionale punto di vista che , distinguendo nettamente la teologia dalla filosofia per la diversa origine delle loro certezze (l’autoirtà di Dio, per la prima; la sola ragione, per la seconda), mantiene unite filosofia e scienza per il comune strumento (la ragione appunto) della indagine, non accorgendosi che il metodo filosofico-matematico è per lo più deduttivo, mentre induttivo è, per lo più, quello delle scienze sperimentali. Ed è questo ora accennato l’astigmatismo di fondo, se non la sorgente prima della "acrisia scientifica". Ne discendono o vi sono connessi gli errori piccoli o clamorosi della scienza medioevale. Tra i casi solamente divertenti, vi è quello della melanzana, ritenuta fonte di pazzia ("malum insaniae", cioè mela della follia); tra quelli destinati a divenire tragici, la accettazione del "sistema geocentrico", che vedeva la terra ferma al centro dell’universo ed il sole, anzi il cielo tutto ruotare attorno ad essa, secondo un assurdo gioco di percorsi in avanti od a ritroso delle varie parti del cielo, come aveva vittoriosamente proposto Tolomeo, scienziato alessandrino del secolo secondo dopo Cristo, nella sua opera "Almagesto" ( nome arabo usato nel M.E.: in greco il titolo era "Megàle Syntàxis", cioè "grande coordinamento del sapere", enciclopedia). Per l’adesione medioevale, si può vedere la Somma Teologica, p. 1, q. 2. a.3 ; il Convivio di Dante, primi capitoli del secondo libro; Commedia, passim. Connesso con questa "svista" mastodontica" sta l’altro errore (di derivazione anch’esso greco-aristotelica) sulla natura "spirituale" e "incorruttibile" dei corpi celesti: si può leggerla in Somma Teologica, parte I, q. 66, a. 2; parte terza, Supplemento, 74, 4 e 91, 2, 5; in Dante, Convivio, II, 14; Commedia, passim e Paradiso, 2, 46-105. La edizione leonina della Somma rimanda ai vari passi aristotelici (Metafisica, libro 5, text. 10 e 26; De generatione, 1, 50; De coelo, 1,5). E, sempre in tale contesto, viene accettata anche la dottrina (resa immortale da Manzoni nel ragionamento di don Ferrante alla fine del c. 37) dei quattro elementi fondamentali del mondo (fuoco, aria, acqua, terra), cui va aggiunto il "quinto elemento", appunto la materia incorruttibile dei cieli (cfr.i passi citati per la differenza tra corpi terrestri e corpi celesti).
5) IPERSPIRITUALISMO. Non si deve imputare al vivo senso del primato di Dio, dell’anima e del fine spirituale della vita (anzi "soprannaturale", cioè divino, perchè connesso—sia pure accidentalmente- con Dio stesso) la credenza nella spiritualità della materia del cosmo extraterrestre: era proprio una illusione ereditata dalla scienza profana dell’antichità. Neppure si può farne discendere gli errori iperspiritualistici condannati dalla Chiesa come eresie e perseguiti anche con la violenza della Inquisizione, alleata al braccio secolare: il catarismo ed il pauperismo. Il primo movimento deriva dal manicheismo persiano e, attribuendo al demonio la creazione di tutto ciò che è materiale, giungeva a dichiarare illeciti e peccato sia il cibo che il matrimonio che il danaro. Non bastando le condanne del Concilio ecumenico Lateranense III (1179), contro gli Albigesi (Catari di Provenza) fu scagliata da Innocenzo III la crociata (1208-9) che sradicò, con l’eresia, anche la lingua e letteratura occitanica. Il Concilio Lateranense IV del 1215 ribadì poi la condanna. Il pauperismo era invece una eresia più ristretta e basata, in apparenza, sul Vangelo: Cristo Gesù, proclamando beati i poveri (Lc., 6, 20) e inviando i discepoli senza borsa e senza danaro (Mt. 10, 9-10; Lc. 10, 4-5), avrebbe proibito alla Chiesa ed agli ecclesiastici di possedere beni terreni. Dapprima sorse Pietro Valdo, in Francia ("i poveri di Lione": condannati già nel 1184 nel sinodo di Verona); poi ci si provò l’ala più radicale del francescanesimo, che trovò nel ministro generale dei Minori, Michele da Cesena un sostenitore (fu, perciò, scomunicato da papa Giovanni XXII nel 1328).Questo va detto, senza nulla togliere al carattere di evangelica contestazione che pur ebbe la libera scelta di una esistenza povera da parte di San Francesco e San Domenico, che in una mortificazione da brividi (si proibivano di accettare elemosine in danaro; di avere due vesti, di portare calzature, di dormire su un pagliericcio...) volevano sottolineare con forza quale fosse, secondo il Vangelo, la via più sicura per assicurarsi la salvezza eterna; e richiamare la necessità per tutti della virtù di temperanza nell’uso e nella ricerca della ricchezza, per pervenire allo stesso traguardo della sequela di Cristo.
I princìpi di spiritualità cristiana citati hanno invece influito su altri errori tipici del Medioevo, anche ortodosso. Il principale fu certo quello della condanna del prestito ad interesse: il termine "usura" aveva nel Medioevo questo semplice significato, proprio della lingua latina. Di usura nel senso di "prestito ad interessi eccessivi, da usuraio" si parlerà solo nei tempi moderni, quando il pregiudizio contro il prestito a interesse ragionevole sarà decaduto. Ci si crederà sentendoci dire che la base ppiù impellente di tale posizione iperspiritualista viene dal mondo pagano, da Aristotele? E’ lui che dà la motivazione filosofica, ad esempio in Politica, l. 1, c. 7 ("usuraria acquisitio pecuniarum est maxime praeter naturam"), citata da Somma Teologica (parte) II, (della parte) II, q. 78, a. 1. Solo l’uomo col lavoro merita il salario (il danaro), mentre il danaro non genera danaro. Gli argomenti ricavati dall’Antico Testamento sono già discutibili: la proibizione riguarda solo i fratelli del popolo di Israele, ma non gli stranieri, cui è lecito prestare ad interesse (Esodo, 22, 25; Salmo 15, 5; Ezechiele,18, 8). Nel Nuovo Testamento, solo Luca, 6, 35 ha il "consiglio" (non il precetto universale, ma la raccomandazione libera) di prestare senza sperare ricompensa. I padri della Chiesa sono piuttosto pesanti contro il prestito ad interesse, ma è un modo di difendere i poveri: non ne fanno un dovere assoluto. E’ notevole che, con un appoggio filosofico così massiccio, con una opinione pubblica tanto consenziente in teoria quanto transigente nella pratica (anche perchè, se il dare ad interesse era ritenuto ovviamente illecito, altrettanto ovviamente era ritenuto lecito chiederlo, spinti dalla necessità) non si sia giunti ad una definizione dogmatica. Non che condanne della "usura" siano mancate: si comincia con S. Leone Magno (Lettera del 10 Ottobre 443 ai vescovi della Campania, Toscana, Piceno: cfr. Denzinger-Scho"nmetzer, Enchiridion Symbulorum, definitionum et declarationum, Barcellona, Herder, 1973, numeri 280-1); si continua con Innocenzo II (1139:Concilio ecumenico Lateranense II, canone 13: Denz. Scho"nm., 716), per finire con Benedetto XIV (Enciclica "Vix pervenit" ai vescovi d’Italia, del 1 Novembre 1745: Denz. Scho"nm: 2546-50). Ma non vi è mai stata una definizione dogmatica esplicita: il Concilio Lateranense II del 1139 condanna bensì solennemente, ma non l’usura in se stessa, bensì la "insaziabile rapacità degli usurai". Un credente potrebbe vedere in tale "depistaggio" dell’oggetto di condanna un motivo per credere che davvero lo Spirito santo assiste il magistero della Chiesa, visto che le impedisce di definire quello che pure era nelle intenzioni di papa Innocenzo II come di tutti i vescovi del Concilio (per non parlare della fede comune del tempo), cioè la illiceità del prestito ad interesse, dirottando " sapientemente" la condanna del canone conciliare dalla pratica del prestito ad interesse all’avidità dei prestatori. A questo modo, l’errore resta imputabile agli uomini di Chiesa del tempo (fino a Benedetto XIV: con Pio VIII, l’atteggiamento diviene più possibilista e realista: Risposta al vescovo di Rennes, in Francia, del 18 agosto 1830: Denz. Scho"nm. 2722-4).
LA INQUISIZIONE O LA VIOLENZA CONTRO GLI ERETICI. La Chiesa ha praticato la condanna anche fisica degli eretici, attraverso un accordo colla autorità statale ("braccio secolare", che eseguiva materialmente le condanne), almeno a partire dal 1184 , essendo papa Lucio III ed imperatore Federico Barbarossa ("inquisizione episcopale", affidata ai vescovi delle diocesi). I nuovi accordi tra Gregorio IX e Federico II portarono ad una centralizzazione della Inquisizione che, da una parte, esaudiva le decisioni del Concilio lateranense IV (1215) e, dall’altra, veniva inserita nelle Costituzioni di Melfi, emanante nel 1231 dall’imperatore. Non ci interessano qui le ulterori forme organizzative (Inquisizione spagnola del 1478 e romana del 1542), quanto le approvazioni pronunciate in documenti pontifici o conciliari. La teorica legittimità del processo inquisitivo fino alla consegna al braccio secolare è indirettamente affermata attraverso condanne di eretici che, tra le altre cose, negavano anche questo "diritto" della Chiesa: contro Giovanni Hus (Concilio di Costanza, sessione XV, 6 luglio 1415: conferma di papa Martino V il 22 febbraio 1418: Denz. Sco"nm. 1214); contro Lutero (bolla "Exsurge, Domine" di Leone X: 15 giugno 1520: Denz: Scho"nm. 1483-4). E ci interessano le elucubrazione teologiche, per cercare di intendere le motivazioni di un simile istituto che pare del tutto opposto al Vangelo. Rimandando alla Somma di San Tommaso, troveremo citazioni da Sant’Agostino, il primo padre della Chiesa che (a differenza del suo maestro S. Ambrogio e di Giovanno Crisostomo) approva l’uso della forza per la conversione degli (ultimi) pagani, interpretando troppo letteralmente il "costringili ad entrare" nella parabola degli invitati alle nozze (Lc. 14, 23). Bisogna dire che la Chiesa non ha mai insegnato la liceità di costringere i non battezzati al battesimo. Anzi la motivazione di San Tonmmaso circa la liceità dell’uso della forza per mantenere fedeli i battezzati è proprio basata su un parallelo con la libertà da lasciare ai non battezzati: nella Somma teologica, (II, II, 10, 8, ad 3), S. Tommaso afferma: "Come il fare un voto è proprio della volontà (libera), mentre il mantenerlo è una necessità, così l’accettare la fede è proprio della volontà libera, ma il tenerla una volta accettata è un fatto di necessità". Naturalmente, per i Medioevali (diversamente che per noi), da una parte le promesse (voti) battesimali fatte dai genitori valevano definitivamente come se l’infante stesso le avesse consapevolmente pronunciate; dall’altra, la corruzione della fede era un fatto cui anche la società civile era interessata e coinvolta. Ed ecco allora le tesi conclusive di S.Tommaso, che più ci interessano: "Infideles, qui numquam fidem susceperunt, ut Judaei et gentiles, nullo modo sunt ad fidem compellendi; at infideles haeretici et apostatae sunt cogendi, ut id adimpleant quod promiserunt" (S.T.II, II, 10, 8); "Quamquam haeretici tolerandi non sunt ipso illorum demerito, usque tamen ad secundam correptionem expectandi sunt, ut ad sanam redeant Ecclesiae fidem; qui vero post secundam correptionem in suo errore obstinati permanent, non modo excommunicationis sententia, sed etiam saecularibus principibus exterminandi, tradendi sunt" (ib. II, II, 11, 3); "Quamquam haeretici revertentes semper recipiendi sint ad poenitentiam quotiescumque relapsi fuerint, non tamen semper sunt recipinedi et restituendi ad bonorum huius vitae partecipationem" (ib.a.4); "Quum quis per sententiam denuntiatur propter apostasiam excommunicatus, ipso facto eius subditi a dominio et iuramento fidelitatis eius liberati sunt" (II, II, 12, 2).
LA CULTURA MINORITARIA DEL MEDIOEVO. L’attribuire ad una epoca un pensiero monolitico, una cultura unica ed esclusiva è frutto di ingenuità o disinformazione. La libertà cui l’uomo è più gelosamente attaccato è quella del pensiero, tanto che le guerre di religione sono inaspettatamente numerose (esagerando, B. Croce disse in una intervista famosa, alla vigilia della seconda guerra mondiale, che sono le uniche guerre degne di essere combattute). E, nella condizione concreta dell’umanità, è pressochè impossibile trovare tutti d’accordo su tutti i principi cui un uomo debba ispirare la propria vita e sui quali una società debba reggersi. La multipolarità delle prese di posizione ideologiche venne alla luce anche nel Medioevo, non appena i pensatori ebbero modo di scrivere, insegnare, divulgare le proprie convinzioni. Fu Pietro Abelardo (1079-1142) che, iniziando l’insegnamento della "teologia sistematica" a Parigi, diede principio anche alla scollatura dalla cultura dominante, sia in campo filosofico (sulla natura degli "universali" e, quindi, sul valore delle "idee"), che teologico ( sul mistero trinitario, sulla natura di Cristo, sul valore delle opere per la salvezza...). Anche Federico I Barbarossa (imperatore dal 1155 al 1190), pel fatto solo che eleggeva antipapi, dimostrava di avere idee "singolari" sulla costituzione della Chiesa. Ma le grandi discrepanze avvenivano a livelli più elementari e radicali: alcune posizioni esulavano dalla dottrina "ortodossa" del Medioevo cristiano, per eccesso; altre, per difetto.
IPERSPIRITUALISMO ERETICALE. Le prime sono già state accennate tra gli inconvenienti, i limiti e difetti della cultura dominante: si tratta di un iperspiritualismo non accettato dal magistero della Chiesa e,perciò, rifiutato anche dal popolo e dagli intellettuali comuni. Tutte hanno il colore di una ribellione contro la corruzione occasionata dalla crescita delle ricchezze e dalla progressiva recessione del potere politico dei vescovi e della Chiesa sulla società civile. La matrice ideologica però è persiana: si tratta del Manicheismo, che prevedeva due divinità per i due tipi di creature esistenti. Gli angeli e l’anima ed i valori spirituali erano creazione di Ormuz, il dio del bene; tutta la materia era opera di Arìmane, la divinità del male. Di qui la condanna di quanto è corporeo: cibo, matrimonio, danaro. Fra queste devianze abbiamo i poveri di Lione (valdesi: Pietro Vaud inizia la sua predicazione nel 1174), che tendevano a condannare non solo il possesso del danaro, ma la stessa reale incarnazione del Figlio di Dio e, quindi la la vera umanità del Cristo, la santità della Chiesa, il valore dei sacramenti... Invece meno estesi furono i riflessi della mentalità manichea nei catari (albigesi, bulgari, patarini) che fece in tempo ad intaccare anche l’ala più spiritualista dei francescani, fino a comprendere il ministro generale Michele da Cesena, che predicava il possesso del danaro come proibito alla Chiesa (condanna 1318, destituzione da ministro generale nel 1328, morte nel 1342). Lungo questo pessimismo radicale sulla società medioevale, si pone il "millenarismo" dell’abate Gioacchino da Fiore (detto dal luogo ove fondò il monastero dedicato a S. Giovanni, in Calabria: ca.1130-1202), che predica l’esistenza di tre "testamenti" od epoche religiose: l’antica alleanza del Padre e degli ebrei; la nuova, quella del Figlio e dei cristiani col clero diocesano (senza il voto di povertà e, quindi, tendenzialmente corrotto od almeno non perfetto); l’ultima (considerata più o meno imminente) dello Spirito santo e dei "religiosi" (definitiva e perfetta: senza più corruzione nè peccati).
L’ASTROLOGIA E IL DETERMINISMO ANTROPOLOGICO.
Era una eredità del paganesimo, questa, che subordinava all’influsso degli astri o delle loro congiunzioni le scelte umane, a scapito del libero arbitrio, cioè della libertà interiore dell’uomo. Tale negazione conduceva ad una visione materialistica, cioè alla negazione dell’anima distinta dal corpo, della sua spiritualità ed immortalità. Il suo esito ultimo era la negazione di Dio, sotituito da "caso e necessità" (per dire le cose in temrini moderni: in realtà, il "caso apparente" delle vicissitudini umane era comandato dalla "necessità del cammino ed incontro degli astri). La Chiesa era intervenuta molto presto contro una simile credenza, assimilandola alla magia, cioè ai peccati contro la fede in Dio e il primo comandamento.Già nel concilio (regionale) di Toledo, nel secolo quinto, chi crede nella astrologia viene anatemizzato, cioè escluso dalla comunione della Chiesa (scomunica). Il concilo bracarense (di Braga, in Portogallo), nell’anno 551, sussumerà le condanne del Toletano, specificandole ulteriormente. Infine verrà la condanna subito dopo il concilio di Trento (1564), nella Bolla "Dominici gregis" di papa Pio IV (è la Bolla che stabilisce le regole per la iscrizione degli stampati all’Indice dei libri proibiti e che comprende anche quelli concernenti l’astrologia: Denz. Sch., 1859). Essa è contrastata da S. Tommaso in nome sia della ragione (Contra Gentes, III, 85) che della fede (Somma teologica, I, q. 115, a. 4; II, II, q. 95, a. 5). Dante nella Commedia fa difendere la libertà dell’anima dal grande saggio Marco Lombardo nel canto 16, 64-81 del Purgatorio. Tra gli eretici per astrologia troviamo nel Milleduecento Guido Bonatti (morto vecchissimo nel 1296) e Michele Scotto (fu al servizio di Federico II e tradusse Averroè nel 1235): entrambi sono messi da Dante all’Inferno (20, 115-8) come indovini. Ma il più famoso astrologo del tempo di Dante fu un suo antagonista anche come poeta (scrisse i poveri versi del poema "L’acerba", cioè "acervo, mucchio": sinonimo di "satira", nel senso originario di " piatto saturo, carico di cose disparate"): Francesco Stabili, detto Cecco d’Ascoli (1269-1327). Fu docente a Bologna di astrologia, avendola appresa a Salerno e Parigi: dapprima fu allontanato dalla cattedra ma, ricaduto nell’insegnamento del determinismo astrologico, fu condannato per eresia ed arso vivo. Del resto, alla corte di Federico II, imperatore islamizzante, l’astrologia era tenuta in gan conto. Il figlio (naturale) Manfredi pare proprio che abbia perso la battaglia contro Carlo d’Angiò (Benevento, 1266), perchè aspettò che gli astrologi gli assicurassero l’ora più propizia, in base alla congiunzione delle stelle favorevoli: per vincere, gli sarebbe bastato aspettare, chè le truppe guelfe non avevano scorte di viveri...
III) L’EROTISMO GRATUITO E LA VENDETTA EREDITARIA CASI NOTEVOLI DI MANCATA PERFEZIONE CRISTIANA.
Non che l’erotismo gratuito sia l’unico peccato od il peggiore, che permanga in una cultura pur imbevuta di fede cristiana, ma esso è il caso più facilmente espresso in letteratura, sia in versi che in prosa. Abbiamo intravisto l’avarizia quale premessa alle eresie pauperiste e la violenza della Inquisizione come probabile residuo dei costumi guerrieri germanici; abbiamo dovuto constatare il perdurare della idolatria pagana nella astrologia deterministica... Ma è difficile pensare che un poeta canti l’attaccamento al danaro o celebri la forza bruta delle guerre e delle carneficine, mentre riusciva a farsi tollerare od a sfuggire al controllo della censura sociale il canto dell’amore, anche se adultero o disorientato nella pura ricerca del piacere. In proposito la poesia lirica romanza nasce sotto cattiva stella: il suo iniziatore, Guglielmo IX d’Aquitania, è poeta realista e sbrigliato, nonostante l’educazione ricevuta a Poitiers presso i Benedettini. Tra le espressioni della poesia provenzale, troviamo dei magnifici quadretti di "albas": erano la descrizione del momento di addio all’amata, dopo una notte di amori libertini (ed adulteri, spesso). Benchè in Italia (lo si è detto) la produzione trobadorica giungesse nella sua forma più purificata, in seguito alla crociata antialbigese del 1208, tuttavia non ci si può illudere che la "poetica" spiritualistica di un Guglielmo di Montanhagol (1229-1258) o il movimento francescano (riecheggiato, si è detto, dall’esemplare figura di san Luigi IX) abbiano estirpato la concupiscenza dall’animo umano con la voluttà di alleare l’istinto alla intelligenza in espressioni versificate, abbastanza ambigue per lasciar spazio ad emozioni artistiche, ma abbastanza ammiccanti per allettare anche con gli spunti venerei frammisti. Alcuni dei racconti collezionati nel "Novellino" sono, a dir il vero, sbracati e ben lontani dall’arte, ma non si può negare successo poetico al "contrasto" di Cielo d’Alcamo che inizia con il verso "Rosa fresca aulentissima" e che, dopo aver epsresso la resistenza puntigliosa di una ragazza alle profferte realistiche di un giullare, ne segnala, all’ultimo, la resa (strofe di alessandrini monorimi sdruccioli, con distico finale di endecasillabi: ne riparleremo nello studio della "Poesia realistica"; qui basti aggiungere che tale contrasto è del tempo di Federico II che, quanto a moralità sessuale, si governava come un sultano orientale).
L’inferno di Dante (29, 1-36) testimonia un costume che andava scomparendo, ma che i Germani avevano insinuato nel mondo cristiano, mantenendolo pertinace per sette secoli: la vendetta di sangue. Si tratta di un prozio del poeta (Geri del Bello, fratello del nonno Bellincione) che si trova nella nona bolgia, tra i seminatori di discordie e si sente ancora umiliato perchè la sua morte violenta non è stata vendicata da un parente. Ecco come Dante esprime la situazione:"O duca mio, la violenta morte| che non gli è vendicata ancor- diss’io-| per alcun che dell’onta sia consorte,| fece lui disdegnoso; ond’el sen gìo,| senza parlarmi, così com’io estimo:| ed in ciò m’ha el fatto a sè più pio". Il fatto è tutt’altro che isolato; anzi fin dentro il secolo XIV (quello in cui fu scritta la Commedia) si trovano testamenti in cui l’eredità è legata alla esecuzione della vendetta. E un altro costume barbaro è quello del duello: durerà sino all’inizio del sec. XX (fine della prima guerra mondiale)! Questi fatti provano una verità necessaria a ben giudicare della evoluzione storica e nella società civile ed in quella religiosa. la. Una fusione di popoli, implica uno scambio di culture. E’ una illusione che o l’una o l’altra sia assorbita culturalmente senza conservare ed anzi trasmettere qualche sua concezione o costume. La Chiesa, convertendo l’Europa del Nord, abitata per lo più da Germani, guerrieri e nomadi, non diede soltanto, ma anche ricevette. Si può distinguere l’influsso dei Germani sul mondo cristiano in due categorie: per alcuni usi e abitudini essi riuscirono a far acecttare dallo stesso magistero ecclesiastico il loro punto di vista ; per altri aspetti, essi mantennero a lungo le loro tradizioni in linea di fatto soltanto, chè esse furono condannate ed esorcizzate dal magistero e dalla opinione pubblica. Tra i primi casi vi fu l’uso della violenza nel difendere la fede con la Inquisizione; tra i secondi, quelli appunto della vendetta e del duello.



B) IL CANTICO DI S. FRANCESCO E LA POESIA RELIGIOSA DEL DUECENTO
I) IL CANTICO DI FRATE SOLE
La prima scrittura italiana che meriti considerazione non per significato genericamente culturale, ma per specifico valore artistico, è il CANTICO DI FRATE SOLE (detto anche "Laude o Cantico delle creature"). E’ opera di S. Francesco che lo compose nel 1224, giacendo infermo dopo aver ricevuto nel suo corpo le ferite (stimmate), quali Cristo ebbe in croce nelle mani, nei piedi, nel costato, in una estasi sul monte della Verna.
I Motivi Ispiratori. Sono sostanzialmente due: il senso religioso del creato e della vita; e il senso umanistico della bellezza e della forza presenti nelle creature tutte, finalizzate all’uomo, pur peccatore e ingrato a Dio (umanesimo cristiano).
Il senso religioso consiste nel sentimento della presenza di Dio nel cosmo come nella esistenza dell’uomo: Iddio Creatore e Signore, Giudice inappellabile e rigoroso, ma soprattutto Padre comune degli uomini (e, in un certo senso, anche di animali e piante), che diventano perciò fratelli e sorelle fra loro.La stessa morte è sorella, perchè apre le porte, per gli uomini di buona volontà, alla Vita eterna. Ecco allora le espressioni ben note: "Altissimu, onnipotente, bon Signore,| tue so’ le laude, la gloria e l’honore et omne benedictione..."; "Guai a quilli che morranno nelle peccata mortali..."; "frate sole, sora luna, frate vento, sora acqua, sora nostra morte corporale".
Il senso umanistico comprende a sua volta due momenti. Da una parte, vi è il tema della bellezza e della forza delle creature infraumane, che apre il cuore ad una letizia senza ombre (la leggeremo analizzando i toni lirici). Dall’altra, vi è il senso dell’uomo come creatura ambigua, indegno di lodare Dio ("nullo homo ène dignu Te mentovare": nessun uomo è degno di nominarti), capace di odiare e meritare l’inferno. Eppure egli rimane il re del creato e tutte le realtà terrestri sono finalizzate a lui: il sole e il fuoco illuminano e riscaldano la terra per l’uomo; l’acqua non è solo "umile et casta", ma anche "utile et pretiosa". D’altronde l’uomo è anche capace di virtù e di perdono, di amare e vivere nella volontà di Dio. Questa ambiguità dell’umaneismo francescano sarà propria anche di Dante e lo distingue dall’umanesimo rinascimentale, che non avrà invece riserve nella sua stima, fiducia e amore per l’uomo. L’umanesimo cristiano implica sempre un realismo dettato dalla fede, oltre che dalla esperienza: il peccato originale e la condotta dell’uomo medio suggeriscono stima ma anche sospetto, fiducia non senza timore, amore non disgiunto dalla prudenza. Tra gli uomini, infatti, vi sono quelli (beati!) "ke perdonano per lo Tuo amore e sostengo(n) infirmitate e tribulatione", ma vi sono anche quelli (guai!) "che morranno ne le peccata mortali".
I Toni lirici del Cantico. In perfetto parallelismo ai due motivi ispiratori di fondo, troviamo due registri emozionali dominanti. Ideazione e risposta emotiva sono perfettamente pertinenti. Si noti, però, che la finale del Cantico è meno felice: prevale un’angoscia non poetica, che svela una incrinatura dettata dall’umanesimo cristiano.
Il motivo religioso introduce un lirismo epicizzante, celebrativo della onnipotenza e bontà di Dio: esprime esultanza e solennità. I primi otto versetti iniziano in genere con impeto epico ("Altissimu, onnipotente...|Laudato si’, mi Signore...). Lo slancio, però, non dura a lungo. L’epopea tende a discendere e confondersi con l’altro registro emotivo, l’idillio che insorge sulla contemplazione della serena, fraterna bontà del creato.
Ecco allora che il Motivo umanistico genera la letizia francescana, alla quale sono particolarmente intonati i versetti meritamente celebri per la luna e le stelle ("clarite et pretiose et belle"), per la terra (madre di fiori e frutti), per la limpida acqua, ecc. La tendenza al sinergismo, alla fusione tra i due registri lirici crea brevi attimi di estasi, che sono i migliori della composizione. Ecco i versetti dedicati a "messor lo frate sole,| lo qual è iorno, et allumini noi per lui..." ed a "frate focu| per lo quale enallumini la nocte:| ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte".
Come già accennato, meno felice risulta il dramma della paura di fronte alla fragilità e malizia dell’uomo: la componente pessimistica, prevalente nell’umanesimo medioevale, s’inserisce negli ultimi "versetti", dettati poco prima di morire. Essi documentano bensì il travaglio del grande cuore del Santo di fronte alla umanità peccatrice, ma non sublimano in purezza ed assolutezza di emotività le sue preoccupazioni pratico-missionarie: vi si legge l’angoscia dell’apostolo, non la commozione del poeta.
La tecnica stilistica. Il "Cantico delle creature o di frate sole" è una Lauda sacra, cioè un componimento ritmico di contenuto religioso, che imita la "sequenza liturgica", i versetti che, nella celebrazione della Messa in latino, seguivano la seconda lettura (l’Epistola o brano di una lettera di apostolo). Di tale forma ritmica in lingua volgare, S. Francesco è l’iniziatore: essa avrà continuatori innumeri, anche se la forma muterà notevolmente. Non si tratta di versificazione vera e propria, ma di prosa assonanzata, che alla forma poetica si avvicina, assumendo delle vere e proprie rime in certe cadenze (Signore- honore, stelle- belle, vento- sostentamento...). Solitamente vi è però solo la "terminazione di due o più parole, a cominciare dalla silaba accentata, con le sole vocali identiche (assonanza: sole- splendore, tempo- vento, acqua- casta, nocte- forte...). Per questo si parla di "versetti", come per le divisioni dei Salmi, che il Cantico imita evidentemente, anche se innova genialmente (si veda specialmente il Salmo 148, oltre a Daniele, 3, 52-90).
La musicalità è duplice, adeguata cioè ai due filoni ideali e lirici. Il senso religioso-epico viene tradotto in una trama di vocali larghe (A|O) o addirittura di dittonghi (AU), suoni sostenuti da consonanti forti e solenni (labiali, gutturali, dentali). Queste parti del Cantico vanno lette a voce alta, spiegata, cioè in tono sostenuto. Il tono idillico si appogiia ad un vocalismo medio (E) o stretto (I|U), addolcito dall’armonia di consonanti liquide (L|R), nasali (N|M), fruscianti (F|V) più numerose che nella media del discorso comune. Questi versetti andranno letti sommessamente, quasi sussurrati, in tono umile, dimesso. Là dove i due registri si confondono, la vocale O prevale sulla A, mentre le consonanti dolci ed aspre, deboli eforti si alternano in modo così composito da trasmetetre la complessità dello stato d’animo che detta la forma espressiva. Specialmente i righi su "frate focu" (già riportati) con l’invenzione del neologismo "robustoso", creano il fascino di quell’ideale di virilità mansueta, di forza pacata, proprio del gigante poverello, dello sposo di madonna Povertà. Là dove vien meno o si attenua la spinta emotiva -nei versetti finali- la musicalità diviene anodina, poco significativa: ci troviamo di fronte ad un impasto medio, equilibratamente scialbo, segno di una caduta d’estro, di un calo d’ispirazione. Il "sintagma" coincide col "paradigma", l’invenzione personale si appiattisce sul modulo tradizionale.
Degna di nota è anche la lingua (il dialetto) usato nel testo assisiate cui ci si rifà di preferenza. Si tratta di un linguaggio ibrido. Vi sono, cioè, mescolanze di caratteristiche umbre ("u" latino rimasto in "Altissimu, nullu, dignu..."; mancato raddoppiamento della "n" in "konfano"; mancata palatizzazione di "diurnus", che diventa "iorno" anzichè "giorno"; "sostengo" con valore di terza persona plurale= sostengono), con tratti fiorentini ( la soppressione di una vocale — o consonante? — a fine parola latina, non causa la metafonesi, cioè il mutamento della vocale precedente, come accade nei dialetti ad est del Tevere, Assisi compresa, ma la lascia intatta, come avviene nei dialetti toscani), con prestiti francesi ("messor" da "monsieur") e con residui latini (et| laude| benedictione| de| cum| iorna| fructi...).
DA S. FRANCESCO A IACOPONE DA TODI.
L’esempio e il movimento di S. Francesco coinvolsero anche il campo letterario in misura imprevedibile. Col suo "Cantico" inizia la "Lauda sacra" lirica, che si evolverà poi in Lauda drammatica (dialogata ed eventualmente recitata in scena), influendo notevolmente sulla evoluzione del "Dramma liturgico" verso forme letterariamente più esigenti. Più genericamente lo spirito francescano (riecheggiante in Italia e fuori, grazie anche, come si è detto, all’aura diffusa dalla figura del santo re Luigi IX) lo si può intuire sotteso ai versi di Guittone d’Arezzo dopo la conversione; non è estranea ai versi (dialettali) di Bonvesin de la Riva e di Giacomino da Verona; ha parte nella ispirazione spiritualistica del Dolcestilnovo e ci dona (ahimè! assieme a molte altre composizioni inutilmente infuocate e retoriche) un altro piccolo capolavoro, con il PIANTO DELLA MADONNA di Jacopone da Todi, che vedremo a parte.
Non sono, però, questi i soli scritti religiosi del Duecento. Solo che le altre prose o poesie sono in lingua latina, sicchè le accenenremo qui per inquadrare più da vicino uno degli aspetti culturali essenziali che preparano la Divina Commedia. Cominciando dalle composizioni in versi, ricordiamo quelle di San Tommaso, entrate nella liturgia per la festa del Corpus Domini: "Pange lingua, gloriosi| Corporis mysterium" (Canta, o lingua, il mistero del glorioso Corpo del Signore); "Adoro Te devote, latens deitas" (Ti adoro devotamente, divinità nascosta); "Lauda, Sion, Salvatorem" (Loda, o Gerusalemme, il Salvatore); "Verbum supernum prodiens" (O Verbo divino, che incarnandoti). Di Jacopone da Todi (probabilmente) abbiamo la notevole Sequenza sulla Passione "Stabat Mater dolorosa", cantata in tutte le chiese cristiane durante la pratica della Via crucis (tradotta nelle lingue nazionali, dopo il Comcilio Vaticano II). Attribuita a Tommaso da Celano (uno dei primi seguaci di San Francesco, che ne scrisse anche la biografia) vi è la giustamente famosa "Sequenza" per la Messa funebre, conosciuta dalle parole iniziali "Dies irae" (pare però sia di anonimo del secolo XII, molto anteriore, quindi). In prosa abbiamo opere fondamentali non solo per la vita culturale e letteraria del tempo, ma rimaste nel patrimonio perenne della filosofia e teologia. Dalle due "Somme" (enciclopedie) di S. Tommaso, il "doctor angelicus", si è già citato. Qui basti accennare che La "Summa theologica" e la "Summa contra Gentes" (filosofica: dimostrazione della fede cristiana contro i pagani o "gentili": le "Gentes idolorum" si oppongono al "popolo di Dio") non sono le uniche opere dell’Aquinate, che nei suoi quarantanove anni di vita (1225 ca-1274) scrisse un’intera biblioteca di volumi. Accanto a lui, domenicano, troviamo il francescano "doctor seraphicus" San Bonaventura da Bagnoregio (1217ca-1274), guardiano generale dell’Ordine, scrittore cordiale di cose spirituali, ben presenti a Dante (Itinerarium mentis in Deum: Itinerario dell’anima a Dio); e della biografia ufficiale del fondatore (Legenda sancti Francisci= cose da leggersi su san Francesco= storia di...). Altre biografie, tratte dalla familiarità col santo assisiate, sono quelle di Tommaso da Celano (Legenda prima sancti Francisci, del 1227-8| Legenda secunda, 1246-7 ca). E ci sono le opere di Jacopo da Varazze: la Legenda aurea, di cui si è già discorso; i Sermones (prediche), il Liber marialis (Libro sulla Madonna). E’ questa cultura che domina ancora nella seconda metà del Duecento e che spiega il viraggio etico-religioso di movimenti interi, come quello del Dolcestilnovo o le conversioni a tale motivo ispiratore in Guittone d’Arezzo e nello stesso Dante Alighieri.
Rimandando a luogo più opportuno autori in lingua volgare pur coinvolti nella ispirazione etico-religiosa (Guittone d’Arezzo, che segna il passaggio tra la poesia siciliana e quella del Dolcestilnovo; Bonvesin de la Riva e Giacomino da Verona, che appartengono a miglior ragione ai poeti didascalici), ci occupiamo qui solo di JACOPONE DA TODI, poeta autentico nel PIANTO DELLA MADONNA (o "DONNA DEL PARADISO").
Vita e ambiente (secondo l’antica biografia a noi pervenuta). JACOPONE DE’ BENEDETTI nacque a Todi fra il 1230 e il 1236 e fu procuratore legale nella sua città: era dunque notaio, cioè laureato a Bologna. Sposo a Vanna di Bernardino dei conti di Coldimezzo, condusse vita brillante, dissipata. Ma il crollo di una soffitta durante una festa uccise la moglie, alla quale fu trovato indosso un duro cilicio (strumento di penitenza con cui espiare la vita mondana cui il marito la costringeva?). Questi due fatti cambiarono radicalmente la sua vita (1268): distribuì le sue ricchezze ai poveri e si fece "bizzocco", persona vivente nel mondo, ma con abito e pratiche dei religiosi. Seguiva la spiritualità francescana, ma a stento e tardi fu ricevuto nell’Ordine come fratello laico: per lo più solitario in vita eremitica, si aggirava altre volte fra la gente, malvestito e come fuor di sè, per farsi deridere e peggio. Una volta accolto (1278), parteggiò in modo acceso per la corrente degli "spirituali", che professava il rigore più severo nell’interpretare la Regola di S. Francesco soprattutto circa la pratica della povertà. I "conventuali", più realisti ed accomodanti, erano il bersaglio dello zelo di fra’Jacopone. La divisione era esplosa dopo la scomparsa di S. Bonaventura (1274), che aveva saputo mediare le diverse esigenze, non inconciliabili. Siccome papa BonifacioVIII (Benedetto Caietani: 1294-1303) si schierò per i conventuali, egli fu tra i ribelli che firmarono —a Longhezza- il manifesto che dichiarava invalide le dimissioni di papa Celestino V e sosteneva la conseguente nullità della elezione di papa Bonifacio. Chiusosi in Palestrina con i Colonna, nemici del Caietani, fu posto in prigione quando, nel 1298, la fortezza venne espugnata (si veda il consiglio fraudolento di Guido da Montefeltro a papa Bonifacio, in Inferno, tutto il c. 27, specie i vv.79-111). Non essendosi egli sottomesso nè disdetto, solo con l’avvento del mite Benedetto XI potè esser liberato nel 1303. Moriva tre anni dopo, in un convento francescano presso Todi (Collazzone).
La individualità di Jacopone. Lo riteniamo un collerico , con poco spirito critico, cioè un "emotivo, attivo, primario (instabile)", senza una intelligenza adeguata a controllare gli impulsi di tale vitalità tempestosa. Dotato, dunque, di una carica emozionale superiore alla media (emotivo) e portato a tradurla in azione (attivo), era però incostante, variabile, instabile (primario) e mancante di uno sufficiente intelligenza che percepisse i suoi limiti accanto alle sue virtù e si sforzasse di equilibrarsi e controllarsi. Ne esce una personalità irrequieta, tormentata e tormentatrice, agitata e conflittuale. Non equilibrato ma estremista, è euforico nella disspazione, tetro nella penitenza. Ardente nella fede, rimase però poco umile, imprudente e ingenuo, senza molta carità. Violento contro se stesso e contro i nemici della perfezione pauperistica, satireggiò grottescamente la propria sorte di prigioniero maltrattato ("Que farai, fra Iacovone? E’i venuto al paragone...") così come i poveri mondani ormai sfatti nel sepolcro ("Quando t’aliegre, omo de altura..") o come il papa nemico ("O papa Bonifazio, molt’hai iocato al monno..."): a se stesso, poi, augurava ogni sorta di mali ("Segnor, per cortesia, mandami la malsanìa..."). E, come nella vita pratica fu uno sconfitto, perchè utopista ed eccessivo in tutto, così rischiò di essere un fallito anche nella espressione poetica: lo salva il PIANTO DELLA MADONNA (o "DONNA DEL PARADISO"). Diamo anzitutto uno sguardo all’opera complessiva.
L’Insieme dei suoi versi. A Jacopone sono attribuiti un po’ più di cento composizioni, quasi tutte Laudi, ma non tutte di sicura paternità. I temi del suo canto (Motivi ispiratori) sono religiosi ed ascetici: si va dalla condanna del mondo e del peccato ("Quando t’aliegre, omo de altura...") alla celebrazione della povertà, dell’amore e dell’allegrezza spirituale ("Povertade ennamorata", "O iubelo del cuore| che fai cantar d’amore!"); dalla polemica contro se stesso ("Che farai, fra Jacovone? E’i venuto al paragone...", "Segnor, per cortesia, mandami la malsanìa..."), alla polemica contro gli uomini di Chiesa ("Plange la Chiesa, plange e dolora...", "O papa Bonifazio, molt’hai iocato al monno"). Gli approdi lirici sono rari: i suoi versi sono sfoghi passionali, che non hanno trovato una decantazione contemplativa completa: sono non emozioni pure, ma sentimenti ancora coinvolti nella attività esistenziale, nella prassi della vita ecclesiastico-politica. Benedetto Croce potrebbe dire (come dice delle tragedie di Vittorio Alfieri) che si tratta di versi che sostituiscono in qualche modo il gesto dell’azione. Sono una specie di scritti propagandistici, materiale per polemica giornalistica o comiziale. Ecco i residui di impazienza, di collera, di malvolere o di autolesionismo che si traducono spesso inespressioni forzate, impacciate, dissone sia musicalmente che intellettualmente. Con questo non si vuol negare quanto già Francesco De Sanctis ha giustamente rilevato proprio nelle composizioni citate, cioè la presenza di qualche momento di sarcasmo o di compassione che salva qualche verso o strofa. Della Tecnica stilistica vale quanto sentensziò amaramente Giulio Perticari: "le sue parole sono spesso coniate alla libera e più veramente alla pazza e tanto ridevoli da degradarne il Zanni della commedia"
Eppure commuove ancor oggi il suo capolavoro, che ha raggiunto quell’attitudine distaccata, serena, impersonale per cui i sentimenti diventano emozione assoluta che convince e coinvolge tutti in consonanza con gli stati d’animo del poeta.
Il pianto della Madonna. Il motivo ispiratore è la passione di Cristo contemplata da quattro punti di vista diversi: quello del discepolo (S. G. Evangelista?), delle folle, di Cristo in croce e della Madonna, la Madre addolorata. La prospettiva del discepolo è l’atteggiamento dello smarrimento e della agitazione; quella della folla, di odio e di rabbia; quella di Cristo Signore, del pieno dominio della morte, nella visione della vicina Resurrezione; quella di Maria, di una mite ma acerbissima sofferenza, di straziante eppur paziente dolore.
I toni lirici: In coerente corrispondenza alle quattro prospettive ideali, stanno i quattro stati d’animo sublimati nella liricità della contemplazione artistica. Il discepolo esprime il dramma della paura e della ribellione impotente. La folla esprime la tragedia della violenza e della eccitazione forsennata. Cristo, vero Pantocrator, cioè signore della vita e della morte, esprime l’epopea pacata della calma sovrana, della regale sicurezza e della divina padronanza degli eventi. La Madonna traduce la dolcezza della sua personalità in una tenera nota elegiaca, che trascorre per tutta la Lauda: è infatti Lei che interloquisce con ogni altro personaggio e dissolve le asperità delle espressioni di folla e discepolo od asseconda la dolcezza del Figlio. C’è in Lei tutta la volontà di bene, l’equanimità, la ragionevolezza, la mite umiltà appresa alla scuola di Nazaret, dove ha raffinato la propria fede e sublimato il proprio amore, mentre educava il Figlio a crescere in sapienza, età e grazia.
Per tutti questi valori lirici, il Pianto della Madonna è buona opera poetica, anche se non un capolavoro supremo.
Note stilistiche. Donna del Paradiso è una lauda drammatica. Spieghiamo i due termini. Dopo S. Francesco, probabilmente ad opera di Guittone d’Arezzo, la Lauda ha assunto la veste metrica della ballata profana, veste che la seguirà in tutta l’epoca classica della sua esistenza (fino al Cinquecento). E’ dunque ormai composta anch’essa di strofe (stanze: parte recitata o cantata da un solista, mentre il coro "sta", cioè è fermo) monorime, salvo l’ultimo verso che rima con l’ultimo verso del "ritornello" o "ripresa", cioè della strofetta (uno, due, tre, al massimo quattro versi) intercalata ad ogni stanza e recitata dal coro in movimento di danza. Nel nostro caso, il ritornello è di tre versi settenari, di cui i primi due rimano fra loro ("Donna del Paradiso| lo tuo figliuolo è priso") e il terzo ( "Iesu Cristo beato") rima con l’ultimo verso di ognuna delle strofe. Queste sono quartine di settenari ("Accurre, Donna, et vide| che la gente l’allide:| credo che lo s’occide,| tanto l’ho flagellato"). In quanto drammatica, la lauda mette in versi i sentimenti del poeta, ma affidandoli all’espressione di più personaggi, che dialogano fra loro, come nell’opera drammatica per eccellenza, cioè il teatro. Il linguaggio risente talora del latino e del Vangelo: questo vien riprodotto alla lettera nel "Crucifìge" nel v. 27; quello affiora spesso sotto la traduzione in volgare (v.2: Jesu Cristo; v. 4: accurre et vide; v. 5: allìde=flagella; v. 19: adiuta; vv.106-7: Ioanne, eletto, appellato...). Il linguaggio tradisce la geografia del suo luogo di origine: è ad est del Tevere che la parlata italica si rivela in contrasto col fiorentino attraverso forme come "l’ho=l’hon=l’hanno" del v. 7; "traduto= tradito" del v.12; "piena=pena, ambascia" del v. 17; ca=che=perchè" del v.21; "pozzo=posso" del v. 25; ecc. La libertà della sintassi jacoponica affiora anche in questa composizione: ad esempio nel v. 44 "figlio occhi iocundi=dagli occhi giocondi"; nei vv. 48-9 "Madonna, ecco la cruce,| che la gente l’adduce..."= ecco la croce e la gente che lo conduce"... Ma nè i latinismi nè le dissonanze rispetto al nostro orecchio (educato alla musicalità del parlare fiorentino) nè un certo permissivismo nel vocabolario e sintassi riescono a spegnere l’onda emozionale, che la Lauda suscita ad ogni strofa nell’animo del lettore. Anche perchè il musicalismo nel linguaggio di ciascuno dei quattro personaggi è così distinto e coerente, da assorbire anche tali vocaboli ed espressioni nel comune timbro del contesto, attutendo il senso delle differenze linguistico-grammaticali. Ci si accorge subito che il discepolo usa molto spesso le dentali in posizione di rima (vide, allide| traduto, venduto, avuto| adiuta, sputa, muta). Viceversa le locuzioni di Maria sono tramate di liquide e nasali (porria, follia, spene mia| Maddalena, piena, se mena| fare, tormentare, mustrare...): Le parole di Cristo si appoggiano pacate alla vocale "a", larga, solenne (lagni, remagni, compagni| mate, caritate, pi"etate) oppure alla vocale media ("e") rafforzata da dentali forti (affletto, metto, eletto).
C) LA PRIMA SCUOLA D’ARTE ITALIANA: POETI SICILIANI NELL’AMBITO DELLA CORTE DI FEDERICO II
I) I PRINCIPALI POETI. Poco dopo la poesia di San Francesco, tra la fine degli anni venti e i due decenni successivi, troviamo un gruppo di poeti che scrivono con una sorprendente unità di motivi ispiratori e di tecniche stilistiche ed appartengono o gravitano attorno alla "Magna curia" (reggia) di Federico II. La comunanza ambientale e quella contenutistico-formale permette di considerarli una SCUOLA, la prima scuola d’arte (poetica) italiana, nota come SCUOLA SICILIANA. Essa è stata la matrice della successiva produzione lirica ed è stata riconosciuta, in questa sua importanza radicale, già da Dante (il quale ne parla sia nel De vulgari eloquentia che in Purgatorio, 24, 49-63) e da tutti i collezionatori di liriche italiane delle origini (tutti i codici che le raccolgono iniziano sempre con i poeti siciliani).
I Nomi dei compositori che appartengono o ruotano attorno alla corte siciliana sono molti, a cominciare dallo stesso Federico II e dal figlio Enzo. Ma la esilità dei risultati propriamente estetici della più parte di essi consiglia di segnalare qui solo i nomi più importanti o comunque più conosciuti (anche se per motivi non poetici), salvo a riparlare più estesamente di quei compositori che ci hanno lasciato versi artisticamente validi.
GIACOMO DA LE’NTINI (notaio di Federico, noto perciò come "il Notaro" per antonomasia): animatore del gruppo e autore, fra l’altro, del sonetto "Io m’aggio posto in cuore a Dio servire".
PIER DELLE VIGNE: gran cancelliere dell’impero.
PERCIVALLE DORIA: podestà imperiale in Italia ed in Provenza e poeta anche in lingua occitanica.
STEFANO PROTONOTARO, messinese, forse più giovane degli altri (visse fino al 1300), ci ha lasciato una canzone fortemente sicilianizzata nella lingua, cioè secondo la scrittura più probabilmente autentica e comune a tale gruppo, scrittura che fu poi "toscanizzata" dai critici-collezionisti, fiorentini, dei secoli seguenti.
RINALDO D’AQUINO: autore della canzonetta "Già mai non mi conforto".
GIACOMINO PUGLIESE: autore, fra l’altro, di quattro canzoni discrete: "La dolce cera piagente", "Isplendiente stella", "Donna, di voi mi lamento", "Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra?".
GUIDO ed ODO DELLA COLONNE: forse parenti (erano entrambi di Messina). Del primo (GUIDO) si conoscono cinque canzoni molto lodate da Dante nel De Vulgari eloquentia (vi sono anche atti pubblici che egli redige od in cui è nominato). Ma i suoi versi non dicono molto alla nostra emotività, anche se tecnicamente perfette. Al secondo (ODO) succede l’opposto: sprovveduto di qualsiasi riferimento documentario che ce lo faccia conoscere come persona storica, oggi si vede contestata anche la paternità di una canzonetta che, invece, ancor parla al nostro cuore: "Oi lassa ‘namorata".
L’AMBIENTE IN CUI SORGE LA SCUOLA SICILIANA.
Due le componenti che caratterizzano tale ambiente: l’una, strettamente letteraria; l’altra, politica. Politicamente, la Scuola Siciliana è legata alla "corte ideale" di Federico II ed alla sua persona.Una conseguenza potrebbe essere quella della univocità dell’argomento dei canti (quello amoroso), che esclude ogni motivo politico od etico. Letterariamente, i rimatori siciliani si pongono programmaticamente, puntigliosamente sulla scia della poesia provenzale. Vengono a costituirne quasi la provincia italica, così come il "Minnesang" (poesia d’amore cortese) ne fu la "marca" tedesca. Si deve però ricordare che la Scuola siciliana nasce quando la crociata contro gli Albigesi ha avviato l’assorbimento della civiltà provenzale da parte della cultura francese del Nord: la poesia occitanica denuncia la sua età attraverso la sofisticazione dello stile chiamato "trobar clus" o versificazione ermetica. Parallelamente, il contenuto si andava purificando, preparando il terreno a quel Guglielmo di Montanhagol (1229-58), che canterà un amore elevante, edificante da cui muove la castità ("D’amor mou=muove= castitatz") come ogni altra virtù. Per tale "acculturazione", da una parte la versificazione dei "Siciliani" risulterà formalmente perfetta, ma anche difficile e manieristica; dall’altra, molto più castigata risulterà la loro produzione rispetto a quella provenzale del periodo classico. A spiegare,poi, la loro conoscenza e sistematica sequela della "dottrina poetica" e dei modelli concreti occitanici, si tenga presente il fatto che la più parte di tali verseggiatori erano reduci dagli studi universitari di Bologna, sicchè la esigenza di perfezione metrica e di levigatezza musicale era un abito, che li sorreggeva al lavoro di "lima" e di rifinimento delle loro composizioni.
Mediatori tra la poesia provenzale e quella italo-siciliana furono vari trovatori vissuti in Italia o alle corti di vari signori, come Aimeric de Peguilhan ( presso gli Estensi a Ferrara ed i Malaspina in Lunigiana) o direttamente al servizio di Federico e dei suoi alleati (Elia Cairel, provenzale; Folchetto Romano, italiano, della famiglia di Ezzelino).
III) MOTIVI ISPIRATORI GENERALI. Dire che l’unico tema cantato è quello amoroso è un po’ troppo, anche se non è lungi dal vero. I rimatori siculi si dedicarono a mettere in versi (mediante il componimento detto "tenzone") anche questioni sapienziali, subfilosofiche. Ma le due tenzoni di Giacomo da Lentini, in dialogo discorde ora col solo abate di Tivoli, ora con Pier delle Vigne e Jacopo Mostacci, riguardano ancora la "natura d’amore". Eccoli allora a cantare l’amore proprio a partire dalla sua definizione ("Amore è un desio che ven da core": Giacomo Da Léntini, sonetto) per proseguire poi con la protesta del proprio sentimento e con la richiesta del contraccambio ("Meravigliosamente": canzonetta dello stesso); dal giubilo per la corrispondenza ottenuta ("Per fin’amor vao sì allegramente": Rinaldo d’Aquino; "Gioiosamente canto": Guido delle Colonne) al lamento per la sordità della donna ingrata ("Madonna, dir vi voglio": G. da Lentini); dallo sconcerto per la cessazione di un legame già sicuro ("Poi non mi val merzè nè ben servire": dello stesso) alla disperazione, ora per il tradimento (canzonetta "Oi lassa ‘namorata" : Odo delle Colonne?), ora per la partenza dell’amato (canzonetta "Già mai non mi conforto": Rinaldo d’Aquino), ora per la morte della donna ("Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra?": Giacomino Pugliese)... E’ esclusa la ispirazione politica, che si imporrà invece , assieme al tema morale, nei prosecutori toscani, da Guittone d’Arezzo a Dante Alighieri. Questo non significa che siano assenti scrupoli etici o fede religiosa, ma sono attitudini che sono richiamate solo in riferimento alle vicende amorose: così G. da Lentini, nel sonetto "Io m’agio posto in core a Dio servire" esclude l’erotismo dal suo affetto amoroso; Giacomino Pugliese si lamenta con il Signore che gli ha tolto la sua donna, salvo ad arrendersi rassegnatao al Suo volere; per R. d’Aquino, si veda "Già mai non mi conforto".
IV) VALORE LIRICO. Si è già lasciato intendere che alla perfezione tecnica non corrisponde una grande carica lirica nella enorme maggioranza delle composizioni: tanto che di molti esponenti abbiamo trascurato persino i nomi. Va detta qui anche una delle cause ambientali (che si aggiunge, ovviamente, alla presenza od assenza della genialità poetica dei singoli compositori, sorgente prima del successo o meno dei loro versi): i trovatori occitanici, maestri dei nostri siciliani, rivolgevano le loro peosie d’amore a donne sposate o addirittura alla "castellana", cioè alla moglie del signore che era loro ospitante e mecenate. L’amore, in tale contesto, può esprimersi come "omaggio" (celebrazione della bellezza, saggezza, virtù...) o come "devozione" (riconoscenza e volontà di servizio): e fermi lì! Nei poeti siculi, a dir il vero, c’è molta più libertà nella scelta delle donne del loro canto (che di solito paiono o vere innamorate o liberamente sdegnose), tuttavia la cautela socio-politica dei loro modelli provenzali sembra passata loro in eredità. Il risultato è una notevole aridità di sentimenti e genericità di espressioni, che rasentano facilmente la retorica; o, comunque, rivelano che la preoccupazione tecnica ha emarginato l’espressione lirica. Ma già i critici romantici del secolo diciannovesimo han saputo segnalare i non molti componimenti che sono emotivamente vivaci, portatori di un plus-valore estetico: il loro giudizio rimane insuperato, ci pare, ai fini della storia letteraria (anche se non si vuol negare interesse agli studi di tecnica stilistica sorprendentemente progrediti nel secolo ventesimo). Possiamo gustare ancor oggi alcune delle poesie già segnalate come testimoni dei motivi ispirtaori, cui dovremo aggiungerne poche altre: del Notaro G. da Léntini, il sonetto "Io m’agio posto in core a Dio servire"; di Rinaldo d’Aquino, la canzonetta "Già mai non mi conforto"; di Odo delle Colonne (?), la canzonetta "Oi lassa ‘namorata"; di Giacomino Pugliese, le canzoni "Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra" , "La dolce cera piagente", Isplendi"ente stella, Donna, di voi mi lamento". Composizioni appena discrete, cui si fa fatica ad aggiungere qualche altra "lucciola" di intermittente e debole splendore. C’è il già citato sonetto "Amore è un desio che ven da core" del Notaro: fa parte di una tenzone con Jacopo Mostacci e Pier delle Vigne; o i due versi che Carducci cita da una canzone di quest’ultimo ("O potess’io venire a voi, amorosa,| come il ladrone ascoso, e non paresse!"): ma, letti nella lingua originale, che il poeta maremmano toscanizza abbellendola, anche queste due "perle" si riducono a povera cosa, versi ostici e scialbi per rozzezza linguistica...
V) TECNICA STILISTICA. 1) Ermetismo e giochi di parole (trobar clus). Si è già detto che questa scuola, nascendo a ridosso della ormai sofisticata poesia occitanica, rischia di gareggiare con essa in complicazioni intellettualistiche, in una espressione ermetica, in un parlare coperto, quale per primo aveva introdotto il guascone Marcabruno nel secolo XII. Ecco degli esempi di queste prevaricazioni verbali: "Eo viso e son diviso da lo viso| e per aviso credo ben visare;| però distinguo viso da lo viso,| ch’altr’è lo viso che lo divisare" (G. da Léntini). Sempre del Notaro sono questi altri "concettini" presecentisti: "Oi lasso, lo meo core| che in tante pene è miso;| che vive quando more| per ben amare, e teneselo a vita" (dalla canzone "Madonna, dir vi voglio"); "A l’aire claro ho visto piogia dare,| ed a lo scuro rendere clarore;| e foco arzente ghiaccia diventare,| e fredda neve rendere calore..." (tutto il sonetto procede così, con altri esempi dalla fenomenologia naturale, per dimostrare i contrastanti effetti dell’amore nell’anima innamorata). La tendenza al "gioco stilistico", alla bravura sbalorditiva continuerà anche nei rimatori siculi-toscani (in quella che un tempo si chiamava "scuola di transizione" al Dolcestilnovo).
2)La prima "scuola d’arte" in Italia.Tali sottigliezze espressive non devono però venir considerate soltanto come segno di aridità affettiva e di abuso (per compenso) del calcolo intellettuale. Esse sono anche la testimonianza di una coscienza "estetica" ben precisa, che eleva questi compositori ben al di sopra dei giullari di piazza e dei cantastorie conviviali. L’impegno e la serietà di questi candidati poeti implica infatti la cosapevolezza che il loro scrivere ha un valore indipendente dalla ricerca di guadagno (giullari) o dalla edificazione etico-religiosa (composizioni liturgiche) o da altre finalità pratiche (sollecitazione di istinti o eccitazione di passioni per attirare lettori| ascoltatori; o sobillare le masse): la poesia è percepita come attività seria, impegnativa, degna della intelligenza e spiritualità dell’uomo. Purtroppo neppure essi possedevano, però, una dottrina estetica precisa, sicchè finivano per scambiare la indipendenza della bellezza artistica da ogni finalismo pratico-utilitario come assenza di ogni contenuto intellettuale od affettivo quale punto di partenza (motivo ispiratore), da cui elevarsi poi allo stato spassionato delle emozioni pure, che si esprime in moduli verbali capaci di ridestare lo stesso stato d’animo nel fruitore. Ed ecco allora quel fenomeno, solitamente segno di stanchezza e vecchiaia di una moda poetica, che consiste nel sottovalutare il tema del canto, per concentrarsi sulle formule espressive o tecnica stilistica. Si giunge a comporre all’insegna di un (inconsapevole, per ora) programma di "arte per l’arte", di "poesia pura", che ricerca una bellezza così assoluta da escludere ogni contaminazione sentimentale, ogni premessa ideale. Ci si concentra allora sulle ingegnosità espressive, riducendo la letteratura ad una gara di acutezze intellettuali e di sorprese stilistico-espressive. Si passa da un’estremità all’altra.
3)Toscanità e sicilianità nelle composizioni della prima scuola d’arte italiana. La lingua in cui si presentano i versi dei poeti siciliani nei codici più antichi (il Vaticano 3793 ed il Laurenziano-rediano 9) non è molto diversa da quella di Dante, dalla lingua poetica anche recente. La cosa è apparsa strana a chi ha riflettuto che il primo Duecento era ben lontano dalla convinzione che la lingua toscana dovesse valere come lingua nazionale. In realtà dominava il pluralismo più libero, sicchè risulta impensabile che in Sicilia si conoscesse ed accettasse il "volgare" fiorentino. Il problema è di non facile soluzione. Van tenute presenti due circostanze storiche: l’ una, di composizione dei testi; l’altra, della loro trasmissione. Cominciamo da quest’ultima, la più chiara. Il testo da noi letto oggi è quello trascritto da copisti dell’area toscana, che "correggevano" secondo la loro parlata il dettato che avevano sotto mano (cosa normale per i criteri di trascrizione del tempo). La conferma ci viene da due riscontri. Un filologo del Cinquecento (G.M. Barbieri) ci ha tramandato il testo fedele di una intera canzone di Stefano Protonotaro e di frammenti di composizioni del re Enzo, nella lingua originale: questa risulta molto sicilianizzata, anche se non coincide perfettamente con il linguaggio che (a partire dal sec. XIV) abbiamo di scritture prosastiche in dialetto siciliano. Ancora: il confronto fra gli stessi codici toscanizzati rivela diversità di correzioni, che lasciano intravedere facilmente il testo corretto: a livello di vocali in rima, almeno. Segnaliamo alcune di queste particolarità. Il siciliano non trasforma le vocali "brevi" del latino, come indicato a suo luogo per il passaggio al volgare fiorentino: rimangono immutate. In compenso, "E" ed "O", in fine di parola e senza accento, diventano rispettivamente "I" ed "U". Avremo risultati di questo genere: "pilu| nuce" fan rima con "filo| luce| velo| voce"; "perisca, con incresca"; "gire, con gaudere"; "avete, con vedrite"; "ride" con "vede"; "servire", con "valere"; "amuri" è "amore" e "doluri" è "dolore";"ridente" diventa uguale a "ridenti"; "ch’eo stesse" è = "ch’io stessi"; "tormente = tormenti"; "mi pare = tu mi pari (sembri)"; "Deo, meo, reo, eo" non diventano "Dio, mio, rio, io"...
Più complessa la seconda circostanza, che risulta dal confluire di atteggiamenti psicologici e sociali. Ci sembra che si debba estendere il principio estetico di fondo (dignità, anzi nobiltà del fare poesia) ad un corollario spontaneo: la lingua per una tale poesia deve essere quale la voleva Dante: illustre,aulica, curiale, cardinale... Di qui la tendenza a creare una lingua media o comune, che risultasse bensì dal contributo delle parlate locali, ma tendesse a riunirle e superarle in un linguaggio che fosse comprensibile ed accetto alle "élites" degli studenti e laureati della penisola. Benchè lo studio comparato dei manoscritti ci riveli un sottofondo siciliano nelle composizioni dei poeti federiciani, tuttavia la vicinanza complessiva della trama linguistica alla lingua toscana rimane inspiegabile senza altre chiavi di lettura. Con quali criteri, sotto quali spinte si è, dunque, formata la "coinè" letteraria di cui si deve sospettare, per comprendere la troppo poca sicilianità della lingua della scuola siciliana? Ci paiono utili questi tre criteri di spiegazione: la conoscenza e l’uso comune del latino; la sede universitaria di Bologna, ambiente di coagulazione delle varie parlate neoromanze d’Italia; il riferimento alla ormai famosissima poesia provenzale come a modello obbligato. a) La lingua latina era la base dello studio per ogni aspirante alla università: e tutti i compositori della "magna curia" imperiale erano addestrati all’uso cancellieresco della lingua ufficiale dell’Europa cristiana. Ora, l’uso vivo (anche se approssimativo, come si è detto a suo luogo) della lingua originaria dei vari dialetti d’Italia smussava le evoluzioni regionali, per riportare facilmente ad un linguaggio il più vicino alla lingua madre. Tutti sono spinti all’impiego di un linguaggio il più vicino possibile alla lingua di Roma anche dal pregiudizio che i dialetti usati dal popolino sono "volgari", cioè indegni di accedere alla espressione di una poesia che aspirasse alla gloria e non al divertimento, che cantasse i temi della virtù, della guerra e dell’amore, i tre più alti argomenti del parlare e comunicare umano (cfr. Dante: De vulgari eloquentia). b) Anche più banalmente, bisogna ricordare che a Bologna, all’alma mater studiorum, occorreva pur intendersi fra studenti della stessa nazione e che, ammesso pure l’assenza di qualsiasi altro fattore di accorpamento dei vari linguaggi italici, il solo gioco del libero incontro degli studenti, avvantaggiava decisamente la lingua della sede universitaria e del gruppo di studenti quantitativamente maggioritario. Naturalmente la legge della gravitazione era in favore della massa maggiore di studenti settentrionali, mentre la lingua più vicina al latino si rivelava il toscano: in favore di questo idioma neolatino giocava cioè il primo motivo (sociale) ed il secondo (psicologico), senza dire del probabile peso qualitativo della maggior musicalità della continuazione del latino in bocca ad un fiorentino, rispetto a tutte le altre trasformazioni regionali. E ancora: a Bologna insegnava Guido Faba (o Fava, nato prima del 1190; autore di libri per una elegante prosa latina già nel 1229; iniziatore della prosa illustre volgare con "Gemma purpurea" e con "Parlamenta et epistole" del 1239; morto dopo il 1243), che doveva stimolare l’amore per una lingua volgare non indegna del modello latino, visto che le ultime due opere presentano modelli di discorsi e lettere nelle due lingue. A Bologna, egli insegnava già nel secondo decennio del Duecento: ne avran sentito l’influsso i curiali federiciani nella loro giovinezza di studenti? c) Infine va tenuto presente il riferimento alla poesia provenzale: questa finiva per favorire la scelta di parole più vicine alle parlate settentrionali che non agli idiotismi meridionali o, addirittura, per suggerire vocaboli estranei ad entrambi i gruppi di idiomi, ma divenuti patrimonio comune alla nascente lingua poetica, dovunque venisse impiegata.
Non che si pretenda di comprendere il complicato interferire di una parlata italica con le altre, ma forse il triplice fattore latino-bolognese-occitanico rende più comprensibile il convergere verso il toscano, pur nelle peculiarità siciliane, dello strumento espressivo della prima scuola poetica in Italia.
4)Residui della lingua latina e provenzale. Come per il Cantico di S. Francesco e per i versi di Jacopone, la lingua latina affiora quasi intatta (Rinaldo d’Aquino, Già mai non mi conforto, la espressione ripetuta due volte: "O santus, santus Deo") oppure in compromessi evidenti (ivi, il vocabolo "la die" per "il giorno").
Più insistenti le reminiscenze franco-provenzali (oitaniche ed occitaniche). Basti qualche esempio da G.da Lentini: allumina (illumina), leanza (lealtà, fedeltà), ben appreso, nodruto ed insegnato (ben educato, allevato e formato), caunoscenza (saggezza), (i)ntamato (leso),plagenza (piacere), dottanza (timore), aigua (acqua), allungato (lontano), arrosa (irriga), la dolze mi’ amore (il mio...), ciera (volto), la flor (il fiore), cominzare, amanza, amistade, amistanza, intendenza, ascio (agio| ho), disascio (disagio), gioia (è parola rimasta: ma si trova anche "gioi, gio’ e gaugio"), sol(l)azzo, argoglio, avenente, g(i)ente (gentile), adesso (parola rimasta: ma dapprima significava "subito"), longiamenti (lungamente), miraturi (specchio), tutisuri (=toujours= sempre)...
4)La metrica della Scuola siciliana. a)Gli schemi compositivi son quelli dei Provenzali (canzone, canzonetta, discordo, tenzone, sirventese, contrasto o pastorella o villanella), con una sola novità: il sonetto. Forse inventato da G. da Lentini, è probabilmente una stanza isolata di canzone. Benchè si trovino anche sonetti di sedici endecasillabi, ben presto la sua metrica si stabilizzerà definitivamente: quattordici endecasillabi, divisi in due quartine e due terzine. Le quartine ammettono solo due rime; le terzine, anche tre. La posizione delle rime può variare (alternata ABAB o baciata, accoppiata AABB o incrociata, chiusa ABBA).
b)Va per altro notato come in questa prima generazione di poeti la precisione metrica non è sempre osservata. La mescolanza od indistinzione tra settenari, ottonari e novenari è già presente in Jacopo da Lentini. Ad esempio la canzone "Guiderdone aspetto avere" presenta ottonari nella fronte, settenari nella sirma, un novenario nella fronte della terza stanza ("Fina donna, ch’eo non perisca"), mentre quaternari e quinari si alternano in libertà nel terzo e sesto verso di ogni stanza. L’anisosillabismo (ineguaglianza nel numero delle sillabe) trova una ragion d’essere probabile nella mancata coscienza che quanto interessa pel musicalismo metrico non è tanto il numero delle sillabe, ma la posizione dell’ultimo accento nel verso, anche se il verso prende il nome dal numero di sillabe più solito, che è quello del verso che termina con parola piana (accento sulla penultima sillaba: la posizione di gran lunga più solita per la lingua italiana). Tale disorientamento era facile per verseggiatori che avevano i loro modelli più ovvi nelle lingue francese (oitanica) e provenzale (occitanica), che hanno l’accento sempre sull’ultima sillaba pronunciata (sono praticamente tutte parole tronche). Un verso di otto sillabe in tali lingue corrisponde in realtà ad un novenario italiano, perchè si tratta di un verso che finisce in parola tronca e conta perciò una sillaba in più. c) parallelo è l’anisostrofismo, la irregolarità metrica per cui non sempre le strofe hanno lo stesso numero di versi. Nel "Notaro" troviamo questo fenomeno per il discordo "Del cor mi vene", che imita il turbamento del cuore e il susseguirsi di sentimenti diversi anche nel relativo disordine di versi e strofe (un po’ come nel ditirambo greco). d) In compenso si hanno tecnicismi di una perfezione allucinante, come nelle canzoni "unissonans", cioè costruite tutte sulle stesse rime della prima stanza, rime che quindi si rincorrono di strofa in strofa nelle medesime posizioni (esempio del Notaro: "Ben m’è venuto prima cordoglienza"); o come in quelle dette "capifinidas", cioè costruite in modo che l’ultima parola di una stanza sia anche la prima della strofa seguente (sempre di G. da Lentini: "Poi no mi val merzè nè ben servire": che è anche unissonans!).
ALCUNI POETI LIRICAMENTE SIGNIFICATIVI.
GIACOMO DA LENTINI (il "Notaro"). Si hanno di lui atti pubblici dal 1233 al 1240. Considerato iniziatore della "scuola", occupa il primo posto in ogni collezione di poeti siciliani. Primo ad usare il sonetto, lo si considera suo inventore. Ci ha lasciato circa 40 composizioni: canzoni, sonetti, un discordo e, in più, la partecipazione ad una "tenzone" sulla natura d’amore tra Jacopo Mostacci e Pier delle Vigne; e ad un’altra con l’abate di Tivoli. Appena tollerabili ci sembrano i sonetti "Amor è un desio che ven dal core"; "Madonna ha in sè virtute con valore" e "Chi non avesse mai veduto foco". Venato di lirismo autentico, l’altro: "Io m’aggio posto in core a Dio servire", ove note di idillio candido si alternano col sorriso di umorismo discreto, in un gioco tra ingenuità e malizia che rende simpatico l’autore, anche se rischia di operare una "dissolvenza incrociata", per la sovrapposizione elidente (corrosiva) dei due contrastanti stati d’animo.
GIACOMINO PUGLIESE. E’ un poeta difficile da identificare come personaggio della curia di Federico. Più valorizzato dai critici romantici e positivisti del secolo diciannovesimo che dagli antichi: Dante non lo cita nel De vulgari eloquentia. Pur nella esilità del canzoniere pervenutoci (sette tra canzoni e canzonette, più un discordo), presenta però almeno quattro composizioni esteticamente sufficienti: "La dolce cera piagente", "Isplendi"ente stella", "Donna, di voi mi lamento", "Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra?". Il motivo ispiratore è unico: l’amore: Ora è celebrativo, ora è polemico, ora è luttuoso, ma i toni lirici sono soltanto contemplativi, oscillanti fra l’idillio e la elegia. La celebrazione, dunque, non è epica; non drammatica è la polemica; non ribelle, la protesta contro la morte, che gli ha tolto la donna amata. Alla radice di questa univocità di tono lirico (un idillio mesto ed una tristezza consolata) sta naturalmente la psicologia del poeta: quella stessa probabilmente, per cui il suo nome "Giacomo" è stato spontaneamente tradotto nel diminutivo. Si tratta di un’anima timida e discreta, più inclinato alla mestizia meditativa che alla stessa gioia pacata. In "Donna, di voi mi lamento" c’è una parte vivace e battagliera: è quella della donna, la quale (figuriamoci se se ne sta zitta!) risponde non senza ironia alle garbate rimostranze dell’innamorato. Per raggiungere drammaticità ed umorismo, Giacomino Pugliese deve attribuirle ad altra persona, deve uscire da se stesso. La stessa canzone "Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra" è sì una protesta contro la villana potenza "che non ha(i) pietà(nza)", ma fatta in tono da gentiluomo, che non trasmette sdegno ma commozione e che finisce con la rassegnazione ("or sia il voler di Dio, da ch’a’ llui piace") e con una tenera preghiera: "La Sua virtude sia, bella, con teco| e la sua pace". La tecnica stilistica è in perfetta coerenza (come sempre, nelle poesie riuscite) con i toni lirici. Troviamo, infatti, domande flebili, sofferte, inutili, da quella che apre la canzone ("Morte, perchè...") a quelle che riempiono tutta la terza stanza ("Oi Deo, perchè m’hai posto in tale iranza?... Madonna, chi lo tene lo tuo bel viso?...) a quella che si prolunga per metà della stanza successiva ("Ov’è Madonna e lo suo insegnamento... e cortesia?"). La musicalità conferma la congenialità del tono elegiaco in Giacomino:la prevalenza di liquide (L,R, GL) e fruscianti (S,Z) è fin eccessiva; anche le nasali sono in buon numero, con le palatali C(i) e G(i), sebbene in frequenza meno sproporzionata del gruppo precedente. In fatto di musicalismo, si è però sorpresi dalla durezza della non grande schiera dei suoni forti. Pochi, sì, ma decisi: gutturali (CH, GH), dentali, labiali si schierano a battaglia fin dal primo verso di "Morte, perchè m’hai fatto sì gran guerra?"Come mai non comunicano il senso drammatico, nonostante il rafforzamento che viene loro dalla presenza nunmerosa di vocali larghe, anche in posizione di rima; e dalla vocale "I" con iato (sia, mia, compagnia) che risulta suono stridente, tagliente? E’ il contesto di liquide e nasali che prevale: almeno fino a un certo punto. Si vuol dire: la impressione finale è quella detta: elegia prevalente. Ma quanta parte ha la musicalità nell’attenuarla, ridurla di efficacia e di calore? La doppia tastiera sonora su cui gioca il poeta è un segno sicuro di una certa distonia della sua anima, cioè di una tendenza ad oscillare da un estremo all’altro degli stati d’animo; ma è causa di una sminuizione della potenza lirica, per cui la poesia di Giacomino è sufficiente e leggibile con gusto... ma non troppo sovente, chè non affascina nè commuove a fondo.
RINALDO D’AQUINO. Attivo già prima del 1230, visto che la canzonetta "Già mai non mi conforto" riguarda sicuramente la sesta crociata che fu attuata (si fa per dire) da Federico II fra il 1227 e il 1229: "le navi sono al porto e vogliono collare" (partire dal porto di Brindisi). Che fosse fratello di S.Tommaso d’Aquino è stato supposto, ma senza documenti probanti. Dante ne cita la canzone "Per fin’amor vao sì allegramente", per motivi stilistici: da un punto di vista artistico hanno ragione i romantici a salvare solo il "Lamento per la partenza del crociato". Esso presenta unità sostanziale, pur nella dispersione dei dettagli nel motivo ispiratore: la disperazione per l’abbandono dell’uomo amato che parte per la guerra. Il tono lirico è drammaticamente coerentissimo. Sembra proprio di udire una ragazza così agitata per la notizia dell’inevitabile distaccoe imminente, da perdere la testa e parlare in maniera discontinua, quasi fuori di senno. La amarezza del fatto in sè; la stizza che egli neppure l’abbia avvisata della partenza; la rievocazione di un amore tempestoso, contrastato dai genitori e pagato di persona dalla ragazza, che pure ne è sempre affettivamente prigioniera; la imprecazione contro l’imperatore, che dovrebbe mantenere la pace e invece organizza le guerre (don Abbondio, nel c. 29 dei Promessi, verso il castello dell’Innominato, riprenderà l’argomento!); la preghiera insistente al Signore, perchè riconduca sano e salvo l’uomo che parte al servizio della Sua "santa cruce": tutto pare così spontaneo e vero, che quando nell’ultima strofa esce fuori la richiesta ad un verseggiatore di scrivere per lei un sonetto da far pervenire al crociato, dispiace. Dunque, la canzonetta è un puro esercizio poetico di un rimatore scaltrito (Rinaldo, appunto), in stile popolareggiante, non senza qualche sorrisetto di canzonatura alle spalle della giovane imprudente, cascata —anche lei!- in un amore di caserma che si poteva ben prevedere come sarebbe andato a finire... Ma è notevole che il poeta, partendo da un motivo che non lo tocca da vicino (anche se di esperienze del genere avrà avuto più volte notizia), abbia saputo incarnarsi nel personaggio, ricostruendo un guazzabuglio di sentimenti e di ricordi, di timori e di speranze quali una ragazza di popolo si immagina possa soffrire davvero in un caso simile; e soprattutto partecipare, cordialmente, al tumulto affettivo della giovane, che la fa vagare a sbalzi da un particolare all’altro, ma sempre nella coerenza del tormento, dell’angoscia, dell’agitazione. Guazzabuglio di rievocazioni, ma tenacia di sentimento: una ragazza con poca testa e molto cuore: simpatica alla fin fine nonostante la sua ingenuità, grazie alla malizia del poeta! La canzonetta è in otto strofe di otto settenari ciascuna, con schema di rime ababcbcb. Vi si incontrano residuati latini (già segnalati: la die| santus Deus) e francofoni (la dolze mi’ amore| dottata = temuta| giente = gentile) nonchè meridionalismi (abentare = aver pace, riposare). La musicalità è franta (rotta, cioè forte e triste), con vocali prevalentemente larghe (forti, quindi) in posizione ictata e qualche consonant duretta (T+R: "contrata"): ma la più parte delle consonanti è inclinata alla dolcezza delle liquide, nasali, fruscianti, palatali: tristezza ribelle, arrabbiata,disperata, insomma.
LAMENTO DI DONNA ABBANDONATA (già attribuita ad Odo delle Colonne). Rimasta adespota, dopo che i critici hanno messo in forse la stessa esistenza di un Odo delle Colonne, cui era tradizionalmete attribuita, la canzonetta merita, però, citazione ed esame per la forza di certe espressioni, che non trovano paragone in tutta la letteratura della Scuola siciliana. "Oi lassa ‘namorata" è il grido straziante di una donna gelosa per l’intromissione di una mala femmina a contrastare il suo amore. L’indigrnazione esacerbata non è però portata alla purificazione totale dalla passionalità pratico-operativa: si sente la rabbia beluina non del tutto decantata in versi come questi: "O Dio, chi me lo intenza (contende)| mora di mala lanza| e senza penitenza"; "ma fer’illa che il tene (colpisci colei che lo tiene prigioniero del suo amore)| aucìdela sen(za) fallo". Per questo la canzonetta piace fino a un certo punto: non è sublime, ma mediocre. Si noti che il difetto è radicale, non occasionale: anche l’idillio che occupa la penultima strofa e gli ultimissimi versi (a comminciare da "Va’, canzonetta fina,| al buon aventuroso...") non convince del tutto: c’è un’ansia di efficienza che rovina il vagheggiamento amoroso. Il musicalismo è coerentemente drammatico: le vocali larghe ictate (le poche tenui sono accentuate e diventano taglienti: pria, balìa, fina...) lavorano in sinergismo a consonanti forti (dentali, labiali, gutturali) con abbinamenti aspri (pr, rg, rn...).
RIMATORI SICULO-TOSCANI (O DI "TRANSIZIONE" AL DOLCE STILNOVO)
I)Le circostanze della transizione. Quale sia stata la causa per cui si ritrovano nel Centro Italia (e più specialmente in Toscana) i risultati e la imitazione della Scuola siciliana, dopo la morte di Federico II, è problema non del tutto chiarito. Non che manchino ipotesi ragionevoli per una soluzione della questione, ma si tratta di induzioni, senza prove di fatto (confessioni degli interessati o testimonianze di contemporanei). Ad esempio si fa notare che re Enzo, figlio dell’imperatore, fu prigioniero in Bologna dal 1249 (battaglia alla Fossalta, in cui fu catturato) al 1272 (anno della morte): avrebbe lui diffuso la consuetudine. Si risponde che, al più, Enzo potè accentuare una traslazione già in atto, perchè è inverosimile che Bonagiunta degli Orbicciani (nato nel 1220 ca e coinvolto in documenti pubblici già nel 1242) abbia atteso i trent’anni per comporre poesie, anche perchè, nel 1249, non era più studente a Bologna. Si fa allora notare che a Bologna dovevano pur aver diffusione le novità letterarie, per il fatto solo che vi era una massa di studenti, nell’età in cui moltissimi si sentono poeti e inclinati a scrivere in versi: come era nota la produzione (declinante) in lingua provenzale, così doveva circolare la produzione siciliana. E’ il ragionamento già addotto: il "crogiuolo" della università come sorgente prima del linguaggio sovraregionale usato dagli scrittori della scuola siciliana. Ma resta allora da giustificare il fatto che non solo i quattro nomi degli imitatori—innovatori più noti della poetica sicula sono tutti e solo toscani (Bonagiunta, di Lucca, Guittone di Arezzo, Chiaro Davanzati e Compiuta Donzella, di Firenze), ma che anche i minori e minimi (e se ne citano una trentinafanno capo a città toscane, come Lucca e Pisa, Pistoia e Siena. Ci sembra che ai due fattori ambientali prima esposti (università di Bologna e presenza di re Enzo) si debba aggiungere la padronanza della espressione verbale e il gusto per l’arte in genere e per la letteratura in particolare, così frequenti nella popolazione toscana. Che Bonagiunta e Guittone si siano trovati a Bologna, lo dimostra la loro attività (giuridica, pel primo e politica, per il secondo): l’hobby della poesia perdurò nel passare degli anni verdi e nonostante la loro professione ed i loro impegni pratici. Chissà quanti, provenienti da tutta Italia, avran sentito il fascino delle muse: ma sarà stata infatuazione adolescenziale: la costatazione che "litterae non dant panem" li avrà poi ristretti alle sole attività pratiche e redditizie...
Ma il fatto che i tre rimatori siano tutti toscani e si conoscano ed anzi si scrivano (Guittone a Compiuta Donzella), non autorizza a parlare di una "scuola": manca un programma e un punto di riferimento nuovi. Essi prendono le mosse dal modello dei Siciliani e, quando innovano rispetto a loro, corrono ciascuno il certame poetico secondo un proprio, singolare sviluppo interiore. "Scuola", no, dunque: ma "transizione", sì. Difatti sarebbe difficile spiegare il sorgere del Dolcestilnovo senza la mediazione di Guittone d’Arezzo, il quale introduce per primo la tematica etico-politica fra i motivi ispiratori della poesia profana. E’ per questo che continuiamo a considerare Guittone il poeta più importante del gruppo, nonostante che Bonagiunta lo preceda e, probabilmente, abbia aperto lui la strada alla imitazione della prima scuola d’arte in Italia. Con la sua produzione di cinquanta canzoni e di duecentocinquanta sonetti (o giù di lì), egli è divenuto il faro cui si rivolsero i candidati alla poesia della generazione fra il milleduentocinquanta ed il milleduecentosettantacinque, fra cui Guido Guinizelli che, accostatosi alla poesia come seguace dell’Aretino, ad un certo punto se ne stacca polemicamente, per una espressione più spontanea e pià calda, più cordiale e meno intellettualistica. Ecco, l’analisi che Dante fa per spiegare il successo delle proprie rime a Bonagiunta, trovato in Purgatorio (24, 52-63: "Ed io a lui: - Io mi son un che quando| Amor mi spira, noto, e a quel modo| che ditta dentro, vo significando"), ci pare da interpretare nel senso ovvio, così come la risposta del verseggiatore lucchese ("O frate, issa vegg’io — diss’elli — il nodo| che il Notaro e Guittone e me ritenne| di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo"). Significa assenza o insufficienza di affettività in favore di un tecnicismo razionalistico, tipico tanto del trobar clus nella Scuola siciliana ed in Bonagiunta, che del moralismo in Guittone. Questi poeti guittoniani ebbero dunque una funzione propedeutica all’aura poetica dello Stilnovo e soprattutto di Dante. Tutt’altro che inutile, dunque, il loro lavoro, perchè stimolò la vena artistica di più scrittori geniali, inserendo nell’orizzonte della loro ispirazione la idealità etico-politica e innalzando così il livello culturale di tutta l’attività letteraria successiva. Benchè non eccezionali come livello lirico, non possiamo, perciò, trascurare i quattro verseggiatori menzionati come antesignani e battistrada della miglior poesia che si preparava.
BUONAGIUNTA DEGLI ORBICCIANI. Notaio, era di Lucca. Se ne trova il nome in documenti dal 1242 al 1257. Con tali estremi di attività matura, la sua nascita vien posta circa il 1220 e la sua operosità poetica la si colloca ben prima di quella di Guittone, più giovane di circa quindici anni. Ma del suo linguaggio si lamenta implicitamente Dante nel De vulgari eloquentia, quando afferma che vocaboli come "issa" nel senso di "adesso" (cfr. Purgatorio, 24, riportato) sono indegni del volgare illustre. E’ per questo grigiore prosastico che non ebbe seguaci, come invece Guittone, da cui forse fece in tempo a prendere più che a dare, in quei passi in cui si allontana dalla sequela pedissequa dei siciliani. Se si fosse conosciuto di più, avrebbe cantato il modesto ma sentito motivo della natura. Ci si accorge che ne è commosso quando vi accenna, ma purtroppo egli non ne fa mai motivo centrale del suo poetare: la natura interviene nei paragoni per spiegare il suo stato amoroso o, meglio, per obliterarlo in sentenze etico-psicologiche, che si appoggiano a qualche immagine ispirata dalla contemplazione del paesaggio.
II) GUITTONE D’AREZZO. Figlio di Viva di Michele, nato attorno al 1230-5 e morto nel 1294, crebbe in ambiente guelfo, esule perciò dopo Montaperti (1260), quando la Toscana divenne ufficialmente ghibellina. Pare che già nel 1257 inizi quella crisi religiosa e morale, che altri vorrebbe collegare invece con la sconfitta di Montaperti, tre anni dopo. Comunque egli, che era sposato e padre di tre figli e scriveva poesie d’amore (benchè già ricche di preoccupazioni morali) parla di una "conversione" a metà della sua vita. Essa lo porterà ad entrare nei "Cavalieri di Maria Vergine "(Milites B. Virginis Mariae, detti comunemente "frati godenti"), fondati nel 1261 nel nobile tentattivo di portare onestà nella gestione dei "comuni" che ormai, dopo la morte di Federico II, erano ridotti a chiamare un podestà annuale da altre città, per evitare che le fazioni e i loro interessi contrastassero con la giustizia amministrativa ed il bene comune dei cittadini. Da questo momento i temi morali e religiosi o politici assorbiranno tutta la sua ispirazione, portando avanti quella fama di "dittatore letterario " nell’Italia centrale, che affascinò per qualche tempo anche il fondatore dello Stilnovo, G. Guinizelli; e che continuò nel suo poetare e nel suo magistero anche dopo la nascita della nuova corrente letteraria. Tra i suoi meriti, non va dimenticato quello di essere stato il primo ad usare nella realtà della corrispondenza epistolare un volgare illustre, cioè gli va riconosciuto il primato di una "prosa d’arte volgare" (Guido Faba pubblicava lettere e discorsi fittizi, di esercitazione, ma non ci ha lasciato nessun documento di oratoria o lettera reale). Egli ebbe anche il pregio di una erudizione enciclopedica, cosa ancora rara per i suoi tempi. Sull’ampliamento dell’orizzonte contenutistico della poesia si è già detto più volte: egli operò la transizione dal tema puramente amoroso a quelli etici e politici, dando all’ispirazione poetica un respiro più universale, un’umanità più matura, un contenuto più ideale , un volo più alto. Ma di lui disse bene il De Sanctis: "Guittone non è poeta, ma sottile ragionatore in versi... gli manca misura e melodia... E’ privo di gusto e di grazia... L’uomo ci è... morale e credente... E c’è anche l’uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento". Egli spiega gli ideali alla mente, ma non facendoli sentire al cuore. In proposito va notato che neppure nelle poesie d’amore, precedenti la "conversione", affascina: è sempre lo stesso intellettuale arido. Dante che si sintonizzava sugli artisti di razza e non sui predicatori più o meno istruiti, gli fu critico severo, sbalordito che avesse avuto tanto seguito.
Questo non toglie che una poesia degna di nota sussista: è il commento amaro e lacrimante alla sconfitta di Montaperti: "Ahi lasso, or è stagion di doler tanto". Ma è la migliore delle sue composizioni, non una poesia sufficiente: manca di forza sintetica; è troppo perifrastica e lenta nell’esporre; non sa scegliere fra tristezza per la sventura di Firenze e sarcasmo per i danni che anche le città ghibelline (pesante tassazione e gravosa ospitalità ai soldati tedeschi di Manfredi) ne avranno. Rimangono dei versi o delle espressioni (di stampo elegiaco) che convincono e si ricordano volentieri: Firenze che, già "fior sempre granata" (feconda di frutti), "fior che sempre rinnovella", ora è divenuta "sfiorata Fiore", perchè ha abbandonato lealtà, valore, giustizia e amore di pace... A queste felici immagini, si contrappongono vocaboli forzati come "forte" nel senso di destino; "dannaggio", di danno; "mante", di molte.
Nelle altre composizioni egli gioca sulle parole, come un presecentista: "Amore quanto a morte vale a dire"; "E amo solo lei che m’odia a morte"; "féra non è sì strana che non fosse (sic!) divenuta pietosa"... Fra tanti concettini, che saranno ripresi dal Petrarca e, attraverso lui, diffusi in Spagna (la quale li riporterà peggiorati già nel Quattrocento in Italia, attraverso Benedetto Gareth, detto il Cariteo e Serafino de’ Cimminelli, detto l’Aquilano), si ritrova però un grande concetto che farà strada: la nobiltà non dipende dalla nascita fisiologica (dai "natali"), ma dalla virtù personale. E’ una dottrina ben presente nella filosofia scolastica di San Tommaso, che sarà rilanciata da G. Guinizelli, il quale ne farà il concetto fondamentale tra quelli caratteristici del Dolcestilnovo (cfr. "Al cor gentil rempaira sempre Amore").
CHIARO DAVANZATI. Fiorentino, fu probabilmente quello —dei due personaggi noti con tal nome — che morì nel 1304. Ci ha lasciato sessantun canzoni e un centinaio di sonetti. Non ebbe, però, fantasia innovatrice nè per i temi trattati (imita i provenzali, i siciliani e talvolta prende pure da Guittone) nè per i moduli stilistici (si esprime con fredda chiarezza, degna di un fiorentino di buon sangue, ma nulla più), sicchè merita un cenno solo per il sonetto "La splendi"ente luce quand’apare": idillio riuscito, anche se appena sufficiente per la volontà celebrativa (epicizzante) che crea dissolvenza incrociata: un tono lirico tende ad elidere l’altro, senza riuscire a fondersi in estasi di vagheggiamento.
COMPIUTA DONZELLA. E’ lo pseudonimo ( giovane donna perfetta) con cui si firmava una rimatrice fiorentina del secolo XIII. Si tende ad accettarne oggi la esistenza reale, anche perchè si hanno lettere a lei di Guittone d’Arezzo. Si hanno tre soli sonetti di lei; e i primi due sono artisticamente più che sufficienti. Il migliore è il primo, diviso fra l'’dillio (nel contemplare donne e uomini soddisfatti nel loro amore) e dramma (nel protestare contro la propria situazione di "sposa" forzata dal padre a maritarsi con un uomo che non ama). Le due parti sono ben distinte fra loro e non si ha elisione. Il secondo sonetto è già più incerto, oscillando fra elegia e ribellione, fra tristezza per la propria situazione e contestazione di un mondo così malvagio, che la ipotesi di una monacazione riparatrice diventa altamente suggestiva. Il terzo sonetto —risposta ad un anonimo estimatore e consolatore — la vede disposta a "servire con buona cortesia| a ciascuno ch’ama senza fallimento": ma la vivacità poetica è tramontata. Ad ogni modo sorprende favorevolmente la scioltezza espressiva in una donna, degna della chiarezza e della disinvoltura mentale della miglior fiorentinità; e la capacità di trasfigurazione emozionale della sua situazione, purificata da rigurgiti passionali e sublimata in un atteggiamento transpersonale (almeno nei due primi sonetti).
IL DOLCESTILNOVO
IL NOME, LA SCUOLA, GLI ADEPTI. In Purgatorio 24, 57 è così chiamata da Dante il cenacolo letterario che, seguendo l’esempio di Guido Guinizelli, si espresse non solo con raffinato impegno stilistico, ma anche con risultati lirici eccezionali nell’ambito di una "poetica" (concetto della poesia) comune. E’ proprio la discreta convergenza nella comune dottrina circa l’essenza, l’oggetto, gli scopi del poetare che permette di chiamare "scuola" questo gruppo di rimatori tosco-emiliani, che venivano operando in sede letteraria quella rivoluzione che Cimabue e Giotto stavano attuando nel campo della pittura: dalla dignità linda ma stereotipa dello stile bizantino e del primo romanico alla cordialità viva, commossa del gotico. D’altronde i poeti di questo "circolo ideale" si scambiavano poesie fra loro, che non erano solo più tenzoni su materie astratte, ma lettere di confidenze personali (GuidoCavalcanti a Guido Orlandi: "Una figura della donna mia"; Gianni Alfani a G. Cavalcanti: "Guido, quel Gianni ch’a te fu l’altrieri"; Dante a Guido: "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io") ovvero di rimprovero (G. Orlandi a G. Cavalcanti: "S’avessi detto, amico, di Maria"; G. Cavalcanti a Dante: "I’ vegno il giorno a te infinite volte"...). Non erano ancora un’accademia, ma si sentivano consapevoli di rappresentare una élite di ingegni eccezionalmente dotati e uniti da una comune ispirazione. E’ vero che, tutto sommato, si tratta di una manciata o poco più di verseggiatori, di cui solo un paio riusciti grandi poeti... Eccone i nomi. Del fondatore anzitutto: GUIDO GUINIZELLI (bolognese: 1235 ca-1276). Poi, del poeta più grande: DANTE ALIGHIERI (1265-1321:quello giovanile, della Vita Nova e delle Rime, escluse però le "petrose" che vedremo). Dell’altro grande poeta: GUIDO CAVALCANTI (pur lui fiorentino e amico di Dante:1260 ca-1300). E, poi, dei minori: CINO DA PISTOIA (270 ca-1336 o 1337), DINO FRESCOBALDI (fiorentino:1271 ca- 1316), LAPO GIANNI (fiorentino: 1275-1328), GIANNI (degli) ALFANI (fiorentino, a cavallo tra il secolo XIII e XIV). Stanchi, ma sempre eleganti continuatori della prima generazione sono SENNUCCIO DEL BENE (fiorentino:1275 ca- 1349) e MATTEO FRESCOBALDI (probabilmente figlio di Dino, morto nel 1348).
L’AMBIENTE IN CUI NASCE. Abbiam parlato di una "poetica" comune, ma non l’abbiamo spiegata. Per comprenderla, infatti, occorre anzitutto rifarsi all’ambiente complesso (socio-politico, religioso, filosofico e scientifico) di Bologna, dove opera il Guinizelli.
L’ambiente socio-politico. Morto Federico II (1250) e nonostante la breve ripresa con Manfredi (da Montaperti, 1260, a Benevento,1266), il ghibellinismo si avvia al tramonto. Con esso perde importanza, nell’Italia centrale ed in Lombardia, la nobiltà, legata per lo più al vertice della aristocrazia, l’imperatore appunto. La borghesia che è in ascesa, per lo più è guelfa; essa le succede nel governo dei liberi comuni: in Toscana il fenomeno sarà così perentorio che tenterà, con gli "Ordinamenti di giustizia" di Giano della Bella (1293), di escludere del tutto i nobili dalla dalla vita politica comunale. Col 1295 si giungerà al compromesso, per cui gli aristocratici potranno avervi parte, a patto di iscriversi ad una delle "arti" in cui borghesia e popolo erano organizzati. Dovevano adattarsi ad imborghesirsi anch’essi. Dovevano metter da parte la "boria" della discendenza e del passato. Ebbene, le rime del Dolcestinovo sono influenzate da quasta svolta socio-politica: sia Guido Guinizelli che Dante (nobile, sia pure impoverito) dedicano intere poesie a cantare il principio tomistico-guittoniano, secondo cui la nobiltà dipende dalla virtù nell’operare delle singole persone e non dalla ricchezza o dalla fama accumulata dal casato. La canzone- manifesto del Dolcestilnovo del Guinizelli ("Al cor gentil rempaira sempre Amore") fa perno su tale dottrina filosofico-sociale.
Le componenti religiose. Vi è il riflesso della produzione ultima provenzale, purificatasi dopo la crociata del 1208: contro la sensualità precedentemente dilagante (causa non ultima all’affermarsi dell’eresia catara, che dichiarava diabolico tutto quanto è legato alla materia: il matrimonio, i soldi, lo stesso cibo...), ecco affermarsi la poetica di Guglielmo di Montanhgol (1229-58) che privilegia la funzione educativa, moralizzatrice, elevante dell’amore, giacchè "D’amor mou (muove, nasce) Castitatz": l’affetto ed il servizio alla donna aiuta l’innamorato a dominare i propri istinti. Già nel secolo precedente, il trovatore Marcabruno, guascone che fu in Spagna al servizio di Alfonso VII di Castiglia, aveva tuonato, con l’invettiva ed il sarcasmo, contro il libertinaggio dei poeti provenzali suoi colleghi, ma era rimasto voce isolata. Nel Duecento invece anche Sordello da Goito (muore nel 1269 feudatario di Carlo d’Angiò, dopo aver poetato in Italia, Provenza e Spagna), qualunque fosse la sua vita concreta, mette almeno una parte dei suoi versi al servizio di un ideale di moralità e di elevatezza di sentimenti (compianto per la morte di ser Blacatz: 1236). Nel frattempo in Francia Guillaume de Lorris compone, a cominciare dal 1230, i primi quattromilacinquantotto versi del Roman de la Rose, che sono attenti ad idealizzare ed allegorizzare la conquista della donna amata (la "rosa", appunto), attraverso una spiritualizzazione dell’Ars amandi di Ovidio. Per spiegare un simile viraggio (anche teoretico) dell’operosità poetica nel Duecento non basta però la nuova prospettiva amorosa degli ultimi poeti provenzali. A nostro parere non basta neppure il fenomeno, pur grandioso, del francescanesimo. San Francesco può aiutare a capire una certa moralizzazione dell’Italia centrale (Bologna non esclusa: si pensi anche solo all’affrancamento dei servi della gleba) finchè fu in vita: ma per spiegare il "retentissement o riecheggiamento" del suo colpo d’ala in Francia ed oltre, si deve far riferimento al regno di Luigi IX, che con la sua onestà, religiosità, equilibrio e sapienza di governo mantenne nell’Europa neolatina occidentale un’atmosfera cristiana che (oltre ad assicurare, attraverso il fratello Carlo d’Angiò, la vittoria del guelfismo e l’annacquamento del residuo ghibellinismo in Italia), coinvolse anche i letterati in un processo di spiritualizzazione ed elevazione dei propri motivi di canto. Nell’Italia centro-settentrionale, il miglioramento dei costumi del clero era già stato operato dal movimento patarino che, attraverso il martirio del diacono S. Arialdo giunge fino all’elezione di papa Alessandro II (metà del sec. XI). Ora si passa all’affrancamento dei servi della gleba, ai movimenti di massa come quella dell’Alleluia (1233), dei Flagellanti (Ranieri Fasani), al sorgere del teatro sacro e della Lauda drammatica, alla presenza dei religiosi nella cittadella universitaria per aiutare una vita più cristiana negli studenti. (?) La società europea continuava così il periodo di apogeo del Medioevo cristiano, potendo esprimere dopo i grando capitani (Innocenzo III, Francesco e Chiara d’Assisi, Domenico di Guzman) anche dei grandi "cadetti": un S. Luigi IX, S.Alberto magno, S. Bonaventura da Bagnoregio, S. Tommaso d’Aquino e S. Elisabetta d’Ungheria... Tale cumulo di esperienze va tenuto presente per comprendere lo spiritualità dell’amore nel Dolcestilnovo.
Le componenti filosofiche e scientifiche. Superati, ad opera di Alberto Magno, i sospetti e le condanne contro l’aristotelismo, i libri e le dottrine dello Stagirita entravano a piene vele nelle aule universitarie. I nuovi studenti non ricorrono più ai "lapidari" ed ai "bestiari" che pretendevano di insegnare le virtù morali o influssi fisici connessi con ciascuna forma di vita o di esistenza. Ora essi hanno a disposizione i testi di quella "filosofia naturale" che era scienza, propedeutica alla metafisica (il sapere scientifico, chiaramente distinto dalla teologia, era ancora considerato parte della filosofia, perchè anch’esso usava come metodo di ricerca la sola ragione). Con la sua "Summa de creaturis" (enciclopedia delle cose naturali) il grande domenicano allargò le notizie tramandate da Aristotele e da Plinio il vecchio e fu maestro per molte generazioni di studiosi (la sua opera fa parte della biblioteca di don Ferrante!). Naturalmente anche le opere di San Tommaso (Somma telogica e Somma filosofica o "contro i pagani") vengono conosciute, così come si diffonde il Tractatus de gradibus amoris (Riccardo da S. Vittore), mentre il De Amore di Andrea Cappellano (del 1185 circa: fu la sorgente per il "rituale" amoroso nei trovatori ed ebbe diffusione su scala europea) viene letto secondo il suo vero titolo ed intento: "L’arte di amare onestamente" (De arte honeste amandi: è un libro condannato, però, da Stefano Tempier, arcivescovo di Parigi, nel 1277). Troveremo nei Dolcestilnovisti tracce di questa multiforme cultura, sia filosofica che scientifica e psicologica.
Continua l’influsso dei modelli siculo-guittoniani, se non altro come bersagli polemici da superare, da inverare in un "canto nuovo" caratterizzato da una ispirazione amorosa più complessa e profonda, da una sincerità affettiva che detti versi commossi, cioè davvero goduti o sofferti, da una raffinatezza di stile che non tenda a sbalordire ma ad esprimere adeguatamente l’amore sperimentato. (cfr. Purgatorio, 24, citato).
I POETI PIU’ RAPPRESENTATIVI (ovviamente Dante sarà studiato in un capitolo a parte).
GUIDO GUINIZELLI (Guinicelli| Guinizzelli). Nato (come pare) a Bologna fra il 1230 e il 1240 (la data 1235 è un punto di riferimento non improbabile), morì esule nel 1276 a Monselice (Padova). Era ghibellino e la vittoria dei Geremei guelfi nel 1274 lo ridusse ad uscire dalla città colla sua fazione dei Lambertazzi. Egli ci ha lasciato cinque canzoni e quindici sonetti (ci sono, in più, tre canzoni di non sicura attribuzione). Aveva cominciato come siculo-guittoniano (un paio di canzoni artificiose ed un sonetto di omaggio a Guittone), ma ebbe poi la folgorazione di una nuova forma poetica, che lo condusse a polemizzare coll’antico maestro ed a scrivere quella che può essere considerata la canzone-manifesto del Dolcestilnovo: "Al cor gentil rempaira sempre Amore". Anche se i seguaci toscani (Dante e Cavalcanti, specialmente) fecero più e meglio di lui, tuttavia non ebbero torto a cosiderarlo loro maestro, poichè già nei suoi versi si trovano sia i concetti base sia alcuni motivi psicologici sia qualche esempio riuscito di poesia sulla linea della affettività, spontaneuità, cordialità e vivacità che saranno fatti propri dai seguaci. Egli merita dunque di esser chiamato da Dante: "il padre| mio e degli altri miei miglior che mai| rime d’amor usar dolci e leggiadre" (Purg. 26, 97-99).
Ed ecco la trama delle novità tematiche introdotte dal Guinizelli. La nobiltà è gentilezza d’animo, non dote ereditaria ma virtù morale acquisista. Anche l’amore, in quanto è volontà di bene, è una virtù morale: tale deve essere inteso anche l’amore per la donna, che non è, dunque, brama di piacere, ma affetto puro del cuore. L’amore e la nobiltà sono affini e si richiamano a vicenda. Un cuore nobile, cioè virtuoso, tende ad amare in maniera nobile, pura, virtuosa. L’amore, poi, se spirituale, mette nel cuore la nobiltà e la gentilezza. L’amore, proprio perchè virtù che nobilita, eleva a Dio. Tra gentilezza ed amore vi è la stessa relazione che fra "atto e potenza": la gentilezza è la potenzialità alla virtù; l’amore ne è una delle attuazioni. E’ lo stesso fenomeno che si può vedere in ogni parte del creato: vi sono pietre preziose (come lo smeraldo) e minerali potenti (come la calamita) che sono depositari di virtù, le quali si attuano nello splendore o nella forza di attrazione.La donna è quasi un angelo di Dio "mandata in terra a miracol mostrare", perchè di Dio riflette la bellezza ed a Dio innalza il cuore dell’innamorato, come alla sorgente di ogni bellezza e beatitudine. Siamo di fronte ad un amore ad impronta religiosa, anzi misticheggiante. Questo amore-virtù è, poi, psicologicamente analizzato come uno spirito che abita nel cuore (della donna); che si rivela attraverso gli occhi e, attraverso questi, passa nel cuore dell’innamorato (è questa la trasposizione, ad uso dei letterati, delle dottrine psicologiche circolanti negli ambienti universitari: le virtù sono "facoltà o potenze" dell’anima, che operano attraverso i sensi del corpo). Attraverso questa mescolanza di filosofia e di teologia, di ragione e religione, si giunge al concetto di amore affettivo: lontano cioè dalla sensualità bruta e selvaggia, ma anche più ricco della semplice lode, del freddo omaggio, dell’arida ammirazione intellettualistica che caratterizzava il feudale canto dei trovatori provenzali e loro seguaci europei per la donna alta e sdegnosa. Si opera sul piano letterario il passaggio che Cimabue e Giotto stavano operando nella pittura: dallo stilismo raffinato ma freddo del bizantinismo alla espressione di emotività e sentimenti. E’ quanto Dante protesta a Bonagiunta, come già visto, in Purgatorio, 24, 52-4: "Io mi son un che, quando| amor m’ispira, scrivo ed a quel modo| ch’ei ditta dentro, vo significando". L’amore, infine, getta il cuore gentile che ne è preso, in uno stato di beatitudine e di sbigottimento, di estasi e di inquietudine nello stesso tempo: l’ispirazione passa dalla descrizione e lode della donna amata alla soggettività dell’autobiografismo,cioè delle reazioni prodottte dall’amore nell’animo del poeta. Il Sapegno nota perspicacemente che, in fondo, il motivo ispiratore del Dolcestinovo "non è la rappresentazione... della bellezza femminile nè la confessione immediata di una passione ardente, sì piuttosto lo studio degli effetti di quella bellezza e di quella passione sull’anima del poeta amante". Taleinteriorizzazione, tale "spin" della sorgente di poesia sarà condotto alle estreme conseguenze dal Petrarca e dal Petrarchismo.
I toni lirici.Prevale nel Guinizelli l’idillio adolescenziale del vagheggiamento e della estasi amorosa, animata però da una nota più adulta di celebrazione, di ammirazione mossa e vivace (che tende alla epicità): in lui è assente il tormento e prevale invece una sensibilità gaudiosa e giovanilmente esultante. Oltre (e più) che la canzone-manifesto ("Al cor gentil rempaira sempre Amore"), ci sembrano da ricordare questi sonetti: "Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo", "Vedut’ho la lucente stella di"ana", "Io vo’ del ver la mia donna laudare", Chi vedesse a Lucia un var’ capuzzo" (un cappuccio di vaio), Pur a pensar mi par grann meraviglia"(ispirato non all’amore, ma alla corruzione della società), "Volvol ti levi, vecchia rabbi"osa" (un turbine ti porti via...: è un’eccezione nel canzoniere gentile del Guinizelli: drammatica imprecazione contro una vecchia odiosa).
Note stilistiche. Prevale, dunque, una musicalità dolce, cioè senza asprezze di ritmo, armoniosa, soave, coerente col tono idillico e il motivo ispiratore (affetto spirituale ) che vuole esprimere. Ma tale attitudine non è disincarnata nè evanescente: sia perchè il pensiero si appoggia ad osservazioni concrete, all’attenzione a dati esteriori della donna (come il vestito ed i suoi colori), sia perchè esso fa riferimento frequente ad immagini e paragoni tratti dalla natura, ingenui ma simpatici (stelle, acqua, fuoco, tuono, caccia con la balestra, calamita...). A questo modo egli armonizza forza e gentilezza nel "canto novo", rendendo complice il lettore anche della furia sbrigliata e sbarazzina contro la seccaggine della vecchia fastidiosa.
La cordialità tenera del poeta è affidata alla dominanza discreta delle consonanti liquide|nasali|dentale debole "D"| fruscianti "S-F-V"|palatali "C-G-GN"... Viceversa, la forza sottesa resta indiziata dalle numerose vocali larghe: domina specialmente la "O", mentre la "A" è bilanciata dalla media "E" e da "U-I" in posizione di rima, ma sostenute da un contesto rinforzante, corroborante. Giottesco nella gioia robusta, nella cordialità gentile. Ancor oggi il Guinizelli ci appare come un innovatore nella giovane letteratura italiana, il caposcuola di un modo di far poesia con l’intuito esatto di ciò che è essenziale ad essa: l’amore come affetto. Offrendo a Dante questa chiave (precisa nella sua nebulosità: "Io mi son un che quando| Amor m’ispira..."), egli prepara la mente u- mana a scoprire che l’amore non è che uno degli affetti necessari all’arte del poetare e avvia il processo di graduale scoperta dell’affetto come stato d’animo, dello stato d’animo come emozione.
Peccato che si tratti di una minoranza di composizioni nel già sparuto gruppo di liriche a noi giunte (e, d’altronde, egli è morto così giovane!): la più parte delle sue rime infatti risentono della moda faticosa ed astrusa dei siciliani e guittoniani più tipici. Sembra talora di leggere i versi di due persone differenti!
GUIDO CAVALCANTI.
I giorni e le opere. Nasce da Cavalcante Cavalcanti (l’epicureo condannato da Dante in Inferno, 10) a Firenze, poco prima del 1260. Guelfo di parte bianca, seguace di Viero de’Cerchi contro Corso Donati, partecipò alla vita politica della città, pur consapevole della poca congenialità del proprio casato alla attività pubblica. Fu sposo -per motivi di pacificazione cittadina- a Beatrice Uberti, figlia del grande Farinata; e ne ebbe un figlio (Andrea). Corso Donati tentò di farlo uccidere durante un viaggio verso Compostela in Spagna: riuscì solo ad interromperne il pellegrinaggio ed a scatenarne ancor più l’animo già ostile. Dopo altri incidenti in cui ebbe parte, Guido fu esiliato nel 1300 a Sarzana con tutti i capiparte più pericolosi, proprio durante il priorato dell’inesorabile amico Dante. Pare che a Sarzana contraesse la malaria: richiamato per un’amnistia a Firenze, vi morì il 29 di agosto dello stesso anno.
Ci sono pervenute 52 composizioni (36 sonetti, 11 ballate, 2 canzoni, due stanze isolate e 1 mottetto)
Individualità. Impulsivo e precariamente attivo, in quanto impaziente di indugio e incapace di perseveranza, fu sostanzialmente un introverso, un nervoso con residui di attivismo,alla maniera dello shakespeariano Amleto. Sdegnoso e chiuso orgogliosamente alla massa della gente, era stimato e temuto più che non amato ed egli stesso —fin troppo consapevole delle proprie doti eccezionali di sensibilità ed intelligenza — era cosciente di mancare di quella tenacia e longanimità che è il segreto dei capi politici e militari. Tutte le tesimonianze antiche (dal confratello politico Guido Orlandi, che ne piange la miscredenza -?dove?- al Boccaccio del "Comento alla Commedia" e del Decameron, che ne celebra il supremo disdegno per la folla e la prontezza di risposta vellutatamente insolente, a Dino Compagni e Giovanni Villani, che ne elogiano la tendenza alla riflessione e pensosità, ma ne denunciano la ipersensibilità e la collera) sono concordi nel darci la figura di un personaggio eccezionale a livello emotivo ed intellettivo, ma inconcludente e pericoloso sul piano pratico. Assieme a Foscolo, è l’Amleto della nostra storia letteraria.
I motivi ispiratori. Le idee del Dolcestilnovo sull’amore trovano eco in lui, che anzi complica la dottrina degli "spiriti" trapassanti da cuore a cuore attraverso gli occhi, fino alla mitomania ed al sofisma. "Spiriti" (anzi "spiritelli") sono l’udito e la vista —virtù sensibili dell’uomo, che ha in comune con gli animali; spiriti sono la ragione e la volontà —facoltà spirituali,esclusive dell’uomo: l’amore, che risiede nella donna angelicata, è pur esso uno spirito che, entrando nel cuore dell’innamorato, vi abbatte gli spiriti sensibili, le stesse facoltà vitali. Quando egli esprime troppo sistematicamente queste distinzioni di virtù sensibili e spirituali e dello scontro fra loro e degli effeti sull’uomo, non riesce sempre poeta: fallita è, in particolare, la faticosa ed arzigogolata canzone "Donna, me prega". Citiamo questa composizione, perchè è al centro della disputa circa la ortodossia od eresia, il carattere tomistico od averroistico del suo pensiero: anche in sede di poetica (dottrina sulla poesia). Ma non sempre le sottigliezze razionali spengono la ispirazione e la riuscita dei versi: notevole è, ad esempio, in questo gruppo di poesie psicologiche, la ballata FRESCA ROSA NOVELLA. E’ poesia serena, idilliaca: cosa rara e simpatica nel tormentato amico di Dante.
Ma la ispirazione più tipica, più congeniale al Cavalcanti è quella autobiografica, intimistica, la descrizione cioè dei propri stati d’animo in presenza della donna amata. Davvero c’è in lui un presentimento del Petrarca, che trova nell’esame dei propri sentimenti la vera fonte della commozione artistica. Ma mentre in Petrarca le emozioni, insorgenti dalla meditazione sui propri sentimenti nei confronti di Laura, hanno tutte una tonalità contemplativa, oscillando fra elegia prevalente e sprazzi di idillio, in Guido la tonalità lirica volge decisamente al dramma. Sbigottimento, angoscia, tormento, paura, sofferenza quasi d’agonizzante: la donna induce nel poeta uno smarrimento che confina col presentimento della morte. Esempio può esserne la ballata ERA IN PENSIER D’AMOR, QUAND’IO TROVAI. Ma l’espressione sublime di un simile turbamento è la ballata-capolavoro PERCH’I’ NO SPERO DI TORNAR GIAMMAI. Qui la causa immediata della condizione di sgomento ed ambascia è la malattia del poeta, infermo a Sarzana (od a Ni^mes, nel viaggio verso Compostela?): egli vuol comunicare, alla propria donna lontana, la prostrazione fisica e psicologica in cui si trova, , ma lo fa parlando alla propria "ballatetta", cioè al proprio pensiero stesso, quasi in un soliloquio sbalordito davanti al processo di devitalizzazione dei propri spiriti nell’appressarsi della morte.
Un terzo gruppo di motivi ispiratori sono occasionali, ma non sempre trascurabili quanto ad esiti lirici. Se non convince del tutto il sarcasmo contro il parente Nerone Cavalcanti, immerso nella politica di parte senza averne le doti ("Novelle ti so dir, odi, Nerone"), invece è altamente riuscito il rimprovero a Dante, impegolatosi in una vita plebea dopo la morte di Beatrice (sonetto I’ VEGNO IL GIORNO A TE INFINITE VOLTE).
I toni lirici. Il registro più congeniale a Guido Cavalcanti è quello drammatico, proprio di una natura distonica, risentita e forte, ma incerta, non tenace, instabile, oscillante (primaria). Più facilmente il dramma si esprime come sbigottimento, angoscia, brivido, tormento, paura. Se questo è il registro più frequente, non è però quello in cui egli attinga i risultati ottimali della sua poesia.Ma sono comunque degne di rilettura e di ricordo queste composizioni (tutti sonetti, eccetto l’ultima che è una ballata): "Un amoroso sguardo spiritale", "L’anima mia vilmente è sbigottita" , "Tu m’hai sì piena di dolor la mente", "A me stesso di me pietade véne", "I’ prego voi che di dolor parlate" (ballata)... Il dramma assume forza di stupore,violenza di sdegno, veemenza di rimprovero nel già citato I’ VEGNO IL GIORNO A TE INFINITE VOLTE. Si tratta di un gioiello dove l’ispirazione morale assurge a poesia perchè il rimprovero mantiene una carica di amicizia e cordialità che brucia ogni residuo di passionalità immediata, che supera ogni grettezza di finalismo pratico e crea un’atmosfera di idealità universale: è l’indignazione contro ogni viltà di ciascun’anima che si arrenda alla disperazione e si abbandoni alla volgarità, illudendosi di obliare così il dolore della sventura.
Il dramma si colora di sarcasmo nel citato sonetto a Nerone Cavalcanti, datosi alla politica nonostante vi sia negato. Si rasserena invece (ironia bonaria) nei sonetti su una giovane non precisamente avvenenete ("Guata, Manetto, quella scrignutuzza") o su un amico che ha preso casa in campagna ("Se non ti caggia la tua santalena", cioè il bisante d’oro con la effigie di Sant’Elena): anche se non attinge qui momenti di commozione sublime.
Il capolavoro (PERCH’I’ NO SPERO DI TORNAR GIA’ MAI) nasce in una atmosfera di commozione complessa, plurivalente: elegia e dramma, compassione per se stesso e smarrimento di fronte alla ineluttabilità di una prostrazione percepita come irreversibile, si fondono in un sinergismo il cui risultato è uno stato d’animo vicino all’accoramento, che previene il trascolorare di Pia nel c. 6 del Purgatorio.
Momenti eccezionalmente idillici si trovano nella mediocre ballata "Fresca rosa novella"; in quella ben più riuscita "Era in pensier d’amor, quand’i’ trovai" (canta una Mandetta, ammirata ed amata in Tolosa, non senza ombre di nostalgia pungente per la patria, Firenze); nel modesto sonetto "Avete in voi li fior’e la verdura" e in quello ben superiore "Biltà di donna e di saccente core", nonchè in altre rime pure non supreme, fra cui anche una "pastorella" (dialogo tra il poeta e una pastora).
Note di tecnica stilistica. Nella atmosfera già idealizzata e raffinata del Dolcestinovo, il Cavalcanti introduce una ulteriore estenuazione, una più accentuata aristocraticità mediante l’elezione privilegiata di interessi (motivi ispiratori) astratti e mediante un linguaggio particolarmente rarefatto. L’interesse più congeniale al poeta è il suo mondo psicologico: egli si aggira, dunque, in un mondo di realtà accidentali (non sostanziali come le cose e le persone), quali sono le facoltà dell’anima (potenze spirituali) o le loro attività: i sentimenti, la ragione, il libero volere, la virtù vitale, la timidezza, la paura, la servitù d’amore, lo smarrimento di fronte alla bellezza od alla malattia, il presentimento della morte... Egli vive in un mondo signorile, ma decadente, nobile, ma evanescente: è una realtè romantica ove amore e morte si corteggiano ed inseguono. E romanico-decadente vorremmo definire la linea portante della sua personalità e del suo pensiero, come della sua emotività e tecnica stilistica. La distonia neurovegetativa si prolunga e si esprime in una oscillazione del pensiero che offre sempre i due corni di un probema e mai la loro sutura risolutrice; egli vive fra incertezze religiose e metafisiche, in un mare di dubbi che affondano le radici nella sua insicurezza emozionale: e la rinforzano. E l’oscillazione a tale livello, lo si è visto, altalena fra elegia e dramma, fra satira e compassione. Ebbene, anche il suo stile è adeguatao a tale "crisi" di valori intellettuali ed emotivi. E’ una tecnica espressiva che non fa riferimento a spunti visivi o concreti (tanto meno tridimensionali), ma si affida piuttosto alla dimensione musicale della parola. Non la pittura di paesgagi, ma la confessione autobiografica è il suo orizzonte privilegiato: non descrive l’esterno lineare o cromatico di una cosa o persona e neppure le circostanze storico-ambientali che possono aver occasionato i diversi stati d’animo, ma è affascinato dalle cause interiori che li suscitano. E’ uno scrittore che "guarda dietro l’angolo": la presenza della donna è lasciata intravedere, ma solo come sorgente del turbamento del propio mondo intimo; la bellezza di lei è intuibile, ma solo come trasparenza nel gioco di spiriti e spiritelli messi in movimento dalla sua contemplazione da parte del poeta. Forse lui stesso è giunto a capire i rischi di un simile orizzonte di ispirazione, che è una perenne autobiografia, mentre vorrebbe essere una celebrazione dell’amore e dell’amata. Ci si domanda infatti fra i critici se il sonetto "Pegli occhi fere un spirito sottile" voglia offrirci una analisi esauriente del fenomeno amoroso (descritto con gli "strumenti tolemaici" di una psicologia primitiva) ovvero sia la parodia di tale pseudoscienza, ingemua fino alla comicità: la parola "spirito" vi ritorna infatti quattordici volte, esattamente una per ogni verso...
GLI ALTRI DOLCESTILNOVISTI. Non essendo particolarmente importanti per poesie altamente liriche, basterà darne qualche notizia su vita ed opere e sui loro rapporti con Dante e Cavalcanti o con lo svolgimento successivo (petrarchesco) della lirica d’amore.
Lapo Gianni. Di questo fiorentino ed amico di Dante (che lo cita nel De vulgari eloquentia e nel sonetto "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io") si conoscono pochi dati di vita. Notaio (attivo dal 1298 al 1328), autore di un canzoniere di 17 componimenti fra cui stanze isolate, canzoni ma soprattutto ballate, visse forse fra il 1275 e il 1328. Le sue poesie sono leggibili senza fatica (piane, senza astruserie ed anche musicalmente scorrevoli), ma sono liricamente tenui e modeste. Unica eccezione è il sonetto doppiamente caudato "AMOR, EO CHERO MIA DONNA IN DOMI’NO", scritto a imitazione dei "plazer" provenzali. E’appunto una fantasticheria dilettosa, disinvolta e scherzevole, un sogno baldanzoso e birichino verso un paradiso terrestre, quale anche Dante si diletterà di vagheggiare, nel sonetto "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io...". Purtroppo la attribzione di "Amor, eo chero..." non è sicurissima. Sicuramente sue, ma flebilmente artistiche, sono "Questa rosa novella" e "Angelica figura novamente". In quest’ultima si ritrova l’espressione tipica "quest’angela che par di ciel venuta": è il "senhal", cioè il sigillo del poeta dolcestilnovista.
Gianni (degli) Alfani. Anche di questo rimatore non si riesce ad identificare gli estremi di vita, essendo candidati a tale identità, in modo equipollente, tre personaggi ben diversi per età e professione, tre fiorentini omonimi. Delle sei ballate, ci sembra degna di citazione quella che inizia "Quanto più mi disdegni, più mi piaci", che però non continua con lo slancio del primo verso. La settima composizione che di lui ci rimane è un sonetto burlesco, di corrispondenza col Cavalcanti, il maestro che l’Alfani segue non solo nello schema della ballata, ma anche nella prospettiva amorosa, in chiave di paure e di morte.
Dino Frescobaldi. Orlandino (onde "Dino") nacque a Firenze attorno al 1271 e morì circa il 1316. Figlio di potente famiglia guelfa (di parte nera), che commerciava in lane ed in operazioni bancarie, aveva un padre scrittore di versi (Lambertucci) ed un figlio (Matteo) che fu l’estreo fiore del Dolcestinovismo. In lui vi è continuazione di temi sia guinizelliani sia cavalcantiani.: del primo riprende il concetto dell’amore come virtù morale, l’opposto del vizio; del secondo, quello dell’amore come angoscia, che infonde desiderio di morte. Per quest’ultima ispirazione, si veda il sonetto "Per tanto pianger quanto gli occhi fanno". Ma anzichè animare tali tematiche con la partecipazione emotiva, egli le complica con una insistenza eccessiva sulle immagini: l’Amore è un arciere; gli occhi sono il suo arco; gli sguardi sono le saette.... Si preannuncia qui il peggior Petrarca, quello stanco ed arido delle sofisticazioni presecentiste: si veda il sonetto "La foga di quell’arco che s’aperse". Altre volte, invece, risente già della poesia di Dante non solo dello Stilnovo, ma forse già della Commedia: si vedano le canzoni "Morte avversara, poi ch’io son contento" e "Voi che piangete nello stato amaro".
Cino da Pistoia. (Guittoncino dei Sinibuldi o Sigisbuldi o Sighibuldi). Visse dal 1270 ca al 1336 o 1337. Docente universitario di diritto (agli Studi di Siena, Perugia, Napoli), lasciò opere notevoli nel suo campo di competenza (Lectura in codicem — con Addictiones- è la sua opera principale). Benchè di parte nera (e fu in esilio dal 1303 al 1306), sostenne il potere civile contro quello ecclesiastico e appoggiò il tentativo di Arrigo VII. Amicissimo di Dante (De vulgari eloquentia, I, 10, 2), fu in corrispondenza poetica con lui, che gli indirizzò anche una lettera in latino dall’inizio famoso: "Exulanti Pistoriensi, Florentinus exul immeritus...". Cino scrisse una canzone in morte dell’amico ("Su per la costa, Amor, de l’alta mente"...), pianto ed elogiato a sua volta dal Petrarca, quando scomparve ("Piangete, donne e con voi pianga Amore"). Autore del più ricco Canzoniere dolcestilnovistico (165 composizioni di sicura attribuzione e 25 dubbie), egli conta poco, però, a livello artistico-letterario, cioè propriamente lirico-poetico. Ma ha grande importanza sia a livello stilistico, sia per il viraggio che la prospettiva amorosa (il concetto di Amore nel Dolcestilnovo) subisce in lui: egli segna il passaggio tra l’aerea spiritualità di Beatrice e la terrestre mondanità di Laura; è il mediatore fra la religiosità del concetto di Amore nei Dolcestilnovisti e il fascino tutto umano della donna, nella temperie culturale che si preannunciava per il Trecento anche in Italia.
Possiamo comunque privilegiare alcuni sonetti, tipici della scorrevolezza musicale di Cino, anche se, esteticamente, di poco più elevati rispetto agli altri: "Omo smarruto, che pensoso vai" (40simo); "Se lo cor vostro de lo nome sente" (55), "Se conceduto mi fosse da Giove" (62), "Omé, ch’io sono all’amoroso nodo" (75). Il caapolavoro (che venne alla fine) è però il sonetto "Tutto ch’altrui aggrada, me disgrada". Il primo dei sonetti citati ha risonanze cavalcantiane, quelle della ballata capolavoro di lui "Perch’i’ no spero di tornar giammai". Il secondo introduce un gioco di parole tra la "vita selvaggia" che gli è data in sorte e il nome della donna -"Selvaggia", appunto — che egli ama con cuore appassionato ("vita non avrò se non selvaggiamente"). Il terzo, contiene tre reminiscenze dantesche. Il quarto ha evidenti presentimenti delle trecce di Laura ("Erano i capi d’oro a l’aura sparsi..." "oimè che sono all’amoroso nodo| legato con due belle trecce bionde..."). Ma proprio la vicinanza al Petrarca deve mettere in guardia contro la pienezza della adesione di Cino allo spirito del Dolcestilnovo. Certo, Cino canta un amore non corrisposto dalla donna (non per nulla "Selvaggia" anche di nome): di qui le sofferenze e i presentimenti di morte nel poeta, i cui spiriti vengono meno come nel Cavalcanti. Ma son più i legami che, a valle, lo inclinano verso il Petrarca: vi è una atmosfera che va ben oltre le trecce bionde che legano il cuore dei due poeti. L’affetto di Cino non è realtà religiosa o metafisica: la donna non è angelo che da Dio è mandata in terra per condurre gli uomini a Lui, aiutandoli a sublimare la passione in volontà di bene: è piuttosto creatura terrestre che fa dannare l’innamorato. D’accordo, si tratta di un amore candido nella espressione e cristiano, come quello che cantano i dolcestinovisti. Ma è un amore che nasce dal cuore del poeta e si rivolge alla donna: non è generato dalle virtù morali della donna, ma dalla bellezza del suo volto. E’ insomma una realtà meno eterea e rarefatta, espressa con minori astrazioni, sinbolismi, sublimazioni o estenuazioni. Beatrice "dolce guida e cara" verso Dio sta cedendo il posto a Laura "fera bella e mansueta" che è invece inciampo tra il poeta ed il Cielo. E si può trovare anche un’altra analogia tra il Pistoiese e l’Aretino: in entrambi l’ispirazione è istigata più facilmente dalla memoria passata che dalla contemplazione attuale: l’aura emotiva insorge più nel rivivere situazioni precedenti che nel descrivere un vagheggiamento presente. Purtroppo neppure questa concordanza col cantore di Laura salva Cino dalla mediocrità: la vena poetica è sempre smorta, quando pure non è inaridita. Forse la causa vera è nel contrasto esistente tra la conformazione psicologica di Cino e il mondo doclestilnovistico cui ha aderito inrovvidamente. Egli aveva un temperamento collerico (emotivo e attivo, ma primario, cioè instabile). Questo risulterebbe anzitutto dal successo complessivo della sua vita, in più di un campo di attività (insegnamento universitario, politica cittadina). In secondo luogo, sembra suggerito dal tono lirico del sonetto capolavoro citato. Prima di riflettere su questo particolare, vorremmo notare che il temperamento ipotizzato è aperto ad entrambi gli esiti della drammaticità: la tragedia (se meno violenta, la si chiama semplicemente "dramma", per antonomasia) e la epopea: che sono i due registri melodici del sonetto "Tutto ch’altrui aggrada, me disgrada". Sono quattordici versi scattanti, con ritmo brioso: musicalmente, si direbbero scritti con un tempo "andante-mosso e con allegria". E’ una poesia da collera per scherzo. Il poeta, infatti, da una parte si augura ogni sorta di male per trovarsi immerso in un mondo ingiusto e scortese; dall’altra lo fa in termini così apocalittici, da lasciar trapelare la intenzione comica: si sente che anche lui (come l’oste della Luna piena nei Promessi Sposi, c. 15) sta parlando "per celia". A questo modo lo sdegno violento della protesta (o disperazione? tragedia?) e la gioia del divertimento scanzonato (epopea? commedia!) non si elidono, ma si fondono in un risultato sorridente ed irridente, dove c’è farsa ma rimane un fondo di scontento reale, anche se rassegnato. Se non ci fosse una tale sfumatura, il tono lirico del sonetto sarebbe addirittura "cecchiano", cioè simile alla comicità di Cecco Angiolieri, di cui dovremo interessarci ben presto. In terzo luogo, l’analisi dello stile generale di Cino rivela una composizione musicale della sua lingua in urto con i motivi dolcestilnovistici che intraprende a cantare. Questi sono vagheggiamento estatico e contemplazione religiosa; oppure sono tormento e pena per sofferenze interiori, non risentimento e ribellione contro mali esterni. Ora la lingua del Pistoiese non ha nè consonantismo nè vocalismo disponibili per tali tematiche. Difatti le consonanti hanno un impasto medio ed equilibrato, ma non univocamente dolce: dentali dure con liquide morbide, palatali forti con fruscianti carezzevoli. Quante "T" anche raddoppiate! quanti suoni urtanti formati da "R" impura, cioè unita ad altra consonante a dare un suono stridente! Eppure quale percentuale di suoni consonantici (liquide, soprattutto) ad effetto ovattante, ammorbidente! Se veniamo alle vocali, allora il predominio delle larghe "A ed O" è sottolineato dal fatto che le troviamo in posizioni di "ictazione" ed anche di rima. In conclusione, a nostro rischio e pericolo, vorremmo avanzre una ipotesi radicale. Se Cino non avesse incontrato sulla sua strada la "moda" dolcestilnovistica, egli forse avrebbe potuto abbandonarsi più spontaneamente alla sua natura di ribelle o di burlone, per regalarci rime più sentite o risentite, più vive e briose. Saremmo cioè di fronte ad una ingegnosità (non diciamo "genialità") poetica disorientata dallo sforzo di fedeltà ad un programma, ad una scuola non consoni con la sua natura, con la sua psicologia, alla materia grigia del suo cervello che poneva dei limiti e dei viraggi precisi alla sua anima di artista (mentre ne poneva solo di potenzialmente efficaci, ma superabili, al suo pensiero ed alla sua attività morale). Non che egli ci avrebbe potuto dare capolavori sublimi. Se così fosse stato, se cioè il Pistoiese avesse avuto una emotività prepotente ed una intelligenza geniale, avermmo avuto un altro Dante; od avremmo avuto, comunque, un poeta conscio delle sue possibilità, attento a non incappare nei temi a lui indifferenti ed alieni e dedito sistematicamente a cantare argomenti forti e solenni, tragici od epici o comici. Se cioè egli avesse obbedito sempre al suo "dittatore" intimo, alle preferenze suggerite dalla sua psicologia spontanea, (forte, collerica, a prevalenza ortosimpatetica), noi avremmo avuto un dolcestinovista in meno ma un buon poeta in più. Salvo errori od omissioni!
LA POESIA REALISTICA
GENESI POLEMICA E SPONTANEA. L’idealismo della poesia dolcestilnovistica trovò ben presto chi ne fece la parodia e creò controfigure alla donna angelicata. Almeno tale è la impressione che lasciano certi rimatori contemporaneo al movimento (come Cecco Angiolieri) o subito posteriori ad esso (Tebaldi Pieraccio, ad esempio). Quest’ultimo, fiorentino (1290 — 1350 ca: podestà e castellano) ci ha lasciato un canzoniere di 41 sonetti eclettico nella ispirazione (ve ne sono di religiosi e di rimorso), ma a prevalenza giocosi (contro i ricchi e la moglie) e realistici (amore sensuale in contrapposizione evidente a quello spirituale dei dolcestilnovisti). Cecco Angiolieri sembra deformare la sua "Becchina" in contrapposizione alla Beatrice dantesca: anzichè donna celestiale che salva, riesce una femmina diabolica, che danna all’inferno già sulla terra il povero innamorato.
Ma non furono certo necessarie certe esagerazioni misticheggianti del Dolcestilnovo a generare una poesia realistica. Il REALISMO, infatti, è uno degli atteggiamenti fondamentali di fronte alla vita umana: consiste nel guardarne (Motivi ispiratori) gli aspetti brutti e sconcertanti (le lande desolate per gelo o per aridità; i corpi deformi per malattia o difetti congeniti; le anime ripugnanti per colpe e delitti); nel riviverli con emozioni (Toni lirici) pertinenti alla propria individualità psicologica (che possono essere tanto quelli drammatici e sofferti dell’orrore e dello sdegno, quanto quelli divertiti e comici dello scherno e della canzonatura); nell’esprimerli (Tecnica stilistica) attraverso la denuncia della aberrazione fra norma e realtà, senza curarsi troppo di osservare le regole della buona creanza, del pudore o della misura (ne fanno le spese il vocabolario che può essere volgare, la grammatica che può venir disattesa e la metrica, che può restar zoppicante. Siamo nel genere tragico o grottesco dell’Inferno di Dante. Non v’è epoca della storia umana che non abbia coltivato, assieme all’atteggiamento classico e romantico, anche questo " viraggio" espressivo. Esso nel corso del Milleduecento rimase minoritario, almeno a livello di espressioni affidate alla scrittura, per il prevalere della cultura cristiana già ricordata. Sia nei versi che nella prosa di tale indirizzo, vi sono stati risultati estetici di qualche conto, anche se non paragonabili al livello artistico della poesia seria già esaminata. E’ soprattutto per questo che ce ne occupiamo, anche se il trattarne ci servirà pure come propedeutica a comprendere contenuto, sentimenti e stile della prima cantica della Commedia (l’Inferno), che è quella del peccato e della disperazione, scritta appunto nello stile "realistico" o (come insegnavano nelle scuole medioevali) "elegiaco o basso".
RAPPRESENTANTI NOTEVOLI. Un tempo si dividevano questi rimatori in "popolari" e "popolareggianti": i primi sarebbero stati giullari o comunque verseggiatori ingenui, poco istruiti, espressione spontanea del popolo; gli altri erano invece i "dotti" che volevano far propri argomenti, sentimenti, strumenti espressivi del popolo. E’ una questione oggi superata: la letteratura in versi del Duecento è tutta "popolareggiante", cioè opera di persone colte che si avvicinano —ora ironici e canzonatori, ora complici e consenzienti- ai modi popolari di pensare, di sentire, di esprimersi, cioè ai loro valori, stati d’animo e linguaggio. Naturalmente rimangono gradazioni diverse di cultura/spontaneità, ma non si deve cercare in nessuno il candore dello sprovveduto poeta estemporaneo, quasi voce riassuntiva di una genialità inconsapevole, presente nei popoli primitivi od analfabeti (pregiudizio vichiano). A ben pensare, poesie realistiche ne hanno composte sia G. Guinizelli ("Volvol te levi, vecchia rabbi"osa"), sia G. cavalcanti ("Guata, Manetto, quella scrignutuzza"), Cino da Pistoia e Dante stesso (tenzone con forese Donati). Ogni uomo ha, almeno come tentazione, momenti di gusto realistico, per rabbia o per capriccio.
Cielo (Michele) d’Alcamo. é l’autore siciliano del "contrasto" conosciuto col nome tratto dal primo verso ( "Rosa fresca aulentissima"). Fu scritto certamente fra il 1231 e il 1250, essendo dato come ancor vivo Federico II e già promulgate —nel 1231 appunto- le Costitutzioni Melfitane ( e coniati gli augustali, moneta d’oro di Federico II). Risulta di 32 strofe di 5 versi ciascuna: tre alessandrini a rima unica e due endecasillabi a rima baciata, per un totale di 160 versi. Lo si legge volentieri la prima volta, per la curiosità di sapere come va a finire il dialogo tra il corteggiatore e la ragazza che cerca ( pare proprio sinceramente) di rifiutarsi: il contrasto è condotto infatti con sapienza e la ragazza sembra ben armata di argomenti per respingere l’innamorato insolente, che incalza con disinvoltura impudente. Alla fine il seduttore la spunta sulla ritrosia della giovane, ma solo dopo averle giurato sui Vangeli fedeltà perenne ( la cosa equivaleva praticamente ad un matrimonio, quale si trova anche in Boccaccio, nonostante la proibizione di simili modalità, da parte del Concilio Lateranense IV). E lo si rilegge ancora, ma per suggestioni equivoche. Da una parte, vi è certamente una discreta forza drammatica tanto in alcune delle espressioni con cui il seduttore avanza le sue proposte a doppio senso, quanto nelle risposte decise della ragazza che si difende fino ad assicurarsi in qualche modo della fedeltà dell’uomo: siamo, per tali strofe, di fronte ad un’emozione estetica. Ma vi è la seduzione erotica non poi così latente, chè le allusioni dell’aggressore sono volgari e trasparenti: con questo (che riteniamo la maggior attrattiva del componimento) siamo fuori dell’emotività lirica e, quindi, dell’arte. Anche i versi che vivono del dramma del contrasto, comunque, di lirismo ne rivelano solo un esile rivolo. Quando Dante nel De vulgari eloquentia classificava negativamente la composzione, per la bassezza della lingua (esempio di volgare mediocre siciliano: I, XII, 6), centrava il bersaglio: vi è infatti un linguaggio raramente adeguato alla forza drammatica che si è detta, per lo più inattinente per pressapochismi di termni e di musicalità. L’espressione troppo raramente è pertinente alla intenzione (o, se si vuole, la duplicità della intenzione nel rimatore produce notevoli casi di elisione per dissolvenza incrociata).
Ciacco dell’Anguillaia. Fiorentino, è autore sicuro del contrasto "Gemma lezi"osa", vicino per contenuto e nello spirito a "Rosa fresca, aulentissima". E’ però ancora inferiore come esiti artistici. Oggi si tende ad escludere che sia lo stesso personaggio di Inferno, 6 e di Decameron, IX, 8).
Ruggieri Apugliese. Nato a Siena, visse oltre la prima metà del Duecento. Fu notaio e giullare professionista. Entro i limiti di una sufficienza (non oltre!), pure piace, sia quando scherza su se stesso (canzone degli opposti: "Umile sono ed orgoglioso", perchè ama una donna eccezionale...ma non e è riamato); sia quando si presenta con la pretesa del "faccio-tutto-io", cioè dell’onnicompetenza (sirventese: "Tant’aggio ardire e conoscenza"); sia quando piange se se stesso, perseguitato dall’autorità ecclesiastica perchè ritenuto amico dei "patarini") ("Genti, intendete questo sermone:| Ruggieri ha fatto la sua passione"). Freme in lui ora l’umor gaio dello scherzo facile, dall’allegria autoironica; ora la drammaticità della protesta per le ingiustizie sofferte e da soffrire.
Anonimo dai "Memoriali bolognesi"."For della bella cayba| fuge lo lixignolo" è il ritornello di una triste ballatetta, che finge il pianto di un bimbo cui è fuggito l’usignolo dalla gabbia. Le quattro strofette di senari, con il ritornello riportato, sono interessanti per vari motivi. Anzitutto hanno un loro valore lirico: si tratta di elegia discreta: il rimatore è riuscito ad immedesimarsi con lo stato d’animo del suo tema, del bambino dolente. In secondo luogo, pare che in questo caso si sia proprio davanti a composizione popolare, ingenua, naif; sembra l’opera di un giullare poco provveduto o di improvvisatore dotato da natura, ma culturalmente grezzo. Non è l’unico di tal genere che si abbia nel secolo decimoterzo, ma è l’unico che possa aspirare all’Olimpo dell’arte letteraria italiana. In terzo luogo è interessante la circostanza che ce lo ha conservato. A Bologna una legge di fine secolo XIII imponeva la trascrizione, per ogni contratto o testamento, in tre copie su tre registri diversi. I giuristi addetti alla "Camera actorum" (Ufficio degli atti pubblici) pensarono bene di occupare le eventuali parti di fogli, non coperte dalla scrittura del documento legale, con poesie a loro note, affinchè non capitasse che lo spazio libero venisse abusato per aggiunte furtive all’atto rogato. La cosa è durata per due decadi, quelle a cavallo fra il sec. XIII e il XIV. Per lo più ci han tramandato testi di poesie dotte, siciliane o toscane; spesso però si son divertiti a trascrivere canti o composizioni popolari, preferibilmente di contenuto, sentimenti e stile realistici. Non è che, così, ci abbiano tramandato tesoro di grande livello lirico; però ci han dato testimonianza circa la diffusione di mentalità, gusti e stilismi in contrasto con quella cultura, cristiana e perciò moralmente elevata, dominante ma non unica anche nel Medioevo. Spesso tali versi documentano passioni vioente o mancanza di pudore. La nostra ballatetta è la cosa artisticamente migliore; e rappresenta anche una voce di candore e di intimità in mezzo al vociare sbracato di un’umanità al guinzaglio di istintività e violenza.
Rustico Filippi (cioè, di Filippo). Fiorentino, di parte ghibellina, vissuto probabilmente fra il 1230 ed il 1300. Ha al suo attivo 58 sonetti (amorosi, giocosi, politici, di corrispondenza), in cui dimostra di aver fatto tesoro delle esperienze dei Provenzali, dei Siciliani e di Guittone d’Arezzo. Questo, almeno per le composizioni amorose o serie, che sono la metà del suo canzoniere. Ma qui egli si rivela poco felice, seguace impacciato od innovatore maldestro (satira misogina). Il suo ingegno (non diremo "genialità) risalta nei sonetti satirico-caricaturali, di cui è l’iniziatore. Le canzonature che egli imbastisce volentieri, hanno monenti felici, di presa in giro efficace. Le macchiette politico-militari (veri capitan Fracassa: "Una bestiuola ho visto molto fera") o gli sgorbi di natura che pur posano a gran signori ("Quando Dio messer Messerin fece") danno la misura del suo talento e dei suoi limiti di satiro, che, ha sprazzi di fusione tra impeto fustigatore e comicità divertita: "ridendo castìgat mores"; si diverte e diverte. Ne escono farse, con tratti esemplari, quali non gli riesce mai di attingere in certi suoi versi beffardamente inpudenti in materia amorosa. Ma si tratta di pochi versi indovinati, chè la vena comica non resiste intatta neppure per il breve giro di un intero sonetto: inizi baldanzosi, scattanti, ma proseguimento presto o tardi faticoso, forzato. Dopo le prime battute, gli mancano i termini adeguati e ricorre a parole approssimative nel senso (nel sonetto "Su, donna Gemma co la farinata" il verbo "argomentare" è inserito nel senso di "curare, guarire"; "ha legati i denti", per "non riesce a mangiare"); o nella grafia che non sa sentire dove raddoppiare le consonanti (ivi: sotiletta| acendete| boca| tute| gonella...) o nella sintassi (ivi: "la gonella" se ne porian far due" sta per "della gonna" se ne potrebbero ora far due, tanto Mita, la donna malata,è dimagrita...). E sì che Brunetto Latini gli dedicò il suo "Favolello", con parole di grande stima (Francesco da Barberino invece lo ricorda come vituperatore del gentil sesso). Ma apre la strada alle invettive politiche e morali del concittadino Dante (che, però, nel De vulgari eloquentia, non lo nomina: segno che almeno la lingua di Rustico non piaceva neanche a lui).
CECCO ANGIOLIERI. La biografia. E’ senese: nato circa il 1260 e già morto prima del 1313. Ebbe individualità forte ma disordinata e riuscì uno scioperato nella vita. Figlio insolente e ribelle, augura la morte al padre; marito infedele e libertino, canta l’amante Becchina come croce e delizia dei suoi giorni; cittadino inaffidabile ed indisciplinato, vien punito per diserzione e vagabondaggio notturno; padre incosciente, dissipa i beni di famiglia, tanto che i figli rinunciano alla eredità...di debiti (davanti a notaio; e prima che il padre muoia!). Ma, benchè donnaiolo, ubriacone e giocatore accanito, egli risulta simpatico in molte pagine del suo canzoniere, formato da più che110 sonetti di sicura attribuzione. L’allegra estrosità con cui celebra i suoi vizi o l’animosità drammatica con cui aggredisce chi considera nemico (il padre, soprattutto, prudente amministratore dell’economia domestica; Dante, persino, simile a lui nelle sventure se non nei vizi; Becchina, addirittura, quando non è cortese con un tal amante; il mondo intero, infine, contro le cui leggi vuole campare e godersi la vita) forniscono una copertura —almeno fino a un certo segno- alla indegnità dei motivi ispiratori, alla sfrontatezza delle passioni espresse.
I Motivi Ispiratori. La sua versificazione (abbastanza spesso poeticamente riuscita) più che uno specchio fedele è una lente amplificante, se non deformante, della sua vita. Se, da una parte, i documenti scritti della Siena a lui contemporanea ci han confermato colle prove ufficiali molti suoi spropositi messi in versi; dall’altra, non si può ignorare il gusto cinico con cui egli si osserva, si descrive, si esalta nella bruta irrazionalità della condotta. Una parte della sua malizia sta anche nell’autocelebrazione delle le sue bravate, che lasciano, quindi, il sospetto dell’esagerazione. Qualitativamente uomo e versi si corrispondono; quantitativamente deve esser concesso un distacco fantastico, cioè il gusto per il "colpo di pollice" che fa traboccar la bilancia oltre la verità di fatti e sentimenti reali. In realtà non va dimenticato che l’improperium e il vituperium erana parte del genere comico, ben conosciuto dalla tradizione medioevale: egli ha dato loro una carica lirica non facile a ritrovarsi in composizioni troppo legate alla passionalità pratico-esistenziale. Questi precedenti lasciano sperare che il poeta Angiolieri esasperi il suo atteggiamento nel cantarlo, un atteggiamento che non poteva non riconoscere lui stesso rovinoso per la salute e le finanze. Anch’egli, sacro allievo delle muse, doveva essere "un cervello bizzarro e un po’ balzano che, nei discorsi e nei fatti, aveva più dell’arguto e del singolare che del ragionevole" (Promessi Sposi, c. 14). Se non fosse così, il senese "Cecco" risulterebbe un mostro insopportabile. Egli maledice il padre (taccagno? "Il pessimo e crudel odio ch’i’ porto..."; "Non si disperin quelli de lo’nferno..."); vorrebbe distruggere il mondo ("S’i’ fossi foco, ardrei ‘l mondo"); proclama sua betaitudine i vizi più rovinosi ("Tre cose sommamente m’enno in grado| le quali posso non ben ben fornire,| cioè la donna, la taverna e ‘l dado..."). Ma deve esserci molta millanteria: quella stessa oltranza che certamente esiste, quando si proclama perseguitato da centomila malanni ( "La mia malinconia è tanta e tale"; "La stremità mi richer per figliuolo": chi davvero soffre profondamente non ha tempo nè estro per scrivere versi). E il paio di sonetti di palinodia (ritrattazione), in cui definisce il parlare contro il padre come il peggiore dei vizi capitali e si lamenta della malvagità del mondo ("Chi dice del suo padre altro ch’onore"; "Egli è sì poco di fede e d’amore"), possono aiutare a dar ragione a Luigi Russo, che parla di un "cinismo verbale" e del "compiacimento espressivo dell’ingiuria in se stessa". Entro questi limiti, resta però innegabile che i temi che eccitano la sua musa sono Becchina e la passione sessuale, il vino e l’osteria, il gioco ed i danari. In più c’è la rabbia e la tristezza che segue alla incontentabilità, connaturata in tali passioni edonistiche ed antisociali.
Tonalità liriche. Non unico è l’atteggiamento emotivo che egli assume di fronte ai disvalori che dettano la sua vita ed i suoi versi. Ora canta gli "anti-ideali" per cui spasima; ora si ribella contro la disgrazia di non poterli realizzare a fondo; ora impreca contro chi gli impedisce di goderne libertinamente; ora ride delle proprie e delle altrui miserie. Mai elegiaco nè idillico, si caratterizza complessivamente per una baldanza celebrativa che sa di epopea, ma che si mescola all’allegria che la trascolora in farsa: anche il lamento assume la violenza dell’urlo, addomesticato da una residua briosità, che ne salva la dimensione umana ed artistica ed apparenta la tragedia alla epicità. Esempi di epicità farsesca: "Tre cose sommamente m’ènno in grado" (specie la prima quartina), "S’i’ fossi foco, arderei il mondo" (specie l’ultima terzina),"Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo" e i due capolavori "Becchin’amor! — Che vuoi, falso tradito?" | "Becchina mia! — Cecco nol ti confesso". Fra dramma ed epopea ci sembrano stare questi altri: "Io son sì altamente innamorato" (in lode di Becchina), "Senno non val a cui fortuna è contra". Dramma puro, ribelle: "La mia malinconia è tanta e tale", "La stremità mi richer per figliuolo", "Maledetta sie l’or’e’l punto e ‘l giorno" (che Petrarca rovescerà in benedizione, in un sonetto ispirato a questo dell’Angiolieri), "Becchina, poi che tu mi fosti tolta", "I’ son sì magro, che quasi traluco", "Qual è senza denari ‘nnamorato","Il pessimo e crudel odio ch’i’ porto", "Egli è sì poco di fede e d’amore" (contro la malvagità del mondo), "Chi dice del suo padre altro ch’onore" (palinodia). Manzoni commenterebbe arguto: "Che non si creda che a condurre vita scioperata siano tutte rose!" In verità la musa di Cecco è una megera piena di stizza, rancore, tristezza e rabbia, di ironia anche a proprie spese, di amarezza contro tutta la vita, non esclusi (alla fine) anche i propri vizi. Ma, fin che gli riuscì, seppe mescolare un guizzo di riso alle proprie, alle comuni disgrazie: e riuscì poeta.
Note di tecnica stilistica. Veristici i motivi ispiratori, grotteschi i toni lirici (fra canti e risa) realistici anche il vocabolario, la sintassi, la sonorità della espressione. Senza giungere alla volgarità e oscenità di un Rustico Filippi, tuttavia la espressione lascia trasparire la brutalità dei suoi desideri; e arriva talora alla empietà blasfema contro il padre. Il suo vocabolario è originale, con ascendenze goliardiche e senza debiti verso gli altri poeti giocosi e realistici. Per di più, nei suoi sonetti sono assenti del tutto gli avverbi, rari gli aggettivi persino in posizione predicativa (dopo il verbo essere o affini): l’Angiolieri è un poeta che lavora su sostantivi e verbi!.Questo fatto conferisce al suo modo di parlare-scrivere una corposità visiva che manca di sfumature, di gentilezza e di chiaroscuro e fanno di lui un poeta naturalista in alto grado. Anche la musicalità ha i caratteri della banda in una fiera paesana: nel predominio sicuro delle vocali larghe ("A" ed "O" in posizione ictata: il tamburo e la batteria come rumori emergenti), si innesta la frequente combinazione della "R" con altre consonanti a dare un senso rusticano, quasi il suono del trombone in bocca ad un avvinazzato. A questo punto, però, ci si deve accorgere di un impasto meno fragoroso e più ovattato che sta sullo sfondo ed incivilisce il risultato complessivo, permettendo alla esibizione un livello d’arte, sia pur mediocre, che la sottrae al genere del cancan e della baraonda. Questo accompagnamento generale è costituito dall’equilibrio tra i suoni duri delle dentali e gutturali, da una parte, e quelli dolci delle liquide e nasali, fricanti e sibilanti, dall’altra: è come un alito di gentilezza diffuso da flauti e corni, da oboe ed arpe. Tale effetto è rafforzato dalla frequenza delle vocali deboli "I", "U" ed "E" in posizione rimata. I versi del Senese assumono così un cordialità popolana ma non sbracata; il suo corpo bandistico non offrirà musica di alta lirica operistica, ma motivi vivaci di liete danze o di lamenti gridati, congeniali al contadino analfabeta ma non sgraditi al cittadino acculturato. La sintassi —nelle rime più riuscite- è la meno complicata possibile: nei due sonetti-capolavoro il dialogo riduce le frasi a coordinate che durano un emistichio (mezzo verso). Quando egli complica il periodo, non sai dire se la musa lo ha abbandonato per pirma o se il ragionamento l’ha scacciata: comunque la poesia sbiadisce e scompare. Eppure siamo lontanissimi dal naif, dal popolano incolto e spontaneo. Egli ha presente Guittone ed i Dolcestilnovisti, ma si adegua all’abiezione della sua vita ed alla cerchia degli ascoltatori del suo rango. Sapegno parla (giustamente, ci pare) di un "gusto della esagerazione e dell’iperbole", di "uno spirito di vanteria ciarlatana" che fa indovinare la "presenza di un pubblico di gusti ed abitudini conformi, e quasi l’eco delle grasse risate che dovevano accompagnare la lettura di quei sonetti nella veglia della taverna" (Compendio, cit. I, 91-2).
FOLGO’RE DA SAN GIMIGNANO (Jacopo di Michele, detto).
Note biografiche.Nato circa il 1270, lo si sa già morto nel 1332. Il soprannome di "Folgòre" gli venne dallo splendore del suo estro poetico. A Siena prestò il suo servizio poetico. Ci ha lasciato 32 sonetti: 14 formano la collana dei mesi (con un sonetto di introduzione ed uno di conclusione); 8, la collana della settimana (con uno di introduzione); 5 sono sonetti per "armatura di cavaliere" (collana incompiuta); 7 sono di ispirazione morale e politica (di questi ultimi, quattro sono invettive dolenti contro i ghibellini, causa, per lui guelfo che ha combattuto a piedi ed a cavallo per il comune, della decadenza politica). Più che poeta realista, egli va considerato "poeta del plazer" di stampo provenzale (cfr. anche Dante "Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io.."). Egli si oppone al poeta dell’ennueg (noia), che è Benvicenne (Cenne) della Chitarra (Arezzo, seconda metà del Duecento).
Motivi ispiratori. Si è tentati di definirli coi famosi versi che Dante mette in bocca a Guido del Duca: "Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi| che ne invogliava amore e cortesia| là dove i cuor son fatti sì malvagi" (Purgatorio, 14, 109-11; vedi anche Giov. Villani, VII, 89). Non è tutta la verità: egli canta bensì la cavalleria del mondo feudale ma, mentre celebra la classe aristocratica, gentile e magnanima, rivela uno scetticismo che non è in accordo col quadro ideale vagheggiato dal personaggio romagnolo della Commedia. Intanto la brigata cui egli si trova associato a Siena come amico e giullare, commensale ed aedo, è così gaudente da lasciare il sospetto che coincida con i dodici compagnacci riunitisi a dissipare le ricchezze dei padri in orge conviviali; e definiti, perciò, "brigata spendereccia": Dante non potrebbe addurla come esempio mitico di un mondo cortese, poichè l’ha già bollata con ironia sardonica in Inferno, 29, 121-32. Inoltre Folgòre, guelfo viscerale, si rivela anticlericale e miscredente: l’ambiente che egli auspica è quello ove "chiesa non v’abbia nè monistero:| lasciate predicare i preti pazzi,| che hanno assai bugie e poco vero" (collana dei mesi: "Di Marzo), tanto che Sapegno attribuisce al sodalizio "un ideale epicureo" (Compendio, cit, I, 93). Infine il mondo da lui descritto così felicemente ("guidato da buon gusto e da un raro senso della eleganza mondana": Sapegno, cit.), affascina bensì per l’affluenza e la spensieratezza, ma sconcerta per il vuoto di occupazioni e di idealità: l’attività più impegnativa è la caccia; il resto sono danze e giochi, baci e dolciumi, giostre cavalleresche e passeggiate su destrieri che riconducono al desco, al bere, al mangiare. E’ un mondo senz’anima, senza valori morali, senza impegni sociali, senza lavoro nè responsabilità: è tutto materiato di sensi e di egoismo. Ma le sue ultime rime rivelano il rovescio della medaglia:la gaudiosa brigata si è dissolta ed allo splendido trovatore vengono a mancare i mecenati, onde egli deve lamentarsi per la taccagneria dei tempi ("Cortesia, cortesia chiamo| e da nessuna parte mi risponde...") : che la "vigna e la gran fronda" (selva) di Caccia d’Ascian fossero state ormai del tutto scialacquate in conviti e sollazzi? (Inferno, 29, cit.).
Toni lirici. Ci limitiamo ad esaminare le cose migliori, cioè le due collane di sonetti per i mesi dell’anno e i giorni della settimana. Vi scopriamo un registro lirico molto personale, in cui convergono epopea ed idillio, pur senza riuscire a creare l’aura dell’estasi, per la presenza di una venatura comica di fondo, che limita la purezza e la intensità. dei due registri, o comunque ne impedisce la perfetta fusione. La nota comica nasce dalla coscienza che l’esistenza auspicata e vagheggiata non è più che la "favola bella" che sempre c’illude. Ma è una consapevolezza affiorante a stento: non abbastanza per rompere del tutto l’incanto della favola stessa e l’attesa, quindi, dell’estasi, la sua promessa se non il suo fascino. Si tratta, dunque, di un’emotività alterna: scattante e vellutata, energica e morbida, che precorre la voce e fa presagire il timbro del Rinascimento. Essa fa dei suoi versi una fontana fresca e impetuosa, zampillante di energia giovanile, di mondana letizia, di spensierata festosità, di spontaneità fantasiosa; li rende capaci di evocare un’esistenza di eleganza e di galanteria, di bellezze e di amori, di divertimenti e di abbandoni, di magie e di incantesimi: che sottraggono l’eletta compagnia alla realtà di dolore e di morte, per immergerla in un’atmosfera di fiabe e di sogni, che sembra possedere il talismano della perenne giovinezza, privilegiare col dono di un dinamismo inarrestabile, introdurre nel segreto del moto perpetuo, concedere l’elisir della intramontabile felicità. Folgòre sa creare insomma un paradiso profano (o un Luna Park virtuale), in cui egli è il mago che anticipa il castello incantato di Atlante, le donne e i cavalier, l’arme e gli amori di cui canteranno Dante ed Ariosto. Fulgido il poeta, ammaliante il suo mondo, splendida l’illusione: ma non perfetta. La vicinanza di epopea ed idillio non giunge a creare quel sinergismo lirico, che è l’estasi, cioè l’ oblio del reale nel rapimento verso quel mare di ineffabili visioni, di gioie interminate in cui è dolce naufragare. Il perchè è stato detto: sta in agguato nell’animo del poeta un fattore di parziale dissolvenza: è un pulviscolo di ironia che obnubila tutta la trasfigurazione fabulosa. Permane in Folgòre la consapevolezza che i suoi asupici di una vita felice, la sua magnanima elargizione di gaudi sublimi sono "uno scherzo, uno scherzo, tutto (e soltanto) uno scherzo" (Elsa Morante, La Storia, Torino, Einaudi, 1974).
Note di tecnica stilistica. 1. Tra Idealiazzazione e Realismo. L’ambiguità dell’attitudine di Folgòre di fronte al suo mondo di canto si rivela nelle caratteristiche contrastanti del suo stile sorprendente. Da una aprte, vi è un processo di idealizzazione che lo sfuma verso il sogno e la fiaba; dall’altra vi è una concretezza che lo tiene ancorato saldamente alla realtà profana, sensibile e, anzi, implicitamente, sensuale. Da una parte il paesaggio viene liberato da ogni pesantezza ed elevato ad una passerella di eleganza luminosa e di raffinata levigatezza, che fa perdere all’umano agitarsi ogni fretta e fatica, ogni ruvidezza e volgarità, ogni senso di sforzo e di pesantezza. Ma, dall’altra, la vita è, come si è detto, epicurea, la società sembra senz’anima, il tempo si spende senza ideali nè impegni, l’ ozio si risolve in occupazioni gratuite, materiate di sensi e di piaceri. Una vita epicurea, per quanto tirata a lucido, resta pur sempre materialista; un’esistenza egoistica, per quanto elegante e piacevole, non è molto distante dal livello animale.
2. Elasticità. Questa caratteristica della espressione oscilla fra il servizio all’idillio e quello alla epicità. Abbiamo, cioè, un secondo gado di ambiguità verbale, all’interno dell’alternanza fra idelità e realismo. Il risultato è una atmosfera di armonia fra duttilità e vigore: di elasticità vicina a quella (ben più esperta e sapiente) che troveremo in Poliziano. Da una parte, dunque, vi è il predominio della forza di sostantivi e verbi che giocano in favore della dimensione epicizzante; dall’altra, l’idillio trova frequenti vie furtive per farsi presente, perchè gli aggettivi, pur minoritari, hanno una flessuosità eccezionale: "i giovani fagiani e la minuta erbetta, la brigata nobile, cortese e la gentile campagna, la brigata franca e i giovani prodi, i bellissimi arbuscelli e le frutta savorose"; si veda, in Febbraio, anche l’effetto luminoso dell’aggettivo "razzante"). L’equilibrio tra forza e dolcezza è mantenuto anche attraverso espressioni attributive che corteggiano un sostantivo e, praticamente, hanno funzione aggettivale: "con allegrezza stando", "costumanza alla francesca", "compagnia che vi diletti e piaccia"; od attraverso un elenco di sostantivi "ornamentali" ("Vi"ole e rose e fior’, ch’ogni uom v’abbagli"). Ulteriormente la fusione fra sostantivi ed aggettivi è generata dall’uso di diminutivi e vezzeggiativi: "salette, donzelle, cavri"oli, gonnelle, navicelle, montagnetta, castelli, cittadella, fiumicelli, fontanetta, praticelli, erbetta"; o dall’impiego di aggettivi sostantivati, come "scirocco, gherbino, rovaio, nidaci (falchetti, cioè uccelli presi dal nido ed allevati alla caccia)".
La musicalità, infine, è il correttivo più efficace alla supponenza dei sostantivi invadenti: dittonghi e trittonghi che scivolano levigati o carezzevoli ("febbraio, razzaio, rovaio, peschiera, riviera, schiera, primiera, mestiero..."); od eleganti dialefe (iati), come in "treggea, cortesie, vie, viole, graziose...". I suoni forti dele vocali larghe (A/O) che, con la media (E) prevalgono in rima, sono compensati ed addolciti dall’impasto consonantico inclinato ad una tal prevalenza di liquide (L/R) e nasali (M/N), di fruscianti (F/V) e sibilanti (S/Z) e palatali dolci (anche raddoppiate: GG/GL/GN), da sommergere le pur presenti dentali, palatali forti, gutturali.
Questa simbiosi di concretezza sostantiva, ammorbidita dalla fluidità musicale, con l’ausilio di una subdola aggettivazione strisciante, è il segreto della mente, dello spirito, del fulgore espressivo nel nostro poeta, che ne ha tratto il soprannome.
E c’è dell’altro a provocare quell’insieme di brio, festevolezza, cordialità ed energia, in equilibrio tra epicità ed idillio. Egli rovescia il rapporto fra signori convitanti ed aedo parassita: è lui che, con piglio magnanimo, da munifico principe, "dà, offre, regala" in quasi tutti i sonetti dei mesi e dei giorni: "E di febbraio vi dono bella caccia", " Di maggio sì vi do molti cavagli", "Di giugno dovvi una montagnetta"... Insomma Fulgore è tanto magnifico, che rischia di rendere simpatica anche la prevaricazione e religiosa ed etica e sociale. Un simile sinergismo, più esperto, più sapiente, più maturo, più ricco tra fleessuosità e potenza, fra energia e morbidezza lo ritroveremo nel primo Rinascimento fiorentino: sarà il Poliziano, nella cerchia del magnifico Lorenzo de’Medici e della sua allegra brigata di... compagnacci.

F) LA POESIA ALLEGORICO-DIDATTICA
Oramai del Duecento artistico-letterario ci rimane solo più Dante: la produzione in versi che andremo esaminando e la prosa che la seguirà non hanno grandi pregi estetici: al più il "Novellino" può sorprendere un attimo in qualche pagina meno arida e schematica. Perchè, allora, studiare tali opere? Lo si fa, sia per procurarci una panoramica meno incompleta della cultura nel primo secolo letterario d’Italia, ma per predisporre a comprendere quell’opera suprema che è la Divina Commedia la quale, per molti aspetti ideali e stilistici, affonda avidamente le proprie radici nella congerie di operosità poetica e prosastica che si svolgeva attorno a Dante o che era da poco entrata nel commercio culturale della sua generazione. Iniziamo, dunque, dai versi scritti per istruire ed educare: che è (provvidenzialmente solo nelle intenzioni) anche la missione affidata da Dante al suo capolavoro. Cominciamo a spiegare, delle rime che ora prenderemo in esame, i due caratteri enunciati nel titolo. "Allegorica" è quella letteratura che si rifà ad una persona (il poeta stesso, eventualmente) ed a sue vicende o storiche o finte (di solito: un viaggio dello scrittore) che vengono assunti con funzione di simbolo proiettato a finalità didattico-pedagogiche (di istruzione e di educazione).
"Didattica" sottolinea la funzione ammaestrativa o istruttiva di queste opere, che però spesso pretendono di essere accolte anche come "pedagogiche", cioè educative.
Anche in questo campo, maestra è la Francia. Con le due parti del Roman de la Rosa (Guillaume de Lorris, prima metà del Duecento: scrive i primi quattromila versi dell’opera; Jean de Meung (che, nella seconda metà del secolo, scrive altri diciassettemila versi ottosillabi rimati) e con i poemi della volpe (Reinardo o Rainaldo) e del lupo (Isengrino), essa offre i modelli di varia sapienza, attraverso il simbolo di un fiore o di animali, di un viaggio per impadronirsi di quello o per imparare dalla scaltrezza e forza di questi. La sapienza che si intende comunicare è diversa nei vari autori: in particolare è più spirituale e morale nel Lorris e più mondana e spregiudicata nel de Meung.
Non è da intendersi, però, che tutti i nostri verseggiatori si rifacciano necessariamente a tali composizioni: dei tre che accosteremo, solo Brunetto Latini è suggestionato da tali modelli, mentre Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva sono più indipendenti e nai"f.
Giacomino da Verona. Vissuto nella seconda metà del Duecento, egli stesso si firma come frate francescano ("de l’Orden de Minori"). E’ autore di un poemetto in volgare veronese, diviso in due parti: 280 versi per celebrare il Paradiso (De Jerusalem celesti) e 336 per descrivere l’Inferno (De Babilonia civitate infernali). I titoli in latino sono frequenti in questo secolo, anche per chi scrive opere in volgare. Le fonti sono (oltre la fantasia dell’autore) l’Apocalisse, la letteratura francescana e il repertorio dei predicatori. La metrica è quella delle quartine di alessandrini (doppi settenari) monorimi: talora però l’ottonario subentra al posto del settenario e la assonanza al posto della rima. Se l’uso dell’alessandrino fa riferimento ad un influsso, diretto od indiretto, del modello francese, l’approssimazione del metro è invece indizio di popolarità. Questa è confermata dall’invito dell’autore, fatto ai signori teologi, a non sottilizzare con la loro dottrina nel giudicarae un’opera destinata al popolo. E, in verità, la rozzezza della versificazione, la grossolanità dei particolari, la ingenuità delle situazioni rendono culturalmente insignificante e poeticamente fallimentare quest’opera, che può essere stata, però, conosciuta da Dante per la prima e terza cantica del suo poema. Al più si possono ricordare alcuni versi come, nella Jerusalem, il quinto e ottavo della seconda strofa e qualche strofa intera su Maria santissima (versi 217-240: 277-80); e i versi sull’incontro tra padre e figlio nell’inferno della Babilonia (285-340). Tra questi ultimi, è notevole il v. 300,che parla di "rapine, osure e maltoleto" con una terminologia che si avvicina a quella del canto undecimo nell’Inferno dantesco.
Bonvesin de la Riva. Vissuto fra il 1240 ca e il 1315 ca, deve probabilmente il suo nome al fatto che abitava a Ripa di Porta ticinese, in Milano (dove non nacque, ma dimorò sicuramente almeno dal 1290). Fu "doctor in gramatica" e insegnò privatamente. Si sposò due volte e fu membro (frate laico) del terz’ordine degli Umilati. Pare che abbia fondato un ospedale a Legnano. E’ lo scrittore più dotto dell’Italia settentrionale nel Duecento, potendo riferirsi alle opere latine e francesi in voga. Che egli avesse una inclinazione alla poesia, lo testimonia la sua discreta produzione in versi latini e milanesi. Ma sempre l’uomo di cultura e di religione offusca il poeta: egli è più interessato a diffondere l’istruzione e la moralità che non a comunicare emozioni. Per questo la sua scrittura è "standard", cioè quanto mai prosastica e finalizzata alla conoscenza della mente, non alla gioia del cuore (in linguaggio strutturale si direbbe: egli comunica attraverso la "langue" convenzionale, non la "parole" personalizzata; in lui prevale il paradigma, non il sintagma). Con questo intento di divulgazione della sapienza di vita, egli ha sfornato opere in continuazione, disinvolto bensì ma troppo poco preoccupato di raffinatezza e lirismo: al suo confronto, Giacomino da Verona si rivaluta per vivacità e partecipazione affettiva (sia pure passionale, non decantata dalla foga praticistica). Egli rispondeva ai bisogni di una parte (borghese) della sua generazione, che desiderava istruirsi anche al di fuori delle opere in lingua latina, scritte per studiosi cattedratici e studenti universitari. La aridità e prosasticità della sua scrittura si potrebbe intuire da un dato vocabolaristico: mancano del tutto gli avverbi; rarissimi, gli aggettivi. Dominano assoluti verbi e sostantivi, senza i compensi od i risultati di un Folgore o di un Cecco Angiolieri.
Ha, dunque, lasciato libri in prosa ed in versi latini ( De magnalibus urbis Mediolani: uno scritto in prosa sulle grandezze della città di Milano; De vita scholastica: distici elegiaci sui doveri di maestri e discepoli). Ha, inoltre, edito traduzioni dal latino (i Dicta o Disticha Catonis, opera del II-III secolo d. C., con aggiunte cristiane dell’alto Medioevo: sentenze morali e insegnamenti di vita saggia). La più parte della sua produzione, però, è in volgare milanese: i titoli in latino non devono trarre in inganno. Ha scritto "laude", "miracoli", ma le sue cose migliori sono una ventina di poemetti. Fra essi ci sono "Contrasti" (quello più interessante è la "Disputatio rosae cum viola": "Disputa fra la rosa e la viola"). Ecco altri titoli, che documentano la vastità di interessi e la gentilezza di ispirazione di questo "professor artis gramaticae " del Duecento: De quinquaginta curialitatibus ad mensam (Cinquanta cortesie da desco), Laudes de Virgine Maria (Lodi della Vergine Maria), De elemosynis (Le elemosine), De die iudicii, Istoria de li misi (Trattato dei mesi), Vita di Sant’Alessio. Ma il più noto ed anche il migliore di tali poemetti è IL LIBRO DELLE TRE SCRITTURE (già finito nel 1274), che descrive rispettivamente l’Inferno (scrittura nera), la Passione di Cristo (scrittura rossa) e il Paradiso (scrittura aurea). Il poemetto è molto più dignitoso e ragionevole che non quello di Giacomino da Verona: la rappresentazione dell’inferno è forte, senza cadere in grossolanità; quella della passione del Signore è seria e devota, senza retorica o patetismi; quella del paradiso ne descrive con candore lo stato beatificante, ma non riesce a comunicarla alla nostra emotività: è opera di un fedele dotto, non di un poeta ispirato. Comunque, il poemetto rappresenta il precursore meno indegno della Commedia, per la sapienza letteraria nella rappresentazione dei due regni d’oltretomba, attraverso l’impiego di scene concrete e visioni mosse. Come negli altri poemetti, infatti, Bonvesin tende congenialmente al "racconto" di fatti veri o verosimili, che danno interesse di particolari storici o tradizionalmente accettati (il maestro milanese ha un discreto senso critico, per cui si fa scrupolo di consultare le fonti scritte su personaggi e loro vicende, pur senza riuscire ad emendarle dei dati leggendari ormai entrati nella coscienza medioevale, purtroppo storiograficamente ingenua).
Brunetto Latini. Fiorentino, nacque dopo il 1220 e morì nel 1294. Fu notaio di parte guelfa: sulla via del ritorno da una ambasceria in Castiglia per invocare aiuti contro Manfredi, fu raggiunto dalla notizia della vittoria ghibellina a Montaperti (1260) e dell’esilio inflittogli: si fermò in Francia. Ivi esercitò l’arte notarile, grazie al valore europeo dei titoli accademici. Approfittò dell vacanza da impegni pubblici per scrivere: forse tutte le opere che ci ha lasciato (eccetto quelle legate agli uffici pubblici che ricoprì ancora, dopo che la vittoria di Carlo d’Angiò a Benevento nel 1266, lo restituì a Firenze) le redasse durante l’esilio francese, comprese quelle in lingua toscana. Ma se anche l’impegno politico e privato gli tolse opportunità di pubblicare, tuttavia la fama raggiunta lo elevava ad un magistero ideale presso i concittadini, che Dante immortalerà nella Commedia. Egli lo esercita anzitutto con l’esempio (divenne priore nel 1287); con la lingua elegante che introduce negli atti pubblici, con la conversazione intelligente e con la esortazione esplicita allo studio ed all’attività letteraria. Il probo Giovanni Villani scriverà che il Latini fu "cominciatore e maestro in digrossare i fiorentini e fargli accorti in ben parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica". E Dante in Inferno (15, 22-120) ricorda "la cara e buona immagine paterna" di lui, che gli insegnava "come l’uom s’etterna": pur condannandolo con mirabile, inesorabile coerenza al fuoco che tormenta senza fine i sodomiti. L’opera politica del Latini non interssa particolarmente, non contando al suo attivo iniziative di portata storica. Pare però dimostrato che fu lui a introdurre nella cancelleria di Firenze lo stile "alto", cioè quel modo di scrivere in latino, che Pier delle Vigne aveva solennizzato negli atti imperiali di Federico II. Merita, invece, ricordo il fatto che egli dedicò la sua opera letteraria alla istruzione-educazione dei concittadini anche ignoranti di latino: ad un livello decisamente superiore di quello umile del grammatico di Milano. Egli tende ad offrire una "somma" od enciclopedia di tutto lo scibile, cominciando dalla teologia per discendere alla vita morale e concludere con la retorica, invertendo cioè l’ordine tradizionale delle materie: egli passa dalle finalità agli strumenti, così come è sua intenzione preparare cittadini cristiani, onesti e infine competenti nelle responsabilità amministrative e politiche (in realtà, tale inversione metodologica gli è consentita, in quanto egli si rivolge ad un pubblico adulto, mentre la scuola doveva adattare le specializzazioni dell’insegnamento alla graduale maturazione degli studenti). Così è organizzato il "Trésor" (o, meglio, "Li livres dou Trésor"): il primo libro tratta di teologia, storia e scienze naturali; il secondo, di morale e di economia (e qui traduce e riduce l’Etica nicomachea di Aristotele, spiluzzicando da altri trattati latini e francesi allora in voga); il terzo libro specifica ulteriormente l’insegnamento pratico, con chiaro viraggio politico: la parte dedicata alla retorica fa ampio uso del "De Inventione" di Cicerone, che viene però chiaramente ritoccato in funzione di una repubblica comunale del Duecento italiano. Il tutto, scritto nella prosa di quella Francia, allora più che mai monarchica. Il Trésor fu subito tradotto in volgare toscano e in altre lingue europee, con larga diffusione: era uno strumento di cultura e preparazione alla vita pubblica, che eludeva per la prima volta la via della "grammatica", cioè del latino appreso a scuola. Volle far conoscere opere di Cicerone e perciò tradusse i primi diciassette libri del De inventione che gli era già servito per il Trésor (la pubblicò col titolo "La Rettorica", che univa anche la versione della Rethorica ad Herennium, creduta allora opera dell’Arpinate); in più tradusse le orazioni "Pro Ligario", "Pro rege Deiotaro" e "Pro Marcello" (e fu il primo in Europa!). Ma a noi interessano evidentemente molto più le opere scritte direttamente in volgare toscano ed in versi, cioè in italiano. Sono tre: il "Favolello", la canzone "S’eo son distretto innamoratamente" ed il TESORETTO. Il "Favolello" è un’epistola in versi a Rustico Filippi per confutare il suo pessimismo radicale sulla amicizia: gli amici veri son rari (e bisogna, perciò, stare in guardia contro quelli falsi), ma esistono. La canzone è in pretto stile siciliano e non ha valore poetico. Ma neppure l’opera migliore, il TESORETTO (sintesi, in settenari a rima baciata, della materia contenuta nel Trésor, ma esposta entro la trama di un’allegoria) nasce da un vero pathos dell’animo: è solo abile versificazione di una sapienza che affonda le radici in una erudizione notevole, spiegata da una intelligenza non comune. Di queste doti del poemetto si potrà avere uno scampolo in un’esortazione ai fiorentini, sempre tentati di fazioni e personalismi, che è esposta in alcuni versi, fra i migliori dell’opera: "ma tutti per comune| tirassero la fune| di pace e di ben fare,| chè già non può scampare| terra rotta di parte..." (sono i versi 175-8). Ma su 2944 versi, questi quattro sono troppo pochi per qualificare come esteticamente rilevante l’opera... Pure ci sono due motivi per cui il Tesoretto non può essere dimenticato. Benchè piuttosto arido (poemetto didattico e pedagogico non solo nelle intenzioni, ma —ahimè!- anche nella realizzazione: è una sintesi del Trésor, di cui è un sunto in versi), il lavoro risulta di una chiarezza di ideazione e di una fluidità di espressione, da lasciar addietro ogni altra opera del genere prima della Commedia. Si sente la presenza di una mente fiorentina (o almeno toscana: il padre era nativo della Lastra, notaio lui pure) che espone, in versi scorrevoli e senza forzature, un pensiero preciso e concreto. Anche nelle prose (di traduzione) egli rappresenta il massimo grado di chiarezza e naturalezza, di precisione e sobrietà raggiunto dalla prosa italiana nel Duecento: la stessa opera giovanile di Dante, la "Vita nova" è, nelle parti in prosa, meno limpida ed immediata. Si vuol dire: B. Latini ha costretto la classe colta italiana a svestirsi delle sofisticazioni di un linguaggio contorto e pressapochista, perifrastico e retorico ed a parlare con disinvoltura, ritenendo dello studio scolastico soltanto la lucidità del pensiero e l’abito della concretezza e dell’ordine, della sobrietà e della precisione. La seconda ragione, che rende il Tesoretto (come il suo antecedente Trésor) degno di memoria, è la suggestione esercitata su Dante per la trama del suo capolavoro. Entrambi sono basati sulla allegoria di un viaggio, con lo smarrimento in una selva, con l’apparizione (di stampo boeziano) di personaggi ( qui si tratta della Natura, della Virtù, del Piacere, ecc.) che offrono spunti per trattazioni dottrinali ed educative. Già questo spiega perchè Dante si consideri un po’ come figlio spirituale del Latini ("la cara e buona immagine paterna"). Ma ad un certo punto, il Tesoretto si esprime in questi temrini: "e io, in tal corrotto (per la sconfitta dei guelfi a Montaperti),| pensando a capo chino,| perdei il gran cammino| e tenni a la traversa| d’una selva diversa.| Ma, tornando a la mente,| mi volsi e posi mente| intorno alla montagna;| e vidi turba magna| di diversi animali...|. Parrebbe che il Latini scrivesse la brutta copia per il suo discepolo Dante: che sublimò certo a livello estetico troppo superiore questi particolari, ma non ebbe a durare fatica ad inventarseli: li trovava già pronti ad opera del concittadino e maestro.
G) LA PROSA IN LINGUA VOLGARE NEL DUECENTO
La condizione della prosa in volgare italico nella coscienza dei letterati nel Duecento in Italia.
Dopo la fioritura poetica della Scuola siciliana e del Dolcestilnovo, la lingua volgare italica si è imposta come capace di esprimere idee e sentimenti elevati: non subisce più sospetti di essere, perchè "volgare", (usata dalla plebe) inadeguata per la produzione lirica. Nella coscienza degli intellettuali, aspiranti rimatori, essa è sentita all’altezza del provenzale (ormai al tramonto, dopo la conquista da parte del Nord francofono od oitanico, in occasione della crociata antialbigese) e del latino (che resta così relegato alla produzione poetica della Liturgia). L’unico pseudoproblema rimasto (che turba anche Dante, inducendolo a scrivere il De vulgari eloquentia) è il tipo di "volgare italico" degno di essere usato per cantare i temi ispiratori più alti (moralità e religione, guerra o lotta per la sopravvivenza fisica, amore o funzione riproduttiva-educativa dell’uomo). Il problema si risolverà con i fatti della esecuzione letteraria concreta e con la preminenza economica della Toscana nel Trecento, ma anche per la inconsistenza della questione: non esiste, infatti, una lingua più poetica di un’altra, ma esistono solo "parlanti" concreti in ogni lingua (dialetto) più o meno geniali nell’uso estetico (od artistico o lirico od emotivogenetico) della parola. L’ auspicio di Dante per una specie di "banca lessicale e musicale" assemblata dal "meglio" dei dialetti italici, da riservare alla canzone, cioè allo schema metrico destinato ai tre motivi supremi di canto sopra ricordati, è una utopia che ha pesato sulla definizione della vera lingua italiana per tutti i secoli fino all’Ottocento inoltrato, quando le dottrine di Manzoni sull’uso come arbitro delle scelte linguistiche sgombrarono il campo dai falsi problemi e dai falsi titoli di "dignità/volgarità, bellezza/bruttezza oggettiva" delle singole parole, a prescindere dalla genialità o meno di chi le usa.
Anzi, non solo la "poesia lirica", ma anche il poemetto didattico (il Tesoretto, del Latini) ha sfondato il muro di sfiducia e di disdegno e si è imposto ai lettori, perchè all’altezza dell’insegnamento e della missione educativa. Siccome alla produzione teatrale si pensa solo in relazione alla Liturgia e il dramma sacro è ai suoi primi inizi, senza risultati clamorosi diffusi oltre le città di recitazione, rimane un solo genere di espressione in versi da affrontare e acquistare alla lingua italica: quello della poesia epica. Difatti là dove essa va diffondendosi al seguito della fioritura romanza iniziata con la Chanson de Roland, cioè nell’Italia nordorientale (Veneto), pesa il pregiudizio che solo la lingua originaria (francese, oitanica) sia all’altezza di creare imitazioni, prosecuzioni, complicazioni dei vari cicli (classico, arturiano, carolingio) nati in Francia. Di qui la composizione di poemi in lingua francese schietta od in uno strano patois franco-veneto.
A questa chiarezza complessiva di visione linguistica per la poesia, fa riscontro ancora a fine secolo una incertezza di indirizzi nel campo della prosa, che genera disorientamento e pluralismo di scelte. Il latino è la lingua cancellieresca, che passa imperterita dalla curia imperiale e corte papale alle aule dei principi ed ai palazzi dei comuni. Le rare eccezioni di "statuti comunali" redatti in volgare (Montagutolo dell’Ardighesca, ad esempio) si trovano ben presto di fronte al movimento preumanistico di un Lovato de’ Lovati e di un Albertino Mussato (vissuti fra il 1241 e il 1329, con centro della loro attività in Padova, sede universitaria più varia e vivace che non Bologna), che farà regredire tali velleitarismi per un paio di secoli ancora. Il francese, oltre che linguaggio epico, è lo strumento più prestigioso di comunicazione in terra di lingua romanza: detiene un primato non solo in via di fatto, ma anche in asserzioni di diritto. E’ preferito per le opere narrative come il Divisament dou monde (o Livres des merveilles du monde? o De mirabilibus mundi?) di Marco Polo, che noi conosciamo in traduzione toscana come Il Milione; di opere storiche, come la Cronique des Venicien, di Martino Canale; di opere enciclopediche e didattiche, come il già considerato Trésor del Latini. E si trovano affermazioni teoretiche circa la superiorità del francese sulla varia dialettalità italica, almeno per quanto riguarda i lavori in prosa. Così dicono tanto il Latini ("la lengue franceise cort parmi le monde), che il Canale ("est plus delitable a lir et a ouir que nule autre"); così ripete, all’inizio del Trecento, Dante, come opinione corrente che egli non vuole ribattere ("Allegat ergo pro se lingua oi"l quod propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaicum, suum est": De vulgari eloquentia, I, X). Di fronte a questa coscienza ancora indecisa, è però già in atto il processo concreto che, nella prima metà del secolo seguente, deciderà di fatto la questione in favore della prosa toscana, in attesa che l’inizio del sec. XVI ne definisca anche in sede teoretica la adeguatezza —come e con quella latina- a trattare ogni genere di soggetti, ad esprimere dottrine difficili o sentimenti elevati. Gli scritti dei grandi trecentisti sgombrano ogni dubbio. Tale processo di chiarificazione parte dagli scritti di prosatori del duecento (come il giovane Dante della "Vita nova" o l’ignoto autore del "Novellino"); ovvero senesi (come l’autore della Sconfitta di "Monte Aperto"); o comunque toscani (come i vari che elencheremo fra breve): autori che dimostrano ancora una volta, rispetto alla restante generazione di italici, il maggior dinamismo emotivo, la miglior risonanza musicale, la superiore acutezza razionale di una popolazione discendente da un ceppo già eccezionale (gli Etruschi) e forse ulteriormente potenziata dall’innesto di cromosomi e di geni longobardi. Firenze e la Toscana, di uomini geniali nel bene e nel male, nel pensiero e nell’arte, nella santità e nella delinquenza ne han dati molti lungo i secoli, rivelando di essere abitate da uomini incapaci di essere mediocri.
Il cammino del graduale ascendere della lingua scritta verso la univocità della lingua toscana e verso la dignità di lingua nazionale.
Le tre opere in prosa toscana ora citate le lasciamo per ultime, perchè sono in qualche misura imparentate con l’arte. Per ora ci occuperemo di scritti che, senza essere artisticamente significativi, scandiscono però la crescita verso la coniazione o la scelta del vocabolario più congeniale, musicalmente, al complesso della parlata tosco-fiorentina (passaggio dalla dispersione dialettale all’unità della lingua di scrittura); verso la chiarificazione e fissazione dei nessi sintattici definitivi (passaggio dal pressapochismo popolare ad una lingua colta e dignitosa); e verso chiarezza di giudizi e coerenza di ragionamenti (passaggio dal semplicismo elementare alla maturità razionale già raggiunta dalla civiltà greca e latina). Ma dobbiamo premettere un fattore non facilmente misurabile nella misura del suo contributo alla costruzione di una lingua unificata e purificata per l’Italia: si tratta della "attuaristica od arte notarile" che, specialmente in Bologna, testimonia di un ascendere verso forme linguistiche sempre più conformi ai tre criteri ora indicati. La redazione dei documenti legali si fa sempre più esigente come definizione di schemi grammaticali e sintattici, sempre più elegante per la trasposizione dei modelli latini di prosodia, sempre meno lontana dalla parlata fiorentina.
1) Cominciamo con un nodo di scrittori, che collocheremmo sul gradino di infima qualità linguistica, rispetto alla vittoriosa lingua fiorentina. Vi possiamo sistemare le non molte prose nate fuori di Toscana: una traduzione veneta dei "Disticha Catonis" e due opere in romanesco ("Storie de Troia e de Roma" e "Miracole de Roma"). Molto deludenti anche due fonti importanti del Novellino: "Fiori e vita di filosafi" e "Conti di antichi cavalieri". Vi è in questi una imprecisione insopportabile di vocabolario, diversi svarioni sintattici, ingenuità storiografiche e filosofiche, aridità espositiva: difetti che il Novellino supererà solo in parte, ma che si farà perdonare, in alcuni racconti, per certa sapienza che attinge il comico.
2)Un secondo gruppo possiamo accozzarlo con un bel gruzzolo di traduzioni in toscano: il fatto di avere nell’originale un pensiero già organizzato permette al traduttore di concentrarsi sulla componente espressiva, che risulta discreta. Il titolo in latino o francese non deve trarci in inganno, come già segnalato. Ecco un elenco: Disciplina clericalis (di Pietro Alfonsi), Liber consolationis et consilli (Albertano da Brescia), De regimine principum (Egidio Colonna), Li livres dou Trésor (Brunetto Latini), Conti morali (traduzione senese di parte delle Vitae patrum), Libro dei sette savi (traduzione dal francese dell’opera indiana "Syntipas"), Istorietta troiana (traduzione da una prosa francese, a sua volta tratta dal Roman de Troie). A questo livello "stilistico" accomunerei opere originali. Le "Lettere" di Guittone d’Arezzo, che egli scrisse con l’intento di riportare in volgare la retorica latina, ma il cui risultato è deludente, perchè esse risultano supponenti, pedanti, noiose e predicatorie. Mediocre anche il "Libro de’ vizi e delle virtudi" di Bono Giamboni (vedremo subito che egli è più felice come traduttore che come scrittore in proprio). Non molto migliori la "Istoria fiorentina" di Ricordano da Malaspina e la "Composizione del mondo" di Ristoro d’Arezzo (quest’ultima ha, invece, un certo valore pel contenuto, perchè è opera di buona divulgazione di notizie scientifiche: fu scritta attorno al 1282).
3)Un passo innanzi, fin sulla soglia della artisticità, segna la traduzione in toscano del "Divisament dou monde" (ou sont decrite les merveilles du monde; altro titolo possibile, in latino: De mirabilibus mundi), col titolo "Il Milione" (dal soprannome già antico nella famiglia di Marco Polo). Egli è l’autore dell’opera, in quanto ne fu il narratore. Chi lo scrisse fu Rustichello da Pisa: entrambi erano prigionieri di Genova, dopo una battaglia minore presso Laiazzo, perchè nel 1298 Pisa era alleata con Venezia contro Genova (non pare che Marco sia stato fatto prigioniero alla battaglia, ben più importante e famosa, di Curzola). L’originale divulgato da Rustichello è andato perduto, ma sono giunte traduzioni a non finire, in più di centocinquanta codici. Prima del 1309 l’originale perso fu tradotto-ridotto in toscano, dal francese (o, meglio, dal franco-italiano) in cui Rustichello l’aveva scritto, da ignoti che conoscevano imperfettamente il francese. Se si tien conto delle "meraviglie" descritte nel libro, allora il suo interesseè scontato. Ma è un intersse contenutistico, non estetico: di curiosità intellettuale, non di impressione emotiva. Ciò non toglie che la traduzione toscana proceda di solito spedita e concisa, con un certo suo vigore ed impeto che sfiora il dramma, dà il senso del movimento (cinestesia). Nessun brano, però, raggiunge un livello di forza tale da risultare artisticamente sufficiente. Dei capitoli si leggono volentieri (e sono riportati nelle antologie) quelli a contenuto sorprendente: la leggenda del "Veglio della montagna" con la supposta origine degli "assassini" come mangiatori di hasish; l’uso della carta-moneta e del carbone in Cina, secoli prima che in Occidente; il sistema postale che l’Europa si sognava a quell’epoca; l’esistenza dell’amianto che non brucia al fuoco... Allo stesso livello di chiarezza e forza espositiva, con presentimenti artistici, collocheremmo le traduzioni di B. Giamboni ("Della miseria dell’uomo", da "De miseria conditionis humanae" di Innocenzo III), di B. Latini (orazioni di Cicerone: pro Ligario, pro Marcello, pro rege Deiotaro). Vi aggiungeremmo i "Fatti di Cesare" (traduzione dal francese "Li fet des Romains": tra le varie volgarizzazioni e rimaneggiamenti che il testo conobbe in Italia, quella seneseggiante che caratterizza il "gruppo B" è notevole per chiarezza e forza); e la "Tavola rotonda" (probabilmente già del sec. XIV: è comunque la migliore narrazione delle avventure facenti parte al ciclo di re Artù, perchè è chiara negli episodi singoli, organica nel loro susseguirsi oltre che vivace nello stile).
4)Concludiamo colle opere che, insegnando ad applicare alla parlata volgare le regole prosodiche del latino, rivelano la coscienza della capacità della lingua romanza ad attingere risultati espressivi pari a quelli della lingua di Roma. Tale equipollenza è testimoniata dalle prime opere che allenano ad una prosa italica illustre: Guido Faba scrisse (tra il 1229 ed il 1248, come già ricordato) la sua "Gemma purpurea" ed i "Parlamenta et epistole" nelle due lingue, applicando le stesse clausole ritmiche e stilistiche del latino anche alla traduzione italiana di esempi fittizi di lettere e di discorsi (che dovevano servire da modello per quelli reali, come di fatto avvenne nel Due- e Trecento). Certo, il suo linguaggio è intriso di emilianismi, perchè la sua parlata aveva, come punto di riferimento, Bologna, nella cui Università insegnava. Anche per questo, oggi le due operette ci interessano per i loro contemuti (studente squiattrinato che chiede soldi al padre; diatriba fra Quaresima e Carnevale per il primato nella vita...) e non per la forma letteraria. Pure è notevole che egli insegni ad introdurre anche nel volgare la esemplificazione dei tre "stili", maggiore, minore e minmo,a seconda della importanza o meno della persona cui è indirizzato il discorso o la lettera. Lessico scelto e costruzione stilistica variano in coerenza (Dante parlerà di stile tragico o sublime, comico o medio,elegiaco od umile).
Fra Guidotto. Anch’egli è bolognese, maestro di grammatica, autore del "Fiore di rettorica" e, pel resto, del tutto ignoto. Il libro fu edito fra il 1258 e il 1266 (è dedicato a Manfredi, che fu re di Sicilia in quegli anni). Egli vi rimaneggia liberamente la Rhetorica ad Herennium (opera pseudociceroniana, come sappiamo), ma in un toscano così puro che insinua il sospetto che il testo a noi giunto sia, in realtà, opera di trascrittori successivi.
Brunetto Latini lo riprendiamo come punto di riferimento della maturazione degli scrittori italiani nei tre sensi sopra indicati. Ebbene, la sua "Rettorica" (traduzione dei primi 17 libri del De inventione di Cicerone oltre che della Rethorica ad Herennium) rivelano una lingua fiorentina sciolta e naturale, ma piuttosto vernacolare, poco illustre, poco raffinata: in questo, il "Fiore di rettorica" di fra Guidotto è più elegante, musicale, vicino alla poesia (così come —lo si è detto- più artistiche risultano le traduzioni dello stesso Latini alle orazioni di Cicerone ). Ma superiore è la densità e concretezza di pensiero del Latini: egli procede chiaro, acuto, logico, dimostrandosi persona colta in filosofia, oltre che un buon letterato.
Le opere in prosa che rientrano nell’area dell’ arte letteraria. Vi sarebbe soprattutto la "VITA NOVA", ma quella verrà esaminata assieme alle altre opere dell’Alighieri, nel capitolo apposito. Rimangono allora due scritti: La sconfitta di Monte aperto e Il Novellino.
La sconfitta di Monte Aperto. E’ la versione che i ghibellini di Siena (vincitori) ci han lasciato di quella terribile giornata "che fece l’Arbia colorata in rosso" (Inf. X, 86). Nella relazione dell’anonimo si intuisce uno stato d’animo che sottintende la disperazione, l’angoscia di fronte al pericolo di risultare sconfitti. Sono affetti drammatici che affiorano al di sotto di un sentimento che vuole essere maggiore: il coraggio, l’amore della patria, la volontà di rischiare la vita per non soggiacere ai temuti fiorentini. Ne risulta un tono di "ardore soffocato", di dolente patriottismo che tocca il culmine nella gara per l’onore di essere "il primo feditore a cavallo", onore pericolosissimo come è facile immaginare. La scena (degna di un romanzo) con cui Gualtieri strappa allo zio Arrigo tale privilegio è davvero commovente. Il resto della non lunga narrazione non rimane però all’altezza di tale felice momento: c’è impaccio nella scelta dei vocaboli, lentezza nella descrizione degli altri particolari della vicenda: manca concisione razionale e coerenza musicale.
Il Novellino o "Le cento novelle antiche". Con questi nomi si indica una collezione di cento novelle, trascelte durante il Trecento da una raccolta scritta verso il 1280, che ne conteneva una buona ventina in più. Paiono proprio opera di un fiorentino anonimo, dalla intelligenza semplice e dalla cultura elementare, ma con i suoi ideali di vita e un discreto bagaglio di letture alle spalle. Difatti le novelle sono tratte anche da fonti francesi e provenzali, oltre che latine ed italiane (Fiori e vita di filosafi; Conti di antichi cavalieri).
Motivi ispiratori. Varie, per tempi e per luoghi, le vicende dei perosnaggi: da Cristo Signore al re Davide; da Ercole (mitologia greca) a Tristano (materia favolosa romanza), da Giasone a Lanciallotto, da Pitagora a Marco Lombardo, da Socrate a Diogene, dal Veglio della Montagna ad Ezzelino da Romano, da Traiano a Riccardo Cuor di leone, da Federico II a Carlo d’Angiò, dal Saladino al re giovane d’Inghilterra, da Maestro Accursio ai maghi ed astrologi, dalla volpe al mulo, dal falco cacciatore al lupo, dal contadino ignorante al mercante ladro, dalla carità eroica di S. Paolino di Nola alla lussuria di molti ecclesiastici...
In tanta materia di uomini e situazioni, lo scrittore intende mantenere fede ad un proposito di "onestade e... cortesia" che non disdica a "cuori gentili e nobili", "parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro, che n’amò prima che elli ne criasse, e prima che noi medesimi ci amassimo" (novella prima). Nè si può dire che la fede e la morale cristiana vengano rinnegate esplicitamente; vi sono inoltre racconti commentati in senso cordialmente evangelico (nov. 28: rammarico per la non osservanza del comandamento del perdono, insegnato da Cirsto a prezzo della sua vita ). Ma se la mentalità dichiarata esplicitamente è quella cristiana; se questa trova appoggio poi in numerose altre tematiche morali od ascetiche, tuttavia almeno altrettante sono le peripezie che discordano dalla regola di vita cristiana e che vengono narrate senza commento sfavorevole, ma con distacco e disimpegno sconcertanti. Il caso forse più rilevante —al di là di qualcuna anche grossolanamente sensuale- rimane quella del giudeo che narra imperterrito la novella sulla equivalenza delle tre religioni fondamentali (ebrea, cristiana, musulmana), per liberarsi dal dovere di pronunciare un giudizio compromettente di fronte al malizioso sultanto, che gli ha posto il problema circa la vera religione, per toglierlo di mezzo ed appropriarsi delle sue ricchezze (73). L’autore del Novellino ignora che di fronte al male ed all’errore non è lecito rimanere neutrali, ma occorre prendere posizione responsabile. Se, dunque, la "cultura cristiana" nel Novellino è tutt’altro che garantita, quali sono i valori che si salvano con coerenze definitiva nell’opera? Sono valori tipici di un umanesimo metamedioevale o subpagano: la intelligenza o genialità di azione a servizio della vita terrena, a costo di emarginare quella sprituale dell’anima. Ecco allora l’acutezza di spirito (con la avvedutezza dell’ebreo e i motti di spirito), la magnanimità sociale (e la munificenza: "cortesia" la chiamava testè Folgòre), la coerenza professionale (e la prodezza, quindi: ci si riferisce per lo più a cavalieri). Non si tratta più di "fioretti", in cui il santo dimostra la propria grandezza nella abnegazione di sè e nel servizio degli altri, ma di eventi, di happenings in cui un ingegno pronto risolve a proprio favore (con una battuta di spirito) una situazione svantaggiosa o addirittura pericolosa; o un uomo di coraggio sottomette a sè le volontà meno resistenti degli altri. Solo la generosità del danaro (ma non in favore dei poveri!) e la fedeltà nella professione (ma non necessariamente a servizio della giustizia) tentano di "mediare" questo mondo di raffinato egoismo con quello della sapienza che viene dalla fede e del disinteresse che nasce dalla carità: ma senza convincere troppo. Umanesimo rinascimentale in agguato? Non necessariamente: si tratta di residui pagani presenti in ogni epoca, e non poi troppo latenti neppure nel cristiano Medioevo. La civiltà cristiana non è mai un dato definitivo, ma conquista di ogni generazione: è il risultato della lotta continua per costruire la perfezione umana contro il ricatto dello scimmione atavico: è lo sforzo umano per accettare fino in fondo il dono divino della Redenzione, che inizia da capo per ogni persona e non è scontato che riesca in tutte. Il Novellino è una delle spie sicure che neppure il Medioevo è riuscito a costruire una società a cultura monolitica; che permane un pluralismo di idee come ve ne è uno di costume. Che una cultura piuttosto che un’altra abbia il sopravvento, è un dato inevitabile, posta la libertà dell’uomo; e sono corsi e ricorsi storici, come ci insegnano questi venti secoli di cristianità. Rallegrarsene o dolersene non è compito della storiografia, ma della filosofia della storia; e del singolo uomo, impegnato su un fronte piuttosto che sull’opposto delle scelte radicali della mente e del volere: quelle religiose e morali, appunto.
Toni lirici. Il discorso più attinente per questa operetta è apunto quello relativo alla mentalità ispiratrice: di emozioni, infatti, ve ne sono espresse raramente e debolmente L’umorismo è quella più azzeccata: il figlio di Papirio che snobba la curiosità della madre sui dibattiti (segreti) del senato romano (67); il medico sornione che ripudia la nipote del vescovo, guardandosi bene dall’accusarla di fornicazione prematrimoniale (lo ha reso padre dopo due mesi di matrimonio!); e adducendo invece come motivo il timore di non riuscire a mantenere la figliolanza di una moglie...così prolifica (49); soprattutto messer Bito che si gioca quell’avaraccio di messer Frulli (96) sono personaggi che destano un sorriso convinto. A tale spirito di serena comicità non si adeguano altri motti degni di memoria per la sapienza, ma più amari come spirito: Marco Lombardo, che mette a tacere il giullare canzonatore (44), sentenzia troppo saggiamente ma ben pessimisticamente sulla stoltezza e ingiustizia del mondo(... quello del suo tempo, s’intende...: egli non ha vinto nulla alla festa, perchè vi erano molte persone dai gusti degni della giulleria; e nessuno, degni di lui). E la volpe che si beffa del lupo ingannato (94) ha dell’amaro nel suo cinismo! Quasi null’altro, chè casi come quelli del "funo che sta al suono, come la moneta sta all’arrosto" (9) è solo potenzialmente unoristica: l’autore non ha saputo sfruttare il materiale.
Note stilistiche. Qui potremmo parlare a lungo, ma solo in sesno negativo, per evidenziare cioè, attraverso le stranezze lessicali, sintattiche, storiche ecc. la mentalità elementare, ingenua, poco matura dello scrittore. Basterà allora accennare a qualche fenomeno più evidente. Acrisia storiografica: i Romani combattono contro Alessandro Magno (67); Socrate è cittadino romano (61); Pitagora è spagnolo (33); Narciso è un "bellissimo cavaliere" (46); i Greci del tempo di Roma hanno per re il Soldano (61); ecc. In realtà ogni personaggio ed avvenimento tende ad essere ridimensionato alla società aristocratico-feudale-giullaresca (o mercantile, almeno). Il sec. XIII non ha avuto ancora il numero di studiosi sufficienti per far ricuperare la distanza spazio-cronologica di uomini e fatti; e tende ad appiattire tutta la storia umana nella cornice standard del proprio tempo (o poco più). Un fenomeno, questo, che si ritrova parzialmente anche in personalità dottissime (come Tommaso e Dante), sicchè non lo si può ritenere colpa d’altri che delle difficoltà oggettive a riaversi del "vuoto di notizie" verificatosi durante i secoli di incessanti invasioni barbariche, dai Germani agli Ungheri, dalla fine del secolo IV a metà di quello X.
Il lessico è penosamente improntato al francese in troppi casi: barlione (borraccia); rughe (=routes=strade), berbici (=brébis=pecore), mesle (mischia), ren(=rien=nulla); onita (=honnie=disonorata), algura (auguri), petronciano (melanzana), caendo (cercando), inguistare (caraffa), domòni (demoni), sacreto (segreto). Tutto sommato è molto piò corretto (cioè, più fiorentino) il linguaggio di Bono Giamboni, di Guidotto da Bologna, di Brunetto Latini.
Per la sintassi, basti dire che, se gli anacoluti (verbo rimasto senza soggetto o viceversa) sono rari, ciò dipende solo dal fatto che il periodare è brevissimo e, quindi, le occasioni sono poche. Ma si veda: "Il giovane, stando sulla ringhiera per rispondere agli ambasciatori, il tempo era turbato e pioveva" (5); "Stando lo ‘mperadore Federico e facea dare l’acqua, le tavole coverte, si giunsero a lui tre maestri di negromanzia" (21); "In Alessandria, la quale è nelle parti di Romania (acciò che son dodici Alessandrie, le quali Alessandro fece il marzo, dinanzi ch’egli morisse), in quella Alessandria sono le rughe, ove stanno i saracini, li quali fanno li mangiari a vendere" (9: oltre l’anacoluto e il francesismo "rughe" per "strade", si noti l’uso di "acciò che" con valore causale di "poichè", al posto del senso "finale" di "affinchè" ).

04/11/99Ultima modifica il .
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