CARLO GOLDONI (1707-1793)

 

LA VITA.

1707: nasce a Venezia. Inizia gli studi coi Gesuiti, a Perugia, dove il padre Giulio è medico. A tredici anni recita, in una rappresentazione domestica,“La sorellina di don Pilone” (del Gigli:  era uscita l’anno prima, nel 1719).  Prosegue  gli studi presso i Domenicani a Rimini, da dove ritorna a Chioggia avventurosamente, con una compagnia di comici. Studia legge a Pavia, ma viene espulso dall’università per una satira contro le donne della città.

1731: si laurea a Padova, dopo che la morte del padre lo ha messo di fronte alle responsabilità della vita concreta. Lavora come “coadiutore” alle cancellerie criminali di Chioggia e di Feltre. Dopo amori incauti e debiti fastidiosi (due sue pecche permanenti), fugge da Venezia guadagnandosi precariamente da vivere, finchè viene assunto come aiutante presso il “residente” di Venezia (una specie di ambasciatore) a Milano. Divenne membro dell’Arcadia, col nome di Polisseno Fegejo.

1734: un alterco col signor Orazio Bartolini (il “residente”) lo proietta di nuovo in viaggi per Lombardia, Emilia, Veneto. A Verona si incontra con il capocomico Giuseppe Imèr, che era al servizio dell’imprenditore teatrale Michele Grimani, proprietario dei teatri San Samuele e San Giovanni Crisostomo. Goldoni viene assunto come “poeta di teatro”, come colui, cioè, che deve fornire il testo (in realtà, solo la trama o “canovaccio”) per le recite della compagnia di commedia improvvisa e di maschere, il tipo di teatro ancora vitalissimo, anzi padrone della scena italiana.

1736: In una uscita della compagnia a Genova, conosce e sposa Nicoletta Connio, figlia di un notaio

1738-42:  Sono anni decisivi per la riforma  del teatro italiano: gradulamente gli riesce di passare dalla “commedia improvvisa” a qualla classico-realistica, scrivendo tutto il testo e non solo la traccia della azione scenica; invece, dalle maschere, riuscirà a liberarsi del tutto solo nel 1750.

1741-3: pur non abbandonando del tutto il teatro, egli diviene “console” di Genova a Venezia.

1743: nuova fuga da Venezia per debiti. Girovaga fra Romagna e Toscana con impieghi precari: a Rimini dirige il teatro locale. A Pisa decide di esercitare la professione di avvocato, avendo successo in questa attività forense come ne aveva avuto in quella diplomatica al servizio di Genova. Vi durerà quattro anni.

1748-52: rientra a Venezia, indottovi da Cesare D’Arbes, celebre attore, interprete sulle scene della figura di Pantalone: lo ha raggiunto a Pisa per convincerlo a passare al servizio della famiglia Medebàc, proprietaria del teatro Sant’Angelo. Rimane con Girolamo e Francesco Medebàc per cinque anni. Appartengono a questo periodo due happenings clamorosi. Nella stagione Ottobre 1750-carnevale 1751, egli compone ben 16 commedie nuove, come promesso al pubblico  per placarlo dopo il fallimento della commedia L’erede, mandata in scena alla fine del carnevale 1750. Il 26 dicembre 1752 mette in scena il suo capolavoro: LA LOCANDIERA. Ma intanto gli sorge contro l’ex gesuita Pietro Chiari, che   divien poeta al S. Samuele, quando Goldoni passa al teatro San Luca.

1753-62: lavora per gli impresari Antonio e Francesco Vendramìn, producendo i grandi capolavori, come IL CAMPIELLO, I RUSTEGHI, SIOR TODERO BRONTOLON, LE BARUFFE CHIOZZOTTE, ecc. Dalla compagnia e da Venezia egli si allontana, però, quando viene invitato  a Parigi da Luigi XIV, a dirigere la  “Comédie italienne”. Ad indurlo all’ultimo trasloco nella sua vita di “avventuriero onorato” non è tanto l’amarezza per il facile (ma effimero) successo dei suoi  concorrenti (al fastidioso e polemico Chiari si è aggiunto  ora anche Carlo Gozzi, con le sue “Fiabe”), quanto il bisogno di danaro. Goldoni ha sempre speso più di quanto guadagnasse,  nonostante il successo continuo nelle edizioni delle sue opere: ora si aggiunge il carico dei due figli del fratello scioperato. Il lavoro impegnativo, che ha arricchito la nostra letteratura di circa 250 opere drammatiche, ora che la vecchiaia non è lontana, lo spaventa. Tra il 1754 ed il 1757 scrive 24 commedie, oltre a  16 melodrammi buffi[1]: riuscirà ancora a reggere allo sforzo che già gli procura periodi di nevrosi e di depressione? La miglior situazione economica in Francia, assicurata, dapprima, dall’impiego  e, poi, da una pensione regia, ve lo tratterrà sino alla morte, nonostante che il contratto iniziale fosse solo per la “Comédie italienne” e per due anni.

1762-93. Dapprima, al Teatro italiano deve ricominciare a portare la commedia “a braccio” (improvvisa) verso forme regolari. Gli riuscì bene con “Gli amori di Arlecchino e Camilla”, ma per il resto furono più amarezze che soddisfazioni: gli attori erano troppo attaccati alla maschera ed alla improvvisazioone. Componeva, a buon conto, ancora per il san Luca di Venezia. Mentre gli amori di “Zelinda e Lindoro” non convinsero molto i Veneziani, il pubblico andò invece in visibilio di fronte al nuovo capolavoro: IL VENTAGLIO (1765: in francese, prima: “L’éventail”). Goldoni sentiva la nostalgia di Venezia, ma ecco arrivare la liberazione: fu nominato maestro di italiano per le principesse reali. Quando finì anche questo compito, Luigi XIV lo pensionò. Goldoni era ormai minato nella vista, avendo perduto un occhio fin dal 1765. Da Versailles a Parigi,  col suo compito di precettore a corte, Goldoni si stabilisce definitivamente nella capitale nel 1780. Si lascia ogni tanto riprendere dal genio di Talia e fa trionfare alla “Comédie française” (il teatro di Molière) il suo ultimo grande lavoro: LE BOURRU BIENFAISANT (il burbero benefico| di buon cuore: 1771). Meno felice risultò “L’avaro fastoso” (L’avare fastueux). Per il resto, egli si dedicò a scrivere la autobiografia : i “Mémoires” uscirono nel 1787, quando egli aveva ormai 80 anni. Gli ultimi anni furono allietati dalla edizione di tutte le sue opere teatrali, curata da Antonio Zatta: occuparono 44 volumi! Accanto a lui era la affettuosa moglie Nicoletta ed il nipote Antonio, che egli si era portato con sè da Venezia. Ma furono anni di declino, cui la rivoluzione francese portò il brivido della tragedia. Privato della pensione regia (1792), egli –che non era mai stato economo- muore in povertà e le sue ossa sono disperse nei cimiteri comuni. La moglie l’aveva preceduto nela tomba ed a nulla servì la restaurazione della pensione da parte del parlamento,  il giorno dopo la sua morte.

 

LE OPERE. Goldoni fu uno degli scrittori più fecondi della nostra storia letteraria: ci ha lasciato più di 250 libretti per teatro e, di essi, oltre 120 sono commedie. Per di più, gli è riuscito di scrivere i Mémoires, cioè la sua autobiografia, che Edward Gibbon ha definito (sia pure con un pizzico di esagerazione) la più bella delle sue commedie. Per vera passione, oltre che per le esigenze del pubblico e delle compagnie teatrali per cui lavorava, scrisse tragicommedie (iniziò con Amalasunta, di cui però bruciò il manoscritto), melodrammi, commedie per musica, intermezzi (o farsette per musica). Per avere una idea delle opere più importanti, basterà leggere la seconda parte dei Mémoires, che sono una esposizione delle trame, oltre che la narrazione delle circostanze che le hanno occasionate e degli strascichi eventuali che le hanno seguite. Per la lettura, è a disposizione l’opera omnia nella collezione “I Classici”, per l’editore Mondadori. Noi ci accontentiamo di fare un elenco delle opere ritenute più importanti, rimandando in nota il sunto del loro contenuto (con le parole dei Mémoires,  se possibile).

        Tragicommedie:  Belisario, Rosmunda, Griselda, don Giovanni Tenorio; trilogia di Ircana: La sposa persiana, Ircana in Julfa; Ircana in Ispahan;...

        Melodrammi: Pisistrato, Gustavao Vasa, Oronte...

        Commedie per musica: L’Arcadia in Brenta, Il mondo della luna, Il paese di Cuccagna, Il mondo alla rovescia, Il conte Caramella, La calamita dei cuori. Due opere sono notevoli: La buona figliuola (è quella migliore come testo letterario; nusicata da Niccolò Piccinni); Il filosofo di campagna (la migliore come musica, scritta da Baldassarre Galuppi, che era il musicista abituale del Goldoni).

        Intermezzi: Il gondoliere veneziano, La serva padrona (musica di Pergolesi), La Pupilla, La Birba...

        COMMEDIE. Delle più che centoventi scritte, alcune interessano per la evoluzione operata dal Goldoni  nella riforma del teatro, cioè nel passaggio dalla commedia improvvisa (“a braccio”, “delle maschere”, “d’arte”) a quella  regolare, tutta scritta: ne riparleremo a proposito dello “Stile o tecnica espressiva”: Qui diamo l’elenco delle commedie più significative, dividendole in due gruppi: quelle propriamente o principalmente ispirate all’umorismo goldoniano (comicità graziosa); e quelle improntate alla dolce melanconia  (patetismo sentimentale).

        Le commedie “sorridenti” di maggior rilievo: LA LOCANDIERA)[2] (1753); IL CAMPIELLO[3] (1756), I RUSTEGHI[4] (1760) LA CASA NOVA (1760: le ultime scene sono, però patetiche); LE SMANIE  PER LA VILLEGGIATURA[5] (1761: trilogia: prosegue con Le avventure della villeggiatura e con Il ritorno dalla villeggiatura); SIOR TODERO BRONTOLO’N[6] (1762), LE BARUFFE CHIOZZOTTE[7] (1762);

 

 

 IL VENTAGLIO[8] (1765); IL BURBERO BENEFICO (o “DI BUON CUORE”)[9] (dal francese: Le bourru bienfaisant: 1771).

Tra le commedie patetico-commoventi, troviamo LA PUTTA ONORATA[10] (1748); LA BUONA MOGLIE[11] (1749); IL CAVALIERE E LA DAMA[12] (1749);

PAMELA[13] (1750); IL PADRE DI FAMIGLIA[14] (1750); LA MADRE AMOROSA[15] (1754);   Scene di questo tono lirico si incontrano  ne La casa nova e nella commedia di addio a Venezia: UNA DELLE ULTIME SERE DI CARNEVALE[16] (1762).[17]

 Oltre all’operosità per il teatro, Goldoni pagò il tributo alla società affluente, tipico per un poeta del Millesettecento: in occasione di nozze o di monacazioni, si stampavano raccolte di versi; ed egli vi contribuì spesso. In una sua lettera antecedente alla sua “fuga per Parigi”, egli si lamenta di tutto lo sgocciolio di inchiostro per comporre versi in tali circostanze; ma non era capace di dire di no.

In francese scrisse, poi, i Mèmoires, cioè l’autobiografia. E’ divisa in tre parti: la vita, fino alla ospitalità in Francia; il sunto  delle opere, con le circostanze che le avevano suggerite ed il sucecsso o meno, con gli effetti cioè delle stesse sul pubblico; infine la vita a Parigi e Versailles, dopo il 1762. Dell’opera diremo che narra con scioltezza e brio le vicende della sua esistenza, non calcando le parti penose proprie od altrui e volando a tocco leggero sulle circostanze liete o mediocremente tristi. Ma è la vita esterna del commediografo quella che appare: la sua esistenza intima sfugge e non sappiamo da lui i vizi del gioco e delle donne, che soggiacciono al continuo bisogno di danaro e, quindi, al mutamento continuo di impieghi, prima; di impresari tetrali, poi.

 Tra le pagine più artisticamente felici sono quelle della fuga da Rimini a Chioggia con una compagnia teatrale (p. I, c. V); e quelle dedicate al successo per l’impegno rispettato di scrivere sedici commedie nuove nel giro di un anno teatrale (ottobre 1750- carnevale 1751). Il tono lirico prevalente è la comicità graziosa anche in queste pagine, tanto che (con un po’ di esagerazione), Edward Gibbon ebeb a dire che i Mémoires sono la sua più bella commedia.

 

LA  INDIVIDUALITA’

???? FISICAMENTE:???? sulla statura non conosciamo testimonianze scritte: noi lo sospettiamo piuttosto alto, dal ritratto . La carnagione è florida: ha una corporatura più  paffuta che robusta.

        TEMPERAMENTO: benchè Goldoni abbia lasciato nei Mémoires molti accenni circa il proprio temperamento,  le componenti che egli ci offre non sono facilmente riducibili a coerente sintesi.[18] Proponiamo una ipotesi di lettura psicologica, secondo i soliti criteri della scuola di Groninga (elaborati da René Le Senne nel suo classico Traité de caractérologie, edito dalle P.U.F.  nel 1952). Quello di Goldoni sarebbe dunque un temperamento nervoso (non attivo, emotivo, primario od instabile), a forte prevalenza vagotonica. [19]

Emotivo significa che aveva la capacità di esprimere in un mezzo comunicativo (nel suo caso, la parola) e ridestare, nei fruitori, lo stato d’animo suscitato in lui dalla tematica propostasi come motivo ispiratore. Non solo quindi, ricco di emozioni come ogni uomo, ma capace di  trasmetterle.

Non attivo significa (nel caso concreto) che Goldoni era un pigro, costretto a stralavorare per pagare tanto i propri vizi, quanto le proprie beneficenze a favore dei nipoti. Il nervoso manca di costanza nel lavoro, ma nel suo settore di genialità non solo opera diligentemente, ma sviluppa anche più resistenza del previsto. Quello che gli manca è la capacità di far lavorare gli altri. Abiamo, perciò, il sospetto che, pur avendo chiara in mente la “riforma del teatro dell’arte”, senza dei capocomici di adeguate doti operative alle spalle, Goldoni non avrebbe saputo metterla in atto; anzi, non avrebbe  saputo organizzare  delle rappresentazioni. Era un poeta, non un manager.

Primario od instabile od esauribile, significa che Goldoni avrebbe dovuto avere una vena di breve durata e di incostante applicazione. Ma si sono dette in nota quali forze sopperivano a questo  sospettabile limite. Una era il bisogno di denaro e, quindi, di produzione  continua: fino a rasentare la nevrosi. D’altronde ci pare confermi la esauribilità questa sua confessione: “quello che non mi riesce di fare ad un primo tratto di penna, difficilmente so migliorare col tempo”. (L’autore a chi legge, per La pupilla)

La prevalenza (accentuatissima) del tono parasimpatetico o vagale è l’altra dimensione del sistema neurovegetativo goldoniano, che gli permette un lavoro nella vita di scrittore pressochè continuo, quasi non fosse un “tipo psicologico esauribile”, come testimonia troppo, invece, la sua esistenza sociale o di contatto, che lo rende un “avventuriero onorato”, portandolo (come recita la regola dei “nervosi classici”) “a passare da un ammobigliato all’altro”, cioè a non tenere mai  la stessa dimora per lungo tempo. Il sistema vagale (che accresce la propria attività, ad esempio, nelle donne gravide, per facilitare la costruzione del nuovo corpo col minor dispendio di energie) è come un  motore che brucia carburante lentamente e parsimoniosamente, non esaurendo le scorte del propellente chimico con la stessa radicalità di un’attività comandata dai centri simpaticotonici (che, in compenso, agiscono con efficacia molto più intensa e celere).

 

TIPO DI FANTASIA.  E’ notevole in Goldoni la fantasia verbale o della parola, ma meno di quanto ci si possa sospettare in uno scrittore. La sua parola è facile, ma povera e superficiale. E pochissimo sentita ne è dimensione musicale. Cominciamo da quest’ultima caratteristica.

La pochezza del valore musicale è  lasciata sospettare dai suoi versi. C’è in essi una  chiarezza nella espressione delle idee  con una fedeltà ovvia alla metrica (ritmo, ossai successione regolare di accenti) ed una facilità di rime da far invidia ad un poeta di grido. Eppure il lirismo è latitante e le rime non si fanno quasi mai sentire. Infine, la musicalità dell’impasto di consonanti-vocali è insignificante.

Ma perchè, ancora, i versi del Goldoni non fanno differenza rispetto alla sua  prosa? Questa ci sembra la causa: manca un pensiero profondo ed una  significativa capacità di analisi psicologica. Così, i versi nè suonano affascinanti nè comunicano verità eterne: narrano fatterelli di croncaca, alla buona. E lasciano meno occasioni alle battute umoristiche od alle pause  commoventi: la tensione del poeta si esaurisce nella stesura in versi e non avanza “tempo psicologico” per lasciar spazio alle emozioni. Già: “ciò che va nelle maniche non può andare nei gheroni” (Promessi Sposi).

Lo scarso senso del musicalismo nelle parole è confermato dall’istinto ad usare il dialetto, che è primariamente lingua utile, funzionale, operativa e pratica, non di  godimento e contemplazione.

E’ ribadito dalla grande presenza di gestualità, che nelle “Baruffe chiozzotte” porta all’apice la comicità con una scena pressochè incomprensibile, monologata da un vecchio farfuglione e peggio. E’ definito dal moltiplicarsi di personaggi o coppie di personaggi simmetrici od affini: la trama procede, così, più che con un approfondimento del soggetto nei  dialoghi e discussioni, per mezzo del  variare di scene, riempite e svuotate di attori che, con il loro parlare, non tanto costruiscono un ragionamento, quanto ripetono una pregiudiziale. 

La superficialità del linguaggio goldoniano sta proprio qui: la sua poca dimestichezza con la filosofia, cioè con la facoltà di mettere in relazione di dipendenza logica od efficiente i concetti e di condurli ad un sistema coerente di pensiero, cioè ad una “cultura”, al di là di affermazioni isolate  che espongono opinioni e narrano cronache.

E’ invece notevole, la fantasia del Goldoni, per il senso del movimento (cinestesia) e del ritmo (quasi di danza). Il senso dell’armonia o della musica, poco presente nelle parole, si riversa invece nell’azione, la quale si svolge con una tempestività che dà ordine alle variazioni; dà leggerezza al movimento, al punto che certe sue opere sono quasi un “moto perpetuo” (definizione del Goldoni stesso per Il ventaglio), in cui incontri e scontri, litigi e rappacificazioni, incidenti e rimedi, malintesi e spiegazioni si susseguono con un brio ed una naturalezza che  è invenzione dei tempi psicologici necessari ad ordire tutti gli intrecci e a dipanare tutte le trame; è capacità ad orchestrare attori e loro vicende in un viluppo che pare inestricabile e risulta invece  solubilissimo, in una danza ricca di fascino per il suo ritmo  festoso e travolgente. Il ventaglio  ed Il campiello sono  casi esemplari.

 

TIPO DI INTELLIGENZA. E’ più sintetica che analitica. Questo significa, qui, due cose: da una parte, essa  è fin troppo facile a mettere assieme una trama, coordinando e subordinando personaggi e loro vicende; dall’altra, essa muove lietamente e lievemente la vicenda, a scapito dello studio profondo dei caratteri e della costruzione di una verosimiglianza, persuasiva fino in fondo, delle loro  peripezie. 

Quanto ai personaggi, lo scavo dei caratteri è poca cosa (si pensi, invece, a Molière): egli li tratteggia somamriamente e poi, per portare avanti gli atti dell’opera scenica, si trova costretto spesso a duplicare personaggi e coppie, per poter variare la trama e dar materia ai dialoghi. Il caso de “ I rusteghi”, ove un tipo di personaggio si quadruplica, è l’estremo volto di questa superficialità per troppa fretta di sintesi. Ecco perchè gli si rimprovera di ritagliare macchiette piuttosto che veri caratteri; di cucire affrettatamente vicende parallele, piuttosto che disegnarne una elaborata e complessa; di cadere spesso nella farsa, piuttosto che  attingere una comicità raffinata.

 Quanto alla verosimiglianza, bisogna confessare che per partecipare al sorriso grazioso delle sue commedie, occorre spesso premunirsi di una dote di tolleranza al residuo di “romanzesco” che permane nelle sue trame: fino a ricorrere, talora, ancora alla agnizione ed agli scambi di persona, per risolvere vicende di  poca aderenza alla realtà, di troppa invenzione (La putta onorata| Pamela| La Pupilla). Ecco perchè occorrono attori straordinari per far gustare a fondo le commedie goldoniane (Cesco Baseggio ne è stato l’incarnazione eccezionale nel secolo ventesimo).

Ma tant’è: Goldoni ha intelligenza superficiale, non è filosofo, non ama i problemi difficili, i personaggi estremi (nel bene e nel male), le vicende stravolte: sembra che per lui non esistano uomini  profondamente malvagi od eroicaamente buoni, situazioni irredimibili o soluzioni tragiche. Non sa o non vuole guardare sino in fondo alla realtà della umana esistenza, pur essendo un assertore del realismo e avendo scelto la vita come principale maestra. Eppure è poeta: ma è poeta umile, di popolo: il che significa, nel bene, di semplicità, ma anche, nel male, di semplicismo.

 

AMBIENTE  CULTURALE IN GENERE

         Si può riassumerlo in due  sostantivi: dall’evoluzione  alla rivoluzione. La letteratura ne fa abbastanza fedelmente da specchio, con mutamenti  ascendenti graduali, che vanno dalla innocenza un po’ infantile dell’Arcadia al patetismo, prevalentemente femminile e sperso nella mitologia, del Metastasio; dalla comicità graziosa, ma già  vicina al concreto della vita reale  nel Goldoni, al lavoro di collezione e studi storiografici del Muratori, che  educa alla razionalità ed al realismo definitivo; dalla vetta poetica del “Giorno” pariniano, che sposa ed esalta il realismo con la mordacità di un’ironia allusiva continuata, alle tragedie di Alfieri che abbandonano ogni eufemismo  ed ogni velo, per immergersi nella vita politica e nella lotta di potere: il tutto per preparare la strada ai grandissimi del Neoclassicismo e del Romanticismo, Il Foscolo ed il Manzoni, che assurgono alle problematiche filosofiche e religiose con una forza d’ispirazione che  sorprende, commuove, affascina, abbacina addirittura. Si passa, quindi, dai melodrammi alle commedie, dalle opere buffe alle tragedie, ai poemi in versi ed in prosa. Il secolo è per gran parte impegnato in una gara, più o meno esplicitamete confessata, di accorciare le distanze rispetto al “grand siècle” francese, soprattutto nel campo delle opere teatrali, vuoi imitando i “matadores” Corneille e Racine e Voltaire, vuoi tenendo presente il  genio di Molère.

Vediamo ora di  far  passare le singole componenti dell’ambiente veneziano nel Millesettecento.

       

        Ambiente politico-militare 

In Venezia abbiamo l’ultimo esempio di libertà regionale repubblicana. Essa  aveva avuto un guizzo di ulteriore  affermazione con l’acquisto della Morea (Peloponenso) alla pace di Carlowitz (1699). Ma la restituzione ai Turchi della regione stessa nella successiva pace di Passarowitz (1718) segna il primo passo nel grande slittamento verso  la scomparsa, prima sotto le ali prepotenti di Napoleone e, poi, sotto quelle dell’aquila austriaca, a fine secolo. Si potrebbe, in verità, osservare che la sua missione provvidenziale verso l’Occidente cristiano era ultimata: essa, sviluppando col commercio una marina eccezionale ed un impero mercantile nel vicino Oriente, aveva contribuito in maniera decisiva (dalle crociate a Lepanto  e oltre) a bloccare l’avanzata musulmana in Europa. Ora Venezia non ha più un peso politico-militare, ma neppure ha più una missione di dimensioni europee e cristiane da compiere, perchè il dislivello tecnologico (nel settore bellico in particolare)  a scapito dell’impero turco è tale, che quest’ultimo inizia una specie di quarantena di “grande malato” e solo la gelosia e gli interessi contrastanti dei vicini stati cristiani ne garantiranno per oltre due secoli la sopravvivenza. Venezia non è tra le candidate a spartire le terre dei Balcani ancora soggette ai Turchi: l’Austria, che  ha  attrezzato Trieste e Gorizia, è troppo superiore di uomini, armi e danari. La “Serenissima” si ripiega allora su se stessa, senza più velleità militari: Spagna ed Austria si vanno dando il cambio in Lombardia, ma non c’è spazio per il gioco diplomatico-militare di Venezia, già perenne aspirante ad annettersi la vicina regione. La sua indipendenza è affidata agli “Slavoni o Schiavoni”, mercenari assoldati dalla vicina Jugoslavia. Napoleone non farà che sopprimere un organismo politicamente paralizzato, già recluso, dalla mancanza di  una  adeguata flotta guerriera e commerciante, in una impotente neutralità.

 

        Ambiente economico-sociale.

Eppure Venezia è ancora ricca, anche se si è ben lontanti dai gloriosi tempi del Millecinquecento. E’ vero: la Germania, ultimo grande cliente, ripresasi dalle distruzioni della guerra dei Trenta anni (1618-48), può servirsi anche dei porti austriaci di Trieste e di Gorizia per il rifornimento di merci orientali, mentre le vie oceaniche riducono sempre più l’importanza di quel porto estremo nel Mediterraneo. Eppure Venezia può contare su un residuo di commercio e sulla nuova risorsa degli stranieri che vengono a spendere gli ultimi anni di  esistenza e le riserve di danaro nella regina dell’Adriatico, ove la vita privata è discretamente libera e la società è intensamente variata e gaudiosa. Ad attrarli è anche il clima mite, creato dall’alleanza fra “sole e mare”, i due grandi amici della città; ed è la presenza di un cumulo tale di opere  figurative, che fanno di Venezia la capitale dell’arte cromatica italiana. Anzi, ancora nel Millesettecento, si vanno producendo gli ultimi capolavori con le pitture di Giambattista Tiepolo (1696-1770), Giovanni Antonio Canaletto (1697-1768) e Francesco Guardi (1712-93). Venezia disputa a Roma, nel Millesettecento, l’attrattiva per la residenza in una città ideale, quasi mitica per la storia e l’arte: entrambe attraggono, poi, numerosissimi turisti di passaggio. Questi  fattori residui di commercio e di turismo favoriscono anche la plebe, che è in grado di frequentare qualcuno dei molti teatri (nei Mémoires, Goldoni parla di sette, esistenti a Venezia nel 1748: II, c.V). Automaticamente, il popolino attira l’attenzione di governanti,  impresari e poeti di teatro: si dovrà tener conto del loro giudizio, approvazione o fischi (si ricordi Goldoni che si fa perdonare dai gondolieri la abituale loro assenza nelle sue opere, scrivendone una –La putta onorata- dove essi  hanno una comparsa  rilevante). Ed è lo stesso popolo che, assieme alla alterigia delle clasi nobili veneziane che non vogliono essere  messe in scena se non onorabilmente, impone senza avvedersene quel “realismo” nella commedia e nell’opera buffa, che è il corrispettivo, nello stile, alla presenza popolare tra gli spettatori. Che il popolo (piccola borghesia, almeno) faccia un po’ il bello ed il brutto tempo, a teatro, lo dimostra anche il sucesso delle “fiabe” di Carlo Gozzi, successo che fu tra i fattori che indussero il Goldoni a preferire lo stipendio sicuro di Parigi alle entrate,  troppo dipendenti dall’afflusso del pubblico, nei teatri di Venezia. E si noti: l’ascesa del popolino ha un corrispettivo nel governo della repubblica: la oligarchia  declina (come già a  Firenze nel corso del tardo Milletrecento-inizio Millequattrocento) verso la  monarchia. Il potere, infatti, passa dal Consiglio maggiore al Senato, organo più ristretto; da questo, al “Consiglio dei dieci” e, in questo medesimo organismo di polizia, ai tre “inquisitori di stato”. Ebbene, il popolo ha sempre preferito il comando di uno solo, cui riferisi, fargli da sostegno ed eventualmente abbattere, piuttosto che una oligarchia inafferrabile e plurimamente dispotica: il popolo è meno oppresso da uno solo che da pochi.

 

        Ambiente religioso e morale.

Venezia è ufficialmente cristiana: popolo gioiosamente credente e festsamente praticante, chiese e conventi affollati, clero rispettato e ancora influente attraverso una censura discretamente funzionante, pur con falle vistose. Nel 1749, essa raggiunse anche i teatri imponendo regole che  mettevano fine alle scurrilità come alla critica dei nobili o di potenze straniere amiche (il Chiari dovette togliere dalle scene la parodia alla Vedova scaltra del Goldoni, intitolata “La scuola delle vedove”). Questo valeva anche per il carnevale della città, che vedeva all’opera  il brio, la vivacità, la voglia di moto, di festa, di colore, così propria del temperamento veneziano. E’ una società di “morbinosi|e”, come li definisce il Goldoni nel titolo di due sue commedie (1757 e 1758): desiderosa di allegria e di danza, ma sostanzialmente sana e pudica.[20] Almeno così la dichiara il Goldoni (Mémoires, II, XXXV e XL) e così ce la presenta nelle sue commedie. Nonostante la gran voglia di sposarsi, maggior parte delle ragazze veneziane appaiono come “putte onorate”: le maschere, il gran  rimescolio del carnevale non nascondono necessariamente impudicizia, adulteri o peggio, anche se non tutti i veneziani sono cristiani esemplari. D’altronde, colori,  movimento e canti sono anche parte della liturgia e portano in campo religioso (nelle processioni ad esempio) il carattere cromatico e dinamico della città, piena di sole e fondata nel mare aperto.

 Pure, un declino della fede e della religiosità  si denuncia da alcuni fatti: la assenza di grandi santi, quelli che avevano distinto la città nei secoli XVI e XVII; l’interdetto attiratosi da PaoloV (1616) con gli scandali (per la disubbidienza a Roma di alcuni ordini relgiosi e del clero diocesano) e le tensioni createsi; l’afflusso ora di tanti stranieri, che conducono una vita non sempre regolare, il diffodnersi del cicisbeismo... sono   fattori che  denunciano  ed accelerano nel Millesettecento una decadenza etica e religiosa. La città è ormai un crocevia di culture: residenti spagnoli che spenodno o vantano di poter spendere soldi e “protezioni” in alto loco, per ottenere prestazioni anche illecite; turisti francesi, inglesi o della Mitteleuropa che portano nuove idee e costumi inconsueti; contrabbando di libri  che nessuno riesce a fermare e che scristianizzano i lettori...  Non tutto è pericoloso o maligno. Il Baretti, che negli anni 1763-4, vi stampa all’inizio la sua “Frusta letteraria” è il segno di quella parte positiva nella libertà  e tolleranza di Venezia, che era come una boccata di aria fresca e corroborante.

A  testimoniare questa ambivalenza tra antica fede e moderno razionalismo, tra antica costumatezza e recente disinvoltura morale, possono servire da spia gli “avventurieri disonorati”, come il nativo Giovanni Giacomo Casanova (che rivela, nella Histoire de ma vie o “Mémoires”, i lati peggiori della società veneziana, cioè di  quella parte che egli frequentava); o come  Emanuele Conegliano (nato a Vittorio Veneto, cioè nell’allora Ceneda; e divenuto Lorenzo da Ponte,  perchè giunto al battesimo, venendo da famiglia ebraica). Eppure, nessuno dei due riesce a rimanere in città, perchè rischia la libertà se non la vita. Il Casanova, imprigionato come ateo e libertino (accusato come massone: ma aveva avuto, a sua confessione, vita di espedienti  tra falsario, donnaiolo e venditore di fumo) nei famosi “Piombi” della città, riuscì ad evaderne rocambolescamente, finendo a vivere e morire in  Boemia. Il Da Ponte dovette rifugiarsi in Austria, per finire, attraverso l’Inghilterra, a New York. In entrambi i casi la inquisizione ebbe un ruolo determinante nella condanna dei due maliziosi gabbamondo, ma essi sono segno dei tempi, perchè le loro rivelazioni scandalistiche rendono edotti di quanto fragile fosse ormai la impalcatura etico-religiosa  del governo veneziano. Il Casanova nei suoi “Mémoires” (Storia dlela mia vita) ha la impudenza di narrare esplicitamente le proprie scelleratezze, che consistevano nell’abusare cinicamente di chiunque mostrasse ingenuità, cedevolezza o, comunque, minor forza vitale di lui (donne, artisti, scienziati,  uomini di potere, al tavolo da gioco...), spacciandosi per scienziato od artista, ecc., secondo le circostanze. Il Da Ponte nelle “Memorie”difende  la propria innocenza ad ogni costo ed accusa la corruzione altrui, tanto da far dubitare fortemente della sua imparzialità ed attendibilità; per di più  fra i suoi testi teatrali per musica  (a Vienna; ed ebbe Mozart come musicista!) c’è anche la maliziosa “Così fan tutte”, accanto alle “Nozze di Figaro” ed al “Don Giovanni”. D’altronde, anche l’Algarotti è veneziano ed è teste a carico di una società che è intrallazzata (almeno negli alti strati) fra idee illuministiche, libertinaggio e residui cristiani. Mentre il Baretti deve lasciare Venezia, perchè ha negato validità poetica al Bembo, cioè ad un mito cittadino, ad un membro dell’alta società del Millecinquecento (censura di carattere politico-civile, dunque), l’Algarotti  può pubblicare “Il Congresso di Citera” (romanzo) che difende cicisbeismo e sensualità. D’altronde, sappiamo che il tribunale contro la bestemmia (che valeva anche contro la prostituzione) esisteva, ma non riusciva a funzionare decentemente.

Anche per Venezia, insomma, la società è culturalmente ambigua: è in ebollizioone, in sintonia con quel rimescolamento ideologico che sfocerà troppo congenialmente nella Rivoluzione francese e che si tradurrà, per Venezia, nella resa senza combattimento ai Francesi,  con una fine ingloriosa. Però il “valzer” della laguna non è propriamente il “fox-trot” di Londra e Parigi: si tratta di un processo evolutivo non rivoluzionario. Siamo di fronte ad una degradazione al rallentatore, che permette di distinguervi tre strati di popolo: quanti sono affascinati dalle novità illuministiche (e sono, quantitativamente, minoranza); quelli che le aborrono; e una moltitudine mediana che non ha precisamente coscienza delle profonde differenze e ritiene dei due mondi ciò che  giudica meglio, finendo in un miscuglio di compromessi nel pensiero e di contraddizioni nella condotta.

Che in Goldoni tali due mondi convivessero, non v’è dubbio; se in maniera cosciente od inconsapevole, non sapremmo dirlo. A quale punto di esigenze morali giungesse la sua troppo conciliante personalità, è difficile scoprirlo. Certo che era in lui spontanea l’amicizia cogli strati umili della sua città, fino ad abbracciarne una certa volgarità di linguaggio (poi scomparso, per soggezione alla “censura”); ed era in lui spontaneo il bisogno di un certo rallentamento nelle forme dispotiche della autorità parentale (specie  di linea maschile: vedi I Rusteghi e Sior Todero); è soprattutto clamorosa la sua tendenza a favorire i giovani, a comprenderli ed a procurare una soluzione alle loro scapataggini nella magnanimità di qualche “rustego di buon cuore”: a patto del loro rinsavimento,  s’intende. Eppure la gherminella dell’agnizione per permettere a lord Bonfil di sposare Pamela (che deve risultare di parenti nobili, pena il disonore per la classe dominante in città), non dev’essere solo il frutto della “censura” sociale, ma di una certa convinzione dello scrittore; egli difatti difende il principio veneziano di non facilitare la mescolanza dell’alta e bassa gente (Introduzione alla commedia omonima). A confermarlo è la scelta dello sposo ne La locandiera: con tanti innamorati d’attorno, non tutti spregevoli, ella sceglie quello della sua classe sociale, il cameriere: ed è la scelta di una donna avveduta e prudente al sommo!

E, anzi, la impressione è che Goldoni abbia ancora un piede in Arcadia, cioè sia legato più alla generazione precedente la sua nascita (generazione che ha presieduto, però, alla sua formazione letteraria e culturale). Difatti nessun personaggio è improntato ad una  virilità davvero prepotente; al contrario, vi si dispiega il dominio di dame borghesi e di donne del popolo (la “locandiera” Mirandolina; Marcolina, la nuora di sior Todero; Angioletta, ne Le donne de casa soa) e vi si esprime una psicologia mai estrema e sempre addomesticabile... Realismo, sì, ma fino ad un certo segno: Goldoni vede della realtà sociale solo quella parte che non disturba la sua gentilezza di sentire e dolcezza di contatto; che gli permette di sorridere serenamente e non soffrire e far soffrire per discordie definitive.

Che, poi, egli si riveli tutto felice ed onorato per aver potuto incontrare Monsieur Voltaire (Mémoires, II, c. XLII) e Jean Jacques (id. III, XVI e XVII), questo non depone tanto sulla fede o meno del Goldoni, ma sulla sua poca chiarezza e minor profondità di idee. La sua disponibilità ad accomodarsi all’opinione dominante fa talvolta pensare non tanto ad una certa femminilità, ma addirittura ad una semplicità di tipo infantile, ad una sua immaturità umana tout court (addirittura a indizi di un temperamento “apatico”?). Ma tant’è: genio e sregolatezza spesso si ritrovano assieme.

Non penso si possa giungere a dire che Goldoni era un “nostalgico” dei tempi rigorosi del passato: era un disorientato che stava al “gioco delle parti” (leggi di censura, esigenze del pubblico, opinioni dominanti) e  trovava però una rémora in quella parte della sua mentalità che, formatasi in gioventù, aveva una maggior tenacia e, quindi, una maggior difficoltà a mutare, per leggi fisiologiche prima che psicologiche.  Segni di un suo conservatorismo morale  si trovano qua e là, ad es., ne Le donne de casa soa, III, 2 e 3 ; V, ultima scena.

 

        Ambiente letterario.

E’ soprattutto quello teatrale che lo interessa: sia come conoscenza delle opere passate (Terenzio e Molière  gli  stavano così a cuore, da formare il tema di due opere drammatiche); sia come partecipazione di spettatore-lettore alla produzione (fervida sino al caos) della sua età.

Il Millesettecento teatrale inizia, in Italia, col melodramma, continua con le commedie di Maffei e declina con le tragedie di Alfieri e Foscolo. La scena italiana è quasi una banchisa in perenne  movimento ed evoluzione. La produzione francese è divenuta il nuvo modello da imitare e, possibilmente, superare, come nel Millecinquecento lo era stata quella greco-latina e , nel secolo successivo, quella spagnola.  Son le prime volte che il genio latino è umiliato dall’estro di altre nazioni europee. Ed ecco fiorire teorizzatori puri di arte e di critica letteraria, come il Muratori; critici ed estensori di testi per il teatro, come il Conti ed il Maffei; poeti melodrammatici come il Metastasio e lo Zeno; commediografi degni di rispetto come Giambattista Fagiuoli, Girolamo Gigli, Jacopo Angelo Nelli... Goldoni, nato coll’estro del teatro nei cromosomi, era un frequentatore avido del San Samuele, prima ed oltre che esservi poeta, cioè scrittore di commedie; e non mancò di leggere, oltre a Terenzio e Molière, anche Aristofane, Plauto e la Mandragola di Machiavelli.

        La scena comica (a Venezia almeno, chè in Toscana, avevano già purificato l’ambiente sia il Fagiuoli che il Gigli ed il Nelli) era ancora al di qua della riforma francese e della stessa Arcadia:   sulla scena imperversavano ancora  la maschera e la improvvisazione, le battute stereotipe e la supponenza inventiva degli attori. Non senza qualche oscenità. Goldoni assume un atteggiamento pragmatico all’estremo, di un realismo  prudenziale ammirevole. Da una parte elimina quanto di buffonesco e gratuito stona nel contenuto della trama e quanto di rigido e ripetitivo, di meccanico e di imparaticcio aduggia la forma espressiva. Dall’altra parte, però, egli intuisce quanta libertà di movimento,  quali occasioni di riso ofrivano il gesto e la spontaneità, cioè la “mossa” popolaresca ed il genio personale dei  vari attori. Di qui nasce il suo creare trame e commedie ritagliate su misura per singole attrici od attori. La locandiera insorge sulle particolari abilità sceniche dell’attrice Maddalena Marliani, che, moglie di Giuseppe (il “Brighella” della compagnia Medebac), recitava meravigliosamente come “Corallina”, cioè come servetta, nella stessa compagnia. Viceversa Teodora Medebac, moglie del capocomico, (che vestiva le parti di “primo innamorato” nella  propria compagnia) suggerì al Goldoni le commedie allegro-patetiche, come La vedova scaltra, Il cavaliere e la dama. Cesare D’Arbes, ottimo “Pantalone”, servì a creare La famiglia dell’antiquario, dove quel personaggio è l’unico saggio fra tanti maniaci.

E dal momento che, qualunque fosse il tenore della sua vita privata, Goldoni aveva un senso della probità a livello sociale molto attento, egli bandì il buffonesco e la volgarità. C’era a portata di mano la satira sociale (di scandali era facile trovarne), ma la legge, dal 1749, legava le mani alla gente di teatro tutta, proibendo di portare in scena la nobiltà. Proprio una sua opera, Il cavaliere e la dama, sul fenomeno del cicisbeismo (1749), aveva attirato le proteste della nobiltà a Torino ed a Bologna: Venezia aveva provveduto ad evitare simili contraccolpi diplomatici con un giro di vite nella censura. Il commediografo  salvò un angolino anche in tale ambiente, ripiegando sulla canzonatura dei nobili spagnoli residenti a Venezia, ma rivolse maggiormente  la sua attenzione alla borghesia ed al popolo della città, la sua fonte di ispirazione maggiore: un popolo abile, lavoratore ed onesto, ma anche  impulsivo, puntiglioso e pettegolo. Dalla osservazione del “suo” popolo nasceranno le scene corali del Campiello, del Ventaglio, delle Baruffe; quelle quasi sempre affollate  della Locandiera, dei Rusteghi , della Villeggiatura, del Caffè o della Vedova scaltra; quelle incentrate su un protagonista come Sior Todero o Il burbero di buon cuore. Andava a chiaccherare coi gondolieri lungo i canali di Venezia ed a ritrovare nei “calli” le “massére” (comari) per rubar loro il linguaggio realistico, vivo, brioso,  magari  grossolano, da mettere in bocca ai suoi personaggi, un linguaggio degno dei “morbinosi”, cioè della gente allegra e loquace, movimentata e quasi danzante della città.

A questo modo, davvero Goldoni ha imparato a far teatro da due grandi fonti: una letteraria, cioè il teatro” recitato a lui contemporaneo o garantito da secoli di consenso e di applausi; ed una vivente, cioè “il mondo” nel quale viveva. Lui stesso, nella Prefazione dell’autore alla prima raccolta delle commedie (1750) additava ne “il teatro ed il Mondo” “i due libri sui quali ho più meditato, e di cui non mi pento mai di essermi servito”.

 Lontano rimase invece da ogni soggezione ai dettami della poetica classicistica e da ogni fascino degli orpelli retorici:  rare le trame inverosimili, trascurate le unità (pseudo)aristoteliche. Egli ricercò la spontaneità del linguaggio e riuscì anche ad ottenere una notevole verosmiglianza dell’azione scenica. Se qualche volta non è del tutto convincente (intervento dello “zio di buon cuore”, quasi deus-ex-machina per sanare le sventatezze dei giovani) o, raramente, ricorre  addirittura a qualche amminicolo artificioso (agnizioni), pure si deve riconoscere che  una parte del suo tetaro è ancora godibile e resiste (cartina al tornasole per  garantire il valore artistico, di barettiana scoperta) alla rilettura ed alla seconda e terza visione.

 

LA POESIA

 

        MOTIVI ISPIRATORI

        Avendo a suo credito oltre duecento opere per teatro (centoventi commedie circa), è naturale che Goldoni abbia toccato temi molto numerosi e molto diversi. Egli è passato così dagli argomenti  esotici (orientali, anzitutto: Oronte, La sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ispahan...; e poi greco-romani: Belisario, Pisistrato, Terenzio...) a quelli medioevali (Amalasunta, Rosmunda, Rinaldo di Montalbano...); da quelli di storia recente (Gustavo Vasa)  a quelli di letteratura (Torquato Tasso, Moliére); da quelli a trama affidata alla fortuna (agnizione: Pamela, La putta onorata) a quelli costruiti sulla inverosimiglianza tipica della commedia a braccio con le maschere (Arlecchino servitore di due padroni...).

        Eppure, il Goldoni approda alla poesia non quando si ispira a temi eroici od elitari, ma quando si rifà alla vita popolare e quotidiana; non quando rincorre paesi ed avvenimenti esotici, ma quando frequenta persone ed ambienti della sua Venezia. Ed entro la cerchia della sua città, della sua laguna si va restringendo d’istinto  l’ambito di pesca della sua musa, specialmente da quando, attorno al 1750, egli scopre definitivamente l’orizzonte od il cuore della sua poesia, che coincide con quello del popolo di Venezia. Entro l’alveare di Venezia, le vicende per le nozze (specie dei giovani) sono il tema più frequente: il mondo goldoniano è zeppo di “promessi sposi” (nota introduttiva a Le donne de casa soa” di Giuseppe Ortolani: “I classici mondadori”, V, p. 1401.

 

 Per quel che riguarda   la Venezia topografica,  si pensi che la sua miglior commedia d’ambiente ha per titolo “Il campiello”, cioè una piazzetta  peculiare di Venezia; oppure si  osservino le scene aperte sulla marina delle “Baruffe chiozzotte”; o si sbirci dentro “La bottega del caffè”... Però si presti attenzione che, quando si parla di “commedia d’ambiente”  a proposito del Goldoni, ci si riferisce   ad un ambiente “umano, psicologico”, non a quelo geografico: vogliamo dire che il motore della poesia del Goldoni non è tanto la città fisica, sia pure singolare, sorprendente, inimitabile, quanto piuttosto la psicologia, i costumi, il carattere,  i punti  luminosi e le zone di penombra  della città  viva, del popolo, cioè, che agisce e si agita sulla laguna e nei calli, fra canali e campielli.

 

Di Venezia popolana e borghese egli presenta virtù e difetti, pregi e limiti, sapendo ricavare sorriso garbato, fraterno, compassionevole (se non complice!), dagli aspetti negativi; ridestando commozione, sia pure un po’ superficiale e patetica, dalle componenti positiveRipetiamo: non è solo per motivi di censura che egli emargina dalle sue scene la nobiltà e la vita patrizia: d’istinto egli si accosta al popolo di cui si sente parte[21], erigendo un monumento ad una società ed al suo temperamento e costume di vita, che  si affianca  fraternamente e completa le visioni artistiche dei Canaletto (Giovanni Antonio Canal: 1697-1768), dei Longhi ( Pietro: 1702-1785), dei Guardi (Francesco: 1712-93). Ed è sorprendente che egli immortali nell’arte della commedia quel tipo di paesaggio umano, proprio alla vigilia del suo  repentino tramonto, sotto l’urto di forze rivoluzionarie che erano l’opposto esatto della sua pacifica complessione biologica e psicologica. E’ giusto, dunque, che le commedie del Goldoni siano intrise di tanto sorriso e letizia, a perenne ricordo di tanta  gentilezza ed onestà; e, assieme, bagnate da qualche lacrima di tristezza e di commozione, quasi di anticipata nostalgia per la prossima scomparsa di quel mondo tanto simpatico. L’insieme della sua opera di commediografo è quasi  una serenata di malinconico addio ai calli ed alle gondole, alla laguna ed alla “serenissima repubblica” dell’Adriatico; ma è anche la lieta celebrazione di un popolo che in secoli di umili sacrifici, pur tra  beghe frequanti e puntigli  affettivi, tra facili gelosie e troppa loquacità, ha  coltivato una vita religiosa e morale complessivamente commoventi, ha saputo amare intensamente e perdonare compassionevolmente, ha  custodito la santità del focolare ed allevato  amorosamente  i figliuoli, è vissuta  nella povertà, senza rancori verso i propri signori che,  mecenati e costruttori, davano alla fede chiese di una magnificenza sublime ed alla città lo splendore di opere d’arte uniche al mondo: facevano di Venezia la capitale della pittura cromatica italiana, gareggiando con Firenze, centro  di quella disegnativa. Era una storia millenaria che volgeva al termine e che meritava si ricordasse  come a costruire l’impero marittimo e terrestre, la ricchezza e la gloria di Venezia non erano state solo le imprese vittoriose dei grandi condottieri ed i fortunati rischi dei più dotati commercianti, ma anche l’umile classe dei calli e del remo, delle locande e delle vele, dell’arsenale e delle reti.

Anzi, Goldoni coinvolge troppo giustamente anche il mondo femminile, quelle “donne di casa soa” che, mentre gli uomini erano sul mare a pescare od a combattere, hanno difeso il pudore e la famiglia, han protetto i più i piccoli e curato  gli anziani, han   tenuto acceso il fuoco nella casa e ridestato la gioia nei cuori.

 Goldoni guarda a questa vita con occhio innamorato, perchè è unanime col popolo della  città, che sente profondamente sua, anche se il nonno vi era approdato da Modena. Certo ne vede anche i difetti, ma intuisce che si trattava di peccati veniali: li canzona, perciò, bonariamente e mette in luce le virtù nascoste, convinto che le solide doti di lavoro e di attaccamento alla famiglia riscattassero quanto di troppo candido, impulsivo, superficiale appariva al primo sgurado. E’ così che egli mette in burletta   gli spiriti conservatori, troppo rigidi e gretti; e si fa gioco dell’universale propensione ai litigi, pettegolezzi, gelosie, competizioni in amore: ma la sua è ironia benevola; la sua burla è amichevole.  Si tratta, infatti di tempeste in un canale di laguna,dietro le quali sta il sole della onestà  morale, della sobrietà operosa, della intensa capacità di amare. Ci saranno troppe  “ciàcole” (chiacchere) per le case, dalle finestre, lungo i calli ed i canali di Venezia, ma ancora più imponente è la mole del lavoro,  l’intensità degli affetti , la sincerità del sentimento religioso sotteso, opere che purificano l’aria dai momentanei sussulti di collera, dagli effimeri scoppi di gelosia o dalla persistente propensione al cicaleccio. Tutto il tramestio del Campiello, tutta la corsa dietro ad un “ventaglio innamorato” è in definitiva un “Molto rumore per nulla”; sono delle baruffe nate da malintesi e rimediate da spiegazioni; sono litigi originati da gelosie senza fondamento e rappacificati dalla confermata certezza dei propri amori, col fidanzamento definitivo ed il matrimonio indissolubile.

E’, dunque, la vita di Venezia il cuore più intimo della ispirazione goldoniana. Ed eccone i tipi psicologici più frequentemente indagati e messi in scena dallo scrittore: Candida, la gelosa, Coronato e Crispino, i rivali in amore, il conte di Albafiorita, recente nobile e prodigo corteggiatore; Evaristo, l’innamorato (di Candida); Giannina, la dispettosa; Geltrude, la senteziosa; Mirandolina, la  giovane avveduta, vanitosa e puntigliosa; Morlacchio, il collerico; don Marzio, il maledico; il conte di Roccamarina ed il marchese di Forlipopoli, nobili spiantati e boriosi; i Rusteghi, cioè i vecchi nostalgici, sospettosi ed autoritari; sior Todero, vecchio avaro e ingenuamente prepotente...

Se vogliamo scoprire le scene dove la celebrazione delle virtù veneziane prevalgono, allora dovremo sfogliare qualcuna delle commedie patetiche o commoventi. Così Pamela[22] mette in scena la fanciulla povera ed insidiata, ma alla fine vittoriosa e sposa felice. La putta onorata ha per protagonista la buona ragazza calunniata, contro cui si accaniscono indizi malaugurati e malignità pettegola. Anch’essa alla fine è riconosciuta nella sua innocenza. Ne La buona moglie si rivela la pazienza della donna forte che dignitosamente subisce  l’infedeltà coniugale e, con l’aiuto del suocero amorevole, riesce a riconquistare il cuore dle marito.  Il Padre di famiglia  mette in luce l’azione di un galantuomo avveduto che rimedia alla imprudenza di un amico, ricuperandone la figlia minore, affidata ad una zia scriteriata, che l’ha cresciuta nella ipocrisia della finta virtù.  Ne La madre amorosa, lo spirito di sacrificio della vedova che teme per la figlia sventata, cui gli zii propongono un matrimonio sbagliato, giunge all’eroismo: lei rinuncia alla sua dote e si ritira in convento, convincendo il gentiluomo che aspirava alla sua mano dopo la vedovanza, a sposare invece sua figlia! Ne Il cavaliere e la dama, il cicisbeismo diventa una cosa seria per la virtù di donna Eleonora, che resiste alle pressioni, d’altronde discretissime, dell’innamorato don Rodrigo anche dopo la morte del marito: chiede un anno di tempo per decidere se sposare il pretendente o no. Aveva rifiutato danaro nelle strettezze di un processo infelice, nonostante sapesse che don Rodrigo fosse un galantuomo che non voleva comprare la sua virtù, ma solo soccorrerla nel bisogno: per far fronte alle dicerie di una società in cui il “cavalier servente” era il paravento del legame extraconiugale, essa vuol salvare anche le apparenze. Solo una lettera  in cui il marito, avviato alla morte precoce, le raccomanda le nozze col probo don Rodrigo, la smuove abbastanza per non farla parere addirittura selvaggia nei suoi rifiuti. Il sipario cala, però, sul rimando di un anno ad ogni decisione. Ne Le donne di casa soa vi è spazio per il riso  di fronte alla troppa coscienza delle proprie doti nelle donne veneziane, ma anche per la  ammirazione di fronte alle loro reali capacità e virtù domestiche. E l’elenco potrebbe seguitare. 

Il riso cordiale, amichevole avvolge ed ovatta la rappresentazione dei difetti del suo popolo. Non si può negare che è da tale rappresentazione che nascono i capolavori del Goldoni. Ma si tratta, per lo più, di atteggiamenti  errati ma tollerabili, tanto che è lecito sospettare che lo scrittore goda nel dipingerli e metterli in scena e non abbia alcuna difficoltà a perdonarli; anzi, a sentirsene in qualche modo compartecipe e quasi complice. Eccetto che per tre “caratteri: don Marzio (La bottega del caffè: 1750), Dorotea (Lo spirito di contraddizione: 1758) e lo zio Bernardino (Il ritorno dalla villeggiatura:1763).  Ma anch’essi finiscono per convertirsi.[23]

Gli altri personaggi presentano difetti che potremmo definire “femminili”, termine che, collocato nella Venezia del tempo, significa che  essi non giungono alla malizia, ma rimangono nell’ambito della debolezza umana: superficialità ed impulsività, ansie ed eccesso di emotività, non calcolo o malignità. Come è stato osservato, è la donna che predomina nelle commedie goldoniane, carattere che dimostra quanto il Goldoni sia psicologicamente affine all’Arcadia, al Metastasio, al mondo gentile e soave fino alle sdolcinature. Anche gli uomini, d’altronde, non presentano i grandi vizi dei personaggi di Calderòn e di Molère, ma piuttosto le manie di anime deboli e vicine al temperamento femminile più solito. Così, nella Locandiera, abbiamo la  boria del nobile spiantato, ma innocuo; le prodigalità scriteriate del nobile recente; il puntiglio misogino del cavaliere selvatico o deluso; la vanità, il gusto per lo scherzo ed il puntiglio di rivalsa di Mirandolina. E si potrebbero  rivedere tutte le commedie già segnalate come le migliori: per alcune, lo facciamo in nota.[24] Si tratta sempre di “baruffe chiozzotte”, di tempeste in un canale di Venezia.

Naturalmente una simile prospettiva dei motivi ispiratori, della psicologia dei personaggi e dell’andamento delle vicende rivela anche dei limiti: Goldoni non vuol guardare alla vita nella sua realtà intera (e, perciò, talora, malvagia, paurosa e irredemibile). Egli, conformemente al suo temperamento, alla sua florida giocondità, alla propria serenità “vagotonica”, preferisce rappresentare, dell’umana vicenda, solo la parte lieta e sorridente, guardando il mondo da un osservatorio ottimistico e fiducioso, lasciando ad altri (ai Baretti, ai Parini od agli Alfieri) il compito di insorgere catonianamente a deprecare e condannare. Lui, della rivoluzione francese, non ha proprio colpa: il mondo poteva continuare così in eterno... E’ un po’ costruito alla don Abbondio: neutralità disarmata con tutti, cortesia ad ogni costo, sorriso e benevolenza sempre. Riesce artista “grazioso”, perchè  pacifico lo aveva fatto la natura; e commediografo di pace   finì per accettarsi e costruirsi. Questo non toglie che anch’egli si proponga di correggere i costumi con la... bacchetta magica del suo sorriso: anch’egli vuole migliorare l’umanità, canzonando garbatamente ed amichevolmente rimproverando.

 

        I TONI LIRICI

Ai due fondamentali Motivi ispiratori corrispondono due tonalità emotive adeguate, con le sfumature e il viraggio propri all’animo del Goldoni.

I difetti del popolo veneziano sono la sorgente della COMICITA’ GRAZIOSA, così come le sue virtù sono all’origine della COMMOZIONE PATETICA.   Non si può non essere d’accordo con Natalino Sapegno, che così afferma dell’arte goldoniana: “La misura di questa poesia consiste tutta in un’ideale mescolanza di tenerezza e d’ironia, in quella pacata contemplazione delle passioni, degli errori e dei capricci umani alla luce di una saggezza serena eppur cordiale...”.[25]

Ma se la commedia ha per motto “ridendo castigat mores”, per  correggere i costumi ridendo essa dovrà mettere in scena più difetti che virtù, più magagne che perfezioni. Per questo c’è da aspettarsi che, anche nelle commedie del Goldoni, siano predominanti i personaggi “sproporzionati”, cioè più o meno fuori della norma (nel criterio di giudizio o nell’abito di comportamento), rispetto a quelli saggi e virtuosi. E, anche a prescindere dalla maggior frequenza dei “tipi” disarmonici messi in scena, resta il fatto che è più convincente e riuscita la comicità sorridente di fronte alla mediocrità  dell’uomo medio (anche veneziano) che non la commozione al contatto con la sapienza ed il buon senso, la equità e la giustizia, anzi l’amore delle altre figure nel teatro goldoniano.

 Chi ha felicemente definito “COMICITA’ GRAZIOSA” il particolare sorriso del Goldoni è stato Attilio Momigliano[26]: si tratta di ironia garbata, di umorismo benevolo, di caricatura  scherzosa, di una forma di comicità che, più superficiale e discontinua, ha però qualcosa in comune con l’umorismo manzoniano.[27]

A comprenderlo meglio, serve il paragone con il riso di Jean-Baptiste Poquelin, cioè di Molière. Questi è più virile, ma meno pietoso, calca la mano ed affoga nella satira i personaggi che divengono spregevoli ed odiosi, siano essi l’avaro egoista, incupito nel suo attaccamento alla ricchezza o il borghese ignorante in vena di acculturamento ovvero il vedovo  risposatosi con una moglie giovane oppure la subdola doppiezza del “tartufo”. Molière è pungente ed amaro; Goldoni è carezzevole e dolce. Molière è ironico o satirico, Goldoni è umorista o scherzoso. In Goldoni non vi sono, come invece in Molière, personaggi irricuperabili, conclusioni di impenitenza.

L’atteggiamento del Goldoni rispetto ai propri personaggi lo ha incarnato lui stesso nella protagonista del suo capolavoro: Mirandolina de La locandiera.  Essa canzona i suoi spasimanti, li burla, li snobba: ma è tutto uno scherzo. Si indovina facilmente che la sua anima fa fatica a trattenere il sorriso, mentre, padrona della scena e dei cuori, sta al gioco delle illusioni altrui:  nel suo comportamento vi è certo candore e garbo, gentilezza  e disponibilità a servire; ma  non mancano, anzi prevalgono, la sapienza e l’avvedutezza, il calcolo ed il puntiglio, il divertimento e la gioia di canzonare le debolezze degli uomini. E come nella Locandiera, al calar del sipario, nessuno rimane offeso o danneggiato dalle trame della scaltra giovane, morbinosa ma onorata, così al chiudersi di ogni commedia nessun personaggio si ritrova perdente: anche don Marzio, anche lo zio Bernardino, anche Dorotea approdano ad un  più illuminato stato di coscienza, ad una più saggia volontà di condotta. Tutti si rivelano fondamentalmente buoni  e, perciò, ricuperabili; tutto si risolve nella pace e nell’ordine. Non è neppur vero che i buoni hanno il sopravvento: è piuttosto la bontà che trionfa, perchè i disorientati e fuorviati ritornano a lei.

Ancora a distanza di secoli, nonostante i mutamenti in peggio di coscienza e comportamento morale (“precipitati”, avrebbero detto i contemporanei del Goldoni), un simile atteggiamento riesce, nel complesso, divertente e rasserenante, persuasivo e accattivante: allarga il cuore e riconcilia con l’umanità.  Parleremo più avanti dei limiti del “realismo” goldoniano: pure anche quel residuo alone di favola, quella sottile nuvola di idealizzazione, quel leggero colpo d’ala, quell’innegabile  “spin” ottimistico che, nelle commedie dello scrittore veneziano, attenua il male ed esalta il bene, finisce per piacere e, almeno nei capolavori, sa entrare in risonanza con una componente eterna  dell’anima umana, l’aspirazione cioè  a vedere che i buoni trovano giustizia; i deboli si redimono,  chiedono ed ottengono il perdono; i forti e saggi danno una mano per far coincidere il più possibile virtù e premio, delitto e castigo. Il tutto, senza grandi traumi o sofferenze, anzi nella atmosfera graziosa del sorriso amichevole. Via! la vita  può anche essere dura, ma non è mai impervia; gli uomini peccano entro le mura  d’Ilio così come fuori di esse ma, in fondo, l’umanità è sana e pronta alla conversione; e, soprattutto, si prendono più mosche con una goccia di miele che con un barile di aceto. Ed ecco allora il commediografo sorridere e scherzare: anche senza chiamare in causa la Provvidenza (come sarà per il Manzoni), le cose finiscono per mettersi a posto. Si può allora divertirsi anche di fronte alle sciocchezze e mattie, alle debolezze ed intemperanze umane: verrà il momento in cui verità e giustizia riprenderanno  il  timone delle vicende.

 

         Le commedie che si ispirano più alle virtù che ai difetti del popolo veneziano comunicano, nelle scene migliori, uno stato d’animo che oscilla fra il commosso ed il patetico, inducendo   facilmente al pianto. Vengono chiamate anche “commedie lacrimose”, un termine poco felice, che vorremmo sostituire con “commedie sentimentali”, per tradurre la più riuscita espressione francese “comédies larmoyantes”. La musa patetica è il rovescio della medaglia della comicità graziosa.  Il riso amichevole o grazioso non nasce dalla sola messa in evidenza di difetti ed ingenuità, ma dalla previsione e fiducia che l’imperfezione sarà corretta nelle conseguenze; che l’errante sarà ricondotto al senso della realtà sociale e del dovere morale. La commozione patetica nasce non   direttamente dalla compassione per chi soffre ingiustamente, ma dalla contemplazione gioiosa della conversione di chi è nel disorientamento e nel torto, dalla liberazione di chi giace nella ingiustizia e nell’umiliazione, nella delusione e nel fallimento.  E’ una commozione che spegne la lacrima nel sorriso, che asciuga il pianto nella consolazione, che contempla il dolore del momento nella previsione del suo superamento finale, nella fiducia che una soluzione si troverà. 

E siccome, in questo genere di opere riuscite, manca il capolavoro assoluto e ci si  aggira invece nella mediocrità di lavori che si vedono (leggono) volentieri una sola volta, ecco che, qui, affiora abitualmente la componente di inventività gratuita, di inverosimiglianza almeno marginale. Pamela, La putta onorata, La buona moglie, Il padre di famiglia, La madre amorosa, Il cavaliere e la dama presagiscono in qualche misura il patetico deamicisiano, le lagrime del dolce Edmondo, la sbalorditiva   virtù dei personaggi “buoni” del Cuore.  Nel caso del romanzo di De Amicis, l’inverosimiglianza dei cattivi troppo malvagi e dei virtuosi troppo perfetti è estrema, tanto che l’adulto consapevole cerca di evitare un pianto irragionevole ed è preso da collera contro se stesso se non riesce a frenarlo. Nelle commedie del Goldoni, dove i toni di virtù e vizi sono più smorzati e il contesto più naturale, la soluzione della situazione penosa rimane nelle leggi del possibile e dell’umanamente fattibile: pure, un sospetto di troppa facilità nei rimedi impiegati, di superficialità psicologica in erranti e soccorritori, di una aliquale mancanza di gravità e corposità, di  eccessiva levità ed angelicità nelle persone fa capolino. Ripetiamolo: a sostenere simili commedie occorre il grande attore. Ricadiamo, cioè, nei limiti del “realismo” goldoniano, che pure è un carattere fondamentale della sua tecnica stilistica.

 

LA TECNICA STILISTICA.

Se il lirismo prevalente in Goldoni si lascia definire come comicità graziosa, il suo stile si può

forse riassumere nel REALISMO RITMICO (o danzante), dove l’aggettivo dichiara bensì i limiti del sostantivo, ma vi aggiunge una virtù nuova e fascinosa.

 

         IL REALISMO: I) il suo significato, il cammino di crescita (RIFORMA DELLA COMMEDIA), le sue note  secondarie.

Realismo significa anzitutto verosimiglianza delle trame, coerenza della psicologia nel comportamento dei personaggi, eliminazione delle maschere e di ogni stereotipo ad esse collegato. 

Goldoni vuole tornare a “guardare in faccia” l’uomo, cioè liberarlo dal comodo nascondiglio della maschera per riportarlo in mezzo alla società a viso aperto, costringendolo a mostrarsi per quello che è, ad interagire con altri individui nella loro integrità di esseri umani. La maschera, infatti, intesa  come abito intero e  fissato dalla tradizione, finiva per ridurre i personaggi a “macchiette” e quasi a burattini, cioè a “caratteri unilateralizzati, monomaniaci”, che della complessità dell’uomo reale conservavano ben poco.

Egli, con tale liquidazione dell’eredità dalla “commedia dell’arte od improvvisa”, vuol  prendere dalla vita concreta dell’uomo le vicende da portare in scena,  ricavandone trame verosimili, facilmente  interpretabili come vere. Elimina, così, il più possibile i colpi di scena surreali, affidati al caso arbitrario, alla fortuna onnipotente, ad una specie di provvidenza irreligiosa, chiamati in causa unicamente per sciogliere un  passaggio “gordiano” (insolubile) della  vicenda (insperati ritrovamenti, arricchimenti, agnizioni, ecc.). A tale fine, i personaggi devono essere il più vicino possibile alle persone incontrabili nella società, contemporaneamente complessi e coerenti, cioè duttili ed elastici di fronte ai diversi casi della esistenza, ma non contradditori, non arbitrari.

        Questo sforzo di adeguare la scena alla vita, il teatro alla realtà conduce alla RIFORMA DELLA COMMEDIA, lavoro suggerito dall’esempio francese di Molière, già messo in atto dai commediografi toscani (Gigli, Fagiuoli, Nelli), ma  imposto alla scena italiana tutta  praticamente   dal solo Goldoni. Gli è che i tre “toscani” (cui si può aggiungere il bolognese Francesco Albergati Capacelli)[28] lavoravano per recite riservate a gruppi di amici o cortigiani, mentre Goldoni aveva una “audience” sterminata (e vocale, anzi vociferante) nel pubblico di Venezia, la città che  disponeva allora del maggior numero di teatri pubblici. Egli agì con un tempismo ed una prudenza superiori,  temperando le esigenze della ragione con l’accondiscendenza agli attori ed al pubblico.  Ma soprattutto egli  potè far accettare la “riforma”, perchè il prodotto, che offriva in cambio di quello tradizionale, era sapido e gustoso, anzi ghiotto. Se gli impresari ebbero la loro parte nel garantire al “poeta innovatore” disciplina e consenso (quelle doti manageriali che il Goldoni probabilmente non possedeva), fu però l’arte a imporre al pubblico il cambiamento. Le commedie piacevano e il pubblico accorreva. Si proceda pure, allora!  Riuscì, così, a svezzare gradualmente la platea dall’attaccamento all’armamentario della tradizione. Ecco le tappe fondamentali.

1738: per Momolo cortesàn egli scrive tutta la parte del solo protagonista (la commedia sarà rifatta col titolo L’uomo di mondo);

        1742: con La donna di garbo, egli riesce ad imporre agli attori la parte scritta per tutti i personaggi, abolendo la improvvisazione;

        1750: con Pamela riesce per la prima volta a mettere in scena una commedia senza più una sola maschera e senza il relativo personaggio, dal carattere già prederminato dalla  prassi teatrale dell’arte.

 

 DEL REALSIMO GOLDONIANO FANNO PARTE ALTRI  FATTORI che si manterrano sino ai nostri giorni. 

Negativamente, la nessuna preoccupazione per regole classicistiche e retoriche. La regola della unità di luogo è elegantemente evasa  con l’allargare l’ambiente della vicenda a tutta una città: una sola, ben inteso!

Positivamente,  abbiamo anzitutto la contemporaneità dei personaggi e delle vicende: non trame storiche, riguardanti il passato nè opere di pura fantasia come le fiabe di Carlo Gozzi o il teatro esotico ambientato in Persia od in Cina. Il Goldoni adottò la storia o l’ambiente esotico ma non per le commedie: ne fece uso nei testi per melodrammi e tragicommedie, per cui si adattò all’uso invalso, anzi imperversante.

In secondo luogo, la popolanità di personaggi e contenuti. Ripetiamolo: non fu solo la prudenza politica a tener lontano il commediografo di Venezia dal maneggiare materiale riguardante la nobiltà, ma fu anche una propensione innata, per cui egli si  sentiva vicino e parte della borghesia e del popolo minuto, particolarmente della città lagunare. Questa è la gente che frequenta e che conosce: questa attira la sua attenzione e simpatia; da essa trae spunti per il suo sognare e poetare sulle scene.  E si adatta  al realismo (banalità, talora confinante con la volgarità) dell’ambiente.

Un terzo carattere  del realismo è l’accondiscendere alla  popolarità estrema del dialetto. Tra le più belle, nate in dialetto veneziano sono Le baruffe chiozzotte (solo in seguito tradotte in lingua toscana); e Il Campiello (rimasto nel linguaggio originario: e in versi!). Goldoni amava soffermarsi a sentire come la gente di popolo parlava, dai gondolieri che altercavano fra loro ai pescatori di Chioggia ed alle donne che  ciacolavano nei “campielli” attorno ai quali sorgevano le loro case. Egli “rubava loro” le espressioni non tanto “più caratteristiche”, (come  vari scrittori fiorentini di teatro -da Michelangelo Buonarroti il giovane a G. B. Fagiuoli-avevano fatto e facevano col linguaggio di piazza mercato, in città; o con quello degli analfabeti, dal contado), quanto le più significative, briose, sprizzanti inventiva e buon umore. Sceglieva (e integrava) da artista, non da filologo.[29]

Fa parte ancora del realismo goldoniano, il modo più a lui congeniale di comicità, che non è quella allusiva, ma quella diretta: egli solitamente presenta e fa parlare i personaggi secondo la loro propria natura, fisica ( paròn Fortunato, nelle Baruffe) o morale (i “rusteghi”, “sior Todero”...), facendo scaturire il riso dalla sproporzione, che il  resto della vicenda  denuncia clamorosamente. Il riso goldoniano più solito non è basato, cioè, su giochi di parole, sul contrasto|sproporzione fra il concetto solito di una espressione ed il significato opposto che le comunica il contesto, ma sul contrasto-sproporzione fra realtà della  imperfezione fisica o morale di un personaggio  ed il giudizio di tutti gli altri personaggi sulla scena (ovvero il senso comune degli spettatori), che incarnano la ragione e la virtù, la misura della perfezione e dell’equilibrio psicologico.

Usiamo degli esempi per comprendere più a fondo.

Nelle “Baruffe”, i gesti e le parole di paròn Fortunato sono una professione di ingenuità, di ignoranza, di confusione mentale e, contemporanemaente, di presunzione e pretesa dignità. Egli sa a stento parlare e sfarfuglia le parole, smozzicandole e deformandole, ma pretende di essersi spiegato bene e di dover essere compreso. Il risultato è la scena XV dell’atto secondo, che spazientisce il povero “coadiutore criminale”, ma fa sbellicare dalle risa gli spettatori: lo scrittore ha saputo evidenziare nella pretesa testimonianza del pescatore, fotografato in presa diretta, la sproporzione fra ideale e reale, fra esigenze psicologiche umane e dati di fatto storici.

In Sior Todero, la proposta di lasciar scuocere il riso per ingrossarlo con l’acqua e farne sembrare maggiore la quantità nel piatto, risparmiando sulla “roba” a scapito della salute; o la  pervicacia a dar in sposa la nipote Zanetta a quella magra persona che è Nicoletto, figlio del suo amministratore, (affinchè si continui a servirlo senza stipendio... per qualche generazione ancora), nonostante che un aspirante, di pari condizione sociale a Zanetta e di doti adeguate, pur di averla, è disposto a rinunciare alla dote, ebbene questi atteggiamenti di un’avarizia, autolesionista oltre che scriteriata, inducono al riso per la rivelazione diretta della loro sproporzione  rispetto alle normali esigenze di ragionevolezza e moralità.

Se si ripensa a tutte le “tempeste in un bicchier d’acqua” (od “in un canale di Venezia”) per malintesi d’amore (Il Ventaglio| Il Campiello, ecc.) o per la vanità spendereccia di spose giovani e meno giovani (ne La casa nova e nella trilogia sulla villeggiatura...), ci accorgiamo che Goldoni suscita il riso  attraverso la  intelligente denuncia dei difetti, magari “esaltati” con qualche colpo di pollice, per renderli appunto più  assurdi e, quindi, più divertenti.

Orbene, la istintiva preferenza per la comicità diretta rispetto a quella allusiva è indizio di popolarità e, quindi, di realismo. Si tratta di un riso che nasce dalla osservazione diretta dei fatti anormali.  Invece, la comicità allusiva implica un lavoro mentale sofisticato; è indizio di cultura e raffinatezza di intelligenza, esige spesso dallo spettatore uno sforzo maggiore di comprensione e una preparazione culturale superiore. Goldoni non aveva una intelligenza così profonda da trovarsi nel suo “liquido elemento” per simili contorsioni intellettuali.

Non che egli ne sia incapace, ma anche le volte che vi ricorre, lo fa in maniera badiale, ancora popolana, semplicistica: di un realismo di second’ordine. Nella commedia Il bugiardo,  il servo in maschera (e squattrinato) che ha portato una buona notizia, fa comprendere al servo del destinatario che gli si deve una mancia.  Questi (mascherato pure lui) si cava d’imbarazzo con una proposta: “la vuoi in moneta sonante od in moneta corrente?”. Il primo, imbarazzato, finisce per preferire la “moneta corrente”. Al che il collega, sprovveduto di soldi ma non di cervello, lo prega di voltargli le spalle e poi gli consegna una pedata nel sedere...per farlo correre. Un altro caso: nelle Baruffe (atto secondo),  Isidoro (il coadiutore della cancelleria criminale), sapendo che il cognome più diffuso a Chioggia è quello di “Scarpa”, si meraviglia che uno dei testimoni si chiami invece “Zavatta” e lo canzona dicendo: “Tu non sei una scarpa, ma una ciabatta” (cui aggiungerà, alla fine: “Sì, ciabatta senza suola, senza tomaia, senza sesto e senza modello”). Poco più elegante è la conclusione  cui giunge il commesso di bottega,  ne Il Caffè, dopo aver parlato (e sparlato) con quella  malalingua che è don Marzio: “Don Marzio ed io formiamo una bella segreteria!” In tutti e tre i casi, altro si dice ed altro si intende e si vuol far comprendere. Ma non è  il tipo di comicità più solita di Goldoni. E, ribadiamo, anche nel privilegiare la forma di comicità diretta si può vedere il suo realismo e  popolanità : egli vuol guardare gli uomini “gli occhi negli occhi”, canzonandoli per quel che sono od hanno, non per quello che gli altri (spesso attraverso processi alle intenzioni e sospetti temerari) loro attribuiscono per mezzo di giochi di parole, ambiguità e doppi sensi.

 

        IL REALISMO: II) la sua sublimazione nel DINAMISNMO RITMICO (danzante).

Il DINAMIMSO  COINCIDE CON LA CORALITA’ DELLA COMMEDIA GOLDONIANA, CHE RISULTA COSI’,  PIU’ SOLITAMENTE, COMMEDIA D’AMBIENTE.

       

E’ facile accorgersi che le commedie del Goldoni sono opere “corali” ossia “d’ambiente”, non costruite, cioè, su un protagonista, la cui personalità e decisioni accentrino in sè l’azione scenica, bastando a suscitare quei contrasti od accordi, malintesi od intese, guerre e rappacificazioni che subordinano a sè il resto degli attori e creano quelle che si chiamano “commedie di carattere”. Tipico in questo senso è Molière. Anche il Goldoni approdò alla commedia di carattere,  ma tardi: a Venezia, con La locandiera (1753) e Sior Todero brontolòn (1762); in Francia (ed ancor meglio dal punto di vista tecnico), con Le bourru bienfaisant del 1771 e L’avare fastueux del 1776 .

 

Ma più solitamente, le sue sono commedie d’ambiente o corali.

Le scene sono per lo più brevi; le battute sono in genere veloci: rare le lunghe spiegazioni; i personaggi sono molti e, tra loro, sono in molti ad essere ugualmente importanti al fine di definire il senso dell’opera; la trama si costruisce attraverso “scene parallele”, cioè attraverso caratteri e colloqui che si diversificano per pochi tratti e tutti assieme costruiscono l’atmosfera di un intero ambiente, ove le persone condividono sentimenti,  mentalità,  tendenze, reazioni e linguaggio. Più che il singolo personaggio, conta la coordinazione dei molti coprotagonisti, confluenti in virtù o difetti similari.

Non per nulla, in qualche capolavoro dei più tipicamente goldoniani, il titolo deriva proprio da un ambiente (La bottega del Caffè: 1750|Il Campiello: 1756) o da un oggetto che fa da  bussola all’azione comica, al posto di una persona (Il Ventaglio: 1765) o da una località che assimila e definisce i personaggi (Le Baruffe chiozzotte: 1762) oppure  da un clan di caratteri affini (I Rusteghi: 1760). La stessa Locandiera  solo parzialmente è commedia di “carattere”, perchè non servono poco a movimentare l’evolversi dell’azione i tre innamorati che le fanno la corte (e c’è il cameriere sullo sfondo, che aspetta pazientemente).

E’, questa coralità, un’eredità della “commedia a braccio o improvvisa”, dove i dialoghi sono basati non su  argomentazioni impegnative  ma su battute briose e ad effetto, quasi che la parola sia il surrogato del gesto, mentre l’andirvieni degli attori, che riempiono e svuotano con frequenza le scene, assume un ritmo festoso o indiavolato.

Tutte goldoniane, nel senso del dinamismo, coralità e centralità dell’ambiente, sono ancora La famiglia dell’antiquario, Arlecchino servitori di due padroni (1745),[30] La vedova scaltra (1748), Il bugiardo (1750).

L’immagine più vicina alla realtà tecnica delle opere goldoniane  è espressa dall’oggetto che dà il titolo ad una delle sue più riuscite commedie. il ventaglio. Esso è strumento leggero, facile ad essere agitato, anzi non mai fermo. Risulta composto da settori di carta variopinta riuniti a raggiera, convergenti in un centro in cui si possono raccogliere, ma da cui possono essere allontanati con un semplice moto della mano. E, per di più, il ventaglio serve a “muovere aria”, cioè un elemento leggerissimo e mobilissimo. E così sono, in qualche misura, i personaggi del teatro più tipicamente goldoniano: veloci come i cavalieri ariosteschi , si raccolgono celermente sulla stessa piazza o calle o sala o locanda; si incontrano, si scontrano, si allontanano verso l’esterno con il brio, la impazienza della gioventù mai stanca di muoversi, incapace di riposo; o, appunto, con la facilità con cui le stecche del ventaglio si aprono,  si chiudono e si agitano per destare una brezza piacevole  o eliminarla, secondo il bisogno od il genio dell’utente. Non per nulla lo stesso Goldoni definì come “perpetua azione” l’opera che porta questo titolo e che è un po’ l’icona delle sue o migliori o più tipiche commedie.

 

IL RITMO, QUASI DI DANZA, GOVERNA IL MOTO PERPETUO DELLE COMMEDIE GOLDONIANE.

 

Non si tratta, però, di un dinamismo disordinato, irrazionale. Esso è retto da un vivo senso della armonia; è un movimento veloce, ma ritmato. Sapegno chiama “musicalismo metastasiano” tale senso artistico dell’azione: è chiaro che il termine “musicalismo” è qui metaforico, trasferito come è dal suono della parola all’armonia del movimento.

Si ricordi, per delimitare meglio il concetto, che il Goldoni è poco dotato di senso musicale della parola: i vocaboli delle sue espressioni sono lontani dal trasmettere un’eco, una risonanza sonora al di là del significato contenutistico o ideale.      Tanto che quando scrive versi la rima è pochissimo percepibile e la trafila vocalica o consonantica non  pare avere nessun risalto armonico particolare. Tanto peggio, quando egli scrive versi in dialetto.[31]

Invece, è il movimento che è ritmato in lui: il succedersi degli incontri e dei dialoghi, degli scontri  e delle separazioni, delle domande e delle risposte, dei gesti e delle esclamazioni è guidato da un sentimento sicuro della tempestività e della misura. Si ha una specie di orchestrazione non di note e di accenti, ma di gesti e di operazioni; una architettura del movimento, quasi di un dinamismo “ictato”, che fa pensare ad una danza: e talora il ritmo è quello di un minuetto, tal altra quello di una sarabanda. E’ la musica presente nella poesia teatrale del Goldoni. Ed è la sua dimensione evasiva, la sua componente onirica (di sogno),   la sua fuga dal reale, la sua alienazione nel fantastico. E’ il colpo d’ala che sublima  il realismo dei  personaggi , alleggerisce la pesantezza dei fatti, diluisce la banalità delle vicende, ingentilisce la meschinità degli ambienti: che trasferisce il tutto in un gioco e lo sfuma in un alone di favola; che  rimedia anche alla pochezza del suo vocabolario italiano, alla  inevitabile platealità del dialetto (veneziano o meno).  E’ l’aspirazione (o la memoria?) verso un mondo “grazioso”, di carnevale veneziano, di ballo in maschera, di “Arcadia in Brenta”.

 

LA FORTUNA DEL GOLDONI

 

 Egli si  conquistò l’entusiasmo del pubblico contemporaneo e qualche imitatore fuori di Venezia, ma prevalse nettamente l’ostilità dei commediografi e l’antipatia dei critici letterari della sua epoca.

Tra gli imitatori ci furono Francesco Albergati e A. Simeone Sografi, ricordati nella nota ventisettesima.

Tra gli oppositori, troviamo dapprima Pietro Chiari, che era capace di imitare nel giro di pochi giorni e rimettere in scena, parodiandole, le commedie del Goldoni,

Alla fine della sua carriera in Italia, sorgerà Carlo Gozzi che, con la pretesa di vanificare il successo di pubblico come prova del valore delle opere goldoniane, metterà in scena, con successo, le sue fiabe. La ritorsione al fatto dell’affluenza di popolo stava in questo pseudoragionamento: “il pubblico è un bambino e si può accalappiarlo anche con delle rappresentazioni a livello infantile (come, appunto, le fiabe)”. Avendo vinto la scommessa, riempendo la platea con le sue rappresentazioni favolose, finì per far apparire perdente il Goldoni e per divenire una delle cause per cui egli lasciò Venezia per Parigi.  Si può però tentare un’analisi psicologica delle critiche del Gozzi: egli, in tanto era scontento delle commedie goldoniane, in quanto ne intuiva i limiti oltre che la bellezza e, aspirando all’ottimo, non si accontentava della  sola sufficienza|mediocrità che era il loro valore nella più parte dei casi (nè Goldoni nè Shakespeare possono inventare sempre capolavori di supremo livello: “quandoque et bonus dormìtat Homerus”).

I critici puri (il Bettinelli ed il Baretti) non furono molto favorevoli: per motivi linguistici e morali. Ora, che il Goldoni sia povero nella lingua e più ricco nel dialetto, è fuor di dubbio. Ma anche il Metastasio non ha un vocabolario ricchissimo; eppure fu poeta di un successo straordinario: guardando al mezzo (povero, se si vuole), questa critica non badava al fine, al risultato di lirismo che le opere contenevano e comunicavano.  Lo stesso vale per la moralità. Certo, non è  che uno spettatore esca dallo spettacolo del Goldoni come dopo una predica di quaresimale alla padre Ségneri: le colpe vengono  troppo facilmente assolte nelle sue ommedie e, le loro conseguenze, sempre rimediate. Addirittura si potrebbe giungere ad affermare che, siccome nel Goldoni la vita individuale e sociale subisce un processo di idealizzazione rispetto alla realtà concretamente vera,  essa risulta inetta ad insegnare qualcosa di moralmente utile, per un’educazione seria. Ma si può e si deve rispondere: una volta evitato l’insegnamento del male (in nome di esigenze umane generali), chi ha mai dimostrato che l’arte debba insegnare ed educare? L’arte deve esprimere emozioni: se con esse diverte, non è colpa dello scrittore geniale,  perchè neppure la finalità del “divertire” fa parte degli scopi che un artista debba proporsi.  Per Baretti, inoltre, si deve confermare il fatto che egli ha  sentenziato troppo precipitosamente (davvero nello stile di “Aristarco Scannabue”): se avesse letto o visto di persona le cose migliori del Goldoni, avrebbe giudicato favorevolmente o, almeno, fatto le debite distinzioni fra commedia e commedia.

Francesco De sanctis e in genere il movimento romantico, nel secolo successivo, non  ne furono entusiasti: troppo conciliante e conservatore, troppo morbido e concessivo alla classe dominante, Goldoni non poteva andare a genio ad una generazione  “risorgimentale” di critici, in cui i valori dell’arte venivano facilmente sacrificati a quelli, ritenuti a priori preminenti,  di una “verità ideologica” e di una educazione al un certo patriottismo, che noi oggi snobberemmo come pseudovalore di “political correctness”, di puro unanimismo coll’atmosfera dominante.

Benedetto Croce, rimettendo in onore (sostanzialmente, ben a ragione) il De Sanctis e la critica romantica, si accorse troppo bene della ambiguità dei loro criteri di giudizio (artisticità| funzione patriottarda della letteratura), ma ricadde –per quel che riguarda il Goldoni- nella loro tiepida considerazione, per un altro pregiudizio esteto-critico. Egli, infatti, estromette tutta la produzione comica e satirica fuori dall’arte pura, nella categoria psicologica della “oratoria” edificante, perchè intenzionalmente destinata a “correggere i costumi col riso della canzonatura” (“ridendo castigat mores” è il motto della opera teatrale comica). Un “a priori” che confonde l’intezione generale ed ultima (che è esterna all’emotività con cui l’artista  la rivive) con la concreta incarnazione dell’ideale educativo; un  errore di cui lo stesso Croce ebbe a pentirsi, a pochi mesi dalla morte, riaggiudicando alla grande arte “ I Promessi Sposi”,che egli aveva superficialmente aggregati a questa “letteratura oratoria”, assieme ai commediografi antichi e moderni, Goldoni e Molière non esclusi.[32]

Ma l’avvento del Realismo, nella seconda metà del Milleottocento, riportò alla ribalta il  poeta del popolo e della sua realtà. Il più importante commediografo del Realismo, Paolo Ferrari, farà del suo predecessore veneziano il titolo e l’argomento del proprio capolavoro: “Goldoni e le sue  sedici commedie nuove” (1851). In seguito si ebbero di nuovo imitatori e prosecutori in dialetto veneziano, fin dentro il secolo ventesimo (Giacinto Gallina e Renato Simoni). Si riprenderà la recita delle opere del Goldoni, con attori  di efficacia eccezionale (Cesco Baseggio) ed anche la televisione gli darà spazio con sucesso. 

 

                                                                                 don Marcello De Grandi. 20. 11. 2001.

 

 

       

 

 

 

 

 

       

 

 

         

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[1] L’autore a chi legge, note premesse alla commedia La pupilla (1757): p.516 del VI volume nella edizione di “Tutte le opere di Carlo Goldoni”, per la collana “I classici Mondadori”, Milano, 1943.

[2] LA LOCANDIERA: diamo un nostro sunto, per sottolineare i nodi principali nella dinamica della conversione del misogino cavaliere di Ripafratta, cioè il crescendo di astuzie sempre più raffinate della locandiera Mirandolina. Questa sa di dover sposare il cameriere Fabrizio, come le ha raccomandato il padre sul letto di morte. Ma essa è donna veneziana, con tutti i loro pregi (illibatezza, disinvoltura, padronanza nel governo degli uomini) e le loro debolezze   (brio e vanità, voglia di allegria e piacere di essere ammirata e corteggiata). Si diverte, perciò, per le scene di rivalità fra due innamorati perennemente di casa alla sua locanda, il marchese di Forlipopoli, nobile di vecchia data, ma spiantato e borioso; ed il conte d’Albafiorita, nobile recente, ricco e presuntuoso per le prodigalità con cui si illude di attirare al suo amore la locandiera (fanno da parallelo all’offerta delle vantate “protezioni” in alto loco, da parte del marchese). Ma si irrita (quel tanto che basti a renderla ancor più avveduta ed intraprendente del solito) contro il cavaliere di Ripafratta, gran cacciatore, capitato alla locanda in tempo per satireggiare sdegnoso i cascamorti che vi trova e per mandare al “paese di vergogna” alcune attrici, sbarcate occasionalmente alla locanda in vesti da teatro, sotto la cui mimetizzazione pretendono di spacciarsi per autentiche nobildonne. Il cavaliere, manco a dirlo, è pronto a dir male delle donne tutte, senza distinzioni, fino ad offendere anche Mirandolina se ne fosse il caso.  Ma questa vuol difendere il gentil sesso e si impegna in una partita di conquista, che ha un suo climax preciso, cioè degli stadi di aggressività crescente ed astuta. Dapprima, dunque, essa si finge maliziosamente complice del cavaliere nell’accusare le donne di ipocrisia e civetteria: a questo modo,  costringe il personaggio a distinguerla dalle altre donne ed a  trattarla con stima e meraviglia (atto I, scena 15). Diventa, poi, subdolamente insinuante col preparare piatti di squisita fattura, serviti personalmente con calcolata gentilezza, così da renderli ancor più appetitosi e... pericolosi. A questo punto (II, 4) il cavaliere offre lui da bere a Mirandolina e si accorge di essere innamorato. Quando il poveretto tenta di liberarsi dal pericolo, decidendo di abbandonare precipitosamente la locanda, Mirandolina  gioca la carta del finto svenimento. Il cavaliere, agitato per la commozione d’amore in cui si trova, ci casca fino al punto di venir a contrasto con i due pretendenti abituali, esponendosi alla scorno pubblico (III, 6).  Mirandolina sa, però, che “bel gioco dura poco”: licenzia tutti questi avventori, ormai prigionieri della sua avvenenza e vittime  della sua avvedutezza; e si dichiara pronta a sposare Fabrizio.

 E’ da sottolineare che Mirandolina è la proiezione autobiografica del Goldoni di fronte ai suoi personaggi; è una inconsapevole confessione del proprio segreto professionale: egli canzona, si diverte a loro spese, sorride bonariamente, ma non combina alcun grosso guaio. Non vi è ostilità, non vi è malignità, non vi è satira: tutto è solo uno scherzo che  finisce a tempo e luogo, con la conversione degli erranti  o con la loro sconfitta (oltre che i tre aspiranti all’amore di Mirandolina ne La locandiera, si vedano  i Rusteghi, e sior Todero, nelle commedie omonime). Finito lo scherzo, non restano nè grandi danni nè veri rancori residui.  In fin dei conti, i personaggi di Goldoni sono soltanto deboli e mediocri: sbagliano più per pregiudizi, errori, leggerezza che per  malizia (don Marzio, ne La bottega del caffè e Dorotea, ne Lo spirito di contraddizione, sono eccezioni, ma si convertono entrambi).

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[3] “IL CAMPIELLO è uno di quei lavori che i romani chiamavano tabernariae, e che noi diremmo popolaresche o plebee. Il campiello, che costituisce la scena invariabile, è circondato da casucce abitate da popolani; è teatro di giuochi, di balli, di chiassate: a volte è convegno dell’allegria, a volte di litigi. La scena s’apre con una specie di lotteria, detta la venturina. Un giovane compare nel campiello con una cesta piena di belle statuine di porcellana; si annuncia con il suo noto grido; le ragazze e le vecchie madri compaiono sulle porte, alle finestre, sulle terrazzette. Il giovane tiene in mano un sacchetto; fa cavare da ogni concorrente una pallina contro una modesta somma. Il premio è una statuetta. Le donne radunate non possono non bisticciare: ognuna vuol essere la prima: ognuna vuol scegliere la statuetta vinta; ognuna vanta i suoi diritti di preferenza; con quelle liti il pubblico viene a sapere i nomi, le condizioni, i difetti, i caratteri e gli intrighi di quelle loquaci comari. Le giovani hanno ognuna il proprio amante; la gelosia le tormenta, la maldicenza le fa litigare, l’amore le riconcilia.” (Mémoires, II, c. XXX). Due le vicende amorose centrali: quella fra Anzoletto e Lucietta e quella fra Gasparina ed il cavalier Astolfi: pur tra fraintendimenti e momenti di tensione, entrambe si concludono felicemente.  L’opera è in versi (endecasillabi e settenari, con rime sparse) ed in dialetto veneziano.

[4]I RUSTEGHI (in dialetto veneziano). “Sono quattro borghesi veneziani, della stessa condizione, della stessa fortuna, e tutti e quattro dello stesso carattere: uomini difficili, selvatici, che seguono il costume dei tempi andati e detestano le mode, i piaceri, le compagnie del secolo.... Le donne... contribuiscono validamente a raddolcire la rusticità dei mariti, o a farli più ridicoli. Tre dei miei rusteghi sono sposati. Margherita, donna agra, rabbiosa, testarda, rende insopportabile il marito Lunardo; Marina, con la sua sciocchezza, non riesce a nulla con Simone suo sposo; e Felicetta, premurosa e scaltra, fa quello che le pare di Cancian, lo sa adulare in modo che, selvatico come è, non le può rifiutare niente... Cancian, che da una parte è rimbrottato dai rusteghi suoi compagni, e dall’altra è dominato dalla moglie, e che vorrebbe compiacere a questa senza rinunciare alla compagnia di quelli, è il personaggio più comico della commedia: aduna in sè il ridicolo dell’austerità e della debolezza. Felicita non limita la sua ambizione a voler addomesticare il marito, ce l’ha con tutta la compagnia dei rusteghi. Si tratta di maritare la figlia di Lunardo e di Margherita con il figlio di Maurizio, che è il quarto originale della commedia. I padri dei giovani combinano il matrimonio all’antica. Cancian deve partecipare al matrimonio e ne informa la moglie, che pure deve assistere alla cerimonia. Felicita va dagli uni e dagli altri e tanto dice e tanto fa che le disposizioni sono cambiate: ci sarà un bel pranzo, una buona cena, un ballo... I rusteghi consentono e sono stupiti loro stessi e costretti ad ammettere che Felicita è donna di spirito” (ib.).

[5] LA CASA NOVA (in dialetto veneziano). “La scena s’apre con tappezzieri e pittori e falegnami che lavorano nell’appartamento; una domestica dei nuovi inquilini viene per ordine dei padroni a sgridare gli operai che non finiscono mai... Lucietta, che è una chiaccherona patentata, fatta la commissione si diverte col tappezziere, fa il ritratto del padrone e delle padroncine; e il pubblico è piacevolmente istruito dell’argomento e del carattere dei personaggi. Anzoletto, che è il nuovo inquilino, è un giovane di ottima famiglia; non ha nè padre nè madre, ha soltanto con sè una sorella da marito; è agiato ma sregolato, ha appena sposato una ragazza senza fortuna ma con molte pretese e molto civetta.... Madama Cecilia, che è la sposa, e che ha scelto l’appartamento, ci viene con un conte straniero che adempie presso di lei l’onorifico ufficio di cicisbeo...”. (id. c. XLI).  Cecilia, oltre ad aver forzato la mano al marito con troppe pretese di lusso; oltre ad avere il cavalier servente nel conte straniero, combina altri guai: parla male, in presenza di inquiline nel nuovo palazzo, del fidanzato di Margherita,  Lorenzin, di cui  quelle sono prime cugine. I dissapori che si creano si possono immaginare, ma c’è ben altro in preparazione. Anzoletto ha fatto spese spropositate per amore della moglie, ma nè ha potuto pagare la pigione della casa donde è uscito nè  i mobili della nuova dimora.   Ci sarà il sequestro dei mobili?  Il cicisbeo di Cecilia non è disposto a prestar soldi per  evitarlo. Sarà un vecchio zio di Anzoletto, Cristoforo, disgustato col nipote, ma amico del marito di una delle due cugine di Lorenzin, a sistemare tutto: Anzoletto e Cecilia devono promettere di cambiare condotta. Lo stesso Goldoni avvisa: “E’il germe del Bourru bienfaisant” (ib).

LE SMANIE   PER LA VILLEGGIATURA è la prima di una trilogia che continua ne Le avventure della villeggiatura e ne Il ritorno dalla villeggiatura; e il tema era già stato toccato in due altre comemdie (Malcontenti , del l755; e La villeggiatura, del 1756), mentre spunti critici contro l’abuso della moda erano presenti già in altre commedie, a cominciare da Momolo sul Brenta (1739, che in seguito intitolerà Il prodigo). Il tema delle spese pazze, delle invidie e dei ripicchi per la gara di lusso e sperperi, è ben evidente nelle “SMANIE”,  ma cede il primo posto alle vicende d’amore della coppia Leonardo-Giacinta e Guglielmo-Vittoria, che  della sontuosità prodiga rischiano di fare le spese, per i debiti che li precipitano nella indigenza. La villeggiatura è ambientata a Montenero, presso Livorno: si va; non si va; si parte in base alle possibilità di procurarsi abiti alla moda o no (Vittoria); o per la gelosia verso il nuovo ospite di Giacinta (chi fa le bizze ora è Leonardo, il fratello di  Vittoria; il giovane, possibile rivale è Guglielmo, invitato dal padre di  Giacinta, il ricco Filippo). Leonardo e Vittoria stanno male a soldi, ma non a voglia di spenderne: contano sulla ricchezza del vecchio zio Bernardino, che però è vegeto e sdegna la prodigalità spensierata dei nipoti. Inutile dire che, alla fine della trilogia, i nipoti spendaccioni si pentono; lo zio salverà la situazione e Giacinta sarà sposa di Leonardo (così la saggia giovane metterà la testa a posto allo sposo), mentre il prudente e onesto Guglielmo farà da equilibratore alle pretese di Vittoria. Ma le cose rischiano di finir male anche per le intenzioni di Guglielmo su Giacinta, che invece è impegnata con Leonardo e, pur innamorata ormai di quello, vuole essere fedele agli mpegni presi  dal padre verso Leonardo. La seconda commedia (“LE AVVENTURE”) finisce con le lacrime di Giacinta, rimasta sola a Livorno: le lacrime  sono rimediate dalla dichiarazione che le cose si sbroglieranno nella commedia che seguirà, “IL RITORNO”.

[6] “SIOR TODERO BRONTOLON  (o “Todaro”: la commedia è in dialetto veneziano). “Teodoro è un ricco mercante che tiene nella più dura ed umiliante soggezione il figlio Pellegrin e la nuora Marcolina, che non sono più ragazzi: hanno una figlia da marito, Zanetta. Il capo assoluto e dispotico della famiglia ha in casa un commesso di nome Desiderio, suo favorito e uomo di fiducia; costui, uomo scaltro e malvagio, s’è impadronito dell’animo del vecchio e domina in casa quanto il padrone; il selvatico Teodoro lo sgrida e lo maltratta come gli altri, ma Desiderio sa sopportare come sa rubare. Quell’impertinente commesso spinge così avanti l’impudenza che induce Teodoro ad accordare in sposa Zanetta a un suo figlio di nome Nicoletto: all’insaputa dei genitori di lei. A quest’estremo atto, di insensata autorità del padrone e di sfrontatezza del commesso, Marcolina non sa più trattenersi: è madre, è moglie, riesce a scaldare l’indolenza del marito, si oppone al sacrificio della figlia e tanto fa che scopre al padron di casa le birbonate del suo preferito; riesce a farlo scacciare; persuade il marito a rendersi utile al vecchio; e accasa in modo onorevole la figliuola. Il brontolone ammette che la nuora è una donna di spirito, e l’abbraccia brontolando” (id, , c.XLIII).

[7] LE BARUFFE CHIOZZOT(T)E. Commedia in dialetto  chioggiotto, mette in scena, adeguatamente modificata, la lieta casistica di  processi che il giovane Goldoni aveva sperimentato durante un incarico a Chioggia, come collaboratore del cancelliere criminale. L’arrivo di un venditore ambulante scatena la avidità delle giovani (Lucietta, Checca, Orsetta) per gli acquisti di fronzoli vistosi; e accende la galanteria del giovane  commerciante (Toffolo Marmottina): questa suscita gelosie e accuse di tradimento presso i fidanzati che sono alla pesca e che, quando tornano, trovano più burrasca  in casa che sul mare. La scena presso la cancelleria criminale si eleva alla comicità farsesca, quando a testimoniare è chiamato paròn Fortunato, un vecchio tanto  desideroso di parlare quanto incapace di  articolare i suoni necessari: la ricostruzione della scena del litigio, fatto a parole smozzicate, a rugli,  a gestualità  esplosiva, che trascina a terra tappeto, carta penna e calamaio del povero Isidoro, coadiutore del cancelliere, è di una spassosità eccezionale, anche se richiede un vero artista a proporla adeguatamente. Ma Isidoro comprende la insignificanza della situazione; riconcilia i fidanzati Lucietta e Titta Nane, Beppe e Orsetta e dona la dote a Toffolo, che sposerà Checca. Ma questa seconda parte della commedia, che  conduce alla riconciliazione generale, è meno viva.

[8] IL VENTAGLIO, rielaborando in lingua ed in tre atti la commedia da lui scritta in francese  con lo stesso titolo (L’éventail), fa ruotare amori, gelosie e ripicchi attorno ad un ventaglio rottosi, cadendo per terra, durante il colloquio tra i fidanzati Evaristo e Candida. Evaristo ne compera uno per la  ragazza, ma ha la imprudenza di affidarne la consegna a Giannina, destando la gelosia sia di Candida, che di due innamorati di Giannina. Candida, per rivalsa,  accetta addirittura una proposta di matrimonio da parte del barone del Cedro. Ed a  costui finisce in mano il ventaglio, dopo un giro vorticoso e spassoso tra molti personaggi. Ma il barone è persona onesta che, saputo il groviglio della vicenda, ridà il ventaglio ad Evaristo, che lo ridona all’amata, concludendo lietamente l’intricato gioco di malintesi.

[9] IL BURBERO BENEFICO  fu stesa dal Goldoni in francese (Le bourru bienfaisant) e tradotta da lui stesso nel 1789 col titolo Il burbero di buon cuore): in tre atti, presenta Geronte, orso dal cuore d’oro (collerico ma generoso), alle prese con dei nipoti che si trovano nei guai. E’ quindi la vicenda del solito zio, che deve rimediare ai debiti  del gaudente e crudele Dalancour,  il quale giunge a voler monacare a forza la sorella Angélique per non doverla mantenere e farle la dote. Informato  dei fatti e misfatti, lo zio pensa a procurare un buon partito ad Angelica, che però rivela al prudente  Dorval di essere innamorata di Valère. Anche ai debiti di Dalancour penserà lo zio, visto il pentimento del nipote. Le cose si rimediano con soddisfazione  di tutti.

[10]LA PUTTA ONORATA. “L’eroina della mia comedia non era che una popolana, ma per costumi e condotta doveva interessare tutte le condizioni e tutti i cuori onesti e sensibili. Bettina, orfana di padre e di madre, campando col lavoro delle sue mani, è costretta a vivere con sua sorella e Arlecchino suo cognato, entrambi pessimi individui. Bettina è savia, senza essere nè schifiltosa nè bigotta; ha un innamorato e spera di poterlo sposare: è Pasqualin, che passa per esser figlio di un gondoliere veneziano, giovane di condotta abbastanza buona, ma senza beni e senza lavoro”.  (id. c. II). Bettina conduce avanti l’innamoramento con molta prudenza e fermezza, parlando col giovane solo da finestra a finestra e chiudendosi in stanza quando sorella e cognato lo invitano.  Ora compare un marchese che, sposato, giunge a tale follia di innamoramento, che rapisce Bettina e gli promette di farla sposare con Pasqualin, se cede alle sue richieste. Inutilmente. A questo punto, vi è una “agnizione” che risolve la vicenda ormai intricata: Pasqualin è il figlio del ricco Pantalòn, che la balia ha sostituito con un suo figlio, per farne la fortuna. Siccome quest’ultimo, tornato aVenezia, cade in mano alla polizia per aver tentato di bastonare Pantalòn su incarico del marchese libertino, la madre di lui rivela il trafugamento e la sostituzione: Pasqualin si trova ricco e la virtuosa “putta” premiata.  Riprendiamo altre note dai Mèmoires. Anzitutto Goldoni afferma di aver voluto opporsi, con la sua commedia tratta dall’ambiente popolare, ad un lavoro dato al teatro S. Luca, “prima dell’ordinanza della censura sugli spettacoli” ed intitolato “Le putte di Castello” , che “era cattivo in tutto, carattere, intreccio, dialogo, in tutto pericoloso”. Inoltre, Goldoni si sente in dovere di scusare l’uso della agnizione e la peripezia troppo complicata: nonostante tutto, la commedia ebbe successo ed è bella. In  terzo luogo, dice: “Nella commedia ci sono scene di gondolieri veneziani, disegnate dal vero, e divertentissime per chi conosce il linguaggio e i costumi del mio paese... Furono contentissimi di vedersi in scena e così divenni loro amico”.

[11] LA BUONA MOGLIE è  la continuazione della precedente. Pasqualin, corrotto dalla compagnia di Arlecchino e di Lelio (il figlio della balia, già fatto passare per figlio di Pantalone,),  sciupa i soldi con cui avrebbe dovuto iniziare un’attività commerciale e si dà alla vita dissipata, mentre la moglie Bettina è in lacrime presso la culla del figlioletto. Giunge a  presenziare in una osteria malfamata, con donne sospette e compagni di stravizi. Pantalone ne è informato e non esita ad affrontarlo all’osteria. E’ qui che avviene la scena patetica.  Il padre rinuncia alle maniere forti e si appella al cuore del figlio e inizia così: “Fermatevi.... figlio mio; non vi voglio nè sgridare, nè minacciaare, nè tanto meno punirvi; vedo anche troppo che, sedotto dai malvagi consigli, avete scosso il giogo dell’obbedienza filiale, e che forse non sono più in grado di esercitare su di voi i miei diritti; perciò vi prego... Sì, caro il mio figlio, vi voglio sempre bene, vi prego di ascoltarmi. Toccato dalla dolcezza del padre, Pasqualin versa qualche lacrima: Pantalon piglia una sedia, se lo fa sedere accanto; gli fa vedere il carattere dei suoi compagni, il quadro della posizione in cui l’aveva trovato, il danno che faceva al suo nome, alla sua riputazione di padre, alla tenera moglie, al caro figliuoletto; Pasqualin si getta ai piedi di suo padre; il figlio è pentito, il padre è al colmo della gioia” (id., c. IV).

[12] IL CAVALIERE E LA DAMA. Ecco lo scopo del Goldoni: criticare, senza offendere troppa gente, la moda del cicisbeismo.   La sua soluzione? mettere in scena dame e cavalieri serventi che   lasciano sospettare il peggio, con una coppia  di sposi onorati, che accettano l’amicizia discreta e disinteressata di un nobile, detttata da pura stima per Eleonora. Le visite “a sorpresa” delle amiche coi loro cavalieri (talora il marito dell’una è cicisbeo di un’altra, il cui marito “serve” la prima...) non approdano che a confermare la probità dei rapporti fra Eleonora e don Rodrigo: Eleonora, invischiata in un processo col fisco, ha sposato un marito napoletano che, avendo ucciso in duello, si vede confiscare tutti i beni e deve assentarsi, per difendere la sua causa nel reame. Le ristrettezze non smantellano la dignità della dama, che non accetta gli aiuti che pur Rodrigo vorrebbe fornirle. Morto il marito a Benevento, le amiche hanno un’altra occasione per mettere alla prova i rapporti fra Eleonora, ormai vedova, e Rodrigo. Ai loro incoraggiamenti ad accettare Rodrigo come “consolatore” della sua vedovanza, essa prega  Rodrigo di andarsene. Ma  questi mostra una lettera del marito in cui lo invitava a sposare la propria moglie, se gli fosse capitato  di morire. Eleonora non si smentisce: chiede un anno di tempo per pensarci. La commedia si chiude fra le canzonature delle amiche e la approvazione di Rodrigo, che aspetterà sereno lo scadere del tempo di riflessione.

[13] PAMELA è ricalcata ovviamente sul romanzo omonimo di Samuel Richardson, uscito fra il 1740 (I parte) ed il 1742. Per Goldoni vi era il problema della inconcepibilità, tutta veneziana, che un nobile sposasse una plebea (avrebbe perso i diritti di partecipare alla vita pubblica della città). La giovane contadina Pamela, morta la padrona di cui era cameriera e dalla quale era amata come figlia, si trova impacciata fra il  giovane figlio di quella e la sua ferma decisione a non accondiscendere alle sollecitazioni di lui. Intervengono inutilmente la sorella di Bonfil, che prenderebbe nella sua casa Pamela; l’amico Arthur, che propone al disperato milord vari partiti per sposarsi, oltre che rammentargli gli inconvenienti di un matrimonio con una persona di condizione così diversa. Ma ecco un colpo di scena: Pamela è figlia di un nobile scozzese, che si è rifatto una vita sotto falso nome, per sfuggire alla morte. Non è difficile per lord Bonfil ottenere la grazia per il proscritto e sposare Pamela, che egli teneva ormai prigioniera in casa, senza che essa desse segni di resa. Goldoni ha scritto una commedia applaudita, allontandosi dal testo del romanzo inglese ma, per rimanere fedele alle esigenze  della nobiltà veneziana, ha dovuto introdurre un’ altra una agnizione inverosimile. 

[14] IL PADRE DI FAMIGLIA parte dalle esperienze negative in fatto di educazione (“madri compiacenti, matrigne ingiuste, figli viziati, precettori pericolosi”: id, c. XIII) di cui Goldoni ha avuto conoscenza diretta. E  “in un padre savio e prudente disegna vivacemente la correzione del vizio e l’esempio della virtù” (ib.). Ma Goldoni ha di mira anche uno spunto polemico, contro la educazione delle ragazze nei conventi: “Nella commedia c’è un altro padre, il quale fornisce l’intreccio e lo svolgimento. Quest’ultimo padre ha due figliuole: l’una allevata in casa, l’altra da una zia che fa da allegoria al convento, perchè in Italia non è lecito pronunciare questa parola sulla scena. La prima figliuola è riuscita assai bene, l’altra ha tutti i possibili difetti nascosti sotto il manto dell’ipocrisia. La mia intenzione era di dare la preferenza all'’educazione domestica..." 

[15] LA MADRE AMOROSA “Donna Aurelia, vedova d’un uomo di qualità, viveva con Lauretta sua figlia nella casa del marito morto, insieme a donna Lucrezia sua cognata e moglie di don Ermanno. Lauretta era già in età di marito; il padre essendo morto senza testamento, lo zio e la zia s’erano impossessati dei suoi beni e della sua persona, e volevano accasarla con un finanziere assai facoltoso ma che aveva più vizi che virtù. La madre, che amava teneramente la figlia s’opponeva con tutte le sue forze. La figlia, che  era sventatella e che per voglia di sposarsi avrebbe pigliato  il primo venuto, era d’intesa con gli zii, i quali non domandavano che di lavarsene le mani a buon mercato per godere dell’eredità. La madre ha un bel dire e un bel fare, non le danno retta. La legge accorda la tutela dell’orfana ai parenti del padre, e Lauretta non domandava che uno sposo. Donna Aurelia ha un amico assai savio e onesto, uomo di buona famiglia. E’ don Ottavio, che conosceva la signora quando ancora viveva il marito di lei, e che aspirava a prenderne il posto. Da parte sua donna Aurelia aveva molta stima di quell’uomo per bene e pensava di sposarlo trascorso l’anno di vedovanza e accasata la figlia. Ma sacrifica il suo sentimento e il suo interesse a una figlia ingrata, e tanto fa con preghiere, lagrime e persuasioni, che costringe don Ottavio a sposare Lauretta. Costei, lieta di avere uno sposo, non si oppone. La generosità di don Ottavio concede allo zio e alla zia il godimento, vita natural durante, d’una parte dei beni della loro nipote, e la madre aggiunge agli altri sacrifici quello di cedere alla figlia la sua propria dote, tenendosi una modica rendita per vivere in convento...” (id., c.XXI).

 

[16] UNA DELLE ULTIME SERE DI CARNEVALE  è “commedia veneziana e allegorica, nella quale facevo i miei adii alla patria. Zamaria, fabbricante di stoffe, dà una festa ai suoi compagni, e invita Anzoletto che è colui che gli fornisce  i disegni. L’assemblea dei fabbricanti  raffigurava la compagnia degli attori, e il disegnatore ero io. Una ricamatrice francese, detta madama Gateau, si trova per affari a Venezia. Conosce Anzoletto, la cui persona gli piace come i suoi disegni; lo ingaggia e sta per portarlo a Parigi; ecco un enigma facile da sciogliere. I fabbricanti vengono a sapere con dolore l’impegno di Anzoletto; fanno tutto il possibile per trattenerlo; egli li assicura che non starà via che due anni. Accoglie le lagnanze con riconoscenza; risponde ai rimproveri con fermezza. Anzoletto fa i suoi complimenti ai convitati, ed è Goldoni che li fa al pubblico...” (id., c. XLV).

[17] Famose sono anche altre commedie, come LA VEDOVA SCALTRA (1748), LA BOTTEGA DEL CAFFE’ (1750)  e  LE DONNE DI CASA SOA (1755). La prima propone l’avvenente Rosaura che, vedova avvedutamente in cerca di marito, deve scegliere (mascherata per carnevale) fra quattro pretendenti, di quattro nazionalità: francese, spagnola, inglese e italiana. Li mette alla prova, mutando abiti, maschera e voce per  indurre in tentazione i suoi aspiranti: solo l’italiano rifiuta la nuova donna per fedeltà alla donna del cuore. E lui, naturalmente, la vedova sceglierà come sposo. La seconda mette al centro don Marzio, maldicente incallito, mentre Eugenio è un giovane mercante che si lascia  dilapidare al gioco da Flaminio ( che va col falso nome di “conte Leandro”), truffatore di professione.  La moglie di Eugenio, Vittoria, si sente  diffamare il marito come innamorato della ballerina Lisaura, mentre la moglie di Flaminio vien calunniata come donna avventuriera. Ma don Marzio viene smascherato ed umiliato dalle sue vittime stesse. La terza pone al centro dell’azione il carattere forte di “Angioletta” e dell’amica “Bastiana”, che governano la casa con amore al marito, ma supplendone la debolezza, indecisione e poca  abilità. La prova generale di questa esaltazione delle   donne  sulla pochezza  dei loro uomini si ha nel trovar marito a Checca,  giovane sorella del marito di Angioletta. Entra in scena Tonino, l’innamorato, che Checca, saputolo un levantino (giovane non veneziano, nato a Corfù),  e scambiatolo per di più con lo zio (e tutore) Isidoro, nemico delle donne e disgustoso anche per i minacciosi mustacchi, non vuol più sposare. A questo punto il carattere dominatore di  “Anzoletta”  riesce a far innamorare di Checca lo zio, oltre che il nipote, ripetendo (in edizione plebea) il carattere e i maneggi de La Locandiera (Isidoro fa le partoi del cavaliere di Ripafratta). Alla fine le donne trionfano e il matrimonio  si corona con la cena.

Ma il fascino di commedie come queste non è propriamente artistico. Non che manchino battute felici e situazioni ora comiche ora patetiche, ma si tratta di momenti fugaci. Il loro valore sta o nelle analisi psicologiche dei vari tipi di personaggi (don Marzio); o  nella  curiosità a vedere come Rosaura porti avanti con naturalezza (quasi verosimile) un intreccio davvero complicato, per condurre in porto la scommessa di saper leggere dentro il cuore dei quattro innamorati e poter vincere la scommessa, davvero arrischiata, di trovare marito onestamente e saggiamente (La vedova scaltra); oppure nel mostrare le virtù delle  “casalinghe” veneziane, cioè della categoria più umile fra le donne della città, pure sanno  supplire ai limiti dei mariti, fra un  andirvieni di equivoci e contrasti, che avvicina Le donne di casa soa al Campiello ed  Anzoletta a Felicita dei Rusteghi  ed a Mirandolina de La Locandiera.(i proverbi popolari, la versificazione svelta e sicura -il dialetto veneziano in martelliani a rima baciata- aiutano gli equivoci ed i travagli dei due innamorati a confluire in un’opera piacevole, anche se non grandissima). Volgarucci alcuni particolari e parole.

[18] Cuciamo assieme i dati che abbiamo ricavato  dai Mémoires, dalla sua prefazione al tomo XI nella edizione Pasquali delle sue opere e dallo studio di G. Natali nella collana vallardiana “IL SETTECENTO”, più volte citato. Ecco un primo gruppo di  dati consenzienti. Egli si ritiene “uomo pacifico e calmo” (Prefazione); “in me il morale è analogo al fisico: non temo nè il caldo nè il freddo; non mi lascio infiammare dalla collera nè inebriare dalla gioia” (Mèmoires, III, c. XXXVIII); “io ho sempre avuto (sia per abito sia per temperamento) l’abilità di mettere, come suol dirsi, i pensieri sotto il capezzale e per qualunque traversia, dispiacere o disgrazia non ho mai perduto il sonno nè la allegria” (Prefazione). “Mia madre mi mise al mondo quasi senza dolore; perciò mi volle anche più bene; non detti in gridi vedendo  la luce la prima volta; tale mansuetudine pareva manifestare fin d’allora il mio pacifico carattere, che poi non si è mai smentito (I, c.XI).

Ma ecco dgli indizi di diverso stampo: “Mio padre non poteva stabilirsi in nessun posto, mania che ha lasciato in eredità a suo figlio” ( I, c. XXI). Si definisce lui stesso un “avventuriero onorato” (II, c. XI), ritraendo se stesso nella commedia omonima. Ha sulle spalle un fratello scioperato, dei cui figli deve occuparsi. Fu egli stesso uomo prodigo e godereccio: solo le virtù economiche della moglie Nicoletta Connio riuscivano a coprire le falle di una vita sregolata, che passava da un impresario all’altro per aumentare uno stipendio non mai sufficiente. Si legga in Mémoires, II, c. XXII la sua confessione “Il denaro non ha mai fatto lunghi soggiorni in casa mia”. Al c. XLI della stessa II parte, egli dichiara ancora: “A Roma avevo trovato distrazioni troppo piacevoli perchè avessi il tempo di lavorare: per attivo che io sia, ho sempre amato il piacere; senza perder di vista i miei impegni, approfittai dei momenti di libertà che mi potevo concedere; sapevo di aver grande facilità quando ho bisogno di finire un lavoro con maggior ardore”.

Ed eccone degli altri di significato ancora diverso. Il suo carteggio come console di Genova a Venezia (1741-4) lo dimostra ben informato ed avveduto; così come uomo pratico e prudente lo conferma la avvocatura esercitata a Pisa per quattro anni (1744-8).

Sulla sua notevole acrisia intellettuale (o superficialità filosofica), ci diano testimonianza gli elogi a Voltaire (Mémoires, II, c. XLIII) ed a Rousseau (III, cc. XVI e XVII). Si trattava di  esaltare pensatori che sia sul piano religioso, sia su quello della concezione esistenziale in genere, si trovavano all’opposto non diremo delle sue convinzioni  riflesse e comprovate (ne doveva avere poche), ma delle sue stesse persuasioni intuitive ed emozionali. Sul “conservatorismo” del Goldoni, si leggano, ne Le Donne de casa soa, III, 2 e 3; V, scena ultima.

A completare il  mosaico, ecco altre tessere. Soffre di mali bisbetici: i “vapori” che lo assalgono dopo il 1754 sono riconducibili a forme di esaurimento nervoso (nevrosi) per eccesso di lavoro e preoccupazioni, nate dall’essersi fatto carico dei figli del fratello Giampaolo (Mémoires, II, c.22; L’autore a chi legge, note premesse alla commedia La Pupilla, Milano, Mondadori, Tutte le opere di C. Goldoni, 1943, VI, pp. 516-7).

[19] A farci propendere per il temperamento nervoso piuttosto che per quello collerico, è anzitutto la “instabilità” di dimora e di occupazioni; e, in seccondoluogo, la mancata ciclicità dei fenomeni nevrotici che, da un certo punto in poi, ebbe a soffrire. Invece parrebbero favorevoli al temperamento collerico, le doti pratiche di successo, che hanno caratterizzato la sua attività di ambasciatore,   di avvocato e di operatore del passaggio dalla commedia improvvisa a quella regolare. Difatti, il collerico è un “iperattivo”, di molto successo e di facile contatto colla gente. Al temperamento “sentimentale (emotivo, non attivo ma secondario o stabile) corrisponde di più la perseveranza nell’impegno scrittorio con la grande mole di lavoro messa assieme Ma, a spiegare queste doti, poco solite nei “nervosi”, ci sembra possa bastare la grande prevalenza parasimpatetica o vagale nella emotività del Goldoni: questa gli poteva ben garantire una carica non potente ma continua (quasi una fiamma tiepida, ma costante, con rare punte di estrosità più calde o ribollenti), contrapponendosi alla “instabilità|esaurimento”, che si rivelava maggiormente nella vita sociale o di contatto. D’altronde Goldoni era “un pigro che lavorava molto, costretto dal bisogno”: il bisogno di danaro lo metteva alla frusta per compensare i limiti temperamentali.

 

 

[20] Ecco la definizione che del “morbin”   dà il Goldoni: “Morbino da noi significa allegria, giocondità sollazzevole” (L’autore a chi legge”, premesso alla commedia Le  morbinose: “I Classici”, Mondadori, VI, 947). Le “morbinose” si autodefiniscono in chiusura di commedia con questi versi in dialetto veneziano: “Qualcuno co sto titolo andando più lontan| fursi che el se aspettava più chiasso e più baccan.| Ma bisogna distinguer. Ghe xe le morbinose,| ghe xe le donne allegre, e ghe xe le chiassose.| El chiasso xe da calle. In alto è l’allegria.| El rango del morbin el xe de mezzo via” (ivi, pp. 1016-7).

[21] Non che siano solo virtù e pregi queste preferenze che pur stiamo elogiando in Goldoni. Purtroppo ogni dote innata reca con sè limiti congeniali ed opposti: Goldoni, nella sua semplicità popolaresca non si accorse, pur vivendo ormai a Parigi da decenni, che stava avvicinandosi la tragedia della rivoluzione, mentre, nella lontana Vienna, il Metastasio  presentì che le cose si incupivano al punto, che  non sarebbero potute durare a lungo senza esplodere.

[22]Pamela” prende l’aggettivo di “nubile” o “ fanciulla”, perchè a Roma,  dove si era recato d’accordo col Vendramin, e dove rimase  dal dicembre  1758 all’inizio luglio 1759, egli scrisse una Pamela maritata, per la compagnia Capranica, che gli aveva sostenuto  per  tutta la stagione di carnevale la prima Pamela.

[23] Dello zio Bernardino Goldoni dichiara che “non sarebbe tollerabile sulla scena, se ci comparisse più di una volta nello stesso lavoro” (II, c. XXIX). Non siamo d’accordo. Intanto Dorotea, con una superbia ed egoismo insopportabili nella vita pratica, nella commedia Lo spirito di contraddizione ci sta invece benissimo sino alla fine: dipende dallo scrittore render accetto “esteticamente” un personaggio od avvenimento insopportabile  nella vita reale.

[24] Nel Campiello troviamo gelosie e contrasti spiccioli per motivi di amore, cui si intreccia la preoccupazione per la dote in qualche personaggio maschile e la fretta di risposarsi in qualche vedova. E bisticci per amore giovanili sono anche al centro del Ventaglio e delle Baruffe chiozzotte. Anche I Rusteghi, se si osserva a fondo, non incarnano passioni aggressive di dominio e prepotenza, ma piuttosto una animosità difensiva, nutrita di diffidenza verso i giovani e verso le donne e, in generale, la paura verso le novità e la perdita dell’autorità in famiglia. La casa nova denuncia (e rimedia a) la prodigalità e le ambizioni di lusso nei giovani; e la debolezza dei mariti verso le giovani spose, che prendono le redini delle finanze della casa. La trilogia sulla villeggiatura mette a nudo la smania di divertimento e la gara di sopravanzare nello sfarzo le  colleghe, mentre anticipa la scena pariniana del “Giorno” delle (finte) amiche, che si fanno visita per godere delle disgrazie altrui. Sior Tòdero potrebbe incarnare l’anima dell’avaro e del dittatore di casa, ma la sua politica economica è presentata in una casistica di meschinità tale (economizzare sul riso, cuocendolo a lungo, per gonfiarlo e  farne riuscire  una porzione apparentemente abbondante) o di un egoismo così  ridicolo (rifiuto dell’aspirante alla mano della nipote, disposto a far a meno della dote, per concederla al figlio dell’amministratore, che potrà servire gratuitamente –lui, vecchio decrepito- ancora per qualche generazione...), da rivelarsi un povero maniaco subdemenziale, da compatire e  sorriderne, non da deprecare ed odiare! D’altronde l’aggettivo che qualifica questo despota veneziano ne rivela la fragilità e provvisorietà: “brontolòn”  richiama il cane che abbaia e non morde. Nel Ventaglio non è un  attributo del protagonista, ma il protagonista stesso della commedia (un ventaglio, appunto) che scopre la bonomia dell’autore e il limite delle lotte che si scatenano sulla scena: il vento delle passioni che nascono da un simile oggetto, di rinfresco e vanità, non potrà scatenare burrasche, ma solo far volare qualche paglia e qualche foglia, destinate a ricadere  tra l’erbe qualche passo appresso, alla fine della commedia per la precisione. Un altro “zio Bernardino” sarà “Il burbero benefico”: l’aggettivo mitiga, addolcisce, rende simpatico il sostantivo, così come fa la finale della commedia.

[25]  “Compendio storico della letteratura italiana, Firenze,  La Nuova Italia, 1963, II, p.532.

[26] Vedi nella sua Storia della letteratura italiana, Milano-Messina, Principato, 1956, p.334.

[27] Tentiamo di definire la COMICITA’, seguendo le note del nostro volume “Musica in parole”,Varese, 1983, pp. 94-7.

La comicità è la espressione di un complesso di emozioni, di cui, anzitutto, una è di letizia ed un’altra di  sofferenza, ciascuna più o meno intensa. E’, inoltre, una simbiosi fra stati d’animo contemplativi, pacati, distensivi e stati d’animo  vibrati, mossi, vivaci. Tale sinergismo di emozioni insorge su un dato intellettuale particolare: la  denuncia imprevista di una sproporzione (fisica o psicologica, intellettuale o morale) o non evidente nè facilmente sospettabile (comicità diretta); oppure evidente bensì, ma espressa in maniera imprevista perchè, in apparenza, impertinente (comicità allusiva). Esempi ne daremo trattando della tecnica goldoniana della comicità (Stile). Secondo la forza relativa delle due tonalità liriche contrastanti,   si avranno le varie  specie della comicità. UMORISMO è la simbiosi fra idillio e una minima forza drammatica (rimprovero amichevole, critica bonaria). IRONIA è la lega di idillio e dramma in equilibrio di media  intensità (rimprovero già ostile, malevolo). SATIRA è il sinergismo fra una minor componente  di gioia amara (soddisfazione di cogliere in fallo)  ed una, dominante, di potente drammaticità (denuncia violenta). FARSA è il risultato di una alleanza fra epicità prevalente e dramma soggiacente. GROTTESCO è lo stato d’animo che nasce dal riso maligno sul dolore altrui (eccezionalmente, anche proprio: cfr. la prosopepa di Giannettaccio, ne “La cena delle beffe”, di Sem Benelli). Nel “grottesco”, la componente letificante è quasi del tutto scomparsa, così come quella drammatica nell’umorismo più raffinato, anche se una traccia dell’una e dell’altra emozione sono presenti anche in queste estreme forme di comicità, la prima che confina con l’idillio puro e la seconda che confina con la pura  tragedia. 

[28] Il marchese F. Albergati Capacelli (Bologna, 1728-1804), dopo che ebbe conosciuto il Goldoni nel 1752, passò dalla traduzione e recita di opere altrui alla produzione originale. Egli, nelle commedie, punta sul carattere di personaggi più o meno scriteriati , che va a pescare fra i cicisbei, parrucchieri, gazzettieri, scrocconi, cantori evirati... Ma, a parte che egli esagera i difetti conducendoli all’inverosimile, resta il fatto che non riesce a ricavare “comicità” dalle vicende, le quali  si situano piuttosto nel dramma. Fra le commedie  meno peggiori vi sono  Le convulsioni (delle donne, eccitate dalla lettura dei libri alla moda, specie francesi) e Il ciarlatore maldicente. Scrisse anche “commedie lacrimose”, che sono più vicine ancora al dramma, sia pure a lieto fine (Il prigioniero, Emilia, Rodolfo, La vendetta virtuosa) e che  hanno precedenti in commedie francesi e, addirittura, spagnoleggianti del Milleseicento italiano. Ma, in questo campo, egli convince, fino a creare un insulto di lacrime nel lettore: la ultima scena del “Rodolfo”, in cui Matilde (la donna che   il protagonista ha violentato  e resa madre e che ella odia perciò e detesta violentemente) si trova assalita dall’invito al perdono dal pentitissimo Rodolfo, dal padre di lui Fernando, dal suo stesso padre Luigi,  dall’amica Flerida e dal figlio Carluccio che finalmente può conoscere il  papà, è veramente strappalacrime. Se non si rilegge una seconda volta è solo perchè la sensazione della inverosimiglianza, dell’artificiosità nelle trame accompagna il lettore, che non vuole ritornare a  commuoversi su situazioni  troopo immaginarie (cfr. Il Cuore di E. De Amicis). Il che conferma che l’Albergati aveva la vocazione al dramma, ma non quella alla commedia, in cui  al massimo realizza analisi psicologiche sorprendenti (per la  novità dei caratteri inventati), ma neppure esse convincenti (per la loro estrema stranezza e malvagità). Lo stesso giudizio ci pare valga per un altro commediografo, Antonio Simeone Sografi, padovano ma di genitori greci (1759-1818). Anch’egli si dichiarava seguace del Goldoni, anche se si dedicò a tutti i generi teatrali che invalsero a cavallo dei due secoli: commedie di carattere, drammi lacrimosi, commedie storiche (Ortensia) e drammi ispirati ai princìpi della rivoluzione trionfante (Matrimonio democratico). Le cose migliori citate sono ritenute la commedia Olivo e Pasquale e l’atto unico Le convenienze teatrali. Quest’ultimo  mette in scena i capricci e le pretese dei vari attori|attrici del melodramma. E’ molto realistico nel disegno e nelle battute, coerente nel tradurre in frasi ed atteggiamenti la psicologia dei personaggi (attori, cantori, musici, impresari, direttore degli spettacoli, mamme delle cantanti...) e riesce a dar un’idea della assurdità di un tale démi-monde, meglio ancora che non faccia Benedetto Marcello (con la prosa “Il teatro alla moda”, del 1720) e lo stesso Goldoni (Il teatro comico| L’impresario di Smirne). Perciò lo si legge volentieri la prima volta. Ma non riesce a comunicare nè voglia di ridere nè compassione per una società così stravolta e degenerata (meschinità di invidie, pretese di precedenze, puntigli di vendetta...): non si rilegge una seconda volta.

[29] Raramente il Goldoni scende sino alla volgarità:  quanto ce n’era, ad esempio, ne La donna di garbo, fu espunta nella seconda edizione. E’ sua intenzione più volte dichiarata, nelle commedie come nei Mèmoires, di opporsi ad ogni incentivo alla immoralità. Pure qualche espressione od atteggiamento poteva essere evitato: ci riferiamo, ad esempio, a Le donne de casa soa, I, 3, 5; II, 9, 12;  III, 1,  4, 9; IV, 3, 11; V,  2, 3, ultima.

[30] Arlecchino servitori di due padroni fu rielaborata definitivamente nel 1753, con le parti interamente scritte.

[31]  Per un elenco delle numerosissime commedie in versi, si veda il Catalogo alla fine dei Mémoires. Fra i titoli più noti, ricordiamo: I Rusteghi (dialetto veneziano), Il Campiello (idem: mescolanza di endecasillabi e settenari, con rime sparse),  Le morbinose (id., ma versi martelliani), Le donne di casa soa (id.) , La scuola di ballo (in lingua ed in terzine dantesche!), La Pupilla (in lingua ed in endecasillabi sdruccioli!), Lo spirito di contraddizione (in lingua e martelliani). I versi martelliani sono, in realtà, doppi settenari: la conseguenza principale è che tra la fine del primo e l’inzio del secondo settenario non si fa la elisione eventuale fra le due vocali di fine-inizio di parole.

[32]  Se si guarda all’origine non diremo della sola arte letteraria, ma persino alla musica, ci si accorgerà che sono molto più numerose le opere nate da un ideale o scopo preciso, pratico ed anche educativo (si pensi alla musica che riveste poesie e prose religiose o d’amore; e opere teatrali “liriche”, in particolare,  che sottomettono la musica alle idee del testo verbale. Ed anche la statua del Mosè di Michelanmgelo non è stata scolpita dietro il suggerimento (il comando!) di Giulio II, per il proprio monumento funebre? Eppure Michelangelo ne ha ricavato un caolavoro supremo. Lo stesso B. Croce ha un articolo davvero indovinato sulle “Intenzione di poeti” che esclude tali finalità, pur realissime (e d’amore, generalmenmte) dal concreto sentire, esprimersi e concretizzarsi dell’opera d’arte. Perchè non se ne è sempre ricordato, scrivendo conro la poesia satirica   in “La Poesia” (1936) e giudicando il romanzo di Manzoni (1926: vedila ora in Conversazioni critiche, III, 247-56) come altro dalla poesia? Il “dietro front” del Croce sull’arte dei “Promessi Sposi ” è ne Lo spettatore italianao, marzo 1952.