GIUSEPPE PARINI (1729-1799)

 

I GIORNI E LE OPERE

       

        LA VITA.

1729: Nasce a Bosisio, in Brianza (provincia di Como: ora BOSISIO PARINI) da una famiglia di piccoli commercianti. di seta (il padre è Francesco Parino). Non è un ragazzo di molta salute: verso i venti anni l’artrite lo aggredirà, rendendolo claudicante per tutta la vita.

1739-52: il padre lo manda a Milano, dove frequenta le scuole dette “Arcimbolde”, tenute dai Barnabiti presso la chiesa di S. Alessandro. Vi percorre i corsi di grammatica, umanità, logica e teologia, ma senza diventare, pel momento, sacerdote. Dai registri della scuola risulta che frequentò con un certo interesse le lezioni di morale, mentre per lo più “marinò” quelle di dogmatica (studio delle verità di fede).[1]

1752: pubblica ALCUNE POESIE DI RIPANO EUPILINO, anagrammando il proprio cognome e sostituendo al nome un aggettivo riferito al lago di Pusiano ( detto “E’upili”, in latino). Il nome dell’editore è  mezzo inglese (Giacomo Tompson) e non vi è indicata la città di edizione (in realtà, tipografo Bianchi, Milano): insomma, il Parini vuol uscire in pubblico di contrabbando, sfuggendo alla censura ecclesiastica. Naturalmente, ben presto si trattò soltanto di un segreto di Pulcinella e l’opera lo rese famoso.

1753: è ammesso all’Accademia dei Trasformati, il cui sponsorizzatore è Giuseppe Maria Imbonati (1688-1768): tra i soci sono già annoverati o vi aderiranno personaggi famosi, come l’abate Giancarlo Passeroni, P. Verri, Carlantonio Tanzi, C. Beccaria, Domenico Ballestreri, G. Baretti, Giuseppe Carlo Firmian...

1754: è ordinato sacerdote ed entra in casa dei duchi Serbelloni come precettore.

1757: scrive e legge, per i Trasformati, il “Dialogo sopra la nobiltà”.

1762: esce di casa Serbelloni, forse per protestare che la duchessa avesse schiaffeggiato la figlia del maestro di musica Sammartino, ospite. Passa subito in casa Imbonati, divenendo il maestro del giovane Carlo, figlio del mecenate dei Trasformati e futuro amante di Giulia Beccaria-Manzoni.

1763: pubblica IL MATTINO (prima parte del poemetto “IL GIORNO”).

1765: pubblica IL MEZZOGIORNO (seconda parte: le altre due usciranno postume).

1768: Giuseppe Carlo Firmiàn, gli affida la redazione del foglio governativo “La gazzetta di Milano”, mentre si chiude l’Accademia dei Trasformati per la morte dello sponsor. Nello stesso anno è nominato professore di estetica letteraria alle scuole Palatine. Ed ottiene, mediatore lo stesso governatore di Milano, un beneficio ecclesiastico in Vaprio, senza nè risiedervi nè esercitarvi funzione alcuna.

1773: la cattedra di “Princìpi generali di belle lettere applicati alle belle arti” è trasferita alla Accademia di Brera, l’istituto prestigioso passato dai gesuiti al governo austriaco, dopo la soppressione della Compagnai di Gesù, quello stesso anno. Egli terrà la cattedra sino alla morte.

1777: è accolto nell’accademia dell’Arcadia romana col nome di Darisbo Elidonio.

1791: l’amico Agostino Gambarelli pubblica le ODI del Parini: sono venti, da LA VITA RUSTICA (1757) a LA GRATITUDINE (1790).

1796: entrato Napoleone in Italia, il Parini accetta di far parte della “Municipalità” creata (maggio) dai Francesi a Milano. Se ne ritirerà (o ne sarà esonerato) dopo  tre mesi,  essendosi trovato a sostenere la stesura di una costituzione per la repubblica Cisalpina, senza attendere direttive da Parigi. Degne di lui[2] le parole che Cesare Cantù  asserisce che avrebbe pronunciato quando vide estromesso il Crocefisso dall’aula consiliare: “E del cittadino Cristo, che ne avete fatto?  Dove non c’è posto per il cittadino Cristo, non vi è neppur posto per il cittadino Parini” Lo stesso scrittore riferisce  l’altra caratteristica espressione: “Viva la libertà! Morte a nessuno!”

1799: muore la mattina del 15 agosto, dopo aver dettato il sonetto “Predaro i filistei l’arca di Dio”, da leggersi in Duomo, per il solenne Te Deum che accompagnò il ritorno degli Austriaci a Milano, grazie alla seconda coalizione contro la Francia, priva di Napoleone, partito per la spedizione in Egitto.

 

 

        LE OPERE.

ALCUNE RIME DI RIPANO EUPILINO (1752).  Si tratta di 94 composizioni, divise in “Rime serie” e “Rime piacevoli”.

Vi si trovano sonetti, ispirati al Petrarca, ad Orazio e Catullo, a Lorenzo il Magnifico e Giovanni Della casa. Vi sono sonetti caudati e sonettesse (ispirati al Berni ed al Burchiello). Compone anche in endecasillabi catulliani  (o faleci), già introdotti dal Rolli nella metrica italiana. E scrive epistole in endecasillabi sciolti, ad imitazione di Orazio ed Ariosto.

Tra le cose migliori, segnaliamo le seguenti: “Spesso mi torna il dolce tempo a mente” (petrarchesco); “Per molte genti e molti mar condotto” (catulliano: “Multas per gentes et aequora vectus”); “O del vetro più chiaro, ameno fonte” (traduce “O fons Bandusiae, splendidior vitro” di Orazio: sono belle le due quartine); “Manzon, s’io vedrò mai l’aspro flagello” (all’abate Francesco Manzoni: sonetto notevole per forza drammatica); “M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni” (sonetto pluricaudato, satirico, al modo del Berni); “Andate alla malora, andate, andate” (violenta satira contro l’uso di raccolte di rime encomiastiche per nozze e monacazioni); “O monachine mie, questa fanciulla” (pluricaudato, sonetto scherzosamente bernesco); “Muse pitocche, andate a b....” (sonetto pluricaudato, scherzosamente sdegnato contro le muse, perchè “non dant panem”, non gli rinmediano le spese della vita); “Pìstola” (sciolti scherzosi in elogio della propria pigrizia).

 

O D I  (scritte fra il 1757 ed il 1795: edizione parziale nel 1791)

Alle vento ODI edite dal discepolo Gambarelli nel 1791, Parini aveva in animo di aggiungere le ultime, salvo ad escluderne Le Nozze ed il Brindisi (comprese nell’edizione 1791). Fra tutte, ci sembrano degne di particolare segnalazione le seguenti:  La vita rustica (1757-8); La salubrità dell’aria (1756-9); Brindisi (1778); La caduta (1785); Il pericolo (1790); Il Dono (1790); Il Messaggio (1793); A Silvia (Sul vestire alla ghigliottina: 1795); Alla Musa (1795).

 

POESIE VARIE (pubblicate dal discepolo Francesco Reina fra il 1801 ed il 1804)[3]. Fra le molte, ci sembrano degne di nota le seguenti: La morte de Lo Sfregia (1757: canzone  regolare, scherzosa ma, ancor più, drammatica ); I Ciarlatani (318 versi, distribuiti in strofe di canzone libera, scritti fra il 1762 ed il 1763 col fine moralistico di sconsigliare ogni fede nei ciarlatani o predicatori di riforme miracolose, forse in riferimento alle proposte socio-politiche di moda)[4]; Il teatro (1755: composizione in terzine per l’Accademia dei Trasformati; è un capitolo impietoso, forse i versi più satirici del poeta, che protesta sia contro il culto degli artisti “della gola”, cioè dei cantanti, sia contro tutta la messinscena delle rappresentazioni teatrali, che risultano un vero incentivo alla lascivia); Filli (frammento di endecasillabi sciolti, elegiaci in apertura, idillici nel seguito); Sonetto contro l’abate G. B. Casti (“Un prete brutto vecchio e puzzolente”: satira feroce); Per che, mio cor (canzonetta fra dramma ed affettività, sul tipo de “La libertà” del Metastasio); La sincerità (scherzo fra epicità ed ironia, in forma di canzonetta, sulle menzogne delle donne circa la loro età); La indifferenza (canzonetta: fra ironia e satira); Canzonette per parafuoco (ironia e galanteria, fra canzonatura  scherzosa ed affettività amorosa); Scherzi per ventola (stesso tenore); Le nozze (canzonetta, di un idillio sponsalmente audace); “Manzon, io te l’ho detto, tu lo sai” (capitolo bernesco: terzine di riuscito puro divertissement, in cui si esprime la “Risoluzione di morire... quando troverà un modo piacevole di farlo”).

 

P R O S E.

Si possono dividere in due gruppi: quelle dove la riflessione  (morali, estetiche, politiche) è avvolta in una cornice letteraria, di narrazione più o meno favolosa; e quelle di pura riflessione (estetica, etica), scritte per l’insegnamento a  Brera od altro scopo didattico.

Fra le prime, troviamo: Dialogo sopra la nobiltà (1757: letto ai Trasformati); Discorso sopra le caricature (1759: idem); Lettere di una falsa devota; In nome di Pasquale Paoli; Per una riforma dei libri scolastici.

Fra le seconde, vi sono “Discorsi sopra la poesia (letto ai Trasformati nel 1761); Princìpi generali e particolari delle belle lettere applicati alle belle arti (lezioni di Brera, edite postume); Discorso sopra la carità (opere di misericordia).

 

I L G I O R N O

E’ un poema satirico in quattro parti: IL MATTINO, IL MEZZOGIORNO, IL VESPRO, LA NOTTE.

Si tratta di circa 3753 versi[5], endecasillabi sciolti, così distribuiti: 1236 versi per IL MATTINO; 1191, per IL MEZZOGIORNO; 510 per IL VESPRO; 816 per LA NOTTE.

IL MATTINO uscì nel 1763; IL MEZZOGIORNO nel 1765; postume e non rifinite, le ultime due parti.

Il poeta, fingendosi “precettor d’amabil rito” (Il Mattino, 7) al giovin signore[6] ed alla dama, di cui è cavalier servente (“all’altrui fida sposa, cui se’ caro| e a te, Signor, sua dolce cura e nostra”: Il Mezzogiorno, 771-2), “gli allor ne sfronda ed alle genti svela” “quale vita spregevole conducan”. Parini, cioè, finge di celebrare, elogiandola, la vita inutile, oziosa e viziosa della coppia ignobile “dama|cavalier servente”, così frequente nella società “bene”del secolo illuminato e corrotto, mentre il poema è, in realtà, una satira sottile, una canzonatura pungente, una stroncatura ironica della “dolce vita” di quei “vitelloni” settecenteschi. In appunti per la conclusione, Il Parini prevedeva anche la morte e la discesa all’inferno dello scapestrato protagonista. Ma LA NOTTE è incompiuta e manca di interi episodi (la partecipazione al teatro, ad esempio).

Ecco gli episodi salienti del poema.

IL MATTINO. Risveglio del giovin signore, ad ora ben tarda, quando i contadini sono al lavoro ormai da ore e il sole è già alto nel cielo. Seguono la colazione (caffè? cioccolata?), la toilette (l’opera del parrucchiere), la scelta dei vestiti, il ricevimento del maestro di danza e di lingue straniere, il leggiucchiare libri francesi (“alla moda”, cioè sacri alla dea cui è dedicato il poema), la loro caratterizzazione (essere recenti e scandalosi, sicchè non deve mancare il corruttor sofista del pensiero, cioè Voltaire; e neppure La Fontaine, corruttore insinuante della moralità). Infine il giovin signore è prontoad uscire di casa per recarsi dalla sua dama.

IL MEZZOGIORNO.  Si va a tavola. Il giovin signore siede, come di diritto, vicino alla dama, a meno che non sia ospite qualche turista inglese o gallico, che porti le ultime notizie, le novissime mode, le recenti arguzie salaci. Il marito, intanto, siede lontano, se pur non è ospite della dama cui, a sua volta, serve da cicisbeo. La gelosia non è più quella passione atroce,  che in altri tempi infamava l’Italia, quando bisognava inventare il gioco del “tric-e-trac” per poter scoraggiare i mariti dalla vigile presenza accanto alla coppia: fuggendo esasperati per il rumore assordante dei bossoli nel contenitore, lasciava modo agli amanti di fissare i loro clandestini appuntamenti o di trasmettersi altri segreti messaggi. Ora le cose vanno più quietamente. Non avendo bisogno, questi insolenti semidei, di lavorare, vengono a mancare di appetito e, così, occorre stuzzicare la gola con vivande sofisticate. E’ da questa condizione “privilegiata” che nasce la differenza fra nobili e plebei: i nobili hanno sviluppato dal loro ozio ed inappetenza una sensibilità animale raffinata, che li rende... superiori alla classi lavoratrici, ignara della raffinatezza ultima degli istinti.  Tra i sofismi della nutrizione eletta, vi è anche posto per il vegetariano, che aborre mangiare la carne di animali, verso cui sente amore fraterno. Tale “modello” di moderna sobrietà richiama alla dama la sua compassione per gli animali. Le fa ricordare  il disgustoso episodio in cui un servo, per difendersi dai morsi della sua “vergine cuccia”, le assestò un calcio, mandandola a guaire nella polvere e nel dolore. Svenimento della dama, sgomento dei domestici, licenziamento del servo iniquo, destinato ormai ad elemosinare, per l’orrore di tutta la nobiltà di fronte ad un  gesto così... crudele.

A tavola si duscute, anche: argomento immancabile sono i libri “à la page” d’oltralpe, con le teorie mercantilistiche (il commercio, celebrato sopra la industria) e le scoperte scientifiche: di nulla si è competenti, ma di tutto si parla, per mettersi in mostra come persone aggiornate. Il caffè chiude il convito.

IL VESPRO presenta l’uscita in cocchio  per una visita della dama a qualche amica, che si finge ammalata, ma che in realtà è depressa per vicende sfortunate in amore. La visita è in reraltà, maligna, perchè intende godere dei mali della meschina e, difatti, il dialogo finisce in diverbio, cui pone termine il cavalier servente. Si fa visita anche a qualche amica puerpera, che ha dato alla luce l’erede del casato. Si chiude con la passeggiata in carrozza lungo il corso, con i cocchieri costretti a gareggiare pericolosamente con i colleghi, quasi in un circo, per mostrare la superiorità dei propri padroni anche nel maneggio di cocchio e cavalli.

LA NOTTE, incompiuta, narra la veglia nella casa nobiliare illuminata a giorno: si mangia, si gioca, si combinano intrighi amorosi o ci si esibisce in attività inutili se non paranoiche (chi imita il suono del corno; chi schiocca la frusta; chi disfà puntigliosamente il tappeto di un tavolo...). L’arrivo dei gelati interrompe il poemetto.

 

L’INDIVIDUALITA’

        IL FISICO: il discepolo F. Reina lo descrive così: “Statura alta, fronte bella e spaziosa, vivacissimo grand’occhio nero, naso tendente all’aquilino, aperti lineamenti rilevati e grandeggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente scolpiti, mano maestra di bei moti, labbra modificati ad ogni affetto speciale, voce gagliarda, pieghevole e sonora, discorso energico e risoluto ed austerità di volto, raddolcita spesso da un grazioso sorriso, indicavano in lui l’uomo di animo straordinariamente elevato e conciglivanli una riverenza singolare”.[7]

Di lui, l’imperatore Giuseppe II avrebbe ammirato come “maestosamente zoppicava”. Infatti, di gracile salute fin da piccolo, verso i venti anni risentì di forme più gravi di artrite, che lo angustiavano con la difficoltà nel camminare, i dolori, le cadute, le degenze a letto.

 

        IL TEMPERAMENTO (LA PSICOLOGIA). Cominciamo a dire che il Parini rivela una individualità complessa, non lineare, complicata, non pura: in essa contemplazione ed azione si equilibrano, con risultati  notevoli sia nel campo della vita pratica che di quella poetica,anche se l’uomo  paga la completezza della sua psicologia con il mancato sigillo della sublimità. Il discreto successo di vita pratica e la grandezza non sublime di estro poetico ha qualcosa in comune con il Goldoni. Anche il Parini è temperamento nervoso (emotivo, non attivo, primario od instabile), ma con prevalenze specifiche opposte: se il commediografo veneziano è un nevrosico a predominio vagotonico, il poeta brianzolo è un temperamento nervoso a predominio simpaticotonico. Vediamone prima le singole componenti; poi, i corollari delle complicazioni,  per il conservarsi nella sua psicologia di residui dal temperamento passionato, che lo abilitano ad un minimo di operatività riuscita.

La potenza ed i limiti della sua “emotività” (come capacità di commuoversi al punto da trasmettere la carica  emozionale alla sua espressione verbale ed ai suoi lettori) si rivelano nella medietà della sua poesia: unica vera eccezione è il brano sublime della “vergine cuccia” nel MEZZOGIORNO (vv. 650-703); per il resto i suoi versi si leggono con soddisfazione mista a delusione, perchè si auspica in loro quel colpo d’ala definitivo che li innalzi da semplicemente piacevoli ad affascinanti; da  musicalemente raffinati a liricamente  irresistibili; da stilisticamente mirabili ad artisticamente estasianti. Sono, in generale, versi belli che si rileggono volentieri, ma non senza un certo sforzo, come se si andasse ad ammirare una espressione più ingegnosa che geniale, più elaborata che perfetta, più vicina al tepore che alla incandescenza: dai quali si ha più da imparare che da gioire.

Anche  la sua instabilità si manifesta proprio nella produzione poetica:  al rovescio del Goldoni, che non riusciva più a  migliorare la prima stesura di un’opera, Parini era  incontentabile nelle sue espressioni e limava, riscriveva, tormentava i suoi versi, con una crescita di splendore espressivo evidente dal confronto tra le prime due parti del poemetto e quelle postume. E l’aver lasciato incompleto  Il Giorno è un indizio della esauribilità (primarietà) del suo temperamento: in gioventù aveva avuto l’ardire intellettuale di ideare, con la confidenza di riuscire ad andare oltre la dimensione frammentaria del poeta lirico (che compone poesie staccate, di  un numero limitato di versi); avanzatosi negli anni,   non riuscì a conservare lena sufficiente a portare alla fine un lavoro di dimensioni epiche. Instabilità, dunque, come insoddisfazione e tormento per la propria produzione; e come incapacità (conseguente) a condurre a compimento il poema così promettente.

Quanto alla “attività|non attività” del Parini, ci troviamo di fronte all’enigma che propongono tutti i temperamenti misti e  complessi: si rivelano in lui doti di abilità, sufficiente a vivere in società come attore normale ma non eminente, operativo ma dipendente, deuteroagonista e non protagonista. In  concreto, Parini ebbe doti di vita pratica  bastanti per sopravvivere, ma  insufficienti per  influire sugli altri ed organizzarli. Nell’esercito della società milanese, potè diventare un ufficialetto di complemento, non un  generale di carriera: egli potè, così, salvare “el proprio particulare”,  alla Guicciardini, ma non  portare avanti un programma machiavellicamente esteso, nel bene o nel male, oltre la propria persona. Entro questi limiti, egli può ben essere detto un vincitore, come lo rappresenta il commediografo Paolo Ferrari ne La satira e Parini (1856). Difatti, a parte i primi anni di isolamento a Milano (dopo la morte del padre e prima della fama poetica)[8]  egli sa rimanere a galla servendo senza  viltà,  elogiando senza adulazione, giungendo ad una occupazione  di prestigio e ben rimunerata, che gli permetteva parola franca e libera,  quale egli si era sempre proposto, da La vita rustica del 1758 a La caduta del 1785;[9] e quale attua sia nei versi, fustigatori delle classi elevate  (Il Giorno), sia nelle  prose all’accademia dei Trasformati (Dialogo sopra la nobiltà). Ma quando deve passare dalla “cauta difesa” del piccolo mondo personale alle decisioni di carattere universale, egli allora si rivela imprevidente e falloso: appoggia l’amministrazione  napoleonica di Milano, salvo a meravigliarsi delle sue decisioni “rivoluzionarie” ed a dimettersi precipitosamente. E’, la sua, un’abilità  operativa di cabotaggio, non una potenza realizzatrice da mare aperto: come  attore politico è oscillante quel tanto che basta a non compromettersi definitivamente con nessun partito (Austriaci conservatori e Francesi  innovatori): finisce per essere lasciato in pace come cittadino senza rilievo pratico.

 E la sua apertura intellettuale (buona ma non sublime), come la sua vita morale (grande nei princìpi,  ineccepibile nella professione didattica, ma fallosa in sede di politica ed infedele agli impegni di una vita ecclesiastica, pur assunti liberamente) confermano in lui l’uomo dalla psicologia complessa, ma non sublime,  superiore alla norma, ma non geniale. Proprio per questo, riuscì uomo di discreto successo pratico, con una  caratura emozionale di valore artistico, con una facoltà razionale  di buona lega e con prese di posizione socio-politiche degne di rispetto: ma non grande filosofo, non poeta sublime, non attore politico eccezionale. Fu un ingegno notevole in ogni campo umanistico, ecco; non un genio.

Il viraggio a prevaelnza ortosimpatetica della distonia nevrosica lo si deduce dalla sua figura fisica (faccia scarnita, corpo alto ed ossuto); dalla sua prevalente ispirazione (il  motivo  predominante della sua poesia è ostile e demolitore: contro le magagne morali della classe abbiente o contro le molte storture della vita:  si leggano  i versi sul teatro, sulla  maschera, sulla menzogna ed ipocrisia o sulla laida figura dell’abate Casti...); e dal suo lirismo (quando mai Parini esprime idillio od elegia pura? invece è normalmente  drammatico, ora ironico-satirico, ora tendente anche all’epicità). Sono, questi, tutti indizi di un animo triste ed irritato; o, se lieto (ma molto più raramente), esaltato. Si vedano gli “scatti d’ira generosa” contro chi tenta di avvilirlo, consigliandogli l’adulazione dei potenti (anzi “degli imi che comandano ai potenti”: La caduta); o  quegli altri di orgogliosa professione della propria  dignità (La vita rustica: “Me non nato a percotere le dure illustri porte nudo accorrà ma libero, il regno della morte”). In questo, è proprio l’opposto di Goldoni.

 

        LA FANTASIA (specializzazione sensoriale interiore). Buona è la fantasia verbale, anche se non suprema; meno rilevante quella figurativa o cinestetica (del movimento). Non è dato trovare   un personaggio di cui rimanga impressa la figura fisica od un gesto:  cavaliere e dama sono esseri ideali, non persone corporee, sono simboli di virtù o vizi, non attori concreti. Il movimento lo si capisce con la mente, ma non lo  vede con la fantasia.[10]

Musicalmente, invece, il Parini si trova a lavorare in “pole position”, ad usufruire di un dono congenito davvero straordinario nella raffinatezza non priva di forza, nella eleganza alleata alla  levigatezza.  Nonostante il ventaglio discretamente ampio dei motivi ispiratori e una certa apertura a stati d’animo diversi nell’ambito della drammaticità, Parini ha una “impronta musicale” personalissima, sicchè i suoi versi si lasciano riconoscere a prima lettura, appartengano essi alle Rime di Ripano, alle Odi, alle Poesie varie od al poema Il Giorno: scherzose o mordaci, i versi del poeta brianzolo hanno un loro marchio di fabbrica, che sta nella particolare armonia della sua musicalità.  La dovremo studiare particolarmente.

 

        LA INTELLIGENZA. Come si addice ad un ortosimpaticoprevalente, Parini possiede una intelligenza più aperta alla analisi che facile alla sintesi: questa non gli è impervia, ma gli costa impegno, fatica e tempo e riesce solo nelle composizioni brevi (sonetti, odi ) o medie (i 186 versi de Il teatro).

IL GIORNO è la prova più convincente: la composizione si trascina per decenni, senza riuscire a completarsi. Per di più la stessa struttura è più “paratattica” che organizzata strutturalmente: gli episodi sono isolabili, perchè indipendenti gli uni dagli altri e si succedono “parallelamente”, senza necessità di svolgimento. Si potrebbero togliere o cambiare con altri senza che il poema si sfaldi. Manca cioè una trama definita e organica al lavoro, che è più rifinito nei particolari che scandito nella peripezia. Anche se il poeta fosse riuscito a mettere in versi la gran faccenda del teatro, come ultima parte della notte; o avesse trovato il posto per ironizzare sul relegamento dei figli in collegio, visto che l’educarli in casa toglieva spazio ai loro vizi; o fosse giunto sino a far precipitare nell’inferno (allo scadere della ventiquattresima ora del “giorno”?) la coppia assurda, la vicenda del poema non avrebbe guadagnato se non episodi particolari nuovi, ma nessun conclusivo significato . In realtà il senso dell’opera è scoperto già dopo le prime battute e la curiosità della vicenda si spegne dopo i primi  trecento versi, perchè il suo  significato è palese ed immutabile[11]: il poemetto comincia a diventare noioso.

L’intelligenza non è, poi, molto profonda: certo non è così superficiale come quella del Goldoni; ma    non cerchiamo in lui della filosofia di grande spessore. Anche le sue idee di arte e poesia, che  non riescono a definire il piacere emotivo (intuito esattamente  quale fine dell’arte) come diverso da quello fisico dell’istinto e si sente, quindi, in dovere di compensare quella  pericolosa proposizione,  assegnadole anche la finalità dell’utile educativo ( La salubrità dell’aria, ultima strofa: “Va per negletta via| ognor l’util cercando| la calda fantasia,| che sol felice è quando| l’util unir può al vanto| di lusinghevol canto”) non rivelano un’aquila di intuizione nè di potenza dimostrativa. D’altronde, chi si sognerebbe di parlare del “professor Parini” o di considerarlo seriamente come cattedratico d’importanza? Non vi era in lui quella  profondità  speculativa che è propria di un Dante, di un Tommaso d’Aquino o di un Manzoni; e neppure quelle folgorazioni intuitive che sono proprie di un Machiavelli, di un Alfieri, di un Foscolo. Era un ingegno ragionevole, quali se ne possono trovare  molti in ogni generazione umana;  non un genio inventivo, quali se ne contano pochi in un secolo.[12]

 

        L’AMBIENTE.

La vita del Parini stacca nettamente i primi dieci anni, trascorsi a Bosisio nella Brianza, dal resto della sua vita,  trascorsa a Milano.  Gli influssi che ne riceve saranno ovviamente diversi.

        La famiglia, la comunità della Brianza e la fede religiosa del Parini.  I primi anni del poeta trascorrono sotto il segno della fede cattolica più esplicita. Il piccolo commercio del padre lasciava la famiglia  in uno stato economico poco al di sopra  della sopravvivenza, sicchè egli potè iniziare gli studi sotto la guida dei due parroci succedutisi in Bosisio fra il 1729 ed il 1739, cioè nei dieci anni passati nella natia “libertade agreste”, fra i “Colli beati e placidi” che cingevano “il vago Eupili” (La vita rustica, str. 2 e5). In un simile contesto, la educazione era incentrata sulla religione e la vita di fede doveva essere un dato scontato. Con la possibilità, però, di abusi, che ogni età varia senza riuscire ad eliminare del tutto. Nel caso di Giuseppe Parini, la tentazione di risolvere i problemi del suo futuro, approfittando donabbondiescamente della stima che circondava lo stato ecclesiastico e della connessa sufficienza economica , fu  favorita da tre circostanze: la fragile salute del ragazzo, la sua passione per gli studi, la rendita garantita dal testamento della prozia  Anna Maria. Egli scende, dunque, nella grande città, con un bagaglio di fede religiosa  scontato, che, pur fra qualche incertezza, salverà forse sempre e, comunque, ricupererà definitivamente (ne riparleremo tratatndo dei “Motivi ispiratori” del poema). Si aggiunga  l’ovvio senso della famiglia come luogo di procreazione ed educazione dei figli,  il mito del paesaggio  vario, aperto e ridente della campagna brianzola e  la più cordiale simpatia per la  classe contadina,  la cui vita è faticosa e stentata ma sana e benefica.

        La  vita a Milano fino al sacerdozio (1739-1754) e l’anticlericalsimo del Parini.

Dal 1740 al 1752 il giovane immigrato frequentò le scuole Arcimbolde tenute dai Barnabiti presso la chiesa di S. Alessandro. Va tenuto presente che  i genitori lo avevano raggiunto a Milano, dove tutti erano ospiti della prozia che desiderava sacerdote Giuseppe, figlio del nipote. Fu scolaro poco diligente: ripetè alcune classi e frequenti furono le assenze, che aumentarono con gli anni. Dipendeva tale condotta solo dalla scarsità di tempo, visto che per guadagnarsi da vivere doveva ricopiare carte forensi e dare lezioni private?  O il marinare la scuola era dovuto   a disinteresse per le materie insegnate, quasi che egli si iscrivesse alle lezioni di teologia solo per il bisogno di farsi una posizione ed assicurarsi la rendita testamentaria della prozia? Oltre tutto, verso i venti anni iniziarono quei disturbi artritici che dovevano renderlo zoppicante e sofferente per tutta la vita: fu, questo fatto, un ulteriore stimolo a scegliere la vita ecclesiastica non come  vocazione, ma come professione, come soluzione dei propri problemi di sussistenza e le sue aspirazioni culturali  anzichè missione apostolica?[13] E’ questo un segreto che egli si portò nella tomba, anche se troppi indizi lasciano propendere per la seconda ipotesi: anzi, vedremo che possono esserci state spinte di natura ancora peggiori.  Ma, in questo caso, è chiaro che grande peso nel  marinare molte lezioni (e quelle  di teologia dogmatica in specie) dovette avere la crisi ed il disorientamento dell’età adolescenziale,  crisi che attende ogni giovane avviato al sacerdozio celeibatario della Chiesa cattolica, ma che, nell’internato di un seminario normale, o viene  superata positivamente o viene considerata come invito a lasciare una strada non adeguata alla propria personalità..[14] Comunque, come si è già accennato, egli attese alle lezioni di filosofia morale, la materia più attrente per una mentalità letteraria, anzi per una sensibilità poetica come la sua, perchè la legge etica, nell’insegnamento teologico, è dedotta non solo dalla Sacra Scrittura (Decalogo dell’Antico Testamento, precetto della carità, del Nuovo) ma anche da un continuo confronto con le tendenze  elementari della psicologia,  lo studio che fonda ogni interesse umanistico e, quindi, la più congeniale  per uno spirito letterato.

Che queste scuole avessero lasciato comunque  una eredità di cultura anche religiosa, lo testimoniano  alcuni amici, che lo dicono preparato a rispondere a qualunque domanda di carattere religioso, etico, teologico. Ed “a priori”  si può sospettare che parte della chiarezza espositiva, della esigenza di coerenza ragionativa e di fermezza nei princìpi morali sia un’eredità della istruzione di tipo tomistico, forse pignola fino ad esser sillogistica, ma certo sistematica e ordinatrice, esigente di evidenza o dimostrazione: un allenamento eccezionale, nel complesso, per la formazione della mente, anche se ostico per il rigore e la astrattezza della trattazione.

Un’ultima notazione. Una sola volta il Parini parla del suo stato sacerdotale e lo fa senza esprimere nè entusiasmo nè dispiacere: è nella composizione Per le nozze Giuliani Fiore: “Io non gustai del maritale amore| però che, giovinetto, alla sua rete| San Pier m’ha colto, papa e pescatore”. 

 

        La società di Milano, l’ambiente economico-sociale della upper class frequentata dal Parini e la sua condotta morale.

La dimora a Milano, divenuta ormai una seconda patria per il poeta brianzolo, significò anche rapporti con opinioni e personaggi in parte o del tutto alieni ai princìpi di educazione ricevuta in famiglia e nelle scuole Arcimbolde. Egli, infatti, dopo la pubblicazione di Alcune poesie di Ripano Eupilino, si trova aperte le case più prestigiose di Milano.  E’ ammesso alla Accademia dei Trasformati (1753-68), mentre l’anno successivo (quello del sacerdozio) diverrà precettore in casa dei duchi Serbelloni, rimanendovi sino al 1762.  Se quasi certamente non furono queste le prime palestre del “cauto connubio” fra il prete di estrazione campagnola e il mondo dell’aristocrazia “aggiornata” alla cultura del tempo, egli evve modo, però, di entrare in rapporto con Pietro Verri e Cesare Beccaria, che in seguito passeranno a fondare l’Accademia dei Pugni, caratterizzata da un più aperto favore verso le novità anglo-francesi. Il distacco non avviene soltanto per motivi ideologici, però (dottrine innovatrici in materia di lingua, di diritto e di economia).  Il Verri era innamorato della duchessa Maria Vittoria Serbelloni e aspirava a primeggiare fra i Trasformati: l’arrivo del Parini, intelligente, colto, ambizioso e simpatico, ne mise in pericolo la preminenza e la liaison più o meno dangéreuse. Parini era un concorrente alle passioni del Verri, di qualunque tipo fossero: orgoglio e gelosia, dunque.

Ma il Parini trovava fra i Trasformati anche degni sacerdoti, come il canonico Giuseppe Candido Agudìo (già suo benefattore nei momenti del bisogno, seguiti alla morte della prozia) e il poeta G. C. Passeroni: furono anzi questi che gli ottennero l’ammissione al sodalizio dell’Imbonati. Il Parini vi brillò presto come una stella di grandezza superiore.

La raccolta di Poesie varie, avvenuta dopo la sua morte, rivelano nomi dell’alta società lombarda, per la quale  egli –pur contrario in linea di principio  a scrivere versi di circostanza-  scrisse composizioni per congratulazioni, nozze, monacazioni. Così nel 1764  stese dei versi per la guarigione di Carlo Imbonati; ne pubblicò nel 1777 per le nozze Malaspina-Montanari; ne  stilò per i Castelbarco, i Greppi, ecc. Con gli stessi Serbelloni, pur uscito di casa nel 1762 in maniera polemica, rimase in amichevoli rapporti  : si vedano i versi dell’età matura Spesso de’ malinconici sapienti. Quando, nel 1762, i Trasformati si sciolsero per la morte del “conservatore perpetuo” Giuseppe Maria Imbonati, ‘l’abate-poeta era ormai in contatto diretto con il conte Giuseppe Carlo Firmiàn, che lo nominò direttore della Gazzetta di Milano (1768) e, nello stesso anno, professore alle Palatine, le scuole superiori dello stato milanese. Col Verri si rappacifica verso il 1776, entrando anche lui nella società patriottica.

Lasciamo, pel momento, la valenza specificamente letteraria di queste relazioni per metterne in luce il significato socio-culturale e l’influsso conseguente sul Parini. A livello di mentalità sociale, egli non vendette la propri anima a quella nobiltà che, dandogli i propri figli da istruire, finiva per finanziarlo e mantenerlo. Il Dialogo sopra la nobiltà rivela la sua coscienza vivissima (addirittura polemica)  circa la ugualgianza fra tutti gli uomini, sicchè l’origine della nobiltà autentica non può stare che nelle opere virtuose personali, non nella nascita da una casa blasonata.[15] Siamo nel 1757 e il “Dialogo” fu letto all’Accademia dei Trasformati, ospite nel magnifico palazzo degli Imbonati e formata da un nucleo importante di patrizi titolati. Si tratta di questo: due cadaveri, quello di un nobile e quello di un poeta, usando il residuo di aria rimasto nei polmoni, scambiano alcune battute sottoterra, che  contengono affermazioni di questo tenore: “Se la cosa è come a voi pare[16], voi sarete adunque, voi altri Nobili, tutti quanti forniti d’animo svegliato, gentile e virtuoso... Come vien egli però che, quando io era colassù tra’ viventi,a me pareva che una così gran parte di voi fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze?...”. La satira, qui, è più spiccia e meno riguardosa che ne Il Giorno: è  critica diretta e non allusiva. Il poeta aveva avuto modo  di osservare a quale meschinità potesse ridursi la vita, pur fra il lusso e gli splendori dell’ozio dorato. E potè anche, più o meno consapevolmente, restare affascinato da quella disponibilità di tempo libero, di vesti eleganti, di divertimenti sofisticati, di viaggi all’estero, di pranzi raffinati ed anche di opportunità per una crescita culturale. In particolare le donne, in cui all’avvenenza andavano unite cultura e ricchezza, non lasciarono insensibile il povero cuore dell’abate e poeta settecentesco.

E’ a questo livello di influssi socio-culturali che si deve inserire il problema della condotta morale del Parini, che trova ovviamente una parte di spiegazione nel contesto in cui venne a trovarsi, pur rimanendo lui il primo responsabile delle sue scelte, libere nel bene come nel male. Della  corruzione (anche) nobiliare offre testimonianza la grottesca caricatura che Carlo Gozzi ne andava facendo con il poema “Marfisa bizzarra”, scritto fra il 1761 ed il 1768: nel canto ottavo l’arcivescovo Turpino e Ruggiero vengono a diatriba per la scostumatezza, specie in campo sessuale, della cavalleria ammodernatasi ai princìpi... illuministici. Il Parini non si accorgeva che  mentre condannava così sapientemente i cicisbei e cavalier serventi con le damine scriteriate, loro più che probabili amanti, egli stesso, poi, con  la sua scelta ipocrita dello stato ecclesiastico e con la incoerenza degli sfagli contro l’impegno alla castità nel celibato, partecipava dello stessa corruzione ed insensatezza dell’ambiente che deprecava a parole e imitava nei fatti. O forse si riteneva autorizzato a declamare contro gli estremi della decadenza morale, ritenendosi  maestro di moralità solo perchè si limitava alla moderazione ed alla cautela sulla stessa via di coloro che, rifiutando di  comportarsi secondo coscienza, finivano per pensare come vivevano, non essendo riusciti a vivere come pensavano?

Da un lato, contro la libidine, egli protesta vigorosamente, non solo nel Giorno (basti citare Il Mattino, vv. 668-689), ma anche in altre composizioni poetiche: Per le nozze Giuliani-Fiori| Il teatro| La maschera| il sonetto contro l’abate Casti. [17]

D’altro canto, a sua stessa confessione, rimase invischiato  nella pece della sensualità (versi del Brindisi, citati); e vi sono sue scritture, edite in vita o dopo morte, che aggravano la sua posizione in materia. A parte la novella oscena (Agnoletta), scritta da giovane e di cui fece ammenda assumendosi come penitenza la revisione stilistica delle castigate ma noiose novelle di padre Cosimo Galeazzi Scotti,[18] restano ancora i sonetti impudichi per Teresa Mussi e (forse) per Francesca Simonetti, moglie del conte Cesare di Castelbarco.[19] Fin qui, non ha torto G. Natali a rimanere indeciso, in base ai soli versi del Parini, se  il poeta parli di vere relazioni erotiche oppure  di concupiscenza unilaterale da parte del poeta. [20] Sono, comunque, i suoi versi più procaci.

 Abbiamo, poi, la lettera del 16 gennaio 1776 a don Angelo Teodoro Villa: volgaruccia nelle espressioni, lascia anche sospettare che si tratti di un contrasto per donne: ma nulla di sicuro si può stabilire attraverso le parole ambivalenti od in codice della missiva.

Circolò anche voce che il motivo per cui egli rifiutasse una cattedra di eloquenza a Parma, nel 1766,  sarebbe stata una relazione amorosa. Purtroppo neanche una tale testimonianza è definitivamente certa.

Ma vi sono  lettere che  rivelano relazioni  erotiche e addirituura lasciano il fondato sospetto che si tratti di omosessualità. Tale è il senso ovvio delle cinque lettere scritte al dottor Giuseppe Paganini fra il 1773 ed il 1774. Ecco le frasi più compromettenti, che si trovano nella quinta lettera: “La natura mi ha disposto a dei sentimenti che mi dovevano rendere perpetuamente infelice : e io sono così debole che non ho mai saputo far uso della ragione per domarli o almeno moderarli. Sa il Cielo quali sforzi ho fatto per allontanarmi questo poco tempo; e la mia fatalità vuole che anche nel mio ritiro venga il diavolo a perseguitarmi. Com’è possibile che la vecchia, che dianzi era tutta mia, voglia perseguitar l’amico a mio riguardo, ora che sono assente; come è possibile ciò, se non fosse accaduto qualche sinistro! Ciò che mi fa più pena si è che temo non ne sia consapevole il vecchio o qualche altra persona che più importi. Ah, se ciò fosse vero, non saprei darmene pace per tutti i motivi. Qualunque fosse per essere l’esito vicino di questo mio sventurato affare, io l’aveva portato fin qui, salvando i miei riguardi...”.[21] Ma tant’è, Parini è coperto da un favore “consolidato” fra i critici: la interpretazione accettata come sicura è che la lettera sia scritta in “codice”; che “l’amico” sia una ragazza e non un giovanetto; che la relazione sia, quindi, secondo natura e non contro natura. Ma a me sembra questa una interpretazione partigiana e pregiudicata: non si parla solo di “amico”, ma si esprimono anche due altre realtà. La prima è la confessione di una  predisposizione naturale a sentimenti che  in ogni caso dovevano renderlo infelice: questo non si può dire della comune tendenza  dell’uomo nei confronti della donna: la frase è assoluta e non coinvolge per nulla il fatto (evitabile e, quindi, relativo) dell’essersi fatto sacedote. La seconda cosa che mette in sospetto è il timore disperato che Parini  manifesta per la eventuale  pubblicizzazione della sua relazione erotica: se si fosse trattato di una donna, via! la società settecentesca che egli frequentava glielo avrebbe perdonato, perchè   doveva essere conosciuto come un abate senza eccessivi scrupoli in materia. Noi propendiamo, quindi, per una interpretazione letterale del testo e, quindi, per una confessione di omosessualità nel malaticcio poeta brianzolo. Questo aggraverebbe la sua posizione morale (in ogni caso riconosciuta dal suo accusarsi per la incapacità a  controllare l’istinto venereo, sia esso etero- od omosessuale) e forse darebbe una motivazione in più al suo rassegnarsi a farsi prete, come alternativa meno insopportabile ad una vita di solitudine tormentata o di soddisfazioni erotiche, in ogni caso umilianti di fronte alla società e strazianti per la coscienza ancora cristiana  del poeta.  Siamo lontani dal voler infierire su un uomo che ammiriamo come poeta più che discreto e come persona  sincera, fino al coraggio di correeggere l’errore di aver aderito alla municipalità filofrancese di Milano, una volta costatato il suo indirizzo intollerabilmente anticristiano ed imperialista. E sospettiamo che la interpretazione ottimistica (in senso, cioè, eterosessuale) delle espressioni pariniane nelle lettere citate sia dovuta solo ad  un eccesso di apprezzamento e di favore per un personaggio, che ha mostrato simpatia per le  novità illuministiche, trovando perciò in Foscolo ed in De Sanctis degli spiriti fraterni.  Il  limite poetico del Parini -grande ma non sublime-  è stato quasi subito intravisto e, addirittura,  aggravato dal De Sanctis nella sua “Storia della letteratura italiana” (1870-1: l’uomo sarebbe superiore all’artista). Non va escluso   il dovere di riconsiderare invece, in senso  peggiorativo, il  peso morale dell’uomo,  sorprendente se confrontato colla società “bene” del suo tempo, ma compassionevolmente povero, se giudicato coi canoni umani e cristiani  di ogni tempo, al di fuori di ogni pregiudizio risorgimentale e letture addomesticate dei documenti. Amicus Plato, se magis amica veritas![22]

E ripetiamo: confrontando queste espressioni con altre di segno opposto[23], la figura umana del Parini risulta mediocre: egli non esce fuori come “hombre vertical”, come  uomo tutto d’un pezzo, ma come canna al vento, che si compiace  talora di quelle stesse vesti lussuose e di quell’identico permissivismo morale, proprio  dell’ambiente che frequenta e che pur disapprova nella sostanza. Il cristiano Dante l’avrebbe collocato al Limbo o più giù; gli illuministi e neoilluministi ne han fatto un eroe, forse coscienti di non aver colleghi migliori da sbandierare.

 

        La cultura illuministica e  la statura intellettuale e morale del Parini.

 Già conosciamo la doppia faccia del pensiero nella seconda  metà del Millesettecento italiano, attraverso l’acquisizione del razionalismo di Voltaire  e degli enciclopedisti; e dell’atteggiamento (in parte) opposto di Rousseau, che potremmo chiamare “sentimentalismo” e che troverà, in Vittorio Alfieri e nel movimento dello Sturm und Drang in Germania, gente congeniale o seguace.

 I primi, fondandosi sulla ragione e la sola ragione, approdavano ad una condanna del passaato (tenebre del medioevo) e ad una grande fiducia nel futuro, mentre i secondi valorizzavano, oltre ogni realismo, l’umanità primitiva,  ingenua, non sofisticata dalla ragione, cioè il passato della vita libera e primitiva, del selvaggio bello e buono. Questo non impediva di essere poi d’accordo su  molte demolizioni, come il rifiuto del cristianesimo e di ogni principio morale immutabile: è per questo che Jean de La Fontaine, pur vissuto interamente nel Milleseicento (1621-95) ha molta importanza con  le sue favole libertine ed anarchiche (nel senso che in esse trionfa il malvagio e non il buono) nella  preparazione della cultura illuministica..

Nella Lombardia austriaca, le novità franco-inglesi penetrano  dapprima sotto forma di iniziative  economico-culturali sia di Maria Teresa che di Giuseppe II. La prima si concentrò maggiormente sulle  riforme  amministrative (con la istituzione del catasto, ad esempio), anche  se non mancarono interventi in sede di giurisdizione ecclesiastica, con la abolizione della Inquisizione, il ridimensionamento delle esenzioni ecclesiastiche e l’incameramento dei beni dei gesuiti. L’attività del figlio si caratterizzò invece proprio per gli interventi in sede culturale e religiosa, con la soppressione di ordini religiosi e arbitri giurisdizionalistici nelle nomine di vescovi , formazione nei seminari, ecc.

Il Parini, pur non essendo un’aquila filosofica, dispone però di una mente chiara e coerente: egli condanna, imparziale e forte, tanto le aberrazioni delle pretese razionalistiche (le carneficine del “Terrore”) come la criminalità di certo malcostume (la castrazione), sfruttato anche  dalle istituzioni della Chiesa. Nel poema  vengono fustigati  sia Voltaire che La Fontaine,[24] mentre l’ode (A Silvia)  Sul vestire alla ghigliottina[25] si ribella ad ogni forma di  approvazione alle crudeltà rivoluzionarie del Terrore. La battaglia contro la evirazione (sfruttata anche dalla cantoria vaticana per avere voci bianche senza impegnarvi delle donne) avrà due momenti: egli la conduce sia dalla Gazzetta di Milano[26](1768-9), sia, un anno dopo, con l’ode intitolata La musica. E, benchè egli si dichiari discepolo di Orazio ( canzone incompleta: Lucido esempio e guida, te, Venusin, d’ogni poetic’arte), tuttavia ne rifiuta decisamente la sensualità (Il Mezzogiorno, 919-6).

 In positivo, egli inneggia alla vaccinazione (L’innesto del vaiuolo: 1765) ed  al fenomeno ancora raro del dottorato in giurisprudenza raggiunto da una donna, Maria Pellegrina Amoretti (La laurea: 1777).

Dalle sfide culturali della sua epoca, il Parini esce con una patente di umanità abbastanza saggia, ma non abbastanza decisa; si impone come persona  moderata, ma non lungimirante; si fa ammirare per la forza di volontà nel dichiarare il suo pensiero, nel parlare secondo la sua coscienza, ma non per la coerenza o continuità delle sue posizioni religiose (lo vedemo a suo luogo) e socio-politiche. Questo   significa che egli non fu grande fino alla genialità nel pensiero, fino all’eroismo nel volere.  Gli abbagli, simpatie, distanziamenti e  ribellioni di fronte alla rivoluzione francese  denunciano un sottofondo di ondeggiamenti psicologici: pressappochismo intellettuale ed indecisione  volitiva; rivelano, cioè, i limiti della potenza intellettuale, prima ancora che della coerenza morale dell’uomo. Vogliamo dire che di fronte all’evento più clamoroso del suo secolo, egli  rivelò le  carenze della sua formazione intellettuale e le incertezze della sua coscienza morale: illudendosi dapprima che essa fosse un avvenimento sostanzialmente positivo; prendendo, poi,  le distanze di fronte all’orrore delle sue carneficine (in lingua, con l’ode A Silvia, sul vestire alla ghigliottina; ed in dialetto, con El magon dij Damm de Milan per i baronad de Franza: “Madamm, gh’ala quaj noeuva de Lion?”); appoggiando la Municipalità napoleonica in Milano per poi uscirne  sdegnato di fronte agli arbitri in ogni campo; inneggiando alla fine al ritorno degli Austriaci a vendicare la libertà della Chiesa (ultimo sonetto: Predaro i filistei l’arca di Dio). Si  potrebbe essere tentati  di leggere, non solo a livello socio-politico, le vicende di un Girella di fatto: diversamente dal personaggio di Giuseppe Giusti (e dal pacchiano  proteo Vincenzo Monti) egli  fu un volgabbana non per calcolo, ma per inconsistenza ideologica e pratica; fu un “girella” di fatto, non di proposito. Ma resta il fatto che egli era un uomo che ciurlava nel manico, di cui non si poteva essere certi di nulla. Di fronte a lui, come –due secoli dopo- di fronte alla vita ed al pensiero di Indro Montanelli   fa tristezza grande vedere un uomo superiore alla media come doti razionali, cadere nel disorientamento più oscillante e mutevole per la carenza di una definitiva concezione dell’uomo, della vita, del bene e del male.

        L’ambiente letterario e la crescita artistica del Parini dall’Arcadia al neoclassicismo.

Egli era nato in tempo per risentire della moda arcadico-metastasiana imperante ormai da oltre una generazione: ed i suo inizi poetici sono lungo questa linea. Non che l’insegnamento ricevuto presso le scuole Arcimbolde esaltasse necessariamente tale corrente imperante.  Si è già detto che le accuse che il Parini rivolge contro  le scuole dei religiosi, nei tre documenti   In nome di Pasquale Paoli (1769), Frammento di programa didattico (1770) e Sul decadimento delle belle lettere e delle belle arti (1773?), sono tanto radicali quanto generiche.  Ciononostante, pare di poter intuire in esse il rimprovero, all’insegnamento da lui ricevuto, di mancare di fondamenti ragionati (filosofici, in definitiva), basandosi invece sulle regole tradizionali di retorica e  sullo studio di autori, letti e spiegati senza la comprensione della loro natura poetica: una scuola che non maturava il senso critico, ma si limitava a sviluppare la memoria.

Pure, i vantaggi  di tale metodo di studio, esteso se non intenso, si potevano vedere proprio nel giovane Parini. “Alcune poesie di Ripano Eupilinorivelano, nell’autore di soli 23 anni, una familiarità coi poeti  classici, da Anacreonte ai contemporanei: Mosco e Catullo,Orazio, Petrarca, il Burchiello, il Magnifico ed il Pulci, il Berni, l’Ariosto e il Della Casa, l’Arcadia con G. B. Fagiuoli, Franmcesco Baldovini, il Metastasio ed il Rolli.[27]

L’approdo a Brera (1773) influì sulla sua concezione e sensibilità poetica. La sua cattedra era, infatti, posta al servizio delle arti figurative, ove ormai la tendenza impostasi era quella neoclassica, originata dalla letture che delle opere greche  aveva fatto  il Winckelmann.[28] Il contatto coll’ambiente più aggiornato dei colleghi architetti, pittori e scultori  smorzarono il suo evadere nel divertissement bernesco o nello sfogo epodico oraziano-ariostesco, per sollecitarlo verso la rifinitura stilistica delle Odi oraziane, cioè verso uno splendore espressivo sempre più esigente, aulico nel vocabolario, elegante nella sintassi e terso nella musicalità.

Da Mosco egli imita un epigramma, nel sonetto Deposta un giorno l’orrida facella. Da Anacreonte prende lo spunto per almeno quattro odi: Rondinella garruletta, Io –di Lidia il gran re- non mi rammento,  S’io mi credessi che con or la morte, Se di Bacco il liquor nel mio cervello[29]. Di Catullo egli traduce il carme “Multas per gentes et aequora vectus” nel sonetto “Per molte genti e molti mar condotto”. Impara il verso falecio (un endecasillabo risultante da un quinario sdrucciolo seguìto da uno piano), verso molto caro a Catullo, ma direttamente imitandolo dal Rolli, che già l’aveva introdotto nella poesia italiana: si legga O sonno placido, che con liev’orme.

Ma è Orazio che si rivelerà, alla distanza, il poeta più congeniale al Nostro, per la tendenza ad ospitare quasi un doppio livello di pensieri, oltre ad una diversa rifinitura dello stile: anche in Parini c’è posto sia per una materia più profana, espressa con uno stile più estemporaneo[30] (alle Satire ed Epistole del poeta Venosino corrispondono le prime composizioni, comprese molte delle odi pariniane), sia  per un pensiero più controllato ed una musicalità più levigata (alle Odi di Orazio corrispondono le più recenti fra quelle pariniane, come Alla Musa, Il pericolo, Il dono, Il messaggio, Brindisi, Sul vestire alla ghigliottina; e corrispondono i versi de Il Giorno, soprattutto quelli delle ultime due parti).

Più direttamente ispirate ad Orazio sono il XXXVIII sonetto (O del vetro più chiaro ameno fonte, traduzione dell’ode “O fons Bandusiae”); la canzone “Lucido esempio e guida, te Venusin, d’ogni poetc’arte...” (interrotta al v. 19); la lunga metafora del Vespro (vv. 285-98), per satireggiare la meschina malignità di due damine milanesi, amiche-nemiche fra loro); la estetica dell’aureo giusto mezzo tra il fine del diletto e quello dell’utilità morale (si  confronti il verso 343 nella “Epistola ad Pisone od Ars poetica” con i versi finali della Salubrità dell’aria e dell’Innesto del vaiuolo).[31]

Petrarca e i petrarchisti  del Millecinquecento incidono tanto su di lui, che Carducci ha definito il novizio Parini (quello di “Alcune poesie...”) come un “arcade arretrato al Cinquecento”. Il sonetto introduttivo di Ripano Eupilino è l’analogo preciso di quello che apre il canzoniere (“Voi che sparsi ascoltate in rozzi accenti”). Il sonetto, già visto, Al sonno contamina Catullo con il Della casa (O sonno placido, che con liev’orme: in versi faleci). Di nuovo l’eco del poeta di Laura si sente in vari sonetti d’amore, come  nel sesto (Spesso mi torna il dolce tempo a mente).

Il Millequattrocento è stato visitato dal Parini, che ha echi burchielleschi  (“O anima bizzarra del Burchiello”: n. 65) e del Pulci, ma soprattutto del Magnifico Lorenzo (Io, Nencia, sono stata ieri a Fiorenza: n. 63).

 Del Millecinquecento, petrachisti a parte, il poeta a lui più congeniale risulta Francesco Berni che, con Orazio, costituisce l’antidoto o la compensazione alla svenevolezza dell’Arcadia, ma anche l’ostacolo più sordo alla sublimazione della sua senibilità e del suo stile verso la eleganza del classicismo e verso la eterea  levigatezza del neoclassicismo. Ma, anche dopo l’approdo a Brera ed il contatto con  Appiani, Canova,  Piermarini, e magari con il Canonica ed il Maggiolini, egli mantiene  come hobby la sua musa scherzosa e satirica, magari in  dialetto milanese, linguaggio che egli difese contro il barnabita p. Onofrio Branda, in una famosa polemica del 1760 (un’altra   polemica, del 1756, aveva condotto contro Alessandro Bandiera, rigido purista e sostenitore dell’assoluta superiorità del toscano). La cosa migliore, a nostro parere, della imitazione bernesca è la Risoluzione di morire, nella quale egli supera addirittura il maestro. Degna di ricordo, in tale filone poetico, è la Pìstola (n. 91: elogio della pigrizia). Più scoperti nella loro caratura bernesca, ma inferiori al modello, sono tutti i sonetti pluricaudati : Molti somari ho scritto in una lista (n. 74), M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni (n.75); O monachine, questa fanciullina (n. 83) e Muse pitocche andatene a b....... (n. 85).

E l’Ariosto? E’ certo fra gli ispiratori della vena narrativo-didattica, con il suo fare confidenziale, ora più faceto ed ora più mordace. Se ne può sentire l’aura fraterna ne Le nozze Giuliani-Fiori, ne Lo studio e nella favola I ciarlatani...

In tal senso, egli ha presenti anche i poeti eroicomici del Milleseicento e settecento, dal Tassoni al Forteguerri (morto nel 1735 ed autore del “Ricciardetto”).

 E, sulla stessa linea, van ricordati i poeti “meneghini”, da Carlo Maria Maggi (1630-99) a Domenico Balestrieri (1714-1780), a Carlo Antonio Tanzi (1710-62: il “segretario perpetuo dei Trasformati). In morte del Balestrieri, scrive il sonetto Sta flutta milanesa on gran pezz fa. Compone “No che non eran mani: eran crivelli, in morte del caritatevole curato Ciocca. Canzona il mobile sentimento popolano, che piange sui morti della rivoluzione francese, salvo a mostrarsi molto interessate alle novità della moda che ne derivava nel sonetto “Madamm, g’hala quaj noeuva de Lion?, cioè “El magòn dij damm de Milan”. E, contro un prete che aveva canzonato i suoi concittadini di Bosisio, scrive “Scior curat de Pusian ne ridìi no”. Nelle composizioni dialettali, la satira non è allusiva, ma diretta; si sfoga senza il pudore dell’ironia, senza i riguardi dell’ambiguità: siamo sulla linea delle composizioni in lingua come Il teatro o La maschera, il sonetto contro il Casti e tutte le composizioni satirche che del volumetto Alcune poesie.... sono tanta parte (Contro un critico: 1° e 2°, Contro un baccalare, Contro i legulei, Contro un notaio truffatore, Contro non so quale guazzabuglio erudito, Contro la fortuna; Le furie d’Averno, Ciò che nasce nel lezzo...). Ad ispirare spregiudicatezza e realismo[32] nel giovane “Ripano” deve esser stato anche Dotti Bartolomeo (1649-1713), caustico al punto di subire il carcere nel 1692 a Venezia; e di morire pugnalato da un nemico che si vendicò col ferro delle sue parole.

L’Arcadia,  naturalmente  metastasian, non è poi molto presente nelle rime di Ripano Eupilino, anche se molte poesie propongono nomi di ninfe, tipiche della nomenclatura in voga (Amarilli, Fillide, Iole, Clori...), in corrispondenza d’amorosi sensi con pastori altrettanto tradizionali (Tirsi, Damone, Licida...). Si legga in particolare il sonetto n. 12 (Qual dolce spiritello entro le dita). Ma più tardi anch’egli approda alle inconfondibili canzonette, che gli riescono congeniali, tanto che ci sembrano inferiori solo a quelle del caposcuola e del Rolli. Sono una fusione felice fra galanteria e canzonatura, fra coinvolgimento malizioso e distacco critico, tra mondanità complice e scherzosità ironica (Canzonette per parafuoco| Scherzi per ventole e ventagli). Idillio affettivo e paesaggistico, elogio ammirativo e scherzosità sono anche presenti in La primavera, Per che mio cor, La sincerità, La indifferenza, Le nozze, Il brindisi.

Ma, se si comprende nella poesia arcadica tutta al produzione, contemporanea al poeta, che in qualche modo si collegava al movimento partito da Roma nel 1690, allora il debito del Parini diventa clamoroso. Si è calcolato che 8 dei 20 metri che egli usa nelle Odi sono già in C. Innocenzo Frugoni. E cadenze  di lui (oltre che di Ludovico Savioli) riecheggiano anche nel Giorno. Per l’endecasillabo sciolto, più che a Comante Eginetico (il nome arcadico del Frugoni), si rifece a Pier  Jacopo Martello, che lo aveva già  allenato, piegato, educato a tonalità satiriche per criticare, nel “Femia sentenziato”, i versi di Scipione Maffei.

Un altro poeta che fu amico ed ebbe influssi sul poetare del Parini fu l’abate Gian Carlo Passeroni, venuto dalla nativa Condamine (Nizza) a vivere e morire a Milano (1713-1803).  Come il poema “Cicerone” del Nizzardo è un continuo invito a divagazioni moraleggianti su avvenimenti  del tempo, così,  fra le altre “Poesie varie”, Parini compose un paio di novelle in versi, che sono divagazioni fantastiche, ma  con intenti educativi evidenti e talora dichiarati. La più lunga è intitolata I ciarlatani; la più breve è un sonetto caudato che inizia Il gatto andò alla casa del villano.[33]

I presupposti letterari del poema sono stati indagati con passione, in Italia ed all’estero.

Vi è un’opera inglese, “Il ricciolo rapito” (The rape of the lock)  di Alessandro Pope che, edita nel 1712, venne tradotta in italiano sia da Andrea Bonducci (1739) che da Antonio Conti (1721: la traduzione fu edita però solo nel 1751): mentre la prima è definita lavoro fiacco,  i versi del Conti  sono definiti “prepariniani”.[34] Comunque, nel suo lavoro, il Pope descrive già il “bel mondo” dell’alta società sofisticata (the smart set) e lo sottopone all’abrasione dell’ironia ed al cauterio della satira, in versi classicamente eleganti.

Anche Ludovico Savioli aveva dato esempio nelle 24 canzonette degli “Amori”[35] di una versificazione raffinata e levigatissima, occupandosi di dettagli della vita aristocratica che ritroveremo ne Il Giorno (la toilette, la passeggiata, le gelosie...): ma l’atteggiamento del poeta bolognese è galante, non ironico, complice, non ostile.

Giovanni Lorenzo Lucchesini (1638-1716), gesuita, aveva scritto versi latini “Contro le occupazioni mattutine di un giovane corrotto” (In antemeridianas improbi iuvenis curas). Tale lavoro offrì sicuramente il primo spunto specifico al poema pariniano: pressappoco come Il cavalier Perduto (di Pace Pasini) offrirà al Manzoni l’idea della vicenda centrale per i Promessi Sposi. Quello che manca negli “ascendenti” non è solo il diverso gradi di profondità nella indagine psicologica (che rende culturalmente significativo il lavoro), ma è soprattutto la partecipazione emozionale, che sola eleva le vicende materiali a poesia. Identica può essere “la langue” di partenza; abissalmente differente è “la parole” risultante.

Del “Femia sentenziato” (Pier Jacopo Martelli) si è già detto a proposito dell’endecasillabo pariniano: il Parini aveva intenzione di ristampare questo dialogo in versi contro Scipione Maffei, tanto gli erano piaciuti (ed aveva studiato) il ritmo ed il sentimento satirico di quei versi.

Nei Sermoni di C. Gozzi, alcuni dei quali stampati prima del 1760, aleggia qua e là lo spirito graffiante del Giorno: vi potrebbe esser stato una ispirazione o una conferma per l’atteggiamento ironico del poema.

A Roma Ludovico Sergardi (1660-1726) pubblicò il capitolo in terzine, intitolato “Conversazione delle dame di Roma”:  uscito con lo pseudonimo di Quintino Settano e impostato come un dialogo tra Pasquino e Marforio, può aver offerto spunti critici contro la nobiltà, mentre quelli contro il clero corrotto erano argomento inevitabile a Roma, ma non trasferibili a Milano.

Vi è infine Giulio Cesare Cordara, gesuita di Alessandria (1704-85).  Prima che si occupasse di storia, scrisse quattro sermoni latini “De tota graeculorum huius saeculi litteratura”, pubblicati a Lucca nel 1737 sotto lo pseudonimo di Lucio Settano. In essi  egli fa una allegra caricatura della erudizione grecizzante, della cultura enciclopedistica del suo secolo, attirandosi, come premio, la condanna di papa Clemente XII, che lo fece emarginare a Roma come storiografo della Compagnia di Gesù.[36] Parini ne trasse suggerimenti per episodi e personaggi precisi: i libri magnificamente rilegati e mai aperti e la rassegna di oziosi stravaganti come lo schioccatore di frusta, il guidatore di cavalli, i giocatori impenitenti, i vagheggini rimbambiti, che si leggono in azione nell’ultima parte del poema, La Notte.

Come si vede, non mancavano precursori al poema di Parini, ora però condiscendenti alle mode imperanti ora grezzamente critici di esse: il poeta brianzolo scelse la sua via, moderata nel tono, ma  inequivocabile nella condanna. Graffierà col guanto di velluto.

 

LA POESIA DEL PARINI

I MOTIVI ISPIRATORI

Già la sola produzione in versi del Parini è sufficiente a darci la chiave per leggerne il pensiero esistenziale, la concezione di vita, la sua Weltanschauung.  Tale prospettiva è poi confermata (almeno in alcuni aspetti) dalle prose. Non dobbiamo aspettarci da lui una panoramica filosofica completa: il suo interesse è concentrato sull’uomo,  meno esplicitamente sulle dimensioni propriamente religiose (origine, significato  dei suoi giorni tererni, destinazione dopo la morte), e più appassionatamente sulla vita morale, cioè sui doveri e diritti, sui mezzi per dare un senso alla esistenza e un approdo sicuro alla  salvezza. Il problema morale sembra proprio quello più sentito e più vibrato nell’opera complessiva del poeta: gli altri temi, a ben guardare, ne discendono  come corollari, a cominciare da quello vivissimo della uguaglianza fra tutti gli uomini, della difesa dei deboli e dei poveri, del ridimensionamento  dell’orgoglio e dei privilegi nobiliari.[37]   E’ connesso a quel primo, il tema “mondano o malizioso” che nel Parini ha la sua parte, rivelando il prevalere della sensibilità e la incoerenza  della prassi rispetto ai princìpi, in quell’uomo grande ma non sublime, ammirevole per molti comportamenti ma tutt’altro che perfetto.  Neppure la sua concezione della poesia e dell’arte è slegata dal problema morale, perchè la coniugazione fra bello e buono, fra utile e dilettevole, fra dimensione ludrica e funzione educativa della poesia è sempre presente nei suoi  versi.  Soccombenti (secondari) sono i motivi autobiografico e paesaggistico. Comunque, anche in essi si insinua la preoccupazione morale,  ora sotto forma di attenzione alla salute dell’uomo che è favorita meglio da un ambiente (campagnolo) che da un altro (cittadino); ora sotto forma di arguto ammiccamento al celibato che lo esclude dai problemi dello stato matrimoniale.

 

        Il motivo ispiratore morale.

E’ alla radice del capolavoro:  l’autore de Il Giorno, infatti, fingendosi “precettor d’amabil rito”, smaschera, umilia e svergogna  la “dolce vita” del secolo con i suoi protagonisti. In recto (cioè attraverso il significato immediato delle singole parole) insegna la “giovin signore” una condotta di vita oziosa, dissipata,  lussuriosa; lo esorta a perseverare nella  corruzione quasi sia l’ideale dell’umana natura: la fatica è indegna dell’uomo e solo i meno fortunati debbono dedicarsi al lavoro, alla milizia, al commercio ed agli studi. Ma il contesto delle parole, le allusioni dell’ammaestramento  rendono così equivoche le lodi, così obliqui gli elogi, gli incoraggiamente così ambigui e la complicità così insidiosa, che l’approvazione si rovescia in impietosa condanna, la celebrazione in pungente canzonatura, la collaborazione in sottile tradimento. Il finto amico e maestro del cicisbeo si rivela in realtà un giudice inesorabile che (ricitiamo Foscolo) “gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue”. Il “bel mondo”, lo “smart set” di una parte almeno dell’alta società, nobile o borghese che fosse, si dimostra vuota ed insensata, “distruttrice di sè e di sue cose”, rovinosa alla società ed agli stessi protagonisti. Quel mondo ripulito conduce una vita di perdigiorno; è smascherato come casa di bambola o cuorinfranto, teatro di burattini tra “vestiti che ballano”. La scena di questo “gran teatro del mundo”[38] si scopre frequentata da mascalzoni libertini in abito di velluto, da donnaccole adultere ingioiellate e profumate, da giramondo viziosi colle patacche sul viso dei loro peccati,  o da uomini semplicemente mancati, da eterni fanciulli, da oziosi rimbambiti: da gente che copre le proprie vergogne  dietro il paravento posticcio del danaro ereditato senza fatica.

Colla damina disponibile a prestazioni “di cui tacer più che parlare è bello” e col suo “cavalier servente” che la ripaga in pubblico del piacere goduto in privato, sono battuti in breccia i loro mandanti, cioè i veri precettori della rovinosa mentalità che incoraggia una tale condotta  disumana, scettica in campo religioso, cinica in sede morale: Orazio Flacco e Petronio arbitro (Il Mezzogiorno, 924-32), Boccaccio ed Ariosto, l’autore del libro Le Mille e una notte (recentemente tradotte in francese dal Galland), la coppia dei licenziosi narratori francesi Jean de La Fontaine e Claudio Prospero Crébillon figlio, la celebre prostituta  francese Ninon de Lenclos, ed anche il Montesquieu per “Les lettres persanes”.[39]

Più a monte stanno i loro maestri, specialmente Rousseau e Voltaire: di questi, in particolare, si ridimensiona il valore poetico e si  denuncia il malefico influsso sui giovani  della società dorata (Il Mattino, 668-98; Il Mezzogiorno, 933-46).[40]

E,  causa ed insieme effetto di una simile distorsione morale,  sta l’abbandono e il disprezzo della religione (Il Mezzogiorno, 707-20; e 957-971).[41]

Tale motivo ispiratore trova ne Il Giorno non solo  l’espressione più continuata, ma anche quella artisticamente più alta, nell’episodio della “vergine cuccia” (Il Mezzogiorno, 650-703) che, pur connotato di forti risvolti sociali, rimane però anzitutto  prova della indignazione morale per una società ove i valori sono capovolti e  l’attaccamento agli animali è maggiore della carità verso gli umani.

Ma il tema si rivela urgente anche in molte delle rimanenti composizioni, dalle Odi alle Poesie sparse.

Per le Odi, si veda L’Impostura, il cui soggetto è intimamente morale. Se la verità è il minimo della giustizia, come questa è il minimo della carità, allora la protesta di fedeltà al “nudo vero” nelle ultime due strofe[42] equivale al proposito di  elevare i valori morali al primo posto nella propria vita e ad una condanna per chi non si pone in una tale prospettiva. La musica si scaglia contro l’uso barbaro della evirazione; L’Educazione esplicita le esigenze  sia dell’adorazione verso Dio sia del controllo sulle passioni[43];  La Caduta respinge ogni invito alla vile adulazione e servilismo, richiamando, nell’età avanzata, lo stesso atteggiamento proclamato ne La Vita rustica[44]; A Silvia si erge contro “il vestire alla ghigliottina”, perchè moda istigatrice di crudeltà e lussuria, giungendo sino all’insulto  (“l’infamia| del secolo spietato”; “l’altre belle, stupide| di mente e di cuore”)[45]. Che tale finalità educativa sia  nel cuore del poetare tutto del sacerdote brianzolo, lo afferma lui stesso più di una volta, come si è già citato sia dalla seconda ode (La Salubrità dell’aria, str. 22) che dall’ultima (Alla Musa).[46]

Le Poesie varie riecheggiano il motivo morale, ora  posto a  tema centrale, ora  acecnnato con osservazioni marginali. Lo Studio denuncia l’ignoranza e la pigrizia che rendono rari gli studiosi. I Ciarlatani tenta offrire un rimedio contro  la falsità di programmi e ricette  di ogni specie (chi promette troppo è in cattiva fede: è un ciarlatano!). Il Teatro potrebbe venir intitolato “gli spropositi del carnevale”: e bastidi Spagna (1759-1788). Sopra la guerra è una deprecazione della guerra aggressiva, pur nell’elogio a coloro che “le vite sul periglioso vallo| offron e fan de’ petti ignudi| illustre scudo a i timidi penati” (nel caso, che ha dato occasione a questi endecasillabi sciolti, l’aggressore è Federico II, nella guerra dal 1756 al 1763, detta “dei sette anni”). Ne Il Piacere e la virtù viene  auspicata una morale eudemonistica, che veda congiunti i due valori di virtù e piacere, solitamente opposti nella  tradizione etica (“Vada in bando ogni tormento!| Ecco riede il secol d’oro;| a scherzar tornan fra loro| Innocenza e Libertà.||La Virtù non move guerra| a i diletti onesti e belli:| colà in ciel nacquer gemelli| il Piacere e la Virtù...”). I versi contro G. B. Casti  (“Un prete brutto,vecchio e puzzolente”) protestano contro l’abate licenzioso e contro il fatto ancor più allarmante che egli venga corteggiato da sovrani e prìncipi.  Il sonetto dialettale “Madamm, gh’ala quaj noeuva de Lion?” condanna la leggerezza delle dame milanesi, che  considerano delitti  tanto  i massacri  del 1793 in Francia che la proclamazione della uguaglianza di tutti i cittadini; e che son disposte ad obliare tutta la tragedia della rivoluzione per il fascino delle confezioni alla moda venute, anch’esse, da Parigi.  Contro la disonestà di amministratori, di avvocati e di notai si scaglia con i tre soentti “Crispin non avea pan tre giorni è oggi| “In man d’essecutori e di notai”| “Da un tal che pare una mummia d’Egitto”.

Con il sonetto “Endecasillabi, voi non diletti”(in  versi faleci) si entra  nel gran pelago della sessualità e dei suoi abusi, una materia ardua ed ambigua in mano al Parini: ce ne occuperemo a proposito del terzo dei suoi motivi ispiratori fondamentali, la Mondanità.

Della vita morale la religione rappresenta , nella concreta situazione dell’uomo storico, contemporaneamente la radice e la la vetta: Parini lo sa come cristiano, anche se lo sente  meno come uomo e, di conseguenza, lo esprime poco come poeta. Tuttavia non mancano accenni alla sua fede sia genericamente religiosa, sia specificamente cristiana, sia particolarmente cattolica. E’ il motivo ispiratore che esamineremo per ultimo, soffermandoci però tutto lo spazio che basti ad illuminarci esaurientemente sull’atteggiamento  praticamente centrale in ogni cultura, fondamentale per ogni  concezione dell’uomo e della vita e tanto più importante per un ecclesiastico, come fu il Parini. 

 

        Il motivo ispiratore sociale

Che il motivo sociale occupi una notevole importanza nella vita e nella poesia del Parini non si può negare, ma la sua secondarietà e subordinazione affiora anche nei punti più socialmente impegnati della sua produzione poetica.

 Si prendano i versi 33-100 de Il Mattino, dove si mette a confronto il levarsi, al primo albeggiare, del contadino laborioso, per fustigare indirettamente ma impietosamente il risveglio del giovin fannullone, a mattino inoltrato. Ebbene, tale brano, socialmente connotato, non è isolato, ma fa parte dell’ouverture ironico-satirica su tutta la vita insensata e corrotta del giovin signore: di tale costume disonesto, il “precettor d’amabil rito” sottolinea prima la vita sessualmente ed economicamente sbrigliata,  la viltà di fronte al dovere di  difendere la patria, la indolenza nel sottrarsi alla fatica dello studio (id., vv. 16-30).

Nei vv. 255-60, si oppone la ipocrisia del nobile sfaticato che  si circonda di molti maestri, ma non ne ricava nè  istruzione nè educazione, alla ingenuità del povero volgo, che   scambia la insolente sicumera del nobile possidente con la sapienza  e la cultura. Tema, questo, indubbiamente sociale: ma, in precedenza, il poeta ha infierito contro la crudeltà dei “conquistadores”  europei che procurano la cioccolata ed il caffè ai benestanti occidentali, a costo di far perire masse di amerindi coi lavori forzati (vv. 144-57); ed ha sbeffeggiato l’ozio del suo discepolo (244)  e la sua incoscienza nel considerare il pudore e la modestia quasi una ipocrisia che peggiora i vizi. (237).

D’altronde il Parini non disprezza i ricchi in quantro tali: sono ammirati e lodati gli antenati laboriosi del giovin signore, che hanno accumulato il danaro che egli sta adesso allegramente dilapidando (id., 158-85; Il Mezzogiorno, vv. 612-24).

Certo “la favola del piacere” ha una spiccata   dimensione sociologica: tutta la gran superiorità  del nobile sul plebeo consisterebbe  nella accresciuta potenza di facoltà animali, la sensibilità del gusto, del tatto: i vv. 255-347 de Il Mezzogiorno completano, irridendo ulteriormente, il tema della vanità dei titoli nobiliari,  presente nella prosa “Dialogo sopra la nobiltà” del 1757.  Ma, affine a questa favola, ne Il Mattino (vv. 330-403), viene narrata quella di Amore e Imene, con la quale il tema del piacere perde ogni prospettiva sociale: la ironia si esercita soltanto sulla incoscienza morale, troppo facilmente  presupposta dal fenomeno del cicisbeismo, che era un paravento per rapporti erotici extramatrimoniali; o che, nel più ingenuo dei casi, era un  esercizio illecito di sentimenti , aventi un senso razionale solo in funzione od all’interno del matrimonio.

Nell’episodio della “vergine cuccia” (Il Mezzogiorno, 644-703) si impone ancora la componente sociale, che vuol commiserare il povero servo, due volte tiranneggiato (dal cane che lo morde e dalla padrona   che lo licenzia); ma è ben viva anche la intenzione morale che vuol  sferzare la  perversione della damina (svenuta per le disavventure del proprio cagnolino, pur giustamente punito perchè colpevole; ma insensibile al dolore del servo innocente, ridotto alla miseria). Anzi, l’innesco  al ricordo patetico della nobildonna è del tutto etico: chi desta il ricordo nella patetica padrona è, infatti, la dissennatezza del vegetariano che rifiuta di mangiare carne, perchè stima|ama gli animali  almeno quanto gli uomini (“Pera colui che primo osò la mano| armata alzar sull’innocente agnella| o sul placido bue...”).  Ironizzando su di lui, Parini difende qui la finalizzazione ontologica  degli animali all’uomo, che  si traduce nella legge morale della liceità|dovere di nutrirsi anche della loro carne, quale componente del cibo necessario al completo sostentamento della natura umana. Il bersaglio vero di tutto l’episodio è, quindi, il disorientamento etico di tutti i partecipanti ad una certa interpretazione della vita, che ha perso la sinderesi, cioè la capacità di distinguere il bene dal male: la ingiustizia sociale non ne è che un corollario.

La conclusione potrebbe venire anche dalle altre due favole presenti nel poema, quella  del “Tric-e-trac” (Mezzogiorno, 1109-1179) e quella del “canapè” (Notte, 275-348): ivi si torna a satireggiare  una società corrotta dall’erotismo, dalla vanità  e dall’ozio.

Ma, ancor più che l’espressione letteraria, è la condotta pratica del poeta ad esorcizzare il primato dell’intenzione sociologica nel suo giudizio concreto. Il Giorno veniva scritto mentre l’autore frequentava quietamente quella società affluente, che egli sferzava nei versi. Ora nè il Parini nè la nobiltà milanese erano così goffamente ingenui od autolesionisti da sopportarsi a vicenda , se non fosse stato appurato che Parini intendeva colpire non la classe abbiente come tale, ma l’ozio ed il libertinaggio di quella sua parte che era degenrata. Egli  trovava i suoi amici proprio fra la nobiltà e la borghesia più ricca di Milano, al punto che anche con casa Serbelloni mantenne rapporti amichevoli anche dopo la sua partenza da essa: e sia pure per motivi filantropici e sociali. Egli non era così cieco da non accorgersi che proprio da quella casta, da quanti in essa si dedicavano agli studi od alla carriera amministrativa o politica veniva gran parte di quelle riforme che egli condivideva: Il “giovin signore” era un lato della medaglia e non voleva certo  rispecchiarvi i colleghi dell’accademia dei Trasformati e neppure gli antagoniosti di quella dei Pugni.

E c’è dell’altro, che non fa onore al Parini e ne offusca il suo pur vivo amore per i poveri. Egli disprezza, in sintonia colla mentalità illuministica, il volgo! Egli esprime più volte platealmente  il distacco e disgusto per tale ceto, che certamente non si identifica  unicamente con la povera gente, ma la comprende per la  forza originaria del vocabolo e per la componente di ignoranza che indubbiamente esso richiama e che non poteva mancare nella classe dei poveri, troppo spesso anche analfabeti. A  confermare questo senso  elitario e, perciò, in contrasto colla simpatia testimoniata altrove alla gente  incolta ma sana dei campi,  sta  anche lo scatto di orgoglio che accompagna, nell’inurbato pusianese, le proteste di disdegno verso un mondo troppo lontano dal suo grado di cultura. Benchè cristiano e prete, egli non pensa umilmente di sè. Perciò “alto disdegna il vile| volgo maligno” (Alla Musa, str. 25); non cura lo “sciocco vulgo” che mormora della sua affezione verso le inclite Nici, nonostante i quasi tredici lustri di età (Il Messaggio, str. 14) e  si arrocca dietro un “Lungi, o profani” , che risente troppo del “odi profanum vulgus et arceo” del poeta pagano Orazio (La Gratitudine, str. 32: il verso famoso di Orazio è il primo di Odi, III, 1). D’altronde un simile orgoglio era già nel giovanile sonetto “Io son nato in Parnaso, e l’alme suore” (Rime di Ripano Eupilino, LIV): il poeta si stacca, spirito privilegiato che, come “italo cigno” (Alla Musa, str. 25), vola sovra gli altri, sciocchi e invidiosi  (Rime, LIV, vv. 8-9). I versi conclusivi del poemetto (La Notte, 804-16) esprimono coscienza della novità proprio stile poetico: e fin qui ne aveva motivo. Ma la espressione diventa poi eccessiva (“ch’io colsi | ne’ recessi di Pindo e che giammai| da poetica man tocchi non furo”), quasi nessun altro poeta sia mai giunto alla sua finezza od altezza lirica.

Questo non toglie che Parini, “non nato a percotere| le dure illustri porte” (La vita rustica, str. 4)  tenda ad una interpretazione più morale che sociale del termine “volgo”: al volgo appartengono quei candidati sponsor, che aspettano fama dai versi del poeta da loro pagato (La laurea, str. 2: “ Tal io la copia che de i versi accolgo| entro la mente, sordo| niego a le brame dispensar del volgo| che vien di fama ingordo. In van l’uomo che splende| di beata ricchezza, in van mi tenta| sì che il bel suono de le lodi ei senta| che dolce al cor discende:| e in van de’ grandi la potenza e l’ombra| di facili speranze il sen m’ingombra”).

La caduta unisce al rifiuto di intrupparsi fra  la turba parassita dei clienti, che strisciano ed adulano  i ricchi per averne  sovvenzioni, lo sdegno per il soccorrevole popolano che gli consiglia invece proprio di adattarsi ad abbracciar “le porte| de gl’imi che comandano a i potenti”. Così l’ultima strofa proclama iraconda “ho il consiglio a dispetto”, dopo aver sentenziato  “umano sei, non giusto” (str. 21).  Decisamente, anche il vocabolo “volgo” designa  la massa dei rozzi e diseducati, dei corrotti ed egoisti: non importa che siano ricchi o poveri, ignoranti o colti, potenti od insignificanti. Ed è proprio la finale dell’ode Alla musa a confermarcelo: la eccessiva coscienza di sè  non fa dimenticare al Parini il dovere di essere “ai buoni amico” e di considerare “volgo” i vili ed i maligni (Alla Musa, str. 25).

In conclusione, se infelice, perchè equivoca, è la scelta della parola “volgo”, che  non dissolve del tutto il sospetto che egli condivida l’illuministico disprezzo per la massa ignorante, tuttavia la concreta declinazione del significato del termine, lascia ben poco spazio alla sociologia: il primato della moralità riprende, nelle specificazioni concrete, il sopravvento. Ma se un significato sociale c’è, esso è antiegualitario, antipopolare: è di una sociologia rovesciata, perchè  esalta le differenze ed i privilegi congeniti. [47]

Ma escluderne il primato, non significa negare la importanza della ispirazione sociale nella coscienza e nella poesia del Parini. Eccone alcuni capisaldi.

Egli proclama,come si è visto più volte, la uguaglianza di tutti gli uomini, nobili e plebei: nel Dialogo sopra la nobiltà, nella favola del piacere (Il Mezzogiorno, 255-347) e nella conversazione a tavola (id., 982-1009). Naturalmente la pretesa differenziazione fra le classi sociali in base alla maggior sensibilità (animale) al piacere, insinuata dalla favola, è forma di ironia che riafferma la uguaglianza,  gettando il ridicolo su quella che sarebbe la diversificazione radicale.

Esprime simpatia  per il popolo povero, semplice e fedele ai sentimenti dell’amore coniugale e della paternità (Il Mattino, 33-6; cfr. A Silvia, sstr. 26-7); laborioso ed utile la genere umano (ib. e Il Vespro, 13-24).

Condanna quanti nella classe abbiente, tiranneggiano la plebe indifesa: il servo  messo in strada per la pedata alla vergine cuccia (Il Mezzogiorno, 657-703); il cocchiere oberato dagli orari capricciosi  dei padroni (Il Mattino, 1049-54; La Notte, 117-120); i lavoratori esclusi dalla fruizione dei prodotti del suo stesso lavoro (Il Mezzogiorno, 340-3); l’uomo della strada stritolato dai cocchi in corsa (Il Mattino, 1227-1236).

Vi è poi la incertezza, nella coscienza del poeta, di fronte alla borghesia faccendiera, commerciante od agricola, non importa. Da una parte, essa è certo migliore e preferibile che non la loro discendenza prodiga, dissipatrice e gaudente (i cavalieri serventi e le dame corteggiate); ma, dall’altra, essa lascia il sospetto nell’abate brianzolo che l’onta per i guadagni  abusivi pareggi e superi il merito per le fatiche ed i rischi delle loro utile attività (Il Mattino, 158-85: creditori e castaldi in udienza dal giovin signore; id. 713-40: lo spacciatore di presunte merci straniere; id. 1175-1220: gli antenati operosi e benefici). Persino il soldato ed il comandante di guerra  serve ad umiliare il rammollito protagonista  del poemetto (Il Mattino, 116-24; 850-65).

Dalle poesie minori e dalle prose vengono nuovi particolari, che non testimoniano solo della filantropia, ma anche di un umanesimo cristiano nel Parini. Elogia le innovazioni mediche (L’innesto del vaiuolo), la promozione della donna (La laurea), la considerazione della miseria come attenuante nel giudicare su furti e malefatte di povera gente e l’esigenza delle prevenzioni pertinenti (Il bisogno). Viceversa condanna la prassi della evirazione, nonostante “ vantaggi estetici” per   la messa in scena di voci bianche nelle opere musicali (La musica); e protesta contro le condizioni antiigieniche della città di Milano (La salubrità dell’aria). C’è, insomma, in lui quell’adesione spontanea ed equilibrata a quanto costituisce un vero progresso e sociale e medico e culturale del popolo.[48]

Nessuna eco del Vangelo è rintracciabile nella filantropia del Parini? Beh! non ci sono molti indizi, ma non ne mancano del tutto. Della sua  fede religiosa avremo modo di riparlare, ma qui si  debbono ricordare sia il suo Discorso sopra la carità (1767), sia i due sonetti  che esaltano il soccorso, ai poveri in genere ed ai ragazzi abbandonati in specie,  di S. Gerolamo (E)Mi(li)ani.[49] E  gli eruditi citano un altro particolare. Già il vescovo François Fénélon, nel 1712, aveva scritto i “Dialogues des morts” che, pur trattando della vita di vari personaggi storici,  proponeva le idee di uguaglianza, riprese poi  dal Parini (e sì che il Fénélon era un nobile: il suo nome completo era Frnçois de  Salignac de la Mothe Fénélon). Il Fénélon è scrittore classico ma non mordace; egli è un moralista convinto e cristiano. Ebbene, il Parini,  immette bensì nel suo “Dialogo sopra la nobiltà”   ironia disinvolta e allegra sicurezza di sè, però conclude con la ritrovata amicizia tra povera gente e classe nobiliare, conducendo al riconoscimento dell’uguaglianza il ricco defunto: egli, cioè, conserva un’apertura caritatevole che esclude ogni odio o volontà di rivalsa. Non è arbitrario pensare all’influsso, per tale spirito conciliante, del Fénélon. Se si ricorda, infine, che il Parini, attraverso il  prete della sua parrocchia fece dono ai poveri degli emolumenti presi dalla municipalità repubblicana di Milano per i tre mesi di servizio, non si può escludere una almeno implicita ispirazione cristiana all’umanesimo sociale del poeta.[50]

 

        Il motivo ispiratore mondano

Non è facile documentare la presenza della suggestione esercitata sul poeta da quel mondo che egli andava condannando attraverso la sua più solita ironia  od una più rara ma più mordente satira. Eppure, qua e là ci si accorge, nei più che 3753 versi del poemetto, che la bellezza femminile, il lusso elegante, i  mobili artistici, la comoda affluenza non lasciano indifferente il critico scrittore, che ne subisce, inconsapevole, il fascino. E’ stato forse il Manzoni (più coerentemente cristiano e più profondamente democratico) il primo a denunciare tale contraddizione del Parini, notando come il poeta criticava un ambiente da cui non sapeva staccarsi, di cui non riusciva a fare a meno. Fra i passi più suggestivi, nei quali si lascia sospettare l’ammirazione e nostalgia del poeta per un mondo di   raffinatezza e galanteria, di splendidi vestiti e di sontuose dimore, si possono rileggere i seguenti:

Il Mattino, 65-76 (ritorno dalle veglie notturne), 80-4 (bottiglie di vini pregiati), 101-5 (campanello, imposte ambate), 195-200 (maestro di violino), 510-21 (boccette di profumo, penne di cigno, ciprie della toilette), 537-76 (pettinatura e profumi), 648-58 (libri variamente rilegati ed ornati), 868-1041 (vesti, ciondoli, specchi, monili...);[51]

Ne Il Mezzogiorno, si possono isolare questi passi: 344-7 (“Ecco splende il gran desco...”), 657-69 (le lagrimette della dama e i capricci mordaci della cagnetta), 1143-79 (il gioco del tric-e-trac e la congiura della moglie infedele coll’amante);

per Il Vespro,  abbiamo un solo passo da segnalare (i vv. 36-50, in cui il cavaliere, finito il pranzo, aiuta la dama a rilisciarsi prima di uscire in cocchio);

ne La Notte, i passi ritornano numerosi: 47-59 (“Stupefatta è la notte...”: luci notturne, cornici, cristalli, specchiere, pareti adorne, vestimenti rari...), 244-309 (descrizione dell’ “aula superba” che “sta riservata per voi, prole dei numi”: il fascino complice cede luogo all’ironia, quando il canapè si rivela strumento di amori clandestini e viene  riservato, ad evitare il peggio, alle vecchie dame), 765-804 (arrivo dei gelati e “liturgia” ultima del cicisbeo attorno alla sua dama, perchè non se ne macchi il seno).

Questi passaggi (ed altri eventualmente rintracciabili) assomigliano troppo alla distesa ed univoca descrizione di bellezze femminili, di ambienti nuziali o comunque affascinanti, presenti  in altri versi del poeta e già segnalati.[52]

 

        L’autobiografismo

Già l’argomento della “mondanità” ha richiamato la vita interiore del Parini, come è riflessa nei suoi versi: il che è già una forma almeno implicita di autobiografismo. Ma questo motivo ispiratore è talmente presente –esplicito-  nel  Giorno, che qualche critico ha preteso di vedere nel pedagogo-fustigatore il vero protagonista della vicenda. E’ troppo, sebbene non si possa negare che come duplice è il tono lirico del poemetto (idillico e pungente, galante ed ironico), così è possibile sdoppiare il personaggio centrale:  il giovin signore e la sua damina sono protagonisti là dove il motivo mondano prevale; dove invece signoreggia la ironia o la satira, il precettore balza al proscenio. Il poeta risulta quasi il filo d’argento in una filigrana che ha per canapo pincipale l’aurea insignificanza della coppia insulsa ed insolente.

Il pronome di prima persona (io|me) ritorna frequente ad incaranare nella forma più ovvia l’autobiografismo: Mattino, 7 (“me, precettor d’amabil rito, ascolta”), 11 (“or io t’insegnerò”). Numerosi gli aggettivi possessivi  “mio|nostro” (Mattino, 15: “pur di tender l’orecchio ai versi miei”; Mezzogiorno, 70: “e a te, signor, sua dolce cura e nostra”). Come la sua ironia, egli si insinua ( e si ritrae) subdolo e sornione, discreto e pungente, gentile ed infido. Il poeta è presente quasi come l’ombra di Banco a Macbeth, come residuo della coscienza morale, fumigante ma non del tutto spenta, nel cavaliere e nella dama. Come nel dramma “L’uomo allo specchio”, così anche nel poemetto si ha una separazione, magicamente operata dall’arte, tra l’uomo e la sua coscienza: dopo tale operazione psicologica, rimane in  primo piano la coppia cicisbeica e, sullo sfondo, l’ombra della loro coscienza, incarnata nel Pedagogo, sorridente e trafiggente, amabile e sogghignante. La loro è una coscienza conculcata, ma non soffocata, inibita ma non  soppressa,  fievole ma non spenta. Il “super-io” (personale o sociale, non importa)[53] continua a vivere ed operare nel poeta-precettore il quale, pur contaminato dall’ambiente e coinvolto talora nella frivolezza affascinante del bel mondo, compie la sua missione, sia pure con più amarezza che misericordia, con più intelligenza che cuore.  Nonostante i compromessi coi quali lui pure si è bruciate le ali, sicchè la sua pedagogia non ha più lo slancio di un’aquila, tuttavia egli vola abbastanza alto sull’aia di questi animali da cortile, da poterne denunciare l’agra compromissione dei valori morali, al di sotto della dolce vita, dell’elegante libertinaggio: pure il poeta è colpevole, ma per  confusione intellettuale e debolezza volitiva; egli pecca occasionalmente, al minuto; i cicisbei sono  programmaticamente immersi nella colpa, che organizzano e praticano all’ingrosso. Guai alla società italiana del Millesettecento se non avesse avuto voci più limpide e potenti di quella del Parini per guidarla sulla via della verità religiosa senza  ombra di dubbi e sulla strada del bene senza residui di debolezze: di tali galantuomini integerrimi ce ne furono, sia nelle file del clero che in quelle del laicato. Ma in sede di letteratura, la voce più forte che si sia levata è quella dell’abate brianzolo e quanto, tale voce, perde di penetrazione per la dissonanza con la condotta pratica dell’uomo, tanto forse riacquista di efficacia per il fascino  estetico e lo splendore  stilistico.

Di “io”, di “me” e di “mio” ne ritroveremo in maggior copia nelle altre poesie (“di Ripano” e “sparse”), che, in gran parte, sono composizioni “tecnicamente” liriche, cioè che hanno come protagonista il poeta stesso e la sua vita sentimentale.  Nel sonetto petrarchesco di introduzione ad  Alcune poesie di R. E.”  troviamo la “donna mia”; nel sesto,“Io le narravo dolorosamente”; nel  39 “Manzon, s’io vedrò mai l’empio flagello”, nel 44 “Col guardo i’ vo su per l’aereo calle”[54]..  Tra le  composizioni satiriche troviamo “Molti somari ho scritto in una lista...|Or questa lista io dotti, o nume che in Parnaso imperi” (74: Contro i poetastri); “M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni” (75); “O Sfregia, o Sfregia mio”. Se nel sonetto 54 Ripano esce in questa orgogliosa autoesaltazione “Io son nato in Parnaso e l’alme suore| tutte furon presenti al nascer mio”; e ne “Lo studio” egli confessa di applicarsi alle fatiche poetiche “ per acquistarmi anch’io nome di vate”,  perchè “la fama io veggo volar dagli arimaspi (regioni nordiche) ai liti rubri”, nella “Pìstola” si riscatta con l’autoironia “Oh, oh vedete s’i’ son pronto a scrivere” (sulla propria pigrizia). I versi rivelano anche i momenti di miseria e bisogno (Al canonico Agudio: “Io rimasi ieri sera muto| per la vergogna di dovervi dire| il triste stato in cui son caduto...”); rivelano amicizie eccelsiastiche, limpide e rasserenanti, come per Gian Carlo Passeroni (“O meco in fin dagli anni miei più verdi”: endecasillabi sciolti non finiti) oppure femminili, compromettenti e sconcertanti (“Amabile Teresa, a cui ragiono”: sciolti non finiti su La bellezza del creato). A quest’ultimo proposito dovremmo rivisitare le poesie sparse, già esaminate nello studio sull’Ambiente, per la condotta sessuale del Parini.

Ma veniamo alle Odi. La fierezza dell’orgoglio (stavolta espressione di dignità ammirevole) si rivela nei vv. 25-8 de La vita rustica (“Me non nato a percotere| le dure illustri porte....”). L’amore per la campagna e la nostalgia per il paesaggio di  Bosisio si esprimeno ne La salubrità dell’aria: “Oh beato terreno| del vago Eupili mio,| ecco alfin nel tuo seno| m’accogli e del natio| aere mi circondi| e il petto avido inondi!”. I versi contro La Impostura sono recitati in prima persona, dapprima come finto cultore della prava divinità (“Io nel tempio almo a te sacro| vo tenton per l’aria oscura| e al tuo  santo simulacro| cui gran folla urta di gente,| già mi prostro umilemente”); poi, come seguace sincero della amata Verità (Ma qual arde amabil lume?| Ah! ti veggio ancor lontano, Verità, mio solo nume,| che m’accenni con la mano| e m’inviti al latte schietto| ch’ognor bevvi al tuo bel petto”. L’educazione continua l’arte del precettore (è del 1764, un anno dopo l’uscita de Il  Mattino), ma senza sottintesi ironico-satirici: all’undicenne Carlo Imbonati il poeta dice: “ Vorrei di geniali| doni gran pregio offrirti...| Deh per che non somiglio| al tessalo maestro| che di Tetide il figlio| guidò sul cammin destro?”.

 La musica inizia con sprezzante fierezza (“Aborro sulla scena| un canoro elefante”). La laurea si esprime, nella seconda e terza strofa, sullo stesso tono: “tal io la copia  che de i miei versi accolgo| entro la mente, sordo| niego alle brame dispensar del volgo| che vien di fama ingordo...|| Ma quando poi sopra il cammin de i buoni| mi comparisce innanti| alma che, ornata de’ suoi propri doni,| merta l’onor de’ canti|... io ne rendo al valor debito omaggio”.

Il Brindisi canta la nostalgia del suo passato (anche di peccatore) e la saggezza del presente, che fruisce in pace della luce che è pur nella lucerna dell’età matura e che conforta ad attendere serenamente il tramonto.

La recita dei versi ritorna alla sprezzante  fierezza per giustificare il rifiuto di un brindisi al convito della marchesa Paola Castiglioni Litta: “non toccherò già corda| ove la turba di sue ciance assorda”.

Da tale orgoglio (rispettabile finchè nasce dall’amore per la verità e la giustizia, anche se talora manca di misura e quasi sempre di carità: questa vorrebbe più comprensione per il comportamento delle masse, spesso più disorientate che colpevoli, di fronte alle mode seguite dai più ed alla soggezione  verso i potenti) nasce ancora una espressione famosa, ne La caduta (“Ho il consiglio a dispetto”), degna di divenire il titolo di un sonetto del Carducci (Rime nuove, 19).

Il contenuto autobiografico de Il pericolo, Il dono, Il messaggio, La gratitudine è evidente: ed è autobiografismo  riconoscente per la condiscendenza del card. Angelo Maria Durini; di affettuosità anche sessuale per le protagoniste delle altre tre odi.

Alla Musa, celebrando la felicitià coniugale del giovane Febo D’Adda, il poeta non solo ricorda e celebra un suo discepolo ed il comune amore per la poesia, ma si firma in chiusura con il non umile arpeggio “Parini, italo cigno,| che, ai buoni amico alto disdegna il vile| volgo maligno.”

Questa carrellata sull’autobiografismo nelle composizioni in versi conferma quanto si era già venuto a sapere attraverso le lettere o le testimonianze dei contemporanei: nel Parini vi fu amore per la verità ed il bene , ma non sino al punto di evitare occasionalmente la incoerenza dell’orgoglio e dell’erotismo; vi fu un notevole senso di dignità, ma non fino al traguardo di vivere conformemente alla propria scelta celibataria; vi fu ababstanza sincerità, ma non fino  coscienza dei propri limiti filosofici e morali, come invece vi era  la consapevolezza del proprio carisma poetico; vi fu interesse per i poveri ed analfabeti, ma non fino al segno di sentirsi a loro sostanzialmente uguale ed amarli come fratelli. Vogliamo una formula sintetica? Fu abbastanza distinto per dover venir giudicato un gentiluomo dagli intellettuali  non credenti; non abbastanza grande per poter essere considerato un galantuomo dal popolo cristiano.

 

        Paesaggio e natura

Ne Il Giorno, che pure si dipana tutto in città, il Parini riesce, per contrasto, ad introdurre qualche squarcio di panorama campestre o di vita contadina. Si veda Il Mattino, 33-45 (“Sorge il mattino... a render lieti| gli animali e le piante e i campi e l’onde.| Allora il buon villan sorge dal caro| letto...”); Il Mezzogiorno, 295-302 (descrizione del temporale, presente nella favola del piacere), 423-30 (lo spavento della contadinella di fronte al serpente), 660-4 (la vite gemente a primavera) e 1002-9 (l’ape che sa scegliere il dolce dai fiori per elaborarne il miele); Il Vespro, 329-36 (grilli, rane, stelle cadenti e fuochi fatui nella campagna estiva) e 494-510 (scende la notte a confondere gli aspetti degli uomini e delle cose); La Notte, 4-28 (l’ouverture dell’ultima parte ha anche accenni alle tenebre della campagna e dei cimiteri, oltre a rimandi astronomici).

Tra le Odi, il tema predomina nelle prime due (La vita rustica| La salubrità dell’aria).

In Alcune poesie di Ripano Eupilino, si vedano in particolare i numeri 15, 16, 28, 29, 30, 44.

Tra le Poesie varie, si vedane le terzine de La vita campestre, gli sciolti di Filli, i sonetti “Virtù donasti al sol...” e “Le fresche ombre tranquille, i colli ameni” e la canzonetta “La primavera”.

E’ facile accorgersi che il motivo paesaggistico non è tanto, nel Parini, frutto dello spirito arcadico dominante, ma nota sincera e personalissima, originata dal contrasto “ecologico” fra campagna e città. Quella era collegata coi ricordi della infanzia spensierata e serena a Pusiano, dove gli affetti domestici e la moralità di vita di un popolo intero ricuperava e surclassava gli splendori e gli artifici della città, corrotta e sofisticata. Ma c’era proprio anche il ricordo e la  nostalgia della salubrità dell’aria, della sanità del lavoro  nei campi, della amenità dei paesaggi variati fra pianure, laghi, colline, monti che rendevano tanto più fastidiosa la piattezza uniforme, con la nebbia ed altre sozzure, della megalopoli lombarda.

 

        Il motivo religioso, cristiano, cattolico

Statisticamente e logicamente (anche se non necessariamente in ogni caso), la fede religiosa è la sorgente delle convinzioni morali dell’intelligenza, come la pratica religiosa è il segreto della integrità morale nella vita operativa.[55] 

 Ma una tale coscienza non era esplicita nel Parini, che quindi relega la religione in momenti marginali del suo poetare. Tanto meno egli presenta una adesione sempre  esplicita a tutti e tre i parametri della  visione classica, nel mondo italiano, della religione, cioè  la fede in Dio, in Cristo Signore, nella Chiesa cattolica.

Che egli sia stato sempre credente in Dio, creatore e giudice finale dell’uomo (e, di conseguenza, anche nella immortalità dell’anima) è esplicitamente riscontrabile anche nei suoi versi. Quando si passa alle ulteriori componenti della religione cristiano-cattolica, allora le certezze espresse negli scritti si fanno minori. Non è facile trovare in lui testimonianze  circa le due componenti diacroniche o storiche (peccato originale e redenzione di Cristo) che distinguono il cristianesimo dalla religione naturale. Ed ancor più confuso diventa il suo atteggiamento di fronte al “fenomeno” Chiesa, cioè nei confronti della dimensione sincronica o spazio-sociale della organizzazione religiosa.

Se volessimo rimanere al di fuori dei suoi scritti, potremmo risolvere il tutto  con sostanziale positività, ricordando essere tradizione che egli celebrasse Messa  nella chiesa di S. Maria segreta ed era anzi esigente che  gli ecclesiastici portassero sempre un segno del loro stato (veste talare o colletto a girocollo).[56]

Ma stiamo invece ai suoi versi ed alle sue prose.

 

Circa la fede in Dio, teisticamente inteso come provvidente (e non, “deisticamente”, estraneo alla vita umana)  si possono avanzare obiezioni discutibili, mentre esistono testimonianze decisive. Le obiezioni vengono soprattutto dal silenzio o da espressioni ambigue. Nel Dialogo sopra la nobiltà sorprende la reticenza circa l’anima immortale, perchè si tratta di un dialogo tra morti steso da un prete. Ma quel “prete” parlava in un circolo di gente colta (i Trasformati),  dove non era previsto la trattativa di argomenti religiosi, che erano dati per conosciuti, visto lo statuto ufficiale rivestito ancora dalla fede cattolica nella società del tempo, in Milano. In parole povere: per sentire certe trattazioni, c’erano la chiese coi loro cicli di predicazione, specie in Quaresima.  Pure, nella parte finale de Il Messaggio troviamo la espressione “Ma io forse già polvere| che senso altro non serba...”, che fa da parallelo a quella presente In morte di Antonio Sacchini “ del cener tuo per sempre muto”. Ebbene, simili frasi possono essere puri riecheggiamenti di versi classici (Catullo: carme in occasione della visita in Bitinia alla tomba del fratello); o, comunque, riferirsi soltanto al corpo del poeta o dell’amico musicista.

Un’altra serie di obiezioni nascono dai Ricordi infantili (nove quartine di ottonari autobiografici, del 1780 circa: composizione interrotta), la cui ultima strofa suona così: “Le fanatiche leggende| poi mi venner tra le mani| onde il regno si distende| de’ pietosi ciarlatani”: si tratta della ribellione contro le leggende sui santi, presenti in libri di devozione popolare, leggende miracolistiche ed acritiche, contro cui combattevano anche i dotti studiosi Maurini e Bollandisti, B. Bacchini, il Muratori e tutta le menti più sveglie anche tra religiosi e laici cattolici? Ed anche l’attribuzione (La impostura) delle false religioni  alla fantasia di Numa Pompilio, Alessandro Magno, Maometto... non è verosimile che sottintendano in Parini scetticismo e  intenzione demolitrice contro la fede religiosa tutta (ed il cristianesimo in particolare), come era per gli illuministi oltremontani. Non è verosimile per le testimonianze di fede religiosa sicura presenti sempre nelle sue opere.

Esplicito il principio pedagogico ne L’educazione: “Onora, o figlio il Nume...”: str. 21); esplicito il riferimento al sapiente ordinamento del Creatore, in occasione della apparizione di una cometa, nel sonetto “Impavidi il novello astro vedrete” (Poesie varie: “tale il sommo Motor avvien che detti| leggi alle invano orribili comete”); espliciti i molti versi che parlano contro l’empietà di chi nega Dio e la immortalità dell’anima (Il Mezzogiorno, 719-20; 957-97) oppure affermano la Provvidenza divina anche per la plebe, solo apparentemente abbandonata ai propri guai (Il Mezzogiorno, 989-93; Lettera a Diodata Saluzzo, 12 febbraio 1797: il poeta invoca esplicitamente la Provvidenza). Si debbono aggiungere espressioni del sonetto per la canonizzazione di Girolamo Emiliani, in cui si narrano i molteplici benefici, materiali e spirituali, che la città di Milano  ricevette dal novello santo (“E per te apprende che dal mondo vano| nulla desia colui che serve il Cielo| e che, giovando all’uomo, a Dio si piace”); in quello Per monaca, che risponde agli insulti dei mondani (“Stolta è costei che in solitarie mura...”) ed elogia la scelta del solo Dio fatta dalla giovane (“Vergin chiamata a la più nobil sorte,|....tu libera e forte,| doni te stessa, ostia  innocente a Dio”); e ancora nel sonetto in occasione della nascita del primogenito di Francesco I d’Austria: la casa d’Asburgo è garantita da Dio stesso contro  le minacce della Rivoluzione francese (“e Dio ne fè sua cura”  perchè “mia verità, che nebbia non oscura| e la giustizia mia saran sue doti”). Come cosa ovvia appare, poi, la fede in Dio nelle composizioni Sopra la guerra (vv. 69-71; 107-118), Contro i legulei, Innamoramento di Cecco...

Ma forse i versi più chiarificatori del pensiero religioso nel Parini (siamo sempre al primo gradino della fede, quello della religione naturale) sono quelli del sonetto 44 di Ripano Eupilino: “Col guardo i’ vo su per l’aereo calle| fra le nubi cercando e fra i pianeti:| e veggio, d’ogni stella entro a’ secreti| lati, Dio ch’ora quiete or moto dalle.|| Scendo di poi sulle nevose spalle| de’ monti, ed essi quasi freschi arieti| veggio esultar di Lui superbi e lieti,| ch’abita ogni antro loro, ogni lor valle.|| Cerco la terra tutta e l’onda e fuore| caccio lo sguardo ancor, ch’appena il regga,| e veggio come, in quell’immenso orrore,|| solo non già ma con se stesso Ei segga.| Torno coll’occhio alfin dentro al mio core;| e solo nel mio cor par che nol vegga”. Vi è in questi quattordici versi il ricordo di Metastasio (“Ovunque il guardo io giro...”) e quello del Magnifico Lorenzo (“O Dio, or come mai| che sol te cerco e non ti trovo mai?”). Perchè il Parini non trova Dio nel suo cuore? Aridità congenita o coscienza di una situazione di peccato? L’ultimo verso rivela il dramma religioso del poeta: la mente gli imponeva la fede, ma il cuore non lo aiutava. Possedeva forse (per stare ad una famosa distinzione di Blaise Pascal) “l’esprit de géométrie” razionale, ma non quello di “finesse” cordiale? Non riusciva, dunque,ad accorgersi “qu’il y a des raisons que la raison ne peut pas comprendre”?

Prove e particolari di fede ulteriori. Le lettere ad una falsa devota (se sono proprio del Parini, chè rimangono dubbi) affermano l’abitudine dell’autore a recitare mattino e sera il Padre nostro. Certo questo documento presenta polemiche antidevozionali (e quindi, genericamente almeno, anticattoliche) e dovremo riprenderle a suo luogo; pure esse testimoniano di un minimo di vita di orazione e, quindi, di fede. Foscolo, poi, fa incontrare il suo protagonista a porta Venezia, lungo il viale dei tigli, coll’ammiratissimo poeta brianzolo (Ultime lettere di Jacopo Ortis, 4 dicembre 1798) e gli fa prospettare il proposito di suicidarsi nel caso disperato che i propri ideali vengano stroncati per sempre, ma dal Parini fa  giungere questa risposta: “Se tu nè speri nè temi fuor di questo mondo...” –e mi stringea la mano- Ma io!” alzò gli occhi al Cielo e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come se lassù contemplasse tutte le sue speranze-”. Infine il discepolo F. Reina, che sarà poi l’editore dei manoscritti lasciati dal poeta, afferma: “Ai medici che lo curavano l’ultimo giorno, sentendosi correre vivo fuoco per le spalle (disse): -Altre volte si sarebbe creduto un folletto: or al folletto e al diavolo non si crede più. E nè a Dio tampoco... Ma il Parini vi crede!-“ E precedentemente: “Io mi consolo con la idea della divinità; nè trovo veruna norma sicura all’umana giustizia, oltre i timori e le speranze di un altro avvenire” (Giovannio De Castro, Poesie di Giuseppe Parini, Milano, Carrara, 1889, p. 26).

 

Circa la fede più propriamente cristiana, esistono due  testi che non sembrano molto favorevoli alla religione positivo-cristiana insegnata  dal Nuovo Testamento. Il Discorso sopra le caricature è una prosa comico-caricaturale del mondo letterario, della cultura e del costume del Millesettecento illuminista ed infranciosato. Vi si fantastica di un continente, detto “India pastinaca”, per denunciare il significato utopistico della località: da subcontinente geografico, l’India è ricondotta ad una pianta medicinale![57] Fra le altre caratteristiche degli abitanti, vi è anche quella di disputare accanitamente su un “libro piovuto dal Cileo” per decidere su questioni di moralità. Questi “moralisti” si dividono in due categorie nella interpretazione del libro, donato da Dio “per loro regola”: i rigoristi ed i lassisti. A questo punto ci si accorge che si tratta dei moralisti cattolici, distinti un po’ troppo sbrigativamente nelle due scuole estreme, mentre il magistero e la gran maggioranza dei docenti della materia si arroccava nel buon senso e nella moderazione dei “probabilisti ed equiprobabilisti”, con S. Alfonso M. de’ Liguori come capocordata. Evidentemente il “libro celeste” da intepretare è  il Vangelo o tutta la Bibbia. Ecco che cosa ne dice l’abate brianzolo: “quando eglino si azzuffavano, il povero libro stava fresco, perciocchè eglino, afferrandolo a gara d’ambe le bande e colle mani e co’ denti, tanto ciascuno traevalo a sè, ch’esso andava in brani”.  Mettere la Bibbia fra i particolari di un mondo fiabesco può  comunicare, a prima impressione, un senso di poca considerazione. Man mano che si legge, ci si accorge però che essa è solo il mezzo per mettere in burla i teologi, che facevano della “casistica morale”quasi un modo per sfuggire alle regole semplici e chiare del Vangelo: solo accidentalmente il “povero libro” si trova quasi deriso come “piovuto dal Cielo”.

Anche le Lettere ad una falsa devota[58] possono sembrare dapprima una critica e canzonatura alla preghiera  complicata e prolungata (corale) della Chiesa, in nome della preghiera semplice e concreta insegnata dal Vangelo, il Padre nostro. Da qui al negare valore alla Grazia, alla necessità della redenzione per la vita morale, il passo sembrerebbe breve.

Ma le cose non stanno così. Intanto le tre prose sono dirette a  preporre  la fedeltà ai doveri del proprio stato rispetto ad una  pratica scriteriata della orazione.  Il Parini, infatti,  alle lettere propone una “ottava” che finisce così: “Forse fia che, da me punta e derisa,| sua pietà falsa in vera alfin si mute,| e che, abbattendo le bugiarde scene,| cerchi, più che divota, esser dabbene”.

Nel testo della prima lettera, poi, troviamo questa confessione autobiografica: “Io alzomi la mattina e mi raccomando a Dio con quella cortissima preghiera ch’Egli stesso insegnò a’ nostri antecessori e non mi curo di ripeterla molte volte...”. Ora, affermare che il Padre nostro è detatto da Dio stesso, significa professare la fede nella divinità di Cristo, perchè è Lui che lo ha insegnato. Se ne deve concludere che la critica del Parini ad un certo modo di pregare semmai  potrà rivelarsi una forma di anticlericalismo o di sospettosità verso la Chiesa cattolica, che poteva sembrare favorire  alcuni disequilibri nella vita spirituale. Ma questa semplice affermazione della divinità di Cristo trasforma le lettere in testimonianza sicura della sua fede cristiana.  Professare la divinità di Cristo implica, infatti, accettare il mistero della incarnazione e della sua morte e risurrezione redentrice.

Da qui ad ammettere la  esistenza del peccato originale e delle sue conseguenze deleterie sulla umanità (pilastro cronologicamente primo del cristianesimo) il passo dovrebbe essere ovvio. Ma, nel secolo di Voltaire e Rousseau, negatori radicali della colpa originale, il Parini non dovette pagare tributo, più o meno consapevole, a quella “Moda” cui egli dedica il poemetto-capolavoro? Non si lasciò andare ad un pelagianesimo inconscio, cioè ad un ottimismo sulla natura umana di tipo rinascimentale?  La canzonetta Il piacere e la virtù, che trova facile coniugare tali due valori, non è per caso una testimonianza in tale senso?  E il Frammento di un programma didattico,  esortando in questi termini: “nell’educazione morale servono esempi di tutti i tempi e di tutte le nazioni, perchè gli uomini sono sempre e dappertutto i medesimi nella elementarità delle loro passioni...”, non commette lo stesso errore del Petrarca, che ammira i grandi uomini della romanità pagana non meno dei santi cristiani? Ecco, il paragone con Petrarca dovrebbe risolvere l’enigma.  Specifichiamo. Da una parte il nostro pensatore accenna più di una volta alla colpa d’origine. Ecco il sonetto “Sì, fuggi pur le glebe e il vomer duro| ch’io ti diedi in pena dell’antico fallo”; ecco, nell’altro sonetto “Virtù donasti al sol, che a sè i pianeti”,  le due terzine “Oh eterno sol, che padre all’altro sei, | Tua Grazia io sento, onde ver te mi volga,| e il fomite che va contrario a lei,|| deh! fa che quando il gran nodo si sciolga,| io non fugga in eterno insieme ai rei,| ma ch’entro alla Tua luce alto m’avvolga”. Ecco, come conseguenza della colpa prima, il riconoscimento delle proprie, col  rimorso e la domanda di perdono ai piedi del Crocefisso: siamo al Pentimento[59], in cui leggiamo questi versi: “La penitenza del mio fallo grave| chino e tremante al Golgota mi mena.| Mira, poi dice, l’affannosa trave,| che fu de le tue colpe a Cristo pena.|| Te questa a salutare aura serena| trasse per le procelle amica nave;| quinci sgorgò d’amor l’immensa piena,| onde avvien ch’ogni sozza opre si lave.|| Allor la stringo e bacio; e nel cuor punto,| lagrime verso, che, nel sangue assorte,| del divin Agno, a me recan salute.|| E grido: O scala che a salir virtute| sola mi doni, è ver, tardi son giunto;| ma da Te non sciorrammi altri che morte!”. Ed eccone uno affine, La pietà divina: “L’arbor son io, Signor, che tu ponesti| ne la tua vigna; e a coltivar lo prese| Misericordia, i cui pensier fur desti| sempre a guardarlo da nemiche offese.|| Ma il tronco ingrato che sì caro avesti,| frutto finora al suo cultor non rese:| e dell’ampie superbo ombrose vesti,| sol con sterili braccia in alto ascese.|| Però, tosto che il vide, arse di sdegno| Tua Giustizia, e, Perchè, disse, il terreno| occupa indarno? Omai si tagli ed arda.|| Ma Pietà pose al tuo furor ritegno,| gridando: Un anno attendi, un anno almeno.| Arbor, che fia se il tuo fruttar più tarda?”. E si aggiunga che Satana è nominato (assieme alla necessità della penitenza) come motivazione alla vita monastica (sonetti “Stolta è costei che in solitarie mura” e “Quanti celibi e quanti al mar consegna”).

Eppure il complesso del modo di scrivere e vivere del Parini testimoniano che egli non aveva assorbito a sufficienza questi punti di fede. La critica alle storture del secolo è fatta  sostanzialmente in nome di una   legge morale, che non tanto si appella alla religione come a suo fondamento, ma semplicemente la vede come una delle sue esigenze: la religione è vista come il coronamento della vita morale, non come sua radice; l’interferenza della debolezza conoscitiva e volitiva dell’uomo  non impone un ricorso alla redenzione di Cristo, che è quanto dire che la colpa originale non è sentita come componente emergente del bagaglio culturale del poeta, ma vi compare solo occasionalmente.

 

La dimensione propriamente cattolica (organizzazione spazio-temporale del  sentimento religioso) è sentita ambiguamente dal Parini, proprio alla maniera di un adolescente-giovane che dell’autorità tende a vedere i difetti, a proclamare l’inutilità, a ricondurla semplicisticamente alla “sete di potere” di alcuni strati sociali (adulti| ricchi| clero...), ma che, messo davanti alla realtà nuda e cruda dei fatti, deve riconoscerne a sua volta la necessità-utilità.

Ecco, dunque, il nostro giovane abate all’attacco della “sua” Chiesa.

Dapprima è con l’anticlericalismo, cioè con le critiche a singole persone della Chiesa: un atteggiamento, direi, necessario ad ogni persona criticamente provveduta, visto che la stessa istituizione non pretende di essere impeccabile, sapendo troppo bene per esperienza storica di avere fra i suoi membri e santi e peccatori. Dante fu anticlericale ( magari non sempre a ragione) e spero che ogni cattolico, clero compreso, abbia abbastanza intelligenza da vedere e denunciare i mali commessi da comuni fedeli come da personalità importanti della Chiesa. Il Parini protetsa contro frate Uguccione (un nome di comodo per misfatti sospettabili come reali), che approfitta della maschera per frequentare le sale di teatro ed esercitarsi in scherzi volgari sulle signore (Il teatro, vv. 112-20); fustiga l’abate Casti nel più volte citato sonetto “Un prete brutto, vecchio e puzzolente”; polemizza con preti e frati che ti fanno il panegirico immeritato al defunto, solo perchè nobile e ricco (Discorso sopra la nobiltà) o sono maneschi  come insegnanti o si azzuffano nel disputare la soluzione di casi di coscienza (“casuisti”: Doscorso sopra le caricature).

Anche la condanna delle guerre di religione, nella epistola in sciolti Sopra la guerra (“Che più? cotanto osò l’orribil Furia| che di religion prese le spoglie| e, posto il ferro in mano all’uom, gli disse:| -Uccidi pur, che così il Ciel comanda-.| Tutto così inondaron l’Oriente| e le Gallie e l’Italia arme ed armati:| nè salve andaron da furor sì cieco| le stesse al sommo Dio vittime sacre...”) non presenta se non un  atteggiamento divenuto ovvio dopo lo spopolamento della Germania durante la guerra dei Trenta anni del secolo XVII: una guerra per motivi confessionali non  era ormai più concepibile e la tolleranza, su questo capitolo di religione, si era imposto  come evidente.[60]

Ma egli ha obiezioni anche contro attività delal Chiesa ufficiale: l’Auto da fè ed ancora il Discorso sopra le caricature protestano contro le vittime della Inquisizione: evidentemente è preso di mira l’istituto stesso. Fin qui possiamo, dobbiamo seguirlo.  Ma egli va oltre, dove è difficile tenergli dietro e come cristiani e come uomini ragionevoli. Ad esempio, quando approva la soppressione della Compagnia di Gesù (23 luglio 1773: sonetto “L’arbor fatale che di rami annosi”). L’esultanza  sarebbe stata giudicata fuori luogo anche dal Congresso di Vienna, che si affrettò a restituire i Gesuiti alla libertà di organizzazione ed azione, intuendo che, presenti loro, si sarebbe potuto evitare la Rivoluzione francese.

Che poi il Conclio di Trento abbia la colpa di aver rovinato –in combutta con la Spagna- la cultura ed i costumi degli Italiani, è un pregiudizio illuministico cui egli non seppe sottrarsi: basta leggere lo scritto Sul decadimento delle belle lettere e delle belle arti (probabilmente del 1773) e, ancora più insolente, In nome di Pasquale Paoli (1769).[61]  Per ristabilire quella che ci sembra la verità storica, distinguiamo le responsabilità verso il fenomeno scuola-insegnamento e quelle nei confrotni della corruzione genericamente morale (ipocrisia, soppressione della  possibilità di libera creazione artistica  da parte della Inquisizione...).

Alle critiche, generali e pesanti, del Parini sulla scuola le risposte non mancano. La prima obiezione è già stata avanzata a suo luogo: si tratta di accuse troppo poco documentate; si tratta di rimproveri così generali che non si capisce  che cosa precisamente intendesse e, quindi, quali rimedi concreti vi opponesse. Ulteriormente, occorre tener presente che egli parla di scuola di letteratura ed eloquenza e si riferisce, quindi, sicuramente al fenomeno secentista, in cui i anche una certa parte del clero subì la moda imperante e del quale una certa parte di teorici furono ecclesiastici (card. Sforza Pallavicino) e gesuiti (Emanuele Tesauro). Ebbene, sì, anch’essi  ebbero una loro colpa nel difenderne i princìpi. Ma va notato che essi arrivarono per ultimi, sicchè non tanto crearono quella moda, quanto la subirono. I teorici del Millecinquecento erano per lo più laici (sebbene vada poi detto che anch’essi  giustificarono un fenomeno già diffusosi al di fuori di precetti libreschi o cattedratici e, invece, anzitutto strettamente letterari, di imitazione, cioè; e socio-politici, poi). In  terzo luogo, il Parini non ha termini di confronto per poter affermare che scuole tenute da non religiosi (da laici) sarebbero riuscite migliori: essendovi il monopolio degli studi (da lui denunciato) da parte dei religiosi, non ci sono termini di paragone. Automaticamente, si può obiettare alle sue denunce, l’accusa di mancata esperienza e di giudizio arbitrario: chi garantiva che le scuole gestite da laici non fossero per riuscire peggiori di quelle governate dal clero? In genere,  infine, va  sospettato che egli, inconsapevolmente, giudicava la situazione, ponendo se stesso come termine di confronto con il personale disponibile per le cattedre di eloquenza e di lettere: che era come giudicare un corpo di candidati pittori e scultori, avendo come modello Raffaello e Michelangelo. La bocciatura di tutti  sarebbe garantita. In altre parole: Parini non non poteva pretendere che i docenti avessero il suo livello di sensibilità artistica, per dettare norme più avanzate agli artisti. Pur non possedendo neppure lui una filosofia estetica od una normativa poetica adeguata, egli aveva certo più intuizioni e gusto di ogni altro, al suo tempo, in Italia. E’ strano, ma il non umile Parini, in questo caso, non era abbastanza  orgoglioso per capire che la sua posizione era troppo più alta che non quella dei docenti (laici o religiosi non importa) disponibili. E che, quindi, il problema era non di istituti (Spagna, Chiesa, religiosi, ecc: ) ma di uomini. Che non si inventano nè si fabbricano a volontà, con decreti tridentini o governativi....

Quanto alle responsabilità del Concilio tridentino, le accuse sembrano gratuite, per i motivi a suo lugo già addotti: all’ombra delle sue regole e censure, la Spagna e la Francia hanno una fioritura artistica eccezionale, col “siglo d’oro” ed il “grand siècle”. L’Italia ha il Tasso con la Gerusalemme liberata e le discussioni, di notevole impegno, sulla morale politica. Nè la Inquisizione impedì a Galileo ed al Tassoni di scrivere in ottima prosa e buoni versi. Ribadiamo, cioè, che la Inquisizione va ovviamente deprecata per gran parte della sua attività (anzi per il viraggio stesso della concezione)[62], ma non per aver impedito la nascita di capolavori artistici, letterari o pittorici, scultorei, musicali od architettonici: la Riforma cattolica si interessò  solo accidentalmente della produzione artistica e solamente  di quella destinata alle chiese, limitandosi ad esigere che fosse adeguata allo scopo cui doveva servire, come si è già   ragionato a suo luogo.

 

 Venendo alle accuse di ipocrisia, falsità e faziosità, di corruzione morale insomma,a carico del Concilio tridentino e delle congregazioni religiose, non si riesce a capire che cosa il Parini voglia dire: dovrebbe specificare le accuse. A dir il vero, egli tenta una tale precisazione nell’ultima parte del proclama steso In nome di Pasquale Paoli. Eccone tale parte: “ Alcuno crederebbe che fra i preti si potessero agevolmente trovare soggetti opportuni ad una tale intrapresa, in grazia dell’esser essi sciolti da ogni peso di famiglia, e perciò liberi, nel sacro loro ozio, di vacare alla filosofia ed alle lettere; ma per quanto io ho letto, veduto e provato colla sperienza, mi sono convinto che, dove il popolo è ignorante, il ceto degli eccelesiastici lo è egualmente: e tanto più quanto che questo ceto, essendo ignorante, ha delle opinioni che direttamente s’oppongono allo avanzamento delle umane cognizioni, ed ha delle superstizioni che contribuiscono a far crescere ed a promulgare l’ignoranza medesima; e s’immagina d’aver un particolare interesse a coltivarla, nè s’avvede che il maggior interesse d’un cittadino si è l’interesse di tutti. Finalmente io ho veduto che, qualora si cominciano a spargere qualche lumi (sic) di verità in una nazione, non so se per le anzidette o per altre ragioni, gli ecclesiastici sono sempre gli ultimi a profittarne ed i primi ad impedirne il progresso, e sembra ch’essi temano che le verità filosofiche debbano recar pregiudizio alle verità della fede, quasi che la verità possa giammai condurre all’errore. Questo nondimeno che io dico, lo dico parlando generalmente, perchè altronde ne ho conosciuto e ne conosco alcuno che merita d’essere eccettuato”.

Ma l’unica specificazione delle remore presenti negli ecclesiastici al progresso ed alla adeguata preparazione ad essere maestri anche all’università consiste nella loro diffidenza contro i lumi delle verità filosofiche: che era, invece, di fronte alle belle novità del Millesettecento in tale campo (cartesianesimo, empirimo, sensismo, illuminismo: si giungerà all’agnosticismo kantiano), una semplice forma di sapienza e di ragionevolezza, di più completa umanità e razionalità (il razionalismo è un difetto di ragione, una meno avveduta applicazione delle sue esigenze). I madornali errori in sede di religione e di morale e il basso livello di vita morale dei protagonisti dell’enciclopedismo (si veda il carteggio dei fratelli Verri, citato a suo luogo) rendevano troppo giustamente allergici i veri cristiani (e non solo i frati) dall’aderire alle novità ideologiche d’oltralpe. E il bagno di sangue della rivoluzione avrebbe dimostrato le insipienze tragiche delle opinioni messe in circolazione dagli enciclopedisti. Maggior impressione avrebbe fatto la citazione del processo a Galileo, che invece manca del tutto. Quello fu errore madornale, anche se una rondine non fa primavera: in campo storiografico, ad esempio, i padri Maurini, i Bollandisti e l’abate L. A. Muratori furono all’avanguardia. Pel resto, valgono anche qui le osservazioni già prima avanzate: il monopolio della istruzione primaria e secondaria era ben un diploma di lode da parte di una società che ormai, grazie al moltiplicarsi delle generazioni istruite dai vari ordini religiosi (gesuiti e somaschi, barnabiti e fratelli delle Scuole cristiane) poteva anche permettersi istruttori laici. Che anche le loro scuole non fossero l’ideale auspicato dal Parini, che meraviglia? Quale scuola sarà perfetta mai? Sono gli uomini di genio che la rendono tale. E, come professore di eloquenza, fu il Parini all’altezza della sua misura poetica? No di certo: il suo insegnamento non ha lasciato una dottrina estetica o retorica degna di attenzione. Aveva doti esimie come attore poetico; appena  mediocri come teorizzatore della sua stessa produzione più congeniale;  produceva versi superiori alla sua capacità di pubblicizzazione e commercizliazzaione.

 

Finora ci siamo imbattuti in un Parini anticlericale, ostile ai gesuiti e sospettoso verso gli uomini di Chiesa, ma non precisamente anticattolico: il suo linguaggio non ne favoriva certo la carriera nella gerarchia eclesiastica, ma neppure lo escludeva dal gregge di Cristo: è stata una santa (Giovanna d’Arco) a porre la distinzione tra “Chiesa” ed “uomini di Chiesa”.

E’ quando egli approva il giurisdizionalismo di Giuseppe II (così estremo che, per le sue forme, si parla di “giuseppinismo”) che il rapporto di “comunione” del poeta con la Chiesa (e non solo con la gerarchia) rischia di saltare: senza saperlo o volerlo esplicitamente, il Parini si pone nella situazione dello scismatico. Egli scrive due sonetti (“Scorre Cesare il mondo, e tutto ei splende” e “Teseo, Osiri,Giason, Bacco ed Alcide”) per celebrare la discesa dell’imperatore a Roma nel 1784,  che voleva strappare al papa poteri  tipicamente ecclesiastici (elezione dei vescovi, fondazione di seminari di Stato, soppressione di monasteri, ostacoli alla pubblicazione di atti pontifici, proibizione agli ordini religiosi dell’impero di dipendere da superiori  stranieri, controllo sulla scelta dei libri per l’insegnamento della teologia nei seminari, giuramento di fedeltà all’imperatore da parte dei vescovi, proibizione del ricorso a Roma per le dispense nei matrimoni...). Tali ingerenze destavano il senso ironico di Feerico II, che coniò l’appellativo di “sacrestano” per il cugino di Vienna, ma facevano scrivere al Parini “Indi a stranio poter limiti segna”, che è un rinnegare l’autorità universale del papa, rischiando di rendersi  “scomunicato”[63].

Eppure, esistono testimonianze troppo eleoquenti della fede cattolica del Parini: non esclusa la difesa di quella autorità centrale che egli altre volte contesta, ingenuamente giudicando garantiti la   certezza sulla verità religiosa ed i princìpi morali che invece quella sola assicura.

La fede nella Eucaristia è esplicita nel sonetto “Queste incallite man, queste carni arse”, scritto per la liberazione dalla schiavitù musulmana di cittadini milanesi, che vengono festeggiati in chiesa, sicchè il poeta può concludere le congratulazioni con l’invito a completare, nel banchetto eucaristico, l’opera di salvezza fisica  ormai assicurata: “Salvate or voi queste cadenti vite| voi, questi spiriti estenuati e macri| col sangue del divino Agno nodrite”. In un altro sonetto (“Finor di Babilonia in riva ai fiumi”), per celebrazione identica, si riconosce esplicitamente nell’arcivescovo di Milano il “sommo sacerdote” (“Rotta è, Israèl, tua servitude amara,| t’inchina e stendi la disciolta mano| al sommo sacerdote, al tempio all’ara”). In quello per monacazione che inizia “Quanti celibi e quanti al mar consegna” vi è un verso di sapore unicamente cattolico, perchè eucaristico: alla giovane monacanda è detto “Tu, libera e forte|, offri te stessa, ostia innocente, a Dio”. Van tenute in conto anche le liriche prettamente religiose: Nel dì di S. Bernardino sanese (terzine), il sonetto dedicato alla Vergine (Suonami in sulle labbra), Per S. Ambrogio (canzone)[64]. Ed atto di fede nella Chiesa cattolica, protetta dalla Provvidenza nonostante le persecuzioni ricorrenti, è espresso anche nell’ultimo sonetto “Predaro i Filistei l’Arca di Dio”. L’ammonimento dell’ultima terzina (“Ma splenda la giustizia e il retto esempio| tal che Israele non torni a novo pianto,| a novella rapina, a novo scempio”) è severo, ma non è detto sia rivolto alla sola gerarchia ecclesiastica: “Israele” è il popolo di Dio ed è tutto il popolo cristiano ad essere esortato a condotta tale che non attiri altri castighi divini.

Tale sostanziale cattolicesimo è stato riconosciuto dai Milanesi, quando gli hanno eretto il monumento in Cordusio: anzitutto perchè là c’era la chiesa di S. Maria segreta, dove egli si recava a celebrare la Messa; in secondo luogo, perchè l’hanno fuso in bronzo con talare e ferraiolo, cioè ancor più clericalmente di quanto potesse essere in realtà, perchè l’abitudine di portare la talare intervenne solo nel secolo successivo: nel Millesettecento essa era solo un abito liturgico, da indossare in chiesa, come tuttora nei paesi germanici.[65]

Non deve poi meravigliare che egli, una volta postosi di fronte alla reale situazione della Chiesa nella seconda metà del secolo, auspichi un papa battagliero che segni il trionfo dei buoni e lo sterminio degli empi, fulminandoli con scomuniche. Ecco la descrizione del misero stato della religione al suo tempo, nel sonetto “O nell’uopo maggior di nostra etade” per la elezione di Clemente XIII (1759): “Ecco Religion che al piè ti cade,| lacero il manto, e ’l ciglio umido e tristo.|| Ah contro lei quai velenose spade| di saggi ingannator ritrarsi ho visto!| Quanti suoi figli per oblique strade| rapiti, fur di Stige indegno acquisto!” Il programma di governo dovrà dunque  prevedere un aspetto positivo in favore dei figli fedeli, ma abbattuti: “Tu l’affida e sostieni: al destro fianco| manna ti piova salutar che un giorno| ristori de’ suoi figli il drappel stanco”; ed un’azione negativa, contro i nemici della Religione stessa: “E ’l ciel tonando orribilmente intorno,| la folgore ti strida al lato manco| pronta sugli empi a recar danno e scorno”.  Si è già detto che egli non aveva una intelligenza così profonda da  attingere un pensiero finalmente unitario e coerente. Gli spiriti illuministici lo portavano a pubblicare di  contrabbando non solo Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752: senza  licenza alcuna, con finto nome e finto editore), ma anche Il Mattino (1763) ed Il Mezzogiorno (1765) anonimi; lo inducevano a scrivere le contestazioni ai preti e frati e loro scuole ancora nel 1769 e 1774 (In nome di Pasquale Paoli e Per una riforma dei libri scolastici). Ma quando pensava, riflettendo dopo aver guardato in faccia alla realtà, allora era lui che censurava gli spiriti empi e libertini della nuova cultura (Il Mattino, 221-254; Il Mezzogiorno, 935-46; ecc.); e lui auspicava una restaurazione della fede e del costume anche attraverso  provvedimenti forti da parte della Chiesa.  Nè sarebbe questa l’unica testimonianza di simili sentimenti: anche i settenari  (non completati) per la elezione di mons. G.B. Muggiasca a vescovo di Como (1765) paiono  auspicare  un governo  non solo umile e caritatevole verso i poveri, ma anche formidabile ai nemici della Chiesa: i versi terminano infatti con il paragone con Mosè e con Davide (“Tale Mosè fu assunto| a guidar Israele:| tale da Samuele| tu fosti, o David, unto”).

Questo non toglie che, per quanto si sappia, sia morto senza chiedere nè ricevere gli ultimi sacramenti: solo, come il Baretti a Londra.

In conclusione, ci pare che la sua fede, anche nella Chiesa, come cattolico sia stata sufficiente, anche se non costante: i pregiudizi della sua epoca penetrarono profondamente in lui, rendendolo oscillante e costringendolo a dei giri di boa che, nati da subito sdegno ed accompagnati da frasi dignitose e penetranti, ne esaltano la sincerità impulsiva e la genialità espressiva, ma ne denunciano anche il comportamento bustrofedico, contradditorio, incoerente. Parini è più ammirevole nelle parole che nei fatti; ed anche, nei princìpi espressi, quelli più significativi (Sul vestire alla ghigliottina; alle assemblee della municpalità repubblicana in Milano...), sono spesso di correzione a (in contraddizione con) errori precedenti.[66]

        Conclusione dei Motivi ispiratori

L’esame del suo atteggiamento religioso  finisce per convincere del tutto che il giudizio morale sul Parini deve essere proprio l’opposto di quanto afferma il De Sanctis: non l’uomo è superiore al poeta, ma, semmai, viceversa; col Parini non rinasce l’uomo, ma un mezzo uomo.  Il volerlo scusare, avendo lui abbracciato lo stato ecclesiastico per necessità, equivale a  squalificarne la libertà interiore, l’essenza spirituale, a considerarlo cioè incapace di preferire una povertà onorata ad una dignità usurpata.[67]

Naturalmente, se  ci attendiamo da lui non una personalità geniale sia pure settorialmente, ma solo discreta in molti campi delal vita (intellettuale, artistica, pratica); se ricerchiamo non una intelligenza profonda, ma solo acuta, non sistematicamente completa  per la sua  coerenza  universale ma solo metodicamente  vittoriosa per le sue intuizioni   parziali, allora Parini può apparire un uomo d’eccezione, che riesce a sopravvivere ed anzi trionfare in una Milano difficile e pericolosa, dove fanno naufragio altri più  intraprendenti di lui (a cominciare da Pietro ed Alessandro Verri)[68]; che riesce simpatico per la sincerità dei suoi atteggiamenti pur di volta in volta variabili e discutibili; che merita lode per la mancanza di doppiezza e per la forza  delle sue conversioni. Si potrebbe anche pensare che egli fu un uomo di ottime intenzioni; che dovette ricredersi per errori di giudizio, non per malizia di volontà: ma quest’ultimo costituisce già un giudizio molto limitativo; fa di lui un uomo deludente.  Una ulteriore prova ci viene proprio dalla sua cultura religiosa, attraverso un giudizio, in apparenza solo positivo, di un abate amico, il Pozzetti: “se bene non avrebbe potuto aspirare alla corona nelle sacre discipline, ragionava non per tanto a sua posta benissimo intorno ai più ardui punti teologici e anzi godeva disputare col padre Noghera della Compagnia di Gesù, il quale sovente era costretto a darglisi per vinto” (“Lettere di due amici”, citate nella edizione Cararra, 1889, delle Poesie di G.P., a p.10). Egli conferma qui la sua mente più analitica (ed acuta) che sintetica (e profonda): ottimo polemista e difensore di singoli punti di vista, mancava di una  completezza  nella sistemazione dei dati posseduti, che facessero di lui un professionista nella scienza religosa e non un semplice dilettante.

 

        LE TONALITA’ LIRICHE

        L’altezza della poesia del Parini e la sua qualificazione lirica

Dopo aver cercato di precisare quella parte del pensiero del Parini che (dapprima) ha stimolato la sua sfera emotiva ed è divenuto (in seguito) mezzo espressivo del suo lirismo, entriamo ora nel cuore della sua poesia: la caratura (o valutazione quantitativa) del suo livello artistico e le specificazioni psicologiche (o definizione qualitativa) della sua emotività razionalmente espressa.

        Circa il valore dei suoi versi, si è complessivamente d’accordo nel giudicare di livello fra il discreto ed il buono, medio cioè, l’intensità del suo lirismo. A parte il distinto episodio della “vergine cuccia” (Il Mezzogiorno, vv. 650-703) ed altri pochi versi sparsi nel poema, il posto gerarchico da assegnarsi alla poesia del Parini ci sembra inferiore non solo a quello di Dante, Manzoni e Foscolo (che porremmo come le tre corone della nostra letteratura); non solo a Leopardi, Carducci e Pascoli, che ci sembra li seguano, sia pure a debita distanza, nelle loro migliori composizioni), ma anche a Petrarca, Tasso ed Alfieri (lirico). Una valutazione che va oltre la sufficienza e si fissa, complessivamente, nella discrezione,  salvo  a raggiungere il livello della   bontà artistica nei versi migliori.

La psicologia, evidenziata nello studio del temperamento, può forse suggerirci la sorgente dei limiti nel suo poetare: il Parini era troppo sbilanciato in favore della prevalenza simpaticotonica; mancava, perciò, di una dose di dolcezza  adeguata a creare, in cooperazione con la potenza drammatica, un’onda emozionale piena e  sublime (epopea); oppure un’aura soave e suggestiva in sede di lirismo contemplativo (idilio-elegia).

Ma ancora più interessante è l’aiuto che la conoscenza della psicologia di un artista getta sulle sue preferenze liriche. In tale attività, infatti, è esclusa la libertà interiore dell’uomo:  questi,   libero di scegliere fra il bene ed il male, è invece determinato sostanzialmente dalla sua costituzione psicofisica quando deve  decidere fra operazioni moralmente neutre, perchè appartenenti alla sfera del non essenziale alla natura umana, all’ambito del meglio, alla periferia del superfluo.  E  tale è il  prodotto artistico, in cui il poeta, musico o pittore si esprime come è, inesorabilmente: si tratta di un “lusso” della umana natura e l’attività è perciò determinata dai cromosomi. Se non sempre  “le style c’est l’homme” (perchè la tecnica espressiva si può, almeno in parte, apprendere dall’ambiente, essendo un condominio fra doti innate e magistero delle precedenti esperienze artistiche),  invece sempre “les émotions sont l’homme et seulment lui”. In altre parole: la lingua parla soltanto dalla sovrabbondanza del cuore; la mente riesce ad esprimere solo quei toni lirici consoni  alla conformazione del proprio sistema neurovegetativo. In questo campo la scuola, con lo studio della precedente produzione, la moda prevalente negli anni dell’apprendistato, l’esperienza stessa personale  possono bensì suggerire nuovi campi di applicazione della sovrabbondanza emozionale, ma ogni artista è legato ad un DNA inesorabile, che lo rende unico  nel lirismo, quasi che ogni poeta abbia  una impronta digitale melodica (più ancora che stilistica) incomunicabile, così che l’eco della lettura, anche solo mentale, di un suo gruzzolo di versi o di un suo brano di prosa abilita il fruitore ad attribuirlo ad un solo scrittore,  pressappoco come l’audizione della musica di  un compositore di genio rende sicuro  il riconoscimento dell’autore: in entrambi i casi, per solo intuito, indipendentemente dalla memoria.

Orbene, costatiamo anzitutto che, per quanto riguarda le sfumature emozionali, il Parini privilegia decisamente l’Idillio ed il Dramma, riuscendo però al massimo della sua potenza lirica nella loro fusione in Ironia e Satira.  Queste due ultime tonalità costituiscono il suo registro emblematico, non solo  per il viraggio del poemetto Il Giorno, ma anche per la congeniale produzione in tale tono, presente nella imitazione della poesia bernesca  e scherzosa, che l’accompagnò dalla giovinezza (Alcune poesie di R.E.: sezione “Poesie piacevoli”), su su per tutto il corso della vita, sino a “El magon dij Damm de Milan”.

Non che manchino nei suoi versi indizi di elegia ed epicità, ma si tratta di “tonalità recessive” che   trovano un’espressione valida solo in qualche verso o strofa isolati. Il sentimento del Parini o si distende beato nella natura o polemizza contro i costumi depravati: nei momenti più felici, fonde in simbiosi i due atteggiamenti e ironizza sugli uomini corrotti, puntando il dito accusatorio con forza,  con divertimento e, più solitamente,  con discrezione, cioè senza calcare  ecessivamente i toni: sulla satira prevale l’ironia, nel miglior Parini. Il Parini gode nel combattere il male ed i malvagi. Ecco il suo “luogo poetico” più congeniale: unire idillio e dramma, fondere riso ed aggressività

Si noterà che, analizzato nelle sue componenti, il sentimento dell’ironia-satira rivela una psicologia non propriamente  lineare ed armoica, ma  complicata e dissona: è difficile trovare un accordo ragionevole fra la voglia di ridere e la collera. Ma così fatto è l’uomo, che alberga nell’inconscio  gli stati d’animo più contrastanti. Non si è parlato, per il Parini, di una individualità distonica a prevalenza ortosimpatetica?  Questo predominio del “simpatico” renderà la mente dell’artista predisposta più ai toni alti che a quelli tenui e, tra quelli minori, all’idillio più che alla elegia, per la spinta positiva, ottimistica che il sistema simpatetico imprime a tutta la sensibilità. Ci sarà spazio allora più per la gioia dell’idillio che per la elegia della tristezza; più per la esultanza della epicità che per il terrore della tragedia. Ma, trattandosi di una condizione di “esauribilità”, di instabilità (il temperamento “nervoso” è primario, quindi incoerente perchè mancante di piena potenza e continuità), la psicologia pariniana darà luogo a sprazzi di gioia  ed a scatti di sdegno, cioè ad oasi di pace in un prevalente deserto di collera, mentre l’elegia  della tristezza cederà di fronte al bisogno di  quiete e di relax  a risarcimento della tensione  rabida; così come la purezza della epicità  sarà  declinata verso la forma minore di aggressività drammatica, a causa  della esauribilità delle risorse di forza ed esultanza, dovuta alla distonia od oscillazione delle spinte emozionali. Questo non toglie che- occasionalmente- anche al Parini riesca qualche verso sinceramente elegiaco o fortemente epicizzante. Ma soprattutto consente alla sua genialità artistica di sposare fra loro le due discoste tonalità liriche ed esprimerne la simbiosi artisticamente, cioè liberate entrambe dai fattori  soggettivi e passionali, funzionali e pratici; e sublimate, invece, in una dimensione universale, magnanima: è la comicità pungente dell’ironia, che può traboccare in satira mordente. Entro certi limiti e fino ad un certo punto, almeno, perchè questo processo di decantazione dell’affettività si attua nel Parini, per lo più, solo parzialmente ed il risultato porta qualche segno della fatica, della lotta per la sua realizzazione, qualche residuo di passionalità non purificata. E’ un limite che il Leopardi sottolineerà a buon diritto,  pur approdando ad un giudizio secondo noi tropo negativo[69]. E’ il limite che esclude la sua più solita versificazione dalle altezze assolute; ma è anche il segno del  particolare lirismo pariniano. Abbastanza frequentemente, comunque, l’accordo rischioso  riesce, non soltanto nel capolavoro, ma anche in molte altre composaizioni, come negli scherzi, canzonette, composizioni bernesche ed ariostesche. Talora,  invece, l’incontro fra collera ed idillio, fra dramma e contemplazione è infelice: i due stati d’animo, anzichè legare in riso amaro si elidono a vicenda, sfuocando la versificazione. Abbiamo il solito fenomeno della “dissolvenza incrociata” che, come in Tasso e nello stesso Petrarca, offusca forse la maggioranza dei suoi versi. Come dal suo pensiero  indeciso nascono prese di posizione disarmoniche, tanto  nei motivi ispiratori dei suoi scritti come nella sua azione  esistenziale, così Parini risulta diversamente valido nel suo dissentire divertito,   nel suo ammirare scandalizzato: Parini è una sfinge nella vita pratica; è amletico  nella sua poesia, che sale e scende, ora attingendo la pienezza lirica ora attenuandosi in versi appena sufficienti, ora addirituura spegnendosi nella versificazione dignitosa ma fredda. Lo stile presenterà le stesse complicazioni, riuscendo una sciarada più tortuosa di quanto possa apparire a prima vista.[70]

 

        I brani più belli da ogni opera.

 A nostro rischio e responsabilità faremmo questa segnalazione di brani eminenti.

DAL GIORNO: Il Mezzogiorno, 650-703 (i versi migliori in assoluto: è il brano della vergine cuccia),                Il Mattino, 668-689 (brano epicizzante contro la immoralità illuminista)

                     Il Mezzogiorno, 1109-1191 (gioco del Tric e Trac)

DALLE ODI:      Sul vestire alla ghigliottina (A Silvia: dramma ammonitore: “Per che al bel petto e a l’omero”)

                    Brindisi (sorridente autoironia: “Volano i giorni rapidi”)

                    Alla Musa (fra dramma ed epicità: Te il mercadante che con ciglio asciutto”)

                    Il messaggio (epicizzante: “Quando novelle a chiedere”)

                    La caduta (dramma: “Quando Orion dal cielo”)

                    Strofe e gruppi di versi da altre odi (La vita rustica:“Me non nato a percotere...”;

La salubrità dell’aria: “Va per negletta via...”)

   La educazione : da “Onora, o figlio il nume...” sino all’ultima strofa: “Tal cantava il Centauro.| Baci il giovan gli offriva| con ghirlande di lauro.| E Tetide che udiva,| a la fera divina| plaudia da la marina”: strofe 221-28).

DALLE ALTRE POESIE:

                   Canzonette: Primavera (“La vaga primavera! ecco che a noi ne viene”)| Per che mio cuor| La sincerità ( “Viva, viva la Giuditta”)| La indifferenza (“Offeso un giorno Amore”) | Le nozze (E’ pur dolce in su i begli anni); gli scherzi Per Parafuoco e per ventole

                   Il teatro (crediamo sia la migliore fra le poesie satiriche: “Or ecco il carnesciale. E in qual dell’anno...?”)

                   Risoluzione di morire (la migliore fra le poesie scherzose? è un capitolo bernesco: “Manzon, s’i’ te l’ho detto, tu lo sai”)

                   Tra i sonetti: Un prete brutto, vecchio e puzzolente (drammatico) | Predaro i Filistei l’Arca di Dio (epicizzante)

DALLE  PROSE:  Dialogo sopra la nobiltà (satirico)| Discorso sopra le caricature (ironico- scherzoso).[71]

        I singoli registri lirici ed i brani più significativi

 

IRONIA E SATIRA.

 

L’ironia e la satira fan parte della comicità, cioè della fenomenologia molteplice del “riso”, che è una caratteristica soltanto umana e lo distingue dagli altri primati non intelligenti.

La comicità implica sempre  due atteggiamenti emozionali, fusi in lega fra loro: la distensione   della gioia (per la scoperta[72] del difetto o sproporzione) e la tensione della drammaticità (per il rimprovero che se ne fa a se stesso o ad altri). Questa simbiosi o sinergismo fra due stati d’animo, esclude solo la elegia, abbracciando tutti i gradi della emotività drammatica. Si ha così l’umorismo, che è forma di caricatura con il massimo di idillio (gioia contemplativa, dolce, tenue) ed il minimo di drammaticità: è una forma di canzonatura amichevole, graziosa, impregnata di carità e di amorevolezza, di simpatia e di benevolenza. Segue la ironia, che  implica ancora una notevole dose di idillio o divertimento gioioso, mentre coinvolge un grado maggiore di tensione drammatica, riuscendo una forma di canzonatura ostile,  ma che   mantiene l’animo maligno e subdolo nei limiti di una polemica attenuata, dalle forme signorili, raffinate, leggere ed aeree. Questo genere di comicità esprime avversione e contestazione, ma in forme allusive ed indirette: quasi sempre loda in un contesto traditore, esalta con una ambiguità critica, elogia con doppi sensi  demolitori, finge di approvare mentre ti taglia i panni addosso, celebra talmente da riuscire a deriderti. La satira mantiene solo un residuo minimo di divertimento, di sorriso, di idillio, mentre rafforza la componente drammatica, trasformando il riso in derisione, la canzonatura in caricatura:  il riso diventa amaro o addirittura feroce; l’ostilità prende il sopravvento e l’aggressione si fa diretta, la denuncia esplicita. Più in là della satira, sta il sarcasmo, in cui  l’atteggiamento drammatico  raggiunge il massimo del diapason e si eleva alla tragedia, quando non scade  nella retorica rabida e nella  oratoria litigiosa: vi è il pericolo, cioè, di  non uscire dalla collera e dall’insolenza,  di mantenere nella condanna residui di ostilità  personale e  passionale, non decantati ad univeralità ed assolutezza. Con la farsa, si esprime una gioia grandiosa (epicizzante)  mentre l’ostilità drammatica quasi scompare o diventa insensata: il divertimento prende il sopravvento, ma a scapito di ogni finezza espressiva e di ogni  realismo nella denuncia della sproporzione (Gargantua e Pantargruel sono personaggi di fantasia, che fan ridere per il surrealismo delle loro doti fisiche e psicologiche, così sproporionate da uscire da ogni verosimiglianza).  Essa passa facilmente il segno e si abbassa    spesso una forma di riso popolareggiante,  che non attinge valore artistico, proprio per il prevalere delle forme praticistiche di derisione fin gestuale, mentre regredisce la carica intellettuale  nello scovare difetti e denunciare ambiguità.

        Orbene, in Parini ironia e satira sono i due toni lirici prevalenti: l’ironia domina il capolavoro, mentre la satira si rivela anche in non poche composizioni minori.

Sarà interessante notare come il Parini fosse cosciente del tono satirico della sua musa (o, almeno, di una voce di essa). Ne Il teatro afferma infatti: “E noi frattanto| de’ satirici canti opriam la sferza (vv. 8-9); e “La verità vuol ir per ogni banda:| e correttrice satira non ave| risguardo al servo o a quel che pur comanda” (vv. 133-4).

 

         IL GIORNO.

I primi tredici versi potrebbero anche essere intepretati come sinceri e presi sul serio; l’ironia scappa fuori evidente con la canzonatura dei vv. 14-15 (“se in mezzo agli ozi tuoi ozio ti resta| pur di tender gli orecchi a’ versi miei”). Il brano che segue è “gentilmente feroce”: “Già l’are a Vener sacre e al giocator| Mercurio ne la Gallia e in Albione| devotamente hai visitate, e porti| pur anco i segni del tuo zelo impressi.| Ora è tempo di posa. In van te chiama lo dio de l’armi, chè ben folle è quegli| che a rischio de la vita onor si merca,| e tu naturalmente il sangue aborri”.

Ecco, siamo immersi nella ironia più tipica pariniana.  Altri brani risulteranno poeticamente più alti;    alcuni saranno più sottili e pungenti; altri, meno felici e più grevi oppure più levigati e raffinati (specie ne La Notte): ma questa ouverture è un buon esempio medio del “doppio gioco” di cui fa uso il finto precettore con finta ingenuità, che sembra incitare il suo privilegiato discepolo, mentre ne denuncia ribalderia e sciocchezza, viltà e ignoranza, ozi e vizi.

Ma ecco altri casi notevoli, cominciando dal capolavoro Il Giorno e distinguendo (fin dove ci è possibile) tra ironia e satira.

Cominciamo dalla ironia.

Anzitutto segnaliamo le FAVOLE (e le quasi favole): Amore e Imene (Il Mattino, 330-409), L’origine della cipria (id. 819-41); Il piacere e la differenza fra la nobiltà e la plebe (Il Mezzogiorno, 255-333), Il gioco del tric e trac (id. 1109-1179); L’origine del canapè (La Notte, 259-348); L’origine del gioco delle carte (id., 696-730).

Ed ecco i passaggi più degni di nota delle singole parti.

 

Da Il Mattino: il merciaiolo menzognero,adulatore, imbroglione e la credulità stupida del cicisbeo (713-40); il gusto, giudice assoluto in arte, sostituisce anche la cultura e lo studio delle opere e dei maestri (783-814); la scelta dei vari oggetti che riempion “le folte d’inezie illustri tasche” del giovin signore (922-1041)

 Più forte ironia, già satira o ad essa molto vicina, ci sembra caratterizzare questi altri brani de Il Mattino: il cocchiere che aspetta (1049-54), contro pornografia e teatro scandaloso (1105-17), il volgo travolto dai cocchi signorili (1227-36).

In parte entro il tono di comicità satirica e sarcastica, in parte animati da tono prettamente drammatico od epicizzante sono i versi 668-689 de Il Mattino, dove si insorge contro Voltaire, Ninon Lenclos, La Fontaine.

 

Da Il Mezzogiorno. Quasi tutta la fabbrica di questa seconda parte è  prettamente ironica.

Fanno eccezione i vv. 1010-1109 dove si descrive l’arrivo della frutta,col caffè e il gioco nel salotto dopo il pranzo: questi dimenticano l’ironia e sono invece permeati da quello spirito mondano, che esprime una inconscia adesione del poeta  alla società dorata della nobiltà, adesione espressa con un senso complessivo di idillio  lievemente increspato di  vivacità drammatica.

 E soprattutto fa eccezione il brano della vergine cuccia. Esso rievoca le disavventure della cagnetta vezzosa e mordace e del servo che non sta nè allo scherzo nè al morso e pensa lecito difendersi  mandando a gambe all’aria l’insolente animale (vv. 650-703). Il brano è ricco di sfumature diverse di comicità, in un crescendo che va dall’ironia alla satira e da questa al sarcasmo, dopo pochi versi elegiaci.  Dapprima  esso sembra danzare un lento  tango al ritmo della sottile ironia, che  scortica il vegetariano  con la sua compassione per gli animali sacrificati all’appetito umano e morde l’abnorme sensibilità della dama, il suo  piangere svenevole al ricordo della disavventura della sua   cagnolina, “de le grazie alunna”. Sale poi al ritmo veloce del valzer nel rievocare, tra ironia e satira, la scena del delitto: l’insolente e petulante scherzo dell’animale che morde il servo e la reazione spontanea, colla pedata sacrilega, di lui.  Siamo al verso 686b: l’ironia cede il passo alla satira graffiante, quasi in una polka   indiavolata nel descrivere lo scoppio d’ira e l’arbitrio della damina, che licenzia il servo; e di tutta la nobile società rococò che gli rifiuta per sempre il lavoro.  Dopo una pausa elegiaca nel minuetto dei vv. 698-70, dedicati al servo, che con la famiglia è ridotto a  mendicare, assistiamo ad un’ultima impennata con il fox-trott del sarcasmo  finale, per la vittoria superba dell’ “idol placato dalle vittime umane”.

A parte, dunque, questo episodio, l’ironia è universale ne Il Mezzogiorno. Dapprima il poeta irride  se stesso, paragonandosi sproporzionatamente a Jopa (l’aedo della regina Didone) ed a Femia (quello alla corte di Ulisse). Tocca, poi, alla dama allo specchio, mentre attende il cavalier servente (vv. 24-49); viene, quindi, il turno del marito “dell’altrui fida sposa a cui (tu, cavalier servente) sei caro” (vv. 50-90); poi, toccano frecciate allo stesso giovin signore, sorpreso nel cerimoniale “che amor dimostri o gli somigli almeno” alla dama, che egli serve secondo un regolare contratto, scritto al momento delle nozze di lei (vv. 91-116); segue il duetto di gelosia  e di permalosità fra cavaliere e dama, collla pace finale, onde accedere sereni alla tavola (vv. 117-66); questa commedia dei risentimenti amorosi fa insorgere finto sdegno nel poeta contro la gelosia, che un tempo appestava le famiglie in Italia (vv. 184-88: “Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo| oltre l’Alpi, oltre il mar destò le risa|  presso agli emoli tuoi che di gelosa| titol ti diero e t’è serbato ancora| ingiustamente...”. Si va a tavola: encomi grotteschi ai cuochi, alla Francia di Richelieu e di Colbert (che li hanno addestrati), all’appetito dei signori che hanno il privilegio di non andare a mensa per bisogno, come i comuni mortali, ma per voluttà (vv. 208-84). Segue allora la favola del Piacere, che fa consistere la differenza fra nobili e plebe nella acutezza animalesca dei sensi (vv. 255-347). Si siedono a tavola, dove il cavaliere è prossimo alla dama-padrona, mentre il marito siede fra i “silvani capripedi” (vv. 728-9). Arrivano ( vv. 348-90) i primi discorsi, che vivono di “gentil motteggiamento| maliziosetto” (vv. 372-3)  e di “elegante licenza” (v. 383). La dama trincia la pietanza, destando ammirazione e desideri nei convitati, mentre il marito non sembra accorgersi della sensualità adultera che gli aleggia attorno. (vv. 391-436). Ed ecco gli argomenti per una conversazione aggiornata, alla moda: disprezzo e vergogna pel lavoro e per l’arte italiana, esaltazione del comemrcio a scapito delal agricoltura, filosofia epicurea del ghiottone e filosofia pitagorica del vegetariano (vv. 437-703: comprende l’episodio della vergine cuccia).  Ma talvolta ci sono  personaggi stranieri, ospiti d’onore a tavola (vv.704- 811). Sono ammirati sin per i loro difetti fisici (risibil gobba) o fisico-morali (“orribil ceffo| per natura o per arte a cui Ciprigna| rose le nari”). I loro discorsi irridenti alla religione ed alla morale si mescolano ai brindisi con vini prelibati che, in tale circostanze dama e cavaliere si fanno da lontano, chè l’ospite di irguardo siede lui vicino alla dama. “L’aere a quell’urto| arderà di faville e Amor con l’ali| l’agiterà” (vv. 733-5). Ma il brindisi all’amore (vv. 769- 72: “Immortal come voi la nostra Musa| brindisi grida all’uno e all’altro amante;| all’altrui fida sposa a cui se’ caro,| e a te, Signor, sua dolce cura e nostra”) non implica eternità di affetti. Il poeta (che non vuol essere più cattolico del papa!) “a voi desia| sol quanto piace a voi durevol nodo.| Duri fin che a voi piace, e non si sciolga| senza che Fama sopra l’ale immense| tolga l’alta novella..” (vv. 785-9). Si giunge ai discorsi più o meno aggiornati, più o meno dotti (812-1009): sono imparaticci, appresi leggicchiando alla toletta, durante la pettinatura o altro lavoro dei domestici, ma sbandierati con improntitudine superba (“Oh letti oh specchi oh mense| oh corsi oh scene oh feudi oh sangue oh avi,| che per voi non s’apprende?”: vv. 837-9). Nel caso, il giovin signore potrà dire spropositi anche in latino: il poeta prezzolato, che voi “de le Muse| a dispetto e d’Apollo, al sacro coro| ascriveste de’ Vati” non potrà che lodarlo, se vuol saziare la propria fame alla di lui mensa. E, naturalmente, il giovin signore si schiererà “coi nuovi sofi” (957) a derider la fede e la morale degli antenati e del Medioevo, salvo a rifiutare –come ape che sceglie dai fiori solo il nettare e non il veleno- le dottrine sulla uguaglianza del genere umano tutto, che pure fa parte del nuovo vangelo illuminista... Con l’arrivo del dessert e del caffè la tensione ironica si attenua (vv. 1010-1098), salvo a ridestarsi nel guizzo finale della invenzione del tric-e-trac, che chiude Il Mezzogiorno (1109-1191).[73]

 

Tra i soli 510 versi de Il Vespro, l’episodio più degno di nota è quello della perfidia tra finte amiche (vv. 189-303). Una di esse è stata abbandonata dal cavaliere-amante; subito la fama se ne è divulgata e la coppia dei nostri “eroi” si precipita a “consolare” la sventurata: la carità dell’intervento è tale, che la visita si trasforma in una inchiesta impietosa e pungente, che poco manca non arrivi alla rissa. Solo l’intervento del giovin signore, che vuol  parere neutrale ed è invece divertito, mette in qualche modo pace fra le due belle, che manifestano la  sempre più   nervosa ostilità attraverso il sempre più  veloce movimento del ventaglio (“e crsce intanto| e quinci ognor più violento e quindi| il trepido agitar dei due ventagli”: vv. 281-3). Il poeta  trafigge questi signori che, annoiati dall’ozio (vv. 237-8: “in un momento| lo sbadigliar s’arresta”)[74], cercano nelle disgrazie altrui un  diversivo al proprio spleen, all’insensato vuoto della propria vita. Altri passi intessuti di ironia sono quelli della visita all’amico ammalato, che si risolve in una sosta alla portineria del palazzo, per fargli pervenire un biglietto vergato dal poeta parassita (vv. 109-80); il rumore per la nascita dell’erede di un casato illustre (vv. 304-49: “Nè le Muse devote, onde gran plauso| venne l’altr’anno agl’imenei felici,| già si tacquero al parto. Anzi qual suole| là su la notte dell’ardente agosto| turba di grilli, e più lontano ancora,| innumerabil popolo di rane,| sparger d’alto frastuono i prati e i laghi...”); la passeggiata, infine, dei cocchi lungo i bastioni, verso sera (vv. 350- 412).

Dopo un percorso sostanzialmente ironico come Il Mezzogiorno, Il Vespro si schiude, però, con una nota contemplativa, in cui pare predomini la  voce elegiaca: il  tramonto del giorno e l’uguagliarsi di tutto il creato nella oscurità della notte (vv.494-510).

 

La Notte  continua il tono contemplativo, accentuando il viraggio elegiaco, che è interpunto però da striature drammatiche (vv. 4-28).[75]  Segue  qualche momento di stupore epico (vv. 38-59). Ma anch’esso rientra, complessivamente, nel tono principe della ironia, che presenta  sfumature interessanti, dalla satira pungente alla farsa divertita.  Ecco il puntiglio per la precedenza dei cocchi (vv. 77-100); la vanesia arroganza per la vittoria del proprio cocchiere sull’avversario (vv. 178-189); la ebetudine dei tipi maniaci che frequentano il palazzo nelle sere di ricevimento, con una parte fissa da svolgervi: il cronista del pettegolezzo cittadino, lo scuotitore di frusta, il suonatore di corno, il tecnico di cocchi, l’esperto di giochi di società, l’appassionato di allevamento dei cavalli, l’infantile o rimbambito dipanatore di tappeti, la sapida e maliziosa matrona che appaia gli ospiti alle tavole da gioco, l’invenzion del gioco come rimedio all’intiepidirsi della vitalità erotica negli anni avanzati, l’arrivo dei gelati, sui quali il poemetto si interrompe: “Quanta folla d’eroi! (v. 349); “Ognun folleggia e scherza...” (v. 361).

 

        LE PROSE.

La satira è presente nel Dialogo sopra la nobiltà.

Più garbatamente ironico e canzonatorio è il Discorso sopra le caricature e nella stessa atmosfera cercano di sistemarsi le Lettere ad una falsa devota.

 

        ALCUNE POESIE DI RIPANO EUPILINO.

La sezione “Poesie piacevoli” è occupata da poesie ora più ariostesche, ora più bernesche, ora più giovenalesche. Segue maggiormente l’Ariosto (umorismo, ironia garbata) nel sonetto: “Io, Nencia, sono stat’ieri a Fiorenza”; in quello caudato “O monachine mie, questa fanciulla”; come pure nella “Pìstola” (sopra la pigrizia).

Più aderente a Francesco Berni è l’ironia incisiva, ma sempre scherzosa, di “M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni” (sonetto caudato). La stizza di Giovenale, con polemica e scatti d’ira magnanima compare nei sonetti “Molti somari ho scritto in una lista”, “Andate alla malora, andate, andate”, “Muse pitocche, andatene in b.......”(gli ultimi due, caudati).

 

        Le ODI sono quasi tutte al riparo da satira ed ironia: Parini si elevava all’epica (o tentava, almeno). Fa eccezione “L’Impostura” che è satirica nella parte finale, dopo esser stata mentitamente elogiativa (ironica, quindi) nella più parte dei versi.

 

        Tra le POESIE SPARSE (o VARIE), troviamo lo scherzo bernesco in queste composizioni: “Risoluzione di morire”| “O anima bizzarra del Burchiello”| “In morte dello Sfregia barbiere”| “La maschera”.

Il tono svaria fra il drammatico e lo scherzoso (ricalacato sui versi di Gian Carlo Passeroni) in “I ciarlatani” e ne “Il gatto andò alla casa del villano”.

Satira violenta esplode ne “Il lauro”| “Lo studio”| “Il teatro”| L’auto da fè”| Un prete brutto, vecchio e puzzolente”| “Madamm, gh’ala quaj noeuva de Lion?”| “Crispin non avea pan tre giorni è oggi”| “Un somarello è montato in bigoncia”

L’ironia benevolissima dell’umorismo diventa più complice che caricaturale, più vagheggiamento che rimprovero nelle poesie galanti: “Viva, viva la Giuditta”| “Belle, son qui per voi” (parafuoco)| Scherzo per ventole| Scherzi per ventagli| “Per che, mio cor” (ondeggiamento degno de “La libertà” del Metastasio)| La indifferenza.

 

IL TONO DRAMMATICO resta quello  più consono alla psicologia pariniana.  Difatti è presente nella comicità dell’ironia- satira- sarcasmo, e, fuori del capolavoro, compare anche allo stato puro di stizza e collera discretamente sublimate in lirismo. 

       

        ALCUNE POESIE DI RIPANO EPULINO

“Manzon, s’io vedrò mai l’aspro flagello”[76]

       

        ODI.

Nessuna ne è priva. Certune iniziano idilliche ed arcadiche, ma la nobile collera finisce col prevalere e Parini diventa spesso polemico: ha bisogno di un bersaglio da trafiggere per destare la musa e far poesia. Si vedano, ne La vita rustica, i versi magnifici già più volte citati (“Me non nato a percotere...”).   Ne La salubrtà dell’aria, polemizza contro la poca igiene della città di Milano (il problema ecologico esisteva già, sia pure su scala  ridotta). Ne L’impostura, sono drammatici i versi “Ma qual splende amabil lume?”, cioè le due strofe conclusive. Ne Il bisogno, i versi che iniziano “Con le folgori in mano”. Ne La musica, quelli che inziano “Ahi! péra lo spietato| genitor che primiero”. De La caduta sono  giustamente ripetuti i versi sdegnosi “Umano sei, non giusto..... | Ho il consiglio a dispetto....”. Ne Il dono, l’ira magnanima è suggerita dalle tragedie di Alfieri (“Queste che il fero Allobrogo| note piene de’affanni| incise col teribile | odiator de’ tiranni| pugnale...”). Ne La gratitudine, vi sono versi fieri e solenni come questi “Dove, o cetra? Non più....| Lungi, o profani! Io d’importuna lode| vile mai apersi| cambio...”. Ne Sul vestire alla ghigliottina, balza al cuore il verso rotto, di stile alfieriano: “Parla. Ma intesi. Oh barbaro...” e l’insulto “Infamia al secolo spietato”. In Alla musa, i versi finali “Parini, italo cigno| che, a i buoni amico, alto disdegna il vile| volgo maligno”.

 

        POESIE SPARSE (o “varie”).

Quelle satiriche contengono brani puramente o prevalentemente drammatici (Il teatro| L’auto da fè...).

Ma il dramma delle “Sparse” è rilevante in un cumulo di sonetti : segnaliamo  in particolare i primi trentuno della edizione originaria, mentre ricordiamo come esempi di una drammaticità di livello minore e quasi trascurabile anche Sopra la guerra| Al consigliere barone De Martini| A Gian Carlo Passeroni| Ricordi infantili| A Delia.

 Proprio la sfilata dei sonetti dai temi più disparati (amore, morti, avvenimenti politici, religiosi...) è spia acutissima che il minimo comun denominatore della tastiera pariniana è il dramma: si può dire che tutti i suoi versi ne sono intinti e coinvolti, mentre gli altri registri emozionali vi si alleano in simbiosi più o meno felici. Dovremo rivedere questi stessi sonetti  quando accosteremo altre tonalità liriche, che sfumano ulteriormente, ma non cancellano del tutto il timbro drammatico. Questo rimane  il timbro originario ed elementare del Parini: l’ironia, la satira e il sarcasmo, come si è detto, ne sono casi di complicazione.

 

L’IDILLIO. Il meglio della espressione gioiosamente contemplativa è nella canzonetta La primavera. Si sente spirare la melodia dell’Arcadia, ma non sdolcinata, perchè vi  si accompagna una forza, latente ma attiva. E’ la dolcezza dell’Arcadia, ma antiquata al Millecinquecento.

Questa canzonetta è un caso unico nel Parini: è idillio puro. Altri casi di espressione idillica sono invece complicati da striature drammatiche. Si vedano, ad esempio, ne Il  GIORNO, i vv. 33-52 de Il Mattino (“Sorge il mattino in compagnia dell’alba”) e, de Il Mezzogiorno, i vv. 657-664 (il gemere della linfa nelle viti a primavera: mescolanza con elegia e ironia) e i vv. 1002-1009 (le api).

Nelle “Poesie di Ripano”, si tenga presente il sonetto sesto (“Spesso mi torna il dolce tempo a mente”) e le terzine del sedicesimo.

Tra quelle “Sparse” si può ritrovarlo, sia pur mediocre, nelle terzine de La vita campestre (striature dramamtiche lo deprimono); ne La bellezza del creato (versi sciolti non finiti nè molto riusciti: anche qui striature di dramamticità creano dissolvenze); in Filli (sciolti, con gruppi di versi idillici ed altri elegiaci).

Tra i sonetti, si leggano il 24 (“Silvia immortal...”: dramma ed epicità mescolati); il 33 (“La verginella che dal ciel condotta”), il 45 (“Le fresche ombre tranquille”). Infine vi sono due sonetti per nozze,  il 49 (“O tardi alzata dal tuo novo letto”) ed il 50 (“Fingi un’ara, o pittor. Viva e festosa...”), ma hanno una forza che equilibra verso l’epopea la festosità idillica.

Delle canzonette, oltre La primavera, vi sono ancora “Per che, mio cor” e Brindisi. Qust’ultimo raggiunge un diapason lirico notevole,  anche se mescola all’idillio vagheggiamento ancora malizioso, nostalgia del tempo andato e scherzo sulla vanità di un certo tipo di amore (e di illusioni ad esso legate). Anche Le nozze[77] esprimono idillio, moderatamente intinto di sensualità.

Tra le Odi, a parte Brindisi incluso in esse, l’idillio è sempre frammisto a drammaticità. Se ne trova, comunque, ne La vita rustica| La salubrità dell’aria| La educazione| La recita dei versi. Idillio da vagheggiamento sessuale  è rintracciabile ne Il pericolo| Il dono| Il messaggio| Alla Musa.

 

LA ELEGIA. E’ molto rara in Parini e praticamente mai scompagnata da risonanze drammatiche. E’significativo che ben tre sonetti sulla malinconia (tema assegnato dalla accademia dei Trasformati per il 1757) risultano invece decisamente sofferti, contestatori, drammatici.[78]  Non si vuol dire che il Parini fosse del tutto allergico a tale lirismo, chè esso affiora nelle imitazioni (da Petrarca: “Voi che sparsi ascoltate in rozzi accenti”; dal Della casa “O sonno placido, che con liev’orme”) e nelle traduzioni (da Catullo: “Per molte genti e molto mar condotto”) o nella saffica non terminata In morte di Domenico Balestrieri.

Se ne trovano, poi, accenni mescolati ad altri sentimenti, come nelle ultime strofe de Il messaggio, nell’inizio del frammento A Filli (che continua, poi, in tono idillico, con echi forse provenienti da Salomon Gessner, tradotto da Aurelio Bertola); nell’apertura dell’altro lungo frammneto Eurilla e Silvio (sciolti: “In una solitaria capannetta”); nei vv. 689-701 de Il Mezzogiorno e 1-29 de La Notte (descritta fra ambiguità elegiaca e drammatica, per la oscurità e paurosità delle ombre, ora fugate dal progresso); nei due sonetti per i cittadini milanesi redenti dalla schiavitù dei Musulmani “Finor di Babilonia in riva ai fiumi”| “Queste incallite man, queste carni arse”). Ma si tratta di una magra spigolatura in un campo elegiacamente quasi sterile.

 

 

L’EPICITA’.

Più congeniale che non l’elegia, è però raramente del tutto convincente, perchè si ritrova quasi sempre frammista al tono drammatico di fondo. I versi epici risuonano, così, un po’ faticosi e stentati, un po’ gridati ed oratori, quasi il poeta giunga alla vetta del tono lirico più potente con l’affanno dello sforzo impiegato.

Casi notevoli ci sembrano questi. Le ODI sono un po’ tutte celebrative e, quindi, epicizzanti. Fa eccezione La Impostura, che però si sostanzia di dramma ed epopea nella protesta finale di fedeltà al  solo Vero (“Ma qual arde amabil lume’| Ah! ti veggio ancor lontano,| Verità, mio solo nume,| che m’accenni con la mano,| e m’inviti al latte schietto| ch’ognor bevvi al tuo bel petto.|| Deh, perdona! Errai seguendo| troppo il fervido pensiere.| I tuoi rai del mostro orrendo| scopron or le zanne fiere.| Tu per sempre a lui mi togli;| e me nudo, nuda accogli.” Già citati anch’essi, ma meno riusciti,, van qui riletti gli scatti di fierezza epica, nella finale de La vita rustica e de La caduta, de La gratitudine;  la celebrazione della contessa M. di Castelbarco ne Il Messaggio (str. 4-12) e gran parte  dei versi in  Alla Musa.

Tra i sonetti, eccezionalmente epicizzante- pur nel prevalere del dramma- è l’ultimo (“Predaro i Filistei l’arca di Dio”).

Passiamo ora al GIORNO. Il Mattino offre i versi 134-57 (le eroiche imprese militari e commerciali per... procurare la cioccolata e il caffè al giovin signore); 573-76 (le... eroiche imprese del parrucchiere, nel dare una pettinatura degna al cicisbeo effeminato); 581-619 (la “generosa ira” della “progenie di semidei” per l’eventuale imperizia dello stesso parrucchiere!) e soprattutto i versi 668-89, che formano il brano contro Voltaire, Ninon Lenclos e La Fontaine, quello epicamente più riuscito, che culmina con versi davvero grandiosi: “O de la Francia Proteo multiforme,| scrittor troppo biasmato e troppo a torto| lodato ancor, che sai con novi modi| imbandir nei tuoi scritti eterno cibo| ai semplici palati e sei maestro| di color che a sè fingon di sapere;| tu appresta al mio signor leggiadri studi| con quella tua fanciulla all’Anglo infesta[79],| onde l’Enrico tuo vinto è d’assai,| l’Enrico tuo che invano abbatter tenta| l’Italian Goffredo, ardito scoglio| contro a la Senna, d’ogni vanto altéra.| Tu de la Francia onor, tu in mille scritti| celebrata dai tuoi, novella Aspasia| Taide novella ai facili sapienti| de la gallica Atene, i tuoi precetti| pur detta al mio signore; e a lui non meno| pasci l’alto pensier tu che all’Italia,| poi che rapirle i tuoi l’oro e le gemme,| invidiasti il fedo loto ancora| onde è macchiato il Certaldese e l’altro| per cui va sì famoso il pazzo conte”.

Il Mezzogiorno sale di tono nei versi 524-98, dedicati  alla superiorità degli artefatti stranieri ed al primato  del commercio nella vita economica; e nei versi 1109-1191, che descrivono il gioco del Tric-e-Trac.

La Notte lascia affiorare un canovaccio epicizzante più solito, perchè meno presente è la inconscia seduzione mondana e più aggressivo è il piglio del poeta, che esalta sempre più equivocamente i suoi pseudoeroi, passando dall’ironia alla satira, lasciando più spazio alla collera magnanima .I brani più epicizzanti restano nei primi duecento versi, con lo spettacolo delle fiaccole che trionfano delle ombre notturne ( vv. 68-76), della notte che resta attonita di fronte alle meraviglie delle nuove tecniche (vv. 140-7) e del palazzo patrizio splendido di luci (vv. 170-78a); e con la vittoria del carro del giovin signore su quello dei rivali (vv. 178b-89).

E si tenga presente che  là dove il Parini introduce immagini e paragoni classici, mitologici, cavallereschi, fingendo di elevare a sfera superiore i suoi poveri personaggi, l’ordito epico  tende a soppiantare, sotto la trama del divertimento comico, il registro drammatico.

 

        NOTE STILISTICHE

 Carattere generale  ambivalente, sia nella complicazione prosastica che nella complessità poetica.

Quello della complicazione-complessità della tecnica espressiva pariniana è una acratteristica sospettabile a priori. Non si è dovuto costatare un compromesso all’italiana, fra cristianesimo e illuminismo, a livello intellettuale, cioè nei motivi ispiratori? Tale barcamenarsi è segno di saggezza in quanto nè condanna globalmente nè ciecamente accetta il nuovo pensiero, ma è indizio anche di insufficiente senso critico, in quanto egli finisce per  ospitare princìpi e comportamenti in contrasto fra loro, giungendo ad incoerenze che  deve pagare con ritrattazioni e svolte  bustrofediche.

 E, in sede di lirismo, non abbiamo incontrato il felice connubio fra idillio e drammaticità, nella comicità che mescola, come tonalità di fondo, collera e sorriso, ostilità e divertimento,? Anzi, rari sono i casi di lirismo univoco puro ed alto, nell’idillio o nell’epopea, perchè il tono drammatico insidia tutti gli altri sentimenti, mentre esso stesso fatica a starsene lontano dal riso ironico o satirico.

Considerate queste premesse, è presumibile che la stessa polivalenza si ritrovi nelle componenti espressive, cioè nella tecnica stilistica del poeta.[80]

Da una parte avremo  uno spntaneo sintonizzarsi col realismo del Berni e dell’Ariosto, con Giovenale ed Orazio, specie nelle composizioni giovanili; dall’altra avremo l’accoglienza della raffinatezza arcadica in Brindisi e nelle altre Canzonette (“La primavera”| “Le nozze”| “L’indifferenza”| “Il parafuoco”| “Il passatempo”) e negli scherzi per ventagli e parafuochi. Ma più spesso i due estremi della sua scala armonica si toccheranno, generando una complessità lirica  che nel poemetto raggiunge i suoi risultati migliori, mentre nelle Odi avremo il passaggio dall’uno all’altro linguaggio, con lo stile classico puro quale meta  intenzionale, ma con residui realistici persistenti a creare ora ingorghi, cioè “complicazioni sterili” ed ora sinergismi, cioè “complessità liriche”. Ecco l’esempio peggiore: La gratitudine, nel suo complesso (cioè nella più parte dei suoi 320 versi), è un caso di dissolvenza incrociata anche nello stile: troppo familiare per essere aulico, troppo levigato per rimanere realistico. Sembrerebbe che  la  eminenza del cardinale   Angelo Maria Durini si elida con l’umiltà del suo degnarsi di assistere alle lezioni del Parini, generando un impacciato dualismo di ispirazione e di mezzo espressivo, fra lo stile elitario, quale meriterebbe la porpora e lo stile popolare, quale sembra richiedere il gesto benevolo del personaggio. Il risultato è   soltanto  grigiore e noia.

Non siamo d’accordo, per altro, con quella critica che vorrebbe vedere un’ascensione coerente e continua dalla rusticità della più parte del poetare giovanile sino al neoclassicismo delle ultime due parti de Il Giorno. Il Parini, infatti, continuò a creare poesia e realistica e addirittura dialettale anche negli ultimissimi anni di vita (1793: “Madamm, g’hala quai noeuva de Liònn?”| 1799: “Predaro i Filistei l’Arca di Dio”): e con risultati più che discreti. D’altronde non consta da  alcun documento che il poeta brianzolo facesse distinzione fra classicismo oraziano e neoclassicismo winckelmanniano. In proposito esamineremo La caduta, per evidenziare come anche in una composizione  che si propone a modello i classici  antichi attraverso Orazio (il titolo ODI dipende dalla raccolta in quattro libri delle poesie più impegnate e splendide del Venosino),  ci sia posto, ancora nel 1785, pel vocabolario realistico e per l’atteggiamento virilmente urtante. Parini non poteva staccarsi dalla sua natura psicologica e una componente di forza rimaneva pur nel tentativo continuo di pervenire ad una raffinatezza sublime: vigore e levigatezza, potenza e fluidità, dolcezza e risentimento dovevano  legarsi nei versi, come convivevano nell’uomo. E le parti riuscite de Il messaggio,  L’educazione, Alla musa, che sono fra le odi migliori, denunciano tale simbiosi di toni lirici e di stilemi espressivi. E la musicalità del poema testimonierà la stessa convivenza.

 Ma veniamo ora all’analisi dello stile di qualche scritto più realistico, per passare, poi, attraverso l’esame de La caduta, ai risultati   più propriamente classici del poemetto.

 

        Lo stile delle prose

E’ sempre nella linea della non semplicità, con risultati fallimentari (complicazione) nelle pagine del Discorso sopra la poesia ed esiti poeticamente sufficienti (complessità) nelle pagine delle varie relazioni all’Accademia dei Trasformati (Dialogo sopra la nobiltà: 1757| Discorso sulle caricature: 1759; ....).

Parini risulta retorico, decisamente “premanzoniano” nelle lezioni accademiche. La prima volta che si legge il Discorso sopra la poesia si può cadere nella tentazione di interpretarlo come uno scritto ironico-scherzoso, tanto l’espressione manca di  normalità, realismo, ovvietà e concretezza. Invece si tratta non di comicità, ma di ridicolo! Abbiamo una classicità bolsa e sofisticata.

Invece nei citati scritti, non cattedratici ma di fantasia, egli attinge una comicità non certo sublime, ma pur sufficiente; e lo stile svaria complesso fra realismo vero e  finta retorica, fra pungente popolanità e supponente  pomposità, fra sana naturalezza e  classicismo artefatto. Una spia di tale pasticcio gustoso è l’impiego di parole sdrucciole  ad ogni costo, sino a crearne  di ridicole mediante particelle pronominali messe a suffisso di voci verbali. Se ne trovano alla fine, ad esempio, di questo brano ironico contro l’uso, da parte delle classi ricche del suo tempo (ma trasferiti nel mitico mondo dell’India medicinale o “pastinaca”) di mangiare solo cibi stranieri oppure quelli nostrani, ma così manipolati da renderli irriconoscibili: “ Tutte quante le grasce di quella terra, siccome sono sanissime per i forastieri, così sono un tossico potente per li nazionali; laonde non vi si vive se non delle cose che vengono dal di fuori; e, se pur màngiansene alcuna di loro, egli è perchè i cuochi tanto pìstanla, impastanla, impiastriccianla e tingonla e coloranla e cangianla da quel ch’era prima, che n’escon tutte quelle particelle venefiche ed altro non vi riman che il sano” (Discorso sopra le caricature, in Ricciardi, cit. p. 587). Si noti di passaggio: lo stesso amminicolo tecnico ricompare nelle Lettere ad una falsa devota (“Già pongomi a meditar... già dommi ad osservar... già sbracciomi a scartabellare..”), tanto che potrebbe essere questo accorgimento stilistico a provare come autenticamente pariniane tali “lettere”, non garantite del tutto dalle circostanze esteriori (anche l’epoca di stesura delle due opere coinciderebbe: 1759).

 

        Lo stile delle opere poetiche: il prevalere della componente realistica.

La duplicità delle componenti stilistiche nel Parini si manifesta per due vie. Anzitutto vi è in ogni epoca della sua versificazione la compresenza di composizioni in linguaggio decisamente concreto e realistico, accanto ad altre di tecnica  a prevalenza classico-raffinata. Tale dualismo si allea in simbiosi stilistica, come si può rilevare al meglio nelle Odi che, nel cammino verso la  agognata classicità pura, rappresentano quasi una ascesi di purificazione intermedia. Ma anche nella    eleganza classica del capolavoro  rimane una componente musicale sostenuta e risentita, ad attestare la impossibilità del poeta a staccarsi del tutto dal realismo congenito nella sua personalità e, quindi, nella sua ispirazione, lirismo e stile; così come anche nelle più bernesche composizioni non mancano reminiscenze mitologiche o cavalleresche e versi ripresi dai più  classici poeti.

Il realismo è più evidente nelle composizioni satiriche : Il teatro| M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni| O Sfregia, o Sfregia mio| Un prete vecchio, brutto e puzzolente..., oltre che nella produzione dialettale (Sta flutta milanesa on gran pezz fà| Madàm, g’hala quaj noeuva de Liònn?| Scior curat de Pusian...).[81]

Limitiamoci alla analisi della canzone “O Sfregia, o Sfregia mio” (In morte del barbiere).

Il realismo giunge sino alla  impudenza, alla volgarità, alla scrittura incerta fra lingua e dialetto, al vocabolario banale e plebeo, alle immagini popolane e bestiali....[82].  Ma son altri due gli elementi che iscrivono questa canzone regolare fra le opere d’un realismo clamoroso. Anzitutto si impongono i motivi ispiratori, cioè  la irrazionalità balorda dell’argomento e tutta la messinscena  paranoica, ripresa dal Burchiello (citato: 13, 3; d’altronde, il Burchiello era barbiere di professione) e dal Berni: vi si elogia un barbitonsore falloso proprio per la mancanza di pulizia e decoro, per la imperizia madornale, per la presunzione proporzionata alla  goffaggine. In secondo luogo, è l’impasto musicale, che è greve per i suoni : non  dettano l’armonia le vocali larghe,  ma consonanti dure (dentali| gutturali|) e soprattutto gruppi di consonanti aspre: la “R” la “S” unite a dentali od esplosive  o fra loro (“sfr| str| sp| tr| dr| rb...). E si potrebbe appellarsi anche al tono lirico, chè la satira e lo scherzo sono di grosso pelo, di stampo strapaesano. Il risultato è inconfondibile: creano un ambiente ed un dinamismo da ghetto, economicamente e culturalmente miserabile.   Nonostante, si noti, i molti elementi “classicheggianti” volutamente inseriti. Vi è spazio per la mitologia (Plutone e Proserpina) e per i cavalieri antichi (Ruggero: 8, 12), per i poeti ed i filosofi più solenni (Omero e Platone), per le reminiscenze petrarco-bembesche (“Ma, lasso! qual conforto| sperar poss’io, se più sperar non posso| chi come te mi rada infino all’osso?”),  dantesche (10, 5: “che tante volte ha me da me diviso”: cfr. Inf. 5, 135: “questi, che mai da me non fia diviso”). Vi è spazio per una serie di versi in controcanto rispetto alla pesante rudezza della massima parte: si leggano 4, 4-10: “Una scranna quivi era| che avea per ben due secoli conteso| col tempo suo nemico.| Parea di verde antico| al sol sentirla; e tratti avea sì fini,| che a chi vi si appoggiava| giva facendo mille vaghi inchini”. Che più? il metro scelto è quello classicissimo della canzone regolare: 13 stanze di 13 versi ciascuna, con schema di rime fisso e congedo finale!

 

        Lo stile delle opere poetiche: il perfezionarsi dei fattori classici a spese di quelli realistici.

Allo stesso traguardo biforcuto si approda prendendo le mosse da una qualsiasi ode, dove però i rapporti tendono ad invertirsi, recedendo il realismo ed accentuandosi la componente classicheggiante.

La salubrità dell’aria, proprio perchè scritta nel 1759 e rifatta nel 1791, porta in sè più profondamente impressi i segni della  coppia di componenti stilistiche: si potrebbe ricarvarne il materiale per due vocabolari diversi, quello realistico e quello classico.

Da una parte abbiamo “fetido limo| orribil bitume| bestemmia il fango| baldanzosi fianchi| ardite villane| putridi stagni| trasse gli scelerati- rivi a marcir sui prati| il fimo alto fermenta –sali malvagi| ammorbò l’aria lenta –che a stagnar si rimase-tra le sublimi case|| Quivi i lari plebei- da le spregiate crete- d’umor fracidi e rei- versan fonti indiscrete- onde il vapor s’aggira- e col fiato s’inspira.|| Spenti animai ridotti- per le frequenti vie- de gli aliti corrotti- empion l’estivo die:- spettacolo deforme- del cittadin su l’orme.|| Nè a pena cadde il sole- che vaganti latrine- con spalancate gole- lustran ognui confine-de la città-che, desta- beve l’aura molesta.”

 Per un dizionarietto di eleganze e raffinatezze, si potrebbero scegliere questi vocaboli: “Eùpili| natìo aere| etere| egri spirit| Austro scortese| Borea| morbi| Péra| Stige| colli ameni| di pure linfe asterso| dolci tempre| il timo e il croco e la menta selvaggia| che con soavi e cari- sensi pungon le nari| Temi bieco guata| Va per negletta via- ognor l’util cercando- la calda fantasia-che sol felice è quando- l’utile unir può al vanto- di lusinghevol canto.

 Ancor più istruttiva ci sembra La caduta che, composta nell’inverno del 1785, è contemporanea al lungo lavoro di lima che il Parini stava continuando per le ultime parti de Il Giorno. Ebbene il vocabolario è ancora ambivalente.

Per il realismo  ci sembrano militare i termini o le proposizioni “imperversa| terra ottenebrata| tra il fango e la obliqua-furia de’ carri la città gir vede| stramazzar| capel lordo| a traverso|- de’ trivi, dal furor de la tempesta| per l’erte scale- arrampica qual puoi| i cupi sentier trova- colà dove nel muto- aere il destin de’ popoli si cova| dilettando scurrile- i bassi geni dietro al fasto occulti| Mia bile alfin, costretta- già troppo, dal profondo| petto rompendo, getta| impetuosa gli argini; e rispondo| tergo| indi mi toglio| ho il consiglio a dispetto...”.

Per il viraggio classico ci sembrano testimoniare questi altri vocaboli o frasi: “dal cielo| declinando| iniqua stagione| infermo il piede| avverso sassso| lubrico passo|Altri accorre; e Oh infelice –e di men crudo fato- degno vate! mi dice;- e, seguendo il parlar, cinge il mio lato|| con la pietosa mano...|Sdegnosa anima! prendi| prendi novo consiglio....|| abbracciando le porte- degli imi che comandano a i potenti...|| Umano sei, non giusto| chiede opportuno e parco- con fronte liberal che l’alma pinge...”.  Se per qualcuna di queste parole|espressioni si può dibattere, certo garantite al patrimonio classico sono queste altre: Orion| vate| cigno (=poeta)| usbergo| censo (ricchezza)| urna| dubitante piè| clienti| Mima| Musa... :  alcuni  di questi vocaboli saranno cari anche al Foscolo.

E vi sono altri indizi di realismo-classicismo nell’uso del ritmo. Più semplice e realistico ci pare,  ne La salubrità dell’aria, il periodo  logico che coincide per lo più con quello ritmico: ogni strofa un  pensiero compiuto (fanno eccezione solo le strofe 9-11). Viceversa, ne La caduta l’enjambement strofico o  sconnessione fra i due tipi di periodare è cosa  frequente, sicchè le strofe legano fra loro un pensiero più complesso e più  paludato.[83] Anche il musicalismo può avere qualcosa da suggerire: ne La caduta, l’affinità con Il Giorno è  evidente. Tuttavia, come connotazioni differenziatrici, in senso più realistico troviamo una maggior frequenza di “S” sonora (spesso, per questo, raddoppiata); in senso più raffinato, un numero maggiore della  dentale media“D” che vedremo pur frequente, oltre la media parlata, anche nel capolavoro; la uguale proporzione della lubrificante “L” con la più forte “R” che nel poema è pervasiva; ed ancora in senso raddolcente  al di là dello standard del capolavoro, la frequenza di “G” palatale e di “GL”. [84]

        Lo stile delle opere poetiche: Il culmine del classicismo pariniano nel poema Il Giorno.

Pur tenendo presente l’affinarsi ascendente del Parini nel passaggio dalle due parti edite negli anni “Sessanta” (1763: Il Mattino; e 1765: Il Mezzogiorno) alle due postume (Il Vespro e La Notte), tuttavia ci sembra che la tecnica del suo classicismo sia rimasta sostanzialmente identica. Potremmo schematizzarla in questi sei parametri: LINGUA, SINTASSI, METRICA, MITOLOGIA, MUSICALISMO LEVIGATO, ALLUSIVITA’. Eccetto l’ultimo, queste tecniche espressive valgono, in misura maggiore o minore, anche per le parti classicamente riuscite delle Odi.

 

        La lingua.[85] Non che tutto il vocabolario del Parini nel poemetto sia di marchio classico garantito: egli non riuscì mai ad eliminare un residuo di lingua nerboruta e ostica che gli era innata, che egli aveva privilegiato in molte sue composizioni (ed ancora avrebbe continuato a farlo) e che talora,  aggravata l’ironia in satira, si addiceva  meglio al suo  giudizio sulle nuove bravate del giovin signore e della complice damina. Non sarebbe difficile perciò fare una scelta di vocaboli da Il Giorno con viraggio meno elegante e più realistico, ma si tratterebbe di una silloge recessiva o minoritaria, in contrasto con la impressione di  sicura  aura classica che promana dall’insieme del linguaggio nel capolavoro.

Una obiezione al nostro procedere potrebbe  riferirsi al nostro scegliere singoli termini, quando è  predicato che ogni vocabolo assume nel contesto del periodo il suo significato definitivo. Ma proprio questo noi contestiamo agli strutturalisti: sebbene normalmente  “la langue”  diventi “parole” dal contesto in cui è inserita, questa non assume  tanto un senso nuovo, ma solo sfumature di significato ulteriore, sicchè anche il vocabolo isolato può avere un suo plusvalore culturale e musicale, cioè riferirsi automaticamente ad una cultura (latineggiante, classica, raffinata...) piuttosto che ad un’altra (popolana, realistica, moderrna, concreta...). Le nostre scelte ci sembra dimostrino la nostra tesi.

Prendendo allora dei gruppi di versi-campione da ciascuna delle quattro parti del poemetto, ne selezioneremo degli scampoli di vocabolario o particolarmente squisito e raffinato o profumato di latino ed antichità. Incontrando fattori stilistici presenti anche nelle ODI, vi accenneremo.

Il Mattino, vv. 1-60: lustri (5 anni)| tedio| cure| are| zelo| queruli recinti| larve| pefette| ingegni (=congegni)| arche (casseforti)| vulgo.

Il Mezzogiorno, vv. 625-703 (episodio della vergine cuccia): fia (=sarà)| inedia| deliquio| pietade| Pèra (=perisca)| fato| favellar| palmiti| aure| fero giorno| “de le Grazie alunna”| eburneo| polvere rodente| infimi chiostri| asceser | somme stanze| zelo d’arcani uffici| vulgo| novello signor| idol| isti (=andasti).

Il Vespro, vv.1-60: altrice (allevatrice)| eccelse| falcato| lassi (=stanchi)| gravi (=pesanti)| remigante (remante)| alterne (=varie)| corsier| alma sposa| fido cavalier| crin| polve| ministro e duce (servo e padrone)| aurati| perita man| plaude| sorge| ancella| vulgo.

La Notte, vv. 765-816 (gli ultimi versi del poemetto):ambrosia| nettare| alme| deitadi| ganimedi| crin| son osi (=osano)| lene| voluttuosa| copia diversa (=abbondanza=qualità diverse di gelato)| congeste (=gelate, compresse)| fieder (=ferire)| vulgo| recessi di Pindo| ordirsi| vulgo.

 

        La sintassi. Il poema ha periodi solenni, ampi: sette versi formano quello che apre Il Mattino; il secondo si estende per otto; i due periodi scagliati contro la Francia, Voltaire ecc. si estendono rispettivamente per dodici e dieci versi ( id. 668-689).

Nelle ODI si incontrano periodoni ancora più dilungati: La salubrità dell’aria ne offre uno dal v. 49 al 66; Alla musa ne presenta uno dal v. 17 al 32;  ne Il Messaggio  se ne trova uno dal v. 37 al 72...

 

        Inversioni alla latina. Non solo numerosissimi, ma i versi che ne presentano sono fra i più affascinanti e memorizzabili. Per questo siamo tentati di riportarli tutti.

Il Mattino,      versi 1-2: “...per lungo| di magnanimi lombi ordine il sangue...”

                45: “i nascenti del sol raggio rifrange”

                114: “poi dei labbri formando un picciol arco”

                136: “che di lucide penne avvolto ha il crine”

                725: “tra le folte d’inezie illustri tasche”

                752: “la pudica d’altrui sposa a te cara”

                789-90: “Ma che non puote quel d’ogni scienza|gusto trionfator?”

                938: “l’imitante un cuscin purpureo drappo”

                956: “E la chiusa nell’oro anglica lente”

                1065: “il teso per gran tempo arco rallente”.

Il Mezzogiorno, versi 346-7: “la variata eredità dgli avi| scherza in nobil di vasi ordin disposta”

                602: “(che) sì superba di ventre agita mole?”

                611: “e il ferace di mostri ondoso abisso”

                1143-6: “Là, bipartita tavola prepara| ov’ebano ed avorio intarsiati| regnan sul piano e partono alternando| in due volte sei case ambe le sponde” (la scacchiera).

Il Vespro, versi 6-7: “l’altrice| di molte perle California estrema”

                42: “Le dall’aura predate amiche rose”

                170-5: “qualche di pianto| tenera stilla...”

                214-6: “nè fra l’intime stanze o fra le chiuse| gemine porte il prezioso evento| tacque molt’ore”

                281-3: “e cresce intanto| e quinci ognor più violento e quindi| il trepido agitar dei due ventagli”

La Notte, versi 35: “de i per  novo cammin guidati rivi”

                103-4: “forse a nova con lei gara d’ingegno| tu mal cauto venisti”

                111-2: “... di mente invano| a lei te stesso sconsigliato incolpi”

                145-6: “che per mille d’onore ardenti prove| colà tra gli astri a sfolgorar saliro”

                188-9: “e novi al petto| sente nascer per te teneri orgogli”

                267: “e le gravi per molto adipe dame”

                259: “già il mobile de’ seggi ordine augusto”.

 

        La Metrica.

E’ sostanzialmente tradizionale, anche se non aliena da innovazioni originali e destinate a continuare con Foscolo e Carducci.

La maggior aderenza alla tradizione classica italiana si ha nelle ODI: egli varia, complica, rende più sostenuti i metri dell’Arcadia e soprattutto quelli introdotti dal Frugoni[86]. La classicità della versificazione pariniana si fa sentire soprattutto nel confronto con quella più tipica, diremo metastasiana, dell’ Arcadia. Due, si noti, sono gli elementi differenziatori. Da una parte (subito sentita) la musicalità equilibrata tra fluidità e forza (come documenteremo fra poco); dall’altra –e precedente- la verità ed elevatezza dei motivi ispiratori, cioè delle idee da cui nasce la poesia del Parini, musicalismo compreso. Parini non gioca su idee fittizie, ad esempio su amori inventati o su situazioni psicologiche tanto  peregrine quanto gratuite (si pensi a “La partenza”| “La libertà” del Metastasio), ma esprime un pensiero reale, delle convinzioni partecipate, dei sentimenti provati, autenticamente goduti o sofferti. Si pensi alle confessioni di vari poeti (eventualmente ecclesiastici) sulla finzione dei loro amori; si richiami in particolare la inverosimiglianza delle ora citate canzonette metastasiane. O si confrontino le composizioni del Parini con quelle di C. I. Frugoni e di Ludovico (Vittorio) Savioli (Fontana Castelli). Il primo ha una voce[87] epicizzante, sostenuta e certo più potente  di quella pariniana, ma non ha nulla da dire; non crede, perciò, in quello che esprime. Il risultato è stentoreità,enfasi, magniloquenza, retorica. Il Savioli è fermo al tema delle galanterie, degli scherzi amorosi,della cronaca mondana, con uno stile contrastante quello frugoniano, perchè dolce, scorrevole, flessuoso. Entrambi sono più copiosi nella produzione, più facili nel verso, pressappoco come l’Ariosto (che inventa nel poema gratuitamente, al di fuori di ogni realismo) ha una versificazione più  ovvia, più armoniosa e  straripante rispetto alla verosimiglianza o storicità della Gerusalemme, che impone contenuti non deformabili e versificazione difficile, talora ostica, per non tradire la realtà, ma per aderirvi lealmente.

Ecco: il Parini è nelle condizioni del Tasso (che non per nulla egli  esalta nei vv. 677-9 de Il Mattino) ed ha un cumulo di  verità sentite (morali, sociali, politiche, religiose...) da difendere, di sentimenti, sofferti, da comunicare.   Musicalmente meno felice di Ariosto e Metastasio, di Frugoni e Savioli, lascia intuire spesso la elaborazione della lima e lo sforzo di adeguarla al concetto da mettere in versi, ma nel complesso egli ha il vantaggio di parlare da uomo, di ammonire da profeta, di canzonare da moralista, di elogiare da galantuomo, di difendere il vero, il bello ed il buono, risultando maestro ed educatore e non solo aedo o menestrello, trovatore o cantastorie. Egli è un uomo che ha cose da dire e le dice  con qualche imperfezione musicale, ma con la forza che viene dalla persuasione emotiva, dalla convinzione razionale.

Limitiamoci all’analisi del settenario e dell’endecasillabo e delle loro combinazioni in strofe.

Nelle poesie varie, edite postume, il settenario prevale (La vaga primavera”, “Per che, mio cor, resistere”, “Offeso un giorno amore”). Nell’uso del settenario, il Parini spesso riesce molto duttile, svelto, facile e sciolto, perchè l’argomento ritorna superficiale, intelletualmente poco impegnativo e i versi sembrano preparati già per la musica: così nelle canzonette per ventole e parafuoco, come nelle canzonette-odicine Le nozze| Brindisi| Il pericolo Non “cantabili” sono invece i settenari Sul vestire alla ghigliottina, perchè troppo serio è il tema.

Il settenario viene impiegato in tutte le sue varietà: piano, tronco, sdrucciolo.

A parte la  canzone allo “Sfregia”,  regolare anche se di argomento scherzoso-satirico, le altre del Parini sono molto più snelle e disnvolte rispetto allo schema tradizionale. Quelle che egli chiama “odi”, sono in realtà o canzonette, non arcadicamente ma classicamente  intonate, formate da soli settenari, disposti in  strofe di otto o di sei versi (La vita rustica| La salubrità dell’aria| L’educazione| Il bisogno| La musica| Brindisi| Il pericolo| Sul vestire alla ghigliottina)[88]; o sono forme di canzoni libere che, senza congedo ed in strofe brevi (dai quattro ai dieci versi) mantengono il connubio tra endecasillabi e settenari e lo schema fisso delle rime (L’innesto del vaiolo|  La laurea| La recita dei versi| La caduta| La tempesta| In morte di Antonio Sacchini| La magistratura| Il dono| La gratitudine| Il messaggio). In verità, l’unica vera ode è quella, saffica, Alla musa, a quartine di  tre endecasillabi chiusi da un quinario: ma il risultato è appena sufficiente (chi porterà la “saffica” ad espressioni sublimi sarà Carducci).

Di strofe nuove, vi è solo  quella di tre (La caduta) o cinque (Il messaggio) settenari, chiusi da un endecasillabo: Il Foscolo la userà, poco modificata, nell’ode “All’amica risanata”.

L’endecasillabo, saffica a parte, è usato dal Parini nelle terzine incatenate, che derivano solo remotamente da Dante, chè lui si ispira immediatamente al Berni ed all’Ariosto (epistole o satire). Ma non si tratta di poesia classica, bensì realistica, ad imitazione dei modelli:  argomento e musicalismo sono plebei, senza che per questo siano meno valide esteticamente, visto (lo si è detto) il valore poetico dell’Inferno dantesco, di molti capitoli del Berni e di diversi passaggi delle “satire” dell’Ariosto.

Nel sonetto, Parini gioca tutte le ispirazioni e tutti i registri lirici: la tradizione del componimento è difatti universale. Abbiamo temi nobili ed argomenti popolani, polemiche morali come scherzi  divertenti. I sonetti alla bernesca danno origine anche alla coda semplice od alle sonettesse pluricaudate.

Ma che dire dell’endecasillabo del capolavoro? E’ sciolto, senza rime, contro la più “classica” tradizione italiana (fuori dell’impiego nelle opere teatrali). Si potrebbe  esser tentati di dire che la rinuncia alla rima segna un accostamento maggiore alla classicità, che non la conosceva: essa interviene nella tarda latinità,   divenendo poi un accorgimento tipicamente romanzo, cioè delle lingue neolatine. L’endecasillabo sciolto si avvicina allora maggiormente di quello rimato al giambo catalettico od all’endecasillabo saffico ed alcaico da cui discende? No, è una illusione. La rima supplì alla perdita del valore musicale o “quantitativo” delle sillabe, proprio delle lingue greca e latina. La introduzione della rima, quindi,  sostituiva la perdita di  un fattore sonoro, proprio della classicità antica: era una forma nuova, per rientrare nella classicità. L’endecasillabo senza rima perde metà della sua dimensione musicale, restando affidato questa soltanto al ritmo o successione regolare degli accenti.  Se si considera, poi, che gli schemi di accenti dell’endecasillabo sono  quarantotto, allora si può comprendere che la “musica” dell’endecasillabo sciolto rischia di andare persa, proprio per la mancanza di quel “ritorno” a distanza regolare di qualche elemento sonoro (l’accento, in questo caso). E difatti i poeti “scioltisti” (Melchiorre Cesarotti in testa, la cui traduzione dei Canti di Ossian precede di un anno –1762- l’edizione del “Mattino” pariniano) sono i precursori  di quella liberalizzazione del verso che il romanticismo prossimo avrebbe favorito, che lo stesso Carducci delle “odi barbare” avrebbe incrementato e che il decadentismo avrebbe portato alle più estreme, suicide conseguenze.

Eppure l’endecasillabo sciolto del Parini ha una sua risonanza classica sicura, superiore a quella dei vari Trissino, Alamanni, Rucellai ed Annibal Caro (traduzione dell’Eneide), che prima di lui l’avevano impiegato largamente, senza perdere il titolo di scrittori classici.. Da quali fattori nasce questa impressione?  Vi è indubbiamente un elemento musicale, cioè un equilibrio tra forza ed eleganza, una lega di soavità e potenza che ne fanno una cosa seria. E ne riparleremo ben presto. Basterbbe, d’altronde, il confronto con quello del contemporaneo professore di Padova, il Cesarotti: troppo  variabile  e dinoccolato, popolareggiante e languido, è questo il vero  antesignano del  comporre romantico.

 Ma la classicità della veste metrica de Il Giorno ha radici più profonde, che risalgono al lirismo ed ai motivi ispiratori. E’ la riuscita della carica ironico-satirica; è la densità ideologica dei temi che vi danno origine  il fondamento ultimo alla classicità dell’endecasillabo  del Parini. Egli era un poeta che aveva una discreta formazione filosofica alle spalle e che, senza essere un genio in proposito e nonostante le sue critiche alle scuole da cui era uscito (quelle dei barnabiti di S. Alessandro),   aveva acquisito  una concretezza morale di contenuti ed un rigore razionale di trattazione, da assicurare poi sia  l’insorgere della collera magnanima contro un mondo sofisticato e corrotto, che il suo controllo e purificazione da parte della ragione. Il risultato era classicamente armonioso nella materia prima che nella forma, nel modo di pensare e sentire prima che nel metterlo in versi. Il segreto ultimo del raffinato ma saldo classicismo pariniano, prima che nella spontaneamente  sapiente alternanza dei numerosi schemi dell’endecasillabo italiano, sta nel connubio fra elevatezza di ideali e  vigore nel risentirli, fra intelligenza  acuta ed ordinata, da una parte, e vigore della sua sfera emotiva, dall’altra, nel rivivere in astratti furori, in sdegno  arguto, in sorriso compassionevole le novelle follie  della povera  società italiana nel Millesettecento,  ad esprimere, cioè, anche lui, come già Erasmo, un ironico elogio della  pazzia, salvaguardia contro  l’insulto di disperazione  per le sempre  variate mode  della identica disarmonia, uguale incoerenza, inguaribile corruzione umana. 

 

        La mitologia.

Presente in misura permeante nei poemi di Omero, essa era divenuta una  componente essenziale del bagaglio classico occidentale. Le favole inventate dal Parini ed il richiamo alle divinità greco-romane sembrano sollevare ad una sfera sublime la dolce vita della coppia innamorata, mentre in realtà denunciano, per la sproporzione evidente, l’esistenza insensata, vuota ed inutile dei protagonisti. E’ un ingrediente della malizia pariniana, costituendo un fattore di critica e condanna, sia pure in forma indiretta ed allusiva, della vita dei semidei, perchè finge di esaltare l’ozio e la noia di cui è permeata e di celebrarne i protagonisti.

I casi più clamorosi di impiego della mitologia sono le cinque nuove favole, che coinvolgono divinità greche in nuove avventure, affini ma diverse da quelle conosciute: si tratta, dunque, di contaminazione inventiva. La favola di Amore e Imene (Il Mattino, 330-441) fa risalire a gelosie e ripicche tra i due figli di Venere il cicisbeismo ed il costume del cavalier servente: la madre decide salomonicamente che nei rapporti fra sposi sulla notte regni Imene e sul giorno, Amore! Segue quella sull’origine della cipria (id., 819-41), che riconduce in Olimpo, alla corte d’Amore, l’uso settecentesco di portare parrucche bianche sin dalla giovinezza: è una vittoria della  furbizia dei “vecchi”, innamorati, nella concorrenza con l’ardore della gioventù. La terza, sulla origine della distinzione fra nobiltà e plebe (Il Mezzogiorno, 255-333) fa risalire alla divinità del Piacere ed all’Olimpo la distinzione fra le due classi sociali: la noia induce al piacere e la raffinatezza maggiore nei ricchi oziosi sta in un esercizio maggiore (e conseguente incremento) di un senso molto animale: il tatto! La favola sull’origine del Tric-e-Trac (id. 1109-1191) coinvolge l’astuto Mercurio come suggeritore del rumoroso gioco, che permette all’amante di ingannare il geloso marito. L’ultima, sulla origine del canapè (La Notte, 275-345), attribuisce agli dei la invenzione del piccolo sofà per tre persone, che serve spesso a sfogare noia e puntigli, vanità ed ozio nelle case dei signori. Va notato, infine, che, subito nella dedica, il Parini inventa una divinità nuova: la Moda, cui il poemetto è consacrato.

Il richiamo al mondo mitologico sulla scia della tradizione è continuo. Il  Mattino chiama in scena il cocchio di Plutone (vv. 73-6), il Sonno ( vv. 84-6; 90-4), Febo (vv. 105-7), Minerva (vv. 122-4), gli amorini (vv. 494-509), la Sibilla (540-2), il Tonante (Giove) ed Iside (vv. 607-19),  le Muse (vv. 912-21), Momo e Citerea (vv.1108). Il Mezzogiorno disturba Didone ed Jopa (vv. 7-23), l’ara tutelare (v. 43), Achille (già citato con Rinaldo ne Il Mattino, vv. 269-70, viene ora rivisitato nei vv. 219-25); la Gelosia (vv. 169-208), la Fama ed il Motteggio ( vv. 372-90), le Grazie (400-5),Imene e il Sonno (vv. 414-36), Bacco (518-23), Cerere (569-79), Giunone e Ciprigna (Venere: vv. 710, 727, 747), di nuovo la Fama, Argo ed Edipo (vv. 788, 799- 811), Como, Dioniso e Gioia (vv. 813-9), Atlante (vv. 860-8), Pomona e Pale (vv. 1011, 1015). Il Vespro si rifà a Pilade (v.113), ancora alla Fama (v. 216), a Giunone (v. 421), ed a Venere (v. 472). La Notte è allietata e nobilitata dalla presenza di Amore, chiamato in causa, con la sua corte (vv. 38, 54, 278-348, 696-730); a variegare il quadro stanno, poi, la Camena (una delle Muse: v. 256) e Nestore (v. 763).

Altri richiami, anche se non propriamente divini, eleva maliziosamente al di sopra del livello dei comuni mortali la dama ed il cavaliere ed il loro bel mondo, per ammiccare ironicamente alla loro vanità. Ed ecco Rinaldo ed Achille (Il Mattino, 269-70), le ferite del guerriero valoroso per spiegare l’origine del neo posto sulla faccia (id. vv. 533-6), il ricordo dell’antenato prode in guerra (id. vv. 850-67) ed il paragonare ad un re il giovin signore, circondato dalla corte dei suoi paggi pronti a... vestirlo (id., vv. 878-84); il re Artù assieme alle fate (id. 1135-42, 1163-8), il richiamarsi a Sibari e Pitagora (Il Mezzogiorno, vv. 589-98; 629-34), al mago Atlante ed a Turpino ( id. 860-8; cfr. Il Vespro, v. 284).

 

        Il musicalismo.

Nel poemetto è fattore di sicura classicità per l’armonia od equilibrio tra forza e duttilità, tensione e morbidezza, levigatezza cristallina e fluidità scorrevole, fra tersa lucidità e elegante scioltezza. La densità del pensiero, la sua complicazione tra elogio aperto e condanna coperta, fra il detto ed il sottinteso, fra esplicito ed implicito   approda ad una ambivalenza  dello stile che   ha in sè una forza vellutata ed un’elastica resistenza. Non siamo alla sublime simbiosi di un Poliziano, ma  rimaniamo sulla scia di una tale sensibilità snella insieme e muscolosa.

Alla ambiguità di pensiero ed emozioni corrisponde, dunque, puntualmente, una fondamentale ambivalenza del musicalismo: letti metà dei versi di Parini, si saprebbero scegliere gli altri mai letti, pur frammisti a innumeri versi di altri poeti. C’è un’impronta musicale, oltre che un pensiero caratteristico ed un timbro lirico originali. Tentiamo di definirne le componenti.

La (moderata,) dolcezza della musica pariniana è da imputare  anzitutto all’impasto consonantico, in cui liquide, nasali e fruscianti (“F”| “V”) hanno una presenza superiore alla media prosastica; e, in secondo luogo, alle numerose parole sdrucciole.

Viceversa, la persistente forza della sonorità pariniana nasce principalmente dalle vocali larghe, frequenti anch’esse oltre la media del discorso normale. La “A” e le “O” sono spesso in posizione ictata e contrastano, integrano, compensano la cedevolezza delle  numerosissime “L”, “N”, “M”, “V”, “R”...  Complessivamente si avrebbe questa legge: la forza portante del musicalismo pariniano (nelle Odi e ne Il Giorno, specialmente) è costituita dalle vocali “A-O”, specie se in posizione di accento ritmico;  la levigatezza, dolcezza, fluidità del verso è invece affidata alla orchestrazione consonantica, a prevalenza dolce e carezzevole, oltre che alla presenza di vocaboli con accento sulla terz’ultima sillaba (proparossitone).

La sostenutezza del fondamento vocalico è smussata, attenuata, raddolcita e levigata dalla scorrevolezza del legame consonantico. Ne risulta una medietà equilibratissima, armoniosa, confermata dal ruolo di altri fattori espressivi. Sono molto frequenti le consonanti esplosive (labiali) e dentali, che avvalorano l’effetto delle vocali larghe.  Viceversa, la vocale tenue (stretta) “I” è usata al di là del presumibile, ma la sua flebilità è elisa dalla dieresi, che ne rafforza la posizione; o rinvigorita dalle consonanti che l’accompagnano (dentali, sibilanti). Le consonanti palatali  “C|G” dolci si equilibrano  con le  gutturali (CH|GH). La debolezza dell’altra vocale stretta “U” è sostenuta dalla consonante guttuerale “Q” che spesso l’accompagna.  Che più? la vocale media “E” e la dentale media “D” sono decisamente privilegiate e sono forse il lapsus più  acuto della tendenza innata nella della psicologia pariniana ad un’aurea mediocritas, ad una medietà espressiva, che collima col buon senso del pensiero e con la comicità nè greve (satira) nè lieve (umorismo), ma mediamente ironica, del lirismo. Insomma la “musica in parole” del Parini ha una coerenza con i motivi ispiratori e con la sua emotività e conferma come, anche in arte, “tout se tien”. La individualità non rende schiava la sfera morale (compresa quella parte del pensiero che vien percepita come inclusa nella vita morale), ma per il resto domina sovrana: poeta nascitur non solo nella intensità lirica, ma anche nel viraggio del pensare, nelle tonalità emozionali, nei mezzi espressivi. In Parini, l’equilibrio consta di una sintesi fra spinte opposte; si tratta di un’armonia pendolare, composita: ammirazione e condanna del mondo scelto a bersaglio; compiacenza e canzonatura conseguente; medietà tra forza ed eleganza nella espressione.

Per la documentazione procederemo a “campioni”, presi dalle quattro parti de Il Giorno: non commentiamo, perchè occorrerebbe una colorazione diversa per ognuno  delle componenti musicali sopra  segnalate e perchè riteniamo che ognuno possa controllare per suo conto tali dati.

Da Il Mattino, citiamo i versi 891-8: “...Intanto i servi| a te sudino intorno; e qual, piegato| le ginocchia in sul suol, prono ti stringa| il molle piè di lucidi fermagli;| e qual del biondo crin che i nodi eccede| su la schiena ondeggiante in negro velo| i tesori raccolga; e qual già pronto| venga spiegando la nettarea veste”.

Da Il Mezzogiorno, vv. 346-7: “E la variata eredità degli avi| scherza in nobil di vasi ordin disposta”; vv. 1144-6: “ov’ebano ed avorio intarsiati| regnan sul piano e partono alternando| in due volte sei case ambe le sponde”. Più sotto citeremo dal brano  della “la vergine cuccia”.

Da Il Vespro, vv. 281-3: ... e cresce intanto| e quinci ognor più violento e quindi| il trepido agitar dei due ventagli”.

Da La Notte, vv. 47-53: “Stupefatta la notte intorno vedesi| riverberar, più che dinanzi al sole| auree cornici e di cristalli e spegli| pareti adorne e vestimenti vari,| e bianche braccia e pupillette mobili| e tabacchiere preziose e fulgide| fibbie ed anella e mille cose e mille”.

Il clou, cioè il capolavoro della musicalità pariniana, il suo exploit supremo viene realizzato nell’episodio famoso de Il Mezzogiorno, vv. 674-6: “Indi i gemiti alzando aìta, aìta| parea dicesse; e da l’aurate volte| a lei l’impietosita eco rispose”: l’onomatopea (cioè la riproduzione nelle parole dei versi) del guaire di un cane è  suggestiva.

 

        La allusività.

La forma comica dell’ironia esige quasi per definizione l’uso della allusività, cioè l’affermazione “in recto” (nelle parole epslicite) di una lode, che diventa condanna per il contesto, cioè per gli accenni  che vengono espressi in obliquo (cioè in parole marginali e quasi implicite: al limite le stesse reticenze, in circostanze particolari, servono a rovesciare il senso dei vocaboli  pronunciate in tutta luce). Il Parini è maestro in tale gioco di sotterfugi, cioè di affermazioni che si rinnegano prontamente e, quasi lavorando di gibigiana, ritira inaspettatamente la luce del sole là dove l’aveva proiettata, umiliando nell’ombra chi era stato prima  folgorato colle luci della ribalta. Salvo la malvagità dell’animo, si potrebbe dire di lui quanto il Tasso afferma di Alete, il sottile ed ipocrita messo egiziano ai crociati: “gran fabbro di calunnie, adorne in modi| novi, che sono accuse e paion lodi” (“Gerusalemme liberata, II, 58).

Analizziamo alcuni brani di un’opera che di simili giochi traditori è intessuta totalmente.

Il Mattino, vv. 7-11: “me, precettor d’amabil rito, ascolta. | Come ingannar questi noiosi e lenti| giorni di vita, che sì lungo tedio| e fastidio insoffribile accompagna, or io t’insegnerò....,| se in mezzo agli ozi tuoi, ozio ti resta| pur di tender l’orecchio ai versi miei”.

id., vv. 715-25: “... A te quest’ora| condurrà il merciauol che in patria or torna| pronto inventor di lusinghiere fole| e liberal di forestieri nomi| a merci che non mai varcaro i monti.| Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi che osi| unqua mentir ad un tuo pari in faccia?”| Ei fia che venda, se a te piace, o cambi| mille fregi e lavori a cui la Moda| di vivere concesse un giorno intero| tra le folte d’inezie illustri tasche”. Basta una parola (inezie) per demolire l’esaltazione apparente (“illustri tasche”).

id. v. 752 “La pudica d’altrui sposa a te cara”: qui basta un aggettivo (“cara”)  innocente in sè, ma reso equivoco dal contesto di  tutto il poema, per richiamare e condannare il vizio (impudicizia) opposto alla virtù (pudore) che si elogia. (cfr. il v. quasi uguale 767: “de l’altrui fida sposa a cui se’ caro”)

Il Mezzogiorno, v. 602: “che sì superba di ventre agita mole?”.

 

La Notte, v.267: “e le gravi per molto adipe dame”; vv. 341-2: “ove le madri de le madri| de’ primi eroi esercitan lor tosse”.

Di un altro strumento di allusività maliziosa si è già parlato: si è documentato come la  mitologia serve all’ironia attraverso la sproporzione fra la misera realtà dell’effimero mondo che popola il poema e la grandezza divina od almeno eroica degli analogati messi a confronto:  richiamar a paragone Achille ed Enea, Rinaldo e Ruggero, Giove ed Apollo, le Muse e  le Grazie... non è un esaltare, ma un umiliare dei miserabili, ridotti all’ozio,  alla vanità, alla malignità, alla lussuria.

Su questa linea dei paragoni ellittici e traditori, del dislivello fra quanto detto a parole e quanto suggerito dai fatti, sta  come sommo esempio l’episodio della vergine cuccia, che riporteremo per intero: il solo fatto che un aneddoto di banale cronaca domestica (un servo che si difende dal morso di una cagnetta con una pedata) assuma agli occhi della dama una dimensione tragica (l’offesa al suo idolo) rende odiosa la padroncina immatura e tutto il mondo che o, dissennato, l’approva davvero o ,vilmente, finge per interesse, di essere dalla sua parte di bambina viziata e  delittuosamente capricciosa. Dapprima è la balorda solennità epica del vegetariano che inorridisce di fronte ai trucidati animali ( “Péra colui che primo osò la mano| armata alzar su l’innocente agnella| e sul placido bue...”). Poi è il lacrimare della dama al ricordo di chi maltrattò il suo tesoro, la sua cagnolina (“vergine”, si noti, cioè probabilmente sterilizzata: la sua sessualità è stata sacrificata alle esigenze di pulizia e di squisitezza della padrona): e qui si inserisce anche il richiamo alle divinità d’Olimpo, con un Bacco ripulito ed ingentilito quale mai si ritrova altrove nella storia della poesia universale. Sentiamo dalla viva voce del poeta: “Tal ei parla, o Signore, e sorge intanto| al suo pietoso favellar dagli occhi| della tua dama pietosa lacrimetta,| pari alle stille tremule brillanti| che a la nova stagion gemendo vanno| dai palmiti di Bacco, entro commossi| al tiepido spirar delle prim’aure| fecondatrici. Ore le sovviene il giorno,| ahi, fero giorno! allor che la sua bella| vergine cuccia de le Grazie alunna,| giovanilmente vezzeggiando, il piede| villan del servo con l’eburneo dente| segnò di lieve nota: ed egli audace| con sacrilego piè lanciolla; e quella| tre volte rotolò, tre volte scosse| gli scompigliati peli, e da le molli| nari soffiò la polvere rodente.| Indi i gemiti alzando aìta aìta| parea dicesse; e da le aurate volte| a lei l’impietosita eco rispose:| e dagli infimi chiostri i mesti servi| asceser tutti, e da le somme stanze| le damigelle pallide tremanti| precipitaro. Accorse ognuno; il volto| fu spruzzato d’essenze   alla tua Dama;| ella rinvenne, alfin, L’ira, il dolore| l’agitavano ancor; fulminei sguardi | gettò sul servo, e con languida voce| chiamò tre volte la sua cuccia; e questa| al sen le corse; in suo tenor vendetta| chieder sembrolle; e tu vendetta avesti,| vergine cuccia de le Grazie alunna.| L’empio servo trmò: con gli occhi al suolo| udì la sua condanna. A lui non valse| merito quadrilustre; a lui non valse| zelo d’arcani uffici, in van per lui| fu pregato e promesso: ei nudo andonne,| dell’assisa spogliato ond’era un giorno| venerabile al vulgo. In van novello| signor sperò, chè le pietose dame| inorridiro, e del misfatto atroce| odiar l’autore. Il misero si giacque| con la squallida prole e con la nuda| consorte a lato su la via spargendo| inutile lamento: e tu, vergine cuccia, idol placato| da le vittime umane, isti superba.” L’allusività stravolge verso la satira una finale che pur si sforza di mettere a fuoco la sorte miserabile del servo e della sua famiglia ridotta  alla fame, che occupano le proposizioni principali. Ma l’elegia è esorcizzata dalla  forma negativa suoi  meriti (invano), e dalla forma passiva delle sue pene (“ei nudo andonne,| dell’assise spogliato...”), che rimette al centro dell’attenzione la crudeltà della dama e del “bel mondo” ad essa alleato, sebbene i sentimenti disumani di questa gente, che copre le sue vergogne con l’abbondanza del danaro, siano espressi in frasi secondarie (causali: “chè le pietose dame...”) e solo la cagnolina ritorni al centro dell’attenzione negli ultimi due versi (“E tu... isti superba.).

 Lo stesso procedimento, con una sonorità più raffinata ma  poeticamente meno viva, è adottato per La Notte: al finto sbalordimento (“Quanta folla d’eroi”! v. 349) segue un elenco di giovani o non più giovani signori la cui attività maniacale li rivela  insensati sciupadanaro o rimbambiti perdigiorno.

 

 

LA FORTUNA E IL SIGNIFICATO DEL PARINI

 

Cercando di seguire il riecheggiamento della poesia e della personalità  del Parini nella nostra storia letteraria, occorre distinguere la “fortuna strettamente poetica” da quella genericamente culturale o ideologico-morale.

 Quanto alla fortuna letteraria del Parini, dobbiamo riconoscere che fu  notevole  sia per i numerosi discepoli che lavorarono per la edizione postuma delle opere, sia per i letterati famosi che lo seguirono immediatamente e ne furono influenzati (Foscolo, Manzoni e Monti).

Tra i discepoli, almeno come uditori, ci fu anche Giovanni Torti, uno dei primi romantici milanesi, amico di Manzoni. E vi fu Zanoia.  Ma i più affezionati ed efficienti risultarono  Francesco Reina e Giuseppe Bernardoni, che curarono la edizione dei suoi scritti.  Il Reina pubblicò sei volumi di opere; il Bernardoni diede alla luce nel 1814 “Poesie scelte”; e, nel 1841, “Versi inediti o rari”. Fra i sottoscrittori per l’acquisto delle opere edite dal Reina, troviamo Alfieri, Foscolo, Manzoni, Monti.  Quest’ultimo non lo conobbe di persona, ma lo fa parlare nella “Mascheroniana”, per denunciare il malgoverno della repubblica cisalpina.

Dell’influsso sul Foscolo parleremo meglio a proposito della risonanza morale, ma non possiamo tacere della ricaduta nei suoi versi della eleganza pariniana: certo, Foscolo aveva carte ancora più raffinate nella sua mente, da giocare nelle sublimi sue creazioni, ma non si può dubitare che la poesia pariniana   stimolò quella foscoliana  lungo  la linea di un classicismo ricco di idee e di ideali, armonioso nella  conciliazione tra forza ed  eleganza, fra levigatezza e potenza espressiva. 

 Il Manzoni lo onorò applicando a lui i versi di Pindaro: “Il canto vive più a lungo dei fatti, il canto che, propizie le Muse, la lingua tragga da una mente profonda”. Inoltre è da sospettarsi che l’ironia dei Promessi Sposi, pur essendo parte congeniale nella tastiera universale della emotività manzoniana,  sia parecchio debitrice nei confronti di quella pariniana: salvo a rendersi più amica, comprensiva e, insomma, più caritatevole e frequentando, perciò, l’umorismo fraterno più che l’ironia ostile; e salvo a farsi ancora più duttile e maliziosa per la superiore intelligenza del  “gran Lombardo”.

 Il Leopardi gli dedicò una delle operette morali (“Il Parini ovvero della gloria”), ma il suo giudizio fu molto restrittivo: “Piuttosto letterato di finissimo gusto che poeta. Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stentati, secondo me) mostrano e quanto ci mancasse e quanto poco si sia guadagnato”.

 Ma il Carducci, che dedicò al poeta studi sul lavoro di “lima” e di impegno per uno stile sempre più elevato, pur d’accordo col De Sanctis nel ridimensionare il valore poetico del brianzolo, dovette risentire del fascino, della raffinatezza di lui.

Fu  Francesco De Sanctis a definire il giudizio “risorgimentale” sul Parini, sminuendone l’importanza artistica e rivalutandone la statura morale.

Benedetto Croce, poi, nei suoi studi (in realtà un po’ affrettati) sul Millesettecento italiano[89] ha creduto di relegare fuori della vera poesia ogni forma di satira, comprendendovi esplicitamente anche il poemetto pariniano. Vi ritorneremo sopra nelle considerazioni finali.

Veniamo ora al giudizio etico.ideologico.

A soli tre anni dalla morte,  nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” (1802), il Foscolo lo esaltava come eroe di dignità umana e di coerenza  religiosa, creando il mito della straordinaria elevatezza morale, che i versi 53-90 de “I Sepolcri” portarono all’apogeo.

Sulla sua scia, il De Sanctis ne coniò allora il personaggio degno del risorgimento italiano, perchè libero di fronte ad ogni prepotenza o dittatura, capace di ergersi in nome della virtù a difensore del  buon senso e moralità.

 Ed ecco le nostre considerazioni finali, sintesi di quelle già avanzate più volte nel corso dello studio. Come poeta, a noi il Parini sembra degno  di una valutazione media: un giudizio  superiore lo meritano solo il brano sublime della “vergine cuccia” e  alcuni versi o strofe isolate che rimangono nella memoria come poesia epica, drammatica, satirica o ironica. Abbiamo segnalato già i passi migliori.  Poesia “media” significa per noi “discreta”, non “mediocre”: superiore alla sufficienza, ma raramente approdata ad una intensità buona o distinta.

 L’uomo, ci pare proprio che debba valutarsi alla pari. Il pensiero non è geniale, ma solo chiaro ed acuto (in alcune intuizioni) senza pretendere a sistemazioni complesse e inventive. Come riesca a concordare la sua fede cattolica con l’approvazione del giuseppinismo giurisdizionalista non è facilmente spiegabile, mentre la sua adesione-ribellione alla repubblica cisalpina conferma la mancanza di profondità del suo pensiero, acuto ed azzeccato nel  pronunciarsi in positivo piuttosto che in negativo su dettagli (evirazione, vaccinazione...), ma non profondo abbastanza nel valutare le implicazioni pregresse di avvenimenti pur grandiosi, come la rivoluzione francese.   Si vuol dire che egli di fronte  a quella tragedia si comportò come un eroe metastasiano od un re Tentenna: un po’ sì, un po’ no; approvo, ma  parzialmente; appoggio, ma  con riserva; condanno, ma con ammirazione; me ne  dichiaro fuori, ma con dispiacere. Certo,  Pietro Verri fece peggio, passando armi e bagagli dall’Austria (con cui aveva collaborato a lungo) alla amministrazione napoleonica di Milano, anzi, dalla fede cattolica al deismo; e risultando un “quacquaracquà” di nessun interesse morale. Rispetto a lui, il Parini  può anche passare per un  eroe: un eroe relativamente a dei “mezzi uomini” o peggio. Ma in termini non “relativi ad altri”, bensì di chiaroveggenza intellettaule e coerenza morale assolute, anch’egli ebbe i suoi limiti e le sue pecche, risultando un uomo medio, se non mediocre. L’uomo  ed il poeta si equivalgono, in quella “aurea mediocritas” che è  un ulteriore punto di contatto fra il Parini ed Orazio: e se il  pagano di Venosa è  maggiore come poeta, il cristiano Parini     gli è  superiore come galantuomo. Ma  anche nel Parini manca un eroismo definitivo, come manca uan  interesse filosofico assorbente: in lui, lo ripetiamo, vita e arte hanno una caratura affine per la compresenza di valori-disvalori, di magnanimità ed ingenuità, di singoli gesti coraggiosi e di un cumulo di compromessi penosi. Non per nulla il Manzoni ne criticò la divaricazione morale tra la condanna, nei versi, della classe aristocratica di Milano e la sua imperterrita frequentazione, nella prassi. Gli uomini, “grandi” secondo la  permissiva coscienza del mondo,  giudicati secondo le esigenze  di una moralità intéra, evangelica si rivelano, ahimè|  delle mediocrità illustri.

 

 

                                                              don Marcello De Grandi

 

 

               

                              

               

 

 

 



[1] W. Binni, in Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1976, Il Settecento, p. 712 scrive che presso le scuole   di s. Alessandro si trova questa  “... notizia ... conservata in forma di postilla nel registro scolastico dell’anno 1749-50:  -Parinus Joseph: ut plurimum abfuit, subdole per aliquot dies interfuit; litteris testimonialibus habitis, abfuit perpetuo”.

[2] E chi  mai era in grado di inventarle? esse portano un marchio della sincerità morale, della impulsività emotiva e della genialità verbale, tutto e solo pariniano!

[3] Il Reina si permise di sostituire nelle prose della sua  edizione alle opere del Parini (1801-4), la parola Dio con “natura” e “la  Provvidenza” con “le leggi”, trasformando addirittura un giudizio su Machiavelli da negativo in positivo! Lo denuncia G. Mazzoni nella introduzione a “Tutte le opere edite ed inedite di G. P.” , Firenze, 1925, p. XCI.

[4] Forse la finalità moralistica attenua la verve di versi piacevoli, anche se non sublimi. Vi  si narra anche una novella impudente, in cui un folletto sostituisce uno sposo, sicchè un giudice mongolo deve decidere, poi, chi sia il vero marito. Il metro de I ciarlatani è quello di una canzone libera: endecasillabi e settenari si raccolgono in strofe, ma senza  schema fisso per numero di versi o posizione di rime: sono imitati sulle “Fiabe” dell’abate G. C. Passeroni.

[5] Il calcolo dei versi è reso difficile dal fatto che le ultime due parti presentano differenti proposte di versi, attraverso rifacimenti e stesure diverse  non solo per singoli versi, ma per brani interi. IL VESPRO e LA NOTTE non furono pubblicati dal poeta, che li lasciò in manoscritto, ove IL VESPRO assorbe come conclusione i versi che, nella edizione del 1765, chiudevano invece IL MEZZOGIORNO (perchè in un primo tempo IL VESPRO non era stato previsto nè progettato), mentre LA NOTTE è rimasta incompiuta. Le stesse due parti (IL MATTINO  e IL MEZZOGIORNO) già edite furono ritoccate e raffinate dall’incontentabile autore. De LA NOTTE esistono brani e rifacimenti vaganti...

Noi seguiamo, ripresa da edizioni posteriori, il testo critico elaborato da G: Albini per Le Monnier (Firenze, 1907). Per le ODI seguiamo l’edizione curata da G. Mazzoni (Firenze, 1940). Edizioni critiche ed importanti sono anche quelle delle OPERE (Milano, Genio tipografico, a cura di F. Reina: 1801-4); PROSE (a cura di E. Bellorini, Bari Laterza, 1913); POESIE (id. id. 1929: doppio testo, così da comprendere tutte le varianti); OPERE (a cura di G. Mazzoni, Firenze, 1925); ODI (a cura di A. Chiari, con discorso critico, Milano, 1943).

[6] Il “capro espiatorio” di   molti “giovin signori” lo si è voluto indicare in Ludovico Barbiano di Belgioioso (Cfr. Viaggio Parigi Londra: Carteggio di P. e A. Verri, Milano, Adelphi, 1980, pp. 696-8).

[7] Poesie, ed. Carrara, Milano, 1889, p. 11.

[8]  Si ha un capitolo Al canonico Agudio ( Candido), anteriore al 1762, nel quale si rivolgeva al caritatevole amico per qualche aiuto finanziario, in momenti di bisogno che si dovettero prolungare sino alla publicazione del Mattino (1763).

[9] La vita rustica, str. 4: “Me non nato a percotere| le dure illustri porte| nudo accorrà ma libero,| il regno della morte”; La caduta, strofe 20-26, dove il “buon cittadin”  “si fa, contro i mali,| de la costanza sua scudo e usbergo.|| Nè si abbassa per duolo,| nè s’alza per orgoglio-.| E ciò dicendo, solo| lascio il mio appoggio; e bieco indi mi tolgo.|| Così, grato a i soccorsi| ho il consdiglio a dispetto;| e privo di rimorsi,| col dubitante piè torno al mio tetto”.

[10] Rare le eccezioni. Forse rimane nella memoria la “pedata” appioppata dal servo alla vergine cuccia o la dama che ne sviene: ma si tratta di ombre esili, non di figure corpose. La stessa scacchiera per il gioco del tric-e-trac, descritta così mirabilmente  ne Il Mezzogiorno, 1143-6 (“Là, bipartita tavola prepara...”) rimane più impressa nella memoria sonora che in quella figurativa, così come, nel susseguente scuotere dei dadi nei bossoli (ivi, 1167-75), è il rumore che dà valore ai versi, non la visione dei movimenti. Visivamente efficace (finalmente!) risulta “il trepido agitar dei due ventagli” (Vespro, 284), ma è un attimo soltanto.

[11] Lo stesso fraseggiare rischia di ripetersi. Si confronti il v. 272 del Mattino (“Quanto ferve lavoro!) con La Notte, 349 (Quanta folla d’eroi!).

[12] Anche la mancata partecipazione alle lezioni di teologia dogmatica  è un segno della sua non eccellenza intellettuale: in esse, infatti, il ricorso alla filosofia per illustrare la verità o la non irrazionalità della Rivelazione (e  della sua interpretazione da parte della Chiesa)  è continuo ed impegnativo. La frequenza, invece, ai corsi di morale indica in lui una intelligenza umanistica, cioè più portata a ragionare sulla problematica psicologica che non su quella ontologica; a  speculare, cioè, più volentieri dell’uomo (antropologia: la morale ne è una parte) che non dell’essere tutto (metafisica).

Va notato che i limiti della intelligenza del Parini favoriscono le sue oscillazioni in campo etico e politico. Facciamo degli esempi. Che la sua vocazione avesse una spinta originaria nel  testamento  della prozia Anna Maria Parini (che gli lasciava una rendita annua, nel caso si facesse sacerdote), è cosa risaputa. Ma la sua decisione definitiva avvenne nel 1754, quando il poeta aveva ormai 25 anni: decisione libera, dunque, che avrebbe dovuto trovarlo maturo e coerente. Invece la sua vita sessuale fu, a sua stessa confessione, irregolare (Brindisi: “Se già di mirti teneri| colsi mia parte in Cnido,| lasciamo che a quel lido| vada con altri Amor”). E’ vero che l’avvicinarsi della morte, dopo lo scossone della esperienza rivoluzionari a Milano, lo confermò sicuro alla fede in Cristo, ma non è segno nè di una grande intelligenza  nè di coerenza morale che egli sia passato dall’entusiasmo per la illusione che i fatti di Francia portassero progresso e civiltà, alla detestazione degli eccidi che seguirono, invece, al nuovo ordine in Francia (vedere l’ode “A Silvia, sul vestire alla ghgliottina”); dalla partecipazione, ciononostante, alla Municipalità napoleonica di Milano, alla uscita clamorosa da essa. La intelligenza del Parini non era certo “lincea”, come la sua moralità era più conciliante che coerente, accondiscendente più che severa. Chiunque, a seguito del Foscolo, tenta di  fare del Parini un modello di eroismo morale, della moralità ha un concetto ben mediocre, collocandola in quel “giusto mezzo” che piace a troppi, perchè non urta la coscienza di nessuno. D’altronde, il suo atteggiamento antinobiliare è velleitario, come dimostrano due fatti. Il primo (sottolineato dal Manzoni) è che la sua critica del mondo nobiliare non gli impedisce di vivere perennemente nel suo ambito e di essere affascinato dal lusso, dall’eleganza e dal superfluo della loro vita; il secondo, che si guardò bene dall’avvicinarsi personalmente a quella gente sana del mondo lavoratore che egli pur celebra a parole: ricevuto il compenso dei tre mesi di servizio nella Municipalità napoleonica a Milano, passò la somma al parroco perchè la distribuisse ai poveri, ma  evitò il contatto diretto coi  loro. E, poi, ogni tanto affiora l’orgogliosa detestazione (tutta illuministica) della plebe ignorante e malvagia: in Alla musa (versi finali) egli si proclama “Parini, Italo cigno,| che, ai buoni amico, alto disdegna il vile| volgo maligno”...  E via! Nessuno è giudice in causa propria.

[13] La disponibilità più che sufficiente di clero diocesano per coprire le necessità delle parrocchie, permetteva a molti, desiderosi di diventare ecclesiastici qualunque fosse il motivo che ve li spingesse,  di farsi consacrare “titulo patrimonii sui”, cioè esonerando il vescovo consacrante dall’obbligo di provvedere il sostentamento al candidato, che  si manteneva invece con una rendita di famiglia o con la garanzia di un ufficio presso laici (capellanie o incarichi didattici presso famiglie facoltose). Erano i cosiddetti “abati”,  molto numerosi nel Millesettecento, con membri esemplari come G. C. Passeroni, con altri che vivevano scandalosamente, come G. B. Casti e con altri che, come il Parini, si barcamenavano fra virtù e peccati. Certo che chi aveva ingegno  godeva anche di prestigio, perchè  aveva potuto farsi una cultura, anche se proveniva da ceti poveri  e perchè era incardinato in uno stato riverito da una società ancora complessivamente cristiana.

[14] Abbiam parlato dei limiti  intellettuali del Parini, ma non per negargli una intelligenza superiore alla norma. In questa prospettiva, egli era nelle condizioni di inesperienza e saccenteria che lo abilitavano a percepire i difetti di un insegnamento (quello delle scuole che frequentava) senza riconoscerne le virtù. E’ l’attitudine tipica  del giovane ingegnoso e sfaticato, che critica indiscriminatamente  e disprezza i maestri che lo hanno introdotto ad escogitare metodi migliori e contenuti più completi di insegnamento. Pur essendo il nostro è un giudizio generico, dedotto dalla comune psicologia della gioventù brillante e negligente, ci sembra doversi tener presente una simile casistica psicologica, per fare la tara a quanto di eccessivo vi è nei giudizi espressi sulle scuole gestite dai religiosi sia nell’utopico proclama messo in bocca a Pasquale Paoli  (“In nome di P. P.”: circa 1770); sia nel Frammento di un programma didattico: al ministro conte G. de Wilzeck: 1770; sia nel parere inviato al conte  C.G. di Firmian  Sul decadimento delle belle lettere e delle belle arti: 1773. Documenti tutti, in cui i giudizi sono generici ed insolenti, ma non denunciano nessun preciso parametro didattico (ritenuto) errato, arretrato o corruttore: in tutti e tre i documenti egli si limita ad accusare il clero ed i religiosi (gesuiti in particolare, a quanto si può sospettare)  di “ipocrisia”, di “spirito corrotto, falso e reazionario”. Ne riparleremo a proposito del motivo ispiratorie religioso.

[15] Si veda anche il sonetto Nel maschio umor, più puro un verme sta” che, descrivendo la comune vicenda umana dalla concezione alla generazione, termina esplicitamente con questo verso: “Così nasce il villano, il papa, il re”.

[16] Dalle battute precedenti del dialogo, risulta che il nobile pretende che  un certo tipo di sangue, ovviamente quello nobiliare, porti con sè automaticamente doti di intelligenza, sensibilità e virtù; e viceversa.

[17] Alcuni versi da “Per le nozze Giuliani Fiori: “Molti san fare ancor qualche sonetto,| ma per far qualche cosa tuttavia| non hanno alla modestia alcun rispetto.| Ti conducono all’uscio a far la spia;| fanti veder Coniugio che vien drento| e la Verginità che scappa via.|| Cascan ne le sozzure insino al mento| e fanti comparire una sporchezza| quel così alto e nobil sacramento....|| Voi dovete pensar che siete presi| a un| laccio cui non può scior se non la morte| non già le male usanze de’ paesi.|| Direi: -O sposo, la vostra consorte| è una compagna datavi da Dio| che che le passion dicano storte.| Frenate dunque il mobile desio;| e fuor del vostro nido non scappate...”

Il sonetto caudato contro il Casti: “Un prete brutto, vecchio e puzzolente| dal mal moderno tutto quanto guasto| e che, per bizzarria dell’accidente,| dal nome del casato è detto “casto”;|| che scrive dei racconti, in cui si sente| dell’infame Aretin tutto l’impasto;| ed un poema sporco e impertinente| contra la donna dell’impero vasto;| che, sebbene senz’ugola è rimaso;| attorno va, recitator molesto| oscenamente parlando  col naso;|| che dagli occhi, dal volto e fin dal gesto| spira l’empia lussuria ond’egli è invaso,| qual satiro procace e disonesto:|| sì, questo mostro, questo| è la delizia de’ terretri numi.| Oh che razza di tempi e di costumi!” (“terrestri numi”  sono i nobili: il sonetto è del 1768; se l’avesse scritto  più tardi, avrebbe dovuto comprendervi anche l’imperatore  Giusepe II che lo invitò a Vienna; e Francesco I, che lo fece poeta cesareo). Contro il Casti, Parini scrisse anche nell’ode La recita dei versi, definendolo “fauno procace”.

[18]  Sono due i volumi narrativi dello Scotti : “Le giornate del Brembo colle novelle di Belgioioso”; e  l’ “Accademia Borromea: secondo novelliere morale” che uscirono nel 1800, già morto il Parini. Le citiamo qui, perchè furono lette dall’adolescente Alessandro Manzoni, alunno  dal 1798 al 1801 dei Barnabiti: egli ne avrebbe ricavato spunti per i suoi Promessi Sposi!.

[19] Vedili anche nell’edizione Ricciardi “G. P. , Poesie e Prose, 1951, pp.408 e 409.

[20] “Ma questi, forse non sono amori; sì galanteria e sensualità” : così il Natali scrive  dei rapporti  con  ballerine e donne di teatro, fra cui Teresa Angiolini Fogliazzi. E anche  a riguardo della “gentildonna Francesca Castelbarco Simonetta”, si tratterebbe di una“grande disperata passione”, cioè di un  amore appunto non  realizzatosi Cfr. “Il Settecento”, Milano, F. Vallardi, 1960, II, p. 706.

Possono rientrare certo nella pura galanteria le canzonette per ventole e parafuoco, che rivelano-nascondono amori anche di contrabbando: che si addicano ad un sacerdote non può  affermarsi, ma non necessariamente van prese sul serio; possono pur rientrare nello scherzo intelligente, anche se  “osé”.

[21] Ricciardiana, vol. 48 de La letteratura italiana, Storia e Testi (G.P. Poesie e prose), Milano-Napoli, 1961, p. 659.

[22] Del resto, prescindendo dalla interpretazione sopra discussa, rimangono documenti della sua mediocrità ed incostanza sia nel giudizio che nella condotta sessuale, mentre in qualche composizione bernesca e dialettale si lascia trascorrere  ad espressioni volgari. Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752) contengono composizioni audaci (la 75| 82| 83| 85| 91). Del 1758-9 sono tre sonetti in elogio della cantante corrottissima (e guercia) Caterina Gabrielli, con   frasi del tipo   “terrestre angiolo mio”; “fortunato assai| chi sì bel labbro ascolta o vede o tocca”. Del 1759 è il sonetto poco riguardoso e troppo realistico (“Nel maschio umor più puro un verme sta”). Del 1769 è il sonetto per Teresa Fogliazzi, sposa di Gaspare Angiolini (“Quell’io che già con lungo amaro carme| Amor derisi...”), ove  confessa di essere stato ancora una volta vinto da Cupido. Del 1762-3 è la composizione I ciarlatani, un po’ troppo disinvolta, anche se non  giunge alla volgarità delle quartine centrali de Il teatro (1775). Del 1769 (?) è il frammento di sciolti per Teresa Mussi  La bellezza del creato, che  esprimono esplicito il suo tenero sentimento per la leggiadra attrice (a lei dedicò anche le Canzonette per parafuoco ed alcuni degli Scherzi). Si vedano ancora, di data incerta, il sonetto in meneghno “Scior curat de Pusian”; quelli in lingua “Un somarello montato in bigoncia”, “Le Furie d’Averno” e “Ciò che nasce dal lezzo”, i sonetti come lettere affettuose :“A Silvia Cantoni-Verza” (“Silvia immortal, benchè dai lidi miei”: tra le lettere in prosa scambiate con lei, una inizia “Adorabile Silvia”); alla contessa Maria Castelbarco  Litta (“Rapì de’ versi miei picciol libretto”| “Quanto t’invidio, bello uccellino”| Ah! colui non amò: colui avversi”); per Paola Castiglioni Litta, la stessa cui sono indirizzati le odi “Il dono” e “La recita dei versi”  (“Quand’io sto innanzi a quei due lumi bei”| “Le fresche ombre tranquille, i colli ameni”); le terzine bernesche “Risoluzione di morire”, i versi sciolti “ Sulla colonna infame”; il sonetto A Clori (Beatrice d’Este?) (“Volgi un momento sol, volgi un momento”); quello di dubbia attribuzione, che inizia “Natura un giorno a contemplar discese”; quello per Cecilia Tron (la stessa de “Il pericolo”) che inizia “Grato scarpel su questo marmo incidi” ; e quelli per matrimonio “Oh beato colui che può innocente”, “Precorre Imene e rende  luminosa”, “O Tardi alzata dal tuo novo letto”, “O bella Venere, per cui s’accende” (sono accostabili, per certe arditezze, nello spirito alla canzonetta-ode “Le nozze” ed all’ode “ Alla Musa”). I versi, infine, In morte di Antonio Sacchini (1786),  scusano la condotta libertina del  compositore musicale con questa attenuante: “Ma perfido o fastoso te giammai non chiamò tardi pentita:| nè, d’improvviso uscita,| madre sgridò nè furibondo sposo| te ingenuo, e del procace| rito dei tuoi non facile seguace”: il Parini elogia l’amico musicista, perchè non  illudeva di sposare le giovani che seduceva; nè mai mise in pubblico le sue conquiste fra le donne maritate!

Anche nelle prose, il Parini sconfina facilmente in un realismo meno attento al pudore (“Dialogo sopra la nobiltà”| “Discorso sopra le caricature”). Si sa, inoltre, che, suggerendo temi per decorazioni di teatri e palazzi, egli preferiva il nudo decente, di costume semplice ed antico (o la persona vestita così da lasciar intravedere il nudo sottostante): si veda per questo sia W. Binni nella Garzantiana minore, Il settecento, p. 725, n. 1; sia le Prose, edite da Laterza, 1913-15, a cura di Bellorini, pp. 100-1.

 

[23] Si vedano “Per le nozze Giuliani-Fiore”, ove condanna la spudoratezza di certi verseggiatori per matrimonio; “Un prete brutto, vecchio e puzzolente”, ove fustiga il Casti e l’Aretino; “Lo studio”, ove torna a inveire contro “l’Aretino animale”; “Il teatro”, dove si pone in satira chi, come frate Uguccione, approfitta della maschera, per comportamenti villani ed indecenti; “La maschera” che condanna l’uso del nascondersi come originato dalle   gherminelle delle divinità pagane  per coprire la loro  condotta immorale: condanna, così, la stessa mitologia ed anticipa Il Manzoni, che però la detesterà per motivi di fede –la mitologia è idolatria- mentre il Parini la satireggia per ragioni morali

[24] Il Mattino, vv. 668-689. Avremo modo di citarrli, studiando i motivi ispiratori de Il Giorno.

[25] La moda, veramente, era chiamata “à la victime”, perchè  simulava i decapitati dalla rivoluzione con un nastro rosso che circondava il collo e riemergeva sul petto, dopo aver girato dietro la schiena,  mentre le spalle erano scoperte.

[26] Lo fa con un “balon d’essai”, cioè inventando una notizia perchè l’annuncio, pur falso, spinga i responsabili a renderla vera con decisioni pertinenti. In pratica, egli pubblica sulla “Gazzetta” un’inesistente decisione del papa con cui si fa cessare l’assunzione di evirati come cantori nella Cappella sistina. Con tale  gherminella giornalistica, egli spera che “chi ha orecchi per intendere intanda” e faccia cessare la reale, anche se indiretta, collaborazione alla crudele pratica di far evirare i figli dalla voce promettente, da parte di genitori avidi di specularci sopra. Essendo, infatti, le donne escluse non solo dalla cantoria vaticana, ma anche dai pubblici teatri, si ricorreva  a maschi adulti evirati per le voci bianche di soprano-contralto, sottoponendo appunto a castrazioone i bimbi dalla voce eccezionalmente bella.

[27] Eppure sorprende che nè  Virgilio nè Dante riecheggino nelle sue rime: spontaneo trincerarsi nella imitazione dei soli poeti affini, sentendo come troppo alti quelli non solo a lui superiori, ma semplicemente sublimi. Ma forse solo il Dante dell’Inferno (e Giovenale) devono essere considerati presupposti per comprendere l’inasprimento della satira oraziana nella ben più  pungente e inesorabile ironia de Il Giorno.

[28] Giov. Gioachino Winckelmann, che incontreremo nello studio del Neoclassicismo, aveva pubblicato la sua interpretazione delle opere figurative greche in due opere che ebbero molta fortuna: “Considerazioni sulla  imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura”  (1755) e “Storia dell’arte nell’antichità” (1764).

[29] Sono, rispettivamente, la XII, XV, XXIII, e XXXVI di Alcune poesie di R. E.

[30] Nell’imitazione dell’Orazio più alla mano, quello degli Epodi, Satire ed Epistole, si fa sentire anche l’esempio delle Satire dell’Ariosto, spirito oraziano anche lui nella mediocre praticità dei suoi princìpi e nella media dignità della sua versificazione.  Esiste fra i tre un solidale cerchio di affinità poetiche, come testimoniano anche il prendere gli stessi titoli per composizioni simili: “Satire” in Ariosto (che sono, poi, epistole in versi, come  le satire di Orazio); “Odi” in Parini.

[31] Il verso più esplicito dell’ “Ars poetica” di Orazio è il notissimo “Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci” (ha in tutto raggiunto lo scopo della poesia, colui che ha saputo mescolare l’utile dell’insegnamento con la dolcezza del piacere). Per il Parini, oltre i già citati versi della Salubrità dell’aria (“Va per negletta via| ognor l’util cercando| la calda fantasia,| che sol felice è quando| l’utile unir può al vanto| di lusinghevol canto”), si legga l’ultima strofa de L’Innesto: “Tale il nobile plettro in fra le dita| mi profeteggia armonioso e dolce;| nobil plettro che molce| il duro sasso de la umana mente;| e da lunge lo invita| con lusinghevol suono| verso il ver, verso il buono;| nè mai con laude bestemmiò nocente| o il falso in trono o la viltà potente”.

[32] Il sonetto Ciò che naasce nel lezzo finisce così: “ E quant’altri animai sozzi e poltroni| nascon dal lezzo e pelano i m........”)

[33] I ciarlatani mette in guardia contro sedicenti filosofi, giuristi, frati, medici, poeti ed innamorati e dà un mezzo per riconoscerne la falsità: tutti promettono oltre la ragionevolezza e le forze di natura. Anche il gatto, protagonista della sonettessa a lui dedicata, risulta un ciarlatano: promette di sgombrare la casa del contadino dai topi, ma poi si abitua a vivere di rapina alle spese della cucina dello stesso padrone, che si pente di aver dimenticato che il gatto è infido e traditore. 

[34] G. Natali, o. c. I, 503. Vi è elencato anche un terzo traduttore (Gian Vincenzo Benini) ma, a parte che è definito “pessimo”, questi pubblicò la traduzione solo nel 1803.

[35] Gli “Amori” sono del 1765, tardivi rispetto al  Parini ma dodici di tali canzonette erano comparse nel 1758 con il titolo “Rime”: queste   possono aver offerto spunti sia di contenuto che di musicalità per Il Mattino ed Il Mezzogiorno.

[36] Insegnava materie umanistiche nei ginnasi della Compagnia. Scrisse, allora, la storia del suo ordine dal 1615 al 1633 (Historia societatis Jesu), la storia della spedizione di Carlo  Eduardo Stuart in Scozia e quella della soppressione dei Gesuiti.

[37] La critica marxistica non ha mancato di  operare  un ribaltamento del pensiero e della ispirazione pariniana, mettendo al primo posto il motivo sociale e riconducendo ad esso anche quello etico. L’analisi che proponiamo nel  testo ci sembra che esorcizzi a fondo un simile stravolgimento.

[38] Abbiamo lavorato d’intarsio negli ultimi due periodi, ricamando su versi o titoli di opere tetarali di vari autori: dal Foscolo a Dante, da Enrico Ibsen a Bernard Shaw, da  Pier Maria Rosso di San Secondo a Pedro Calderon de la Barca.

[39] Jean de La Fontaine (1621-1695) mise in versi francesi favole di Boccaccio ed Ariosto ed in proprio ne scrisse 12 volumi, meritandosi il titolo di “Aretino mitigato”. A parte la sensualità delle novelle degli ultimi sei libri, egli rovescia i valori, dando la vittoria al male, in una prospettiva simpaticamente anarchica. Claude Prosper Jolyot de Crébillon (1707-77), figlio dell’omonimo autore di tragedie truculenti, si dedicò alla narrativa licenziosa.

[40] Ecco i versi del Mezzogiorno, 924-32: “....La moda impone| ch’Arbitro o Flacco a i begli spirti ingombri| spesso le tasche. Oh come il vate amico| te udrà maravigliando il sermon prisco| o sciogliere o frenar qual più ti piace:| e per la sua faretra e per li cento| destrier famosi che in Arcadia pasce| ti giurerà, che di Donato al paro| il difficil sermon intendi e gusti”.

Per gli Enciclopedisti tutti e per Voltaire (Aristippo)  e Rousseau (Diogene) in particolare, vedi Il Mezzogiorno, 933-46: “Cotesto ancor di rammentar fia tempo| i novi sofi che la Gallia o l’Alpe| ammirando persegue: e dir qual arse| de’ volumi infelici, e andò macchiato| d’infame nota: e quale asilo appresti| filosofia al morbido Aristippo| del secol nostro; e qual ne appresti al novo| Diogene dell’auro spregiatore| e della opinion de’ mortali.| Lor famosi volumi o a te discesi| da le fiamme fuggendo a gran giornate| per calle obliquo, e compri a gran tesoro,| o da cortese man prestati, fiéno| lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi”.

Ed ecco quelli  de Il Mattino, 668-98, dove il Parini non disconosce in Voltaire doti di ingegno, anche se lo condanna pel complesso dei princìpi religiosi ed morali e, come si è detto, gli rinfaccia la mediocrità dei versi : “O de la Francia Proteo multiforme,| scrittor troppo biasmato e troppo a torto| lodato ancor, che sai con novi modi| imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo| ai semplici palati, e sei maestro| di color che a sè fingon di sapere;| tu appresta al mio Signor leggiadri studi con quella tua fanciulla all’Anglo infesta,| onde l’Enrico tuo vinto è d’assai,| l’Enrico tuo che in vano abbatter tenta| l’italiano Goffredo, ardito scoglio| contro a la Senna d’ogni vanto altera.| Tu de la Francia onor, tu in mille scritti| celebrata da’ tuoi, novella Aspasia,| Taide novella ai facili sapienti| de la gallica Atene, i tuoi precetti| pur detta al mio Signore: e a lui non meno| pasci l’alto pensier tu che all’Italia,| poi che rapirle i tuoi l’oro e le gemme,| invidiasti il fedo loto ancora| onde macchiato è il certaldese e l’altro| per cui va sì famoso il pazzo conte”.

[41] “...Avvien sovente| che un grande illustre or l’Alpi or l’oceàno| varca e scende in  Ausonia, orribil ceffo| per natura o per arte, a cui Ciprigna| ròse le nari, o sale impuro e crudo| snudò i denti ineguali. Ora il distingue| risibil gobba, or furiosi sguardi| obliqui o loschi; or rantoloso avvolge| fra le tumide fauci ampio volume| di voce che gorgoglia ed esce alfine| come da inverso fiasco onda che goccia.| Or d’avi or di cavalli ora di Frini| instancabile parla, or de’Celesti| le folgori deride. Aurei monili| e gemme e nastri, gloriose pompe,| l’ingombran tutto; e gran titolo suona| dinanzi a lui”. (Il Mezzogiorno 707-723).

“Qui ti segnalerai co’ nuovi sofi| schernendo il fren che i creduli maggiori| atto solo stimar l’impeto folle| a vincer de’ mortali, a stringer forte| nodo fra questi, e a sollevar lor speme| con penne oltre natura alto volanti.| Chi por freni oserà d’inclita stirpe| a l’anima, a la mente? Il vulgo tema| oltre natura; e questi cui dona il vulgo| titol di saggio, mediti romito| il ver celato, e alfin cada adorando| la sacra nebbia che lo avvolge intorno.| Ma tru come sublime aquila vola| dietro ai sofi novelli. Alto dia plauso| tutta la mensa al tuo poggiare audace” (Il Mezzogiorno, 957-71).

[42] “Ma qual arde amabil lume?| Ah! ti veggio ancor lontano,| Verità, mio solo nume,| che m’accenni con la mano,| e m’inviti al latte schietto| ch’ognor bevvi al tuo bel petto.|| Deh, perdona! Errai seguendo| troppo il fervido pensiere.| I tuoi rai del mostro orrendo| scopron or le zanne fiere.| Tu per sempre a lui mi togli;| e me nudo nuda accogli.”

[43] “Onora, figlio, il Nume| che da l’alto ti guarda...” (stro. 21); “Per che sì pronti affetti| nel core il Cuiel ti pose?| Questi a ragion commetti;| e tu vedrai gran cose:| quindi l’alta rettrice| somma virtude elìce” (str. 23); “Da la loro meta han lode,| figlio, gli affetti umani...” (str. 25).

[44] Ne La vita rustica sono i versi “Me non nato a percotere| le dure illustri porte| nudo accorrà, ma libero| il regno de la morte” (str. 4);   ne La caduta  gli altri: “Mia bile al fin, costretta| già troppo, dal profondo| petto rompendo, getta| impetuosa gli argini; e rispondo:|| -Chi sei tu, che sostenti a me questo vetusto| pondo, e l’animo tenti| prostrarmi a terra?|| Buon cittadin, al segno| dove natura e i primi| casi ordinar, lo ingegno| guida così che lui la patria estìmi.|| Quando poi d’età carco| il bisogno lo stringe,| chiede opportuno e parco| con fronte liberal che l’alma pinge.|| E se i duri mortali| a lui voltano il tergo,| ei si fa, contro a  i mali,| de la costanza suo scudo ed usbergo.|| Nè si ababssa per duolo,| nè s’alza per orgoglio-.| Così dicendo, solo| lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.|| Così, grato ai soccorsi,| ho il consiglio a dispetto;| e privo di rimorsi,| col dubitante piè torno al mio tetto.” (strofe20-6)|

[45] Nelle strofe 12-30 è notevole la intuizione del legame causale tra  l’abuso della sessualità e il piacere della violenza, come è acuta la lettura del passaggio psicologico  da un atteggiamento all’altro: “Ahi! da lontana origine,| che occultamente nòce,| anco la molle giovane| può divenir feroce.|| Sai de le donne esimie| onde sì chiara ottenne| gloria l’antico Tevere,| Silvia, sai tu che avvenne,|| poi che la spola e il frigio| ago e gli studi cari| mal si recaro a tedio| e i pudibondi Lari,|| e con  baldanza improvvida,| contro a gli esempi primi,| ad ammirar convennero| i saltatori e i mimi?|| Pria tolleraron facili| i nomi di Tereo| e de la maga Colchica| e del nefario Atreo.|| Ambìto poi psettacolo| a i loro immoti cigli| fur ne le orrende  favole| i trucidati figli.|| Quindi perversa l’indole| e fatto il cor più fiero,| dal finto duol, già sazie,| corser sfrenate al vero.|| E là dove la Libia| le belve in guerra oscena| empiean d’urla e di fremito| e di sangue l’arena,|| potè a l’alte patrizie| come a la plebe oscura| giocoso dar solletico| la soffrente natura.|| Che più? Baccanti, e cupide| d’abbominando aspetto,| sol da l’uman pericolo| acuto ebber diletto:|| e da i gradi e da i circoli| co’ moti e con le voci,| di già maschili, applausero| a i duellanti atroci;|| creando a sè delizia| e de le membra sparte| e de gli estremi aneliti| e del morir con arte.|| Copri, mia Silvia ingenua,| copri le luci; et odi| come tutti passarono| licenziose i modi.| Il gladiator, terribile| nel guardo e nel sembiante,| spesso fra i chiusi talami| fu ricercato amante.|| Così, poi che da gli animi| ogni pudor disciolse,| vigor da la libidine| la crudeltà raccolse.|| Indi a i veleni taciti| si preparò la mano:| indi le madri ardirono di concepire in vano.|| Tal da lene principio| in fatali rovine| cadde il valor, la gloria| de le donne latine.|| Fuggi, mia Silvia ingenua,| quel nome e quelle forme| che petulante indizio| son di misfatto enorme.|| Non obliar le origini| de la licenza antica.| Pensaci; e serba il titolo| d’umana e di pudìca.”

[46] Può interessare, in proposito, l’atteggiamento del poeta sul fenomeno “guerra”: Si vedano in Poesie varie, Sopra la guerra| A Delia| Ecco la reggia, ecco dei prischi Incassi| Pari a fumo d’incensi i nostri voti| Predaro i filistei l’arca di Dio e Il Mattino, 20-24; 144-157. Il suo pensiero è classicamente tradizionale: in linea di principio anch’egli la aborre, ma la ammette come  lecita in caso di legittima difesa (Sopra la guerra, vv. 10-19: “Natura in prima e poi ragion ne appella| le patrie mura a sostener pugnando.| E questa è la virtù che fè sì arditi| Orazio al ponte e Curzio a la vorage”;  e 140-1: “Vincan lor armi a cui dal cielo assiste| alma Giustizia..”).  Si noti, in Parini, l’appello alla legge della Némesi storica, per cui è giocoforza che chi ha oppresso e straziato dei popoli, venga punito, a suo tempo, con invasioni, oppressioni, stragi. Questo concetto sarà ripreso dal Carducci e inteso in senso totalmente profano: pura legge immanente, biologica o psicologica. Invece, in Parini non mancano parchi ma sicuri accenni alla  Provvidenza divina: nel sonetto “Pari a fumo d’incensi i nostri voti” è Dio che benedice la casa d’Austria, in momenti –1793- in cui essa appare scudo contro la Francia rivoluzionaria. Questo permette di interpretare in senso religioso la legge, che è citata esplicitamente  nel sonetto Pera colui che dall’estranio lido ed è accennata implicitamente in Ecco la reggia, ecco de’ prischi Incassi ed in  Predaro i Filistei l’arca di Dio.

[47] Anche il Dialogo sulla Nobiltà” fa prevalere la preoccupazione morale su quella sociale:  con le ultime riserve di aria rimasta nei polmoni il nobile morto si converte all’idea di uguaglianza ed al principio che, se distinzione fra gli uomini vi è, essa dipende solo dalle doti personali, tra le quali la onestà è al primo posto. Il ricco e nobile, divenuto ragionevole fino al punto da mettere i valori morali al primo posto, è divenuto buono, rispettabile, simpatico.

[48] L’unico campo in cui c’è esaltazione per nuovi metodi di studio  e probabile esagerazione nelle condanne di quelli tradizionali   è quello della scuola, dove però manca ogni concretezza di rimproveri o documentazione di errori.

[49] S. Gerolamo Emiliani, (abbreviato in “Miani” nel Parini), veneziano, dopo un periodo passato sotto le armi, fatto prigioniero nel 1511 durante la guerra della Lega di Cambrai, ebbe modo di ripensare la propria vita e convertirsi all’amore di Dio e dei bisognosi. Fondò la congregazione dei “Servi dei poveri” (comunemente conosciuti come “Somaschi” dal luogo di Somasca ove era la residenza originaria) e si occupò in particolare degli orfani, fondando anche a  Milano una casa per loro, presso la chiesetta di S. Martino (onde il nome di “Martinìtt” dato agli alunni di quell’ospizio). Morì contagiato dalla peste, contratta assistendo gli ammalati (1537).

[50] Siccome  degli scritti del Parini risentono sia il Manzoni che il Leopardi, allora si può sospettare un influsso su entrambi. Ad esempio, il rifiuto del primo al titolo di conte non può dipendere dalle idee pariniane di uguaglianza  radicale degli uomini? E la persona del principe padre nei confronti di Geltrude (cc. 10 e 11 dei “Promessi”) non potrà essere stata anche ispirata dall’ottuso egoismo di certa parte della nobiltà, bollata dall’abate poeta? Quanto a Leopardi, va notato che le sue “Operette morali”  esprimono solo una triste ironia, che tende addirittura a diventare commiserazione, per le illusioni del genere umano, pur potendo assumere il trono acre, di feroce sarcasmo, quale gli presentava l’esempio  dei “Dialoghi dei morti” di Luciano di Samosata (ca. 120- 180 d. C.): il tono moderato di commiserazione gli può essere venuta dall’esempio pariniano.

 

         

[51] Qua e là  l’espressione  è aspersa di ironia, sicchè è impossibile tanto citare un gruppo di versi, tra quelli  indicati, univocamente connotato di seduzione, quanto lo sarebbe la pretesa di riportarne di pura derisione.

[52] Se ne leggano ad esempio, nelle ODI:  Le Nozze (IX), Brindisi (X), Il Pericolo (XV), Il Dono (XVII),  Il Messaggio (XIX),  Sul vestire alla ghigliottina (A Silvia: XX), Alla Musa (XXI).

Per le POESIE VARIE, si vedano Precorre Imene (sonetto che mal s’accorda con quanto lo stesso Parini depreca  nelle terzine Per le nozze Giuliani-Fiore); “O bella Venere, per cui s’accende” (son.) ; O tardi alzata dal tuo nuovo letto” (id.); “Per nozze”, canzonetta di ottonari, che termina così: “Lungi, o turba dei severi!| Da te leggi allor non piglio| non mi curo che tu imperi| coll’irsuto sopracciglio;| e scherzar fo la Virtude con le Grazie tutte ignude” (ma la conclusione dapprima progettata suonava così: “La ragion seduta in trono| loda il bello e loda il buono”).

[53] Ci si perdoni la terminologia freudiana, introdotta più che per  utilità di chiarificazione per l’effetto estetico delle immagini (che  fu, poi, il motivo principale del suo trionfo e la ragione per cui  si sta seppellendo la psicanalisi, pur continuando ad esaltare il suo fondatore (la prstigiosa rivista americana U.S. NEWS & World report, scriveva un articolo, negli anni Millenovecentonovanta, dal titolo significati: “Praising and burying him” (Lodandolo e seppellendolo).

[54] Ha per tema la ricerca di Dio.

[55] Per sè, la religione è il coronamento o fastigio, cioè la espressione più alta della vita morale. Tuttavia, nell’esperienza storica dell’umanità, si trova che la religione è anche la radice o l’inizio o la condizione necessaria per una vita morale inegra, completa. Il cristianesimo riferisce tale ambivalenza della vita religiosa ad una conseguenza del peccato originale (e punta su Cristo redentore come  risposta alla condizione sconcertante, esistenzialmente lacerata dell’uomo concreto fra aspirazioni di perfezione e realtà di errori, dubbi, infelciità e peccati), secondo la intuizione di Pascal “Bisogna accettare il mistero di Cristo per comprendere il mistero dell’uomo”.  Sono queste delle idee che  dobbiamo aver già enunciato altre volte.

[56] Claudio Cesare Secchi, recensendo sul’Osservatore romano il volume di A. Vicinelli “Il Parini e Brera” (Milano, Ceschina, 1963) presenta una ipotesi verosmile per spiegare il fatto sorprendente che fra i suoi libri non se ne trovasse alcuno di argomento religioso: prima che intervenisse l’inventario dei beni (che comprendevano anche quadri) alla sua morte, sarebbe stata esercitato il diritto di spoglio da parte dei preti di San Marco, cui interessava appunto solo il materiale religioso.

[57] “Pastinaca” è un termine botanico, appunto,che indica una “ombrellifera spontanea nelle regioni umide, la cui radice è commestibile e medicamentosa”

[58] Francesco Reina, pubblicandole, annota: “Per quanto usassi diligenza, io non potei mai rinvenire l’originale di queste Lettere, onde sì per li pensieri, e lo tono dell’ironia, come per la dizione, e le varie cancellature e correzioni, che stanno sul manoscritto, le quali constano di idee affatto diverse le une dalle altre, giovami il credere opera del nostro autore le Letetre stesse”. Le Lettere sono attribuite al conte N. N. e destinate appunto ad una donna che credeva esaurire la propria giustizia nella preghiera, trascurando i doveri del proprio stato.

Si noti che l’uso di voci verbali rese sdrucciole col suffisso della particella pronominale, ravvicina le tre lettere al Discorso sopra le caricature, sicchè si potrebbe sospettare anche lo stesso tempo di composizione (1759). Parini era solo trentenne e poteva mutare le proprie convinzioni (onde le correzioni multiple).

[59] Questo sonetto è stato pubblicato da Giuseppe Bernardoni nel 1841 e lo leggo nella edizione Carrara (Poesie di Giuseppe Parini, Milano 1889, p. 364).

[60] Come al solito, però, anche la guerra dei Trent’anni non era stata una guerra di pura religione. Infatti, il motivo principale era quanto mai terrestre: la inosservanza, da parte protestantica del “reservatum ecclesiasticum”, cioè il dovere di  non appropriazione dei beni ecclesiastici da parte di principi e potentati che passassero al protestantesimo (clausola decisa dalla pace di Castel Cambrese, nel 1559); più a fondo ancora, vi era la questione della autorità effettiva dell’impero asburgico e|o della indipendenza dei principi tedeschi da tale autorità. Il motivo per cui la tolleranza si impose fu praticamente la costatazione che i danni di una guerra tra cattoilici e protestanti in Europa erano superiori ai benefici che ne poteva ritrarre la parte “innocente”: in tal caso la guerra diventa  illecita ed immorale.

[61] Citiamo le  accuse più gravi contro il clero o  addirittura la Chiesa cattolica. Da “Sul decadimento...”: “Nessuno negherà certamente che l’oppressione della libertà fiorentina, l’eccessiva potenza degli Spagnuoli in Italia, che ne facevano barbaramente tiranneggiare le più belle contrade da’ loro govrrnatori, la caduta della grandezza veneta dopo la lega di Cambrai, la ipocrisia introdottasi nella corte di Roma dopo la riforma di Lutero e la crudeltà dell’Inquisizione, spezialmente dopo il concilio di Trento, non abbiano spento in Italia ogni sentimento di gloria nazionale, di nobile emulazione ed ogni libertà pubblica di pensare, e quindi sommamente avviliti gli animi di quasi tutti gl’Italiani.... Chi   risguarda la mediocrità, la bassezza, state sempre, e la maggior corruttela, sopravvenuta di poi, in tutti i generi di scuole formalmente poste o tacitamente ridotte sotto la direzione de’ frati, vedrà perchè tutti i ceti delle persone, che per natura delle loro professioni debbono scrivere e parlare a’ ministri, al governo, al popolo, manchino di giustezza, di precisione, di chiarezza, di metodo, di scelta , di gusto, di forza e finalmente di tutto ciò che noi chiameremo eloquenza...Non parleremo delle cattedre dell’università...Solo toccheremo che l’esser cadute, per molte e replicate combinazioni, quasi sempre in mano de’ frati... ciò vi ha introdotto il medesimo spirito corrotto, falso e fazionario, che si vede nelle loro istituzioni domestiche, ne’ loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute sotto alla loro cura”.

  In nome di Pasquale Paoli” propone di istituire una università in Corsica, come mezzo decisivo per risolvere la arretratezza della cultura e della mentalità nell’isola. I pensieri sono del Parini, ma messi in bocca al famoso capo della rivolta : “Avrei potuto... scegliere dai Corpi de’ Regolari qualcheduno dei più accreditati Lettori.... ma dubitai che fosse difficile di spogliarli di quello spirito corrotto, falso e reazionario, che ordinariamente si vede nelle loro instituzioni domestiche, ne’ loro collegi e nelle scuole in qualsivoglia modo pervenute sotto alla loro cura”.

[62] “Il viraggio stesso della concezione”  che stava alle spalle della Inquisizione dal Medioevo al Millesettecento, consisteva nel voler sottoporre a giudizio la fede religiosa al di là della credenza naturale in Dio e nella immortalità dell’anima, cioè anche la parte della fede che chiamiamo “confessionale”: questo era un principio errato  che ebbe conseguenze tragiche, tra cattolici e protestanti, per molti dissidenti dal principio del “cuius (est)  regio, eius (sit) religio”. Ma si è già detto che una censura contro ogni forma di ateismo (e contro ogni concezione unilaterale dell’uomo: estremo spiritualismo cataro; estremo materialismo marxista) parrebbe doverosa per il potere politico, indipendentemente dal tipo di religione prevalente nel proprio stato. Nè la questione è, poi, così semplice: le eresie (confessionali) si appoggiano spesso a prìncipi e potenze politico-militari, diventando sedizioni di carattere civile: in questo caso, la reazione dello stato non ha più carattere di difesa di princìpi genericamente umani, ma di interessi specificamente politici: casi storicamente verificatisi da Arnaldo da Brescia a tutti e tre le guerre provocate dai rami fondamentali della rivoluzione protestantica (in Germania, Inghilterra, Ginevra e Zurigo). 

[63] Nel sonetto “Scorre Cesare il mondo” non solo il v. 4, citato nel testo, ma anche i tre seguenti (“qui delle genti la ragion difende|; ed all’oppresso mortal da forza indegna| or la mente or il piè liberi rende”)  esaltano provvedimenti contro la disciplina ecclesiastica vigente: ma si tratta della abolizione della Inquisizione, provvedimento sul quale si può  essere d’accordo, avendo noi già parlato tanto delle sue virtù quanto delle sue colpe .

Sul precedente viaggio (in incognito) di Giuseppe II a Roma, nel 1769, esiste un sonetto “Quando il nume improvviso al suol latino” che parla di fanatismo e di “superstizione”  e di “vergogne” a proposito delal Roma vaticana e papale. Per lo stile esso potrebbe ben essere del Parini, cui era ed è attribuito: esistono, però, anche  delle testimonianze  secondo cui il poeta avrebbe negato di averlo mai scritto.

[64] Queste liriche le ricorda Giulio Natali sulla Enciclopedia cattolica (Roma, Città del Vaticano, 1952, alla voce Parini. Egli ricorda anche che Francesco Reina, pubblicando gli scritti del Parini nel 1801-4, sostituì  a Dio, la  “natura”; alla “Provvidenza” , “le leggi” ed ebbe l’impudenza di trasformare da negativo in positivo un  suo giudizio sul Machiavelli. A questo modo l’abate brianzolo veniva confezionato su misura illuministica, anzi giacobina.

[65] La chiesa detta di S. Maria segreta è ora trasferita in via Mascheroni e al posto di quelal antica vi è la Banca d’Italia. Che il Parini, poi, celebrasse quotidianamente è facile supporlo, pensando che, almeno per molti anni, la “elemosina” per la applicazione  della Messa in favore degli offerenti, era una delle sue risorse di sussistenza, come si apprende dai versi del 1759  al canonico Agudio, per avere un sussidio (“Limosina di Messe, Dio sa quando| io ne potrò toccare...”).

[66] Non si dimentichi la furfanteria, in  stile prettamente “rinascimentale”, di godere di un beneficio ecclesiastico in Vaprio (ottenuto per la mediazione del conte Firmian), senza esercitarvi  la funzione sacerdotale relativa. Parini contestava preti e frati inadeguati intellettualmente all’insegnamento: ma che  maestro ed educatore  poteva essere  un uomo che  accettava questi compromessi ? Non era disonestà anch’essa?  Non rientrerebbe anche lui in un processo di “mani (non) pulite?””.

[67] Chi volesse scusare i compromessi del Parini nella osservanza|violazione del celibato, parlando di una sacerdozio assunto per “necessità” come opposta a “vocazione”, a nostro parere squalificherebbe l’uomo ancora maggiormente: pretenderebbe di assolverlo per “insufficienza (se non porpio per incapacità) di intendere e volere”. 

[68] E’ questa la tesi fondamentale della commedia di Paolo Ferrari “La satira e Parini” (1856).

[69] Il giudizio di Leopardi lo citeremo studiando la “fortuna” del Parini poeta.

[70] E’ qui il luogo per esporre (n un paio di note) le grandi linee delle teorie estetiche del Parini, quali si possono ricavare dalle idee di “poetica” espresse  nel Discorso sopra la poesia (1761: per l’Accademia dei Trasformati) e nei Doveri dell’uomo di lettere (1762 o 1771?: è un frammento di un Discorso sopra la carità).  Vi si deve riconoscere l’intuizione finalmente precisa che l’arte anzitutto esprime stati d’animo; che l’utilità prima dell’arte è quella di muovere nel fruitore le passioni (emozioni). Ma si deve costatare la incapacità di liberarsi da residui tradizionali, quale il concetto dell’arte come imitazione; il far risalire la forza educativa dell’arte alla “mozione delle passioni” (vecchie carabattole dell’aristotelismo o delle sue interpretazioni cinquecentesche), anzichè alla semplice possibilità di esprimere  emotivamente la condanna del male come la celebrazione del bene; il prendere quasi in considerazione due tipi di poesia, quella fatta di puri pensieri o di eleganza di espressione e quella consistente nella commozione del cuore: siamo alla vigilia dell’errore romantico, cioè della pretesa che esistano due generi di poesia, classica e spontanea, ingenua e dotta, elegante e  commovente...

 Ma ecco le sue parole: “... io credo, appoggiandomi sulla autorità de’migliori maestri, esser la poesia l’arte di imitare o di dipingere in versi le cose in modo che sien mossi gli affetti di chi legge od ascolta, acciocchè ne nasca diletto. Questo è il principal fine della poesia e di qui ha avuto cominciamento” (Ricciardiana, cit, p. 467). “... chi ben considera filosoficamente quest’arte e la natura del cuore umano, ben tosto s’avvede che non dall’opinione degli uomini, ma da fisiche sorgenti deriva quel piacere che dal poeta viene ministrato” (ib.). “Questa sola universalità adunque di essa, siccome dimostra non esser la poesia una di quelle arti che dall’uno all’altro popolo si sono comunicate, ma che sembra in certo modo appartenere all’essenza dell’uomo; così a me par bastevole per sè medesima a dimostrare che un vero, reale e fisico diletto produca la poesia nel cuore umano; non potendo essere giammai universale ciò che non è per sè bene, ma soltanto lo è relativamente”. (id. p. 468). “Se noi ricorriamo all’origine di quest’arte, egli è certo che non altronde che da un dolce e forte affetto dell’animo debb’esser nata, siccome da un dolce e forte affetto dell’animo debbono esser nate la musica e la danza” (ib.). “L’anima nostra che ama di essere sempre in azione e in movimento, niente più aborre che la noia; e quindi è che volentieri si presenta a tutti gli oggetti che senza suo danno la possono metter in movimento; e, qualora non ha occasioni di dover temere per sè, sente piacere così de’ lieti come degli infelici spettacoli... Chi è di noi che non senta, misto alla compassione, anche il piacere al veder di lontano una battaglia, un vascello nella burasca, un incendio o la morte di un giustiziato?.... (id. p. 469). “Egli è dunque  certissimo che la poesia è un’arte atta per se medesima a dilettarci, coll’imitar ch’ella fa la natura e coll’eccitare in noi le passioni ch’ella copia dal vero... (id. p. 470). “Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei che’ella non è già necessaria come il pane nè utile come il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata può essere d’un vantaggio considerevole, alla società. E, benchè io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulla dimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo... Ma la poesia può ancora (cioè, oltre che col dilettare onestamente) esser utile a quella guisa che utili sono la religione, le leggi, la politica. Egli è certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere a farci amare la virtù, imitandone la beltà. E che altro fa il poeta che ciò, collo introdurre sulla scena i caratteri lodevoli e vituperevoli delle persone?” (id. pp. 471-2)

[71] Continuiamo con le citazioni dalle opere di “filosofia poetica” (estetica) del Parini, colle pagine del citato volume della Ricciardiana che le riporta.

“Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere e, per ottener ciò, dee prima esser tocco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista” (id. p. 472). “La poesia che consiste nel puro tor-no (sic) del pensiero, nella eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la meraviglia ma non ci penetra nel cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno” (ib.).

Si veda anche nel Frammento di un programma didattico: “Me nelle Belle Letetre e nelle Belle Arti si esige anche il sentimento da cui viene l’estro e l’entusiasmo, senza dei quali nulla di grande in tal genere” (Ricciardiana, ct. p. 632).

Si tengano presenti i versi finali già citati da La salubrità dell’aria: “ Va per negletta via| ognor l’util cercando| la calda fantasia| che sol felice è quando| l’util unir può al vanto| di lusinghevol canto|”.

Che il Parini non avesse  sistemati tutti i parametri della arte-poesia in una concezione soddisfacente, è vero. Ad esempio gli si può rimproverare non tanto il parlare di “sentimento” anzichè di “emozione”  (a questa distinzione si arriverà solo alla fine del secolo XIX con l’aiuto della neurologia) ma il  distinguere musicalità e sentimento, come due tipi di contenuti poetici, senza percepire che la eleganza musicale del verso è solo mezzo espressivo della emotività. Così l’accennare al “torno del pensiero” sempre in chiave di musicalismo (“torno” lo interpreterei, infatti, come “tornitura” o raffinatezza del pensiero, cioè, di nuovo, sua espressione musicalemente elegante) e non come a strumento (e principale) della espressione del sentimento-emozione.

Ma dalla mancanza di perfezione definitiva della sua teoresi estetica all’accusa di “sensismo” c’è un abisso (W. Binni in Garzantiana, 1976, Il Settecento, pp. 733-5). Per quanto favorevole in linea generale  allo spirito del secolo  (appello che apre il Discorso sopra la poesia),  il Parini non aderì necessariamente al sensismo di Stefano Condillac (1715-1780): contro una tale adesione stanno la sicura fede religiosa  del poeta (una conferma della funzione educatrice della religione, nel Discorso sopra la poesia, in Ricciardiana, cit, pp. 469 e 471) e la assegnazione del piacere alla animalità e non alla razionalità umana, che si intravede in Il Mattino, 819-41 e Il Mezzogiorno, 303-44, mentre L’educazione (str. 23) attribuendo entrambe le sfere di attività nell’uomo alla Provvidenza, comanda però di assoggettare i sensi alla ragione: “Perchè sì pronti affetti| nel core il Ciel ti pose?|Questi a ragion sommetti;| e tu vedrai gran cose:| quindi l’alta rettrice| somma virtude elice”. Un complesso di pensieri che paiono proprio inconciliabili con il sensismo condillacchiano.

[72] Più precisamente, la gioia nasce non tanto dalla scoperta della sproporzione  (difetto), ma dalla forma intelligente che si è trovato per metterla in rilievo e denunciarla. Se ne è già fatto cenno a proposito della comicità nel Goldoni.

[73] Nei vv. 1010-16 si trova lo spunto per i passi sublimi de Le Grazie del Foscolo (“Or versa pur dall’odorato grembo| i tuoi doni, o Pomona...”).

[74] Si ricordino, ne Il Mattino, i vv. 8-11: “Come ingannar questi noiosi e lenti| giorni di vita, che sì lungo tedio| e fastidio insoffribile accompagna,| or io t’insegnerò”.

[75] Si noti la citazione dell’upupa al v.14 che sarà sublimato dal Foscolo ne I Sepolcri; e l’espressione dei vv. 27-28 (“cui di lontan per entro la vasto buio| i cani rispondevano ululando”) che può aver ispirato qualche momento della nottata di Renzo in cammino verso l’Adda, nel c. 17 dei  P. Sp.

[76] Mediocremente drammatici sono pure i sonetti  “magici” 27, 28, 29, 30, 44, 45 e 54.

[77] “Le nozze”  è una canzonetta pubblicata per la prima volta dal Gambarelli, nel 1791 ed inclusa nelle Odi (il Parini, nella edizione curata da lui in seguito, la espunse).

[78] La musicalità conferma il nostro giudizio: la “R” si accompagna frequentemente ad altre consonanti (o gruppi consonantici)  come   “T|B|SC| SG| S” con risultati di sonorità urtante, stridente, violenta. Lo stesso effetto viene ottenuto con l’impiego frequente di consonatismo forte (ST| CH\|P| B...).

[79] La “fanciulla all’Anglo infesta” è Giovanna d’Arco, che il Voltaire cantò nel poema “La Pucelle” (1755), poema superiore  all’“Henriade”, in onore di Enrico IV, col quale il Voltaire tentò inutilmente di pareggiare o superare La “Gerusalemme liberata” del Tasso. Poco più avanti si inveisce contro la cortigiana Ninon de Lenclos e contro i licenziosi “Contes et nouvelles en vers”  di Jean de La Fontaine, spesso ripresi dal Boccaccio e dall’Ariosto.

[80] A costo di ripeterci, ricordiamo come sia facile  delineare, a fini didattici, le componenti essenziali di un artista, una volta ricostruita la sua individualità, riconosciuta attraverso le stesse sue opere, o da ritratti-fotografie o dalla conoscenza di dati esistenziali-operativi che convergano a definirne temperamento, tipo di fantasia e di intelligenza. Se per disegnare una “idiografia” si deve analizzare prima opere d’arte e di vita, una volta risaliti a tale sintesi psicologica si può dedurre con chiarezza e coerenza le dimensioni tutte delle espressioni artistiche di un autore. Se il lavoro “induttivo” precede necessariamente, il metodo deduttivo risulta vincente ai fini della comprensione e padronanza della  esposizione, perchè la mente deduce l’agire dall’essere con più facilità di quanto risalga dall’operare alla individualità. Fra le attività meno soggette alla congenita individualità vi è certo  il pensiero, che però assume modalità accidentali dal tipo di  psicologia individua: in Parini la scelta tra fede cristiana od illuministica era certo libera,  ma  che vi fosse in ogni caso in lui una incertezza di atteggiamento, una continua lotta contro il dubbio di fede e una persistente tentazione ad aderire alle novità del tempo era cosa inevitabile. E l’analisi della sua mente, quale espressa nei suoi carmi, ci ha confermato puntualmente l’influsso della distonia neurovegetativa anche sulla sua  Welktanschauung. L’oscillazione si rivela in sede di estetica, nel binomio edonismo-moralismo dell’arte; in sede religiosa, nel suo sacerdozio moralmente incoerente e nel suo cattolicesimo di fronda (filogiuseppinismo giurisdizionalista e diffidenza aprioristica verso religiosi e mondo ecclesiastico). Lapsus del pendolarismo intellettuale del Parini  possono essere alcuni modi di esprimersi, come  la frequenza dell’avverbio “forse” e la forma ipotetica del periodare. Per l’uso di “forse”, cfr. Il Mattino, vv. 241; 409...; Il Mezzogiorno, v. 255...; Il Vespro, v. 122.... Per le ipotetiche, si veda Il Mattino, v.14 (“Se in mezzo agli ozi tuoi, ozio ti resta| pur di tender gli orecchi ai versi miei”); vv. 243-4 (“se a’ bei momenti tuoi cure minori| ozio daranno”). E  che dire dell’uso di aggettivi che esprimono dinamismo instabile (“trepido agitar dei due ventagli”| “patetico gioco”| “ossequiosi cristalli”) o viscida scivolosità (“venereo stile”| “sagace tabacchiera”)? Ma, forse, stiamo esagerando, scivolando nella psicanalisi!

[81] Ma si veda ancora Il teatro (che inizia significativamente: “Or ecco il carnesciale. E in qual dell’anno| stagione, o Musa mia –io parlo teco-| spropositi maggior gli uomini fanno?”); il convito di Ser Nanni (M’ha invitato a ballar ieri ser Nanni); la rabbia contro le raccolte di poesie (“Andate alla malora, andate, andate | e non mi state a rompere i c...”) e quella contro la propria miseria di poeta a bolletta ( “Muse pitocche, andatene al b...”); il linguaggio della novella “ I ciarlatani” ; la bile contro i villan rifatti (“Crispin non avea pan tre giorni è oggi”) o contro presuntuose nullità ( “Molti somari ho scritto in una lista”| “Un somarello è montato in bigoncia”). Eppure, anche in simili composizioni, non mancano tratti di eleganza classicheggiante. Si veda l’inizio de L’Auto da fè, scritto in versi sciolti: “Pingimi, o Musa, or che prescritto è il fuoco| per subbietto al tuo canto in versi sciolti| atti a svegliar nel sen del mio Baretti| leggiadra bile contro a quel che primo| osò scuotere il giogo de la rima| che de la querul’eco il suono imìta...”.

[82] Per la impudenza, vedi la terza strofa (Qualor passando io miro| la quondam tua bottega,| mi sento dall’ambascia venir meno:| traggo più d’un sospiro; | la bacio, e tento di sfogar la frega| che ho per te ancor nel seno...”)  e la quarta (“... Come su pe’ declivi|fanno dei tetti i mici per la foia,| tali si udieno questi| sotto al tuo ferro miagolar di gioia...”). Per la volgarità, le strofe seguenti parlano di pulci e di puzzo, di unto odoroso e di bacile sbrecciato... Per la grafia irregolare, si veda “sii” per “sia” (str. 1, v. 9), “venien” per “Venian” (2, 10), “sabbati” per “sabati” ( id, 12) “partien” per “partivan”: ib.), mane” per “mani” (esigito dalla rima, ma ugualmente intollerabile, come nel Pulci: 5, 8), “piei| mettei” per “piedi| mettevi” (4, 12 e 13), “drento” (7, 5) .... Pel vocabolario popolano ed ultra, si veda  lo stesso soprannome  del barbiere, “Sfregia” ; “trecconi” (2, 9: rivenduglioli, povera gente), “mici”  per “gatti” (3, 8), “scranna” (4,, 4), “bietta” (4, 13: cuneo, spessore), “ranno” (7,1 0), “impiastrasti” (8, 3), “infardasti” (imbrattasti: id. 10), “bottegai” (13, 13)...

Per le immagini, c’è quella degli gnocchi (8, 8) e quella dei “mici” sopra citata.

[83] Benchè le strofe della “Salubrità” siano composte da sei settenari, va tenuto conto che l’endecasillabo che conchiude le quartine (pure di settenari) ne “La caduta” poteva offrire facile conclusione ad un pensiero anche non del tutto semplice.

 

[84]La caduta” rappresenta una pietra di inciampo per chi volesse sostenere una ascesa non solo coerente, ma  continua verso il neoclassicismo, in una lingua sempre più raffinata ed aerea. In realtà, se  con il 1773  il Parini ebbe contatti col mondo delle arti figurative (cioè con Andrea Appiani, Giuseppe Piermarini, il Traballesi, il Franchi, l’Albertoli, il Knoller) e, quindi, con gli ideali di una classicità unilteralmente  elegante e raffinata, non rinnegò altre forme di stilemi poetici, ma rimase fedele anche al realismo, come dimostrano alcune delle poesie citate, appartenenti agli ultimi anni di vita. Anzi il suo tormento per la perfezione de Il Vespro e de La Notte nel poemetto erano anteriori alla nascita del neoclassicismo: erano una esigenza interiore, che nasceva dalla natura del tema preso a soggetto: si trattava di render liricamente palpabile sia la nobiltà dell’ambiente descritto (motivo della “mondanità” de Il Giorno), sia la sottile canzonatura, cioè l’ironia, con cui veniva sentito dal poeta.  Anche senza il contatto col mondo neoclassico, il Parini aveva motivi propri per sforzarsi di estenuare la rudezza realistica e accentuare la raffinatezza classica. Ma la sua individualità non gli permetteva sino in fondo questo processo di unificazione e semplificazione dello stile: almeno alcune componenti del musicalismo del poema tutto risentono della forza e sostenutezza più consone con il realismo.

[85] Sulla lingua il Parini scrisse in occasione di due polemiche: una, nel 1756, col servita padre Alessandro M. Bandiera (Due lettere intorno al libro intitolato “I pregiudizi delle umane lettere”; l’altra, nel 1760, con un  barnabita  (Al padre don Paolo Onofrio Branda, C. R. di S. Paolo e professore della rettorica nella Università di S. Alessandro). Il problema era questo: “esistono lingue per loro natura supeirori alle altre? In particolare, la lingua toscana è superiore al dialetto milanese?” La risposta del Parini è affine alla nostra attuale. Non vi sono lingue per sè più belle   delle altre, ma la loro bontà dipende dal parlatore più o meno geniale. Se la lingua milanese è meno ricca di vocaboli che non quella toscana, ciò dipende unicamente dal fatto (rimediabile col tempo e con l’uso)  che meno è stata usata su scala così vasta come quella toscana, sicchè vi sono aspetti dello scibile ancora da quella non nominati. Certo, si deve adottare la lingua toscana in Italia, ma per un principio di socialità, che è di fatto necessitante, ma che di diritto sarebbe superabilissimo, perchè l’uso è il grande coniatore delle lingue ed esso dipende, a sua volta, da fattori culturali, politici, economici, che nel  loro futuro sono imprevedibili. A questo modo, il  Parini rimane fedele alla tradizione, alla toscanità fondamentale della lingua nazionale, diversamente dal libertinaggio illuminista dei Verri e dell’Accademia dei Pugni; ma vi rimane fedele con buon senso, cioè con la coscienza della umana vitalità, cioè (diremmo noi oggi) della storicità delle lingue, che mutano e si arricchiscono con l’uso esteso nel tempo. Fedeltà alla tradizione non significa dunque “boccaccismo” o purismo maniaco, da antiquariato, ma possibilità di innovazione secondo la necessità dei vocaboli, esigiti dalle novità di prodotti e di costumi umani. Un limite nelle teorie pariniane è l’assenza di attenzione al fatto musicale della lingua: le innovazioni esigono infatti una “armonia” anche sonora con il dizionario già esistente, con la tradizione espressiva già incarnata nella lingua d’uso.

[86] Carlo Innocenzo: in Arcadia, Comante Eginetico.

[87] “Voce” sta per “versificazione”, naturalmente. E si è già detto che il Frugoni era ben cosciente dei suoi limiti, tanto che  nè si preoccupò di pubblicare i propri versi nè protestò, quando (1757) il Bettinelli, con criteri morali lassisti, si permise di pubblicarli con i propri e quelli dell’Algarotti sottoil titolo vanitoso  “Versi di tre eccellenti moderni autori”. Si noti, inoltre, come ritornerebbe  qui azzeccata l’osservazione del Tassoni a proposito dei versi del Marino: sapessi io fare i versi come lui, che al resto provvederei io. Il Marino ha una versificazione facilissima, scorrevolissima... e insignificante: manca di idee condivise, di sentimenti reali. Ancora un esempio di storia letteraria: il vuoto di pensiero, in una connaturalità prodigiosa del verso, materiò la risposta, di approvazione e di messa in guardia, del Manzoni al giovanissimo Giovanni Prati, che gli aveva inviati versi da esaminare.

[88] Il settenario cede all’ottonario nelle canzonette scherzose  per ventole, anche se rimane   in quella per parafuoco “Belle, son qui per voi”; e nelle odi-canzonette La impostura (“Venerabile impostura”) e Le nozze (“E’ pur dolce in su i begli anni”).

[89] Il secolo XVIII fu l’unico cui il Croce non  potè dedicare uno studio sistematico: raccolse studi su aspetti o letterati singoli in un volume non molto organico. Ma volle ivi pronunciare delle sentenze generali di estetica   che escludevano dalla vera poesia e relegavano nella “oratoria” (retorica?) tutte le opere satiriche: il giudizio negativo includeva esplicitamente anche il Parini!