CAPITOLO IX: IL MILLESETTECENTO
INTRODUZIONE.
Col nuovo secolo ci si ritrova in una cultura letteraria rinnovata, preparata dal tramonto del dominio spagnolo in Europa e dal sopravvento di quello francese. Se F.F. Frugoni si rivela uno scrittore estremamente secentista, egli è però un sorpassato o, se si vuole, rappresenta l’ultimo grande soprassalto di una cultura al tramonto: il “Cane di Diogene” è edito nel 1687-9, alla vigilia della fondazione dell’Arcadia, nel 1690. Questa accademia rivela quali correnti, pur ritenute ancora minoritarie, fossero in realtà andate permeando la società dopo la pace di Vestfalia (1648) e trovassero finalmente la coscienza della forza insita nella ragione purificata da miti secolari; e la certezza del consenso da parte del contesto socio-culturale.
Se si trattasse, però, solo di
una differenza di “cultura artistico-letteraria”, si potrebbe a colpo sicuro
(lo si è fatto per la Introduzione al Milleseicento) presentare gli avvenimenti
socio-politico-militari per
spiegare le caratteristiche (nuove o
meno) della tonalità estetica (scelta di campo tra i vari registri lirici) e
della tecnica stilistica (forme espressive collegate, spesso, alla moda vigente
nei rapporti pratico-sociali, legate al gusto del popolo dominante nel vestire
e gestire, nel modo di salutare e nel
grado di confidenza|sostenutezza del dialogare). Difatti, per simili aspetti
della cultura, che non intaccano la coscienza etico-religiosa, l’accettazione e
l’assimililazione è fenomeno facile (non diremo automatico): salvo eccezioni,
il popolo sottomesso subisce il fascino della cultura propria del popolo vincitore
e se ne lascia plagiare. [1]
Ma quando entrano in crisi anche la concezione filosofica, la fede
religiosa, la prospettiva antropolgica ed il costume morale, allora la complessa psicologia umana sviluppa forze di inerzia o di reazione, che
complicano i rapporti fra le culture
venute a contatto. E’ il caso che ci sta davanti: col
Millesettecento non si assiste soltanto ad una ripresa del classicismo in
letteratura e ad un progresso notevole delle scienze e della tecnica (che
sfocerà nel volo coll’aeròstato dei fratelli Montgolfier: 1783), ma anche al
diffondersi di empirismo e razionalismo
che, dalla Inghilterra e dalla Francia, penetrano in tutta Europa e
confliggono con la fede cristiana, la filosofia scolastica, il codice
tradizionale di moralità, la secolare
acquiescenza alle forme assolutistiche
di governo, i residui feudali della proprietà economica... Deismo ed ateismo,
libertinaggio sessuale e società segrete ne saranno il coerente passo
ulteriore, che precorre le rivoluzioni americana e francese nell’ultimo quarto del secolo.
Il rapporto che se ne sviluppa è complesso. Da una parte
stanno verità religiose e morali, ribadite nel credente dalle smagliature
sottili o dai difetti clamorosi di molti dei princìpi teoretici sbandierati
dalla cultura razionalistica
(imperfezioni che oggi tutti denunciano, ma che ai credenti furono subito evidenti
od almeno sospettabili); e dall’assurdo delle loro applicazioni pratiche, che
videro il movimento illuministico precipitare dall’ottimismo più sicuro ed
esultante alla catastrofe di sangue e di miseria della rivoluzione francese. Dall’altra parte, però, stanno
progressi tecnico-scientifici indubbi, cui la nuova cultura,
razionalilluministica, si appella
per giustificare un disprezzo
generalizzato per le credenze ed i costumi medioevali, che coinvolge anche le dottrine ed i
comandamenti della fede cristiana, dando alla scienza un viraggio antireligioso
ed anticristiano. E stanno anche
princìpi di convivenza sociale (tolleranza, antitirannia se non proprio
democrazia, esigenza di senso critico negli studi specie storiografici...) che, pur non del tutto precisati (e tanto meno
adeguatamente giustificati) a livello
filosofico, contengono però tanto di verità che han finito però per imporsi e
definire il quadro dei rapporti sociali del mondo occidentale, su cui è basata
la nostra convivenza anche in questo inizio del terzo millennio dopo Cristo. Un miscuglio di pro e contro, dunque, che
spiegano le tensioni tra cristianità (cattolica, in Italia) e nuove idee, in
parte rispettabilissime, in parte da
accogliersi con beneficio di inventario, in parte da rifiutarsi radicalmente. Tale groviglio di conquiste indiscutibili e di corollari
discutibilissimi fan comprendere i “colpi di coda” in una medesima persona, che
aderisce al nuovo mondo ideologico e poi, pentito, se ne ritira,
riconvertendosi alla fede tradizionale: o di fronte all’estremismo dell’azione
amministrativa nei francesi rivoluzionari (a Milano: G. Parini); o costatando
la rovina della rivoluzione tutta, dopo tanto strepito e sicumera (Vincenzo
Monti); o per un cammino di riflessione
e di motivazioni familiari (A. Manzoni). Complessità di prese di posizione che
permettono di capire anche le adesioni
sofferte ma perseveranti di altri intellettuali, come Pietro Verri e,
soprattutto, Ugo Foscolo.
A rigor di logica, trovandoci di fronte a simili tentennamenti e travagli, conversioni e palinodie, occorrerebbe presentare non solo le novità di pensiero e di precetti pratici, ma anche i princìpi mentali ed etici con cui venivano in contrasto e collisione, cioè il pensiero cristiano tutto. Non lo faremo, perchè la sua dottrina e le sue esigenze esitenziali sono sostanzialmente quelle esposte nella introduzione all’età del Milleduecento della letteratura italiana: il cristianesimo non è mutato non solo nelle componenti essenziali (dottrine di religione naturale, di fede cristiana e di sistemazione cattolica), ma neppure (ahimè!) in alcuni dei suoi corollari erronei, come la iniquità della persecuzione inquisitoriale e la condanna del prestito ad interesse, definito “usura” tout court. Anche qui, non si può negare la ambivalenza del razionalismo illuminista: da una parte tendeva a negare il cristianesimo; dall’altra ne dissolveva le applicazioni disorientate, approfondendone la comprensione teoretica purificandone la attuazione prassica. Vogliamo riconoscere come ovvio, che lungo il Millesettecento, è proprio sotto la pressione degli “illuminati” maestri del razionalismo (pur aberranti in troppi e troppo fondamentali princìpi) che viene ridotta, fino alla quasi scomparsa, la dimensione violenta nell’attività del Santo Uffizio; che va chiarendosi la differenza di concetto fra prestito ad interesse ed usura e viene implicitamente riconosciuto l’errore del processo a Galileo, con la eliminazione della condanna emessa contro l’eliocentrismo, ad opera di papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini).
Sarà invece necessario
soffermarci sulle premesse sia
politico-militari, sia socio-economiche che favoriscono la nascita e la
diffusione delle novità ideologiche,
per scoprire quanta parte di questa mentalità si lasci dedurre dalla
semplice ragione e quanta, invece, da sofismi generati in gran parte dalle passioni, sulle quali han grande
influsso il fascino delle vittorie militari, il timore della potenza
politica, la speranza del benessere economico e la vanità
dell’apparire aggiornato alle ultime opinioni e costumi, del mostrarsi cioè
aderente a quel complesso di modi di pensare ed agire che si chiama, con una
parola tanto generica quanto seducente, “progresso”. [2] Come è stato detto
giustamente “La verità tende a fuggire
nel campo dei vincitori”.
LA SITUAZIONE POLITICO-MILITARE
Il secolo XVIII si lascia dividere, per la vita italiana in campo politico-militare, in due parti ben distinte: fino alla pace di Aquisgrana (1748), si ha una prima metà segnata da guerre e da due passaggi di mano nella dominazione straniera; nella seconda metà, prevale la pace e la stabilità.
Col 1713-5 (paci di Utrecht e
Rastadt) il dominio spagnolo cessa in tutta Italia, a seguito della guerra di
successione per la morte senza eredi dell’ultimo discendente degli Asburgo, Carlo II: mentre la Spagna
cade sotto i Borboni di Francia, Lombardia ed Italia meridionale passano
all’Austria, con la Sardegna
(questa toccherà al Piemonte nel 1720,
in cambio della Sicilia). Con la guerra di successione polacca (1733-8) e la pace
di Vienna, i Borboni si insediano a Napoli ed in Sicilia, mentre l’Austria
mantiene la Lombardia ed acquista la Toscana, dove si è estinta la dinastia
medicea. La pace di Aquisgrana alla fine della guerra per la successione di una
donna, Maria Teresa, al padre Carlo VI
sul trono di Vienna, nel 1748, fa passare anche Parma e Piacenza sotto i
Borboni. E’ la situazione che durerà fino alla discesa in Italia di Napoleone
nel 1796 e al trattato di Campoformio dell’anno successivo. [3]
Vi sarà dunque quasi un cinquantennio di pace, in cui si accentua
l’influsso francese già intervenuto dopo la pace di Vestfalia (1648). Ma, a sua
volta, la Francia cade sotto l’ influsso dell’Inghilterra, che sta
imponendosi come arbitro della politica di “equilibrio” sul continente (potenza
diplomatica), politica che le serve per monopolizzare le nuove conquiste sui
mari, fino a soppiantare la
Francia in India ed a ridurla al poco territorio della Luisiana in America
(1763: potenza marittima), accumulando così una ricchezza eccezionale che le
permette di iniziare l’epoca industriale a metà del secolo. Non va però sottovalutata la pur declinante potenza marittima
olandese. D’accordo: essa è ridotta ad essere una scialuppa della grande
flotta inglese, ma solo poco a poco cederà (e non tutte) le sue colonie alla
avversaria (Nuova Amsterdam è divenuta inglese, col nome di New York, fin dal
1664; cadrà in mano inglese Città del
Capo nell’Africa australe (1795), mentre Ceylon sarà acquisita l’anno dopo,
rimanendo all’Olanda la sola Indonesia,
con l’isola di Curaçao ed il Surinam (Guyana olandese) nell’America
centro-meridionale. Pure, culturalmente essa conta ancora, tanto che la
ideologia illuministica trova i centri di formazione-diffusione nel
triangolo Londra-Parigi-Amsterdam. L’Olanda si è fatto un nome nel corso
del Milleseicento con due grandi pensatori: Ugo Grozio (1583-1645),
teorizzatore del diritto naturale; Baruch Spinoza (1632-1677), filosofo
del panteismo e di una moralità tutta in positivio, intesa cioè come partecipazione
entusiastica all vita divina che si svolge nella natura (cfr. “Degli eroici
furori” di Giordano Bruno). L’Inghilterra
trova in Lord Edward Herbert of Cherbury (1583-1648) il teorizzatore primo del
deismo. Venuta meno l’unità della fede cattolica in Europa, collo strappo
protestantico, il bisogno di una religione unica, da tutti accettabile ed
accettata diviene un problema assillante per ricostruire una intesa fra tutti i
popoli su una esigenza fondamentale dell’anima umana. Egli pensa di
riuscirvi attraverso la emarginazione della Rivelazione ebreo-cristiana
(Bibbia: Antico e Nuovo Testamento), per fermarsi alla verità scoperta dalla
sola ragione (De veritate: 1624), colla quale si approda alla religione
elementare o naturale, che egli chiama “laica” (De religione laici: 1645).
Anche John Locke (1632-1704), che difende di fatto la forma religiosa
cristiana (Reasonableness of Christianity: 1695), finiva per esaminarla con mentalità globalmente razionalistica e sottoporla così ad
interpretazioni riduttive, che l’avvicinavano alla religione naturale o
puramente razionale: anche lui è tra i fondatore del deismo. Egli contribuisce
alla nascita della cultura illuministica con
il suo Empirismo, che riduce le idee a pure complicazioni delle
sensazioni, sicchè le sostanze, che pure esistono, non risultano conoscibili
all’uomo. La Francia aveva preparato il terreno con le riflessioni scettiche
sull’uomo e sull’universo, contenute nei Saggi di Michel Montaigne
(1533-92), che prescindono anch’essi dal riferimento alla Rivelazione
cristiana e tendono al laicismo e ad
una relgione semplificata, puramente naturale. Ma le idee propriamente
illuministiche sbarcheranno in Francia dall’Inghilterra.
Ma è tempo che ci soffermiamo sullo stato di quella potenza
disarmata, ma, dopo l’editto di Milano del 313 (Costantino), ben presente ed
efficace nella politica europea: la Chiesa
cattolica. Dobbiamo costatarne il
declino e la persecuzione. Il filtrare negli intellettuali, nei ceti nobiliari
e borghesi, nella classe politica stessa, della nuova mentalità, toglie sempre
più peso alla autorità della Chiesa nel campo civile. Anzi, a partire dalla
metà del secolo almeno, la Chiesa passa da persecutrice attraverso la
Inquisizione, a perseguitata da parte dei governi. Ecco dei segni
macroscopici: la soppressione del “Sacro esperimento” delle Reducciones nel
Paraguay (1750-60)[4], ad opera di
Portogallo e Spagna; l’espulsione dei Gesuiti, prima dal Portogallo ad opera
del ministro Sebastiano Pombal (1759) e, poi, dalla Francia (1764), Napoli e
Parma (1767); la soppressione della “Compagnia di Gesù” da parte di papa
Clemente XIV, per una pressione così minacciosa di Francia e Napoli sulla
Chiesa, da far apparire tale provvedimento, autolesionista, come il minor male (1773: i gesuiti rimangono solo nella Slesia prussiana e nella Polonia
soggetta alla Russia); e il viaggio di Pio VI (1782) a Vienna per supplicare
Giuseppe II a cessare dalle decisioni arbitrarie contro i diritti della
cristianità. Ma sono, queste, solo le
punte degli icerberg, che denunciano lo stato di debolezza e scompiglio nella gerarchia ecclesiastica per la
confusione insorta dall’incontro-scontro tra la fede cristiana e la nuova
cultura, ormai impostasi nei gangli decisionali dell’Europa anche cattolica.
Esiste ancora la Inquisizione, ma
le condanne a morte cadono in
desuetudine, finchè verrà soppressa anche a Milano (1767); la stessa censura
sui libri diventa sempre meno efficiente. Si stampa all’estero (abbiamo visto
anche Galileo per la sua ultima opera, sulle “Nuove scienze”) o si pone una
falsa città di stampa per far poi circolare clandestinamente il libro. A questo
modo, la diffusione di libri senza
autorizazione è sempre più alta.
Viceversa, l’interferenza dei
poteri politici nella vita della Chiesa diventa spropositata: molto prima
della Rivoluzione francese, la Chiesa è sotto persecuzione: dapprima,
strisicante; poi violenta; infine, sanguinosa. La Massoneria, che si fa
iniziare dalla fondazione della prima loggia, il 24 giugno 1717 a Londra, col
gran maestro Anthony Sayer, si infiltra nelle élites nobili e borghesi,
ottenendo adesioni anche fra sovrani e prelati. Le condanne di papa Clemente
XII (1738) e di Benedetto XIV (1751) si basano su due motivi: il rifiuto della
Rivelazione, che riduce la fede al deismo della religione naturale,
coll’emarginazione del suo momento storico (il Cristianesimo: colpa originale e
Redenzione di Cristo) e della sua dimensione sociale (la Chiesa: sacramenti,
gerarchia e magistero); e l’obbligo del segreto fra i membri, che ne
fanno una specie di mafia delle classi elevate, in perpetua congiura di scalata
ai poteri politici, economici e sociali. Tali condanne aumentarono certo
l’ostilità della Massoneria contro la Chiesa cattolica, ma non le crearono, chè
le divergenze di fede religiosa erano originarie e radicali, così come era intollerabile l’omertà del segreto. Quando si pensa che i protagonisti
delll’Illuminismo (da Montesquieu a Voltaire, da Rousseau a Diderot, da
Talleyrand a Mirabeau, da Washington a Franklin in America) erano congregati
massonici, si può immaginare le ricadute negative su ogni forma di
cristianesimo, sul cattolicesimo in
particolare, che aveva osato pronunciarsi contro di loro. Non ci meraviglierà allora che la Chiesa
abbia perso molte battaglie nel Millesettecento, trovandosi impedita la via
all’esercizio dei più elementari dei suoi diritti. Ecco dei casi clamorosi. La Francia
si oppose con successo alla beatificazione di Roberto Bellarmino, mentre
altre cause politiche rimandarono quella di Lorenzo da Brindisi.
Ancora: l’abate Antonio
Genovesi, benemerito della scienza economica e scrittore di morale e di
filosofia,[5]
fu citato a Roma per la sua opera “Elementi di metafisica” (Disciplinarum metaphysicarum elementa:
1743 e 1766), incriminata giustamente perchè inficiata di giansenismo e
calunniata, invece, come panteistica. L’autore avrebbe dovuto risponderne a
Roma, ma il “prefetto degli studi” Celestino Galiani (zio dello scrittore
Ferdinando, che incontreremo) gli risparmiò il processo presso la Inquisizione.[6]
Ma il caso più significativo del
declino del potere della Chiesa presso i poteri politici anche in Italia è costituito dalle vicende paradossali di Pietro
Giannone. Nato ad Ischitella (Foggia), nel 1676, era divenuto avvocato,
praticando la professione a Napoli, dove, per sostenere le dottrine
giurisdizionaliste diffuse nelle élites colte, pubblicò nel 1723 la Istoria civile del regno di Napoli. La
Chiesa è praticamente ridotta a società privata, che è libera nella sfera del
rapporto colle singole persone che volontariamente si rivolgono a lei per
bisogno, ma dipende dallo Stato per quanto riguarda gli atti pubblici, come la
proclamazione dal pulpito di documenti
del papa, scelta dei libri di studio per i seminari, elezione dei vescovi...[7].
Si noti che i diritti della Chiesa nel Napoletano erano le conseguenze della
concessione di quei territori, come feudo della Chiesa, dapprima ai Normanni
(1058: il patto colla Chiesa facilitò enormemente agli Altavilla la
unificazione dell’Italia meridionale, contro i residui possessi bizantini e
musulmani); e, poi, agli Angioini (Clemente IV a Carlo I d’Angiò nel 1265).
Nella Istoria, invece, il Giannone
cerca di dimostrare che ogni potere politico della Chiesa nel Napoletano o era
un sopruso di quella o una balorda e nociva concessione a lei dello stato. I
documenti sono usati maliziosamente, piegati a testimoniare come ogni male del
Regno dipendesse dalla ingerenza della Chiesa; ed ogni bene, dal regresso di
quella e dal progresso della organizzazione statale. Scomunicato
dall'arcivescovo, dovette rifugiarsi a Vienna: siamo al principio del secolo e,
nel Napoletano, l’Inquisizione funziona ancora. Ma l’imperatore Carlo VI gli
concesse una pensione, perchè egli aveva difeso il diritto dell’Austria, padrona allora dell’Italia meridionale,
contro le inframettenze ed i privilegi della Chiesa! Nel 1734, però, la pensione imperiale viene a scadere, per la
perdita del Napoletano, che passa ai Borboni nella guerra di successione
polacca. Giannone spera in un rimpatrio, che Carlo III Borbone però gli
rifiuta, proprio mentre al potere arriva quel Bernardo Tanucci
(1739-1777:aretino, di Schia) che sarà l’esecutore pratico delle idee
giannoniane, sino al rifiuto (1776) di
mandare al papa la “chinea” (un cavallo particolarmente addestrato all’ambio)
come riconoscimento dell’alta sua sovranità feudale sul Regno! Siamo già in un vortice di contraddizioni,
che segna in realtà una fase di passaggio nella abolizione della Inquisizione nel Regno: al Giannone
viene rifiutato il ritorno probabilmente perchè questo risparmia al
governo borbonico il dovere di consegnare il reo al giudizio del vescovo! La
vicenda prosegue, ora, sino all’assurdo. Il Giannone si rifugia a Ginevra, da
dove però viene espulso perchè si rifiuta di farsi calvinista. Il re di
Sardegna lo fa attirare con un inganno nelle sue terre: egli vi giunge
nell’intento di accostarsi, per la Pasqua, alla Confessione e Comunione. E
viene invece arrestato. E, in carcere, abiura agli errori per cui l’arcivescovo
di Napoli l’aveva scomunicato fino a
costringerlo all’esilio fuori dal Regno. Ma il grottesco continua: il re di
Sardegna lo terrà in prigione,
rifiutando di consegnarlo all’inquisizione romana, che lo pretende per un
giudizio più autorevole. Morirà in carcere a Torino, ma dopo aver scritto Il Triregno (edito solo nel 1895), dove
sostiene un giurisdizionalismo quale appunto Giuseppe II praticherà nei domini
austriaci, sino alla pretesa di interferire negli stessi casi di peccati
riservati (profanazione della Eucarestia| aggressione a vescovi...), per
l’assoluzione, al papa.
Tali compromessi e contraddizioni
rivelano la condizione di crisi nei rapporti fra Stato e Chiesa, a sfavore di
questa. La cosa veniva accentuata dalla disunione all’interno degli stessi
cardinali e vescovi rispetto al papa: venendo da famiglie nobili, anche qualcuno di loro era iscritto alla
massoneria o aveva una mentalità
giurisdizinalista. Così la condanna del Voltaire in Francia è ritardata dalla
protezione del card. Quèrin, come quella
dell’abate Luigi Sebastiano Le
Nain (detto il Tillemont: 1637-98), prete giansenista legato a Port Royal, era
stata impedita dalle brighe del card. Passionei nel secolo XVII[8].
Per altri particolari che lasciano intuire la situazione di ricaduta nella confusione o disorientamento della Chiesa,
basti citare il fatto che Pio VI fu prelato senza essere sacerdote fino a
quarantun anni (e da tre anni era già canonico maggiore di San Pietro!);
divenne cardinale nell’ordine dei preti e fu consacrato vescovo, dopo eletto
papa nel 1775. E durante la effimera repubblica partenopea del 1799, 19 dei 130
vescovi si dichiararono in favore dei
francesi: fra essi, il cardinale di Napoli Capece Zurlo. Da un punto di
vista ecclesiastico si dovrebbe dire che non tutti i mali vengono per nuocere:
la rivoluzione francese costrinse la Chiesa a completare la riforma tridentina!
Intanto, però, il
giurisdizionalismo lavorava ben oltre che nel Napoletano. A Parma, col ministro
francese Guglielmo Leone du Tillot (1711-74), arrivato nel ducato al seguito di
Filippo di Borbone nel 1749 e resosi benemerito degli studi universitari e della industria, partecipò alla soppressione
della Compagnia di Gesù e fece abolire la Inquisizione nel ducato. Il
precettore dell’erede Ferdinando, l’abate Stefano Condillac (1715-80), era
sensista e accusato, di conseguenza, di materialismo (anche se egli ritiene di
poter dimostrare l’esistenza di Dio,
immortalità dell’anima e libertà dell’uomo): rimase nove anni a Parma. Dovette
lasciare l’incarico quando Ferdinando I (il suo discepolo) sposò Maria Amalia
Asburgo (1771: lo stesso era succeduto a Bernardo Tanucci, nel 1777, per volere
di Maria Carolina, sposa di Ferdinando IV ed
anch’essa figlia di M. Teresa, imperatrice d’Austria)
A Firenze, Leopoldo I
(1765-90) fu un giurisdizionalista rigido, come il fratello Giuseppe II:
soppresse ordini religiosi (i Vallombrosiani, molto numerosi ma limitati alla
Toscana, ne uscirono distrutti) e cavallereschi, opere pie ed ospedali: ben
2.500 confraternite vennero eliminate
ed i beni, venduti: ne distribuirà le terre a coltivatori, favorendo la piccola
–media proprietà, diversamente che nel Napoletano, dove i beni dei gesuiti
caddero in mano ai baroni, allargando il latifondo. Impose l’exequatur
(necessità del permesso del governo) per tutte le pubblicazioni di ordinanze
ecclesiastiche; censurò la nomina dei vescovi (regio placet); stabilì “seminari
di stato” per controllare la formazione del clero; sottrasse i religiosi dalla
diretta dipendenza dal papa, mettendoli alla mercè dei vescovi
(controllabili dallo stato); abolì le
“decime”, revisionò i benefici parrocchiali,
abolì tribunali e privilegi ecclesiastici. Per la Inquisizione, si giunse ad un
accordo saggio: vi sarebbero stati sottoposti solo i cittadini cattolici. Per
la teorizzazione del giurisdizionalismo trovò l’uomo adatto: il vescovo di
Pistoia Scipione de’Ricci. Questi, radunato un concilio giansenistico nel 1786,
vi sostenne il princìpi dell’Hontheim-Febronio, per il
quale i re sono i difensori della
libertà dei vescovi contro la S. Sede, il cui potere universale non farebbe
parte del cristianesimo, ma sarebbe iniziato solo con le false decretali
isidoriane del secolo IX. La fedeltà del clero e dei fedeli resero silente la
legislazione che egli introdusse: passato imperatore a Vienna nel 1790, alla
morte del fratello Giuseppe II, fu travolto dalle preoccupazioni della
rivoluzione francese e l’impresa cadde da sè (d’altronde, egli morì nel 1792).
Il riaccostamento alla S. Sede vide almeno aboliti i “seminari di stato”.
A Milano le riforme camminarono meno clamorosamente: Maria
Teresa si servì del governatore Carlo Giuseppe Firmian, che resse il milanese
dal 1759 al 1782: abolì i privilegi, introducendo anche lui il catasto e la
tassazione periodica sulla mano morta ecclesiastica; soppresse la Inquisizione
(1768) senza provocare gravi tensioni. Con Giuseppe II, l’imperatore
sagrestano, si giunse anche qui come in Toscana ed a Vienna, a sopprimere
ordini relgiosi[9]
(si mantenevano, in genere, solo quelli dediti ad opere filantropiche): i beni
dei loro conventi, vennero incamerati; molte feste religiose vennero abolite; i casi riservati dal diritto
canonico alla S. Sede vennero cancellati.
La censura preventiva sui libri e il diritto di asilo fecero la fine della
Inquisizione. Il giovane abate Giuseppe Parini si poteva permettere di
pubblicare senza licenza del vescovo (imprimatur) “Alcune poesie di Ripano
Eupilino”, con pseudonimo trasparente, senza luogo di stampa e con nome
immaginario dell’editore (Giacomo Tompson). Per avere un clero ossequioso a
tali disposizioni, si istituì un seminario generale a Pavia, con la
soppressione dei seminari diocesani; e vi si posero insegnanti giansenisteggianti,
che più o meno (lo si è visto a Pistoia) aderivano al giurisdizionalismo: fra
essi, il più in vista fu Pietro Tamburini, coadiuvato da Giuseppe Zola e da
Vincenzo Palmieri[10].
Anche in Lombardia la rivoluzione dette un colpo di spugna all’atteggiamento
complessivo di ostilità alla Chiesa ed a questa fu affidata la censura sui
libri da stampare: ma fu l’unico segno dell’antica collaborazione fra Chiesa e
Stato.
Anche in Piemonte, stato
solitamente ligio alla Chiesa, si introdussero le novità: l’accordo vacilla
ormai sino ai limiti estremi. Vittorio Amedeo II (1675-1730) volle prendersi il
potere della scelta dei vescovi: la tensione con Roma finì per lasciare molte
sedi vacanti. Ancora: se era giusto che
i Valdesi tornassero ad essere cittadini a pieno diritto, comincia a destar
qualche perplessità che il conte Alberto Radicati di Passerano rimanesse
consigliere del re, pur essendo passato al protestantesimo. Altri fatti (o
misfatti) fan capire la cosa: la università di Torino viene giansenistizzata e,
anzi, la corte istituisce una congregazione di 12 sacerdoti addetti alla
basilica “sabauda” di Superga. Laureati in teologia e diritto, essi divengono i
consiglieri-difensori del diritto regio di fronte alla curia romana. Il colmo
si raggiunse con la soppressione della nunziatura papale a Torino. Il
successore, Carlo Emanuele III (1730-1773) prese le cose con più cautela e
deferenza e preferì trattare: non si giungerà più, almeno, a proibire la
lettura della bolla “Unigentus” contro i Giansenisti, come aveva fatto il
senato nel 1713...
A Venezia non si era nuovi
a tensioni con la S. Sede, ma all’inizio del secolo XVII (al tempo di Sarpi),
si era trattato di questioni riguardanti privilegi ecclesiastici (esenzione del
clero rispetto ai tribunali civili) o di diritti di carattere economico
(imposizioni di permessi per acquisto di terreni da parte di enti ecclesiastici
e costruzione di chiese in città): sciocchezze rispetto ai problemi che ora
inquietano il mondo cattolico. Anche Venezia subordina la pubblicazione degli
atti pontifici alla licenza del governo (1754) e sopprime ordini religiosi di
minor conto (1768). Pure, in Venezia rimangono sulla carta leggi spudoratamente
favorevoli al controllo ecclesiastico sulla vita non solo relgiosa e morale, ma
anche confessionale: al “Tribunale
della bestemmia” non era solo affidata la punizione del sacrilegio da cui
prendeva nome, ma altresì dei peccati di omissione come il perder la Messa alla
domenica ed il mangiar di grasso il venerdì. Si trattava, però, di residui, del
tutto inattivi, del passato: una carnevalata, che serviva talora a perpetrare
ingiustizie clamorose. Benchè Lorenzo da Ponte sia un avventuriero poco
affidabile, tuttavia le sue proteste nella autobiografia (Memorie) sono convalidate dal ben più attendibile Carlo Gozzi (Memorie inutili). Il Da Ponte afferma,
dunque, di essere stato espulso da Venezia per aver mangiato di grasso il
venerdì ed aver perso la Messa la domenica. Per far accettare ai lettori la
illegittimità del provvedimento a suo carico, egli sostiene che il delatore era
ben peggiore di lui, senza che per questo fosse minimamente infastidito; che il
motivo vero della sua disavventura era politico, perchè egli avrebbe sostenuto
Giorgio Pisani, un capo di nobili decaduti, sospetto ai potenti; e che il
tribunale, per dar sostanza alla condanna, gli attribuì il reato di “rapto di
donna honesta, adulterio e pubblico concubinaggio” con la moglie del padron di
casa. [11]
Pier Antonio Gratarol, massone pubblicamente professo, aveva come amante
l’attrice Teodora Ricci (in concorrenza con Carlo Gozzi), sposa di Francesco
Bartoli. Dovette fuggire... a Stoccolma, ma non per condanne etico-religiose,
ma per la vergogna derivata dalla caricatura che delle sue vicende amorose era
stata fatta in scena pubblica dall’attore Vitalba, nella recita Le droghe d’amore (il testo, manco a
dirlo, era di C. Gozzi). Dietro questo tiro c’era la rivalità di un terzo
incomodo: il Sacchi, finanziatore della
compagnia teatrale in cui lavorava la Ricci, aspirava a soppiantare il
Gratarol. La commedia “vera” piegò verso il grottesco, quando la Serenissima
condannò il nobile Gratarol alla pena capitale, per aver lasciato il suo
territorio senza permesso! Sempre il Gozzi ci informa di aver saputo da un
“piovano” (parroco) che il meretricio organizzato aveva un potere insuperabile:
non era possibile intentare un processo presso il Tribunale della bestemmia,
che, istituito nel secoloXVI, era competente non solo in cause di religione, ma
anche di case da gioco, ebrei, forestieri in genere e meretricio, appunto. La facilità di procurarsi falsi testimoni e
la difettosa organizzazione del tribunale permettevano di uscirne sempre
indenni (Memorie inutili, III, 5).
Confermiamo come conclusione: la
Chiesa, che non era mai stata una vera potenza politico-militare, dovendo
contare sul consenso o sull’appoggio degli stati per mantenere quel territorio che le garantiva la indipendenza
nell’esercizio del suo compito, ora comincia a sentire che tale dominio
territoriale non adempie più alla sua
funzione principale: si prepara, con la precaria occupazione napoleonica, ad
esserne spogliata definitivamente ed a cercare nuove vie per mantenere la
coesione e procurare la edificazione del gregge a lei affidato.
LA SITUAZIONE ECONOMICO-SOCIALE
Un sicuro segno di progresso anche economico (vi è la componente igienica e medico-profilattica da tener presente) sta nel’incremento demografico, che vede la popolazione italiana passare dagli 11 ai 18 milioni di abitanti nel corso del secolo.
L’agricoltura pratica sempre più il ciclo pluriennale di
coltivazioni alternate e diversificate.
Altri segni abbastanza generalizzati di crescita economica si
ritrovano in molte parti della penisola: la diffusione della moda della villeggiatura,
la erezione di edifici anche profani di
impegno artistico, in numero tale da
far concorrenza ormai a quello delle chiese; l’amplificazione delle
iniziative di carità cristiana per i bisognosi di ogni tipo.
Documento del primo fenomeno sono
il sermone satirico di Gaspare Gozzi (Del villeggiare) e le cinque commedie del
Goldoni (La villeggiatura| I malcontenti| Le smanie per la villeggiatura| Le
avventure della villeggiatura| Il ritorno dalla villeggiatura).
Le regge di Capodimonte e di Caserta, in Campania, sono solo il caso più clamoroso del fervore di opere civili in campo edilizio, che punteggiano la campagna veneta come le città lombarde o piemontesi. Si ha la erezione del teatro La Scala a Milano; a Torino, vi è il complesso delle opere di Benedetto Alfieri, che vanno dal teatro regio alla chiesa di Carignano ed a molte parti di edifici ampliati o rimodernati (la volta della cavallerizza del re, il salone di Stupinigi, di cui dà notizie il procugino Vittorio Alfieri nella seconda parte della Vita, al capitolo terzo): palazzi e ville fatte restaurare gareggiano con la chiesa di Superga e con altri edifici di culto, che erano stati, invece, ancora nel Milleseicento, prevalenti in quantità e bellezza nelle costruzioni architettoniche. Anche la pittura profana gareggia con quella sacra e si prepara a superarla alla fine del secolo., anche in Italia.
Dando per scontato che in
elemosina si dà il superfluo, allora la massa dei capitali investiti in opere
di carità possono essere presi per misura dell’aumentato benessere: è ciò a
cui si assiste (ancora quasi unicamente da parte della Chiesa) nel secolo. I
Mercedari operano ancora a redimere schiavi cristiani, acquistandoli dalle
mani musulmane con soldi raccolti in Europa, con centri a Napoli, Venezia e
Piacenza (Parini ha due sonetti, per cittadini milanesi così liberati). A
Milano, i padri Somaschi gestiscono il collegio-orfanatrofio detto dei
“Martinitt”, perchè annesso alla chiesetta di S. Martino. Per i vecchi
abbandonati, la marchesa Gaetana Agnesi fonda il “luogo pio Trivulzio”. A
Roma, molteplici sono le iniziative caritatevoli. Il muratore Giovanni
Borghi (detto “Tata Giovanni”) fonda un ospizio per bambini abbandonati, con
scuole di carità. I Fratelli delle Scole cristiane vi avevano scuole gratuite
per ragazzi poveri. La “pia unione S. Paolo” provvede alla istruzione dei
ragazzi poveri. Dei ragazzi ammalati di lebbra, tigna ecc. si occupò don Emilio
Lami (San Gallicano, Transtevere). Il venerabile Angelo Paoli fonda un ospizio
per convalescenti poveri.
A Genova, don Lorenzo
Garaventa fonda scuole di carità, come a Roma il Borghi: lo stesso fa a Modena
L. Antonio Muratori, istituendo la Compagnia della Carità. Ancora a Genova, lo
scolopio G. B. Assarotti fonda un istituto per sordomuti. In Piemonte,
inizative per mendicanti sorgono per opera dell’abate di Garessio e di fratel
Fontana (dell’Oratorio di S. Filippo Neri). Ed ormai non è più solo la Chiesa a
dedicarsi a simili iniziative benefiche: in Piemonte, Carlo Emanuele III
predispone a Casale Monferrato una opera garndiosa nello stesso senso (1745). A
Napoli Carlo III di Borbone sostiene il domenicano Gregorio Rocco con opere
per i poveri (questi ottiene anche di far trasportare fuori città il cimitero).
Il redentorista Maria Gennaro Sarnelli, infaticabile per i poveri e derelitti,
fa raccogliere le meretrici in un quartiere a parte nella città partenopea. In
Calabria, una “cassa sacra” cercava di ridistribuire la proprietà
fondiaria, sussidiandone l’acquisto. A Benevento, il futuro Benedetto
XIII (Vincenzo Orsini) istituiva i “Monti frumentari” per aiutare le famiglie
contadine. A Verona, don Pietro Leonardi promuove un movimento, detto
della Fratellanza, per assistere infermi, istituire scuole, predicare al popolo
missioni straordinarie di istruzione-formazione cristiana.
Al di là di questi dati generali,
occorre distinguere tra Italia settentrionale con Toscana, da una parte e
l’Italiameridionale-insulare, dall’altra. Il riso viene coltivato solo nel
Norditalia, ad esempio. Più in generale si deve dire che l’economia decolla
verso le premesse dell’industria al Nord ed in
Toscana, mentre ristagna al Centro e nel Sud, dove solo una minoranza
riesce a vivere di rendita sulle terre iniquamente distribuite, mentre la
maggioranza degli abitanti rimane asservita ad un lavoro che a stento sfama la
famiglia. Le città sono sede della nobiltà,che governa le campagne a mezzo di
mediatori spesso rapaci; e della borghesia acculturata (specie in
giurisprudenza) e legata alle professioni giuridiche, amministrative,
burocratiche. Pure, nel Napoletano, la miseria non è così tragica, se vediamo
Vico salire ad una cattedra universitaria, uscendo dalla famiglia di un modesto
libraio; ed impiantarsi la prima cattedra di economia politica (“Meccanica e
commercio”), grazie alla munificenza di un fiorentino (Bartolomeo Intieri) ed
allo splendore intellettuale del salernitano Antonio Genovesi. E’ difficile
pensare che una simile specializzazione insorga là dove l’economia sia
stagnante o la miseria domini irremissibilmente. Si può forse dire: i
miglioramenti introdotti sono appena sufficienti a far fronte all’aumento della
popolazione. Le terre dei gesuiti finirono in mano alla nobiltà od alla ricca
borghesia, che si tenne anche la esenzione da tasse, propria degli enti religiosi.
Neppure il Tanucci riuscì ad imbrigliare il baronaggio. I tentativi per imporre
tasse sulla manomorta e sulle terre di pubblico demanio non giunsero in porto,
per i ricorsi degli interessati, strapotenti a corte; e per le complicazioni di
una burocrazia lenta, se non connivente. D’altronde, forse più determinante di
questi fattori antropici, sta il problema del clima, che costringe al latifondo
ed alla cultura estensiva (allevamento di pecore, più che di bovini): l’aridità
o l’inatteso freddo eccezionale decima la produzione agricola, che così non
riesce facilmente ad essere sorgente di entrate sicure per lo stato ed
impedisce ai privati di formare quelle riserve di capitali, necessari per una
impostazione di agricoltura intensiva, quella che di fatto ha predisposto il
Norditalia per la industrializzazione
nel secolo successivo.
Fra tutte le terre italiane,
quella che ha la riuscita peggiore è la Corsica, malversata dalla
amministrazione genovese e ribelle per disperazione, al punto da essere ceduta
alla Francia nel 1768 (un anno prima che vi nascesse Napoleone!).
La Sardegna riceve qualche
miglioramento quando passa alla amministrazione piemontese (Pace dell’Aja:
1720). Da Torino le verrà qualche strada in più e due università: Cagliari e
Sassari.
Il Piemonte presenta una
agricoltura solida ed un’ industria
sufficiente a permettergli una politica di interventismo bellico durante il
secolo: non si fa guerra senza danaro di riserva e pane per i soldati... Raggiungerà
il confine col Ticino ed il lago Maggiore
con la pace di Aquisgrana, 1748, alla fine della guerra di successione
austriaca (aveva partecipato anche a quelle di successione polacca e
spagnola!). Vi è spazio anche per l’affacciarsi della regione sulla scena della
cultura italiana, dopo il timido tentativo di F. Della Valle: Giuseppe Baretti
e Vittorio Alfieri spaziano nella letteratura del Millesettecento.
La Lombardia, però, era
ben più progredita, favorita dal cambio di governo: con la pace di Rastadt, gli
Austriaci subentrano agli Spagnoli (1714). Ma è l’allevamento del bestiame
nelle marcite della “bassa milanese” ad
assicurare quei margini di guadagno vistosi che, nonostante i capricci del
“giovin signore”, accumulano i capitali necessari a fondare la industria. Con
Maria Teresa ed il governatore C. G. di Firmian, nella seconda metà del secolo,
la regione decolla verso l’allargamento delle industrie tradizionali (tessile e
delle armi) e con l’inserimento del commercio nel quadro della grande monarchia
danubiana, che fa capo a Vienna. La nobiltà deve sottomettersi alla tassazione
regolata dal catasto, mentre il clero accetta la diminuzioni delle proprie
esenzioni e l’abbattimento della
manomorta con tassazioni periodiche. Il
mezzo secolo di pace tra Aquisgrana (1748) e la invasione napoleonica (1796)
sono da paragonare al quarantennio di
pace tra la pace di Lodi (1454) e la calata di Carlo VIII nel 1494): economia
in ascesa, al punto che ne possono approfittare anche le classi meno misere
della plebe; cultura in espansione, al punto da avere a Pavia (università)
uomini come Mascheroni nelle
matematiche e nelle lettere, Spallanzani in medicina, Alessandro Volta
nelle scienze fisiche. Si aggiungano il Parini, che insegna a Brera e Giusepe
Piermarini, che costruisce il teatro “alla Scala”oltre a vari palazzi (Greppi,
Cusani, Belgioioso); e che sistema più funzionalmente la zona di porta Venezia.
Le ricchezze, se usate
ragionevolmente, aprono la strada ad impieghi non solo diffusori, ma
addirittura moltiplicatori di benessere: c’è chi impiega il tempo libero per
occuparsi con razionalità inventiva dei propri affari, sino alla invenzione di
sistemi per una fabbricazione più
celere e meno costosa di prodotti vecchi e nuovi. Ma anche quando il benessere viene impiegato nei vizi, negli svaghi e nel
lusso (si veda il poema Il Giorno del Parini e la serie di
commedie sulla villeggiatura del Goldini), ebbene anche tale sperpero morale dà
lavoro agli artigiani, alla servitù, ai contadini e soprattutto ai
commercianti. E, in pratica
contemporaneità, il benessere apre la
porta all’ambizionedi un titolo di
studio, al desiderio di una cultura più ampia: libri e viaggi fan circolare il
danaro ed aumentano le occasioni, alle menti dotate, per investimenti in nuove invenzioni o pel loro sfruttamento.
Certo, senza una genialità inventiva, il danaro non serve a gran che; eppure
anche la genialità senza capitali che la nutrano nel tempo di latenza della
invenzione e ne proiettino i risultati verso l’impiego utile e redditizio, può
rimanere inerte ed inibita. In Lombardia il connubio fra le due
condizioni-cause per il progresso economico-culturale e sociale si manifestò meglio che altrove nell’Italia del
secolo XVIII.
Non che a Venezia sia scomparso
il benessere, ma è una ricchezza di mantenimento e non più di crescita; ed è un benessere di sfoggio e
consumo, perchè (lo si è già detto) la guerra dei Trenta anni ha tolto alla
città l’ultimo grande cliente in grado di incrementarne l’economia, la
Germania. I ritorni di vittorie contro
la Turchia, alla fine del secolo XVII ed all’inizio del XVIII a fianco
dell’Austria, conducono a vantaggi temporanei (il Peloponneso, detto allora
Morea, tenuto dalla pace di Carlowitz a quella di Passarowitz, cioè dal 1699 al
1718) od a vantaggi poco redditizi economicamente (le coste della Dalmazia,
tenute fino a Napoleone). Ma i guadagni
accumulati, le rendite dell’entroterra, il commercio residuo facevano di
Venezia una città affluente e spendereccia. La città lagunare possiede ben
sette teatri aperti contemporaneamente
già nei primi decenni del secolo. Il mancato decollo di una fase preindustriale
non dipese certo dalla mancanza di capitali. In compenso, comunque, si ebbe
una fioritura artistica notevole, che
va da Carlo Goldoni ai fratelli Gaspare e Carlo Gozzi, a Saverio Bettinelli, ad
Ippolito Pindemonte.
In Toscana, la reggenza
per Stefano di Lorena (1737-1765) e il governo di Pietro Leopoldo (1765-1790)
favoriscono la proprietà privata con la distribuzione delle terre tolte ad
ordini religiosi, soppressi secondo le direttive di Vienna . Molte riforme,
poi, segnarono un reale progresso. Anche il bilancio dello Stato doveva essere
pubblicato, come quello delle imprese economiche; la imposizione delle tasse fu resa proporzionale; venne abolita la
tortura e la pena di morte; furono sistemate le leggi nel “codice leopoldino”
(1787); fu stabilito un catasto per una imposizione di tasse uguale per tutti (
vi furono sottoposti anche i nobili e gli enti ecclesiastici furono colpiti
dalla solita imposta di “manomorta” periodica); furono semplificati i dazi per
il commercio coll’estero; furono abolite le barriere doganali interne al
granducato. Per tali riforme, i tecnici erano stati i ministri Pompeo Neri e Francesco
Maria Gianni. E si fece di più: si
operarono, infatti, bonifiche in val di Chiana, nella pianura attorno a Pisa,
in Valdinievole, nella Maremma, nelle zone paludose di Bientina e di Fucecchio.
Anche negli Stati pontifici
si hanno iniziative benefiche. Clemente XI (1701-1721) cercò di provvedere per
una amministrazione migliore del territorio, dividendo con criteri aggiornati
lo stato pontificio in 12 province rette da un governatore, senza riuscire però
a superare le tendenze autonomiste ed i privilegi locali. Le paludi di Cervia
furono aggredite dal card. Fulvio Astalli, che anche combattè, nelle legazioni
di Urbino, Ferrara e Ravenna, il brigantaggio. Ma fu solo con Pio VI (Angelo
Braschi, di Cesena: 1775-1799) che si intraprese il prosciugamento delle paludi
pontine. Ingente la spesa, ma nobile il tentativo che riuscì a prosciugare 1475
ettari di terre. Una riforma catastale si ebbe nella provincia di Urbino e,
nelle Marche, fu dato impulso alla industria serica.
Qualcosa,
dunque, si muoveva sul piano economico e sociale. Ed i riflessi culturali non
tardano a manifestarsi, specie sul piano letterario. Al Nord ed al Centro
d’Italia l’afabetizzazione si allarga;
avremo donne laureate ed un aumento della popolazione scolastica. In realtà la
proporzione dei laureati rispetto agli alfabetizzati è irrazionale, specie al
sud: si rischia, nel contatto con la cultura, la legge del “tutto o niente”.
Accanto all’Arcadia, la prima accademia che riunisce i letterati di tutta
Italia, sorgono altre associazioni di cultura più locali: accademie
ecclesiastiche a Roma; a Venezia, i Granelleschi, conservatori, con
Carlo Gozzi; a Milano “La società
dei Pugni” (con Pietro ed Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Paolo
Frisi- barnabita, matematico ed astronomo- e Gianrinaldo Carli, economista)
audaci innovatori; ed i “Riformati” (col Parini), innovatori
moderati. Già all’inizio del secolo
nascono periodici: Il Giornale dei
letterati d’Italia (1710); più degni di ricordo saranno i settimanali o
bisettimanali diretti da Gasparo Gozzi
a Venezia: “La gazzetta veneta” (con
104 numeri, dal 6.02.1760 al 31.01.1761) e l’Osservatore
veneto (dal 4.02. 1761 all’8. 08.1762); La
frusta letteraria (quindicinale di Giuseppe Baretti, dal 1.10. 1763 a metà
del 1764; continua con periodicità variabile fino al n. 33, nel 1765: stampata
dapprima a Venezia, esce con gli ultimi numeri ad Ancona); Il Caffè (ogni dieci giorni, a Milano, dal giugno 1765 al maggio
1766:organo della società dei Pugni, ha per responsabile primo Pietro Verri).
Ma in tale secolo viene alla luce anche
la complessa Storia della letteratura
italiana di Girolamo Tiraboschi (1772-1782), documento di erudizione
vastissima, ancor oggi utile agli studiosi della materia. Il capolavoro, però,
degli studi eruditi nel secolo è la edizione dei Rerum italicarum scriptores a cura di Ludovico Antonio Muratori
(1723-38, per i primi 24 volumi; il 25° volume uscirà nel 1751, un anno dopo la
morte del Muratori). E’ una panoramica che dice la effervescenza di un mondo
intellettuale molto attivo, che testimonia di un “illuminismo all’italiana”, di
carattere variopinto, cioè, con specializzazione più letteraria che
tecnico-scientifica e di tono, tutto sommato, moderato.
Inutile dire che la edizione di
un’opera come quella del Muratori, implica anticipo e rischio di capitali
notevoli ( non per nulla i finanziatori vennero trovati a Milano, con dodici
gentiluomini che costituirono al “Società palatina”, il cui animatore era il
marchese Teodoro Trivulzio).
I viaggi all’estero (benchè non
solo destinati all’aggiornamento
intellettuale) confermano la crescita, col benessere, del bisogno di
acculturamento: essi divengono uno “status symbol” per la società “bene” del
tempo. Lo stesso “Raguet” (un linguaggio maccheronico, formato con un francese
pressappochista, ricco di lemmi italiani con desinenze galliche) dice
dell’accostamento delle classi benestanti alle novità francesi del tempo: il
fenomeno è così diffuso che Scipione Maffei vi dedicherà una commedia. La
circolazione dei libri aumenta enormemente, compresi quelli introdotti
clandestinamente, che la censura non riesce a fermare. Ma anche i libri di
devozione, diretti al popolo alfabetizzato (quelli di S. Alfonso Maria
de’Liguori, ad esempio) hanno tirature così straordinarie che risultano un altro segno dei tempi:
l’ignoranza comincia a recedere anche nelle classi popolari.
Avviamoci ora ad esaminare il
pensiero o mentalità del nuovo secolo, in Italia. Occorrerà distinguere due
periodi diversi, arroccati
tradizionalmente alla pace di Aquisgrana, a metà circa del secolo (1748).
LA MENTALITA’
DEL MILLESETTECENTO IN ITALIA.
Distinguiamo, dunque, il periodo che va dalla fondazione dell’Arcadia (1690) fino alla pace di Aquisgrana (1748), da quello successivo che arriva sino alla discesa di Napoleone in Italia (1796). Pur tenendo presente il valore puramente relativo (“statistico”) di tali divisioni cronologiche applicate a fatti culturali, umani (in cui quindi non vi è un pensare ed agire in serie, ma altamente individualizzato), tuttavia solo nella seconda metà del secolo si può parlare di un vero “Illuminismo” italiano.
A) La prima parte del secolo
La prima metà del secolo
presenta bensì i segni di un risveglio intellettuale in senso cartesiano, quasi
di un “richiamo all’ordine” della chiarezza e razionalità del discorso, ma
senza traumi complessivi rispetto alla tradizionale cultura cristiana. Rispetto alla arbitrarietà letteraria e
figurativa del barocco, si può e si deve parlare di un ritorno della
ragionevolezza, che però non ha ancora i caratteri del razionalismo, negatore e
riduttore fino allo scetticismo ed alla
capziosità; nè quelli di
rigorismo, nelle leggi compositive e nella imitazione, proprio del classicismo,
: siamo in un’epoca che possiamo definire della ragione temperata dal buon
senso; e della classicità aperta alla innovazione. Cartesio e la cultura
francese, dapprima, purgano l’orgia delle metafore e dei concettini, facendo
rientrare gli scrittori nella mentalità ovvia della gente comune che, pensando
spontaneamente con la logica scolastica, tende a usare le parole anzitutto come
espressione di concetti e solo marginalmente come invenzioni gratuite e (per divertire) eventualmente paradossali.
La novità della prima metà del
secolo è il pensiero vichiano,che per altro vuol sottolineare il primato della attività religiosa, intesa come
manifestazione primaria della vita, conoscitivamente ed operativamente umana; e
come sorgente degli altri valori (arte e poesia, pensiero e filosofia), di una
umanità che si evolve, costruendo la
storia. Vico (1668-1744) si oppone a
Cartesio (1596-1650). Ma anche chi
Cartesio lo accetta, assieme al diritto naturale del Grozio (1563-1645),
non si accorge del loro sottile
dissidio con la fede cristiana, perchè solo nei loro epigoni si ha la
rivelazione di quanto pericoloso potesse risultare il loro pensiero. Nella prima metà del secolo, salvo
sfumature inevitabili per il crescente approfondimento del senso
critico, si può avere la impressione di rivivere i tempi del passaggio tra Dolcestilnovo e Umanesimo, con Dante e Dino Compagni, Franco
Sacchetti e Giovanni Villani, Coluccio Salutati e Ambrogio Traversari con
Guarino Veronese. Si pensi a quella manciata di galantuomini e di valentuomini
che rispondono al nome di G. B. Vico e
di L. A. Muratori, di Giovan Mario Crescimbeni e di Pietro Trapassi detto Metastasio, di Scipione Maffei e di Gian
Vincenzo Gravina, su su fino a Prospero Lambertini (Benedetto XIV) e Giacinto
Sigismondo card. Gerdil (1718-1802), Saverio Bettinelli e ad Ippolito
Pindemonte.
L’Italia è cioè in ritardo di
almeno mezzo secolo rispetto alla Francia ed all’Inghilterra nell’assorbire la
nuova cultura illuministica: un ritardo provvidenziale, che le permette di
vagliarne i contenuti, attutirne la smania di innovazioni soprattutto per
quanto riguarda la verità relgiosa, storiografica, artistica.
Naturalmente, si danno anche nella
prima metà del Millesettecento, precursori od avventurieri con atteggiamenti
illuministici: il Giannone può essere considerato uno di questi che
però, uscito alla ribalta precocemente,
soccombe. Alla pari, nella seconda metà del secolo, si trovano ancora arcadi
impenitenti, come Ludovico Salvioli (muore nel 1804) e Jacopo Vittorelli
(1749-1835). E in tutti i tempi si danno tradizionalisti od eclettici in
letteratura, che solo con violenza si possono aggregare ad una scuola (ad
esempio Ippolito Pindemonte: 1735-1828). Una panoramica deve attendere alla
media statistica di letterati e pensatori, non alle eccezioni, nella coscienza
che le sue classificazioni hanno un criterio riassuntivo, riduttivo, approssimativo, anche se molto comodo e
didatticamente efficiente.
Non ci soffermieremo, allora,
sulla mentalità della prima metà del secolo, che potremo considerare complessivamente, “cristiana”: un parametro
definitorio certo un po’ semplificatore, ma anche chiarificatore, perchè tutti ne possono intuire il significato
per il pensiero ed il costume nella cultura
dominante... .
Sarà solo in un secondo tempo
che ci si avvicinerà anche in Italia al
fenomeno pendolare del passaggio all’estremo opposto, quello di mortificare il senso comune, il valore del
sentimento e la rivelazione di Dio, in nome dei successi inaspettati della pura
ragione applicata ai dati di esperienza (od ovvi o procurati artificialmente
con gli esperimenti di laboratorio). Ma se in Francia si giungerà ad adorare
(letteralmente) la “dea ragione” e ad estromettere quanto non le appartiene direttamente
ed immediatamente (emotività e sentimenti, appunto, testimonianze sul
passato, rivelazione di Dio...);[12] se, dopo il bagno di sangue della
rivoluzione che apparirà a tutti come fallimento dei “lumi”
razionalistici, si giungerà a
rovesciare la complessiva posizione psicologica, negando stavolta la ragione in
nome del sentimento, in Italia a tali estremi
ci si avvicinerà, ma solo rare personalità giungeranno ad
immedesimarvisi. In pratica, tra i
grandissimi,Vittorio Alfieri sarà pienamente “illuminato”, pur valorizzando talmente la passione
dell’animo, da poter essere considerato un “protoromantico”. Parini rimane o
ritorna seguace nella fede (anche in Cristo),
pur vacillando nella morale. Beccaria, pur impressionato dalle opere degli Illuministi maggiori
(Montesquieu, Helvétius, Buffon, Diderot, Hume, d’Alembert e Condillac) e, in
genere, dagli articoli della Enciclopedia,[13] facendo propria la
risposta dei fratelli Verri alle obiezioni di A. Fachinei, in A
chi legge (premesso a Dei delitti e delle pene) afferma di trattare bensì delle leggi stabilite per umana convenzione,
anzi per “patto sociale”, ma senza per questo negare l’esistenza delle leggi
immutabili di Dio (da Lui rivelate ed affidate alla Chiesa) e della natura
(comune a tutti gli uomini): egli vuol solo discutere di quelle determinazioni
variabili secondo i tempi e le circostanze (e delle pene annesse), lasciate in
potere degli uomini.Reticenze dettate dalla paura della censura ecclesiastica
(che comunque condannerà l’opera, “indicizzata” nel 1766) ? Può darsi, ma ad ogni modo, se non ci fosse lo sfondo di una mentalità sensista, nessuna
proposizione è esplicitamente anticristiana. Lo stesso Pietro Verri, se si tien
conto anche dei Ricordi a mia figlia
oltre che del postumo La decadenza del papato, oscillò tra
l’adesione ad un cattolicesimo purificato e la tarda accettazione del
deismo, messo per scritto dopo che le
vittorie di Napoleone avevano dato l’illusione sulla prossimità della fine
della Chiesa. Sono uomini, cioè, che
assorbirono molto dall’Enciclopedia e dai pensatori razionalisti ad essa
collegati, ma ebbero difficoltà a
staccarsi dalla religione, in cui erano stati istruiti ed educati. E’ questo un classico “compromesso
all’italiana”, che esclude ogni estremismo cinico e, quand’anche
(eccezionalmente) si ritiene costretto ad approdare allo scetticismo negatore,
lo fa con la sofferenza e la nostalgia di un Ugo Foscolo nei Sepolcri. E, in ogni caso, rimane abbarbicato al buon senso, alla concretezza,
alla tradizione. Anche i letterati più
in vista della letteratura italiana, infatti, con Dante, Petrarca e Tasso (e
Boccaccio che si converte, mentre Ariosto non ha mai messo in dubbio la fede)
costituivano una massa inerziale notevole, che impediva alla ragione di
emarginare il sentimento, di snobbare la Rivelazione, di dubitare della verità
storica e di rinnegare quella stessa legge morale, che pur non sempre seguivano
coerentemente. Così, quando il pendolo rovescerà la sua corsa buttandosi a
rinnegar la ragione come corruttrice e disorientante, per affidarsi, disperati, al sentimento, anche
allora ci si potrà chiedere: ma il Romanticismo è mai esistito in Italia?[14]
Tale dilazione nello scoppio
della cultura illuministica e tale suo annacquamento era frutto, in
particolare, del pratico monopolio che della scuola avevano i religiosi, dai
gesuiti (l’attaule scuola-pinacoteca-biblioteca-osservatorio astronomico di
Brera era un loro collegio) agli Scolopi, dai Somaschi ai Barnabiti ed ai
Fratelli delle scuole cristiane. E, d’altronde, si è già detto come lo spirito
critico a livello storiografico avesse le sue radici sia nell’opera di storia
ecclesiastica del card. Cesare Baronio (1538-1607), sia nella revisione delle
biografie dei santi presenti nel calendario liturgico, ad opera dei Gesuiti del
Belgio detti “bollandisti” (nel 1643 apparvero i due tomi dei santi di gennaio: interrotta dalla
soppressione dei gesuiti e dalla rivoluzione francese e ripresa nel 1840,
l’attività continua tuttora); sia ad
opera della attività esemplare di storiografia ecclesiastica e letteraria, condotta dai Benedettini della congregazione
di S. Mauro in Francia (onde il nome di padri Maurini), che lavorarono dal
1632 fino al martirio di tutti i 41 religiosi, ghigliottinati il 2 settembre
1792 dai rivoluzionari. Essi
costituiscono il punto di partenza della moderna ricerca erudita, facendo capo
alla consultazione di tutte le fonti, all’esame dei singoli documenti
mediante l’impiego di tutte le scienze connesse (cronologia, diplomatica,
paleografia), alla esposizione nuda e cruda dei dati scoperti, con la loro
interpretazione alla luce degli altri documenti e mediante i suggerimenti delle scienze sussidiarie. L. A.
Muratori, che ne conosceva e stimava l’opera, certamente imparò da essi e
trasse spunti per il suo ingente lavoro in campo storiografico. Anzi, il
Muratori era stato alunno (assieme a
Scipione Maffei) del benedettino
cassinese Benedetto Bacchini
(1651-1721), uno studioso italiano in contatto con dotti di molte nazioni
europee e punto di riferimento per scambi di notizie, scoperte, ecc. Era un
parallelo minore di quanto, in Germania, avveniva attorno a Guglielmo Leibniz
(1646-1716). Sono, questi, esempi del progresso dello spirito critico e
dell’avanzamento negli studi e nelle scoperte scientifiche al di fuori di
ideologie e di filosofie oltranziste (che vanno al di là del segno) ed olistiche (che trapassano da un dato di
fatto alla concezione intera della
vita e del mondo); che non pretendono, cioè, di trasgredire dalla scienza alla
metafisica nè di guardare al di là dell’angolo dei dati sperimentali e delle
leggi fisiche, per estrapolarle in sede di (ir)religione e di (im)moralità; che
non cavalcano (dicono i tedeschi) una idea sino alla morte, cioè al di là del
suo valore oggettivo e dei limiti di buon senso nei corollari sicuramente
deducibili.[15]
Sono di una importanza straordinaria, perchè stabiliscono i parametri di fondo della cultura tuttora dominante, al di fuori della fede cristiana, in Occidente, con la tendenza a diffondersi in tutto il mondo, man mano che la scienza e la tecnica ed i loro sottoprodotti intellettuali ( giornali, periodici, radio e cinema, televisione e contatti personali attraverso propaganda politica od agenzie di aiuto medico-nutritivo e loro condizionamenti vari) si propagano nel resto del mondo (ad iniziare, già dal secolo XIX, col Giappone). Gli stessi profeti, antireligiosi ed umanisticamente impazziti, del Milleottocento, cioè Carlo Marx, Federico Nietzsche e Sigismondo Freud, sono soltanto dei sottoprodotti rispetto alla concezione illuministica, instaurata in contrasto soprattutto (ma non unicamente) colla fede e tradizione cristiana.[16] Di una tale cultura innovatrice,vediamo allora la definizione, le virtù ed i limiti.
1)
L’ILLUMINISMO E’ LA
MENTALITA’ O MODO COMPLESSIVO DI PENSARE CHE HA PER FONDAMENTO QUESTO
PRINCIPIO: L’UNICA ED IMMEDIATA SORGENTE DI VERITA’ E’ LA
RAGIONE. L’illuminismo può definirsi il culto della ragione e della sola
ragione.
Si noti. L’ILLUMINISMO E’ UNA FORMA STORICA DI RAZIONALISMO,
le cui particolarità distintive rispetto ad altre manifestazioni di
razionalismo, in altre epoche, sono IL DEISMO in religione, IL DETERMINISMO in
antropologia, L’OTTIMISMO in filosofia della storia, IL COSMOPOLITISMO in
politica e LO ZELO PER DIFFONDERE “I
LUMI” nel costume privato.
2) Il principio, a prima vista, può sembrare vero fino alla
ovvietà; parrebbe un assioma evidente,
di cui non si può dubitare, pena il dacadere di ogni certezza e la perdita
dell’unica sorgente di verità.
Eppure è gravemente erroneo,
perchè manca della distinzione fondamentale sul diverso modo e tempo in cui la ragione interviene a
dimostrare una verità. LA RAGIONE INFATTI E’ SEMPRE LA SOLA FACOLTA’ CHE PUO’ E DEVE CONFERMARE LA VERITA’, MA
ESSA NON E’ NECESSARIAMENTE L’UNICA OD
IMMEDIATA SORGENTE DELLA STESSA. In
altre parole, LA RAGIONE E’ L’UNICA SORGENTE DI CERTEZZA INTELLETTUALE O
CONOSCITIVA, MA NON E’ L’UNICA SORGENTE
DELLE CONOSCENZE DA SOTTOPORRE, PER CONFERMA, AL SUO TRIBUNALE SUPREMO.[17]
Tale secondarietà temporale si rivela specialmente in quattro campi: la
verità della sensazione o della
esperienza comune; le verità sul passato (storia umana) o della fiducia
testimoniale; le verità dell’arte o della reazione emotiva di fronte ad una
espressione umana; la verità
ebraico-cristiana della Rivelazione di Dio agli uomini.
Ecco, il senso comune dell’uomo che non ha studiato su Voltaire
(il “Buezio” dei nuovi tempi...), ma ha in sè la intuizione delle cose ovvie;
che non ha letto la Enciclopedia, ma porta su di sè la sapienza dell’umanità
intera, sa che la sensazione offre delle esperienze solitamente vere e,
in ogni caso, statisticamente adatte a dirigere la vita fisica, tanto che
l’umanità ne ha fatto per millenni un uso acritico senza, per questo, soccomberne.
D’accordo: le certezze sensoriali sono pratiche, pressappochiste e provvisorie,
tanto che la ragione interviene a confermarle, raffinarle o rinnegarle (caso
supremo è la impressione del cammino del sole da oriente ad occidente, mentre
la realtà è la rotazione della terra da occidente ad oriente). Ma questo lo
sapevano, da sempre, tutti gli uomini riflessivi: tribunale ultimo è sempre la
ragione per accertare la verità, ma vi sono sorgenti immediate di verità
altamente attendibili, che non coincidono necessariamente con la ragione.[18]
Un altro caso è quello della
verità in campo storico. Già il
nostro Manzoni, nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica (c. 1), aveva
risposto ad un famoso dilemma di Voltaire (Dictionnaire philosophique, alla
voce “Vertu”: “La fede è forse una virtù? o ciò che tu credi ti sembra vero: ma
in questo caso non vi è alcun merito a credere; oppure la cosa ti sembra falsa:
ed allora è impossibile che tu la creda”), mostrando come vi era un terzo caso,
quello del “credere sulla fiducia”, atteggiamento ragionevole anche se
coinvolgente la volontà e, perciò, virtuoso e meritorio. Ma è stato Léon
Ollé-Laprune (1839-1898) che impostò il
problema della “certezza morale”, come
coincidenza con quello della “certezza ragionevole”. Per le verità
storiche esistono prove “obiettivamente sufficienti e valevoli per chiunque sia
dotato di ragione”. Ma tale certezza è raggiunta con l’aiuto della volontà.
Perchè? L’analisi storiografica non può
dare che probabilità sul passato, non certezze definitive: non potendosi più
avere la esperienza sensibile dell’accaduto nè la dimostrazione matematica di
fatti “contingenti” (dipendenti dalla libera scelta umana), da un punto di
vista “razionalistico” (“la sola ragione”), si approderebbe al “pirronismo”
o scetticismo storico. Difatti, lo stesso Voltaire, con molti colleghi
“illuminati” conclude che la storia è una favola convenzionata: “une fable
convenue” (cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza,
1917, pp. 223-41).[19]
Ma è un atteggiamento insensato, che contrasta con una delle più profonde
esigenze di verità del nostro spirito (conoscere le nostre radici, cioè il passato in quanto foriero del presente)
e con la ovvia persuasione di poterla raggiungere. Ma in
che modo? E’ qui che la ragione
guida a scoprire le vie non del tutto “razionali” con cui si forma
il nostro giudizio di adesione certa anche alle scoperte storiografiche.
Essa vaglia criticamente, anzitutto, i
“motivi di fiducia” nei confronti dei testimoni: l’affidabilità filologica dei
testi scritti e la affidabilità
psicologica dei loro autori. Naturalmente, tale processo di revisione critica
può approdare alla negazione di attendibilità;
altra volta, al dubbio totale od
irrisolubile; talora ad una probabilità di certezza superiore alla perplessità
del dubbio (diciamo banalmente, ad un grado di verosimiglianza superiore al
cinquanta per cento), fino a raggiungere talora la certezza praticamente totale
per determinati personaggi e loro imprese. Esemplifichiamo. Della esistenza di
Napoleone si ha la reliquia del suo corpo (agli “Invalidi” di Parigi), un
cumulo tale di testimonianze convergenti e un tale numero di fatti, tuttora
sperimentati da noi come dipendenti dalla sua vicenda pubblica di generale e di
imperatore, che nessuna persona colta ed onesta può rifiutarne la biografia tradizionalmente trasmessa senza
una grave colpa morale. In altre parole, quello che per la ragione pura appare non del tutto dimostrato, esige di
diventare “certezza definitiva” attraverso un atto di volontà che comanda
l’adesione per dovere morale: gli
“indizi” sono troppi e troppo urgenti per poter essere messi in dubbio; e la
vicenda è troppo importante per
relegarla nell’agnosticismo. La ragione, anche nello studio delle
vicende di Napoleone, non può andar
oltre un certo grado di
probabilità, di verosimiglianza, ma in sede di “vita”, la
ragione vede, almeno in certi casi
(quello di Napoleone è solo un esempio notevole), la necessità di non lasciare
nessun’ombra di dubbio nella propria adesione ad una verità che così, razionalmente solo probabile,
diviene certa per forza di volontà. Virtuosa, quindi.
Tali sono anche due altri casi di certezza che vorremmo definire “ultrarazionale”. Anzitutto vi è il dovere di aderire –anche al di fuori della prova scientifica del DNA- alla realtà della propria discendenza dai genitori che ci hanno denunciati come propri figli all’anagrafe religiosa e civile, ci hanno allevato ed educato con ogni cura, si sono comportati con noi con amore parentale e valgono presso tutti come persone oneste e, in particolare, fedeli. Non si può nascondersi dietro la indecisione razionale per sfuggire al doveredi aderire ad una verità che ha tutte le prove possibili a suo favore. L’altro caso è quello dell’adesione della mente con il massimo di intensità e, quindi, con la più indubitabile certezza, a Dio, una volta raggiunta, anche nella problematica religiosa, una probabilità razionale prevalente. Qui interviene un principio filosofico evidente: la mente deve aderire con tanto più di certezza quanto più l’oggetto della propria conoscenza possiede di “essere” o di “valore”. Orbene, nessuna persona, per definizione, è più ricca di esistenza e di realtà che Dio; di conseguenza, nessun dubbio può sfiorare la fede in Lui, esistenza di una sostanza infinitamente perfetta, una volta che sia stata raggiunta una sufficiente probabilità nelle prove della Sua esistenza. In base a questo ragionamento, la volontà è costretta ad affermare l’Essere divino col massimo di fermezza, sublimando così la probabilità nella ragione, in un atto di fede che dissipa ogni dubbio residuo. E’ un “ assenso morale” che è dimostrato dalla ragione come “doveroso” ed è reso, per ciò stesso, onesto ed obbligatorio.[20]
Conclusione di un simile processo per attingere un fermo assenso religioso è la fede nella Rivelazione di Dio, cioè nella Bibbia, nel Messia-redentore e nella Chiesa: premessa la dimostrazione razionale dei motivi di credibilità, cioè della sufficiente probabilità delle prove.
Il caso della critica d’arte è un’altra situazione in cui il giudizio previene la coscienza razionale e solo in seguito ne cerca la conferma. E’, infatti, la impressione della nostra facoltà emozionale la causa delle sentenze: “Sì, siamo davanti ad opera artistica; oppure: no, quest’opera è altro dall’arte”. La ragione non fa che tradurre in un verdetto cosciente quanto la reazione emotiva le ha suggerito prima ancora el suo accorgersi di tale reazione, che essa emplicemente registra. [21]
3) Prima di analizzare le ulteriori componenti del pensiero illuministico, diamo uno sguardo, sia pure per cenni, a quelle conquiste della scienza che hanno costituito la giustifiazione soggettiva della fiducia illuministica nella ragione e nella sola ragione, al punto che anche Emanuele Kant dichiara accettabili le conclusioni filosofiche solo a patto che esse si rivelino raggiunte con lo stesso metodo con cui si costruiscono quelle matematiche (Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza: 1783). Si noti: quando non citiamo la nazionalità dell’inventore, si tratta di un inglese.
1735: Abraham Darby jr. prosegue i tentativi del padre e riesce ad ottenere, dal minerale, ferro grezzo mediante la sostituzione del carbone coke al carbone di legna. Inventata nel 1784 la tecnica del puddlage (pudellaggio), si ottenne dalla ghisa il ferro puro e, perciò, malleabile: premessa alla costruzione di binari, locomotive a vapore, tubi, ponti, vagoni (piccoli) per le miniere. A dir il vero, già nel 1779 John Wilkinson aveva gettato il primo ponte in ferro sul fiume Severn; egli stesso nel 1774 aveva inventato il sistema per la foratura moderna dei cannoni e costruiva il primo battello in ferro nel 1787. La guerra contro Napoleone stimolerà gli Inglesi a sviluppare ulteriormente la siderurgia, detenendo il monopolio per queste e simili scoperte.
1720: Thomas Newcomen permetteva, con la sua pompa atmosferica, di utilizzare la forza-vapore nelle miniere, per asportarne l’acqua. Sfruttando le esperienze sul gas del collega scozzese Joseph Black e col sussidio dell’industriale di Birmingham Matthew Boulton, il costruttore di strumenti di precisione della università di Glasgow, James Watt, attorno al 1769 brevettava la macchina a vapore, poi perfezionata nel giro di pochi anni. Il regolatore di pressione è invenzione dello stesso Watt e ne porta tuttora il nome. Altra innovazione fondamentale fu la “macchina ad effetto doppio” (il vapore agisce su entrambe le facce del pistone) e, più importante ancora, la trasformazione del movimento lineare del pistone in moto rotatorio delle ruote, mediante la biella. Nel 1800 la Inghilterra usa ormai 500 macchine a vapore ed altre molte ne esporta.
1800: l’Inghilterra estrae carbone per 100.000 tonnellate, dieci volte più della Francia. Produce 260.000 tonnellate di ghisa, da cui, col puddellaggio, può estrarre ferro puro.
Nel 1733 John Kay inventa la “spola (navetta) volante”; nel 1769, Richard Arkwright perfeziona il filatoio ad acqua (waterframe); nel 1770 James Hargreaves introduce il filatoio a giannetta (spinning jenny) capace di lavorare 80 fili in una volta; nel 1779, Manuel Crompton monta il “filatoio intermittente”, che prepara da vicino il telaio meccanico di Edmond Cartwright (1785): l’unione di molti telai meccanici darà vita appunto al primo grande stabilimento industriale di tessitura, a Manchester (1786).
E mentre le grandi esplorazioni geografiche proseguono (Bering e Celyuskin scoprono rispettivamente lo stretto e i pormontorio che ne portano il nome, mentre James Cook approda alle isole Hawaii), l’Inghilterra colonizza l’Australia; Inglesi e Francesi gareggiano per esplorare-colonizzare le isole del Pacifico.
Il calcolo infinitesimale (a notazione leibniziana, più precisa di quella newtoniana) è applicato alla meccanica astronomica dallo svizzero Leonhard Euler (1707-83); il torinese Luigi Lagrange pubblica a fine secolo la sua Meccanica analitica, mentre il farncese Gaspard Monge elabora la geometria descrittiva.
A fine secolo (1799) Benjamin Thompson (1753-1814) degli Stati Uniti e Humphry Davy (1778-1829) propongono la teoria cinetica del calore.
Lo svedese Anders Celsius (1701-1744) adotta la scala centigrada, accettata dal continente (divide in 100 parti uguali, detti “gradi”, la differenza fra la temperatura dell’acqua ghiacciata e quella dell’acqua bollente). Nel 1724 il tedesco Gabriel Daniel Fahrenheit (1686-1736) costruisce il primo termometro a mercurio e darà il nome alla scala usata nei paesi anglosassoni per misurare la temperatura, che parte dallo zero assoluto (-273,15 centigradi: i cento gradi di Celsius corrispondono ai 32-212).
Il francese Charles-François Du Fay (1698-1739) intuì la duplicità delle cariche elettriche, che nel 1730 propone come due “fluidi elettrici”; nel 1785, un altro francese, Charles-Augustin Coulomb (1736-1786) inventa la bilancia di torsione, con cui misurare la forza di attrazione elettrostatica. Nel 1752 Benjamin Franklin applica le teorie elettriche al parafulmine ed il comasco Alessandro Volta inventa la pila, offrendo agli sperimentatori inglesi lo strumento per la fondazione della biochimica, con la decomposizione elettrolitica delle sostanze.
Joseph Black studia per la prima volta una reazione chimica sull’anidride carbonica (CO2: allora chiamato “aria fissata”). Nel 1784, Henry Cavendish (1731-1810) dimostra che l’acqua consta di idrogeno ed ossigeno. Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) è il fondatore della chimica moderna: realizzò l’analisi e la sintesi dell’aria e dell’acqua; dimostrò che la combustione è un processo di ossidazione e che nelle combustioni la somma dei sottoprodotti è identico a quello del composto originario, concludendo che “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”; precisò il concetto di “elementi” della materia, aprendo la strada alla scoperta del loro sistema periodico da parte del russo Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907). Quasi contemporaneo a lui, lo svedese Karl Wilhelm Scheele (1747-1786) isola l’ossigeno (successo che condivide con Joseph Priestly, inglese:1774) e molte altre sostanze (acidi, tungsteno, glicerina), per cui è considerato, col Lavoisier, cofondatore della chimica moderna.
Nella botanica, lo svedese Karl Linnaeus (1705-78) elaborò un sistema di catalogazione binominale, che risultò utilissimo a definire le varie specie vegetali (1758: decima edizione e definitiva del “Systema naturae”). Il francese Georges- Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) diede avvio scientifico alla ipotesi della trasformazione che, ripresa da Erasmus Darwin (1731-1802) e da suo nipote Charles, sfocerà nella dottrina evoluzionistica (1859). Il trionfo della dottrina viene ritardato dalla scoperta, ad opera dell’italiano Lazzaro Spallanzani (1729-99) del principio “omne vivum ex vivo”, che chiude la strada, realmente, all’errore della generazione spontanea, ma anche, in apparenza, alle ipotesi della possibilità di passaggio da una specie all’altra dei viventi. All’italiano lui si deve anche la definizione delle leggi sulla dinamica del sangue.
Viene misurato con esattezza l’angolo del meridiano e si trovò la via per determinare con esattezza la latitudine della posizione di una nave come di una città (in tali campi i governi finanziano i ricercatori).
4)
LE ULTERIORI COMPONENTI DELLA CULTURA ILLUMINISTICA: LA
RELIGIONE (IL DEISMO), L’ANTROPOLOGIA (IL NUOVO UMANESIMO: OTTIMISMO E
DETERMINISMO), LA SOCIOLOGIA POLITICA
CON IL CONTRATTUALISMO, LO EGUALITARISMO E LA MONARCHIA ILLUMINATA, LO
ZELO DIFFUSORE DEI LUMI, IL COSMOPOLITISMO E LA NUOVA ECONOMIA.
Il DEISMO. Sebbene, tra i più famosi collaboratori della Encyclopédie fossero più gli atei che i credenti, tutttavia i due protagonisti francesi dell’Illuminismo, Voltaire e Rousseau, erano deisti, come la più parte degli inglesi e (lo si è visto) come Pietro Verri nella sua ultima presa di posizione scritta (La decadenza del papato). In Inghilterra, la posizione di Locke, verbalmente ancora aderente al cristianesimo, in qualche modo precorre già la “forma semplificata” di religione deista, perchè afferma che in una vera religione nulla vi può essere di contrario alla ragione: i misteri (della Trinità, ad esempio) non sono per lui conformi alla ragione e Cristo Gesù è soltanto il Messia, non Uomo e Dio. Ma è John Toland (irlandese, fattosi anglicano: 1670-1722) che fa da ponte al deismo, col suo libro “Il cristianesimo senza misteri”, nella sua prima edizione del 1696, dove si limita a porre la ragione come giudice della Rivelazione. Nelle succesive edizioni ed in altre opere meno note, egli diventa deista convinto, che riduce sia il cristianesimo che le varie religioni positive (ebraismo, musulmanesimo) ad errori od inganni. Anzi si avvicinò alla forma di religiosità panteistica, sotto l’influsso delle opere di Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713). Il deismo classico si rifà ai principi di lord of Cherbury e trova in Matthew Tindal (1656-1733) il sostenitore più coerente ed avvincente. Nella sua opera “Cristianesimo antico come la creazione”: 1730), egli sottopone al “giudizio immediato della ragione pura” ogni forma di religione, trovando inganni e manipolazioni in ognuna, eccetto che nel Vangelo che, però, contiene ingenui elementi mitici ereditati dalla Bibbia (fra essi, esplicitamente citato, è il peccato originale) ed è stato poi deformato dalle interpretazioni ecclesiastiche (dogmi, riti liturgici...). Il Vangelo non fa che confermare le verità scoperte dalla ragione, l’unica facoltà che può fondare una dottrina (anche religiosa) universale ed immutabile. [22]
Ed ecco ritornare i cinque princìpi di Herbert of Cherbury, verità relgioso-morali dimostrabili con la ragione: esiste Dio; Egli dovrebbe essere adorato; questo si fa principalmente con la pratica della virtù; pentirsi del peccato è un dovere preciso; esiste un’altra vita di ricompense e punizioni. A parte osservazioni critiche pur decisive della novità e soprattutto della coerenza razionale del deismo (le rimandiamo in nota),[23] va aggiunta qui una caratteristica fondamentale: la negazione della Provvidenza, in nome del meccanicismo deterministico con cui è riguardato il funzionamento del mondo e della storia. [24] Naturalmente, all’uomo medio, un tale Dio, “che dopo aver commesso il misfatto della creazione, si è dato alla latitanza” (cardinal Giacomo Biffi), restando indifferente alle sorti dell’uomo, non presenta alcun interesse: di qui la facilità del passaggio alla sua negazione nelle generazioni successive, fino al marxismo ed al suo impianto in Russia, esattamente a duecento anni di distanza dalla nascita della prima loggia massonica (1717), la quale sorge duecento anni esatti dopo la ribellione di Lutero (1717).
Divenuto parte integrante della dottrina massonica (1717, fondazione della prima Loggia a Londra), il deismo si diffuse in tutta la cultura occidentale: non si dimentichi che sono massoni Montesquieu, Massimiliano Robespierre, Voltaire, Diderot e Lessing, Franklin e Washington, senza contare i numerosissimi meno noti.[25]
L’ANTROPOLOGIA ILLUMINISTICA, ossia IL NUOVO UMANESIMO: ottimismo e determinismo antropologico.
L’ottimismo per il futuro dell’umanità. Piuttosto pessimista, dunque, sulle possibilità di scoprire la verità certa sul passato dell’uomo[26], l’Illuminismo è invece, nel complesso, quanto mai ottimista sul futuro che attende l’umanità, finalmente liberata dalle superstizioni, indotte da autorità maliziose (mantenere le masse nella ignoranza, onde dominarle meglio) e da ogni genere di errori, procurati dall’assenza di senso critico. Come, senza i lumi della ragione, il passato appare quasi una storia di ingenuità per la povera mente umana e di fallimenti per le generazioni vissute nelle tenebre, così l’avvenire, illuminato dal sole della ragione, ha garantito il progresso e assicurata la felicità.
Il rappresentante più illustre di una tale prospettiva gaudiosa fu il Condorcet, cioè Marie-Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet, che – martire del proprio candore ed acrisia, nel 1794 si suicidò in carcere per evitare la ghigliottina, vittima di quella rivoluzione cui aveva dato un contributo notevole nel preparare e definire.[27]
La sorgente di una tale euforia è per lo più il progresso scientifico-tecnologico, che fa da parallelo alle scoperte filologiche ed alle creazioni artistiche del Millequattrocento, che erano state all’origine dell’ottimismo rinascimentale.
Tuttavia, anche la negazione (questa volta esplicita) del peccato originale induce ad una fiducia nell’uomo così come è, ricostruendo l’Umanesimo rinascimentale addirittura in termini di sfida alla Rivelazione cristiana. Non solo viene cancellato ogni sospetto e timore nella fragilità morale dell’uomo, ma si punta sulla ragione per eliminare le ultime sacche di ignoranza, di povertà e di dolore. Abbiamo visto Matteo Tindal rifiutare, come mito ingenuo, il dogma del peccato originale (Cristianesimo antico come la creazione:1730); esso è criticato come assurdo ed ingiusto da Voltaire (si veda, ad esempio, la voce “Originel (péché)” nel Dictionnaire philosophique); la negazione è sottesa a tutto il pensiero di Rousseau (che predica un ritorno alla stato di natura, come sorgente di candore e sincerità).
Naturalmente, l’ottimismo è sentimento prevalente, ma non necessariamente univoco od universale. Ad esempio, se Voltaire inizia la sua campagna filosofico-religiosa assalendo baldanzosamente il pessimismo giansenistico di Biagio Pascal, alla fine, specie dopo il terremoto di Lisbona, si chiude in un atteggiamento di pessimismo complessivo, contrastando la posizione di Leibniz, che vedeva la creazione tutta (e la storia dell’umanità in particolare) come “il migliore dei mondi possibili”: “Candido” ne è la manifestazione più nota. Anche Montesquieu è più incline al pessimismo che all’ottimismo, con una moderazione da grande pensatore. D’altornde, anche nel Rinascimento, la posizione di L. B. Alberti è ben più complessa e tormentata che non l’ingenuo ottimismo di Marsilio Ficino.
L’orrore della rivoluzione francese (che ghigliottinerà, tra gli altri, anche il Lavoisier) condurrà il Leopardi a ironizzare sulle “magnifiche sorti e progressive” che si aspettavano gli Illuminsti per l’umanità, a critica di quanti, come il marchese Gino Capponi, ritornavano ingenuamente a quella fiducia immotivata, nei primi decenni del secolo succcessivo.[28]
Il determinismo psicologico, ossia la negazione del libero arbitrio
nell’uomo.
Da una parte l’uomo, liberato dalla tutela di Dio (di cui si nega la esistenza o almeno la Provvidenza), assolto dai sospetti d’imperfezione congenita, conseguente alla colpa originale, anzi proclamato padrone del mondo e del suo futuro in nome della onnipotenza della ragione, si trova esaltato fino ad essere riconosciuto unico detentore del potere nella società, meritevole di partecipare al suo governo o con il metodo della democrazia diretta (Rousseau) o secondo il modello inglese della monarchia parlamentare (Voltaire). Di leggi morali non si parla: la coscienza di ciascuno detta le norme di vita privata, così come le leggi, ragionevolmente imposte dai sovrani illuminati o dai parlamenti democratici, regolano la vita associata.
Ma vi è il rovescio della medaglia. Quando Voltaire segue Locke persino nel ritenere la materia dotata di pensiero e l’anima dell’uomo, mortale; quando atei e materialisti, come Diderot, Helvétius, d’Holbach, d’Alembert, rifiutano ogni concetto di premio-pena eterna, allora l’idea dello
uomo si riduce a quella di un vivente più sviluppato, ma non radicalmente diverso dagli animali. In particolare scompare il diadéma dell’uomo aristotelico (Etica nicomachea, III, 1) e cristiano (Jo, 8, 31-36): la libertà interiore o libero arbitrio. La Chiesa, lungo tutto il Medioevo, aveva difeso questa dote suprema della persona umana contro la astrologia (i primi documenti di condanna risalgono al 400 d. C.); Tommaso d’Aquino, aveva argomentato in più luoghi in proposito, contro la possibilità della divinazione o predizione del futuro libero dell’uomo (S.T. I, 73, 1 sg; 115,4 e 6; II|II, 95, 5); e Dante aveva dedicato nel poema più di un passo a difenderla dagli attacchi dei razionalisti (averroisti) a lui contemporanei ( Purg. 16, 64-81). Ma non appena si nega la spiritualità dell’anima e la sua irriducibile diversità dai sensi animali, ecco che la coscienza e fede nella libertà interiore dell’uomo va persa. La libertà dell’uomo coincide con quella dell’animale: libertà di moto e di azione esterna, riducibile alla assenza di ostacoli materiali (Tommaso Hobbes, -1588-1679- De cive, IX, 9; De corpore, 12; Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, 21; DavideHume –1711-76-, Ricerca sui princìpi della morale, VIII,1).[29] Del libero volere, come della volontà umana ad agire nonostante le spinte in contrario delle passioni (emozioni ed istinti) ed in base al puro dettato della coscienza morale (o della ragione o della verità) non si parla più.
Voltaire alla libertà dell’uomo credeva ancora nel 1734, quando scriveva il Trattato di metafisica; i racconti filosofici dal 746 al 1752 (Il mondo come va| Zadig| Memnone| Micromega) mettono in crisi l’ottimismo giovanile; il terremoto di Lisbona fa crollare ogni fiducia nell’uomo: il Poema sul disastro di Lisbona (1756) e l’ultimo racconto filosofico, Candido (1759) smantellano ogni “privilegio” dell’uomo, che lungi dall’essere il centro del mondo, non gode nemmeno della libertà. Anche Voltaire, materialista benchè non ateo professo, ritiene l’uomo un meccanismo deterministicamente mosso da forze esteriori: un fatalismo che lo induce a concludere rassegnato la insensata vicenda di Candido con un “Bisogna coltivare il nostro orticello” (Il faut cultiver notre jardin).
Ecco: l’uomo, che si vuol difendere da superstizioni e fanatismo, da tirannie e violenze; che si vuol anzi esaltare come detentore unico dei “lumi di ragione”, sorgente di progresso e felicità, viene contemporaneamente ridotto ad un giocattolo della natura, di una natura insensata e casuale che –esclusa la Provvidenza – mette l’uomo alla mercè del destino, della fatalità assurda. Se Voltaire cessa di credere nella libera determinazione umana dopo il terremoto di Lisbona, Diderot più coerentemente aveva già abbandonata la fede in Dio, o almeno ogni certezza della sua esistenza, al pensiero che esistono degli uomini ciechi dalla nascita (Lettre sur les aveugles: 1749).
Detronizzato l’uomo dal privilegio del suo pensiero (libero da ogni determinismo rispetto ai sensi, che egli supera con la astrazione dai loro dati, se occorre) e della sua volonta’ (sottratta al determinismo delle spinte emotivo-istintive), tanto più urgente sarà allora sentita la salvaguardia più alta possibile della sua libertà esteriore, cioè della sua indipendenza dal pensiero e dal potere altrui: nè tiranni, nè maestri, nè censure, nè persecuzioni, ma tolleranza totale per le “opinioni”. Voltaire, che scrive un “Trattato sulla tolleranza” ne espone il principio in questi termini: avere il diritto di combattere con tutte le proprie forze il modo di pensare diverso dal proprio, ma difendere con tutte le proprie forze il diritto ad avere un pensiero diverso dal proprio. La esigenza,così profonda in tutti questi intellettuali razionalisti, di una monarchia costituzionale o addirittura di una repubblica democratica nasce anche da questa nostalgia di una libertà vera, interiore, in cui non si riesce più a credere. La spinta che genera la concezione socio-politica dell’illuminismo è il frutto (anche) della sua antropolgia deludente e fallimentare: tentare di far ritrovare all’uomo, a livello pubblico, quanto gli si nega a livello privato: che sia libero di decidere della sua condizione esteriore, visto che non è possibile garantirgli la libertà interiore. Ma siccome mantengono l’ovvia convinzione che la conoscenza è al servizio dell’operosità, ecco che la libertà nell’agire esteriore (cioè nei confronti degli altri uomini) viene difesa fino al punto da predicarla il valore, (il bene) supremo della vita. La libertà politica diventerà l’ossessione della mentalità illuministica: essa è sentita come “religione dell’uomo”; ed il suo raggiungimento è inteso come “missione, degna anche di una crociata e della perdita della vita” : è l’ultimo baluardo (l’unico, anzi) su cui difendere la dignità umana. La ragione è a servizio della azione che, non più libera interiormente, deve diventare efficiente e dominatrice sul mondo esterno delle cose e degli uomini: le conquiste della scienza (come aveva previsto e predicato Francesco Bacone –1561-1626-) debbono essere la premessa al potere, che si riesce a ricuperare sul cosmo e su una parte del proprio destino. La “politica”, insomma, diventa il surrogato della fede religiosa e, per gli ideali socio-politici, dapprima le élites intellettuali e, ben presto, anche le masse popolari sapranno affrontare la morte combattendo, in uno strano concetto di martirio laico: tentare di ammazzare chi si oppone alla propria esigenza di libertà e di democrazia, disposti anche a morirne, strumenti per l’avvenire. Ma, con ciò stesso, la tolleranza va tramontando sempre più; i princìpi immortali della rivoluzione vanno difesi e imposti con le armi; al cammino esaltante verso la luce della democrazia si sostituiranno (coerentemente) le dittature di Robespierre e di Napoleone e, in prospettiva, quelle di Hitler e di Stalin.[30]
DOTTRINE SOCIO-POLITICHE.
La dottrina più rivoluzionaria che caratterizza il pensiero illuministico in questo campo è il cosiddetto Contrattualismo. Nessuno sinora aveva mai contestato l’intuizione aristotelica che “l’uomo è un animale politico”, che vive cioè nella “pòlis”, in città, non nelle selve; che è socievole per istinto ineluttabile, non solitario come l’orango. Corollario ovvio, ne discende il fatto che anche le regole fondamentali della umana convivenza sono iscritte nella sua natura e, quindi, immutabili. Ora, al contrario, il contrattualismo ritiene che la società politica sorge soltanto per libera decisione di un certo gruppo di uomini (popolo), che fissa, poi, arbitrariamente le regole di convivenza: le leggi sono, quindi, “convenzionali”, non imposte dalle spinte naturali congenite nell’uomo; la ragione le inventa e muta, non le scopre nè perfeziona meditando sulla natura umana. Il Contrattualismo soppianta il “giusnaturalismo” di Ugo Grozio: non è più possibile stabilire regole fisse di convivenza tra i popoli, perchè anche il diritto internazionale è solo il frutto di patti e convenzioni.
Due sono le conseguenze di un tale prospettiva socio-politica. Anzitutto lo stesso senso di “norma oggettiva” si rovescia nel significato: il diritto è “oggettivo” in quanto è stabilito dai contraenti e, quindi, chiaro per tutti nelle clausole stabilite liberamente tra di loro. Un diritto preesistente alle parti contraenti, indipendente dalla loro volontà perchè innato nella natura umana, sarebbe invece suscettibile di interpretazioni le più opposte e risulterebbe quindi astratto e soggettivo, perchè tutt’altro che chiaro ed incontrovertibile. Il diritto naturale (come la legge morale) diventa qualcosa di discutibile, perchè non soggetto a dimostrazione nè sperimentale nè matematica: è una impressione confusa, da cui si possono dedurre solo direttive psicologiche, non pienamente controllabili dalla ragione. Si rovescia qui il senso delle parole: la “oggettività etica e giuridica”, nel linguaggio filosofico tradizionale, equivaleva a “ indipendente da errori ed interessi deformatori”, perchè “dimostrabile con la ragione spassionata”: la validità di una simile norma “erga omnes” (per tutti gli uomini) era solo una conseguenza. Ora, invece, è la “universalità di conoscenza e di imponibilità” che decide della “oggettività”; la validiità universale, poi, dipende dal fatto che vi è un patto (scritto, nei tempi moderni) da tutti conoscibile: a questo modo, la “chiarezza” del diritto stabilito è la qualità che lo rende “oggettivo ed universale”; e ciò tende ad equivalere al principio: la conoscibilità e conoscenza di fatto della norma sono i fattori che la rendono “oggettiva”, non la sua relazione alle esigenze naturali dell’uomo. Vi è, cioè, alla base del contrattualismo una sottile trasposizione cartesiana dall’essere al conoscere: garanzia di oggettività e di universalità è la “conoscibilità” del diritto. Emanuele Kant trasferirà tale soggettivismo creativo dal concetto di norme giuridico-morali alle verità filosofiche tutte: è “oggettivo” ciò che è universalmente valido; è universalmente valido ciò che è conosciuto alla stregua delle verità matematiche, cioè attraverso la inesorabile inserzione nel processo della conoscenza di fattori informatori-deformatori (forme apriori) comuni a tutti gli uomini, che concludono, perciò, non a conoscenze della realtà (“oggettive” in senso tradizionale), ma a schemi universalmente stabili, a tutti chiari in teoria e per tutti funzionali alla vita pratica (“oggettivi” in senso kantiano), anche se incapaci di dare la “comprensione” della realtà esistente. La seconda conseguenza è più ovvia, ma altrettanto gravida di danni irreparabili. Se gli uomini non “scoprono” ma “inventano” la società e neppure “accettano” ma “creano” le sue leggi fondamentali, allora (a maggior ragione) tutte le leggi valide per la società saranno contrattabili fra i membri che la compongono; non esisteranno più “leggi naturali”, ma solo “leggi positive”: le norme della società non saranno precisazioni o interpretazioni di quelle “iscritte nel cuore dell’uomo”, ma libere decisioni e deliberazioni dei suoi membri o, almeno, della loro maggioranza. Siamo vicini alla suggestione faustiana del tentatore nell’Eden: “Sarete simili a Dio, conoscendo il bene ed il male” (anzi, creando voi l’uno e l’altro).
La seconda dottrina più importante per le innovazioni di cui era gravida, è stata quella dell’Egualitarismo. A livello teoretico, gli illuministi sono concordi nel proclamare la uguaglianza di tutti gli uomini, perchè partecipi dell’unica ragione. Naturalmente, vi è una differenza tra un Rousseau[31], uscito dalla Ginevra calvinista e abituato alla reggenza repubblicano-democratica, con la massa degli altri pensatori, che propendevano, di fatto, verso una monarchia moderata, costituzionale: il modello era l’Inghilterra. Ma, siccome esiste quella forza della psicologia umana testè ricordata in nota, la logica o coerenza, così nella rivoluzione francese il processo di sviluppo dell’egualitarismo bruciò i tempi e, ucciso il re, precipitò nella repubblica, che solo il potere militare di Napoleone rovesciò. L’egualitarismo implica evidentemente la soppressione di ogni casta nobiliare, in cui il re è l’apice della piramide. Si noti, per altro, che il principio della “ragione” permette anch’esso le sue distinzioni tra chi è ancora ignorante (il popolo, la massa) e gli intellettuali che hannoa accesso ai “lumi” della conoscenza. La distinzione fra più o meno intellettualizzati (intelligenti?) non si accampa soltanto, ma subisce deformazioni notevoli. Alla attività politica, visto che un “misuratore d’intelligenza” indiscusso non è stato ancora inventato, praticamente sono ammessi solo quelli che hanno studiato: in pratica si tratterà ancora di nobili, ma posti in minoranza dai rampolli della borghesia, ormai fiorentissima in Inghilterra come in Francia, che hanno anch’essi avuto accesso alle aule della scienza universitaria. Il passaggio, quindi, dalla monarchia assoluta a quella costituzionale non equivarrà alla concessione del voto a tutto il popolo, ma solo alle classi abbienti: si avrà così il governo di una oligarchia censitaria (basata sulle tasse pagate, cioè sui possedimenti ed il reddito), fino al principio del secolo XIX: il grado di benessere soppianta il grado di nobiltà, ma esclude sempre il popolo povero
Non si può negare, tuttavia, che qualcosa di cristiano era pur rimasto in questi intellettuali borghesi, che si occupano del miglioramento della condizione delle classi sociali: “tutto per il popolo; niente attraverso il popolo” è un po’ il motto del dispotismo illuminato nel settecento europeo. E Giuseppe II dà disposizione legislative per l’igiene, il nutrimento dei figli piccoli, ecc. Voltaire (di cui vedremo in nota le contraddizioni) a Ferney impianta industrie e adotta provvedimenti per incrementare salute e benessere dei suoi sudditi feudali... Non è un caso che la “rivoluzione” nella sua triade ideale comprenda anche la “fraternità”, un chiaro residuo evangelico, che sarà però il primo a scomparire, travolto dal troppo odio disseminato dagli intellettuali senza più la fede cristiana. I quali giungono non solo al disprezzo per “le populace”, ma anche all’insulto ed allo sfruttamento più crudele: è Voltaire che chiama “canaglia” il popolo; che disdegna Rousseau, perchè figlio di un calzolaio; e che si congratula col direttore della Compagnia per la tratta degli schiavi, per l’ottimo rendimento delle azioni da lui pure possedute. Parini si accontenterà di ricitare Orazio (“odi profanum vulgus et arceo”), nell’ode Alla Musa, scrivendo di sè che “alto disdegna il vile| volgo maligno”. Ma è Jacques Necker, il banchiere ginevrino, ministro delle finanze in Francia prima della rivoluzione, ad esprimere il pensiero più cinico: “più il carico delle imposte tiene il popolo nell’abbattimento e nella miseria, più diventa indispensabile dargli una istruzione religiosa”.[32]
Il cosmopolitismo. Se unica è la ragione, unica sarà l’umanità che ne è dotata; ed allora unica dovrà essere la organizzazione civile che raduna in unica famiglia gli uomini tutti. A generare e diffondere una simile dottrina contrinbuirono ovviamente anche i numerosi viaggi all’estero, divenuti ormai una moda (si veda il “giovin signore” ne Il Giorno del Parini). Era certo una concezione sostanzialmente esatta (se ne tenterà l’avvio con le “Nazioni unite”,dopo la prima guerra mondiale, con una ripresa più efficace, dopo la seconda, nell’ONU), certo generosa ed aperta, ma altamente intempestiva e, perciò ingenua. La ragione non è l’unica dimensione dell’uomo e spesso le componenti minori e diversificanti (razza, lingua, religione, costumi morali e folcloristici) danno scacco a quelle essenziali, cioè alla ragione teoricamente unificatrice. Tanto più che, per realizzare un’unità mondiale, occorre disporre di mezzi di comunicazione adeguati, pena il non riuscire neppure a conoscersi, nonchè a collaborare. E’ vero che proprio la maggior facilità e frequenza dei viaggi avrà contribuito non poco al sorgere del senso di “patria comune” e di comunione fra gli intellettuali, in sempre maggior contatto anche epistolare fra di loro, ma le persone in grado di simili condivisioni di luoghi e di idee erano poche migliaia, di fronte ad una massa che aveva ancora da risolvere il problema della sussistenza e non disponeva certo di tempo per sognare una comunità internazionale unica. Tanto più che era scomparsa in occidente quella comune matrice di pensiero che è la religione, l’identità della quale unisce talmente le intelligenze, che si può veramente parlare, per l’età medioevale in Europa, di una “ santa repubblica romana”, pur nella permanenza di organizzazioni statali spesso in guerra fra loro. Gi interessi erano diversi, ma la concezione della vita e le leggi di comportamento erano elementi unificatori che permanevano al di là di ogni dissenso economico e politico: e la lingua delle élites colte, il latino, ancora nel Millesettecento serviva da tramite comune per la diffusione delle idee, a cominciare dalle cattedre universitarie.
Il “cosmopolitismo” illuminista si rivela così una “cartina di tornasole” rispetto a tutta la mentalità razionalistica: grandi princìpi generali, seminalmente esatti, ma di una incompletezza tale, da destinarli al fallimento immediato od alla precarietà perenne. Anche un adepto convinto come Vincenzo Cuoco (1770-1823), finirà per criticare il modo astratto e violento con cui si era tentato di imporre idee e metodi di governo nel Napoletano, creando la“repubblica partenopea”(inizio 1799), in base ai princìpi della rivoluzione francese (Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli). Egli finì per aderire alle idee di G. B. Vico, ricavando, dalle sue meditazioni sulla gradualità della maturazione umana nel corso di prolungate epoche storiche, il corollario della parallela gradualità, necessaria perchè riesca il tentativo di applicare, a popoli ancora impreparati, le istituzioni adatte a popoli più progrediti. Il secolo successivo, rifugiandosi per contrapposizioone, nel concetto di patria sostanzialmente razzista (ad ogni popolo il suo stato) finirà per continuare a guerreggiare, ora per distruggere quella qualsiasi unità sovrannazionale stabilita dal predominio di alcune potenze in Europa su alcuni popoli (l’Austria, particolarmente); ora per ricucire le divisioni residue del feudalesmo medioevale (Italia|Germania), perpetuando in ogni modo le guerre, le violenze, le distruzioni operate da Napoleone per fare dell’Europa una nuova unità, dominata o sorvegliata dallo impero francese. Tuttavia non si può negare che l’Illuminismo rilanciò e rinnovò quell’idea di unità dei popoli, a fare la quale (fra le quasi 200 nazioni della terra) stiamo tentando noi, ma con grande sofferenza, pazienza e fallimenti tattici.
La monarchia
“moderata” d’Inghilterra e quelle “illuminate” sul continente.
La forma esaltata dai pensatori illuministi per il governo dei popoli è, dunque, la monarchia temperata, che vede nell’Inghilterra il modello concreto: almeno fino a quando non arriverà il Rousseau con Le Contrat social. Il libro più importante al riguardo è L’esprit des lois (1748)di (Carlo di Secondat, barone di La Brède e di) Montesquieu (1689-1755). Le sue notazioni caratterizzano i vari modelli di governo (la tirannide basata sul timore; la monarchia, sull’onore; la repubblica, sulla virtù), ma soprattutto isolano (per la prima volta) il principio che garantisce al meglio la giustizia nei rapporti fra cittadini e governo: la separazione dei tre poteri fondamentali, legislativo, esecutivo, giudiziario.
Pel momento, come si è detto, le monarchie continentali procedono invece con un altro principio: “tutto per il popolo; niente per mezzo del popolo”. Pure, i monarchi “illuminati” si propongono di migliorare la salute e l’igiene, la istruzione e l’economia dei sudditi. Si prenda il catasto: esso stimolava anche i nobili a migliorare il rendimento delle loro terre, costringendoli a pagare in proporzione del loro reddito. E non era, questo, neppure il primo suo effetto positivo. a monte stava il fatto che il re od imperatore doveva servirsi sempre più di competetnti per redigere una simile innovazione. Il catasto è attuato da Pompeo Neri e da Fr. M. Gianni per la Toscana e la Lombardia. Assieme al Tanucci (anch’egli toscano, di Stia in provincia di Arezzo, ma divenuto primo ministro dei Borboni a Napoli dal 1734 al 177), sono esempi della classe borghese che arriva al potere, come consiglieri e collaboratori del sovrano, a preferenza dei nobili: l’istruzione universitaria conta più della discendenza e del sangue. Anche il conte di Firmian che governò la Lombardia dal 1759 al 1782 per la imperatrice Maria Teresa, si avvale di nobili come il conte Pietro Verri ed il marchese Cesare Beccaria, ma non sdegna la collaborazione della borghesia.
E non si tratta solo del catasto: la tortura viene abolita in Austria e Prussia; in Toscana, addirittura, viene cancellata la pena di morte (Pietro Leopoldo, codice del 1786).
In Italia non manca qualche scrittore in favore della indipendenza dell’Italia, ma si tratta di voci isolate: Vittorio Alfieri soffre e scrive per tale ideale; su “Il Caffè” (il foglio trimensile di P. Verri) compare un articolo in tal senso a cura dell’istriano Rinaldo Carli “Della patria degli Italiani”. Ma che ci fosse la coscienza dell’Italia come nazione ben definita, lo dimostrano i Rerum italicarum Scriptores, gli “Annali d’Italia” e le Antiquitates italicae Medii Aevi” di L. A. Muratori.
Il contributo italiano al dibattito socio-politico.
I centri di riflessione su tali temi sono Napoli e Milano: la scuola meridionalista è più “spazzante” e teoretica; quella milanese (ececttuato Cesare Beccaria) è più limitata, ma più pratica.
La scuola meridionalistica
GAETANO FILANGIERI (Napoli: 1752-1788). Nella sua breve vita, potè condurre a buon punto il progetto dei sette volumi sulla Scienza della legislazione: fra il 1780 ed il 1785 curò la edizione dei primi quattro libri, lasciando frammenti per ricostruirne un quinto. Il primo volume dimostra che le leggi hanno per fine la conservazione e la tranquillità sociale; il secondo tratta della popolazione e della ricchezza; il terzo, della procedura giudiziaria e delle leggi criminali; il quarto, della pubblica educazione; il quinto, delle leggi circa la religione; il sesto ed il settimo dovevano trattare della proprietà e della famiglia. Sebbene risenta del pensiero vichiano (evoluzione della umanità e, quindi dei costumi), tuttavia egli è, sostanzialmente, un razionalista: più improntato a Rousseau che a Voltaire. E’ candidamente ottimista: crede in una legislazione ideale, capace di curare i mali (anche economici) della società; crede nella natura benevola che, come provvede con i prodotti del suolo al nutrimento dei popoli, così aiuta a superare le asprezze dell’apprendimento con una pedagogia ispirata alla spontaneità; è pacifista ed umanitarista, credendo un po’ astrattamente nella bontà della persona. Naturalmente, è fisiocratico ed in favore del libero commercio: cardine della vita economica rimane per lui l’agricoltura. Il candore generale non gli impedisce, per altro, di suggerire rimedi concreti e di scendere a particolari specifici: rimedi ai mali del “Regno” devono essere l’abolizione del feudalesimo e dei privilegi nobiliari od ecclesiastici, del latifondismo e delle imposte interne (unica deve essere l’imposta per tutto lo stato); l’introduzione della istruzione a cura dello stato, la libera circolazione delle merci, la riforma della procedura penale... L’opera conobbe traduzioni in varie lingue e diede fama all’autore morto a soli 36 anni. Napoleone lo disse “maestro di tutti”; B. Franklin ne diffondeva l’opera; Goethe venne a visitarlo... L’opera ha anche una sua carica emotiva che l’avvicina a “Dei delitti e delle pene” del Beccaria. Ma la Chiesa la mise all’indice: per il giurisdizionalismo, che rendeva la Chiesa dipendente dallo Stato e per i postulati razionalistici, che supponevnao una natura russoianamente incorrotta, negando, almeno implicitamente, la colpa originale.
FRANCESCO MARIO PAGANO (1748-1799). Nato a Brienza (Basilicata), studiò a Napoli alla scuola del Genovesi. Precoce fu la sua carriera universitaria: a 21 anni insegnava morale, passando nel 1786 alla cattedra di diritto criminale. Precoce fu la sua opera di scrittore: la sua prima opera, sul diritto presso i Romani (Nomotesìa) , è del 1768. Precoce fu la sua morte: dopo aver perso la cattedra per simpatie con la rivoluzione francese, egli, rientrato dall’esilio fra Roma e Milano, partecipò al governo dello Championnet nella repubblica partenopea, della cui carta costituzionale fu l’estensore principale: rentrati i Borboni a Napoli, nonostante la resa onorevole firmata con il cardinal Fabrizio Ruffo, fu giustiziato il 29 ottobre 1799 assieme al medico Domenico Cirillo ed al poeta Ignazio Ciaja, soprattutto per volere della regina e dell’ammiraglio inglese John Francis Edward Acton.[33]
Del Pagano non ci interessanto tanto i “monodrammi” o soliloqui teatrali (Agamennone, Corradino, Gerbino...: il soliloquio è variato dall’intervento di un ulteriore personaggio, che serve però solo a mettere in luce il tormento del protagonista), ma soltanto le opere di diritto e “filosofia della storia”. Già nelle Considerazioni sul processo criminale o teoria delle prove (1787), egli si occupa di procedura nei processi criminali, integrando il Beccaria, che si interssa unicamente del rapporto tra la pena e lo scoraggiamento del delitto, cioè di un problema psicologico, non strettamente giuridico. Van tenuti presenti, in proposito, anche i postumi Princìpi del codice penale (1803). Ma l’opera più significativa è costituita dai sei Saggi politici, che è conosciuta più solitamente come “Del civile corso delle nazioni”. Fece in tempo a curarne due edizioni (1783-5, in due volumi; 1791-2, in tre): in essa, egli attua una sintesi tra il Vico ed il Montesquieu, ma avendo presenti altri autori razionalisti francesi, da N. A. Boulanger (L’antiquité dévoilée par ses usages: 1766) a C. F. Dupuis (Mémoires sur l’origine des constellations et sur l’explication de la fable par moyen de l’astronomie: 1781), da A. Fergusson a Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon ( Histoire naturelle in 36 volumi, finiti nel 1779), a Gabriel Bonnot de Mably (che, partendo da idee democratiche –i re sono fatti per i popoli e non i popoli per i re-, perviene ad un ideale platonizzante di repubblica comunistica), da Victor Riqueti de Mirabeau (Filosofia rurale: sostiene la fisiocrazia) a molti scrittori italiani: Genovesi, Filangieri, Francesco Antonio Grimaldi (Annali del Regno di Napoli), Alessio Aurelio Pelliccia (Cronache e diarii del Regno di Napoli). Egli proclama il Vico primo studioso di filosofia della storia, ma vuole mettere in rilievo, accanto alle forze interne all’uomo che incidono sulla evoluzione della psiche e della storia (dalla forza al diritto, dalla fede alla ragione, dal mito alla filosofia), anche le forze ambientali, che il Vico ha trascurato: guerre e conquiste, commerci e ricchezze, cataclismi naturali e configurazione conseguente del territorio in cui si trova ad operare un popolo. Insomma accanto alla “Gestalt” (nature) si pone il “Behaviour”(nurture), accanto alle spinte biologiche stanno quelle ambientali, accanto alla “fusis” (natura) umana agisce la geografia, accanto ai cromosomi sta la società: è questa la filosofia della storia del Pagano, che trascura però l’elemento radicalmente nuovo nell’agire umano, cioè la libertà interiore o libero arbitrio.
FERDINANDO GALIANI. Nato a Chieti nel 1728 da famiglia foggiana, fu abate e, quindi, membro del clero, ma lavorò come segretario alla ambasciata napoletana a Parigi dal 1759 al 1769. La sua opera principale sono le Lettere (in francese): in esse giudica con spirito disinvolto e caustico i costumi e la produzione poetica, gli uomini e le istituzioni, le riforme e le ideologie, componendo, senza saperlo, un piccolo capolavoro della storia letteraria... francese. Ma, escluso dalla grande sala della storia letteraria italiana, egli si installa con sicurezza nell’atrio di essa, come testimone del tempo, del cui spirito partecipa... a suo modo, rivelandosi spirito disincantato e scanzonato, fino allo scetticismo sull’umanità ed il suo vano agitarsi, ma sforzandosi di contribuire al miglioramento delle tecniche sia economiche che politiche..
Che albergasse sotto il suo cuoio capelluto qualche grillo poetico, lo dimostra anche il fatto che almeno l’idea originaria, la trama generale e qualche scena dell’operetta lirica Socrate immaginario appartengono a lui (il testo, per lo più, fu steso da Giambattista Lorenzi e la musica è di Paisiello: Napoli, 1775). Morì a soli 58 anni nel 1787.
Come pensatore, egli oscilla tra il semplicismo delle teorie razionalistiche ed il buon senso residuo della coscienza circa la complessità dell’uomo e della società. Si prenda il campo religioso: crede nella libertà dell’uomo (non è determinista), pur affermando ambiti di “necessità” che le sfuggono; è miscredente, immanentista, sensista, eppure crede nella utilità della religione per la educazione ed il governo dei popoli; egli partecipa della cultura dei lumi, ma rifiuta come utopistico l’ottimismo che lo permea ingenuamente. La stessa altalena la ritroviamo in sede di pensiero economico: nei suoi Dialogues sur le commerce des blés (Londra, 1770), egli si rivela sostanzialmente un fisiocratico, ma riconosce con equilibrio la necessità del protezionismo, distinguendo nazione da nazione, situazione concretamente diverse nelle condizioni economiche dei vari popoli. Da giovane aveva scritto un piccolo trattato Della moneta (1751), intuendo una delle componenti del valore delle merci: la loro relativa rarità ed utilità. E la commistione di princìpi disarmonici la ritroviamo anche nella trattazione politica, affidata all’opera “De’ doveri de’ prìncipi neutrali verso i prìncipi guerreggianti e di questi verso i neutrali” (1782). Egli vi rifiuta la ragion di stato e nega che la forza, anche vittoriosa, generi il diritto; vuole perciò che anche nella politica trionfino le ragioni morali. Eppure egli sostiene che le società civili nascono da una simbiosi di ragione e passionalità e progrediscono per il sinergismo di ordine e disordine: la politica è l’arte di fare il maggior bene col minor sforzo possibile...
Se un principio unificatore si vuol ritrovare in lui, è quello di considerare la vita tutta come un’opera d’arte. Come egli intuisce che a far poesia concorrono ragione e fantasia, intelligenza ed emotività, così la economia deve fondarsi su princìpi teoretici e su bisogni immediati; e la politica, sulla libertà come sulla prepotenza. Ma la vita può essere vissuta come opera d’arte? Sarà il tentativo della prossima stagione letteraria, il Romanticismo: con effetti non propriamente incoraggianti.
NICOLA SPEDALIERI. Nacque a Bronte (Catania) nel 1740 e morì a Roma nel 1795.
Nell’ambito del pensiero socio-politico, questo prete uscito dal seminario di Monreale (il maggior centro culturale della Sicilia) interessa per l’ultima sua opera Dei diritti dell’uomo libri VI, ne’ quali si dimostra che la più sicura custode de’ medesimi nella società civile è la religione cristiana.... Uscita nel 1791, era un’apologia del cattolicesimo in campo socio-politico. D’altronde, apologetica era stata anche la sua opera antecedente: Analisi dell’esame critico del signor Nicola Fréret sulle prove del cristianesimo (Roma 1778).[34] Altra opera apologetica ed altro successo: Confutazione dell’esame del Cristianesimo di E. Gibbon (1784). Contro il razionalista inglese, lo Spedalieri dimostra facilmente la impossibilità di spiegare umanamente le origini e diffusione del Cristianesimo. Pio VI lo accettò come canonico della basilica vaticana (una eccezione a quei tempi, che vi vedevano ascritti solo rampolli di famiglie nobiliari. Guai, invece, gli procurò l’ultima e più famosa opera, la già citata “Dei diritti dell’uomo”. Essa si volge contro tutto il sistema razionalistico ed in particolare contro i princìpi della rivoluzione scoppiata in Francia due anni prima della edizione del libro. La prima edizione era stata concordata col Vaticano, da pubblicarsi colla falsa indicazione ad Assisi. Altre tre edizioni seguirono a breve etermine: ma l’opera venne messa al bando da tuttte le corti cattoliche d’Europa e, morto l’autore a soli 45 anni, si parlò di avvelenamento. L’equivoco nasceva da tesi non nuove nella dottrina cattolica, ma non molto diffuse o predicate: che la sovranità sussista nel popolo, il quale la delega al sovrano; che, se questi si fa tiranno e rompe il patto naturalmente esistente fra governo e bene del popolo, decada dal suo potere-funzione e possa essere eliminato, tutte queste erano tesi che la Chiesa non respingeva e che erano già state insegnate dal domenicano Francisco de Vitoria e dal teologo gesuita Francisco Suarez nei secoli XVI e XVII: ma, risuscitate in quel momento storico (1791!), destarono scandalo perchè sembravano approvare i disordini e la tragedia della rivoluzione francese. L’equivoco suscitato dal libro fu tale che nel 1903 la massoneria innalzò un monumento in bronzo allo Spedalieri, come ad illuminista emarginato dalla Chiesa, perchè rivoluzionario e giacobino. Nulla invece di simile si può sospettare nel prete siciliano, deciso a prendere in contropiede i razionalisti, scendendo sul loro terreno con princìpi analoghi ai loro, ma ispirati alla tradizione tomistica, non al russoianesimo settecentesco. Così la sua adesione ai princìpi umanitari e politici della libertà, uguaglianza e fraternità nasce dallo studio della persona umana, che però fonda anche i paralleli doveri della vita morale, del rispetto ed aiuto recioproco che solo il cristianesimo riesce a giustificare con la legge della carità. Di qui la sua rinnovata battaglia contro ateismo, deismo, religione naturale, giansenismo e massoneria. Ma tant’è: così si travestono spesso le fame nel nostro mondo...
La scuola milanese.
Mentre gli studiosi dell’Italia meridionale prospettavano nuovi cieli e nuova terra, costituzioni e sistemi legislativi a largo raggio e lunga scadenza, a Milano, più prosaicamente, e con mezzi più spicci, ci si preoccupava di progettare qualcosa di pratico, di immediatamente utile ed ottenibile dalle autorità che –fino allo scossone napoleonico- sembravano inamovibili ed erano incombenti. Niente, quindi, libri di molti tomi: studi brevi ma sorprendenti, come il libretto Dei delitti e delle pene del Beccaria; o addirittura articoli di giornale, su periodici progressisti e combattivi. Il caso paradigmatico fu Il Caffè, organo della “Società dei Pugni”, che Pietro Verri fonda, uscendo dall’Accademia dei Trasformati (per motivi non precisamente edificanti, a dir il vero: insofferenza pei successi del Parini, con invidia solo intellettuale od anche concorrenza erotica?). Il Caffè si pubblica ogni dieci giorni, cioè trre volte al mese, dal giugno 1764 al maggio 1766: due annate piene, quindi. Gli argomenti sono i più vari: tratta di letteratura, psicologia (problemi della felicità, del piacere e del dolore, dell’arte in genere), lingua, economia, scienze e tecnica, diritto e costumi... Accanto al corifeo –che detta il titolo, ben significativo, del periodico ed il nome per l’accademia di cui esso è portavoce- stanno collaboratori anche più famosi (Cesare Beccaria ed il fratello minore di Pietro, Alessandro) oppure più oscuri (Giuseppe Visconti, Pietro Secchi, Alfonso Longo, Sebastiano Franci, Luigi Lambertenghi, Giuseppe Colpani, Paolo Frisi, Gian Rinaldo Carli). Rifuggono dalle impostazioni filosofiche, benchè il Verri si riveli poi sensista nei suoi trattati di psicologia; ed il Beccaria rischi di apparire “contrattualista”, nonostante le ripulse in proposito fatte premettere al suo capolavoro (A chi legge). Tutti sono “liberisti” (fisiocratici) in economia, tutti più o meno vicini all’Illuminismo, specie al Locke ed al Montesquieu, all’Enciclopedia ed al Condillac. Erano filofrancesi per la lingua e mossero guerra ai pedanti della proprietà, attirandosi le critiche acerbe sia del Parini che di Giuseppe Baretti.
PIETRO VERRI (1728-1797).
La vita e le opere. Uno dei quattro figli del conte e senatore Gabriele[35], dopo gli studi presso i gesuiti e barnabiti (ultimati al collegio dei Nobili, gestito dai gesuiti a Parma), si trova in contrasto colla rigida disciplina del padre (che è vicario di provvisione) e, rifiutati gli studi giuridici cui quello lo destinava, si arruola come capitano al servizio dell’Austria nella guerra contro la Prussia, ritornando a Milano nauseato della vita militare. Siamo al 1760. Nel 1751 aveva pubblicato una canzonatura in più lingue (dal greeco al... meneghino!) contro uno sciupaversi spagnolo, avvocato a Milano (Burlanda impasticciata). Ora pubblica degli almanacchi (il Gran Zoroastro| Mal di milza| un secondo Gran Zoroastro per l’anno bisestile 1764) a scopo satirico-morale, canzonandovi la corruzione di nobili, clero e le superstizioni popolari. Nel frattempo insorgono le gelosie letterario-amorose col Parini e il Verri fonda con un gruppo di amici la Società dei Pugni, in opposizione alla Accademia dei Trasformati, in cui signoreggiava il Parini. Dal 1765 al 1766 fonda e dirige Il Caffè, nei cui settantadue numeri egli pubblica trentotto articoli: economia e commercio, vaccinazione (innesto del vaiolo), coltivazione (del lino), costumi (lusso e spensieratezza), lettartura (maschere, lo spirito della letteratura italiana)... sono gli argomenti principali. Erano argomenti su cui aveva scritto di recente (Dialogo sul disordine delle monete nello Stato di Milano: Lucca, 1762| Meditazioni sulla felicità (Lucca, 1763| Memorie storiche su l’economia pubblica dello Stato di Milano: edito postumo nel 1804).[36] La cessazione del Caffè nasce principalmente dalla partenza del fratello per Roma: la corrispondenza fra i due, che si prolunga per oltre un trentennio sino alla morte di Pietro, è una testimonianza eccezionale sulla vita e cultura italiana della seconda metà del secolo. Cessato Il Caffè, egli incominciò ad esere impiegato dalla amministrazione pubblica austriaca, di cui parleremo ben presto. Ecco, intanto, il seguito delle sue scritture. Nel 1769 stende (prima del Galiani, dunque) le Riflessioni sulle leggi vincolanti il commercio de’ grani; e Le osservazioni sulla tortura: ma la loro edizione è postuma (1796 e 1804). Invece nel 1771 pubblica a Livorno l’opera migliore e più diffusa (traduzione in francese e tedesco): Meditazioni sull’economia politica, dove anticipa Adamo Smith nella indicazione delle leggi che governano la produzione delle ricchezze (La “Inquiry” è del 1776). Nel 1773 stampa il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, in cui sostiene essere il dolore lo stimolo più costruttivo nell’uomo, perchè lo strappa allo stato di stupidità ed inerzia e lo induce alle opere più alte, sino all’eroismo ed alle grandi produzioni artistiche: il piacere non sarebbe che “la rapida successione (cessazione?) del dolore”. Nel 1781 ristampa queste ultime due opere con quella del 1763, mutando leggermente il titolo ( Discorso sulla felicità): sono le tre opere cui il Verri teneva di più. I Pensieri politici sulla Corte di Roma e sul Governo della repubblica veneta sono del 1783, ma furono editi solo nel 1825, a Lugano; del 1777 sono i Ricordi alla figlia; del 1783-5 è la Storia di Milano (il secondo volume, che giunge ai fatti del 1792, fu compilato ed edito, utilizzando appunti del Verri, da Pietro Custodi nel...1890!). Si noti che fino a quest’opera ed al 1786, il Verri è favorevole al dispostismo illuminato di Maria Tersa e di Giuseppe II. Del 1787 sono le Memorie appartenenti alla vita ed agli studi del signor D. Paolo Frisi. Ma è soprattutto con i Pensieri sullo stato politico del Milanese nel 1790 (indirizzato al nuovo imperatore Leopoldo II) che si sfoga la critica verso l’assolutismo ed il malgoverno precedente, critica che si fa aperta e continua nella Memorie di cambiamenti pubblici dello Stato di Milano; e nella Storia della invasione francese nel Milanese nel 1796. Esiste pure un Dialogo fra Pio VI e Giuseppe II; e La decadenza del papato (edito nel 1825).
Il pensiero del Verri. Ha mutazioni che si spiegano anche con le vicende tumultuose della sua vita esteriore. Uomo abbastanza completo, perchè contemporaneamente buon pensatore ed attore pratico, non fu eccezionale in nessun ambito di vita, sicchè lo vediamo oscillare nel pensiero e nell’attività, ubbidendo in parte alle pressioni ambientali, sia di cultura (scrittori illuministi francesi) sia di politica (avvento dei francesi a Milano) sia di vicende personali (coinvolgimento nel governo austriaco di Milano dal 1764 e suo defenestramento nel 1786). E’ per questo che le vicende esistenziali a partire dal 1764 le abbiamo riservate a questo punto. Da principio non incontrò il favore del conte di Carlo Giuseppe Firmian, che bocciò la sua proposta di riforma delle “ferme” o ditte appaltatrici delle riscossione di tasse, divenute – specialmente quella del tabacco- sfacciatamente prepotenti (pare che giungessero a “creare” un presunto contrabbando di tabacco, buttando pacchi di foglie della pianta nei giardini di gente, che doveva poi pagare multe sproporzionate per la presunta illegalità). Ma a Vienna il Kaunitz accettò il progetto ed il Verri viene chiamato a far parte della Giunta che le attuò: è questo il successo più importante di tutta la sua opera politico-amministrativa. Egli riesce a far passare gli appalti dapprima a “ferme miste” (parte private e parte statali) e, poi, nel 1770, alla “regìa”, cioè ad un ente puramente statale. Nel 1772 è fatto vice-presidente del Supremo consiglio dell’Economia; nel 1780, presidente del Consiglio camerale e nel 1783, “consigliere intimo dello Stato”. Ma la carriera del Verri (che nel 1776 aveva sposato una sua nipote -Maria Castiglioni- avendone una figlia –Teresa-) si ferma qui: la abolizione delle “ferme” gli aveva creato molti nemici. Nel 1786, soppresso da parte di Giuseppe II il Consiglio camerale, il Verri si trovò estromesso da ogni incarico. Nel frattempo gli moriva il padre e la moglie (1782), e dovette affrontare litigi coi fratelli per la divisione della eredità. Anche da questi fatti (lo si è già accennato) si spiega il progressivo distacco dalla monarchia austriaca e l’accostamento agli invasori francesi. Egli giunge a giustificare il Terrore con espressioni di pretto machiavellismo: “E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto si mantiene poco tempo... quando si ragiona di anatomia, non conviene aver ribrezzo di un cadavere e quando si ragiona delle rivoluzioni degl’imperi, si cerca quello che è vero anche attraverso a oggetti che fanno fremere”.[37] Nel 1796 egli accettò di entrare (col Parini) a far parte della municipalità repubblicana di Milano, restandovi nonostante le soperchierie che ne allontanarono il poeta brianzolo: morì per apoplessia in piena seduta notturna della municipalità stessa (28 giugno 1797). Gli fu risparmiato il contraccolpo che si sarebbe avuto con il sia pur breve ritorno degli Austriaci nel 1799.
In questo agitarsi di azione e moltiplicarsi di scritti, possiamo trovare un pensiero sostanzialmente, ma non totalmente, coerente. Così fu deista in religione, ma con titubanze notevoli. Egli invita la figlia a credere ed ubbidire alla Chiesa, evitando però le superstizioni (cioè?): Ricordi alla figlia: 1777). Vuole la Chiesa ridotta alla semplicità primitiva (Atti degli Apostoli?), senza accordi con l’autorità civile, del tutto povera e solo spirituale: all’avvento, però, di Napoleone in Italia, scrive La decadenza del papato, parlandone come di un relitto dei tempi tenebrosi. Egli difende la libertà religiosa e l’abolizione dei privilegi da parte di Giuseppe II, ma tace degli aspetti persecutori del giurisdizionalismo, come la soppressione di ordini religiosi, che con la libertà di culto erano in netto contrasto. Segue l’Illuminismo nel colpevolizzare la Chiesa per l’ignoranza medioevale e nel vedere il superamento della Riforma tridentina e dell’aborrito Seicento grazie all’avvento dei “lumi” della ragione. Nella soppressione della Inquisizione egli sottolinea la scomparsa dei processi contro maghi e streghe e la vede allora come una conquista da mettera alla pari con l’abolizione della tortura (Memorie appartenenti alla vita del signor D. Paolo Frisi).
Circa l’uomo (antropologia) è sensista ed utilitarista: propone il piacere come assenza di dolore[38]; il piacere artistico, come attività capace di liberare l’animo dalla melanconia e dalla depressione, cioè come rimedio non contro il dolore fisico, ma contro quello psicologico. Segue, in questo, d’Holbach ed Helvétius.
E’ liberista (“la libertà e la concorrenza sono l’anima del commercio”) e appoggia la libera circolazione delle merci all’interno della monarchia austriaca. La libertà economica e la soggezione all’utile ed al piacere inducono al “contrattualismo”, nel senso che la società non può più far conto sul libero arbitrio e non può, quindi, presupporre leggi naturali di valore universale. La difesa della libertà esteriore, individuale, impedisce il dispotismo: il patto di fondazione della società (che egli, per altro, in un ultimo sussulto di realsimo, ha il coraggio di chiamare “immaginario”) non può dunque affidare lo Stato ad un sovrano assoluto [39]. Egli prevede che la libertà si sarebbe allargata: “Tale è il moto adunque che in questo secolo ha l’Europa, onde con fondamento prevede il saggio (l’uomo saggio) che la libertà civile delle nazioni dovrà dilatarsi”.[40] Così, in Della economia politica (1771) egli afferma: “... gli interessi di molta parte de’ cittadini, l’azione de’ quali benchè minima, presa nei suoi elementi, produce però sempre sicuramente l’effetto quando molti e molti piccoli elementi cospirano a un dato fine”.
Benchè dunque piuttosto reticente, egli è inclinato alla “libertà liberale”, cioè ad un governo inquadrato da una costituzione ed uscito dalla volontà popolare: si vedano i “Pensieri”, editi in Scritti vari”, Firenze, 1854, II, pp. 7-16 e 32). Ma, in un simile ordinamento, che posto ha, non diremo la “legge divina”, ma almeno la “legge naturale” che pure il Verri afferma (col fratello Alessandro ed a nome del Beccaria) di non voler negare, anzi di presupporre alle leggi civili, che ne vorrebbero essere solo la specificazione nei dettagli, mutevoli con il contesto storico?[41]
La cronaca della evoluzione socio-politica di Pietro Verri (che giunge ad accettare la legislazione francese e, quindi, la introduzione del divorzio anche nella repubblica cisalpina); e la storia giuridica dell’Occidente negli ultimi secoli, a cominciare dalla rivoluzione francese, lo denuncia apertamente: la “rappresentanza popolare” dei parlamenti (sul modello inglese) o le votazioni referendarie dirette (di marca russoiana) hanno preteso definire non solo i particolari ultimi ma le radici stesse della legislazione, cioè non ammettono nessun principio (morale) assoluto e ribaltano ad arbitrio le norme della convivenza, dichiarando oggi lodevole (e degno di finanziamenti statali) quanto fino a ieri era considerato semplicemente delitto (caso del divorzio|bigamia, dell’aborto|interruzione della gravidanza, del suicidio|eutanasia, della droga )... Non se ne esce: il contrattualismo, all’atto pratico, coincide con il positivismo giuridico e col relativismo etico: l’uomo, divinità onnipotente, decide non solo quanto è (di tempo in tempo) meglio o peggio, ma vi riduce anche quanto dovrebbe essere, semper e pro semper (una volta ed eternamente) bene o male.
E’ cosmopolita, sino a considerare grettezza il nazionalismo ma, all’arrivo dei francesi, egli comincia a pensare all’indipendenza dell’Italia, rivendicando sia una “Costituzione” per la libertà interna e politica, sia una rappresentanza nazionale per quella qualsiasi indipendenza che era possibile aspettarsi dalla Francia di Napoleone.
Conclusione. A leggere la stupenda prefazione (A chi legge) per l’opera del Beccaria, vien da chiedersi: come mai gli altri scritti di Pietro Verri hanno bensì la chiarezza, ma non la completezza di visione, di dati, nei vari problemi presi in esame? e come mai la prospettiva negli scritti di Alessandro ha meno di acutezza razionalistica, possiede più di profondità sapienziale? Forse, se Alessandro, convertito, fosse rimasto accanto al fratello, la mente più acuta di questi sarebbe stata integrata dalla fantasia più vivace di quello; e tutti e due, collaborando, avrebbero integrato la loro individualità intellettiva, perpetuando nel tempo quella pienezza di verità, che sorprende in queste paginette e... fa pensare alla perfezione delle indagini psicologiche, quali saranno proprie di un uomo che (forse che sì, forse che no) sarà loro nipote, l’autore cioè dei Promessi Sposi, per la cui nascita dal fratello Giovanni esistono indizi, se non prove.
CESARE BECCARIA (Cesare Bonesana, marchese di Beccaria: 1738-1794).
Se non ci fosse il suo piccolo capolavoro Dei delitti e delle pene, il contributo della scuola milanese alla cultura illuministica si ridurrebbe a ben poca cosa: troppe le incertezze, i compromessi, le reticenze, gli andirvieni che aduggiano questi pensatori, sia che i loro dubbi nascano da autentica fede cristiana piuttosto che da paure socio-religiose o da innato buon senso. L’antologia ricciardiana dei seguaci più in vista delle nuove idee nella Italia centro-settentrionale ha preferito intitolarsi ai “Riformatori” piuttosto che ai “Pensatori”: difatti il loro contributo più sensibile ha interessato riforme pratiche (dall’istituto delle “ferme” alla riscossione delle tasse) più che non lo scardinamento dei valori tradizionali in sede di filosofia, di morale e di religione. Con ciò stesso le loro intuizioni innovatrici apparterebbero più alla storia economica e sociale che non a quella ideologica del nostro Millesettecento.
Ma vi è una eccezione, appunto: in Cesare Beccaria anche l’Italia settentrionale trova intuizioni acute e innovative che, direttamente, aggrediscono solo la casistica di una legislazione in parte superata, ma lasciano sospettare troppo ragionevolmente princìpi filosofico-illuministici nei ragionamenti proposti per convincere a mutare la valutazione di certi “delitti” e la misura di certe “pene”: sino alla soppressione della pena di morte. Non che tutte le proposte siano di prima mano: ma certo costituiscono una sintesi in se stessa nuova e fondata su intuizioni psicologiche acute sempre, anche se non sempre convincenti. Ma vediamo di conoscere, prima, l’autore, attraverso i fatti di vita, l’insieme delle sue opere e il temperamento complessivo che si riesce a intuire dagli scritti come dalla condotta pratica.
La vita e le opere. Alunno dei gesuiti, laureatosi in giurisprudenza a Pavia, sposò una donna, Teresa de Blasco, cui la famiglia era contrarisima, perchè non appartenente alla nobiltà.. Ne ebbe due figlie: la minore, Giulia, sarebbe stata la madre di Alessandro Manzoni. Si affiancò alle idee illuministiche, come rivela la lettera al traduttore in francese della sua opera maggiore, il Morellet[42]: accanto, però, ai nomi ivi citati con grandi elogi e viva riconoscenza (Montesquieu, Helvétius, Diderot, Buffon, d’Alembert, Hume e Condillac) va tenuto presente il Rousseau ed i suoi libri del 1762: Il Contratto sociale| Emilio o dell’educazione. Aveva appena vent’anni, quando si era laureato; a ventiquattro pubblica Dei disordini e dei rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762: previene di un anno il “Dialogo” sullo stesso tema, di P. Verri); a ventisei, pubblica a Livorno Dei delitti e delle pene, scritto in dieci mesi dal marzo 1763 al gennaio 1764; collabora con Il Caffè (Tentativo analitico sui contrabbandi; Frammento sullo stile; Frammento sugli odori) ed ottiene la cattedra di economia politica (“scienze camerali”) alle scuole Palatine, a soli trent’anni (1768: le lezioni saranno pubblicate pstume nel 1804 col titolo “Elementi di economia pubblica). Farà parte anche dei supremi consigli economici dal 1771 e, nel 1791, sarà nominato nella giunta per la riforma del sistema giudiziario. Diverrà, però, presto anche vedovo: a 36 anni sposa in seconde nozze Anna Barbò, da cui nascerà Giulio Beccaria, che sarà il fratellastro di Giulia e, quindi, “lo zio Giulio” nella vita e nell’epistolario del Manzoni. E morirà anche presto: a soli 56 anni, nel 1794. Il suo momento maggiore di gloria l’aveva avuto con le ripetute edizioni italiane e traduzioni straniere del capolavoro e col conseguente invito in Francia, dove Voltaire e Diderot avevavo fatto un commento elogiativo all’opera e dove fu accolto con entusiasmo, passando da un trionfo all’altro (ottobre- dicembre 1766). Personalmente titubante e ritroso, fu convinto al viaggio dai fratelli Verri; ed Alessandro l’accompagnò a Parigi. Ma il Beccaria era un introverso, con qualche disturbo fisico penoso (paure psicologiche ed irregolarità fisiologiche) e per di più era assillato dal desiderio della famiglia e fors’anche dal timore non infondati sulla fedeltà della moglie a Milano: dopo un paio di mesi (il 13 dicembre), se ne tornò a Milano, lasciando in asso Alessandro a Parigi. L’amicizia coi Verri era incrinata per sempre. Si veda particolarmente la lettera di Alessandro al fratello Pietro, del 19 ottobre 1766.[43]
La personalità. Vi si è già accennato con due aggettivi “titubante” e “ritroso”: incline, da una parte, a vedere troppi aspetti della realtà, senza sapersi decidere nel modo di affrontarla praticamente con l’azione, superando le incertezze teoretiche della mente; quasi pauroso, dall’altra, della folla, della vita movimentata, del trambusto... anche trionfale. Si può aggiungere che, mentre nel pensiero era audace sino alla temerarietà (che non si creda che tutti lo approvassero o che fosse solo la Chiesa a dissentire dalle sue idee: ci furono anche pensatori francesi e scozzesi a contraddirlo per stampa), il suo amore per la tranquillità si manifestava anche nella maggior pieghevolezza di fronte alla autorità costituita: al governo austriaco non diede i dispiaceri che ebbe a procurare il Verri, sicchè sino alla fine fu suddito ossequiente e consigliere ascoltato.
Tutto sommato, ci pare proprio un temperamento nervoso, anzi nevrosico: subpatologico e disequilibrato in senso vagotonicoprevalente, cioè troppo calmo e timido, troppo bisognoso di quiete e di protezione. E il nipote Alessandro, in questo, gli assomiglierà... fin troppo. Ma, per ciò stesso, saprà rievocare la figura del nonno con aderenza sorprendente: “Beccaria aveva tutte le illusioni di giovane, buona fede, smisurata convinzione nel trionfo di tutto ciò che a lui pareva verità. E verità gli pareva ciò che contraddiceva a ciò che aveva imparato a scuola. Esponeva da francese; semplice, senza frasi (retorica), e con molto sentimento”.[44]
IL PENSIERO NELL’OPERA “DEI DELITTI E DELLE PENE”. Eccone, anzitutto, lo schema. Cinque ci sembrano le parti dell’opera.
I primi sei capitoli sono più filosofici che giuridici: nel c. 1 l’opera teorizza l’origine delle leggi e della società e costata che molte disposizioni legislative, nascendo da passioni egoistiche, sono almeno sospettabili di essere contrarie al fine supremo della felicità dell’uomo (elenco di problemi che ne derivano); nel c. 2 tratta della “Origine delle pene e diritto di punire”; nei cc. 3-6 tratta delle caratteristiche generalissime delle leggi (scritte, chiare, da interpretarsi letteralmente).
I cc. 6-24 e 38, sono dedicati alla “proceura penale”, per proporre miglioramenti, emendamenti e rovesciamenti.
I cc. 25-37 ( più il c. 40) trattano, invece, di alcuni delitti in rapporto alla loro punizione.
Il c. 41 è dedicato alla prevenzione dei delitti stessi.
L’ultimo capitolo ribadisce il fine propostosi dall’autore.
Riassumeremo le proposte del libro, documentando con citazioni continue, mentre distribuiremo le nostre osservazioni fra testo e note e una sintesi finale. Abbiamo spostato la posizione dei cc.38 e 40, per una coerenza più completa (ci pare) della sistemazione della materia.
LE PREMESSE ANTROPOLOGICHE (
IDEOLOGICHE)
Lo scopo ultimo ed i fini penultimi nella riflessione beccariana. Il capitolo primo, intitolato “Introduzione”, apre l’operetta alla problematica più universale: la finalità della legislazione tutta, che coincide col fine ultimo della vita umana: “la massima felicità divisa nel maggior numero” (cfr. “ l’utilità comune”, opposta al “danno della società”, c. 24; e la “sicurezza di ciascun particolare (cittadino) del c. 27)”. Una simile panoramica deve fare i conti con l’antropologia e, quindi, con una filosofia più o meno esplicita sulla vita, anzi sulla natura umana, come sa bene l’autore, poichè afferma che le leggi dovrebbero esser “dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini”.
Ma subito l’attenzione a tale finalità suprema viene ristretta allo strumento legislativo e giudiziario che deve procurarla, sicchè durante la trattazione si parla di scopi più ravvicinati: “Le prime leggi e i primi magistrati (magistrature) nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo: questo fu il fine istitutore della società” (tale fine è detto “primario” in rapporto alla funzione immediata della legislazione: c. 28); “Il fine dunque (della legislazione e delle pene) non è altro che d’impedire il reo dal fare nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere (scoraggiare) gli altri dal farne eguali”. Diventa allora ovvio che “E’ meglio prevenire i delitti che punirli. Questo è il fine principale di ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità, o il minimo di infelicità possibile...” (c. 41: “Come si prevengano i delitti”). In realtà, vista la impossibilità di attingere un tale sia pur ridotto esito delle leggi, la “Conclusione” riassume nelle sue poche righe lo scopo immediato dello studio: “perchè ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi” (c. 42: in corsivo nel testo): conclusioni che sono una risposta generale alle domande più particolareggiate poste nel primo capitoletto (“La morte è ella una pena veramente utile e necessaria?...”) e trattate poi estesamente nel corso del lavoro.
Entrambe le finalità –ultima e penultime- sono difficili da attingere per le forze che le contrastano.
Pessimismo sulla natura degli uomini. Nasce da questa convinzione: i sensi sono più forti della ragione; le passioni, più efficaci delle idee. “...l’esperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili princìpi di condotta, nè si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per controbilanciare le forti impressioni delle passioni parziali, che si oppongono al bene universale: nè la eloquenza, nè le declamazioni, nemmeno le più subilimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti”. (c. 2). Si vedano queste altre espressioni: “ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo”, sicchè “Se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero”(ivi). Viceversa “tutte le idee di morale e di virtù... ad ogni minimo vento svaniscono” (c. 22); ed i sentimenti morali (sono) opera di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell’animo umano” (c. 23). Egoismo, dunque, irrimediabile? Lo scrittore ci darà presto risposta, ma non univoca.
Corollario positivo di tale antropologia pessimistica è l’origine contrattuale dello stato (contratto sociale).[45] Il ragionamento cammina in questi termini: “Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra, e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà, sacrificate al bene di ciascheduno, forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore”.(c. 2) [46]
Conseguenze dell’origine contrattuale delle leggi.
Diventa allora evidente anzitutto che la rinuncia ai diritti è minimalistica.: “Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a ceder parte della propria libertà: egli è dunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzione possibile, quella sola che basti ad indurre gli altri a difenderla. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire: tutto il di più è abuso, e non giustizia; è fatto, non già diritto” (c.2); “... quando si provasse che l’atrocità delle pene.... fosse inutile... essa sarebbe contraria alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo” (c. 3).
Conseguenza altrettanto evidente è quella che un cittadino possa essere condannato solo in base alle leggi, scritte dal “legislatore che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale”(c. 3). La deduzione è talmente logica, da sembrare evidente e quasi inutile. Eppure essa è gravida di applicazioni fondamentali: il cittadino non può essere condannato se non per leggi già emanate, sicchè è del tutto esclusa la retroattività delle leggi stesse (c. 3); inoltre, il giudice deve stare alla lettera della legge e non oltrepassarla in nome di un presunto “spirito della legge”: “Non v’è cosa più pericolosa di quest’assioma comune, che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”; anzi apre la strada all’arbitrio della tirannia: “Dovrei tutto temere se lo spirito di tirannia fosse componibile con lo spirito di lettura” (c. 4).
Che l’ingiunzione monteschiana, per cui il giudice non deve essere la stessa persona che detta le leggi (separazione tra potere legislativo e giudiziario); che, inoltre, il magistrato accusatore (pubblico ministero) deve essere diverso dal giudice; che anzi un membro della società non può assolvere o condannare, perchè parte in causa, sicchè chi assolve o condanna sono le leggi stesse, ebbene, questi sono princìpi teoretici o pratici indiscussi, perchè offrono il massimo di garanzia alla imparzialità del giudizio: che siano anche deducibili dal carattere contrattuale della legislazione, questo sembra evidente al Beccaria; a noi... un po’ di meno. (cc. 3 e 4).
Corollario negativo della antropologia pessimistica è la esclusione del concetto di uomo come “animale politico, cioè socievole (Aristotele), della connaturalità della vita consociativa, del “bene universale o comune o pubblico” come finalità di ogni organizzazione statale o (appunto) politica: “Nessun uomo ha fatto il dono gratuito della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che nei romanzi” (vedi nota (46).
Incertezza delle tesi fondamentali e tendenza alla contraddizione. Ma è davvero così? Si leggano queste affermazioni del c. 27: “Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo, abbiano detto: -Chi sarà più industrioso abbia maggiori onori e la fama di lui risplenda ne’ suoi successori; ma chi è più felice o più onorato speri di più, ma non tema meno degli altri di violare quei patti, coi quali è sopra gli altri sollevato.- Egli è vero che tali decreti (sulla uguaglianza di tutti davanti alle leggi) non emanarono in una dieta (parlamento) del genere umano, ma tali decreti esistono negl’immobili rapporti delle cose”. [47] Con questa espressione, si rinnega non solo “il contratto sociale” e la origine puramente “convenzionale” delle leggi, ma altresì il relativismo della morale, di cui il c. 25 è imbevuto: nel giro di due capitoletti, si rovesciano le tesi principali dell’opera. D’altronde già prima (c. 13) si distinguono “diritti di natura” (“La sicurezza della propria vita è un diritto di natura”) e “diritti di società” (“la sicurezza dei beni è un diritto di società”): questi ultimi sono più facilmente violati dagli uomini perchè “non (li) trovano scritti ne’ loro cuori”. Anche l’attività sessuale è “bisogno costante ed universale... anteriore, anzi fondatore della società... bisogno naturale” (c.36). Precedenti e prevalenti rispetto al contratto sociale stanno, dunque, altre esigenze e leggi nascenti dalla natura stessa dell’uomo. Non fonderanno queste, allora, le norme non convenzionali e, perciò, non “contrattabili”della moralità?[48] Si legga nel c. 22 la esaltazione della “così necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicità, le nazioni la pace, e l’universo qualche più lungo intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra”.
Un altro (e precedente) campo di contraddizioni è quello del rapporto fra stato selvaggio e vita associata; fra passioni|sentimenti|ragione nel costruire la civiltà (il progresso dell’uomo). E’ il contrasto insanabile fra il razionalismo di Voltaire|Encyclopédie|razionalismo e Rousseau|Vico| Romanticismo. Ce ne occuperemo nella sintesi finale, perchè risulta forse la “contraddizione originale”, il “pròton psèudos” di tutto il trattato.
Pessimismo anche sulla famiglia. Il c. 39 “Dello spirito di famiglia” è sconcertante, almeno per il senso morale dell’uomo prerazionalista, cioè “civile” in senso classico e specificamente cristiano: il pensiero tradizionale concepisce la famiglia a servizio dei suoi membri e lo Stato a servizio della famiglia Questo finalismo si rovescia nel Beccaria. “Vi siano centomila uomini, o sia ventimila famiglie... se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottantamila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno centomila cittadini e nessuno schiavo”. Un primo svantaggio: la famiglia educa alla (tollerata) monarchia, anzichè alla (auspicata) repubblica: “Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura...”.[49] Ma c’è di peggio, a cominciare dalle ingiustizie economico-sociali di cui parla all’inizio del capitoletto: “Queste funeste ed autorizzate ingiustizie (socio-economiche: quelle di cui si parla nella parte finale del c. 38) furono approvate dagli uomini anche i più illuminati, ed esercitate dalle repubbliche più libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie, che come un’unione di uomini”. Difatti: “quella (la famiglia) insegna a restringere la beneficenza ad un piccolo numero di persone senza spontanea scelta; questa (la repubblica) a stenderla ad ogni classe di uomini: quella comanda un continuo sacrificio di se stesso ad un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi, senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione”.[50]E giungiamo al “pessimo”: “Le virtù sempre mediocri di famiglia” si oppongono alle grandi cui educherebbe lo Stato: “La prima ispira soggezione e timore; la seconda coraggio e libertà”.[51] Per quale motivo? “Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio, e limitato a piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti, e li condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono in potestà del capo finchè vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte un’esistenza dipendente dalle sole leggi. Avvezzi a piegare la testa nell’età più verde e più vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza, che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtù nella languida e cadente età, in cui anche la disposizione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto; e i figli, quando l’età li trae dalla dipedenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa,diventano liberi membri della città, e si assogettano al capo di famiglia per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi della grande società. Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della nazione, sono alla discrezione dei padri...” [52]
Ma ci pare che almeno in un caso si insinui la contraddizione. Inaspettatamente, Beccaria esce in questo riconoscimento: “nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini”: una simile espressione riconosce che quel fine ultimo (c. 1: “la massima felicità nel maggior numero”) cui dovrebbe condurre lo Stato (per contratto), in realtà è legato alla famiglia, un istituto che l’Iluminismo non osa ancora calunniare come “convenzionale, di libera scelta umana”, ma deve ancora riconoscere come “naturale, spontaneo ecc. ”. Ci vorranno altri due secoli, perchè anche la famiglia venga ripensata come una delle scelte possibili fra le tante convivenze, da intellettuali e giovani cresciuti dopo il 1968.[53]
Totale fiducia nella ragione. Pare invece che l’egoismo estremo delle passioni si sciolga come neve al sole di fronte ai lumi della ragione. Il tema va e viene, sovrapponendosi al dissidio|coincidenza fra passioni e sentimenti. Il c. 5 (“Oscurità delle leggi”), mentre afferma l’ovvia verità che dove la legislazione fosse incerta, come capita necessariamente quando essa non è scritta ma solo oralmente tramandata, la giustizia diverrebbe insicura e facilmente abusiva, si prolunga poi nella celebrazione della istruzione e della conoscenza, conseguente, delle leggi: “Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fra le mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perchè non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni”: Ma è nel c. 41 (Come si prevengano i delitti) che la candida fiducia del Beccaria nella potenza civilizzatrice della ragione, dei suoi lumi e del progresso nelle scienze si manifestano con un calore commovente: “Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di uno illuminato. Le cognizioni, facilitando i paragoni degli oggetti, e moltiplicando i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto più facilmente, quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza, e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perchè non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata, alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che, senza le leggi, potevano divenire cospiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa”.[54]
La ragione è fredda, imparziale, persino cieca (passim: cc. 1, 32).
Storicità della “virtù” (e relativismo della morale?). Tutto il c. 25 pare il tentativo di ridurre la “virtù” alla obbedienza alle leggi civili, liberandola dal legame colla moralità, perchè questa sarebbe troppo variabile, al seguito delle rivoluzion storiche e delle passioni degli uomini, vincitori in tali contesti: “Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtù, di buon cittadino o di reo, cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune; ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri; che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò così, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtù; e tali sono, perchè si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano co’ fiumi e colle montagne, che sono bene spesso i confini non solo della fisica, ma della morale geografia”.[55]
LE PREMESSE METODOLOGICHE: consultare il cuore, far riferimento ai sentimenti, ma con mente lucida, anzi fredda. Da una parte, dunque “Non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale, s’ella non sia fondata sui sentimenti indelebili dell’uomo... Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i princìpi fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti.” (c.2). Ma dall’altra: “Apriamo le istorie, e vedremo che le leggi, che pur sono, o dovrebbon essere patti di uomini liberi, non sono state, per lo più, che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità nel maggior numero” (c. 1).[56]
Psicologia e psicologismo. Ma una simile via[57] di indagine mette al centro della attenzione le inclinazioni della psicologia umana, cioè delle leggi complesse, risultanti da quel sinergismo di idee e passioni, che muove l’uomo ad agire nel concreto della vita. Chi anche non avesse mai letto il piccolo capolavoro del Beccaria, ma abbia però presente il grande capolavoro del nipote Alessandro, sospetterebbe subito che questa dimensione dell’operetta beccariana (causa principale, si può giurare, del suo sucecsso) non è tanto il frutto del secolo dei “lumi”, cioè della “ragione”; e neppure una suggestione del pur lodato ed unanime “Jean Jacques”[58], ma è una virtù innata dello scrittore, che all’indagine dell’animo umano era congenialmente incline, con profondità talora geniale, sorprendente; tal altra, con superficialità impulsiva ed estemporanea; sempre, con risultati più precari che non quelli del Manzoni. Beccaria, cioè, crede di enunciare un principio nuovo, vero e solenne per il suo studio, mentre invece non fa che imporre allo stesso l’impronta fin troppo marcata della sua personalità ( “Pas seulment le style, mais aussi le contenu c’est l’homme”!): una personalità incerta fra razionalità e sentimentalismo, tradizione e novità...
Si dovrebbe citare quasi ogni pagina dell’opera, tanto il nonno si rivela la matrice del nipote, sia pure più grezza ed approssimativa. Basti, qui, l’apertura dell’operetta: “Gli uomini lasciano per lo più in abbandono i più importanti regolamenti alla giornaliera prudenza, o alla discrezione di quelli, l’interesse dei quali è di opporsi alle più provvide leggi, che per natura rendono universali i vantaggi, e resistono a quello sforzo, per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità, e dall’altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò, se non dopo esser passati fra mezzo mille errori nelle cose più essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all’estremo, non s’inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le più palpabili verità; le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, più per tradizione che per esame”. Tra le molte citazioni riportate da “Dei delitti e delle pene”, il lettore troverà facilmente altre analisi psicologiche: ora verosimili come questa, ora del tutto improbabili, come quella che incontriamo nel c. 41: “... la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, perchè questo aggiunge ai mali della prima quelli dell’errore, inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero...”.
Eppure, si tratta di “razionalismo cartesiano, di ragione geometrica”: “In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto; la maggiore dev’essere la legge generale; la minore, l’azione conforme, o no, alla legge; la conseguenza, la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche solo due sillogismi, si apre la porta all’incertezza” (c.4).
PRINCI’PI PER UNA REVISIONE DEL CODICE DI PROCEDURA PENALE.
Parla anzitutto “Della cattura” (c. 7). Vi si esprime anzitutto il rammarico che la cattura e la prigione debbano essere inflitte anche a chi, non essendo ancor condannato, è tuttora presumibilmente “innocente”; poi, il lamento per gli abusi nella carcerazione preventiva, talora inflitta “per futili pretesti”, talora evitata per la protezione di amici potenti; ancora, l’invocazione che le leggi chiariscano definitivamente quali sono le circostanze in cui imporre la prigione ad un imputato; quindi, la protesta perchè “si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati ed i convinti”; infine, l’auspicio che i carcerieri dipendano piuttosto dal potere esecutivo che da quello carcerario (giudiziario).
Il c. 7, trattando di “Indizi e forme di giudizi”, pur avvertendo essere impossibile esaurire l’argomento (“Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto”), chiede anzitutto che “Pubblici sieno i giudizi e pubbliche le prove del reato”; avanza proposte serie sul valore o no degli indizi (“Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta, nè sminuisce la probabilità del fatto, perchè il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono”); afferma la legittimità-doverosità di attenersi alla certezza morale, cioè a “quella che determina ogni uomo nelle operazioni più importanti della vita”, pur trattandosi di fatto di sola “probabilità”, ma “tale che è chiamata certezza”; vuole, di conseguenza, che non sia il solo giudice a decidere di colpevolezza|innocenza; afferma che per “giudicare del risultato” della ricerca delle prove non occorre nè grande “abilità e destrezza” ma solo “ordinario buon senso”; si dichiara sicuro (russoianamente) che l’istituto dei “giurati” è “men fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato da’ suoi studi”; auspica perciò il giurì popolare, col diritto all’imputato di escluderne alcuni membri ritenuti “sospetti”, sicchè “sembrerà che il reo si condanni da se stesso” (in quanto alla fin fine ha scelto lui i suoi giudici).
“Dei testimoni” è il titolo del c. 8, che parifica l’attendibilità della testimonianza di una donna a quella di un maschio; non esclude quella dei “morti civilmente” cioè dei già condannati “quando non abbiano alcun interesse di mentire”; ritiene sospetta e da rifiutarsi quella di persone in cui le passioni scoraggiano la testimonianza della verità (parenti, amici, nemici, membri di società segrete)[59]; riafferma il principio romano “In dubio, reo est favendum” (nel dubbio si deve stare per l’innocenza dell’imputato); ha modo di esercitare la sua congenialità per le introspezioni psicologiche, affermando che “La credibilità di un testimone diviene tanto sensibilmente minore quanto più cresce l’atrocità del delitto o l’inverosimiglianza delle circostanze”, sostenendo che “Tali sono, per esempio, la magia e le azioni gratuitamente crudeli”; sostiene che “è quasi nulla la credibilità di un testimone, quando si faccia delle parole un delitto”... perchè “è di gran lunga più facile una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo” ( auspicio della libertà di opinione?).
Il c. 9 tratta delle “Accuse segrete” e condanna quasi senza appello le accuse anonime, soprattutto se sono persone pagate come delatori e spie, che non debbono rivelare la loro identità in tribunale. Vi sono casi estremi di pericolo per lo stato: “Tale è qualche volta la natura delle circostanze, che può credersi l’estrema ruina il togliere un male allor quando ei sia inerente al sistema di una nazione. Ma se avessi a dettar nuove leggi in qualche angolo abbandonato dell’universo, prima di autorizzare un tal costume, la mano mi tremerebbe, e avrei la posterità dinanzi agli occhi”.[60]
Il c. 10, sotto il titolo “Interrogazioni suggestive. Deposizioni.” si esprime già contro la tortura, presentandola oltretutto in contraddizione con il divieto delle leggi ad interrogare l’imputato con domande “suggestive”, che lo potrebbero indurre a dare risposte a lui sfavorevoli, quasi guidato inconsapevolmente da questioni poste maliziosamente. Della tortura si riparla nel c. 12.
Per ora, il c. 11 tratta del giuramento, per dimostrare la necessità di liberarne l’imputato, che è messo al bivio o di danneggiare se stesso o di peccare sacrilegamente, invocando Dio a testimone della menzogna. E’ l’occasione per analisi psicologiche moltiplicate: “Troppo deboli, perchè troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi, che la religione contrappone al tumulto del timore, ed all’amore della vita....la legge che comanda un tal giuramento comanda o di essere cattivo cristiano, o martire. Il giuramento diviene a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa maniera la forza dei sentimenti di religione, unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini”. Le due sentenze si contraddicono fra loro: la religione è capace o no di fondare la onestà pubblica? Nel c. 41, si parla ancora della forza eccezionale della religione a frenare il mondo passionale dei primi uomini, appena usciti dalla beluinità. Duqnue? Quandoque et bonus dormìtat Homerus (anche Beccaria sonnecchia talvolta e si contraddice)...
Ed eccoci al c. 12, “Della tortura”. E’, finora, il capitoletto più lungo, ove analisi psicologiche e cultura storica si danno la mano a sconfiggere l’insano costume. Capitolo più lungo sarà solo il sedicesimo “Della pena di morte” (e solo il c. 41 “Come si prevengano i delitti” si avvicina alle sei pagine del nostro paragrafo, mentre tutti gli altri si aggirano sulle due-tre paginette). Il motivo cardinale della irrazionalità della tortura è detto subito: “Un uomo non può chiamarsi reo prima dela sentenza del giudice, nè la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti, co’ quali gli fu accordata....o il delitto è certo, o incerto: se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perchè inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi tormentare un innocente, perchè tale è, secondo le leggi, un uomo i cui delitti non sono provati”.
Ma il Beccaria accumula i motivi di irrazionalità. Egli evidenzia che essa è un “voler confondere tutti i rapporti, l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato”; che è la traduzione solo un po’ ingentilita dei “giudizi di Dio” (passare per il fuoco o per l’acqua bollente o per la prova del combattimento singolare) portati, nei paesi civilizzati da Roma, dalla barbarie germanica; che “non lasci(a) altra la libertà al torturato, che di scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi alla pena”; che “è il mezzo sicuro per assolvere i robusti scellerati, e di condannare i deboli innocenti”; che pone l’innocente in una situazione peggiore del reo: “il primo ha tutte le combinazioni in contrario; perchè o confessa il delitto, ed è condananto, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita. Ma il reo ha un caso favorevole per sè; cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assolto come innocente, ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare”; che non è mezzo sicuro per ottenere la certezza pei giudici: “questa verità è finalmente sentita, benchè confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura, se non confermata con giuramento dopo cessata quella; ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato”; che, infine, presso i romani, maestri di diritto, “non trovasi usata alcuna tortura che sui soli schiavi”.
Le stesse circostanze, contemplate dal diritto tradizionalecome esigenti la tortura, sono criticate giustamente: le eventuali contraddizioni nelle deposizioni dell’imputato (“quasi che il timore della pena, l’incertezza del giudizio, l’ignoranza comune a quasi tutti gli scellerati e gl’innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contraddizione l’innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi”); la ricerca di altri delitti oltre quello per cui viene giudicato (“le leggi ti tormentano perchè sei reo, perchè puoi esser reo, perchè voglio che tu sii reo”); la denuncia dei complici (“Quasi che l’uomo che denuncia se stesso, non accusi più facilmente gli altri”); la purgazione dell’infamia, per cui “un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle ossa” (Beccaria rivela la sua acutezza di indagine psicologica, riferendo la origine di una tale assurda opinione alla dottrina del Purgatorio: la cosa è, in teoria, opinabile, ma storicamente corrisponde nè più nè meno che ad un gratuito processo alle intenzioni; però va detto anche che egli cita il dogma cattolico con ogni rispetto: “Ecco come gli uomini abusano dei lumi più sicuri della Rivelazione”, aggiungendo anzi il riconoscimento che tale lumi di verità “sono i soli che sussistono nei tempi di ignoranza” (senza dire che lo abbiamo sentito parlare, nel c. 11, della religione come “unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini”).
Nonostante il titolo (Del Fisco), il c. 40 parla unicamente di procedura penale ed in particolare vibra ancora alcuni colpi contro l’uso della tortura, sicchè lo anticipiamo qui .
Unico lo scopo del Beccaria: dimostrare che, se lo Stato ed i suoi reggitori fanno del potere giudiziario uno strumento per incrementare le entrate fiscali, manovrando il processo così che la pena sia il più possibile di carattere pecuniario, allora i processi anzichè assicurare la giustizia diventano sorgente di patenti ingiustizie. Praticamente, sotto accusa, qui, non è il privato cittadino che “delinque” contro lo Stato, ma viceversa. La dimostrazione avviene con una di quelle letture psicologiche del Beccaria, che meritano ogni ammirazione, per la novità, profondità e verità dell’analisi: “gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lucro: chi era destinato a difenderla, aveva interesse di vederla offesa... Il giudice era dunque un avvocato del fisco, piuttosto che un indifferente ricercatore del vero; un agente dell’erario fiscale, anzi che il protettore ed il ministro delle leggi.” Fin qui, i tempi dei verbi sono al passato, perchè il Beccaria, con una delle frequenti cautele dettate da timori non ingiustificati, prende le cose da lontano e si riferisce, in apertura di capitolo, all’impero romano, quando il “fisco” (cesto, paniere usato per mettervi i soldi, divenuto sinonimo di tesoro o cassa delle imposte spettanti non al Senato, ma all’imperatore) indicava l’amministrazione dei beni imperiali: “Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe”. Ma,ad un certo punto, egli si vede costretto (candidamente!) a costatare che “la confessione del delitto, confessione combinata in maniera che favorisse, e non facesse torto alle ragioni fiscali... è tuttora... il centro, intorno a cui si aggirano tutti gli ordini criminali”. La iniquità si estende al punto che “Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscano le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza, che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere questo ente...”. Ma succede anche il contrario, cioè che l’avidità del giudice, divenuto “avvocato del fisco”, lo sospinge a cercare con “la tortura... altri delitti della medesima specie, che (l’imoputato) possa aver commessi. Con questa il giudice si impadronisce del corpo di un reo, e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne, come da un fondo acquistato, tutto il profitto che può”. E’ sempre da tali finalità finanziarie, che “Il giudice diviene nemico del reo... non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto e lo insidia... Gli indizi alla cattura sono in potere del giudice; perchè uno si provi innocente, deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo: e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa, nel decimottavo secolo, le procedure criminali. Il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione domanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei”.
Il capitolo tredici, “Processi e prescrizioni”, si apre sottolineando la importanza della “prontezza della pena, che abbiamo veduto[61] essere uno de’ principali freni de’ delitti”, un principio di psicologia applicato alla amministrazione della giustizia che ritornerà in seguito più volte, con il capitolo diciannovesimo tutto dedicato all’argomento. Tenendo, quindi, tale criterio sullo sfondo, il Beccaria anzitutto avanza la divisione delle colpe sociali in tre categorie: delitti atroci (contro la vita dell’uomo, cioè contro le leggi stesse di natura); delitti minori (contro la proprietà delle cose, dichiarato soltanto “diritto di società”, cioè stabilito dalle “convenzioni” del “patto sociale”);[62] delitti “che sono nel medesimo tempo frequenti nella società e difficili a provarsi... gli adulteri, la greca libidine” (omosessualità).
Per le due prime categorie di crimini, Beccaria propone un duplice, simmetrico, principio: quanto più è grave il delitto, tanto più celeri dovranno essere e l’esame in tribunale e la pena e tanto più lungo il tempo della eventuale prescrizione; quanto minore è il delitto, tanto più lungo potrà essere l’esame, ma breve il tempo di prescrizione. Quanto alla terza categoria fa notare come la tradizione di ammettere la presenza di “quasi-prove” lascia campo alla tortura di esercitare la sua crudeltà alla ricerca di una colpevolezza|innocenza sicura che, ormai sappiamo, essa non può dare.
Aggiunge poi delle osservazioni psicologico-morali. La prima è sacrosanta: compito del giudice non è quella di provare il delitto, ma di cercare la verità, cioè di essere altrettanto aperto alla scoperta della innocenza. La seconda è disputabile: “Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtù... le passioni indebolite sembrano più atte a mantenere che a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento”.
Il c. 14 è dedicato ad “Attentati, complici, impunità”. Il principio che “le leggi non puniscono l’intenzione”; che un crimine iniziato e lasciato imperfetto meriti meno pena che uno condotto a termine e che l’esecutore materiale meriti una pena maggiore che i complici rimasti nell’ombra, sono princìpi evidenti ormai (anche se giustificati con acutezza particolare: la più grave pena per l’esecutore serve per scoraggiare i congiurati a prestarsi personalmente alla operazione). Tormentoso come il problema delle denunce segrete è invece quello che riguarda “pentiti e dissociati” (come diremmo noi, oggi) e che avevano un parallelo allora negli imputati già in carcere che denunciavano complici e trame, avendo in cambio la impunità: “Un tale espediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl’inconvenienti sono, che la nazione autorizza il tradimento, detestabile anche fra gli scellerati”. Dopo aver spiegato che sarebbe, al più, meglio una legge che preveda l’impunità per i complici denuncianti piuttosto che l’arbitrarietà e la estemporaneità della concessione caso per caso, afferma però: “Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento, autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana al tradimento ed alla dissimulazione”. Tanto più, ricorda, che la tentazione di mancare poi alla promessa fatta e di condannare comunque il complice-delatore non è soltanto una tentazione, ma un dato attualmente documentabile nella storia dlela giurisprudenza di varie nazioni.
Col c. 15 (“Dolcezza delle pene”) entriamo nel cuore del sistema beccariano[63], che si affida a queste premesse psicologiche. 1) l’unico fine della punizione è la prevenzione di altri delitti futuri: “Il fine dunque (della pena) non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne eguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo”. E’ tolta di mezzo ogni idea di riparare il danno (“il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, nè di disfare un delitto già commesso... Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non retrocede, le azioni già consumate?”) e non è mai nominato il fine di redimere il condannato attraverso una rieducazione, cui anche la pena possa servire... 2) Idealismo illuministico sulla natura umana: basta stabilire una pena superiore al vantaggio acquisibile col crimine, per scoraggiare il malvagio dall’esporsi ad un rischio sproporzionato: “Perchè una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”. 3) Ottimismo “razionalistico”: è possibile punire sempre, con sicurezza, con celerità ogni crimine: “in questo eccesso di male (della pena, rispetto ai vantaggi del delitto) dev’essere calcolata l’infallibilità della pena, e la perdita del bene che il delitto produrrebbe”.
Posti questi princìpi, allora si comprende l’auspicio della “Dolcezza delle pene”, anche se il Beccaria, con grande impegno di analisi non solo psicologiche ma anche fisiologiche, accumula i motivi per renderla più accettabile. Egli si appella dapprima alla forza dell’abitudine sull’animo umano. Se gli antichi dicevano “Ab assuetis non fit passio” (dalle cose abituali non nasce emozione), Beccaria si sente di affermare “A misura che i supplizi diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello con gli oggetti che li circondano, s’incalliscono; e la forza sempre viva delle passioni fa che dopo cento anni di crudeli suppplizi, la ruota (della morte straziante) spaventi tanto, quanto prima la prigionia. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti per fuggir la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplizi furono sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni...”. Procede poi a una notazione più tecnica: se si applicano le pene massime ad un certo tipo di delitti, che cosa si potrà dare come pena adeguata ad un delitto più grave o ad una serie moltiplicata del delitto? “...non è facile il serbare la proporzione essenziale fra il delitto e la pena... Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe ai delitti più dannosi e più atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirli”. Poi avanza un principio che afferma ma non dimostra: “... l’impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplizi. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sì nel bene che nel male; ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggero furore, ma non mai un sistema costante, quali debbono essere le leggi; che se veramente sono crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime”. Neppure comprendiamo il valore di quest’altra osservazione fisio-psicologica: “Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Più forti e sensibili devono essere le impressioni su gli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio... Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società, cresce la sensibilità, e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la reazione fra l’oggetto e la sensazione”.
Ed eccoci al “clou” dell’opera: “Della pena di morte” (c. 16). Egli accumula i motivi per chiederne la abolizione, scrivendo così il capitolo più lungo dell’opera. Anzitutto la considera incompatibile con il contratto sociale: “Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini, di trucidare i loro simili? Non certamente quello, da cui risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tuti i beni, la vita?”
Ma non basta: egli considera la pena di morte contro natura: “E se ciò fu fatto (cessione della libertà di vivere, concessione del diritto a venir punito con la morte), come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo diritto, o alla società intera.”
Ecco allora il terzo argomento: dopo aver concluso che “Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre (dal momento che) ho dimostrato che tale esser non può; ma è una guerra della nazione con un cittadino; perchè giudica necessario o utile la distruzione del suo essere”, prosegue “ma se dimostrerò non essere la morte nè utile nè necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità”. La dimostrazione è, a dir il vero, dilazionata, risultando alla fine un poco contorta. Difatti, egli cita prima due casi (tempi di guerra e di anarchia) in cui la pena capitale sembra a tutti legittima perchè necessaria: a costo di obliterare completamente i divieti del contratto sociale e della immoralità del suicidio, testè esposti coll’assolutezza assiomatica ed il pathos retorico di chi sta adducendo motivazioni insuperabili. Ecco, dunque, le due eccezioni: “La morte di un cittadino...può credersi necessaria... per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi... quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti...”. Sì, ma dove va a finire l’argomento derivato dall’immoralità del suicidio?
Ed ecco allora la dimostrazione promessa: “...ma durante il regno tranquillo delle leggi, in una forma di governo, per la quale i voti della nazione sieno riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dall’opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino...”.[64] L’argomento è, per sè, così debole, che non è citato mai dai moderni oppositori della pena di morte. Difatti la stabilità dell’ordine pubblico e la pace sociale, dell’Europa contemporanea all’autore, potevano essere un frutto della esistenza-applicazione della pena di morte: per ciò stesso l’elogio delle “magnifiche sorti e progressive”, proprie dei felici tempi in cui vive l’autore, potevano risultare un elogio della pena capitale, che li aveva procurati....
Ma, subito dopo, Beccaria propone un paio di argomenti più solidi, che devono fare indubbiamente riflettere. [65]” Ecco il primo: secondo “la sperienza di tutti i secoli... l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offender la società”. Ed il secondo: in “vent’anni di regno ...l’imperatrice Elisabetta di Moscovia... diede ai padri dei popoli quell’illustre esempio (cioè, appunto, l’assenza della pena di morte), che equivale a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria...”. Li commentiamo in nota.[66]
Infine Beccaria ritorna alle sue motivazioni preferite, quelle psicologiche. E ne propone un paio. Cominciamo dall’ultima, che valeva più per il modo pubblico e clamoroso con cui venivano eseguite le decapitazioni|impiccagioni|fucilazioni ancora nel Millenovecento[67] che non per l’attuale prassi, là dove ancora esiste: “Non è utile la pena di morte, per l’esempio di atrocità, che dà agli uomini. Se le passioni, o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi, moderatrici della condotta degli uomini, non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto più funesto, quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo, che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano esse medesime...”.
E terminiamo con l’altro tentativo di prova psicologica, indubbiamente acuto, ma discutibile: “Non è la intensione (intensità nel dolore) della pena, che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perchè la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime, ma replicate impressioni, che da un forte ma passeggero movimento. “L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così le idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti...”. Contro tale argomento, parla però il Beccaria stesso a proposito del suicidio nel c. 35: “Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che li circonda li conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere, e la speranza, dolcissimo inganno dei mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo...”.
Beccaria si sente, quindi, autorizzato a costruire questo sillogismo: “Perchè una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti. Ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto. Dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato dalla pena di morte...”.
Quanto segue, interessa più come arte che come filosofia: è una specie di novella psicologica sui possibili-probabili ragionamenti di un povero diavolo, che stima ingiustizia radicale la miseria sua e della propria famiglia, di fronte alla smaccata ricchezza dei pochi abbienti; e che, volendo azzardare un colpo risolutorio, un furto che gli permetta di godersi la vita per qualche tempo, buttandosi alla macchia con alcuni eventuali miserabili o scellerati come lui, si trovi di fronte alle due ipotesi della pena di morte o dell’ergastolo, come pena nel caso venga arrestato. Ci si aspetterebbe che Beccaria prenda in considerazione direttamente gli effetti della paura suprema della morte precoce e violenta, da mettere a confronto con quella del carcere a vita. Macchè! egli, che ha già implicitamente presupposto che la giustizia, anche se arriva, arriva sempre tardi, ora ripiega sugli ultimi conforti religiosi per tentare di scongiurare la forza dissuasiva della pena capitale: “Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato che abusa di tutto e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quest’ultima tragedia.” Poi, supponendo, stavolta, sicuro il pronto arresto e la subita condanna per il solo fatto dell’abolizione della pena di morte, egli ha modo di ingigantire lo spavento della lunga o definitiva carcerazione: “Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran nunmero di anni, o anche tutto il corso della vita, che passerebbe nella schiavitù e nel dolore, in faccia ai suoi concittadini... fa un utile paragone di tutto ciò con l’incertezza dell’esito dei suoi delitti, colla brevità del tempo che ne godrebbe i frutti...”.[68]
Il c. 17 tratta di Bando e confische. E’ un capitolo che definiremmo “minore”, perchè il “bando”(esilio) fuori dello stato non è più in uso ed anzi le polizie di molti paesi sono collegate così da collaborare nell’arresto ed estradizione di delinquenti comuni, mentre la confisca (sequestro) dei beni è fatta solo in connessione con una condanna per crimini, che comportano anche una pena finanziaria severa, quando non constano essi stessi di evasioni fiscali clamorose (cfr. in Italia, ancora all’inizio del terzo millennio, le condanne per crimini mafiosi). Va notato, per altro, il “viraggio” sentimentale con cui il Beccaria impianta la sua avversione all’esproprio dei beni di un “bandito” (esiliato), almeno nel caso in cui la misura getti la famiglia nella miseria: “Qual più triste spettacolo, che una famiglia strascinata all’infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommessione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirli, quand’anche vi fossero i mezzi per farlo?”[69]
Anche il c. 18, sulla “Infamia” tratta di un genere di pena ormai quasi del tutto superato: l’unico residuo di quella pena, che consisteva nella perdita di tutti i diritti civili, è ormai la interdizione provvisoria o perpetua dai pubblici offici, a causa di un diminuzione di onorabilità e, quindi, di fiducia, che è collegata a determinati comportamenti illegali. Si sono seguiti, dunque, i due suggerimenti che offre Beccaria nel capitoletto: dichiarare “infami” solo per motivi seri: “Chi dichiara infami azioni per sè indifferenti, sminuisce l’infamia delle azioni che sono veramente tali”; e non moltiplicare tali incriminazioni: “l’infamia di molti si risolve nell’infamia di nessuno”. Le motivazioni psicologiche annesse sono invece troppo generiche ( “bisogna dunque che l’infamia che infligge la legge, sia la stessa che nasce dai rapporti delle cose; la stessa che ispirano la morale universale o la particolare dipendenza dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni, e di quella nazione”; occorre seguire la natura: “la politica stessa” e “non le sole arti di gusto e di piacere...hanno per principio universale l’imitazione fedele della natura”).
Ritorna un vivo interesse col c. 19 “prontezza della pena”. Si riafferma, ormai dogma, il contratto sociale con la sua legge fondamentale: “non si può chiamare legittima società quella, dove non sia principio infallibile, che gli uomini si siano voluti assoggettare ai minori mali possibili”. Ovvio invece il principio giudiziario: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”. Ed ovvia anche la motivazione della giustizia di tale principio: “Dico più giusta, perchè risparmia al reo gl’inutili e fieri tormenti dell’incertezza... perchè la privazione della libertà (carcerazione preventiva) essendo una pena,... non può precedere la sentenza, se non quanto la necessità lo chiede”. Ma quando il Beccaria vuol dimostrare l’utilità del processo celere e decisivo, allora, per provare un’altra ovvietà come è la simmetria tra la brevità dei processi e la loro forza di scoraggiamento al ripetersi dei delitti, egli scavalca in elucubrazioni filosofico-gnoseologiche che rimandano all’empirismo di Locke, che vedremo in seguito (egli le dà per sicure, ma la riflessione filosofica le ha messe in discussione, se non altro per il loro semplicismo).
Più interessante è la invocazione di una pena conforme “quanto più si possa, alla natura del delitto”: certo, è geniale, nell’Inferno e Purgatorio di Dante, il parallelo sempre osservato fra colpe e modi di pena, ma rimane un ideale difficilmente realizzabile qui in terra, sicchè l’auspicio rivela più l’animo poetico dello scrittore che la sua aderenza alla realtà della vita giuridica e penitenziaria[70].
Il c. 20 (Certezza delle pene. Grazie) ritorna sulla opposizione fra pene moderate ma sicure, che scoraggiano dal delitto; e pene atroci ma di incerta applicazione, che non conseguono tale fine (l’unico preso in considerazione dal Beccaria): “Uno dei più grasndi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma la infallibilità di esse”. Questa volta la incertezza della pena dipende dalla possibilità e speranza della “grazia” sovrana o da altre circostanze che inducono il giudice ad essere mite (ad esempio il perdono concesso dalla parte offesa). Quest’ultimo caso è giudicato molto severamente, quasi costituzionalmente avverso al contratto sociale: “Il diritto di far punire non è di uno solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano”. La grazia sovrana è anch’essa giudicata dapprima dannosa, con espressioni così... belle che sembrano vere: “A misura che le pene divengono più dolci (miti), la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti!”. Ma in seguito è fatta implicitamente rientrare anch’essa nella illegittimità costituzionale: “la clemenza è del legislatore, e non dell’esecutore delle leggi”. Neppure del sovrano, quindi.
Il c. 21, Asili, tratta in realtà anche della estradizione. Egli enuncia dapprima princìpi ormai universalmente accettati: “Il luogo della pena è il luogo del delitto”;[71] e “Dentro i confini d’un paese non deve esservi alcun luogo indipendente dalle leggi”.[72]
Circa quella che noi oggi chiaamiamo “estradizione”, il Beccaria si mostra giustamente perplesso per l’esistenza di regimi assolutistici (anche se “illuminati”) che potevano abusarne, contro rifugiati politici, ad esempio. E comunque esprime il suo auspicio, “quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti, sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli”.
Il c. 22 (Della taglia) rifiuta questo genere di punizione, perchè con essa lo Stato la rimette nelle mani dei privati, mostrando la propria impotenza a mantenere il patto sociale ed incitando i propri cittadini –con un premio- all’assassinio (cioè, più o meno, alla venedetta). La cosa è ancora più fuori-legge, se l’uccisione del colpevole avviene in uno stato straniero, perchè si tratterebbe di usare tradimento contro le leggi del paese ospite e di esporre il proprio cittadino vendicatore alla cattura e condanna da parte di quella giustizia.
Il c. 23 è dedicato alla “Proporzione fra i delitti e le pene”, che parrebbe argomento inutile a trattarsi tanto è per noi ovvio. Ma se al tempo del Beccaria davvero esisteva l’irrazionalità delle leggi espressa da questa sua ipotesi : “Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi (bracconiere) uccide un fagiano, ed a chi assassina un uomo, o falsifica uno scritto importante”, vi è davvero una qualche possibilità che quel popolo “ non farà alcuna differenza fra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali”. Fa anche piacere che stavolta l’autore sfugga alle astrattezze a lui solite ed esca in alcune affermazioni che volesse il Cielo egli abbia sempre presenti nell’opera. Eccone una fondamentale:“E’ impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane”. Ed ecco la conclusione del capitolo, che respinge nel campo della fantasia la pretesa di applicare il principio di proporzione in misura matematica: “Se la geometria fosse adattabile alle infinte ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla più forte alla più debole... Ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo.”
Il c. 24 parrebbe dover precedere il c. 23: solo dopo aver stabilito dei criteri per “la Misura dei delitti” ha senso parlare di “proporzione fra i delitti e le pene”. La cosa è così esigita dalla logica, che il Beccaria proprio nel c. 23 abbozza una scala di gravità: “disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati, membri di essa.” Il c. 24, allora, parla di qualcosa ancora precedente: i criteri per la misura dei delitti. Egli ribadisce in apertura del capitolo, a visiera alzata, il suo principio: “Abbiamo visto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società.”[73] E, non prima di aver esecrate le tenebre del Medioevo (a costo di ipotizzare una umanità primitiva russoianamente sapiente e buona contro le sue più solite affermazioni circa una sua condizione passionalmente selvaggia ed irrimediabilmente egoistica), egli esorcizza altri criteri di gerarchizzazione dei delitti.[74]
No al criterio delle “intenzioni”, anche perchè “Qualche volta gli uomini colla miglior intenzione fanno il maggior male alla società”. No al criterio della importanza della persona offesa: “Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe più atrocemente punirsi, che l’assassinio d’un monarca”. No, infine, alla gravità morale del fatto: “la gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore”. Giustamente ne conclude “Se (Dio) ha stabilito pene eterne a chi disobbedsice alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia...”. In realtà, la non coincidenza fra “peccato personale” e “delitto sociale” è sempre stato tenuto presente dalla legislazione, sebbene non esplicitato nè, quindi, sempre coerentemente applicato. E’ chiaro che la società si interessi solo di offese alla morale che giungano a dimensioni sociali, siano cioè esternate, uscendo dalla pura progettualità interiore come dalla non documentaltà pubblica. Il criterio proclamato dal Beccaria come unico per classificare i delitti e gerarchizzarli, la (offesa alla) “utilità comune, che è la base della giustizia umana” può essere anche accettato, ma non senza precisazioni (che rimandiamo in nota).[75]
Anche il c. 38: False idee di utilità (delle leggi) a noi sembra rientrare nei criteri di selezione-graduazione dei delitti (e, conseguentemente, delle pene); perciò lo anticipiamo qui. Ovvio il primo principio: “Falsa idea di utilità è quella che antepone gl’inconvenienti particolari all’inconveniente generale”, anche se la sua applicazione (“Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura”, cioè sono leggi che “toglierebbero agli uomini il fuoco perchè incendia, e l’acqua perchè annega”; “che non ripara ai mali che col distruggere”) è ancora dibattuta tra Europa che negano presuntivamente il possesso delle armi al comune cittadino e gli Stati Uniti d’America che, presuntivamente, lo concedono. Il secondo caso di falsità di una (apparente) utilità di una legge è questo: “quella che comanda ai sentimenti, invece di eccitarli” e, quindi, “trascura i motivi presenti, che solo con costanza e con forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de’ quali brevissima e debole è l’impressione...”. Non insistiamo nella citazione, perchè mancano esempi probativi, come si trovano, invece, nel caso precedente: probabilmente, il Beccaria vuol disilludere sul potere a scoraggiare il delitto attribuito alla minaccia delle pene eterne e dei premi divini; ma non ne siamo sicuri. Se così fosse, la sicurezza di questo passo stona con quanto egli riconosce nel c. 11, già citato; e stona con l’opinione più comune, che afferma sicura “O religione o bastone”, proprio per additare i due metodi opposti di educazione. Efficaci, certo, entrambi, ma nei limiti che il Beccaria sa benissimo: “Falsa idea di utilità –dice egli infatti- è quella che vorrebbe dare ad una moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l’ordine che soffre la materia bruta e inanimata...”, cioè illudersi sulla possibilità di eliminare tutti i delitti.. Ed ecco il terzo paragrafo: “Finalmente è falsa idea di utilità quella che, sacrificando la cosa al nome,divide il ben pubblico dal bene di tutti i particolari”. Anche qui le idee sono espresse enigmaticamente, quasi lo scrittore parli per crittogrammi: noi, tenendo presente quanto è detto in seguito (sempre un po’ “in cifra”), vi sentiamo un invito a provvedere alla equità nella distribuzione del benessere, come parte concreta del bene pubblico, così da evitare complotti e ribellioni, dettati dalla miseria e dalla illusione di mutare le cose a proprio favore. Ritornano qui, se mal non ci apponiamo, le obiezioni del Beccaria al diritto di proprietà privata o, almeno, il senso di smarrimento di fronte al divario di ricchezza fra i miserabili e la nobiltà-borghesia.
DIVISIONE DEI DELITTI (cc.
25-37 e c. 40)
Nel c. 25, Beccaria schematizza i delitti in tre categorie: delitti che “distruggono immediatamente la società o chi la rappresenta”; delitti che “offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell’onore”; delitti che consistono in “azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato di fare o non fare in vista del ben pubblico”. Poi esclude dalla nozione di delitto (e da ogni suscettibilità di venir punita) qualunque altra azione, che è predicata come tale solo “da color che vi trovano il loro interesse”. Dopo aver deprecato gli inconvenienti che la non chiarezza in proposito provoca (“La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contraddice alla legislazione...e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtù”; “una moltitudine di leggi, che espongono il più saggio alle pene più rigorose”; “legislazioni, che si escludono scambievolmente”; “e però... l’incertezza della propria esistenza”), egli proclama enfaticamente che “ciaschedun cittadino deve avere il potere di fare tutto ciò che non è contrario alle leggi, senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall’azione medesima”; che “questo è il dogma politico che dovrebb’essere dai popoli creduto, e dai supremi magistrati, colla incorrotta custodia delle leggi, predicato; sacro dogma , senza di cui non vi può essere legittima società; giusta ricompensa del sacrifizio fatto dagli uomini di quell’azione universale su tutte le cose, che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze”. [76]
Il c. 26 è “strabreve”: 15 righe in tutto. Solo quello conclusivo (c.41) è ancora più corto. Tratta dei “Delitti di lesa maestà”. Dapprima acconsente a chiamarli “i massimi delitti, perchè più dannosi”. Ma subito soggiunge un ragionamento che pare voglia dir questo: tale delitto lo si deve ritenere realizzato solo in atti adeguati (attentato alla vita del sovrano? organizzazione di congiure o rivoluzioni?) e non in altri comportamenti che solo con la ignoranza o la malizia vi si possono ridurre (parole e scritti di deprecazione della tirannia e di invocazione della libertà?). Non è, comunque, il più perspicuo o specifico dei capitoletti, probabilmente perchè la materia era troppo spigolosa, toccando la persona dell’imperatore e la istituzione stessa del dominio austriaco in Italia. Per questo, riteniamo inutile riportare citazioni dirette.
Il c. 27 tratta dei “Delitti contro la sicurezza di ciascun particolare. Violenze. Pene dei nobili”. Due soltanto i temi del capitolo: la violenza (nella persona o nelle cose) dei “plebei” e dei “nobili”.
Dopo aver affermato che lo stato sorge per garantire la sicurezza ai cittadini tutti (fine “immediato” delle leggi, da accostare alla difesa contro ogni “danno della società” del c. 24), ne deduce che i delitti contro tale finalità sono quelli che meritano le pene maggiori. E la sicurezza, stavolta, non è solo quella della incolumità personale (assassini|ferimenti, ecc.), ma anche quella della proprietà: “Altri (alcuni) delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente essere puniti con pene corporali”. Subito specifica la estensione del principio: “sotto questa classe cadono non solo gli assassini e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l’influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo ne’ sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto del più forte, del pari pericoloso finalmente (alla fine) in chi lo esercita e in chi lo soffre”.[77]
E’ così già coinvolta, fin dall’inizio, la polemica contro i privilegi dei nobili, che potevano trasformare le pene corporali (prigione| morte) in multe finanziarie, almeno nel caso che le loro colpe fossero state a danno dei “vili et plebei” di manzoniana memoria: “Nè il grande nè il ricco debbono poter mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero... Io mi restringerò alle sole pene dovute a questo rango (dei nobili), asserendo che esser debbono le medesime per il primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione, sia negli onori, sia nelle ricchezze, perchè sia legittima, suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come ugualmente dipendenti da esse”. Le motivazioni psicologiche a tale riguardo stavolta sono tutte sensate e profonde, sia quelle negative che quelle positive. Tra le prime, non si metta neppure in discussione la pretesa che l’esistenza di un ceto privilegiato, intermedio fra il sovrano onnipotente ed il povero impotente, attenui la possibilità per quello di esercitare la tirannia (pare invece che“formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio...”); e si taccia l’altra pretesa, secondo cui “la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa per la diversità dell’educazione, per l’infamia che spandesi su d’una illustre famiglia”, perchè “ la sensibilità del reo non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi è più favorito...”. Tra le seconde, troviamo princìpi filosofici (antropologici) e morali indiscutibili, come questo: il povero è sempre persona e, perciò, la sua vita non può essere barattata con danaro, pena il ridurlo ad “animale di servigio”, a “cosa”[78]; oppure incontriamo analisi socio-psicologiche di notevole acutezza (basta tale incrinatura delle leggi per introdurre una sottile ma reale forma di tirannia nello stato anche più moderno e civile: “le ricchezze... diventano l’alimento della tirannia”); senza dire che la libertà è in pericolo, se si possono comperare giudici ed autorità (almeno così ci sembra di dover interpretare la espressione: “vedrete allora l’industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili quella che la legge gli dà in suo favore”). Le meno felici motivazioni collegate alla “contrattualità o naturalezza” del diritto elementare dell’umanità, le abbiamo già prese in considerazione, cercando di riunire le “Premesse” dell’opera, ripescandole dalla diaspora in cui le ha disperse il ribollimento genialmente vulcanico della mente beccariana.
Il c. 28 esamina le “Ingiurie dell’onore”. Non più dunque delitti di violenza contro la persona o le proprietà, ma di ingiuria contro la fama dei cittadini. Quello che interessa di più allo scrittore è la mancanza di una base seria alle pene per tali ingiurie, vista la indefinibilità del concetto di “onore”: “Questa parola onore è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile”. Dopo una melanconica considerazione sulla infelicità delle nostre menti che san scoprire le leggi dell’astronomia e non quelle della vita morale (riportata a suo luogo, tra le “Premesse”), ecco il Beccaria avventurarsi in considerazioni psicologiche ora acute, ora sottili, ora addirittura sofisticate.[79] Esso è un bisogno secondario, superfluo “nato dopo la formazione della società”, sicchè “non potè esser messo nel comune deposito” (delle leggi che difendono i valori essenziali dell’uomo). Anzi, neppure vi potrebbe essere mai messo, perchè è parte di quelle esigenze, che nè lo stato può garantire nè la forza privata può assicurarsi (“sempre superiori alla provvidenza delle leggi, ed inferiori all’attuale potere di ciascuno”). Ma ecco intervenire la forza dell’opinione pubblica, questa forza che ognuno tenta di accaparrarsi con i mezzi leciti ed illeciti, per garantirsi la stima e, di conseguenza, il potere (“...il dispotismo dell’opinione... era l’unico mezzo di ottenere dagli altri que’ beni, e di allontanarne que’ mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere...”). Essa ha tanta potenza che “ha messa in credito l’apparenza della virtù al di sopra della virtù stessa... Quest’onore è una condizione, che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza”. “Onore” come stima, credito presso l’opinione pubblica, ricerca dei “suffragi degli uomini”, dunque. In che cosa consista più precisamente è difficile dirlo: “ Quest’onore.... è una di quelle idee complesse, che sono un aggregato, non solo di idee semplici, ma d’idee particolarmente complicate....”. Non avendo una definizione precisa nè una protezione nella legge, il pretenderlo dai consociati è in realtà un rinnegare la società e farsi arbitro dei propri diritti e doveri: “è un istantaneo ritorno nello stato naturale, e una sottrazione momentanea della propria persona da quella delle leggi, che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino”. Di qui un corollario: “nell’estrema libertà politica, e nell’estrema dipendenza (cioè, se la società riprecita nel caos dell’ individualismo selvaggio o, all’estremo opposto, del dispotismo tirannico) spariscono le idee dell’onore”.
Che messaggio vuol trasmettere il Beccaria con le sue elucubrazioni storico-psicologico-legali? Sostanzialmente questo, ci pare: basta coi duelli in nome dell’onore offeso! E’ quello che dice nel capitoletto seguente, il trentanovesimo, che da essi si intitola. Ma ormai Beccaria ha già detto tutto l’essenziale: il capitoletto molto breve aggiunge di importante solo una proposta per sradicarlo: “...il miglior modo di prevenire questo delitto è di punire l’aggressore, cioè chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi, senza sua colpa, è stato costretto a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè l’onore”. Una proposta che è interessante per molti suoi aspetti, perchè rivela per molti versi, il candore eccessivo, il mancato realismo, la ingenuità e capacità di dimenticanza del nonno di Manzoni. E se l’offensore muore nel duello, l’uccisore, già offeso nell’onore, deve andare impunito? Visto che le offese constano solitamente di parole, come giudicarne in tribunale, letto quanto dice lo stesso Beccaria al c. 26 (“Delitti di lesa maestà”)? E quanto durerà un processo simile, cioè come assicurare quella certezza nelle conclusioni e celerità nelle sanzioni, che sole (secondo lo stesso autore dell’opera) possono dare un senso al punire, scoraggiando nuovi delitti?
Decisamente, la vita associata è più complessa del pensiero semplificatore e semplicistico, proprio del Beccaria e del razionalismo che gli sta alle spalle.
“I Furti” sono l’oggetto del c. 30. In meno di una pagina, molte idee sono espresse (ricordiamo il giudizio del nipote: “Esponeva da francese: semplice, senza frasi e con molto sentimento”). La più clamorosa è quella posta tra parentesi a proposito del diritto di proprietà (“terribile e forse non necessario diritto”) che, pur contrastando con il c. 17, come già detto, e col c. 32 (“la sacra proprietà dei beni”) trova però un’anticipazione nel c. 13. Buona certamente la regola di distinguere i furti semplici da quelli con violenza alle persone: solo nel secondo caso “la pena dev’essere parimenti un misto di corporale e di servile”. Invece i furti senza morti o feriti sarebbero da punire con la sola pena pecuniaria: “Chi cerca d’arricchirsi dell’altrui, dovrebbe essere impoverito del proprio”. Ma lo stesso Beccaria deve accorgersi che “questo non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione”, sicchè i ladri non hanno, poi, possibilità di risarcimento, nonchè di pagare multe. Ed eccolo allora ripiegare su una prigione col lavoro obbligato, che è quanto dire su “quell’unica sorta di schiavitù, che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo, delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla, colla propria e perfetta dipendenza, dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale”.[80] Per la filantropia subsocialistica del Beccaria, cfr. anche i cc. 13|34|35.
I “Contrabbandi” occupano il c. 31. Beccaria, da una parte, afferma decisamente la gravità del delitto di contrabbando, ma, dall’altra, ne considera le attenuanti (“Questo delitto nasce dalla legge medesima; poichè, crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio”) ed è titubante nello stabilire la pena. E tale ambiguità è troppo naturale: la condotta ricade nella offesa al sovrano ed alla nazione intera, che viene decurtata delle entrate necessarie alla funzionalità del governo; ma, esclusa la pena di morte (in uso allora anche per simili colpe), resta difficile, pur in questo caso, applicare la pena del contrappasso (limitarsi a pene pecuniarie pesanti), perchè difficilmente il contrabbandiere sarà in grado di pagare in danaro la sua colpa. Conclusioni: “un tal delitto merita unapena considerabile, fino alla prigione medesima”; “ma la di lui pena non dev’essere infamante, perchè (il dleitto) commesso, non produce infamia nella pubblica opinione”; “...la prigionia del contrabbandiere di tabacco non dev’essere comune con quella del sicario o del ladro; e i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha voluto defraudare...”.[81]
Il c. 32 (Dei debitori), tratta più esplicitamente dei falliti e delle pene da infliggere loro. Distingue giustamente “il fallito doloso dal fallito innocente”, auspicando la prigione solo per il primo (“deve esser punito colla stessa pena che è assegnata ai falsificatori delle monete”). La difesa del fallito innocente è appassionata e psicologicamente acuta: “Ma il falito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a’ suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per qual barbaro motivo dovrà essere gettato in prigione... a pentirsi forse di quella innocenza, colla quale viveva tranquillo...?” Sempre in tono enfatico (domande retoriche) propone, poi, che il fallito innocente sia tenuto per tutta la vita a compensare i creditori, ma, proprio per questo, a poter esercitare ancora industria e commercio “sotto altre leggi” (all’estero, quindi?) proprio per mettersi in grado di far fronte a questo dovere: che è ipotesi troppo complessa e di improbabile attuazione. Anche la proposta di una pena graduata (“Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza; ed assegnare al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori ma con privazione di libertà, riservando agli ultimi la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere ai terzi la libertà di farlo, lasciandola ai creditori”) appare allo stesso scrittore come pericolosa, sicchè invoca leggi ferree nel distinguere i vari casi e nel fissarne le pene, non lasciandole alla “pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici”. Ritorna ancora l’enfasi nel proporre preventivi contro simili disgrazie (“La pubblica e manifesta registrazione di tutti i contratti, e la libertà a tutti i cittadini di consultare i documenti bene ordinati; un banco pubblico, formato dai saggiamenti ripartiti tributi sulla felice mercatura, e destinato a soccorrere colle somme opportune l’infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre”); e nel deprecare la inadeguatezza delle leggi al riguardo (“ Ma le facili, le semplici, le grandi leggi che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d’inni immortali di riconoscenza di generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute...”).
“Della tranquillità pubblica” titola il c. 33, ma il contenuto ha un’ambivalenza che divide le prime righe dal resto del capitoletto (una paginetta stentata). Dopo aver ascritto ai “delitti della terza specie” (trasgressioni ai regolamenti: cfr. c. 25) “quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete dei cittadini”, accomuna, infatti, due tipi di disordini profondamente diversi: “strepiti e bagordi nelle pubbliche vie”; “fanatici sermoni, che eccitano le passioni della curiosa moltitudine”. Per il primo tipo, i due rimedi suggeriti paiono molto semplici (“La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite nei differenti quartieri della città”), ma, in verità, sono altrettanto problematici (la luce nelle strade aumenta la facilità ad usarne come sale all’aperto; il saturare di sorveglianti città e villaggi, implica una spesa impensabile anche agli stati attuali, pur tanto più ricchi di quelli del Millesettecento). Per il secondo tipo di disturbi, ancora due rimedi, di cui il primo (“i semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei tempii protetti dall’autorità pubblica” e “le arringhe destinate a sostener gl’interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti, o dove risieda la maestà del sovrano”) è intuìto come insufficiente, sicchè si deve ritornare alla sorveglianza della polizia (come per difendersi dalle orge e rumori molesti). Ma, stavolta, la problematicità del provvedimento diventa evidente anche per il Beccaria: “Ma se questo magistrato (magistratura: la polizia, appunto) operasse con leggi arbitrarie, e non stabilite da un codice che giri fra le mani di tutti i cittadini, si apre la porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini dela libertà politica”. Ne esce una conclusione di carattere generale: “Io non trovo eccezione alcuna a quest’assioma generale: che ogni cittadino deve sapere quando sia reo, o quando sia innocente... L’incertezza della propria sorte ha sacrificato più vittime all’oscura tirannia, che non la pubblica e solenne crudeltà”. E l’autore spazia poi dal giure alla politica, dalla politica alla psicologia: “Il vero tiranno comincia sempre col regnare sull’opinione che previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nell’ignoranza del pericolo”.[82]
Il c. 34 (Dell’ozio politico) è interessante e pel contenuto e pel linguaggio contorto con cui il Beccaria esprime il suo pensiero: è solo confusione oggettiva od anche malizia per per non urtare, in questo caso, certe frange della nobiltà e del ceto abbiente (come, altra volta, il potere politico o la Chiesa)? Ma sentiamo il testo: “Io chiamo ozio politico quello che non contribuisce alla società nè col travaglio (lavoro: francesismo), nè colla ricchezza; che acquista sempre senza giammai perdere; che venerato dal volgo con istupida ammirazione, è risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne sono la vittima; che, essendo privo di quello stimolo alla vita attiva, che è la necessità di custodire od aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno forti, tutta la loro energia”. Se si pensa che il solo fatto di depositare in banche il danaro accumulato è una forma di investimento utile alla società ed ai poveri (una via, cioè, per favorire nuove opere e procurare lavoro), ci si domanda quale settore della classe abbiente è da includersi nella categoria temuta e dannata dal Beccaria. Forse aveva di mira tutti quelli che vivono di rendite terriere, feudatari e nobili come lo stesso Cesare Beccaria od i fratelli Verri. Ma lo scrittore intuisce che le cose non sono così semplici. Sentiamolo: “Non è ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle virtù dei propri antenati e vende per attuali piaceri il pane e l’esistenza alla industriosa povertà; che esercita in pace la tacita guerra d’industria coll’opulenza, invece dell’incerta e sanguinosa colla forza. Quest’ozio è necessraio e utile a misura che la società si dilata e l’amministrazione si ristringe”. Ci pare proprio che, da queste non del tutto perspicue frasi, risulta che anche il Beccaria si accorgesse che è ben difficile trovare un uso “socialmente” dannoso del danaro. Al punto che, dopo aver predicato contro “austeri declamatori” o “censori”, egli finisce per arrendersi ed affermare che “le leggi debbono definire qual sia l’ozio da punirsi”.
In conclusione, ci pare che questo capitoletto (brevissimo: poco più lungo del c. 26 sui “Delitti di lesa maestà”) voglia combattere il vivere di rendita, nell’ozio del giovin signore. Ma se, da una parte, questo atteggiamento “moralistico” è del tutto consono con il “socialismo latente” del Beccaria, (sensibile all’iniquità del divario fra miseria oppressa e ricchezza oziosa); dall’altra, esso è del tutto estraneo alla logica “liberale” del “ contratto sociale” (proteso a restringere il più possibile la sfera dei doveri e ad allargare, invece, la libertà personale: c. 2). Egli tenta rimediarvi, aggiungendovi una sfumatura politica: impedire, anche colla punizione, i vizi del “giovin signore” che nascono dall’ozio, iscrivendoli alla categoria dei “pericoli socio-politici”, in quanto troppo facile è il trasgredire dell’ozio nelle cabale rivoluzionarie. Questa “diagnosi psicologica” della complessità-oscurità del contenuto di questo capitolo noi la avanziamo a nostro rischio e pericolo, imitando una volta tanto le acrobazie di introspezione nell’animo umano, così spontanee ma arrischiate nel nonno del più prudente ed equilibrato Alessandro. Una cosa resta certa: Beccaria, così contrario alle leggi superflue, sta istigando i regnanti ad inventarne una nuova: contro l’ozio politico!
Il c. 35 (“Del suicidio e dei fuorusciti”) mette assieme due generi di trasgressioni ben diversi: il sucidio, infatti, dovrebbe appartenere a quella categoria di delitti che che Beccaria ha messo come la più grave (“quelli che distruggono immediatamente la società”), mentre l’andare a stabilirsi per sempre fuori dello stato di nascita è solo una trasgressione dei regolamenti, cioè un delitto di terza categoria, la minima.[83] Lo scrittore non è però di questo parere, perchè afferma letteralmente: “Chiunque si uccide fa un minor danno alla società, che colui che ne esce per sempre dai confini; perchè quegli vi lascia tutta la sua sostanza (economica), ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere”. A volere “stare al punto”, cioè interpretare alla lettera questa (orribile) sentenza del Beccaria, si potrebbe dedurne una mentalità non solo materialistica, ma addirittura marxistica: non è la persona che costituisce la società (sicchè chi si uccide ne tenta, per quanto dipende da lui) la estinzione, ma è il danaro che la fonda, mantiene o distrugge. Il Beccaria non pare accorgersene, però.
Per nessuno dei due
“sgarri” il Beccaria prevede una pena. E,
pel suicida, il motivo sembra ovvio: “ella (pena) non può cadere che su degli innocenti o su di un corpo freddo
e insensibile”. Si può e si deve controargomentare, pur attenendosi al criterio
unicamente sociale della valutazione[84]: il suicidio è un
delitto che tende a distruggere la società nè più nè meno che l’omicidio, per
cui il lasciarlo del tutto impunito danneggia profondamente la vita associata,
anche se la rovina appare solo alla distanza. Il Beccaria in tanto può
affermare “Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che li circonda li
conferma in questo amore”, in quanto cresciuto in una società cristiana, non ne
percepiva la funzione equilibratrice,
consolatrice e conciliatrice rispetto
alle difficoltà della esistenza quotidiana, che rendevano assolutamente
eccezionale il tragico fenomeno. Le cose sono cambiate man mano che la cultura
occidentale ha abbandonato la fede in Dio e nella giustizia d’oltretomba, non
solo praticando di fatto, ma auspicando di diritto alla eutanasia e ricorendo
sempre più spesso all’epilogo tragico per disperazione o per noia della propria
esistenza[85].
Naturalmente, la soluzione sta in una serie di proposte intermedie, di cui la
“psicologia dualista”, manicheo-simile dell’Illuminismo non poteva accorgersi.
Ad esempio, se il suicida era sospettabile da malattia mentale, una sanzione
cautelativa sui discendenti (esclusione da diritti speciali del comune
cittadino –possibilità di assunzione a servizi pubblici, a
carriera nell’esercito od in
altri ambiti di civile amministrazione,
persino di esercitare commerci o dirigere industrie in proprio, salvo controlli
medici e permessi “ad tempus”...) potrebbe esser competente con la
giustizia verso l’individuo e la
società; se non lo fosse stato, allora l’obbligo di un funerale del tutto privato
anche per persone famose a qualsiasi titolo,
la proibizione di citazione, per un
paio di generazioni, del suo nome per stampa od in conferenze pubbliche, pur
nella libera circolazione di eventuali suoi scritti, possono essere segni della
pubblica disapprovazione e ammonimento ai cittadini contro un comportamento
sommamente dannoso alla società. Quanto ai “fuorusciti”, purtroppo
l’imprigionamento temuto dal Beccaria si è attuato anche nel secolo XX, ma proprio l’esperienza delle “cortine di ferro
e di bambù” e del “muro di Berlino” ha creato nel complesso delle nazioni
un diritto sempre più grande
all’espatrio|accoglienza dei profughi e perseguitati. In questo campo, il
Beccaria è stato troppo buon profeta. Ma neppure per simile delitto egli ha da
proporre una pena, perchè -dice- sarebbe controproducente: “Il punirlo quando
ritornasse il reo, sarebbe l’impedire che si ripari il mal fatto alla società,
col rendere tutte le assenze perpetue (con
lo scoraggiare il rientro dei profughi stessi)”.
La nostra ammirazione per tante proposte del Beccaria (o proprie o sistemate in modo organico sorprendente), che spesso segnano un vero progresso specificamente giuridico e genericamente culturale, non è dovuta a questo capitoletto, che ci sembra davvero irragionevole. Oltre tutto parla in maniera da lasciar capire che il pericolo dell’espatrio (anche del suicidio?) sarebbe scongiurato, se il piacere ed il lusso fossero alla portata di tutti (“Ma il commercio ed il passaggio de’ piaceri del lusso ha questo inconveniente, che, quantunque facciasi per mezzo di molti, pure comncia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero...”). Convinzioni che testimoniano che anche i geni sono, in parte, prigionieri delle condizioni del loro tempo. Due cose ignorava il Beccaria: che il benessere si sarebbe diffuso a tutti, grazie al progresso scientifico-tecnologico; e che proprio tale benessere avrebbe aumentato sia i casi di depressione (con perdita di senso della vita e, quindi, droga, alcoolismo e suicidi), sia le fughe all’estero (a causa dell’aumento di gente implicata in operazioni delinquenti, la cui scoperta fa esulare i colpevoli. O poca sapienza del razionalismo di ogni tempo, anche illuministico!
“Dei delitti di prova difficile” (c. 36) mette in discussione la punizione di “alcuni delitti che sono nel medesimo tempo frequenti nella società, e difficili a provarsi. Tali sono l’adulterio, l’attica venere (omosessualità) e l’infanticidio (aborto)”. Non è che il Beccaria sia del tutto contrario alla loro punizione, perchè egli conclude il capitolo dicendo: “non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finchè la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile, nelle date circostanze di una nazione, per prevenirlo”. Ma è frase sibillina, se la si legge accanto ad altre precedenti: “Regola generale: in ogni delitto che per sua natura dev’essere (rimanere) il più delle volte impunito(per la difficoltà della prova), la pena diviene un incentivo”. E tutto il capitolo insiste sulla ricerca delle cause delle tre infrazioni, onde giustificare il suo parere complessivo, che è quello di auspicare la loro depenalizzazione, salvo ad insistere sulla necessaria prevenzione contro di essi.
Per comprendere tale “cauto permissivismo” si tenga presente una premessa generale: l’autore non crede che l’istinto erotico sia controllabile, almeno al di fuori del contesto cristiano-cattolico: “Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce della religione, direi che vi è ancora un’altra differenza considerabile fra questo e gli altri delitti”. E qui il Beccaria avanza dei ragionamenti che rimandiamo in nota come incomprensibili, benchè (o, anche, a causa del fatto che) siano appoggiati a linguaggio matematico-geometrico[86]: il loro senso, per noi, rimane il rifiuto dell’autore a considerare comprimibile la prepotenza dell’istinto erotico, al di fuori (lo ripete) di un contesto religioso adeguato: “Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha più sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali”.
His fretus, cioè con questo presupposto di una “duplice verità”, che distingue l’insegnamento della Chiesa sul sesto comandamento e la dottrina che deve ispirare lo stato “religiosamente neutro” nella sua legislazione in materia, egli cerca le cause dei vari tipi di peccato collegati all’erotismo: adulterio, omosessualità, aborto. Lo fa, indagandone l’origine nella psicologia delle varie sitazioni pregresse.
Per l’adulterio, egli si appella anzitutto alla imposizione autoritaria nella scelta dello sposo (alle figlie, particolarmente), da parte dei padri; dopo di che si dilunga in un’analisi psicologica sulla fantasia umana la quale -nititur in vetitum- (“la pena diviene un incentivo”) e, “vagabonda e volubile”, “più strettamente si attacca alla parte piacevole, a cui più naturalmente l’animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da cui fugge e s’allontana”. Ecco, allora la prevenzione: lasciare libera scelta ai nubendi: “La fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero ed alla libertà de’ matrimoni”.
Per “l’attica venere” egli non vede le cause biologiche (della “Gestalt”) e insiste solo su quelle sociali (del “behaviour”), anzi su una sola: “quelle case dove si condensa l’ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa, si consuma inutilmente per l’umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia”. [87] Ciò posto, non dice nulla di esplicito: ed è meglio così, perchè, scambiando l’eccezione con la regola, anche per gli internati (quelli gestiti da religiosi, almeno) egli raccomanderebbe una soluzione (abolirli?) ingiusta, mentre l’ignoranza o trascuranza della causa costituzionale rende penosamente insufficiente la sua proposta curativa (?), come la sua diagnosi.
Per l’aborto, egli dimostra (a nostro giudizio) candore eccessivo tanto nella semplificazione delle cause quanto nel suggerimento del rimedio. La causa unica sarebbe la vergogna pel disonore di esser madre nubile: “L’infanticidio è parimenti l’effetto d’una inevitabile contraddizione, in cui è posta una persona che per debolezza ha ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile, a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto?” Dove dovrebbe stupire, nello scrittore che esalta la ragione sopra le passioni, questa compassione assolutoria per chi cede al sentimento della umiliazione sociale piuttosto che seguire la oggettiva ragione circa il diritto alla vita dell’innocente, concepito fuori del matrimonio. E deve poi sbalordire che un uomo che troppo spesso ragiona (di fatto) colla sensibilità del suo cuore, illudendosi di seguire i lumi della ragione, non si ricordi che l’innocente sacrificato sull’altare della onorabilità della donna sia un bimbo indifeso, frutto delle sue viscere, cioè suo figlio! Gli è che “il cuore” di un razionalista tende sempre a dar ragione al più forte e non alla vittima, per quanto innocente ed indifesa. In questo, gli intellettuali razionalisti non si distinguono dalla plebe incosciente: tutti cercano la verità (come è stato detto da Simona Weil) nel campo del vincitore.
Con tali premesse, il rimedio lo si indovina: “La migliore maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza (della madre rimasta sola e disprezzata) contro la tirannia (dell’opinione pubblica), la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virù”. Rimedio ovviamente necessario, ma insufficiente.
Il c. 37 tratta “Di un genere particolare di delitti”. Si è già detto (nella nota 72) che il definire la Chiesa cattolica “l’autorità che più veneriamo” non basta a garantire il senso ovvio delle parole: in realtà i delitti, accennati così sommessamente in questo capitolo, riguardano le vittime della Inquisizione. E tutto il capitoletto dice e non dice. Afferma, ad esempio,che i processi per questo “genere particolare di delitti”, hanno alla origine “sottilissime ed oscure differenze, troppo lontane dalla umana capacità (di comprensione e giudizio)”: che è un dissenso ed una canzonatura. Ma poi deve riconoscere che queste stesse “opinioni” umanamente insondabili, “pure possono sconvolgere il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre”. Sì, ma dice sul serio o gioca a rimpiattino per non compromettersi? Non si dimentichi che nel 1764 (anno della edizione dell’operetta) la Inquisizione a Milano era ancora in vigore (sarà abolita solo nel 1768 e “Dei delitti e delle pene” deve avervi contribuito non poco). Come si fa a non vedere il “doppio gioco” in frasi come queste: “Troppo lungo e fuori del mio soggetto sarebbe il provare, come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno Stato, contro l’esempio di molte nazioni”? Come conclusioni ad un andirvieni di affermazioni “in recto” (nella frase principale) e negazioni “in obliquo” (nelle proposizioni dipendenti), egli se ne lava –almeno in apparenza- le mani: “Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, de’ quali le pene anche temporali debbono regolarsi con altri principii, che quelli di una limitata filosofia”. Ma come credere a questa proclamata equidistanza od incompetenza, quando poco sopra ha ricordato che tale genere di punizioni sembra “contrario allo spirito di mansuetudine e di fraternità comandato dalla ragione e dall’autorità che più veneriamo”? Come illudersi che egli veramente sia incerto nel pensiero, quando dice (ironico) che il punire così crudelmente delitti di opinione (il “che ha coperto l’Europa di sangue umano, e... ha alzato quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani...”) deve ritenersi “necessario ed indispensabile”? Quale la ragione che adduce? La risposta è addirittura beffarda: il fatto crea il diritto; se c’è chi opera simili giudizi e castighi, vuol dire che una ragione l’avrà, ne avrà l’autorità; e, allora, si devono chiudere gli occhi e chinare la testa: “Tutto ciò deve credersi evidentemente provato, e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con riconosciuta autorità lo eserciti”.[88]
Il c. 38 (“False idee di utilità”) lo abbiamo anticipato dopo il c. 24 (p. 56); ed il 39 (Dello spirito di famiglia) è già stato studiato nel contesto delle Premesse antropologiche (p. 43).
Il c. 40 (Del Fisco) conclude le categorie di delitti presi in considerazione dal Beccaria. Ma la sua materia è stata da noi trasferita all’interno dei cc. 7-24 sui “criteri di procedura penale”, con ulteriori considerazioni sulla assurdità della tortura (c. 12). Le osservazioni dello scrittore si riferiscono, infatti, tutte (tutte!) ai riflessi dell’avidità del fisco sul modo di condurre i processi, tortura non esclusa. In pratica: manca ogni osservazione sui delitti “finanziari”di evasione fiscale; nessun suggerimento alle autorità per rendere più equa la distribuzione delle imposte; nessuna nota sulla eventuale proporzione fra colpe e pene in tale materia. Il Beccaria oblia qui lo studio del “delitto” e regredisce alle questioni procedurali: lapsus di una sua apertura mentale teoretica e sordità al concreto della casistica, cioè di una congenialità più alle questioni generali della metodologia che ai problemi particolari della amministrazione della giustizia?
LO SCOPO DELLE
LEGGI: PREVENIRE I DELITTI (c. 41).
Già abbiamo letto che, a sua volta, lo scopo di prevenire i delitti è subordinato a quello della felicità umana attraverso la vita sociale.
Si tratta, pel Beccaria, di trovare il sistema meno peggiore, perchè è pura utopia illudersi di ridurre la società a perfezione geometrica (“...nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine”).
La via davvero efficace è quella accennata per ultima, succintamente, ma con la coscienza della sua importanza radicale: “...il più sicuro, ma più difficil mezzo di prevenire i delitti, si è di perfezionare l’educazione”. Che l’argomento esorbiti dai confini del trattatello, come egli afferma subito dopo per scusarsi di non approfondirlo, non è condivisibile, visto che egli vuol trattare anche della “prevenzione dei delitti” Anzitutto, neanche una simile preoccupazione rientra nella stretta dottrina giuridico-penale, specialmente se, come fa il Beccaria, si esclude (o si ignora) la funzione rieducatrice delle pene giuridiche. E, poi, anche lo “zelo diffusore dei lumi” (di estendere cioè la istruzione) come mezzo per prevenire i delitti fa parte della scienza giuridica: eppure egli vi deica pagine intere, come vedremo subito. Che la passione per la educazione morale , poi, sia propria di pochi saggi in ogni secolo, è lamento discutibile nell’era cristiana, visto che è la missione fondamentale della Chiesa, sia pure coi risultati incompleti che ci si possono aspettare dalla concorrenza negativa di quella maggior facilità al male che al bene che i teologi chiamano “concupiscenza” e che è frutto del peccato originale. Che, alla fine, esemplare di tali “uomini saggi” dediti all’educazione del popolo, sia citato Jean Jacques, è intollerabile: questo è segno, da una parte, di disinformazione (il Beccaria non doveva sapere che Rousseau aveva lasciato i cinque figli avuti da Thérèse Lavasseur all’ospizio dei trovatelli); e della sua distrazione nel leggere il romanzo Emilio o Dell’educazione (del 762, come il Cotratto sociale), visto che la vicenda dell’Emilio finisce col fallimento del matrimonio del protagonista. Nè la sua vita nè i suoi scritti avevano, dunque, alcunchè di buono da insegnare. Causa di questa acrisia nel nonno di Alessandro deve esser stato il fascino esercitato sul suo spirito romantico dalla “educazione sentimentale” che il romanzo propone per la prima volta: “Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utili agli uomini; cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti, che nella scelta e precisione di essi; nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sì morali che fisici, che il caso o l’industria presenta ai novelli animi dei giovani; nello spingere alla virtù per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile (strada) della necessità e dell’inconveniente, e non coll’incerta (strada) del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza”. E’ praticamente, quest’elogio discutibile, la finale del lavoro del Beccaria... D’accordo, ma il Beccaria, con tante scuse e divagazioni, non ci dice nulla sulla educazione, il mezzo decisivo per prevenire il delitto. Troppo male ha parlato della educazione nella famiglia (c. 39), dei collegi (c. 36); e troppo critico si è mostrato contro la Chiesa, citata unicamente a proposito della infelice istituzione inquisitoriale (cc. 5, 12 e 37), ignorando tutta l’opera e moralizzatrice e culturalizzante della sua storia plurisecolare. E chi d’altro, esclusa la famiglia e la Chiesa, poteva (e può) educare? Lo Stato? Ma lo Stato razionalista non ha princìpi morali fissi: lo stesso Beccaria riconosce che esso li evolve con lo spirito dei tempi, cioè colle passioni od opinioni dominanti nella maggioranza di fatto o nella minoranza più rumorosa e minacciosa (c. 25: Divisione dei delitti). Il silenzio del Beccaria su questo tema segna la sconfitta della sua Weltanschauung, cioè della sua visione della vita: concezione dei delitti, dei processi e delle pene compresa.
Un altro mezzo per prevenire i delitti è di non creare leggi inutili, come il proibire azioni in sè lecite, anche se risultassero occasioni a delinquere: “Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possano nascere, ma egli è un crearne dei nuovi... A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci al delitto? Bisognerebeb privare gli uomini dell’uso de’ suoi sensi”[89]
Una serie di altri mezzi a stabilire un rapporto “virtuoso” fra leggi e scoraggiamento del delitto è data con quell’esuberanza di tono, che deuncia la sincerità del sentimento nell’autore: “Volete prevenire i delitti? 1) Fate che le leggi sian chiare, semplici”; 2) “che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle.” 3)”Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini, che gli uomini stessi. 4)”Fate che gli uomini le temano e temano solo esse. Il timore delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti quello di uomo a uomo”[90].
Segue l’appassionata celebrazione dello strumento razionale contro il delitto: la istruzione partecipata a tutti e, in particolare, la conoscenza delle leggi diffusa fra i cittadini. Abbiamo già riportato lo splendido squarcio epicizzante in proposito (p. 45: “Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà...”) tra le “Premesse antropologiche” dell’opera. Aggiungiamo qui la finale delle quasi tre pagine, che egli, anche a costo di rinnegare l’ammirato ed amato Rousseau, dedica ad esaltare i benéfici influssi della ragione illuminata,: “chi potrà mai asserire che la luce, che illumina la moltitudine, sia più dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose, ben conosciuti dagli uomini, lor sieno funesti?... l’uomo illuminato è il dono più prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano che lo rende depositario e custode delle sante leggi”. Segue un ritratto dell’uomo illuminato, che è in realtà quello di un uomo onesto; di più, sobrio; anzi, persino caritatevole. Ancora una volta il Beccaria cede alla tentazione di far coincidere, socraticamente, sapere ed onestà, dimentico dell’ovidiano “Video bona proboque; deteriora autem sequor”.
Veniamo ad “Un altro mezzo per prevenire i delitti”: questo consiste nell’ “interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse, che alla corruzione”. Al sentire verità così lapalissiana, soccorre alla memoria spontanea la esclamazione di Ariosto: “Oh gran bontà de’ cavalieri antiqui...!”; oppure la domanda che altrove (c.35) lo stesso Beccaria si pone:“Quis custodit custodem?” (Chi controlla il controllore?). E neppure Beccaria sa che cosa suggerire. Dapprima osserva che in una comunità non troppo grande, dove tutti si conoscono, la corruzione è più difficile. Questa è notazione discutibile, perchè chi è psicologicamente più forte, si impone sempre e, se disonesto, spadroneggia anche nelle piccolissime comunità. Il fatto dipende principalmente, a nostro avviso, da due fattori e, fra questi, quello della misura numerica della società non si trova: si tratta, anzitutto, di un predominio di tipo vitalistico, cui sono subordinati, alla distanza, persino il privilegio politico e quello economico; e, secondariamente, di una coscienza morale che, se non controlla la istintiva capacità di comando, stravolge il potere dal servizio all’abuso. Poi, il Beccaria, non sapendo quali modi positivi suggerire per costruire la forza delle leggi contro l’abuso dei giudici (e prevenire, così, i delitti), scantona su atteggiamenti e provvedimenti negativi (che cioè il sovrano non deve praticare), onde evitare almeno l’incentivo alla corruzione: “Se il sovrano, coll’apparecchio e colla pompa, coll’austerità degli editti,[91], col permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso[92], avvezzerà i sudditi a temere più i magistrati che le leggi, essi profitteranno più di questo timore, di quello che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza”.
“Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di compensare le virtù... Se i premi proposti dalla Accademie ai discuopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perchè i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbero altresì le azioni virtuose?”. Il paragone non vale, per la ragione che i premi al frutto dell’intelligenza sono possibili in quanto se ne limita il numero alle invenzioni innovative, cioè a pochi casi per volta, mentre nel caso della virtù morale, il premio efficace a scoraggiare i delitti dovrebbe essere dato ad ogni opera buona (cosa, evidentemente, inattuabile), perchè i premi attribuiti alle “innovazioni” nel campo della onestà (eroismi eccezionali) non stimolerebbe la virtù normale solita, proprio perchè riguarda non tanto l’evitare il male (delitti), quanto la pratica del meglio, cioè un grado eccezionale e non obbligatorio di rettitudine. Ci sembra un caso di astrattezza ed ingenuità ulteriore del razionalismo.
Il c. 42, Conclusione, riassume in poche righe lo scopo immediato dell’opera: “perchè ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, detatta dalle leggi”.
Primo bilancio dei princìpi beccariani. Abbiamo già avanzato commenti, seguendo gli spunti che il testo ci offriva, dovendo talora mettere in rilievo anche delle oscillazioni, incoerenze e, addirittura, contraddizioni. Di queste, la più evidente (e la radice delle altre) l’abbiamo lasciata da esaminare qui, alla fine: Beccaria non ha chiarito a se stesso se è la ragione od il cuore a garantire la verità ed il bene. Oltre tutto, tale contrasto si rivela subito, nei primi due capitoli dell’opera. Affini a questo primo groviglio, stanno il rapporto tra sentimenti, interessi, passioni ed istinti (o bisogni), tra sensi (sensitività?) e sensibilità; stanno la intuizione della libertà interiore (sulle passioni) e la mentalità più solitamente vicina al determinismo; sta la parte della religione e del buon senso nel dirigere la vita umana, ecc. Rivisitiamo tutta l’opera alla ricerca dei soli passi interessanti tali questioni: ci accorgeremo ben presto che la mancata definizione “chiara e distinta” delle varie componenti in questione, è la sorgente ultima degli andirvieni nel pensiero dello scrittore.
ANALISI
DEI PRINCI’PI BASILARI
DEL SISTEMA BECCARIANO
Nel c. 1 (Introduzione) si depreca che le leggi siano nate dalle passioni (deformi quindi e contrarie al loro fine di procurare “la massima felicità nel maggior numero”), anzichè dalla serena e lucida ragione (che un tal fine sa realizzare): “Apriamo le istorie, e vedremo che le leggi.... non sono state, per lo più, che lo strumento delle passioni di alcuni pochi... non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana...”.
La ragione è implicitamente elogiata anche in queste espressioni: “il commercio si è animato all’aspetto delle verità filosofiche”; e “pochissimi (pensatori), rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di più secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato finora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità”.
Ma, mentre accenna al Montesquieu come a (parziale) maestro delle proprie idee, rivendicandone altre a sè solo, oltre al primato della loro complessiva diffusione in Italia, il Beccaria chiede assieme la riconoscenza sia degli intellettuali sia delle anime più semplici, esaltando sia la ragione che la sensibilità (del cuore): “Me fortunato, se potrò ottenere, com’esso (il Montesquieu) i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito, con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi dell’umanità”.
Il c. 2 (Origine delle pene, e diritto di punire) si apre con una esaltazione dei sentimenti: “Non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale, s’ella non sia fondata sui sentimenti indelebili dell’uomo”. E, coi sentimenti, si esalta il cuore: “Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti.”
Si condannano invece “le forti impressioni delle passioni parziali, che si oppongono al bene universale... eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti”, per controbilanciare le quali –almeno per la moltitudine- non bastano neppure “le più sublimi verità”, ma occorrono “motivi sensibili”: “Dico sensibili motivi, perchè l’esperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, nè si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi, e che di continuo si affacciano alla mente per controbbilanciare le forti impressioni delle passioni parziali...”
Nel c. 3 (Conseguenze), troviamo una sola espressione che interessa la nostra indagine: “...quelle virtù benefiche che sono l’effetto di una ragione illuminata”. La ragione si conferma all’origine delle virtù come le passioni, dei vizi.
Nel c. 4 (Interpretazione delle leggi), si accenna ancora alla “violenza delle passioni” in un giudice, che lo porterebbero ad interpretare le leggi capricciosamente. L’ideale del processo penale deve essere invece “un sillogismo perfetto; la maggiore dev’essere la legge generale; la minore, l’azione conforme, o no, alla legge; la conseguenza, la libertà o la pena”
Nel c. 5 (Oscurità delle leggi), gli accenni alle varie componenti in gioco sono molteplici. Si afferma, ad esempio, che “l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni” (che sono all’origine dei delitti, come è detto immediatamente prima): questo conferma il valore della ragione a mitigare gli animi e condurli alla virtù. Nel secondo capoverso, si parla di “interessi privati” come di un sinonimo delle “passioni”: anch’essi sono all’origine della corruzione. In seguito, i lumi della ragione sono visti presenti (anche) nella stampa, cioè nelle pubblicazioni non ancora quotidiane, ma ormai più che mensili che cominciavano a circolare anche in Italia[93]: “Da ciò vediamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo, che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze...”. Troviamo infine delle affermzioni interessanti e sorprendenti: da una parte si sostiene che “dal seno del lusso e della mollezza nacquero le più dolci virtù, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani”[94]; dall’altra si oppone: “Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamiamo a torto antica semplicità e buona fede: l’umanità gemente sotto l’implacabile superstizione; l’avarizia, l’ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni dell’oro e i troni dei re; gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi; ogni nobile, tiranno della plebe; i ministri della verità evangelica, lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine[95], non sono l’opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto”.
Del c. 6 (Della cattura) solo la finale ci interessa qui: “Durano ancora nel popolo, ne’ costumi e nelle leggi, sempre di più di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri”. Si tratta della ripetizione del solito principio: la ignoranza genera la barbarie; i “lumi” del secolo XVIII generano la civiltà. E solito è il nostro commento: “Davvero? Ma, allora, perchè la rivoluzione francese, frutto dell’Illuminismo, fu (sostanzialmente) un fenomeno di inciviltà e di barbarie?”[96]
Nel c. 7 (Indizi e forme di giudizi) troviamo questa sentenza: “Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori (giuria popolare) al giudice principale, presi dalla sorte, e non dalla scelta, perchè in questo caso è più sicura la ignoranza che giudica per sentimento, che la scienza che giudica per opinione... Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione; per giudicarne dal risultato medesimo, non vi si richiede che un semplice e ordinario buon senso, men fallace che non il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei, e che tutto si riduce ad un sistema fattizio imprestato da’ suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza!”. Dunque, il sentimento è più adatto a determinare la verità che non la competenza razionale; l’ignoranza ingenua sa giudicare meglio in campo morale (di colpevolezza o meno) che non l’intelligenza informata. Ma, ahimè! André Cayatte combattendo, nel suo capolavoro “Giustizia è fatta” (1950), tale ingenuo punto di vista, non ha fatto che dar voce alla sapienza acquistata attraverso un paio di secoli di esperienza nei tribunali del mondo occidentale: la giuria popolare non è meno soggetta ad errori ed a ricatti che il singolo giudice...
Alla fine si esige troppo giustamente: “pubblici sieno i giudizi e pubbliche le prove del reato, perchè l’opinione, che è forse il solo cemento della società, imponga un freno alla forza delle passioni...”: qui, ci sembra, si ritorna invece al teorema solito: la conoscenza (opinione pubblica) è l’antidoto migliore alla prepotenza delle passioni.
Il c. 8 (Dei testimoni) cita come motivo di inaffidabilità di un testimonio “l’interesse ch’egli ha a dire, o non dire il vero”; interesse che appare, in seguito, essere “a proporzione dell’odio, o dell’amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui ed il reo..., perchè l’uomo non è crudele che a proporzione del proprio interesse, dell’odio o del timore concepito”. Passioni e ignoranza ritornano anche in seguito: “Egli è più probabile, che più uomini mentiscano nella prima accusa, perchè è più facile che si combini in più uomini o l’illusione della ignoranza, o l’odio persecutore, di quello che un uomo eserciti una potestà che Dio o non ha data, o ha tolta ad ogni essere creato”. Inaffidabile è anche un uomo, “quando sia membro di alcuna società privata, di cui gli usi e le massime sieno o non ben conosciute, o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le altrui passioni”.
Ancora vi è questa notazione fisio-psicologica (qualunque ne sia il valore): “Non v’è propriamente alcun sentimento superfluo dell’uomo; egli è sempre proporzionale al risultato delle impressioni fatte su i sensi”.
Il c. 9 (Le accuse segrete) contiene un passo da cui il Beccaria si lascia sospettare come seguace del determinismo psicologico e negatore della libertà interiore (libero arbitrio), perchè presenta gli uomini guidati (unicamente?) da sentimenti e, senza di essi, fluttuanti, quasi privi di princìpi decisionali: “Gli uomini (che si sanno soggetti a spionaggio e denunce segrete) si avvezzano a mascherare i propri sentimenti e coll’uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nasconderli a loro medesimi. Infelici gli uomini, quando son giunti a questo segno! Senza principii chiari ed immobili che li guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che li minacciano...”. Nulla è però detto esplicitamente; ed il capitoletto successivo offre subito una smentita a simile interpretazione ed un indizio (ulteriore) della incertezza dei princìpi su cui il Beccaria basava le sue deduzioni psicologico-giuridiche.
Il c. 10 (Interrogazioni suggestive. Deposizioni) prende in considerazione anche il fatto che non tutti cedono ai dolori della tortura, sicchè è lecito dedurne la convinzione che l’uomo –almeno in qualche caso- libero di fronte a tale tremenda pressione fisico-psicologica, sarà tanto più indipendente anche dalle suggestioni molto più lievi delle sollecitazioni dei sentimenti: “...il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità, onde cambiare la maggior pena (morte, prigione...) con la minore (lo strazio momentaneo della tortura), ed al debole suggerirà la confessione, onde liberarsi dal tormento presente, più efficace per allora che non il dolore avvenire.”[97]
Il c. 11 (Dei Giuramenti) rimette in campo la libertà dell’uomo, preso tra il (presunto) dovere di dire la verità in nome del giuramento prestato e l’interesse del colpevole a negarla sfacciatamaente per salvarsi dalla pena: “Una contraddizioone fra le leggi e i sentimenti naturali all’uomo nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocchè sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di essere falso; quasi che l’uomo potesse giurar daddovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini, quando parla l’interesse... E per qual motivo gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati più saggi l’hanno sovente violata? Troppo deboli, perchè troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi, che la relgione contrappone al tumulto del timore, e dell’amor della vita... Quanto sieno inutili i giuramenti...lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili, e per conseguenza dannose, tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo”.[98]
Il c. 12 (Della Tortura) torna però a far oscillare il pendolo verso il determinismo psicologico: la tortura infatti fa’ sì “che il dolore divenga crogiuolo della verità”. La dimostrazione avviene con un’azzardata analisi psicologica: “Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci altra libertà al torturato, che di scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del reo è così necessaria, come le impressioni del fuoco e dell’acqua (nei “giudizi di Dio” barbarici)... Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati, e di condannare i deboli innocenti... L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d’un innocente, trovare il grado di dolore, che lo farà confessar reo di un dato delitto”. Queste espressioni negano la libertà interiore, che si poteva vedere nel c. 10.
Il c. 13 (Processi e prescrizioni) presenta due incursioni nella nostra tematica. Dapprima si dice che “Il numero de’ motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà (coll’omicidio), è di gran lunga minore al numero de’ motivi che per la naturale avidità di esser felici li spingono a violare un diritto (quello della proprietà privata, col furto) che non trovano ne’ loro cuori, ma nelle convenzioni della società” (cfr. c. 30). Molto più importante è il passo finale, che pone per la prima volta le “passioni” come fattore positivo di pubblico bene, facendole coincidere con quanto di solito si dice dei “sentimenti”, ma mettendosi in contrasto con quanto normalmente si predica delle passioni, fattori di egoismo e di distruzione della società: “Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtù; per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che più si sostengono per l’attività del governo e delle passioni cospiranti al pubblico bene, che per la massa loro o la costante bontà delel leggi. In queste, le passioni indebolite sembrano più atte a mantenere che a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento”. Un altro caso di passioni “convertibili” al bene, nel c.25.
Il c. 14 (Attentati, complici, impunità) ripete la candida ipotesi che “sono meno fatali ad una nazione i delitti di coraggio che quelli di viltà; perchè il primo... non aspetta che una forza benefica e direttrice che lo faccia cospirare al bene pubblico”. Sorprende, inoltre, con l’affermazione di un fondamento emotivo alla moralità della vita associata (la “pubblica confidenza” è “la base della morale umana”); accenna ancora ai sentimenti come sorgente di valori positivi nell’umano agire, deprecando quanti ne abusano “freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime tenere e sublimi” ed “eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti più cari e le passioni più violente, sì tosto che le veggono utili al loro fine, tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti”. Ma si noti che in questo caso la freddezza della ragione (esaltata come fonte di leggi giuste e funzionali alla sicurezza sociale: cfr. c.1, ove si auspica come estensore delle leggi un “freddo esaminatore della natura umana”) è deprecata come spietata soffocatrice dei candidi sentimenti di fiducia (presenti nei complici che aiutano la giustizia ad arrestare gli altri colpevoli) ed eccitatrice delle passioni di odio e vendetta (perchè tali delatori si vedono poi, da simili giudici insensibili e spietati, ugualmente condannati, nonostante la promessa di impunità garantita per incoraggiare la collaborazione).
Il c. 15 (Dolcezza delle pene) , chiedendo di misurare le pene al solo fine di scoraggiare il delitto, afferma contro l’eccesso di esse: “... un corpo politico... ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni...”. Siamo di fronte ancora una volta, alla celebrazione della ragione serena ed alla condanna delle passioni irrazionali. Per il resto, troviamo una mentalità deterministica, che vede, cioè, nell’agire umano il risultato di spinte sentimentali e passionali (noi diremmo emotivo-istintive): “Quelle pene dunque e quel metodo di infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo”; e più avanti: “A misura che i supplizi diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello con gli oggetti che li circondano, s’incalliscono; e la forza sempre viva delle passioni fa che dopo cento anni di crudeli supplizi, la (tortura, il supplizio della) ruota spaventi tanto, quanto prima la prigionia. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male, a cui si va incontro...”. Fin qui siamo (implicitamente) sulla strada del determinismo psicologico, che escluderebbe il libero arbitrio.
Un’altra notazione dobbiamo fare, per mettere in rilievo la incertezza quasi contradditoria del Beccaria di fronte al dato di fatto della esistenza di pene crudeli (tortura, pena di morte...). Nel corpo del capitoletto, sembra che l’applicazione di tali punizioni generi passioni selvagge o, almeno, le aiuti a permanere: “I paesi e i tempi dei più atroci supplizi furono sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni; poichè il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario: sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi che ubbidivano; nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi”. La conclusione esige lo stato selvaggiocome causa e giustificazione della legislazione feroce: “Conchiudo con questa riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Più forti e sensibili devono essere le impressioni su gli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone, che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società, cresce la sensibilità, e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione fra l’oggetto e la sensazione”.
Il c. 16 (Della pena di morte). I passi essenziali che interessano la prospettiva da cui stiamo analizzando ora l’opera, sono già stati riportati a p. 53-4 (Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa... Perchè una pena sia giusta non deve avere che quei gradi di intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti...”). Qui ne riportiamo qualche altro di conferma alle opinioni beccariane già note: la psiche umana è mossa dalle sensazioni; occorre studiare queste per governare l’uomo secondo natura; per scoraggiare il delitto si deve usare la impressione sensibile minima tra quelle efficaci: ebbene risulta non necessaria la pena di morte, perchè basta la paura dell’ergastolo, che colla estensione della punizione risulta ancora più temibile della morte istantanea[99]: “Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà che, divenuto bestia di servigio,ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti.... La pena di morte fa un’impressione, che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violente sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o de’ Persiani o de’ Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti”. E più sopra: “L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente...”.[100]
Nel c. 17 (Bando e confische) non troviamo spunti per la nostra indagine.
Il c. 18 (Infamia), al contrario, ne è inzuppato: saremo costretti a riportarne i due terzi finali. Esso è basato sulla solita premessa (inconscia?) che l’agire dell’uomo sia in balia delle sole sensazioni-impressioni-emozioni-istinti: “Le pene corporali e dolorose non debbono darsi a quei delitti, che, fondati sull’orgoglio, traggono dal dolore istesso gloria ed alimento,[101] ai quali convengono il ridicolo e l’infamia; pene che frenano l’orgoglio dei fanatici coll’orgoglio degli spettatori, e dalla tenacità delle quali appena con lenti ed ostinati sforzi la verità stessa si libera. Così forze opponendo a forze, ed opinioni ad opinioni, il saggio legislatore rompe l’ammirazione e la sorpresa del popolo cagionata da un falso principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo l’originale assurdità.
Le pene d’infamia non devono essere nè troppo frequenti, nè cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non il primo, perchè gli effetti reali e troppo frequenti delle cose d’opinione indeboliscono la forza dell’opinione mdedesima; non il secondo, perchè l’infamia di molti si risolve nell’infamia di nessuno. Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la natura invariabile delle cose, che, non essendo limitata dal tempo, ed operando incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti che da lei si scostano. Non sono solo le arti di gusto e di piacere, che hanno per principio universale l’imitazione fedele dela natura: ma la politica istessa, almeno la vera e la durevole, è soggetta a questa massima generale, poichè ella non è altro che l’arte di meglio dirigere, e di rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini”.
Siamo, dunque, tornati ad uno dei teoremi di fondo: i sentimenti sono la stella polare della vita, legislazione preventiva e punitiva dei delitti compresa; affidandosi alle loro inclinazioni si può ottenere la società migliore col minimo di sofferenze per i cittadini che la compongono. Ma la ragione cui è affidata la realizzazione della felicità e della sicurezza degli uomini radunatisi in società è solo strumento di indagine sugli affetti (sentimenti) umani e non della “natura umana” nella sua perfezione? Se la coscienza non basta a fondare le leggi morali e sociali, essendo essa conoscenza di qualcosa al di fuori di sè (col Beccaria, non siamo ancora alle aberrazioni di Kant e dell’idealismo), allora l’oggetto di indagine della coscienza stessa non possono essere i soli sentimenti: il sentimento può venir meno tra sposi (dichiareremo naturale il divorzio?); il sentimento può inclinare alla omosessualità (dichiareremo naturale la omosessualità?); il sentimento può inclinare alla rivoluzione in nome dell’uguaglianza (dichiareremo naturale la violenza aggressiva, in vista di un mondo ideale?). Si tratta di una unilateralità e di un astigmatismo tragici.
Il c. 19 (Prontezza della pena): si ripetono i princìpi sensistici, propri del Condillac (Etienne Bonnot de: 1715-1780), che discendono dall’empirismo di John Locke, come ci si può accorgere da questi ragionamenti: “... quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena; talchè insensibilmente si considerano, una come cagione, e l’altra come effetto necessario immancabile. Egli è dimostrato, che l’unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica dell’intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebebro sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto più gli uomini si allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè quanto più sono volgari, tanto più agiscono per le immediate e più vicine associazioni, trascurando le più remote e complicate, che non servono che agli uomini fortemente appassionati per l’oggetto a cui tendono;.... Servono parimenti alle menti più elevate, perchè hanno acquistata l’abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta... Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l’idea associata della pena... Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre più l’importante connessione tra’l misfatto e la pena; cioè, che questa sia conforme quanto più si possa, alla natura del delitto... la pubblica pena dei delitti più leggieri, e a’ quali l’animo è più vicino, farà una impressione che, distogliendo da questi, lo allontani vie più da quelli”.
Il c. 20 (Certezza delle pene. Grazie) lavora ancora sulla reazione della sensibilità e psicologia dei sentimenti. “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma la infallibilità di esse....La certezza di un castigo, benchè moderato, farà sempre una maggior impressione, che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza della impunità... Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari; ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore.[102] Saggio architetto faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno; e non sarà costretto con leggi parziali, e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene dei particolari...”
Il c. 21 (Asili) solo nel periodo finale mette in gioco uno dei fattori che stiamo indagando, la ragione. Si tratta di dare un giudizio su quell’istituto che noi chiamiamo estradizione e che il Beccaria ritiene buono in sè, ma discutibile nelle circostanze storiche concrete del suo tempo: “Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fra le nazioni, io non ardirei decidere la questione, finchè le leggi più conformi ai bisogni dell’umanità, le pene più dolci, ed estinta la dipendenza dall’arbitrio e dall’opinione, non rendano sicura la innocenza oppressa e la detestata virtù: finchè la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre più unisce gli interessi del trono e de’ sudditi, confinata nelle vaste pianure dell’Asia...”.
Anche il c. 22 (Della Taglia) ci offre pochi rimandi, che assommano la funzione della ragione a quella della sensibilità: “A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre più tendono a confondersi colla vera politica... la sensibilità di tutti (inclinata alla vita ordinata ed onesta) rintuzza la sensibilità (egoistica) di ciascuno” (dei singoli).
Il c. 23 (Proporzione fra i delitti e le pene). La sensibilità elementare del dolore e del piacere muove l’uomo ad agire: gli stessi agenti devono esser tenuti presenti nel distribuire le pene per scoraggiare i delitti: “Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle più sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile Legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contraddizione, quanto più comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere”. Più avanti si parla di “sentimenti morali”, che nascono lentissimamente e sono opera di molti secoli e di molto sangue.[103] Ancora una volta troviamo uniti i delitti alle “passioni particolari” che sembra sinonimo degli “interessi particolari”. Forza neutra, che può produrre bene e male, è la ricerca del nostro benessere: “Quella forza, simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che le sono opposti”. Tale forza coincide colla nostra sensibilità; gli ostacoli con cui regolarla sono le pene: “Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane. Se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dell’uomo”. Ed ecco di nuovo la riduzione della politica a gioco di contrapposizionie di forze puramente sensibili, senza mai chiamare in causa la necessità della educazione morale: “e il legislatore fa come l’abile architetto, di cui l’officio è di opporsi alle direzioni ruinose della gravità, e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio”.
Il c. 24 (Misura dei delitti) ha pochissimi dati per questo esame (mentre molti ne ha forniti per fissare il pensiero più costante dell’opera: si parla, dunque, di “un indifferente ragionatore”, nel senso di un ragionatore libero da spinte emotive; e della necessità di giungere alla “utilità comune” attraverso “l’urto delle passioni e la opposizione degli interessi”. La ragione è, dunque, capace di comprendere e di vincere le passioni, snobbandole con il giocare l’una contro l’altra. Eppure la ragione non sa studiare la natura umana e ritrovare in essa (diritti della persona qua tale, almeno finchè è innocente; diritti di Dio, una volta stabilita la sua esistenza; bontà radicale della sfera passionale delle emozioni ed istinti, intesi nella perfezione della loro finalità; diritti e doveri verso il prossimo, a cominciare dai consociati nella nazione) i princìpi della legislazione utile alla felicità umana e, perciò, intesa non solo a reprimere i delitti ma anche ad educare al bene.
Il c. 25 (Divisione dei delitti) presenta le “passioni” come ancora deleterie, ma suscettibili di correzioni esse stesse e generatrici per ciò stesso di bene per la società: “Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri; che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò così, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto.” E’ il secondo caso in cui non si parla del tutto male delle “passioni” (abbiamo segnalato il primo, nel c. 13). Questo non toglie che subito prima egli parli negativamente delle passioni: i concetti di “vizio e virtù, di buon cittadino o di reo” cambiano “quasi sempre” “non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune; ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori”.[104]
Il c. 26 (Delitti di lesa maestà) non presenta alcun suggerimento alla nostra inchiesta.
Il c. 27 (Delitti contro la sicurezza di ciascun particolare. Violenze. Pene dei nobili) sottintende ovunque la condanna delle passioni egoistiche che favoriscono la classe nobiliare e ne sminuiscono le punizioni sotto motivi inconsistenti o pretesti superbi: ma non si citano col loro nome nè le passioni nè l’interesse egoistico. Si parla di “sensibilità” in un paio di frasi (“la sensibilità del reo non è la misura delle pene”| “E chi non sa che le sensibili formalità tengono luogo di ragione al credulo ed ammiratore popolo?”); altrove, di dispotismo|tirannia (“gli uomini, che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo...”| “le ricchezze... diventano l’alimento alla tirannia”), ma senza offrire un contributo chiaro all’indagine che ci sta a cuore.
Il c. 28 (Ingiurie dell’onore) riduce anch’esso a pochi accenni il contributo alla nostra ricerca.Vi si parla obbrobriosamente delle passioni (da cui insorge quel senso dell’onore, basato non sul valore reale della persona, ma sulla volontà di conservare ad ogni costo nell’opinione pubblica il rispetto e la stima formale verso la propria individualità); del dispotismo (fisico o della violenza; psicologico o della opinione; politico o della tirannia; persino giusto: quello delle leggi); e dello stato di natura (il cui disordine è rimediato col patto sociale). Anche l’acuta ma generica analisi della confusione insita nella idea di onore, denuncia uan dipendenza della gnoseologia beccariana dall’empirismo di Locke ed è già stata riportata a suo luogo; non offre novità di rilievo.
I cc. 29, 30 e 31 (Dei duelli| Furti| Contrabbandi) solo in qualche accenno interessano il nostro problema. Vi si parla di “sospetto e gelosia” come passioni più tipiche dei nobili o della classe comunque emergente, cause di quel delitto che sono i duelli (c. 29); della disperazione, che cagiona nei miseri l’impulso a rubare (c. 30); delle impressioni, che influiscono sull’agire a misura della loro forza (c. 31: i delitti che cagionano danno ai singoli cittadini determinano le impressioni più potenti e, quindi, detestazione ed infamia nella pubblica opinione; quelli che nuocciono solo alla comunità in generale, come il contrabbando, ne causano di debolissime). Si tratta di riferimenti a princìpi già ampiamente svolti, senza novità di rilievo.
Il c. 32 (Dei Debitori) offre invece qualche estemporanea ed incauta “variazioni di tema” sulle posizioni solite. Dapprima abbiamo una ripetizione, circa la esistenza di “leggi dettate dai potenti per avidità”: si tratta della indistinzione, nel caso di fallimento, tra innocenti caduti nella miseria per sfortuna e maliziosi, giunti ad una studiata insolvenza per calcolo. Ma in seguito abbiamo un aggravamento del ripetuto principio che le leggi debbono esser dettate dalla fredda ragione e non dal sentimento: la legge non è detta solo “imparziale”, ma addirittura “cieca”. Ed alla fine si parla del sentimento che, anzitutto pare rivelarsi come una passione attenuata e, in secondo luogo, può produrre effetti negativi: “Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle novità, s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali”.
Il c. 33 (Della tranquillità pubblica) ha una indicazione interessante, fra le molte ripetitive. Dapprima si parla male delle passioni (“i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine”): ad eccitarle contribuisce il numero stesso degli spettatori (“la frequenza degli uditori”) e “l’oscuro e misterioso entusiasmo”, che si intuisce sia qualcosa di affine alle passioni stesse od al sentimento. In contrapposizione, si parla bene della ragione, che però “mai non opera sopra una gran massa d’uomini”. La seconda parte del capitoletto è un inno alla verità, al sapere, alla conoscenza delle leggi, che dovrebbero essere particolarmente precise, nel caso l’autorità pensasse di ricorrere alla “polizia”, istituto che facilita troppo la “oscura tirannia”.
Fin qui, nulla di nuovo. Invece le ultime righe rischiano di parlare bene delle “passioni”, che sono una delel tre sorgenti del coraggio: “Il vero tiranno comincia sempre a regnare sull’opinione, chè previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nella ignoranza del pericolo”. Anche “Dei delitti e delle pene”, dunque, contiene dei concetti “oscuri e misteriosi”... E offre dottrine ambigue rispetto a certe funzioni dello Stato e della sua legislazione: lo Stato deve anche educare alla virtù positivamente (non solo con le pene)?. E che forza, può esercitare a tale scopo, il ragionamento, il discorso civile o religioso?[105] Vi è qui uno dei rarissimi casi in cui tali valori sono celebrati e raccomandati, contro il silenzio o il disprezzo soliti: “i semplici e morali discorsi della religione...le arringhe destinate a sostener gl’interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti, o dove risieda la maestà del sovrano, sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni”. Sì, perchè quando la “tranquillità pubblica” è sfruttata da genete maliziosa, allora scade nell’ozio, che è il padre dei vizi. E’ l’argomento del capitoletto successivo.
Il c. 34 (Dell’ozio politico) ci rivela che il Beccaria, come simpatizza colla intraprendneza e le passioni “ irascibili” (aggressive: vigore, coraggio...), così è sospettoso verso l’ozio e tollerante verso le passioni “concupiscibili” (passive: che riguardano il piacere): “Non è ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle virtù dei propri antenati e vende per attuali piaceri il pane e l’esistenza alla industriosa povertà... Quest’ozio è necessario ed utile a misura che la società si dilata e l’amministrazione si restringe”.[106] A questo punto non si sa più quale sia l’ozio che trasgredisce nella delinquenza: se lo deve stabilire la legge (“le leggi debbono definire qual sia l’ozio da punirsi”), non c’è il pericolo che l’autorità cada nel dispotismo e nella tirannia? E se è pericoloso lasciare che chi vive di rendita si dia in braccio alle “passioni d’opinione, che non sono le meno forti”, come distinguere un intellettuale che studia e inventa per il bene del popolo e il rivoluzionario che pensa e congiura per la sua rovina?
Il c. 35 (Del Suicidio e dei Fuorusciti) conferma l’abituale sensismo del Beccaria: unica molla che fa agire in bene sono i sentimenti, come l’unica forza che spinge al male sono le passioni. Eccolo allora proclamare che è inutile punire il suicida, perchè ormai insensibile è il suo corpo (“Chi teme il dolore, ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti”); eccolo dichiarare che l’amore alla vita è troppo forte, perchè “temer si debba che la necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche influenza sugli uomini”.[107]
Quanto ai fuorusciti, sappiamo già che egli opta per la non punizione in nessun caso. Ma, se la via del timore è esclusa (“Che dovremo pensare di un governo, che non ha altro mezzo per trattenere gli uomini naturalmente attaccati, per le prime impressioni dell’infanzia, alla loro patria, fuori che il timore?”), ecco allora i mezzi positivi. Qui il Becacria, mentre svela di nuovo il suo amore per la povera gente, per il cui lavoro e sostentamento non esita a schierarsi in favore dei vizi costosi dei ricchi (“I piaceri del lusso non sono i principali elementi di... felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si addenserebbero in una sola mano”), conferma anche la miopia del sensismo di cui è prigioniero: l’abbiamo sentire affermare che i “piaceri del lusso” non sono la sostanza della felicità: ma di positivo non sa additare null’altro. Neppure (benchè sia razionalista), neppure il piacere della cultura, della conoscenza, della meditazione filosofica: e tanto meno la gioia della amicizia e la consolazione della vita religiosa.
Il c. 36 (Delitti di prova difficile) ci presenta, come abbiamo visto, l’istinto sessuale come fondatore della società e perciò fondamentale nella vita. Il chiamarlo “bisogno naturale” lo vuol definire incomprimibile, incontrollabile? L’unico rimedio che viene accennato, a buon conto, benchè oscurato dall’immagine in cui è immerso, pare accennare ad un compromesso tra resa totale all’istinto e suo totale rifiuto: “inutili e perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi, che cercassero di dimunuirne la somma totale, perchè il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei prioprii e degli altrui bisogni; ma sagge per lo contrario sarebbero quelle che, per dir così, seguendo la facile inclinazione del piano , ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento”. Siamo sempre sul filo di spinte e controspinte, quasi di un gioco di forze all’interno della sfera passionale: di un potere della ragione-coscienza sull’istinto erotico non v’è accenno.
Contro l’adulterio, i due rimedi additati sono competenti: libera scelta dello sposo|sposa da parte dei nubendi; ricorso alla religione contro la tentazione di adulterio. Quest’ultima dichiarazione (già citata a suo luogo) sarebbe un riconoscimento della non invincibilità dell’istinto, se l’appello alla religione potesse essere preso in tutta serietà: il che non è sicuro. Potrebbe essere una ipocrisa per salvarsi dall’anatema della Chiesa (che condannò il libro) e della opinione pubblica (ed ebbe i trionfi delle edizioni moltiplicate e dei ricevimenti a Parigi).
Anche l’omosessualità lascia il sospetto di venir considerata come il risultato ovvio dell’incontro-scontro fra natura ed educazione: posto l’istinto erotico come invincibile (Gestalt|Nature), allora basta porre “l’ardente gioventù” in condizioni (internati di scuole) di non poter esaudire la spinta sessuale in forma normale (nurture|behaviour), che esso trabocca nell’ “attica venere”. Determinismo psicologico, ancora una volta, senza neppure sospettare che esistono anche meccanismi perversi in qualche costituzione biologicamente deviata o “diversa”...
L’esame del caso dell’aborto ripropone il determinismo psicologico: una povera ragazza caduta in peccato e divenuta gravida, non può resistere alla pressione della taccia d’infamia in cui incorrerebbe rendendo manifesto il suo stato: l’aborto ne è la conclusione naturale.
Il c. 37 (Di un genere particolare di delitti) è interessantissimo sia per le accuse esplicite (crudeltà inaudita delle pene, compreso il bruciamento di persone vive); sia per gli auspici impliciti ma evidenti (abolire questo residuo di barbarie medioevale, contrario alal ragione ed allo spirito evangelico); sia per la forma maliziosa con cui finge di scambiare il fatto per il diritto e riconoscere come vero ciò che, incomprensibile alla ragione (le problematiche religiose che sottostanno ad una eresia) è imposto d’autorità. Ma esso non presenta contributi alla controversa interazione fra sentimenti-passioni-ragione nel determinare la condotta umana, in particolare la stesura delle leggi e la loro applicazione nei processi penali.
Il c. 38 (False idee di utilità), invece, ribadisce il determinismo psicologico, sia quando, per scoraggiare i delitti ed ordinare con sicurezza la società, dichiara falsa idea di utilità (socio-politica) quella che “trascura i motivi presenti (che incidono sulla sensibilità), che soli con costanza e con forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de’ quali brevissima e debole è l’impressione”; sia quando fa delle “male leggi”, con cui “il dispotismo getta il timore e l’abbattimento nell’animo de’ suoi schiavi”, una forma di istigazione a delinquere; sia quando sostiene con Machiavelli che “l’odio è un sentimento tanto più durevole dell’amore, quanto il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti che indeboliscono il secondo”.[108]
Il c. 39 (Dello spirito di famiglia), con l’espressione “le leggi e i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica”, si emarginano ancora la ragione ed il libero volere dal concorso a stabilire i princìpi della vita associata, rivelando la solita mentalità deterministica in dipendenza dalla sfera sensibile. Essa si manifesta anche più avanti: “Avvezzi (i figli, a causa della “podestà del capo”) a piegare ed a temere nell’età più verde e più vigorosa, quando i sentimenti sono meno modificati da quel timore di esperienza, che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtù nella languida e cadente età, in cui anche la disposizione di vederne i frutti si oppne ai vigorosi cambiamenti?” E si veda il passaggio già citato a suo luogo (p. 43 e nota 49), che esalta il senso della repubblica, perchè abitua a “servire ai propri vantaggi” ed al “fanatismo” di “immolarsi per la patria”.
Anzi, il deteminismo, finora puramente psicologico, diventa anche fisico, numerico: “Le società hanno, come i corpi umani, i loro limiti circoscritti, al di là dei quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno Stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone...”. Si veda anche il c. 41:“La moltiplicazione dell’uman genere... Ma i bisogni si moltiplicavano sempre più col moltiplicarsi degli uomini...”.
In più (rara occasione, ma illuminante) si attribuisce alla sfera dei “sentimenti” la responsabilità di generare leggi anche cattive (o “meno buone”, visto che lo “spirito di famiglia”, con l’autoritarismo dei padri-capi indiscussi, si limita a stimolare sentimenti monarchici piuttosto che repubblicani): “lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima, e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza”.
Il c. 40 (Del Fisco) può solo ricordarci il primato della ragione nella applicazione delle leggi da parte dei giudici: “la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda...è pochissimo in uso nei tribunali europei”.
Il c. 41 (Come si prevengano i delitti) ha molti spunti per la nostra indagine. Intanto, si incontra subito un principio sensistico come causa insuperabile del groviglio nelle vicende di una società: “Come le costanti e semplicissime leggi della natura (fisica) non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti; così nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine”. Anche la condizione di schiavi sotto un regime tirannico induce a delitti maggiori: “Gli uomini schiavi sono più voluttuosi, più libertini, più crudeli degli uomini liberi...,contenti del giorno presente, cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dell’annientamento, in cui si veggono; avvezzi all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito dei loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che lo determina.” (seguono esemplificazioni di questa tendenza psicologica ad approfondire le passioni di cui ciascun popolo –l’indolente, il voluttuoso, il coraggioso e forte- è portatore).
Segue subito una esaltazione della ragione, come sorgente e di buone leggi e di volontà buona: “In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza...” (brani già riportati a suo luogo).
Nel tentativo, però, di metter d’accordo l’ammirazione per il Rousseau con l’elogio della ragione, eccolo ad introdurre nella evoluzione dell’umanità una tappa in cui si opera il passaggio dalla barbarie ferina ai primi barlumi di razionalità: questa sarebbe l’umanità in cui il candore valeva più dei lumi nei popoli progrediti, la umanità non sofisticata celebrata dal Rousseau: “Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità; e quando lo furono, era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell’uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti più rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei, che nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perchè la loro indolenza e poca sagacità li preservava dall’errore”[109].
E fa parte di questa celebrazione della semplicità ed ignoranza primitiva, anche la invenzione della religione idolatrica, quale mezzo per reprimere la passionalità bestiale: “Erano dunque necessarie impressioni più forti e più durevoli, che li distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d’insociabilità, che si rendeva sempre più funesto. Fecero dunque un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico), e che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quelli che osarono sorprenderli, e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti al di là dei sensi, che loro fuggivan davanti a misura che credevano raggiungerli, non mai disprezzati, perchè non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono da popoli selvaggi; questa fu l’epoca della formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario, e forse unico”.[110] Escluso il popolo eletto d’Israele da tale ricostruzione della prima storia della umanità, egli può continuare il suo romanzo storico-psicologico: “Ma come è proprietà dell’errore il sottodividersi all’infinito, così le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso labiritno si urtano e si scompigliano di modo, che alcune anime sensibili e filosofiche invidiarono persino l’antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o, per dir meglio, le opinioni sono dannose”. Ecco salvati dunque capra e cavoli (i sentimenti di Rousseau ed il razionalismo illuminista,volevamo dire): “la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, perchè questo aggiunge ai mali della prima quelli dell’errore, inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero”.
Ma, improvvisato questo ponte di transizione (l’epoca dei sensi, degli dei e degli eroi, di vichiana ispirazione?), ritorna il contrasto netto tra le passioni ( frutto degli errori) e la verità (frutto della ragione), cioè tra le due forze radicali del male e del bene: è la lotta che si sviluppa nella crisi seconda dell’evoluzione umana: il “difficile e terribile passaggio dagli errori alla verità, dalla oscurità non conosciuta alla luce”, dove si verifica “L’urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le verità utili ai molti deboli, l’avvicinamento ed il fermento delle passioni che si destano in quell’occasione”. E’ un’epoca di “infiniti mali alla misera umanità. Chiunque rifletta sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto alle epoche principali, vi troverà più volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso, ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando,calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che la opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti, e poi accelerati, siede compagna sui troni de’ monarchi, ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la luce, che illumina la moltitudine, sia più dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose, ben conosciuti dagli uomini, lor sieno funesti?”[111] Segue un brano celebrativo dell’ “uomo illuminato”, delle sue virtù personali e dei servizi resi alla nazione: ci servirà citarlo, quando faremo di questo capitolo il centro di analisi della caratura artistico-letteraria di tutta l’opera.
E, visto che il resto del capitolo 41 non offre ulteriori spunti al nostro esame specifico; visto che il c. 42 è muto in materia, non ci resta che tentare una sintesi finale, per occuparci poi del valore metafilosofico (volevamo dire “estetico”) del volumetto.
Si può tentare ora una visione d’assieme dei princìpi fondamentali del “beccarismo”.
La ragione, contro la ignoranza, è esaltata solitamente come sorgente dei lumi e della verità, delle buone leggi e dei processi efficaci a scoraggiare il delitto: cc. 1, 3, 4, 5, 8, 21, 24, 32, 33, 40, 41. Ma siccome non se ne dà una definizione precisa, ecco che intervengono delle oscillazioni (c. 7: “in questo caso è più sicura l’ignoranza che giudica per sentimento, che la scienza che giudica per opionione”: e sì che “l’opinione...è forse il solo cemento della società”);[112]anzi, delle vere contraddizioni . Che la ragione sia e debba essere “fredda” cioè libera da ogni suggestione passionale, lo si può scoprire al c. 1 (il legislatore benefico è un “freddo esaminatore dela natura umana”), al c. 24 (“indifferente ragionatore”9 ed al c.32 (la legge buona –nata dunque dalla ragione- deve essere “cieca ed imparziale”). Ma al c. 14 e 41 tale “freddezza” diventa la causa della ingiustizia delle stesse leggi, perchè la ragione le sofistica a servizio delle passioni egoistiche: nel c. 14 gli uomini “freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime tenere e sublimi, eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti più cari e le passioni più violente, sì tosto che le veggono utili al loro fine”; nel c. 41 i pochi elementi delle leggi primitive “erano giusti, perchè la loro indolenza e poca sagacità li preservava dall’errore”; “Fecero... un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico)”; “le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi...”.
Il cuore, elogiatissimo nel c. 2, è nello stesso capitolo collegato inestricabilmente ai sentimenti. Entrambe le realtà (sorgente -o almeno simbolo-, l’una; sue manifestazioni, i secondi) sono all’origine della vera legislazione, delle leggi benefiche. Si vedano anche i cc. 8, 9, 11, 14, 35, 39, 41.
Ma anche qui, manca ogni definizione;[113] e si farà desiderare, perciò, la coerenza definitiva. Se la semplicità e la buona fede possono esser fatti rientrare, in qualche modo, nei “sentimenti”, allora già il c. 5 ne depreca le conseguenze funeste (superstizione, avarizia, ambizioni di pochi, il tinger di sangue...). Il c. 32 recita: “Gli uomini, abbandonati ai loro sentimenti i più ovvii, amano le leggi crudeli, quantunque soggetti alle medesime...”; ed ancora: “Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle novità, s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali”: sentenze che relegano i sentimenti fra le sorgenti o fra gli stimoli ad operare irragionevolmente, dannosamente, crudelmente... Il c. 38 confonde (ci pare proprio) sentimenti e passioni, spinte al bene ed al male: “l’odio è un sentimento tanto più durevole dell’amore...”. Il c. 39, stabilito che “le leggi e i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali”, distingue fra sentimenti migliori e peggiori (se non proprio buoni e cattivi): i sentimenti monarchici sono meno buoni di quelli repubblicani; i sentimenti che nascono dallo spirito di famiglia rendono mediocri, perchè ci inclinano ad amare persone e cose che ci circondano da vicino, mentre quelli che nascono dallo spirito pubblico, di società (repubblicana, specialmente) ci inclinano ad amare ideali universali o almeno più larghi.
Le passioni (egoismo|interessi particolari)sono abitualmente la bestia nera del Beccaria. Ma, anch’esse, per la mancanza di una chiarificazione della loro essenza o natura, si vedono talora promosse a benefattrici dell’umanità. Negativamente se ne parla nei cc. 1, 2, 5, 8, 23, 24, 25 (in parte), 27, 28, 29, 30, 32, 33, 34, 35. A tale senso deplorevole pensiamo di poter avvicinare il termine “interesse privato”: cfr. cc. 5, 11 e 23.
Ma al c. 13 le passioni denotano sempre un gran vigore di volontà, “necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtù”, sicchè esse possono essere “cospiranti al pubblico bene” ed assieme ad un buon governo e più ancora della “costante bontà delle leggi”, possono sostenere meglio le nazioni che non “le passioni indebolite”, le quali “sembrano più atte a mantenere che a migliorare la forma di governo”. Nel c. 20 troviamo che il legislatore deve far coincidere l’interesse generale con quello di ciascuno (“privato”e, dunque, particolare e corruttore); anzi deve mettere a fondamento della società l’amor proprio (che parrebbe una passione deleteria): “Saggio architetto faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degli interessi di ciascuno...”. Al c. 25, poi, pare che proprio le passioni, sia pure edulcorate dal tempo e dall’uso, siano la sorgente della saggezza nelle leggi delle generazioni seguenti: “bene spesso le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri; che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò così, dal tempo... diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto”.
A proposito di “passioni”, noteremo la assenza del termine “istinto”: anche l’erotismo è chiamato solo un “bisogno universale e costante” di tutta l’umanità. Si è già detto che il discorso del c. 36, al riguardo, è oscuro e forse ambiguo. Il pensiero parrebbe questo: la spinta erotica è insuperabile con le sole forze naturali; con la religione, il discorso è (davvero?) diverso; parlando in sede di politica e non di religione, il rimedio non è il divieto puro e semplice, ma il diramare la passione “in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento” (e chi ci capisce è bravo).
Circa i sensi, vi sono espressioni in tutti e tre i significati possibili. Al c. 2, la facoltà pare giudicata piuttosto negativamente, in consonanza con il determinismo psicologico di cui parleremo. I “sensi” spadroneggiano nell’animo umano, almeno della massa: “Dico sensibili motivi, perchè l’esperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, nè si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi, e che di continuo si affacciano alla mente per controbbilanciare le forti impressioni delle passioni parziali...”. Al c. 5 i sensi paiono essere visti come facoltà positiva: “dal seno del lusso e della mollezza nacquero le più dolci virtù, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani” (ma sono i sensi o le passioni legati alla sensualità? e che distinzione si dovrebbero fare? è il solito mistero del rapporto fra tutte queste facoltà, che rimangono solo intuite confusamente). Nel c. 10, la loro funzione pare neutra: “il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità, onde cambiare la maggior pena (morte, prigione) con la minore (strazio momentaneo della tortura), ed al debole suggerirà la confessione, onde liberarsi dal tormento presente, più forte per allora che non il dolore avvenire”. Si veda anche il c. 31 (“Gli uomini, sui quali le conseguenze rimote fanno debolissime impressioni...”)...
La sensibilità corrisponde alla sensitività (e va collegata coi “sensi”) od al “sentimento”?
A buon conto, nel c. 22 vi è una “sensibilità” di tutti” che inclina al bene e tende a coincidere con la ragione nel produrre buone leggi e buoni rapporti fra i cittadini; ed una “sensibilità di ciascuno” che va rintuzzata, perchè egoistica e nociva. Nel capitolo seguente la sensibilità coincide con la ricerca del nostro benessere (Quella forza... che ci spinge al nostro ben essere...è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo”). Essa consta di due facce essenziali e contrastanti: piacere e dolore: “... il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili...”. Va diretta con “ostacoli politici”: “il legislatore fa come l’abile architetto, di cui l’officio è di opporsi alle direzioni ruinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio”.
La libertà interiore (libero arbitrio|dominio sulla sfera neurovegetativa di istinti ed emozioni) non è presa in considerazione dal Beccaria, pel quale la libertà unica pare sia quella esteriore, del rapportarsi con i concittadini e coll’autorità, mentre il nostro dominio sul mondo dei sensi (dolore, piacere) è frutto solo del rapporto fra potenze sensibili, materiali dell’organismo umano, non della volontà governata dalle idee. Sia il testo citato poco sopra dal c. 10 che quello pur citato dal c. 12, a proposito della capacità di resistere al dolore della tortura, devono essere letti in chiave di determinismo interno: “L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità: tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d’un innocente, trovare il grado di dolore, che lo farà confessar reo di un dato delitto”.
Se non vi è libertà interiore, il determinismo psicologico è scontato. Oltre il passo citato, di una chiarezza orrorosa, si vedano i cc. 15 (l’abitudine sembra giocare una parte nelle impressioni umane non solo emotive, ma anche sensoriali, quelle dello spavento che incute -o meno- appunto la tortura); c. 16 (stesso ragionamento per la pena di morte); e cc.18 , 19, 23, 36, 38, 39, 41.
Sull’efficacia della religione a scoraggiare delitti, abbiamo visto le due posizioni contrastanti: sua debolezza (c. 11) e sua forza (c. 33 e 41; incerto il valore delle affermazioni del c. 36).
SINTESI E GIUDIZIO SUI PRINCI’PI
IDEOLOGICI NEL SISTEMA BECCARIANO.
Troppo poeta per riuscire un profondo filosofo e troppo filosofo per riuscire (lo vedremo fra poco) un poeta grande, il Beccaria si lascia guidare eccessivamente dalle impressioni della sua emotività eccezionale e troppo poco dalle dimostrazioni della ragione speculativa. Di qui il risultato: è un Giano bifronte, che tenta di metter d’accordo Voltaire e Rosseau, il razionalismo illuminista col romanticismo sentimentale.
Passando dal giudizio sull’autore a quello sulle idee, ci sembra proprio che manchi il senso della complessità della vita umana, complessità che rende impossibile stabilire un sistema manicheo in cui alla ragione si debbano attribuire tutti i beni ed alla passione tutti i mali. Posta una tale acrisia iniziale (il peccato originale del razionalismo, che risente del dualismo dilemmatico, cioè di un pensiero cartesiano che distingue fino a separare; che chiarifica a costo di vivisezionare e mutare, così, il problema; che semplifica sino alla follia lucida), si sente il bisogno di ricorrere poi a mediatori (sentimento, sensibilità) popolari e di (illusorio) significato evidente, con cui rappezzare il sistema di idee: col vantaggio del fascino di presentare princìpi apparentemente ovvi, accessibili ad ogni spirito sincero, condivisibili da ogni animo candido, ma col risultato finale della incoerenza nelle sue diverse affermazioni e della incapacità a generare convinzioni ragionevoli, al di là delle persuasioni emozionali.
Il sistema beccariano può essere additato come l’icona delle contraddizioni latenti nel sistema illuministico tutto: eccesso di razionalità (razionalismo, appunto) compensato da un eccesso di sentimentalismo. Rousseau e Voltaire sono certo i poli di due culture opposte, ma complementari e necessariamente richiamantesi nel tentativo di ricostruire la cultura unica della antropologia ilemorfica, in cui la sfera animale non è contrapposta, ma subordinata a quella razionale. Finchè la cultura complessiva della società occidentale non avrà ritrovato il senso dell’unità sostanziale dell’uomo, pur nella complessità delle due componenti (non adespote, ma gerarchizzate e cooperanti), l’altalena delle due culture, unilaterali ed ostili, ma bisognose l’una dell’altra, si ripeterà all’infinito. Razionalismo e sentimentalismo sono due sistemi incompleti, che o si ritrovano nella interpretazione classica e cristiana dell’uomo, animale intelligente e libero, perchè risultante da un corpo informato da un’anima spirituale; oppure si alternano e si urtano e si rincorrono perchè hanno bisogno di ritrovare l’unità nella ragione che comprende, sublima e guida la sfera animale,sensibile,emotiva, istintiva (passionale), dando origine ad una civiltà umana, integrale e coerente, ordinata e pacificatrice.
CESARE BECCARIA SCRITTORE. Il pensatore, pur con le sue turbolenze e sconnessioni di sistema, è superiore allo scrittore. Questo non significa che Dei delitti e delle pene non sia un libro con frequenti palpiti emotivi. Ci pare accostabile al volume Della dissimulazione onesta dell’Accetto: sono entrambe opere la cui la prosa, oltre ad un contenuto eidetico suggestivo, ha una sua musicalità, perchè dettata da un animo caldo di amore per gli ideali umilmente suggeriti (nello scrittore napoletano del Milleseicento) o fieramente proclamati (in quello milanese del Millesettecento). Anzi, forse anche un accostamento alla prosa della Vita nova non è del tutto fuori posto: vesificazione inconscia e sbalzi lirici sono più frequenti e più alti in Dante (anche a prescindere dalle parti in versi), eppure...
Non ci dilungheremo nelle citazioni, perchè basteranno rimandi alle numerose già inserite nello studio. Anzi, nel complesso ci limiteremo allo studio del c. 41, certamente fra i più sentiti, sofferti e commossi dell’opera.
Per i motivi ispiratori, nel c. 41 troviamo gran parte di quei parametri appena indicati,che sottostanno alle proposte beccariane. C’è il fine ultimo (“il massimo di felicità); c’è l’aspirazione al massimo di libertà ed al minimo di prescrizioni possibile (“Non è possibile ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico); c’è l’appello alla razionalità tanto nello scrivere le leggi (“Fate che le leggi sian chiare, semplici...”) quanto nel farle conoscere (“Fate che i lumi accompagnino la libertà...”); c’è quel pasticciaccio russoiano che difende la semplicità innocente e primitiva, ancora al di qua della piena razionalità, pur nella proclamazione del primato della ragione nello stabilire leggi e pene giuste e, quindi, società più felici “(Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità...”); c’è, nello sforzo di accordare la luce del sapere con la innocenza della ignoranza, un tentativo di storia della umanità intera, di stampo vichiano, ci sembra (“Questa fu la prima filosofia degli uomini... Ecco la prima epoca... La seconda è nel difficile e terribile passaggio dagli errori alla verità...”); vi è la esaltazione dell’uomo illuminato, che scivola verso la sua identificazione con l’onesto, l’eroe, il santo (“Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione...”); vi è l’invito ovattato eppur pressante alla autorità ad essere modelli di imparzialità e fedeltà alle leggi, mescolato colla insinuazione che il miglior sistema di governo è quello democratico (“Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d’interessare il consesso esecutore delle leggi... Quanto maggiore è il numero che lo compone, tanto è meno pericolosa l’usurpazione delle leggi...”); c’è il tema caro al cuore del Beccaria dell’abolizione dei priviliegi dei nobili (“Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo”), tema che richiama ai corollari del suo sorprendente senso sociale, che mostra simpatia per i poveri, anche se delinquenti proprio per la loro miseria e che giunge al punto di mettere in dubbio la necessità della proprietà privata[114]; c’è l’ammirazione patetica per Jean Jacques e persino (hors d’oeuvre davvero inatteso) la preoccupazione per l’educazione morale del popolo, finalmente dichiarata “il più sicuro, ma più difficil mezzo di prevenire i delitti”. Ma affiorano anche i due motivi ispiratori che abbiamo dovuto scovare di sotto a paragoni insistenti (motivo scientifico: “Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti...”)[115]; od a leggi di comportamento (motivo psicologico: “Il timore delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo”| Gli uomini schiavi sono più voluttuosi, più libertini, più crudeli che gli uomini liberi”| “Se l’incertezza delle leggi cade sopra una nazione indolente per il clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità: se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi che spargono la diffidenza in ogni cuore, e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza: se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schaivitù alla libertà”). Ma, come si diceva a p. 47 (Psicologia e psicologismo), bisognerebbe citare tutto il libro, che in realtà è un’analisi dell’animo umano più che della scienza giuridica “còndita vel condenda” (stabilita o da stabilirsi). Non può sfuggire, inoltre, che molti giudizi sul comportamento umano sono almeno discutibili: proprio in questo capitolo ci pare tutt’altro che certo che “la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere”; e si rilegga, nel c. 16, il principio contro la pena di morte: “Non è l’intensione della pena, che fa maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa”, la cui verità abbiamo negata a suo luogo. E moltissimi altri andrebbero aggiunti, come quella specie di “situation comedies” (alias, telenovelas) sulla storia dell’evoluzione umana nei capitoli primo, secondo e quarantuno, per cui si giunge dapprima al politeismo e, poi, al contratto sociale.
Ma si deve sottolineare che l’insieme delle leggi psicologiche avanzate d’intuito sono sorprendenti, affascinanti e che, spesso, tengon botta, cioè intuiscono la verità statistica del modo di sentire ed agire umano. Si pensi a questo giudizio: le “piccole tirannie di molti” sono “tanto più crudeli, quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire; più fatali che quelle di uno solo, perchè il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di uno solo;...”: la oligarchia del feudalesimo del tardo Medioevo, eclissatasi l’autorità imperiale, è stata una tragica prova della esattezza di questo giudizio: ne originò il fenomeno mafioso della santa “Vehme” in Germania, finchè, con gli Asburgo, non si ristabilì di fatto l’ordine di uno solo. Oppure, all’inizio del c. 19: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile (a scoraggiare il delitto)”. E si vedano i brani del c. 40 (Del fisco), citati a p. 50; e le sintesi dal c. 13 (Processi e prescrizioni), a p. 51.
Comunque, psicologia esatta o psicologismo forzato, il Beccaria permea tutta l’opera di questa sua passione congeniale all’esame delle forze più solite che sono all’origine dell’agire abituale dell’uomo, la combinazione, cioè, di spinte emozionali e controllo|inibizione|correzioni da parte della facoltà razionale o coscienza.
Per i toni lirici, diciamo anzitutto che spesso ci si sente toccati dalla sincerità della scrittura beccariana: egli (venticinquenne) si esaltava per quanto riteneva giusto e soffriva per quanto vedeva di errato, perchè credeva con tutta l’anima alla possibilità del trionfo per la giustizia. Anzi, volendo promuovere la giustizia ad ogni costo, egli finiva per optare, inconsapevolmente, per la misericordia ad ogni costo. La carica emotiva si eleva là ove sono in questione i deboli ed i poveri, i meno protetti ed i più scusabili per i loro delitti. La passione con cui il Beccaria scrive gli avrà offuscata la vista della condizione reale dell’umanità, ma torna a suo onore che egli, se ha sbagliato, è per eccesso di compassione, per quell’atteggiamento che nel cristianesimo si chiama “carità”.
Ma, limitandoci ai risultati estetici, dovremo dire che la espressione è rimasta allo stadio “sentimentale”, cioè a quella forma espressiva carica bensì di emozione, ma altresì legata a molte finalità pratiche, che impediscono il sublimarsi del sentimento in lirismo puro, in gioia-sofferenza per le sole situazioni descritte (ed ideali sognati), libere dall’ansia dettata dal bisogno di una loro pronta correzione (od instaurazione).[116] Si tratta di una scrittura appassionata, non definitivamente estetica, capace di raggiungere, però, momenti di patetismo, cioè di enfasi retorica, di foga accusatoria o di flebilità deamicisiana. Verso la fine del primo capitolo, il Beccaria parla di “seduttrice eloquenza”. Ebbene, questo ci sembra la grandezza ed il limite della espressione nel quasi poetico Dei delitti e delle pene: un parlare ora solenne ed ora veemente, ora compassionevole ed ora accorato, ma che non va al di là del patetico, cioè della mescolanza tra l’emotività, con cui le idee son rivissute e le preoccupazione della finalità pratica, per cui sono state improvvisate: manca la decantazione, lo sguardo universale, la pura contemplazione delle cose espresse, al di fuori di finalismi e funzionalità per scopi immediati. L’eloquenza, appunto. O, se si vuole trasferire al valore complessivo dell’opera quanto lo stesso Beccaria afferma di alcuni astuti e crudeli amministratori della giustizia, si potrebbe affermare che Dei delitti e delle pene vanno “tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti” (c. 14): la sua prosa, dolente se non proprio commossa, appassionata se non propriamente lirica, fremente se non definitivamente poetica, ha affascinato le menti, ha sedotto i cuori, ha soggiogato il costume, giungendo a contrabbandare, quale patrimonio comune nella coscienza dell’uomo occidentale, impressioni arrischiate perchè solo parzialmente valide, perchè talora patentemente erronee, perchè talora addirittura contradditorie, quasi fossero verità evidenti ed incontrovertibili. Efficacia formidabile di un’opera di un giovane geniale! Efficacia sul mondo delle idee della melodia musicale, dell’armonia strumentale, del sommovimento sentimentale! La dimensione subestetica dell’opera non è l’unico segreto del suo successo ideologico e pratico: c’è anche la pregnanza delle analisi psicologiche, di cui si è già parlato e sulle quali ritorneremo ben presto.
Una volta ben distinti i limiti estetici dalla efficacia pratica, allora ci sembra di poter affermare che i brani più notevoli siano quelli presenti nei primi due capitoli e, poi, nei capitoli dodici (Della tortura), quindici (Dolcezza delle pene), sedicesimo (Della pena di morte) trentotto (False idee di utilità) e quarantuno (Come si prevengono i delitti).
Il tono flebile (fra tenerezza, elegia, commozione) non è frequente: lo troviamo, però, nella finale del c. 41, là dove si commisera la grandezza misconosciuta di Rousseau, maestro di educazione nell’Emile: “Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utili agli uomini...”.
Il tono focoso (oratorio, predicatorio, accusatore, drammatico) è molto più solito. Se ne incontrano brani fin dal primo capitolo (“La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengono eglino il fine che si propongono le leggi?...). Ma è specialmente nella lotta contro la tortura e la pena di morte che l’amarezza dello sfogo drammatico si manifesta. Il c. 12 è impregnato di ribellione contestatrice. Ci limitiamo a spunti iniziali di periodi: “Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice...”; “...qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carneficine, che la tirannia dell’uso esercita sui rei e sugl’innocenti?”. “Ma io aggiungo di più, ch’egli è un voler confondere tutti i rapporti, l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato; che il dolore divenga il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda ne’ muscoli e nelle fibre del miserabile”... “La legge che comanda la tortura, è una legge che dice :- Uomini, resistete al dolore...” ...“Questo infame crogiuolo della verità è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione,...”. Il c. 15 (Dolcezza delle pene) ha brani d’accusa degna di un predicatore del Seicento: “Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti, che, da uomini che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte più sensibile nel vedere migliaia d’infelici, che la miseria voluta o tollerata dalle leggi, che han sempre favorito i pochi e oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii...?”. Il c. 16, contro la pena di morte, è più solitamente in tono epico-enfatico, ma ha anche qualche passo focoso-drammatico: “Non è utile la pena di morte, per l’esempio di atrocità, che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità delle guerre hanno insegnato a spargere il sangue umano,....parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ne ordinino un pubblico”. “Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutti i secoli, e di quasi tutte le nazioni che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione...”.
Il tono enfatico-epicizzante predomina. Fin dal primo capitolo: “Apriamo le istorie, e vedremo che le leggi, che pur sono, o dovrebbon essere patti di uomini liberi, non sono state, per lo più, che lo strumento delle passioni di alcuni pochi...”. “Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità dei mali un avviamento al bene...”. “Ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene, e l’irregolarità delle procedure criminali...; pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati da più secoli... Eppure i gemiti dei deboli sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga ed inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori di una prigione, aumentati dal più crudele carnefice dei miseri, l’incertezza, dovevano scuotere quella sorta di magistrati, che guidano le opinioni delle menti umane. L’immortale presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia...”. “Me fortunato, se potrò ottenere com’esso (Montesquieu) i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò ispirare quel dolce fremito, con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi dell’umanità”. Secca come una fucilate è la dichiarazione che conclude il c. 4: “ Dovrei tutto temere se lo spirito di tirannia fosse componibile con lo spirito di lettura (se fosse lecito interpretare arbitrariamente le leggi, superandone il senso letterale con la pretesa intepretazione del loro spirito)”; ed il settimo: “Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto”. Ecco, sempre al c. 7, una sentenza degna delle dodici tavole romane: “Pubblici sieno i giudizi e pubbliche le prove del reato”. Quasi identico il tono epigrammatico nel c. 12: “Un male già fatto ed a cui non v’è rimedio, non può essere punito dalla società politica che in quanto influisce sugli altri colla lusinga della impunità...”. Nel c. 15, una asserzione discutibilissima (psicologismo rischioso), assume la assolutezza di un dogma di fede: “Perchè una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto; e in questo eccesso di male dev’essere calcolata la infallibilità della pena...”. Forte e felice è l’immagine che spiega come “la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Più forti e sensibili devono essere le impressioni su gli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone, che si rivolta al colpo di fucile”[117]. Assertorio, gnomico, assiomatico è il c. 16, contro la pena di morte: “Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può; ma è una guerra della nazione contro un cittadino...”. “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi...”. “Non è l’intensione della pena, che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa...”. “Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiam riposti sui troni d’Europa monarchi benefici...”. Ma è il c. 41 che, un po’ affannoso, un po’ retorico, un po’ galoppante, crea la più convincente aura enfatico-epicizzante, soprattutto nei due periodi che iniziano con la domanda retorica: “Volete prevenire i delitti?” e nel passo che celebra il nuovo modello di “eroe”, il nuovo “santo” della società illuministica. Riportiamo l’inizio del primo brano accennato e tutto il secondo e terzo: “Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle...”. “Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni, sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di uno illuminato.... In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza, e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perchè non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata, alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che, senza le leggi, potevano divenire cospiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa”. “Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, perchè questo aggiunge ai mali della prima quelli dell’errore, inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero; l’uomo illuminato è il dono più prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione, non mai abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtù della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista più elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dai grandi al popolo gli par tanto minore, quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha davanti gli occhi. I filosofi acquistano bisogni ed interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione; ma felicità momentanea, se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero, che scemino la probabilità sempre grande di una cattiva elezione”.[118]
L’analisi dello stile offre risultati interessanti, anche se non tutti univoci: troviamo elementi confortanti accanto ad altri deludenti.
Cominciamo dalla lingua.
I fattori negativi non sono molti nè molto importanti. Si è tentati di sorridere per le patenti decalcomanie della lingua francese, in due forme rifiutate dal sistema linguistico toscano. Anzitutto l’uso del pronome di terza persona, in frasi interrorgative che hanno già un regolare soggetto (sia singolare che plurale: egli|ella; eglino|elleno), obbligatorio in francese, rifiutato in italiano. Si è già visto il caso più “eclatante” nel primo capitolo: “La morte è ella una pena...|La tortura e i tormenti sono eglino giusti...| Le medesime pene sono elleno ugualmente utili in tutti i tempi...?”. Si aggiunga, dal c. 7: “Ella è utilissima legge quella...”; “Egli è ancora conforme a giustizia...”; c. 27: “Egli è vero, che tali decreti non emanarono...”
In secondo luogo si incontra l’aggiunta dell’articolo al pronome relativo “cui”, esigito dal francese (“dont le| la| les”), ma rifiutato dal fiorentino: “di cui l’officio” (c. 22); “...la verità, i di cui progressi...” (c. 41; cfr. nello stesso capitolo “la di lei indolenza”; “i di cui pochi elementi”). Si noti, per altro, che il Beccaria usa anche toscanamente tale pronome (“il cui ufficio”, c. 4; ecc.).
Termini o loro composizioni non più in uso si incontrano, ma in non molti casi: controbbilanciare (c. 2); consagrati (9); inimico (ivi); imperocchè (c. 10); la carcere (c.19); durazione (durata: ivi); “dal più sublime al più infimo” (c.23); stromenti (cc. 14, 15, 35 e 38); sortire (uscire: c. 36); però (perciò: c. 39); stragiudiziale (c. 40); sottodividere (suddividere: c. 41); discuopritori (scopritori: ivi); ismentire (ivi) sieno (siano: passim); ecc.
Più penosi i due anacoluti del c. 5 e del c. 35. Nel primo, vi è l’uso di un gerundio (“lordando”) riferito ai “ministri della verità evangelica”, che non è soggetto ma complemento oggetto del verbo “vedere” di una diecina di righe precedente (avrebbe dovuto essere un “lordanti” o, meglio, “lordare di sangue” oppure “che lordavano di sangue”).[119] Nel c. 35 vi è una inutile ripetizione della particella pronominale personale e del pronome relativo (“... il saggio... può trarre alcune utili conseguenbze, che esponendole, mi allontanerebbero troppo dal mio soggetto”: esponendo le quali).
Ma di gran lunga più consolante è il bilancio positivo della lingua beccariana: essa preannuncia, assieme alle Lettere del Baretti ed alla Vita dell’Alfieri, la grande prosa del Manzoni: la precisione filosofica e la armonia musicale del nipote non sorgeva come un fungo dall’apparente vuoto di tradizione, ma trovava psicologie fraterne e potenze intellettuali precorritrici non solo nei cromosomi congeniali del nonno, ma anche in un paio di altri scrittori, che non erano a lui parenti biologicamente, ma gli erano ben affini intellettualmente.
Accenniamo ora a quei due fattori del pensiero beccariano, che, coscienti, costituiscono dei motivi ispiratori; inconsci, si situano a livello di stile. Si tratta della propensione globalizzante a psicologizzare tutti i ragionamenti dell’opera; e della frequenza eccezionale a ricorrere a paragoni tratte dalle scienze matematica, geometrica ed astronomica. Ne abbiamo già parlato nei motivi ispiratori. Ma dobbiamo aggiungere ora che almeno la propensione a cercare le motivazioni psicologiche ai giudizi critici sulla legislazione allora vigente ed alle proposte per un suo miglioramento, è così spazzante, che non tutto sarà stato dallo scrittore percepito con piena consapevolezza: molte volte egli doveva illudersi di erigere un puro ragionamento razionale ed invece stava scavando nel cuore umano, che gli forniva solo un’argomentazione a metà (almeno) sentimentale. Non si dimentichi che gran parte del fascino del libretto, della sua forza persuasiva nasce dalla sorprendente ricchezza, più solita acutezza e (talora) totale esattezza delle analisi psicologiche. Quanto alle interferenze scientifiche, ebbene esse appartengono anche alla tecnica stilistica perchè non vengono trattate per se stesse, ma sono usate come paragoni nel tentativo di rendere più urgente la forza probante di certi ragionamenti, parte filosofici e parte psicologici.
Il periodare è equilibrato: nè prolisso come quello bocaccesco-ciceroniano; nè lillipuziano, come ci si aspetterebbe da un ammiratore del razionalismo francese.
La punteggiatura, pur lontana dal rigore razionale da noi preferito, presenta delle notevoli intuizioni nuove. Sebbene davanti alla “e” metta erroneamente la virgola, tuttavia l’uso dei “due punti”è esemplare, perchè si pongono a spiegare qualcosa di già enunciato implicitamente, senza la congiunzione (“cioè, perchè...”) che introduca la esplicitazione . Buono anche il senso e l’uso del punto e virgola.
Troppe sono le domande retoriche, perchè un lettore non si accorga della loro presenza: esse segnano in genere l’elevarsi dell’animo del Beccaria dall’attitudine del ragionamento prevalente a quella della prevalente cordialità, cioè sottolineano i momenti patetici, più vicini alla prosa d’arte. Si veda il c. 1, coll’incalzante serie di cinque domande, in parte già riportate: “La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengono eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno ugualmente utili in tutti i tempi? Qual influenza hanno esse sui costumi?”). Eccone un’altra raffica nel c. 15: “Può egli in un corpo politico che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà, stromento del furore e del fanatismo, o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non retrocede, le azioni già consumate?....Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti, che, da uomini che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? “Chi non può sentirsi fremere... ? (seguono altre dieci righe) ”. E, nel c, 41, abbiamo già letto in tutto od in parte le due domande patetiche principali (“Volete prevenire i delitti?...”); ma ve n’è un’altra: “... chi potrà mai asserire che la luce, che illumina la moltitudine, sia più dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose, ben conosciuti dagli uomini, lor sieno funesti?”
Ed eccoci, infine, alla spia acutissima del vortice di commozione con cui l’autore ha scritto di getto il suo piccolo capolavoro: la versificazione inconscia. Andremo a cercarla là dove l’enfasi si fa più chiaramente sentire.
La finale del c. 1 è una miniera di ottonari, novenari, decasillabi ed endecasillabi, spesso a gruppi consecutivi. Ottonari: “ Che si propongon(o) [120] le leggi?| Qual è la miglior maniera| di prevenire i delitti?...| la seduttrice eloquenza”.|| Novenari: “A cui la nebbia dei sofismi...|Se- io non avessi altro merito|di quello di aver presentato| il primo in Italia con qualche| maggior evidenza ciò ch’altre| nazioni hanno osato (di) scrivere| e cominciano à praticare| io mi stimerei fortunato:| ma se, sostenendo i diritti| degli uomini e della invincibile| (verità)”.|| Decasillabi: “La tortura e i tormenti sono eglino| giusti, e ottengono eglino il fine...”;| “Le medesime pene sono elleno| ugualmente utili ìn tutti i tempi?”.|| Endecasillabi: “Quale influenza hanno essi sui costumi?| Questi problemi meritano di essere|sciolti con quella precision (e) geometrica|..... contribuissi a strappar dagli spasimi”.
Il c. 5 inizia con due endecasillabi: “Se l’interpretazione delle leggi| è un male, egli è evidente esserne un altro”; e finisce con un groviglio di versi che riportiamo di seguito mettendo tra parentesi il numero, simbolo tradizionale del verso[121]: “...di cabala e d’inrigo (7)|... l’umanità gemente (7)| sotto l’implacabile (6)| superstizione; (5)| (l’avarizia)| l’ambizione di pochi (7)| tinger di sangue umano (7)| gli scrigni dell’oro (6)| e i troni dei re; (6)| gli occulti tradimenti ((7)| le pubbliche stragi (6)| ogni nobil(e) tiranno della plebe; (11)| i ministri della (6)| verità evangelica, (6)| lordando di sangue (6)| le man(i) ch’ogni giorno (6)| toccavano il Dio (6) di mansuetudine, (5)| non sono l’opera (5)| di questo secolo (5)| illuminato, (5) che alcuni chiamano (5)| (corrotto)”.
Il c. 6 presenta una serie di settenari ( con lievi aggiustamenti): “(per)chè si gettan(o) confusi| nella stessa caverna| gli accusati e i convinti,| perchè la prigione| è piuttosto un supplizio,| che (una) custodia del reo,| (e)perchè la forza interna| tutrice delle leggi...”.
Il c. 9 presenta un miscuglio di versi, di cui alcuni identici consecutivi: “Evidenti, ma consagrati (9)| disordini, e in molte nazioni (9)| resi necessari (6)| per la debolezza (6) della costituzione (7),| sono le accuse segrete. (8)| Un tal costume rende (7)| gli uomini falsi e coperti. (8)| Chiunque può sospettare (7)| di vedere in altri ùn delatore (10)| vi vede un inimico. (7)| Gli uomini allora si avvezzano (8)| a mascherare i propri sentimenti, (11)|| (“e col’uso di nascondergli altrui,| arrivano finalmente a nasconderli a loro medesimi”(sono due stichi di undici sillabe aritmici)||Infelici (que-) gli uomini quando (10, sia pure con un’aggiunta di sillaba)| son giunti a questo segno! (7)| Senza principii chiari ed immobili (11) che li guidino, erran(o) smarriti (9)| e fluttuanti nel vasto (8)| mare delle opinioni: (7)| sempre occupati a salvarsi (8)| dai mostri che li minacciano, (8)| passano il momento presente(9)| sempre amareggiato (6)| dall’incertezza del futuro; (9)|| (privi dei durevoli piaceri: dieci sillabe aritmiche) della tranquillità- e sicurezza, (11:sopprimendo una elisione)|sparsi qua e là nella trista lor(o) vita, (119| con fretta e con disordin(i) divorati, (11)| li consolano d’esser vissuti. (10)| E di questi uomini faremo noi (11)| gli intrepidi soldati (7)| difensor(i) della patria e del trono? (10)| E fra questi troverem(o) gli incorrotti (11)|| (magistrati, che con libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano)...[122]
Crediamo che possa bastare per concludere che la versificazione era in agguato nella fantasia dello scrittore, anche se egli non sempre riusciva a trovare l’espressione adeguata; ma spesso il ritmo si impone e contribuisce con la sua musicalità alla efficacia subliminale delle tesi propugnate dal Beccaria.
Così, con il pensiero di Montesquieu e col cuore di Rousseau, egli ha finito per improvvisare un trattato che non è filosoficamente incensurabile (anzi!); che non è poeticamente perfetto, ma è riuscito esistenzialmente efficientissimo: nel 1786 il granducato di Toscana aboliva la pena di morte; la tortura scompariva ben presto dalla prassi processuale dei paesi a civiltà occidentale. Possiamo far nostro, a conclusione, un passo della “Nota” introduttiva alla edizione Rizzoli 1950: “Le idee delle quali egli si fece apostolo preesistevano alla sua comparsa. Ma esse avevano forse bisogno di chi sapesse scioglierle dal ghiaccio dei puri trattati scientifici, trarle dal chiuso ambiente di dotti e di sapienti nel quale erano imprigionate, e dar loro palpito e ali per circolare ovunque”.
Ma l’opera ci dà anche la garanzia che Alessandro Manzoni era progenie del suo autore: raramente, prima della scoperta del DNA, un legame biologico risulta comprovabile sino ad un tale grado di certezza. Con i soli indizi psicologici .[123]
Scrittore quanto mai significativo risulta, dunque, il Beccaria. Ma appartiene alla scuola razionalistica di Pietro Verri e del Parini od a quella preromantica dell’Alfieri e di Alessandro Verri?. Sicuramente a quest’ultima: è un preromantico, in cui lo spirito di Rousseau prende il sopravvento su quello di Montesquieu e di Voltaire: il cuore trionfa in lui sulla pur acuta ragione.
Francesco Algarotti. Fuori delle due capitali (Milano e Napoli), nella cultura illuministica, ci sono vari personaggi di rilievo, che contribuirono con intuizioni “all’italiana”, più che con opere sistematiche, a costruire e diffondere l’atmosfera “dei lumi”. Spiriti critici, magari contestatori della voga imperante (come Ferdinando Galiani), sono spesso acuti nelle osservazioni e brillanti nella espressione; un po’ affrettati e superficiali talora, ma anche genialmente sorprendenti.
Il prototipo tra essi è Francesco Algarotti. Ricco veneziano, nato nel 1712, morirà a Pisa nel 1764. Si formò intellettualmente in armonia coi nuovi tempi: scienze e filosofia. Viaggiò per gran parte d’Europa. Prima tappa fu Parigi (1735), dove conobbe e fu amico anche di Voltaire. Seguirono due soggiorni a Londra, da cui ricavò grande ammirazione per il sistema democratico delle istituzioni inglesi e per la concretezza della cultura ancorata alla ricerca scientifica ed al benessere commerciale ed industriale. Nel 1738-9 giunse fino in Russia, attraverso l’Olanda, la Danimarca e la Svezia. Fu poi a Lipsia ed a Dresda. Nel 1540 fu a Pastdam (Berlino), presso Federico II, del quale divenne amico e consigliere ascoltato: da lui fu fatto conte e ciambellano. Interrompendo il soggiorno prussiano, fu per qualche tempo (1743-4) alla corte di Augusto III, principe elettore di Sassonia, come intenditore d’arte. Ritornò a Berlino, fino al 1753, quando rientrò in Italia. Soggiornò a Venezia e Bologna; la morte lo fermò a Pisa.
Una vita breve, ma movimentata: rivela un nuovo tipo di uomo, cosmopolita, gran viaggiatore per l’Europa, giudice spregiudicato di popoli e uomini, consigliere di re e potentati. Ma sotto lo splendore delle singole vicende, affiora altresì la fragilità del temperamento nervoso, inquieto, dotato di spirito critico acuto, ma incapace di costruire un sistema di pensiero, di produrre un’opera originale nel contenuto, di fermarsi in una dimora ed ufficio stabili, persino di vivere a lungo. Temperamento fervente, ma fragile; mente versatile, ma dispersa.
L’interesse per le scienze gli era venuto –oltre che dalla congenialità di una mente universale- dalla scuola bolognese (Eustachio Manfredi e Giampietro Zanotti: li ritroveremo tra i letterati). Da loro aveva attinto anche il petrarchismo arcadico, proprio di quella scuola: dapprima aveva composto le Rime (1733); poi era passato al verso sciolto, con le Epistole, ricche di dati scientifici, riflessioni filosofiche, osservazioni su costumi, sistemi economici e militari, giudizi acuti per introspezione morale e psicologica. Ma la misura del suo ingegno era il saggio breve, la lettera, il dialogo. Nacque così Il neutonianismo per le dame (1737). Quest’opera, ripubblicata poi col titolo “Dialoghi sopra l’ottica neutoniana” è una serie di sette dialoghi, che spiegano in forma brillante le teorie di Newton. E’ considerata il suo capolavoro e risente del magistero del Fontenelle, per lo spirito arguto e salottiero, che dà vita anche alla materia più arida.
Riprende nelle lettere in prosa (Epistolario) e nei Pensieri diversi i temi delle Epistole in versi: osservazioni di scienze, filosofia, economia, cronaca e costumi europei, che danno interesse contenutistico oltre che stilistico alla sua produzione. Ad esempio egli giudica superiore la cultura inglese a quella di Francia Quella italiana non è ignorata nè disprezzata, ma guardata come inferiore, anche a causa delle divisione politica e dell’oppressione censoria. Ma egli intuisce la esistenza di singoli e singolari ingegni in un popolo fatto per i “solisti” e non per la “coralità”. Dal soggiorno in Russia trae origine il libro Viaggi in Russia, notevole per precisione di dati, vivacità di stile, spregiudicatezza di osservazioni sui costumi e la mentalità di quel paese. Il volume consta di sei lettere a lord Hervey e di quattro (sulla Sassonia) a Scipione Maffei (1750-1). Stessa acutezza di introspezione, realismo di osservazione, disinvoltura di espressione e dispersione di argomenti caratterizzano le altre opere. Se il romanzo di costume, intitolato Il congresso di Citéra (1745), gli offre lo spunto per difendere cicisbeismo ed erotismo e lo porta a delineare il temperamento dei vari popoli, intravisto nelle costumanze amorose (il flemmatico inglese, il sentimentale italiano, il frivolo francese), nei Discorsi (1755: sono saggi, accresciuti ed elaborati sino alla fine della vita) egli si distende su problemi di lingua, letteratura, arte, storia, filosofia ed economia. Una specie di “zibaldone”, con vivande intellettuali di ogni sorta. Invece tematiche estetico-letterarie occupano altri saggi: Lettere intorno alla traduzione dell’Eneide del Caro (1744); Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua (1750); Sopra la rima; Sopra lo stile di Dante; Sopra l’opera in Musica (1755-62: prima opera in cui il melodramma è esaminato sia come opera letteraria che musicale); Sopra la pittura (1762); Sopra l’architettura (1756); Lettere scientifiche ed erudite...
Non ha dato contributi geniali definitivi, ma ha stimolato il pensiero del secolo, con la diffusione dei suoi scritti, snebbiando alcuni pregiudizi insostenibili, presentando nuovi punti di vista, diffondendo intuizioni destinate a più vasto svolgimento.
Egli segna in qualche modo
il passaggio tra l’epoca dell’Arcadia e quella dell’Illuminismo, in Italia.
LO ZELO DIFFUSORE DEI LUMI DELLA RAGIONE.
La fiducia nella ragione
come sorgente di felicità, l’entusiasmo per i progressi quotidiani nelle
scienze e nella tecnica generano un desiderio ed un impegno per diffondere il
più largamente possibile i “lumi della ragione” e beneficare l’umanità. Ne abbiamo visto un esempio in Italia nelle
parole esplicite del piccolo capolavoro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Ma frutto più
concreto di tale spirito “missionario” sono le Accademie, i premi per
incoraggiare nuove scoperte ed i
giornali che sorgono in ogni parte d’Europa.
Accademie scientifiche erano state alcune private del Milleseicento, come quella “del Cimento”, fondata a Firenze nel 1657; e “dei curiosi” sorta in Germania nel 1662. Ma col 1663 sorge a Londra la “Società reale”, sul cui modello, di ampiezza nazionale e di sostegno pubblico, sorgeranno l’Accademia delle scienze di Parigi (1666), di Berlino (1700), di Pietroburgo (1725) e di Torino (1757).
La Camera dei Comuni inglese lancia un concorso per misurare esattamente l’arco di meridiano e per misurare la latitudine di un punto qualsiasi della terra (due problemi interessanti la navigazione); fondi vengono stanziati per viaggi di esplorazione (James Cook, 1728-1779: coste orientali dell’Australia, varie isole del Pacifico, come le Marchesi, le Nuove Ebridi e la Nuova Caledonia, sino al circolo polare antartico; concorso dell’Accademia di Digione sul rapporto progresso-felicità, vinto dal Rousseau che sostenne la tesi opposta; viaggi in Perù e Lapponia per controllare l’ipotesi newtoniana sul rigonfiamento della terra all’equatore...). Il Parini, cantando, ne La laurea, il coronamento dottorale di donne e, ne L’innesto del vaiolo, la vaccinazione, è un segno dei tempi: rivela che l’Illuminismo, in mancanza di “opere buone” si preoccupava vivamente di “idee nuove” o di “scoperte utili”.
Già nel secolo precedente era iniziata la “galassia Gutemberg”, cioè la nascita del giornalismo, anche se a scadenza non quotidiana, ma periodica. Il primato assoluto spetta al Journal des savantes (Parigi, 1665: fondato da Denis de Sallo). Seguono i Philosophical transactions (Londra, 1665, per iniziativa della Royal Society). Il Giornale de’ letterati esce a Roma dal 1668 al 1679, a cura di F. Nazzari e G.G. Ciampini, con interessi prevalentemente scientifici; viene affiancato-continuato dal solo Ciampini, dal 1675 al 1683; viene proseguito a Modena ed a Parma, dal benedettino Benedetto Bacchini (1686-1690, con in più tre numeri annuali: 1693| 1696| 1697). Col nome di “Giornale de’ letterati d’Italia” verrà infine reso celebre dai fratelli Apostolo e Pier Caterino Zeno, uscendo a Venezia: trimestralmente dal 1710 al 1718; annualmente dal 1718 al 1724; sporadicamente, dal 1724 al 1740 (vi collaborarono il Muratori e Scipione Maffei). Il Giornale de’ letterati conobbe una quinta edizione a Firenze (dal 1742 al 1745) ed a Pisa (dal 1771 al 1796). Apostolo Zeno pubblicò pure la Galleria di Minerva, con otto volumi, fra il 1696 ed il 1717 (Zeno era segretario dell’Accademia che la finanziava).
Dal 1684 al 1687, Pietro Bayle pubblica le Nouvelles de la république des lettres. I gesuiti di Francia curano il Journal de Trévoux ou Mémoirs pour servir à l’histoire des sciences et des beaux-arts, dal 1701 al 1766.
Il periodico più degno di nota è però The Spectator (Londra, 1711-12 e 1714) di Joseph Addison e Richard Steele[124], che fu imitato da Gasparo Gozzi nella Gazzetta veneta e nell’Osservatore; e da P. Verri ne Il Caffè. Degli “Acta eruditorum (Lipsia, a cura di Mencken) non abbiamo la data.
Veri quotidiani sono Il Morning Post (1772) ed il Times (1785) di Londra.
Tornando in Italia, a fine secolo dominarono le Novelle letterarie (Firenze, 1740-70), fondato e redatto da Giovanni Lami, teologo erudito, storico delle cose ecclesiastiche, filogiansenista, antigesuita, credente ma probabilmente massone, la cui vita fu criticata per i lieti simposi con uomini di spirito e dame festose, anche s enon è dimostrata una sua personale scostumatezza. Redasse le Novelle letterarie sino alla morte, nel 1770; gli successe, fino al 1792, il mediocre Marco Lastri, tartassato dalla Frusta di Giuseppe Baretti.
Ma prima erano apparsi La gazzetta veneta (bisettimanale di Gasparo Gozzi: esce dal febbraio 1760 alla fine gennaio 1761; è accompagnato dal Mondo morale, pubblicazione occasionale); L’Osservatore veneto (febbraio 1761- fine gennaio 1762); Osservatori veneti (febbraio-agosto 1762).[125]
La frusta letteraria (di Giuseppe Baretti: quindicinale, uscito il 1° ottobre 1763: uscirono in tutto 33 numeri, gli ultimi tre assieme nel novembre 1765: ne dovremo riparlare).
Il Caffè (giugno 1764- maggio 1766: fondato da P. Verri , trimensile dell’Accademia dei Pugni: se ne è già parlato).
LA NUOVA ECONOMIA: IL LIBERISMO ED ADAMO SMITH.
In reazione al mercantilismo-protezionismo-colbertismo del Milleseicento, nasce dapprima la fisiocrazia (potere della natura: Tableau économique di Francesco Quesnay: 1758) che, col motto “Laissez faire, laissez passer” (lasciate fare, lasciate passare) ripone in primo piano la funzione dell’agricoltura nella vita economica avviandola verso il liberismo od economia di mercato e di libera concorrenza. Questa dottrina viene teorizzata (con prove non facilmente superabili) da Adamo Smith, come il miglior mezzo per “seguire la natura del fenomeno economico”, non deformandolo, nel suo famoso libro Inquiry into nature and causes of the wealth of nations (1776). Secondo questo classico della scienza economica, la ricchezza non coniste nel danaro posseduto dal governo (mercantilismo) e neppure nei frutti della terra coltivata (fisiocrazia), ma nella somma dei prodotti tutti della nazione, siano essi derivati dai campi o dall’industria o dal commercio. A sua volta il prodotto risulta da due fattori: efficienza lavorativa (rendimento medio di un’ora di lavoro) e numero di ore lavorate. Ulteriormente, l’efficienza del lavoro si ottiene anzitutto colla “divisione del lavoro” che induce la specializzazione del singolo lavoratore per ogni fase della produzione e la rende più precisa e più veloce; in secondo luogo, con l’impiego delle macchine, che suppliscono al lavoro di molti operai; infine, con l’apertura dei mercati, che stimolano la concorrenza e, quindi, le invenzioni di nuove tecniche produttive.
Inutile dire quanto tale dottrina sia collegata con l’ottimismo nell’uomo, la fiducia nella natura e nelle sue leggi. Si condanna ogni protezionismo e si chiede di lasciar agire le “leggi di mercato”, con la legge suprema della “domanda e della offerta”. Lo Smith esemplifica l’efficacia del liberismo economico sull’aumento del benessere con il modello classico del ciclo obbligato delle interreazioni fra domanda ed offerta. Ad una domanda superiore alla offerta, corrisponderà un aumento dei prezzi; a questo seguirà un aumento dei guadagni e, inesorabilmente (poichè nessuno mangia o consuma direttamente i soldi) un incremento di investimenti; questo causerà un aumento della produzione ed immissione sul mervacto di un maggior numero di prodotti, fenomeno che farà scendere i prezzi. A questo punto il ciclo è pronto ad invertirsi: la offerta è superiore alla domanda, condizione economica che fa scendere il prezzo dei prodotti; questo dato di fatto farà diminuire i guadagni e, quindi, la disponibilità di fondi d’investimenti per far fronte all’usura del macchinario ed al rinnovamento dell’attrezzatura: ne consegue minor produzione, diminuzione dei prodotti sul mercato e aumento del loro costo. Il ciclo può ricominciare.[126]
In Italia la scienza economica trova, a Napoli, uno studioso eccezionale, l’abate Antonio Genovesi. Egli è sponsorizzato dal fiorentino Bartolomeo Intieri, che favorisce così la istituzione, nel 1754, della prima cattedra in assoluto di economia politica (di “Meccanica e Commercio”, fu chiamata). La seconda cattedra sarà creata a Stoccolma nel 1758 e la terza a Milano, per C. Beccaria.
Nato a Castiglione (Salerno) nel 1712, morirà abbastanza giovane nel 1769. Fatto sacerdote per volontà del padre, discepolo di G. B.Vico, fu accolto nell’insegnamento universitario (Metafisica ed etica) per l’appoggio del prefetto agli studi Mons. Celestino Galiani. (zio di Ferdinando, di cui abbiamo riferito). Escluso però dalla prestigiosa cattedra di teologia perchè seguace di idee transalpine (Leibniz, soprattutto, ma anche il sensismo di Locke), nel 1754 fu intronizzato sulla nuovissima cattedra di “Meccanica e Commercio”, istituita, come si è detto, per la munificenza dell’Intieri; e da essa insegnò sino alla morte. Fu lui ad introdurre nel Napoletano le idee illuministiche, attraverso la lettura di Leibniz, Locke ed Hume. Dalla sua scuola trassero ispirazione G. Filangieri, Giuseppe Palmieri (1721-1794), Giuseppe Maria Galanti (1743-1806), il Beccaria, l’Algarotti, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e, in Corsica, Pasquale Paoli (1725-1807).[127] La questione della sua ortodossia cattolica la affrontiamo in nota, dove diamo il titolo di tutte le sue opere. [128]
L’opera più importante sono le Lezioni di commercio o sia di economia civile. Si divide in due parti: la prima tratta delle premesse psicologiche e politiche dell’economia; la seconda, dei fattori più specifici della ricchezza: prezzi, monete, cambi, credito, interessi. Nella prima parte è notevole la indicazione del dolore come molla prima della ricerca del benessere, che prima che a produrre piacere, tende a combattere appunto la fatica del vivere: Pietro Verri seguirà tale intuizione. Trattando delle classi sociali, parla anche dell’utilità delle classi non produttrici, utilità che egli collega alla legge del “minimo possibile” , legge che pare anticipare quella razionale del “massimo effetto col minimo sforzo”. Venendo al commercio, egli opta per un mercantilismo attenuato: la sorgente della ricchezza è il lavoro, ma il suo simbolo immediato è l’oro, che finisce per diventare anche il fondamento della prosperità di una nazione. Tra i lavori, il primo posto lo assegna alla agricoltura ma è favorevole ai dazi sulle importazioni, onde ottenere una bilancia del commercio estero in attivo. Si schiera invece contro i dazi interni ad uno stesso stato; è contro il calmieramento dei prezzi, in favore del libero gioco delle necessità economiche, indipendenti dal volere umano (si pensi all’immediato impatto di siccità od alluvioni sul livello dei prezzi delle derrate alimentari). E’ su una posizione complessiva preliberista, che cerca di contemperare mercantilismo e fisiocrazia: pochi anni dopo la sua morte, lo Smith condurrà a conclusioni economicamente più coerenti, ma umanamente meno sensibili, tali premesse.
Sull’uomo e sul suo pensiero ci sembra che abbia giudicato bene Giulio Natali: “Il filosofo fu superato dall’economista. L’uomo e il patriotta valsero più del filosofo e dell’economista” (Vallardiana, Il Settecento, 1960, I, p. 303).
LA SENSIBILITA’, IL GUSTO, L’ESTETICA DEL
SETTECENTO IN ITALIA.
Dottrine ed
indirizzi generali
Naturalmente una ideologia non muta la costituzione biologica dell’uomo, ma ne può influenzare più o meno profondamente la psicologia. Se la psicologia in atto è l’insieme delle forze in base a cui l’uomo agisce, allora dobbiamo dire che l’uomo agisce solitamente secondo la risultante di due componenti diverse: l’input emotivo (animale, neurovegetativo) e la volontà razionale (l’input delle convinzioni pure cioè delle idee, astratte dalle premesse sensoriali ed emozionali). La loro (abituale) fusione costituisce i “sentimenti”, cioè quella motivazione complessa dell’operosità umana, che procede dalla sinergia tra sollecitazione sensibile (emotiva) e calcolo razionale, dalla simbiosi tra ricerca del piacere e coscienza del bene, tra le due dimensioni appunto di quel fenomeno psicologico che chiamiamo “sentimento”. Dovremo qui aggiungere che nel formarsi dei sentimenti, la componente razionale precede, salvo ad innescare abitualmente un coinvolgimento dell’affettività-passionalità: l’attività della zona di Wernicke, nel lobo temporale sinistro, eccita quella dell’ipotalamo, dove ha sede la centrale organizzativa della sfera animale o neurovegetativa od istintivo-emozionale. Cioè la norma dell’agire umano parte da una[129] conoscenza e trascina con sè l’emotività, dando origine al sentimento o motivazione ambivalente del nostro agire, che costituisce la psicologia in atto ed è intuito o studiato dalla scienza psicologica.
Orbene, è un dato a tutti evidente che noi ricaviamo le idee dall’ambiente o cultura della società in cui cominicamo a vivere e ci formiamo nella crescita: salvo, ovviamente, il potere di riflettere ed esaminare, di accogliere entusiasticamente o di rifiutare sdegnosamente, di modificare e complicare il patrimonio ideologico che il contesto temporospaziale, in cui siamo chiamati a vivere, ci offre. Ma, sebbene meno clamorosamente, il complesso delle cultura ha un influsso anche sulla emozionalità, cioè sulla scelta delle tonalità affettive con cui si vive la propria giornata terrestre e ci si esprime nella vita e nell’arte in particolare. Non che il pensiero costitutivo di una cultura possa cambiare la “anatomia” dei centri emozionali congeniti con la nostra individualità, ma esso può ben sollecitarne la “fisiologia”, cioè stimolare la massa non geniale della gente ad accettare una specie di “coinè” degli stati d’animo, cioè a stabilire una moda della tonalità emotiva più affine alla mentalità prevalente. Se una popolazione debba sentire più il registro della tristezza o della gioia, della esaltazione o della disperazione, dell’ira o della distensione... questo dipende molto anche dal pensiero predominante, dalla cultura trionfante, dalla opinione impostasi in una data società per un certo periodo. Così la drammaticità è più consona colla cultura del Medioevo; l’idillio e la vena umoristica, con quella rinascimentale; l’euforia epicizzante sino al paradosso ed alla paranoia prevale in certe espressioni frequenti nel secolo decimosettimo. Ed in quello decimottavo?
Anche per il “gusto, la sensibilità” dovremo distinguere tra la prima e la seconda metà del Millesettecento italiano: tra il “Settecento arcadico” e quello “illuminista”.
Insorgendo l’Arcadia (come vedremo), nel 1690,contro la prosopopea estroversa e sbracata della cultura barocca, contro la gravità affettata e presuntuosa dello spagnolismo appena trascorso, è abbastanza naturale che scegliesse l’umiltà dei toni contemplativi- idillio ed elegia-, l’interiorità della commozione facile e tenera o il realismo umoristico alle spese della banalità quotidiana, della povera umanità, delle classi minori: un rovesciamento di motivi ispiratori cui segue un capovolgimento delle tonalità liriche di moda. Ed ecco amori idillici od elegiaci, non più cantati in tonalità maggiori, in musicalismo cioè a contraggenio, che rovina il lirismo con le dissolvenze incrociate da noi troppo spesso scoperte nei versi dei “lirici” barocchi. Ora, a stati d’animo soavi o delicati, espressione dolce e carezzevole! Non che fossero esclusi drammoni storici od amorosi, ma il massimo cui riesce il Metastasio è il patetismo lagrimoso, cui Scipione Maffei aggiunge una nota di umorismo benevolo, che si affianca alla comicità graziosa di Carlo Goldoni. Al fortissimo e maestoso delle trombe nella musica marinista, succede il sottovoce ed il sussurrato dei flauti nelle melodie arcadiche.
Approdato anche da noi l’Illuminismo, cambia di nuovo, colla mentalità, anche la sensibilità, cioè gli affetti o stati d’animo od emozioni prevalenti, che da quel modo di pensare dipendono e vengono innescati., generando sentimenti nuovi per la esistenza pratica e tonalità liriche nuove per la loro sublimazione in lirismo artistico. Il razionalismo francesizzante sgombra e mette in fuga ogni idea di umiltà, di compassione e carità evangelica; porta sicurezza ed ottimismo, senso della potenza, onniscienza ed autosufficienza dell'uomo: ed ecco che scompaiono la sapienza cristiana, la saggezza umana, la moderazione prudente, il senso del ridicolo e la paura di sbagliare. Il pensiero razionalista procede colla ghigliottina a vapore già molto prima della rivoluzione francese, classificando uomini ed avvenimenti secondo un dualismo manicheo che ignora sfumature e zone d’ombra, posizioni intermedie e passagi graduali: tra il bene ed il male non esiste la mediocrità più solita; fra la verità e l’errore non c’è posto per il dubbio e la esitazione; fra paradiso ed inferno non c’è spazio per il purgatorio; tra felicità e disperazione non vi è luogo per la sofferenza purificatrice o per la serenità della buona coscienza; nel giudicare di epoche storiche non esiste complessità e complementarità, ma solo epoche illuminate o secoli tenebrosi; nel pronunciare sentenze sulle istituzioni, non v’è spazio intermedio fra le infami da schiacciare e le benefiche, da imporre. Questi razionalisti rischiano di corrispondre alla descrizione che della massa irragionevole fa il Manzoni: “chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo”.[130]
A dir il vero, la mentalità razionalista come disprezza il sentimento e lo relega, alle funzioni pressappochiste della vita pratica, emarginandolo da ogni rapporto con la verità, così dovrebbe, se fosse consapevole e coerente fino in fondo nelle sue prese di posizione intellettuali, sogguardare con compatimento la attività artistica in genere e quella letteraria in specie e relegarla fra le operazioni adolescenziali e fra i passatempi dell’età adulta. La fantasia, la pazza di casa, riscuote difatti più commiserazione che rispetto fra di loro. Ma tant’è: “Naturam, expellas furca, tamen usque recurret”. Non potendo contraddire la persuasione più intima dell’animo umano sul valore sublime dell’arte (confermato da una storia plurimillenaria di produzioni geniali ed inobliabili), giungono a creare quel compromesso che è l’estetica classicistica, modellata sul teatro greco-latino, sulle regole pseudoaristoteliche del Millecinquecento italiano, sulla loro mitica consacrazione nei versi splendidi dell’Art poétique di Nicolas Boileau (1674). Dunque, diventa obbligatoria anche l’unità di tempo, le famigerate ventiquattro ore in cui si deve svolgere tutta l’azione del genere drammatico, introdotte da Lodovico Castelvetro (1570). Riprenderemo presto questi aspetti tecnici o stilistici del poetare settecentesco.
Soffermandoci per il momento sulle tonalità liriche più consone col nuovo credo estetico, noteremo il trionfo degli stati d’animo sani, virili e, dunque, razionali, con la esclusione dei patetismi, dell’enfasi barocca e del tenerume arcadico. Tra le emozioni meno lontane dalla ragione, troveremo quelle più alte e più degne quindi dell’uomo pensante, maturo, adulto: l’epopea e la tragedia. Commedie, romanzi in prosa, melodrammi, liriche sono generi che non scompaiono, ma sono i meno apprezzati e meno sviluppati. La grande aspirazione dei poeti italiani è l’eguagliare la invidiata stagione tragica di Corneille e di Racine o almeno le opere teatrali del Voltaire. E se quest’ultimo tenta e ritenta il poema epico (dalla Henriade al Poème sur le désastre de Lisbonne), il Parini riuscirà a toccare la grande arte con Il Giorno, poema didascalico-satirico che attinge eccezionali livelli di raffinatezza stilistica e più di un brano di pienezza artistica; ed un poemone in 101 canti scriverà l’abate Gian Carlo Passeroni (1755-74)[131]. Insomma, pare che gli illuministi dicano: degnandoci di visitare il regno di Apollo, insediamoci almeno nei piani superiori, i più vicini alla grandezza, alla perfezione dell’uomo pensante.
Ma vi è un altro registro emotivo che si addice all’uomo razionalista: al disprezzo pel volgo ignorante, per la storia di secoli tenebrosi, per le istituzioni misteriose ed intolleranti (leggi: cristianesimo ed in particolare la Chiesa cattolica), che caratterizza i sentimenti della vita pratica e degli scritti polemici del Millesettecento francese, corrisponderà nella produzione artistico-letteraria la comicità irridente, l’ironia corrosiva, il riso satirico. Ed ecco i racconti di Voltaire (Candido è quello più celebre) ecco Il Giorno di Parini,ecco il poema satirico La Marfisa bizzarra di Carlo Gozzi, ecco Il poema tartaro di Giovanni Battista Casti. Un secolo, esaltato pel trionfo della ragione, canta solenne e ottimista; una generazione, senza umiltà nè carità, canzona sorniona ed ironica.
L’Estetica in un tempo modellato sulla cultura francese è quella classica che si ispira al Grand siècle d’oltralpe, ed all’Arte poetica del Boileau, di cui si fatto cenno. Il nuovo Orazio, insegnava: Rien n’est beau que le vrai; le vrai seul est amable; il doit régner partout et meme dans la fable... Aimez donc la raison: que toujours vos écrits empreuntent d’elle seule et leur lustre et leur prix”..[132]
Si deve al Boileau la scoperta del “sublime” come categoria estetica. Il classicismo torna, dunque, di moda e, nel complesso, in misura equilibrata: la tradizione del verosimile aristotelico, del convenevole rinascimentale sfociano nel concetto pragmatico ma non inutile del “buon gusto”, col quale si cerca di lasciar campo anche a quella dimensione di spontaneità (accanto alle regole), di estro (accanto alla imitazione), di emozione (accanto alla ragione) che l’Aretino, il Bruno e, in qualche modo, anche il barocco avevano confusamente divinato. La estetica della ragione e del vero dovrebbero escluderla, ma non possono ormai più: nell’inconscio si è approfondita l’intuizione di un fattore irrazionale presente irrimediabilmente in ogni forma di arte: fattore che va tenuto presente anche nei giudizi critici sulle concrete espressioni artistiche. Ed è probabile che anche la filosofia di Guglielmo Leibniz sia servita ad aprire la strada a questi compromessi imposti anzitutto dalla intuizione e dal buon senso. Difatti essa pone delle differenze infinitesimali tra i gradi di conoscenza e, quindi, getta ponti infiniti per superare l’abisso cartesiano che separa la sensibilità dalla ragione. L’arte può così essere definita come la espressione di idee chiare ma non distinte, coscienti anche se non vere. Edmund Burke, in Inghilterra, dà primaria importanza ai “moti dell’animo”, alla originalità e spontaneità (“Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello”: 1756).
Il risultato di queste elucubrazioni rimane, ben inteso, quello di una estetica sostanzialmente razionalista e classicista, ma di un razionalismo inquieto, di un classicismo aperto ad integrazioni e compensazioni , che arriveranno a cavallo col nuovo secolo.[133]
Se questa concezione razionalistica resta quella comune, pure insorgono novità: da una parte, nella seconda metà del secolo più che l’intellettualismo cartesiano e leibniziano, il punto di riferimento sarà il sensismo del Condillac; dall’altra, precorrimenti romantici si accendono qua e là in Italia e Germania.
Infine, tutti questi influssi stranieri vengono recepiti con la moderazione ed il buon senso di chi aveva alle spalle una tradizione di dibattito estetico (poetico, si diceva) plurisecolare e di chi accoglieva le novità rivoluzionarie (di natura gnoseologica prima che estetica) provenienti da Inghilterra, Francia e Germania, con nell’orecchio ancora abbastanza fede cristiana e disciplina scolastica, da attutirne i dettati estremi e da avviarli a sintesi di compromesso, in cui il senso comune trionfava di ogni esigenza logica dei vari sistemi e salvava ad ogni costo certi valori, scientificamente non ancora dimostrabili (distinzione fra sensibilità esterna, passioni psicologico-praticheed emozioni pure), ma intuiti come presenti ed essenziali.
Ed eccoci allora a fare una carrellata sui vari pensatori che di poetica ed estetica si interessarono in Italia, distinguendo le solite due metà del secolo.
Per la prima metà del secolo, analizzeremo il pensiero di Gian Vincenzo Gravina, Ludovico Antonio Muratori, Antonio Conti, Giovan Battista Vico e Pietro Calepio.
Gian Vincenzo Gravina, nacque a Roggiano[134] nel 1664 e morì a Roma nel 1718. Fu lo sponsorizzatore ed il maestro di Metastasio, in cui sperava di educare il grande poeta tragico italiano. Egli era, a dir il vero, professore di diritto civile e canonico a Roma e sono degni di nota le sue Origines iuris civilis, del 1713; ed il De romano imperio del 1715. Ma si interessò vivamente di lettere, tanto che fu uno dei fondatori dell’Arcadia nel 1690 e ne scrisse, in latino antico e solenne, le “tavole delle leggi”. Ne uscì clamorosamente, però, nel 1711, per la impossibilità ad intendersi col primo “Custode generale”, Giovanni Mario Crescimbeni, essendo questi per costituzione mitemente arcadico, mentre il Gravina era eroicamente classico. Aveva, infatti, un carattere risentito e rupestre (probabilmente, era un temperamento collerico), con il vantaggio di comprendere e difendere la poesia di Dante e di sentire fortemente l’esigenza di una educazione rigorosa della gioventù (Orationes novem: 1712), ma con il limite di vedere nella casistica morale una forma di compromesso e di concessivismo indebiti (libello antigesuitico: Hydra mystica, sive de corrupta morali doctrina). Nel Discorso sopra l’ “Endimione del Guidi, del 1692, ha spunti molto personali, in cui condanna la precettistica delle poetiche classicistiche. Ma ha un posto nella nostra storia letteraria soprattutto per la Ragion poetica (1708). Egli anticipa il Vico ed il Romanticismo, sottolineando l’apporto della fantasia nella creazione artistica: al punto che venne trascurato dalle prime generazioni del secolo (classicisti puri) e ricuperato poi dal Conti, da Melchiorre Cesarotti e dal Foscolo. Per lui, la poesia è un’espressione che incarna la verità in una sembianza corporea; la dottrina, in una immagine; le idee, in affetti. Essa si pone, così, come strumento di elevazione umana, di incontri fra beluinità e spirito, fra ignoranza e cultura: è veicolo di civiltà e di umanizzazione dei popoli.[135]
Ludovico Antonio Muratori (Vignola –Modena- 1672-1750) è molto più importante come storico che come letterato, sebbene non va taciuto che si dilettava anche di versi (che destavano, però, l’ironia benevola del Carducci). Scrisse opere di poetica, mediocri in verità: nel 1703, Riflessioni sul buon gusto; nel 1706, il trattato Della perfetta poesia. Neppure a lui riesce di trovare l’unità nella natura dell’arte e le riconosce, perciò, una dualità di scopi. La poesia (in particolare) è “figliuola e ministra della filosofia morale” ed è denotata anche da un fine utile ed educativo, ma solo in quanto attività genericamente umana e, quindi, soggetta alla responsabilità della ragionevolezza e moralità. Ma compito specifico dell’arte è quello di dilettare, traducendo il reale che imita con immagini che piacciono. I due fattori (etico-razionale e piacevole-immaginifico) sono conciliati dal “buon gusto”, dalla ragione cioè che imbriglia la fantasia e la mantiene in una linea di sapienza e di ornato, di ordine e di retorica meraviglia: il barocco è rifiutato come sproporzione, non come sorpresa e diletto.[136]
Antonio Conti (Padova, 1677-1749): Dei vari scritti di estetica letteraria, il più importante è il postumo Trattato dei fantasmi poetici (1756, nella collezione Prose e poesie). Altri ne scrisse: la Dissertazione sopra la Ragion poetica del Gravina; Illustrazione del dialogo di Fracastoro intitolato il Navagero. Il Conti gioca su molti fronti. Egli ritiene che il verosimile sia il “caratteristico”, il “tipico” della realtà, quale è colta dal poeta: vi è qui, inconscia, la tendenza a ridurre il motivo ispiratore a dato psicologico, cioè all’aspetto più affine al sentimento-emozione dell’individuo o della situazione presa a tema di canto. Ancora: egli esalta la fantasia, che è intesa come facoltà attiva e produttrice e non solo sognante; che ha gran parte nel poetare; che è coestensiva (pare) con la sensibilità e l’entusiasmo. Pure la ragione (non però quella scientifica) vi ha la sua responsabilià, fondando il “buon gusto”, emarginando stranezze e stravaganze (di tipo secentista). Con questi princìpi, pur non molto coerenti, il Cointi si può ritenere un anticipatore del Romanticismo, in quanto si riferisce frequentemente a realtà come il fervore, la passione, l’entusiasmo, che saranno care anche ai Romantici, mentre la ragione non pare avere una vera funzione produttiva dell’arte, ma solo di controllo e polizia. La concreta scrittura delle sue tragedie, però, lo confermano un autore sostanzialmente classicista.[137]
Giovan Battista Vico (Napoli, 1668-1744), nella Scienza nuova propone una teoria dell’arte molto coerente con la sua concezione dell’umanità, che si evolverebbe dallo stato ferino a quello pienamente umano, attraverso tre stadi (o “corsi storici”): quello dei sensi e degli dei, quello della fantasia e dei poeti, quello della ragione e dei filosofi. Egli rivaluta così la fantasia, ritenendola protagonista di una età della storia umana che ha suoi valori caratteristici e necessari alla vita ed inaccessibili alla pur superiore (età della) ragione. Ipotizzato un “corso storico”, infatti, in cui domini la fantasia pura e sia latente la ragione, i popoli tutti sono poeti: Omero (che non per nulla non ha patria, con ben dodici città che se ne contendono i natali) e Dante sono simboli di un’intera società, che vive di fantasmi artistici anzichè (o, soltanto, più che?) di verità filosofiche! Eppure la poesia rimane un’attività pienamente umana: e non è detto che l’età dei sensi (e degli dei) e quella dei poeti (e della fantasia) siano inferiori a quella della ragione e dei filosofi. Difatti quest’ultima porta con sè ateismo e corruzione, riprecipitando, così, l’umanità nello stato beluino, da cui ricomincerà l’ascesa redentrice (“ricorsi storici”). Insomma ogni età dell’uomo ha valori e disvalori, con le virtù del volere in relazione inversa a quelle del sapere.
Col Vico inizia il mito della poesia popolare, cioè di epoche storiche in cui la poesia sarebbe congenita a tutta una società, perchè sarebbe l’unico gradino di sviluppo-attività razionale ad essa accessibile: una illusione che aduggerà tutto il XIX secolo, fino alle scoperte e correzioni portate, all’inizio del Millenovecento, sulle origini della poesia trobadorica in Francia.[138]
Un altro studioso di poetica nella prima metà del Millesettecento, ma meno importante, è Pietro Calepio (di Bergamo: 1693-1762). Nel 1732 pubblica il Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia. Egli fu in contatto con lo svizzero Johann Jakob Bodmer (1698-1783) e forse favorì la dottrina preromantica in cui l’immaginazione ed il sentimento hanno gran parte, propria di questo studioso svizzero-tedesco. A loro volta, studiosi di area germanica, come lo stesso Bodmer, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762) e Johann Jakob Breitinger (1701-1776) influiranno sulla teoresi letteraria italiana nella seconda metà del secolo, su Saverio Bettinelli e su Melchiorre Cesarotti, ad esempio: in senso antilluministico e preromantico.
Per la seconda metà del secolo riporteremi il pensiero del Beccaria, P. Verri, Parini, Saverio Bettinelli e Melchiorre Cesarotti.
Per comprenderne il pensiero, dovremo tener presente anche il sensismo di Stefano Condillac, che influì sino al Foscolo ed al Leopardi. Sacerdote, ma amico di Rousseau, Condorcet, Diderot e membro delle Accademie di Berlino e di Francia, fu seguace coerente, ma tanto più unilaterale e superficiale, dell’empirismo di Locke: egli ne condusse agli estremi la riduzione delle idee a complicazione di sensazioni, contro ogni dottrina cartesiana delle idee innate, ma anche contro ogni distinzione tra sensazione e riflessione (propria del pensiero di Locke). Noi non conosciamo le cose, ma le sensazioni di esse (le modificazioni del soggetto conoscente). Introdotto il famoso paragone della statua che acquista man mano le varie sensibilità, egli afferma che l’olfatto induce la statua odorante a credere che tutto il mondo consti di odori e profumi; acquistati vista ed udito, la statua senziente tende a pensare che l’universo sia composto anche di tali percezioni (luce, colori, suoni). Che cosa presta alla “statua inanimata i vari sensi? Il bisogno: le sensazioni sono accompagnate da piacere o dolore perchè è dal bisogno di fruire del primo e di fuggire il secondo che si spiega tutto lo sviluppo della statua nella gerarchia dell’essere, su su fino all’uomo. Questi pensa, in quanto ricorda e complica le sensazioni attraverso associazioni e dissociazioni.; e così si spiegano pure le passioni e la stessa volontà. Come egli, poi, creda alla capacità dell’intelletto di dimostrare l’esistenza di Dio, la immortalità e la libertà dell’anima, il valore della morale e della relgione naturale (perfezionata dalla Rivelazione soprannaturale) non è chiaro, perchè siamo in presenza di un pensatore più brillante che profondo, più affermativo che dimostrativo. Ciononostante, per mezzo secolo, il sensismo esercitò una specie di dittatura sul pensiero e fu spodestato solo dal tradizionalismo e dal romanticismo dell’inizio Milleottocento.[139]
Di Cesare Beccaria (1738-1794) abbiamo già visto il pensiero socio-politico, che comprende premesse antropologiche e storiche, ma soprattutto si basa su una analisi psicologica assieme geniale ed azzardata. Qui ci interesa il Frammento sullo stile (ovvero Ricerche sulal natura dello stile), un’opera del 1770.
Possiamo prendere anzitutto in considerazione ciò che lo stile non è, pel Beccaria. Lo stile non è il distillato delle opere d’arte già scritte nè le sue leggi sono da ricavarsi dalle “bellezze già combinate de’ maestri d’arte”; neppure sono il frutto della “fortuita impulsione del sentimento e irriflessiva pratica del lungo esercizio”. Non si apprende, di conseguenza, lo stile col metodo induttivo e quasi spontaneo della lettura dei grandi letterati di ogni tempo, ma col metodo deduttivo della riflessione sulla sua natura, da ricercarsi nella psicologia dell’uomo, attraverso la ragione.
Ed ecco, allora, che lo stile (poetico, artistico) è ciò che commuove il cuore, sicchè va ricercato “a qual combinazione di idee, d’imagini, di sentimenti e di sensazioni egli (il cuore) si scota ed irriti e a quali resti inerte”. Come le leggi più funzionali alla felicità dell’uomo socializzato sono rivelate dallo studio del cuore umano (“Dei delitti...”, c. 2), così il cuore dell’uomo denuncia l’artisticità o meno dello stile con le sue reazioni di fronte alla fruizione dell’opera. La poetica (e, al limite, l’estetica) è dunque una provincia della psicologia e la sua conclusione è questa: l’arte è il render presenti le reazioni emotive del nostro organismo, è la capacità di suscitare la commozione del cuore. Ma a far da contrappeso a questa intuizione radiosa del precursore del Romanticismo, ci si mette il razionalismo del pensatore illuminista. Egli pare confondere la scienza estetica (che cosa è arte o poesia?) con la metodica poetica (come si fa ad ottenere l’espressione artistica, letterariamente riuscita?), quasi l’opera d’arte sia programmabile ed esista una precettistica sia pure interiorizzata (non più di stile, ma di cuore) con cui si possa creare il poeta e l’artista.
Le proposte di Pietro Verri (1728-1797) circa l’arte e la letteratura, noi le abbiamo già esposte sinteticamente trattando del suo pensiero complessivo. L’opera più ricca di suggerimenti è Il Discorso sull’indole del piacere e del dolore; l’idea più singolare è l’interpretazione del piacere come cessazione del dolore; la fuga dal dolore è la molla che ha stimolato e deciso delle differenze fra l’animale e l’uomo e del progresso umano nella storia; fra i dolori, ve ne sono di precisi e violenti, contro cui l’arte non ha potere, ma ve ne sono di vaghi, indistinti, confusi e generici, non localizzati nè forti (malinconia, inquietudine, tedio) contro cui l’arte è efficace. In questa forza liberatrice, in questa facoltà terapeutica, in questa capacità di sollevare i melanconici (i più sensibili alla suggestione artistica) sta la grandezza ed il valore della poesia e dell’arte in genere: essa comunica conforto e felicità. Secondario è il problema del linguaggio, particolare quasi indiferente rispetto al contenuto razionale della poesia.
Giuseppe Parini (1729-1799) ha ben altri meriti per essere ricordato in una storia delle lettere italiane. Pure egli dettò lezioni all’Accademia di Brera che furono pubblicate dopo la sua morte col titolo: Princìpi generali e fondamentali delle belle lettere applicati alle belle arti, opera che conclude tutta una serie di interventi sulla natura della poesia. Egli afferma, dunque: “l’istituto del poeta non è di giovare direttamente, ma di dilettare”[140] pur nella persuasione che “il poeta possa, volendo, giovare assaisssimo... alla civile conversazione, ai costumi, alla comune benevolenza degli uomini, alla probità, alla virtù e allo stesso eroismo dei cittadini”. Ed è su quest’ultima dimensione delle opere di poesia che egli insiste di più, in consonanza col Muratori, Verri, il Bettinelli, il Gozzi (Gasparo) ed il Baretti. Sebbene non riesca ad unire con una motivazione psicologico-estetica adeguata il duplice valore, nell’arte, di contenuto e forma, tuttavia egli sente con Orazio (e contro il Verri) la importanza della musicalità, la preoccupazione della eleganza nel dire, tanto da esprimerla in alcuni suoi versi famosi: “Va per negletta via| ognor l’util cercando| la calda fantasia,| che sol felice è quando| l’util unir può al vanto| di lusinghevol canto” (La salubrità dell’aria); “Che ai buoni, ovunque sia, dona favore;| e cerca il vero; il bello ama innocente;| e passa l’età sua tranquilla, il cuore| sano e la mente” (in Alla Musa, vv. 29-32: ma si vedano tutte le strofe 5-8, vv. 17-32).
Questa capacità di tener presente la complessa, non univoca natura della poesia e dell’arte è, dunque, una caratteristica positiva del pensiero di tutto il Millesettecento, con lo spostamento, però, importantissimo nella gerarchia delle due componenti: nella prima metà del secolo, la razionalità e moralità tendono a prevalere e predominare sulla fantasia e sulla sensibilità; nella seconda metà, il “piacere” (sia pure peculiare, non fisico) dell’arte prende il primo posto, rispetto alla pur fortemente sottolineata e riaffermata funzione “utilitaria” (cioè educativa, istruttiva) della poesia. In quasi tutti vi sono faville di quell’incendio che si prepara già col Vico: il sentimento si avvia a far la parte del leone, a sottomettere a sè le altre componenti dell’opera d’arte, al punto da monopolizzare il fenomeno.[141] Quasi tutti i pensatori fin qui esaminati aprono, cioè, la strada al romanticismo, anche se i pù inclini al primato del sentimento sono quelli che ci rimangono ancora da vedere: il Bettinelli ed il Cesarotti.
Saverio Bettinelli (Mantova, 1718-1808) lo prendiamo qui in consoderazione per il suo saggio Dell’entusiamo nelle belle arti (1769). Definisce l’arte “un sogno che si fa in presenza della ragione” e concede, di conseguenza, all’attività del sentimento e della fantasia una gran parte della invenzione artistica. Purtroppo, la stroncatura di Dante (nelle Lettere virigiliane) e la incomprensione per Alfieri e Foscolo, nonchè l’opposizione al tragico-furibondo-orrendo di moda a cavallo fra i due secoli come premessa del Romanticismo, lo squalificano come critico. Ma le premesse estetiche –pur nella loro indistinzione- erano complete e degne, quindi, di attenzione.[142]
Melchiorre Cesarotti (Padova 1730-1808) scrisse più volte sul problema della poetica-estetica (Ragionamenti intorno al diletto della tragedia| Discorso sull’origine e i progressi dell’arte poetica: 1762), ma l’opera più importante è certo il Saggio sulla filosofia del gusto (1785). La sua attività letteraria, però, si estende a vari campi. Come traduttore egli, dal francese, volse in italiano il Maometto e La morte di Cesare, di Voltaire; dal greco, tutta l’Iliade, sia in prosa che in versi: tale traduzione fu la base su cui lavorò Vincenzo Monti per pubblicare il quasi-capolavoro della sua redazione in endecasillabi sciolti (onde il Foscolo lo definì: “gran traduttor del traduttor d’Omero”). Soprattutto ebbe successo la versione dei “Canti di Ossian”, terminata nel 1772: come gran parte degli intellettuali dell’epoca, egli credette al mito della esistenza di simili canti nella tradizione popolare scozzese, come aveva voluto far credere il loro inventore James Macpherson. Fu storico della letteratura (Corso ragionato di letteratura greca: 1781); fu teorico del linguaggio (Saggio sulla filosofia delle lingue: 1785); fu poeta o, almeno, scrittore in versi in favore della rivoluzione francese (Il patriottismo illuminato| Istruzione di un cittadino ai suoi fratelli| il poema allegorico “Pronea” per esaltare Napoleone).
Fermiamoci al saggio sul gusto anzi alla “filosofia del gusto”. Egli ipotizza una facoltà “estetica”, cui è deferita non solo la creazione, ma anche il giudizio critico sull’opera d’arte, sicchè poeta e critico si trovano apparentati. Come non basta la ragione a spiegare l’origine delle lingue (cfr. “Saggio sulla filosofia delle lingue”), così essa non è sufficiente a spiegare la nascita dell’opera d’arte, che coinvolge appunto la facoltà estetica, cioè fantasia e sentimento. La ragione li deve imbrigliare col “buon gusto”, ma non costituisce da sola la sorgente della poesia.
Storie della letteratura italiana. Collegata alle teorèsi poetico-estetiche è la attività critica, che ne dipende; ed essa è la base, poi, per la strutturazione di storie letterarie. Ebbene, già alla fine del Milleseicento inizia questo nuovo genere di studi.
L’iniziatore (a parte i dati non sistematici nelle “Prose della volgar lingua” del Bembo) è Gian Mario Crescimbeni, arciprete di S. Maria in Cosmedin a Roma e primo custode generale dell’Arcadia. Egli era nato a Macerata nel 1663, ma era divenuto canonico nella chiesa di Roma, di cui sarebbe poi stato fatto superiore responsabile. Tra i fondatori dell’Arcadia, ne divenne membro col nome di Alfesibeo Cario e ne fu il custode generale sino alla morte (1628). Scrisse versi senza valore poetico, ispirandosi al Petrarca ed al Chiabrera (Rime: 1695 e 1723). E, tra versi e prosa romanzò in ambiente pastorale (imitando il Sannazaro) la storia dell’Accademia fino al 1706: l’opera ebbe ovviamente il titolo di Arcadia (1711). Lavori storici particolari riguardano sia il suo ufficio sacerdotale (Istoria di chiese: S. M. in Cosmedin, S. Giovanni, S. Anastasia; Compendio della vita della Vergine; volgarizzamento di omelie ed orazioni di papa Clemente XI) sia la sua specializzazione letteraria (Notizie intorno ad A. Poliziano| Vita di A. Guidi e di altri arcadi illustri| Ragionamenti pastorali| Orazioni).
La sua opera più importante è però la Istoria della volgar poesia, cui sono da aggiungersi i nove dialoghi Della bellezza della volgar poesia (1700) ed i Commentari intorno alla Storia dell v. p. ( 1702-11). L’importanza della “Istoria” è solo erudita: offre, infatti, molte notizie su autori ed opere, che sarebbero andate perse senza la sua meticolsa informazione. Qualche palpito di lirismo affiora quando esalta la grandezza della poesia italica, rivendicando all’Italia valori poetici singolari. Purtroppo manca, invece, ogni consistenza critica: non solo non sa dimostrare, ma spesso neppure distinguere la poesia dalla versificazione. Egli ha uno scopo apologetico, celebrare cioè il nuovo indirizzo arcadico, contro il degrado secentista: la poesia italica, nata da quella provenzale e perfezionatasi col Petrarca, dopo i fulgori del Rinascimento, era decaduta nel delirio barocco e solo ora rinasceva.
Francesco Saverio Quadrio: nato a Ponte di Valtellina nel 1695, morì nel 1756). Si fece gesuita, ma poi uscì dall’ordine nel 1746 e condusse una vita movimentata: fu anche a Parigi e divenne amico di Voltaire. Si occupò di scienze, di poesia, di storia (è stato messo recentemente in luce il suo spirito egualitario per la lettera Intorno a’ titoli d’onore), ma ottenne fama con l’opera Della poesia italiana. Uscita nel 1734 con pseudonimo, fu da lui elaborata e riedita in cinque volumi nel 1752, col titolo Della storia e della ragione di ogni poesia. Egli è un sostenitore del classicismo estremo e non ha alle sue spalle un gusto sicuro per scegliere e classificare con giudizio esteticamente valido opere ed autori.
Carlo Denina, nacque a Revello (Saluzzo) nel 1731 e morì a Parigi nel 1813. Fu sacerdote e si interessò vivamente alla teologia (1758: De studio theologiae) ed alla storia ecclesiastica (Storia della gerarchia ecclesiastica nei primi secoli dell’era cristiana), non senza la richiesta di riforme improntate ad un moderato illuminismo. L’effetto fu quello di perdere la cattedra universitaria. Allora si recò a Postdam, ospite di Federico II dal 1782 al 1804; scrisse La Prusse littéraire sous Frédéric II (1790-1)| Apologie de Frédéric II| Rivoluzioni di Germania| Guide littéraire pour differents voyages. Il viaggio germanico o le Lettere brandeburghesi (1785-6) è pure opera di questo periodo. Fu chiamato poi da Napoleone che lo volle a Parigi come bibliotecario. Fu un grande erudito e si fece conoscere anche all’estero con l’opera Discorso sopra le vicende di ogni letteratura (1760; ampliata nel 1784), che gli meritò la iscrizione alla Accademia di Prussia. L’opera è ispirata ai princìpi classicistici ed anticipa gli studi di letteratura comparata, così come il suo capolavoro “Delle rivoluzioni d’Italia” (1769-72:in tre volumi) anticipa Les révolutions d’Italie di Francesco Quinet, che, scritte fra il 1848 ed il 1852, sono però più meditate e profonde. A Parigi scrisse, fra l’altro, l’Istoria dell’Italia occidentale (1809). L’ultima sua fatica è il volume Que doit-on à l’Espagne?, che è una apologia della cultura spagnola nel Milleseicento, contro i critici francesi denigratori.
L’opera che più ci interessa è il Saggio sulla letteratura italiana (1762): vi spicca la solita, formidabile erudizione, accompagnata da una dose di notevole buon senso nel giudicare uomini ed istituzioni del passato, lontano da quelle astrattezze e generelizzazioni proprie degli enciclopedisti; e col riconoscimento della parte positiva avuta dalla tradizione cattolica nel progresso storico. Purtroppo però manca anche in lui un sicuro senso critico nel giudicare di letteratura.
Girolamo Tiraboschi (Bergamo 1731- Modena 1794). Fu gesuita ed insegnò al collegio di Brera, ma fu poi inviato a Modena, per l’invito del duca Francesco III, che lo volle prefetto della Biblioteca estense. Potè alora dedicarsi a studi eruditi di vastissimo raggio. Frutto ne furono la Vita di Fulvio Testi (1780), Biblioteca modenese, ovvero notizie della vita e delle opere degli scrittori di Modena ( 1785-6); Notizie dei pittori, scultori, incisori, architetti nati negli stati del duca di Modena (1786); Memorie storiche modenesi (1793-5); Dizionario topografico-storico degli stati estensi (1793-5); stampa, con notazioni, dell’opera del cinquecentista G. M. Barbieri “Dell’origine della poesia rimata”. E attese, infine, alla composizione della monumentale Storia della letteratura italiana (1772-82). Quest’ultima opera è un capolavoro di erudizione: inizia con gli Etruschi e, passando per gli scrittori latini, giunge alle soglie del Millesettecento. I suoi giudizi, però, sono basati su criteri arcadico-illuministici: la conformità alle regole e la chiarezza fanno l’opera d’arte! Il culmine della nostra letteratura è posto nel Millecinquecento, sicchè non viene percepito il valore di Dante e della sua Commedia nè quello della Gerusalemme liberata. Manca di criteri estetici e, quindi, anche critici, sicchè finisce per accomunare letteratura e cultura: la sua è una storia di tutte le scritture in lingua toscana; l’impianto dell’opera non differisce da quello seguito per le varie storie sulla topografia, sulla vita politica, sui vari personaggi delle arti, figurative e letteraria, del modenese. Il risultato rende tuttora utile il lavoro, chè i dati sono abbondanti, accurati e di prima mano.
Giovanni Andrès (Planes, 1740- Roma, 1817): gesuita spagnolo, dopo la soppressione dell’ordine nel suo paese (1767), venne in Italia e finì prefetto della biblioteca reale a Napoli. Aperto a molti interessi, scrisse un Saggio sulla filosofia di Galileo (1776), ma la sua fama è legata all’opera Dell’origine, de’ progressi e dello stato attuale di ogni letteratura (1782-9). Il panorama è ampio e fa da parallelo a quello del Denina (1760| 1784), ma la documentazione non è sempre rigorosissima.[143]
Conclusione. Purtroppo non possiamo attribuire a questi ponderosi lavoratori il titolo di fondatori della nostra critica e tanto meno della nostra storia artistico-letteraria. Sarà il Foscolo ad iniziare lo studio critico degli scrittori italiani e sarà Francesco de Sanctis a scrivere la prima vera storia delle lettere italiane. Pur mancando anch’essi di definitivi concetti e definizioni di filosofia estetica, ebbero però l’intuizione che la grandezza di un artista, della parola come delle arti figurative e drammatiche, dipende da quel plus-valore che il romanticismo chiamerà sentimento, ma che la genialità dei due scrittori saprà distinguere da quello pratico-esistenziale, prendendo in considerazione solo la sua espressione pura ed assoluta, che prescinde da ogni finalità pragmatica per puntare unicamente sulla comunicazione dello stato d’animo dell’artista, attraverso un’opera purificatrice ed astraente della ragione, che opera l’elevazione del’attività emotiva ( che abbiamo in comune con gli animali) alla condizione di universalità e di spiritualità propria solo della conoscenza umana.
LO STILE O TECNICA ESPRESSIVA E LE DOTTRINE
LINGUISTICHE DEL MILLESETTECENTO.
La reazione antibarocca e l’influsso francese del grand siècle –da Corneille a Racine, da Molière al Boileau-[144] riportarono in voga dapprima la ragionevolezza della espressione, poi il culto della ragione ed il sistema di regole classicistiche, con le tre unità. Ma il classicismo significò anche il ritorno alla verosimiglianza della vicenda, alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, alla coerenza del loro comportamento; segnò l’abolizione della recita “improvvisa”, l’adozione standard dei cinque atti e della loro ben definita divisione in scene, la consacrazione dell’endecasillabo sciolto (e non solo per il teatro: Carlo Innocenzo Frugoni e Melchiorre Cesarotti ne daranno l’esempio al Parini per “Il Giorno”), il ricupero di versi e strofe greco-latine (saffica minore, endecasillabo catulliano...), la continuazione del sonetto e della canzone come metri fondamentali per la poesia lirica e la creazione di nuove combinazione di versi e rime per le sue strofe... L’imitazione, il riferimento a canoni consacrati dalla grande poesia antica e la loro variazione dell’antico erano i segni più sicuri della classicità con cui risorgeva la letteratura italiana dopo il disorientamento secentista.
Se veniamo alla prosa, scopriamo l’influsso francese nella brevità del periodare. Viene abbandonata la moda trecentista del boccaccismo, per una esprerssione più distinta, particolareggiata, interessante. La spezzatura del periodo è forse anche segno di minor vigore intellettuale, di uno sminuito abito filosofico, di una indebolita capacità ad abbaracciare un argomento nella sistematicità delle sue varie articolazioni e sfumature, ma, certo, è una via per sottolineare i particolari, focalizzarli e renderli, così, affascinanti e stimolanti. Tanto più che, negli spiriti più dotati, la brevità diventa tacitiana concisione, con densità di pensiero e sobrietà di parole. Vantaggi e svanataggi, dunque: lo stile breve e veloce è più superficiale e settorializzante (col pericolo di diventare fazioso e fuorviante), ma è più vivace e brillante, più disinvolto e mordente. La battuta di spirito ne è il modello supremo: breve perchè riduttiva, caustica perchè unilaterale, comica perchè acuta e rivelatrice. In ogni modo, la coordinazione prende il sopravvento sulla subordinazione, la paratassi sulla ipotassi.
Il trionfo dell’ “esprit” francese non toglie all’Italia un nuovo trionfo linguistico: l’italiano è la lingua musicale e a Vienna si recitano in lingua toscana i testi di Apostolo Zeno, Metastasio e successori. Ma è l’ultimo, perchè in Italia si diffonde il “raguet”, cioè un maccheronico italo-francese, formato da radici di parole toscane cui si appiccica estemporaneamente la desinenza del francese (con l’immancabile accento tronco): Scipione Maffei nel 1747, ne farà la burletta con la commedia intitolata da quel termine.
Ma il dominio e la penetrazione della lingua francese (divenuta, oltre che la lingua imperante nei salotti, anche la lingua diplomatica ufficiale) fa temere una contaminazione del sermone nazionale, con problemi socio-culturali. In che misura si possono|devono accogliere i neologismi francesi nella lingua italiana? In che senso si può e si deve continuare a difendere quella purezza elitaria sostenuta dai cruscanti dell’Accademia fiorentina e dal vocabolario da loro edito? In proposito si manifestano diverse tendenze, che si ufficializzano attorno ad accademie ed organi a stampa, che già conosciamo. Ecco insorgere il problema della lingua.
Pietro Verri con l’accademia dei Pugni, è il più avanazato francofilo. Egli dichiara –dagli spalti del suo Caffè- di essere disposto a fare “formale rinunzia avanti notaio al vocabolario della Crusca”, convinto come è che “il merito del linguaggio... è un puro abbellimento del discorso”. Perciò, beffata la “pedanteria dei parolai”, è in favore di ogni parola intesa dagli abitanti d’Italia, anche a scapito della toscana purezza: ben vengano i neologismi che esprimono, meglio del termine tradizionale e toscano, un’idea. Quanto alla sintassi, molto meglio la libertà franco-inglese che non l’impaccio della tradizione italiana. Non è che il suo sia un estremismo, però (a parte la tara da attribuire al tono di sfida proprio di un giornale che doveva farsi largo, pungendo e schiaffeggiando i benpensanti), rimane un buon senso di fondo che gli fa scrivere che le novità vanno accolte “sempre con quel giudizio che non muta a capriccio la lingua, ma la arricchisce e fa migliore”.
Melchiorre Cesarotti è più equilibrato. Egli scrisse il Saggio sulla filosofia delle lingue (1785: contemporaneo a quello sulla filosofia del gusto), in cui considera le lingue come un organismo vivente e storicamente condizionato; e, perciò, mutevole. Si possono e si devono, allora, “creare nuovi vocaboli, traendoli dal fondo proprio e talora anche dagli stranieri”. La lingua è detatta dalla libertà, frenata dal gusto, dall’uso e dalla ragione; sorge dalla sensibilità individuale, ma “temperata e giudiziosa”. Con queste intuizioni sostanzialmente esatte (dipendenti dal sensismo di Condillac) egli si oppone sia al rigorismo dei Cruscanti sia alla “pugnace” disinvoltura del Caffè. Egli vede chiari i vantaggi ed i pericoli della moda francesizznte: va accettata, perchè imposta dal fatto della supremazia culturale, ma va assimilata con senso storico, cioè come fenomeno momentaneo che deve inserirsi nella tradizione peculiare e non emarginabile della lingua toscana. Egli pare ammonire: occorre evitare il libertinaggio ed il rigorismo: sono questi i due scogli di Scilla e Cariddi, fra cui destreggiarsi. Benchè offuscate dalla imperfetta conoscenza dei meccanismi fisiologici dell’attività cerebrale a creare la parola, tuttavia egli intuisce da vicino il dualismo delle componenti del risultato: la lingua, vista con saggezza acuta nella complessità dovuta alla storia culturale del popolo che la parla, rimane contemporaneamente “ interprete del pensamento” (dimensione razionale, filosofica) e “ministra del gusto” (dimensione estetica, emotiva); vive una vita umana e non eterea, cioè muta coi tempi, oltre che coi luoghi (non è un fenomeno astrale od angelico); si adatta al cammino del popolo, alle vicende della sau storia culturale; non si lascia fissare in nessuna granmmatica di tipo latino, perchè quella tratta di una lingua morta e mummificata. Tale “Saggio”non rimase senza polemiche. I “granelleschi” di Gaspare Gozzi –più cruscanti degli stessi toscani- non mancarono di protestare. Ma nessuno aveva tracciato prima del Cesarotti una panoramica così realistica, umanamente aderente alla totalità del fenomeno linguistico; e, perciò, tanto aperta e guardinga.
Nel 1791, al Cesarotti rispose Gianfrancesco Galeani Napione (Cocconato –Asti- 1748- 1839)[145]. Egli si pone in una posizione più timida e tradizionalista, eppure non aprioristicamente chiusa. Nella sua opera Dell’uso e dei pregi delal lingua italiana, denuncia come troppo liberale la dottrina cesarottiana e trova irragionevole la pretesa di unire la cultura filosofica ed il linguaggio scientifico alla lingua francese. E’ contrario al gallicismo ed al forestierismo e combatte, perciò, la eccessiva indulgenza del Cesarotti per i neologismi. Eppure auspica una creativa fusione tra “genio originale... sensibilità... dottrina... maestà ed esattezza italiana” con “urbanità, brio, disinvoltura francese”.
Come i più disinvolti, al seguito del Verri, si erano raccolti nell’Accademia dei “Pugni” e quelli più conservatori in quella dei “Granelleschi”, così si trovò ad assumere un atteggiamento moderato l’Accademia dei Trasformati, a Milano, cui appartennero il Parini e Gian Carlo Passeroni, Carl’Antonio Tanzi e Domenico Balestrieri, il canonico Agudio e lo stesso Pietrop Verri, che ne uscì poi (per motivi non soltanto letterari, a quanto si sospetta). Essa fu rimessa in onore nel 1743 fra i letterati che si radunavano in casa di Francesca Bicetti de’ Buttinoni, finanziata dal conte Giuseppe Maria Imbonati. Assunse un’attitudine moderata non senza motivi particolari: Tanzi, Balestrieri e lo stesso Parini scrivevano poesie in dialetto e non potevano, perciò, essere partigiani acerrimi del toscanesimo; così come non potevano non sentire la superiorità della letteratura (non della lingua!) impostasi dopo Dante, Petrarca e Boccaccio, perchè il dialetto milanese una aliquale lustra letteraria cominciava a crearsela proprio solo allora, con quella manciata di poeti, che solo più tardi avrebbero coinvolto anche Carlo Porta.
IL COSTUME DI VITA NEL 1700 IN ITALIA.
Come ogni epoca, il Millesettecento fu un impasto (anche in Italia) di virtù e vizi, di santi ed eroi, di galantuomini e mediocri, di deboli e malvagi. Quello che andiamo indagando è la caratura della condotta della società italiana, cioè la prevalenza dell’una o dell’altra facia della vita morale.
Un simile giudizio valutativo lo si può misurare quantitativamente paragonando il numero delle personalità emergenti nel campo della onestà o della delinquenza oppure lo si può intuire da alcuni fatti indiziali del comportamento della maggioranza, sintomatologici della media moralità nella popolazione. Seguiremo entrambe le piste.
Il tono prevalente quantitativamente in Italia è ancora quello permeato dalla fede e dalle virtù cristiane. La deriva illuministica (dal deismo all’ateismo) è un fatto limitato a settori delle classi colte: questo va detto, senza per questo voler escludere nè frange di borghesia ostile| indifferente| inosservante dei valori cristiani; nè una maggioranza di nobili ed intellettuali ancora sintonizzati sulla mentalità e sul costume cattolico. E’ vero che troviamo un minor numero di santi o beati che nel secolo precedente, ma in compenso la riforma tridentina si fa sentire davvero nella compattezza complessiva della adesione delle masse al vangelo, alla vita della Chiesa, anzi (comprendente l’osservanza dei precetti della Chiesa, dalla Messa festiva al magro nei Venerdì, dal digiuno quaresimale alla pratica della Confessione e Comunione pasquali). Grazie alle “Missioni popolari” (tenute dai Redentoristi di S. Alfonso M. de’ Liguori, dai Passionisti di S.Paolo della Croce, o da missionari diocesani, come quelli istituiti da p. Martinelli per Milano) , il cristianesimo delle masse si va purificando da superstizioni (specie nelle campagne) e si rende sempre più coerente con le direttive del Vangelo e della Chiesa. Si vuol dire: mentre il funzionamento della censura ed inquisizione va scemando materialmente, l’efficacia della loro pressione sulla mentalità e prassi va mantenendosi nel complesso della società, per una forza inerziale che è tipica di ogni sistema che abbia agito a lungo su ogni suo settore, intellettuale e prassico.[146]
Tra i santi e beati italiani del secolo, segnaliamo quanti hanno avuto una notorietà ed efficacia notevole se non clamorosa..
S. Alfonso Maria de’ Liguori fondò la congregazione del SS. Salvatore (Redentoristi) per la predicazione e l’apostolato nelle parrocchie della periferia e delle popolazioni più povere, riuscendo a strappare il decreto reale di approvazione nel 1752, vent’anni dopo la fondazione, contro la opposizione del ministro Tanucci. Ebbe modo di rivelare la straordinarietà della sua carità durante le carestie che colpirono la diocesi di S. Agata dei Goti a lui affidata dal 1762; e l’efficacia del suo zelo, nelle cure prodigate al seminario della stessa. D’altronde, primogenito di una casa abbiente ed avvocato a 17 anni, aveva abdicato al maggiorascato per farsi sacerdote (1726) e si era scelto come apostolato prediletto la cura dei poveri e dei “lazzaroni” (ragazzi di strada). La sua importanza sociale sta però, soprattutto, nel compito affidato ai suoi congregati di ricristianizzare le campagne con la predicazione delle “missioni al popolo”. Egli operò, per altro, anche a livello strettamente intellettuale, fornendo alla scienza morale una sua fondazione specifica, che permettesse di separarne la trattazione da quella della teologia dogmatica: il suo testo di teologia morale è tuttora punto di riferimento sicuro per gli studiosi ed insegnanti della materia nei seminari della Chiesa cattolica. Insomma, fu un santo completo: non privo di prove spirituali violente (nato nel 1697 e morto a 91 anni nel 1787, fece in tempo a vedersi emarginato dalla congregazione da lui fondata, mentre dolori artritici violenti lo martoriarono negli ultimi anni), ebbe però una attenzione e dedizione agli “ultimi” tra i cristiani, che ne fanno anche un eroe delle opere di misericordia.[147]
S. Gerardo Maiella, figlio spirituale di S.Alfonso, fu frate laico redentorista, nato nel 1726 a Muro Lucano e morto a Materdomini (Avellino) nel 1755 a 29 anni. Fu noto anzitutto per i doni carismatici così frequenti da sconcertare il secolo razionalista ed entusiasmare le folle che tuttora lo venerano: dalle estasi durante la preghiera alle grazie che impetrava con miracoli in loro favore. Praticò l’umiltà in grado sublime, non difendendosi dalla calunnia di una donna che per vari anni lo mise in cattiva luce con le sue accuse e che solo in punto di morte, confessando la sua falsità, liberò il povero giovane da ogni sospetto. Ed ebbe una funzione sociale notevole: detto padre dei poveri per il soccorso ai bisognosi, intervenne con energia a pacificare famiglie e città, convertendo facinorosi e peccatori incalliti. Egli stesso, d’altronde, nato povero, si trovò a beneficiare dell’aiuto materiale da parte della benevolenza divina: ricevette due pani dalla statua di Gesù Bambino, che stava pregando appunto affamato.[148] Chi lo aveva calunniato era stata, d’altronde, proprio una ragazza da lui beneficata (aveva fornito a lei, come a molte altre, la dote per poter essere accettata in convento): abbandonata la vita monastica, aveva così ricompensato il suo benefattore!
S. Paolo della Croce (Ovada –Alessandria- 1694-1775) dapprima condusse vita eremitica col fratello Giovanni Battista; consacrato sacerdote nel 1727, fondò i religiosi della Passione di Cristo (ora detti Passionisti e Passioniste). Anch’egli fu dotato di doni soprannaturali straordinari che, assieme alla penitenza di una vita severissima ed alla predicazione infuocata, conferirono grande efficacia alla predicazione delle missioni popolari, specie in Toscana e nel Lazio.
S. Leonardo da Portomaurizio (Imperia, 1676- Roma 1751) Educato dai Gesuiti al collegio romano e seguace di padre Ségneri junior, si fece però ferancescano minore (assieme a due fratelli) e predicò missioni al popolo in Toscana, Lazio, Romagna, Corsica, Liguria, Roma: se ne contano almeno 339 da lui tenute. A Roma, predicò al popolo in piazza Navona, per la gran folla di fedeli accorsi. Tenne anche quaresimali e corsi di esercizi spirituali, così come diffuse l’esercizio della Via Crucis, erigendo, dove poteva, le 14 stazioni: se ne contano 576 da lui istituite, fra cui quella al Colosseo.
San Francesco De Geronimo (Grottaglie, Taranto, 1642 – 1716): fu missionario del popolo gesuita, come p. Segneri. Suo campo d’azione fu Napoli, dove ottenne fama e successo con la predicazione (anche all’aperto), coi miracoli e con le opere caritative.
Questa, delle grandi predicazioni, per una specie di “esercizi spirituali” dettati ai fedeli di intere parrocchie, è un’idea che va diffondendosi. Richiamiamo p. Paolo Segneri junior, che muore nel 1713. A Milano, nel 1714, p. Giorgio Maria Martinelli fonda i “Missionari per la predicazione al popolo” nella diocesi (dove sussistono col nome di “padri di Rho”, dalla cittadina della loro residenza).
S. Vincenzo Maria Strambi, passionista nato a Civitavecchia nel 1745 e morto a Roma nel 1824, fu vescovo di Macerata e Tolentino: la sua vita ed attività pastorale sono paragonate a quella di S. Carlo Borromeo a Milano.[149]
Altri noti ed efficaci predicatori al popolo furono S. Francesco M. Bianchi, barnabita, a Napoli; il beato Antonio Baldinucci (gesuita, nato a Firenze nel 1665 e morto nel 1717) per il territorio di Viterbo e Frascati; il beato Angelo da Acri (cappuccino, morto nel 1793: giunse a tenere fino a10 prediche al giorno; a ricordo della missione erigeva tre croci su una altura: il calvario) per la regione calabra; il beato Leopoldo da Giaiche (Perugia: francescano), vissuto fra il 1732 ed il 1815, per l’Umbria: tenne qualcosa come 230 missioni nei 40 anni di attività; p. Girolamo da Portico contro il barocchismo tuttora presente nella predicazione, raccomandava: “Predicate al cuore, al cuore, se volete predicare con frutto”. E si potrebbe continuare coi nomi del francescano p. Agostino da Fusignano, don Bartolomeo Dal Monte (diocesano di Bologna), il padre Barnabita Giuseppe Quadruplani, il domenicano padre Tommaso Corvesi, ecc. A Roma, sorse nel 1706 la “Congregazione dei dottrinari”, che diffuse la educazione cristiana, con gare di catechismo ed elezione ad “imperatore” del concorrente vittorioso.
Santa Lucia Filippini (Tarquinia, Viterbo, 1672-1732) Istituì le “Maestre pie Filippine” per la istruzione ed educazione delle fanciulle.
Benchè il numero sia inferiore ai santi del secolo precedente, tuttavia si tratta ancora di un drappello folto ed attivo a livello di conferma-diffusione della fede, della pratica sociale della carità e della rivelazione carismatica della presenza amorevole di Dio fra gli uomini.
Nè tutti i grandi operatori cristiani del secolo si trovano fra quanti hanno raggiunto l’onore degli altari. Fra i vescovi del tempo, si citano come ececzionali anche mons. Cerati, mons. Adeodato Turchi e mons. Antonio Martini. Quest’ultimo (Prato, 1720-1809) divenne vescovo di Firenze e diede una traduzione commentata della Bibbia (edizione definitiva 1792), che è tuttora in pregio non solo presso i cattolici. Mons. Turchi (Parma, 1724-1803: fatto vescovo nel 1788) fu cappuccino, predicatore, apologeta, fedele al papa pur con gli uffici occupati a quella corte dove imperava il giurisdizionalista Du Tillot. Egli fu tra i primi a denunciare gli errori d’Oltralpe e scrisse 493 opere tra piccole e grandi: il capolavoro è l’orazione funebre per Maria Teresa. La sua attività di predicatore si estese da Parma a tutta l’Italia centrale.
A Napoli si fonda una “congregazione” dei 72 sacerdoti; a Parma sorge il collegio Alberoni per la formazione di un clero meglio istruito; p. Paolo Segneri iunior fonda, per una formazione di alto livello per laici, le “Congregazioni mariane”. Anche se poi soppressa, a Genova, don Domenico Francesco Olivieri fonda una società missionaria, conosciuta col nome di “Battistini”, perchè, sull’esempio di S. G. Battista, si impegnava a far da battistrada al Vangelo per le missioni all’estero (dalla Bulgaria alla Cina): approvata nel 1755, ebbe come membri il futuro Pio VI e un paio di cardinali.
Tutta questa attività condusse ad una riduzione delle superstizioni nelle campagne, specie nell’Italia meridionale. Contro la freddezza religiosa, che giansenismo ed illuminismo contribuivano a diffondere tra le persone istruite, operò il Liguori, anche con il suo libro “La pratica di amar Gesù Cristo”, che ebbe ristampe a non finire. [150]
E’ pure notevole l’attività catechistica, che spezzetta sempre più al popolo la dottrina della fede, attraverso l’impiego delle domande-risposte. Il catechismo più fortunato (ebbe diffusione sino alla soglia del XX secolo) fu il Compendio della dottrina cristiana del vescovo di Mondovì Michele Casati.
Anche fra i laici, l’attività educativa assume forme nuove, che avranno sviluppi eccezionali sin dopo la seconda guerra mondiale: così la istituzione delle “figlie di Maria”, per le giovani; e degli oratori, per i ragazzi. A Genova si contano 120 congregazioni e confraternite laicali; a Torino, fra il 1770 ed il 1780, sorge (e si diffonderà anche in Toscana) una associazione segreta con scopi puramente spirituali, ad opera del gesuita Nikolaus von Diessbach: l’Amicizia cristiana si articolava in gruppi di sei uomini e sei donne, per la istruzione religiosa e la pratica devota, esigendo il segreto ed usando un linguaggio convenzionale. La nobildonna veronese Giulia Pompei fonda una confraternita per dame, sotto la protezione di S. Francesca Romana, mentre Isabella Strozzi, duchessa d’Atri, sposata a Filippo Strozzi, duca di Bagnolo, era nota per l’ascetismo della sua vita.
E, al di là di questi uomini ed istituti, restano almeno due fatti sbalorditivi: la percentuale di sacerdoti diocesani, di religiosi|religiose e l’insignificanza del sinodo di Pistoia.[151]
Quanto al primo fenomeno, nel solo Veneto, troviamo 45.000 ecclesiastici. Tutti gli ordini religiosi fioriscono per vocazioni, dai cappuccini (ed in genere i francescani) agli eremiti (168 in Toscana, dove i camaldolesi tenevano accesa questa forma particolare di consacrazione a Dio) ed alle carmelitane (che hanno nella beata suor Maria degli Angeli una grande figura). Gesuiti e Scolopi si dividono l’insegnamento delle classi alte e popolari, i primi puntando di più sulla formazione umanistica; i secondi, sulle scienze sperimentali.
Quanto al Sinodo di Pistoia, sta il fallimento di quel conciliabolo, voluto dal vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci (1786) e sostenuto dal braccio secolare di Leopoldo I, granduca di Toscana. Esso si configurò quasi un concilio del Giansenismo europeo, visto che vi accorsero rappresentanti di Francia ed Olanda e che vi sostennero i princìpi del giurisdizionalismo febroniano, che sottraeva i vescovi all’autorità del papa e ponevano le diocesi alla dipendenza del potere civile (vedi la nota -7- a p. 5). Benchè il papa aspettasse tempi più favorevoli a pronunciare la condanna (1794: lo scoppio della rivoluzione francese aveva riavvicinato gli Asburgo alla Chiesa), tuttavia il “sinodo” non ebbe praticamente alcun influsso sulla fede dei cattolici e toscani ed italiani, finendo per costituire la prova della sua solidità. Ed anche gli ultimi “giansenisti”, come l’abate Eustachio Degola, Pietro Tamburini e Luigi Tosi (ne dovremo parlare a proposito della conversione del Manzoni) erano ormai su posizioni più vicine alle tesi cattoliche (possibilità per l’uomo a collaborare colla Grazia redentrice di Cristo) che al nichilismo calvinista (l’uomo si salva per la sola Fede, che è il principio della Grazia, in base alla predestinazione di Dio): la insofferenza della subordinazione al papa e, quasi a compenso, il “rigorismo” scrupoloso in campo morale, erano le differenze rimaste, che si attenuavano alla luce del buon senso umano, del dettato evangelico e dei guai rivoluzionari.
Diversa è la
condizione della classe intellettuale[152]. Molti di essi
sono in crisi e già abbiamo detto delle posizioni dottrinali dei pensatori
napoletani e milanesi. Il caso di sacerdoti coerenti come costume eppur seguaci
per certi aspetti delle novità razionalistiche, lo troviamo anche in alcuni
pensatori notevoli: dal Genovesi a Napoli, che aderisce alle tesi giansenistiche,
al Mascheroni,[153]
docente di algebra e geometria a Pavia
(dopo aver insegnato al seminario di Bergamo), che diventa membro della repubblica cisalpina e muore a Parigi,
membro della commissione per i pesi e le misure, dedicando a Napoleone l’ultima
sua opera (La geometria del compasso).
Aggiungiamo altri dati più generali. La teologia cattolica non è più fondamento di cultura, sorgente di verità ultima. E’ sulla difensiva e sviluppa particolarmente l’apologetica, per contrapporsi agli errori del secolo. Alcuni atti sono dovuti: così la sepoltura del corpo di Galileo in Santa Croce (1737). Altri, invece, costituiscono un’accusa alla superficialità degli illuministi: aristotelismo e tomismo sono in quarantena e riaffioreranno solo dopo la metà del secolo seguente: E. Kant scriverà le sue “Critiche” senza aver letto le Somme (teologica e filosofica o “Contra gentes”) di Tommaso d’Aquino. Si arriverà all’ateismo ed anticlericalismo, a tratti viscerale, di V. Alfieri e di U. Foscolo, mentre Parini conduce una doppia vita, separando fede e morale.
Ma non tutti i dotti sono sulla stessa imbarcazione. Scipione Maffei è un laico che si interessa ed intende di teologia. Lazzaro Spallanzani (1729-1799), professore a Pavia, è un sacerdote impegnato nel campo scientifico, con scoperte geniali in biologia (inesistenza della generazione spontanea: omne vivum ex vivo). Ruggero Giuseppe Boscovich, insigne matematico, è gesuita. E laici cattolici saranno sia Luigi Spallanzani (1737-1798) ed Alessandro Volta (1745-1827), fra i primi indagatori del fenomeno elettrico.
La censura, benchè non più del tutto efficiente (per di più condannata anche da uomini di grande valore, come il Muratori), tuttavia ottiene che l’Encyclopédie francese venga tradotta in italiano ed edita a Lucca, solo dopo correzioni. In Francia, il Tiraboschi pubblica dal 1782 una Encyclopédie méthodique. Di Nicola Spedalieri, che contrasta il Gibbon per le sue interpretazioni delle vicende storiche in senso anticattolico, si è già detto: egli è il maggior apologista della fede in Italia (a livello internazionale, il principe degli apologisti è il cardinale Hyacinthe Sigismond Gerdil: 1718-1802). Il card. Agostino Orsi fu autore di una Storia ecclesiastica di senso cattolico, in opposizione a quella di intonazione gallicana del card. Fleury. Il vescovo di Lucca Domenico Mansi (Lucca 1692-1769) ebbe il merito di pubblicare i documenti dei Concili, sebbene con insufficiente spirito critico: la Ss. Conciliorum nova et amplissima collectio giunge sino al concilio di Firenze (1439-42), con 31 volumi (l’autore ne vide stampati solo i primi quattordici), editi fra il 1757 ed il 1798.
In campo più letterario, troviamo poeti che sono sacerdoti coerenti. Così Niccolò Forteguerri (1674-1735), che scrive il Ricciardetto, è canonico a S. Maria Maggiore in Roma[154]; Luigi Fiacchi (detto il “Clasio”)[155] è poeta e filologo, membro della Crusca e autore di poesie arcadiche e di prose classiche dallo stile limpido e dall’ispirazione moraleggiante. Apostolo Zeno scrive drammi sacri per musica (od “oratori”), come farà anche il Metastasio, alla corte di Vienna. E, mentre Roma va diventando meta di turismo e religioso ed artistico, Gioachino Winckelmann lavora come bibliotecario e sovrainitendente alle antichità presso il Vaticano, mentre Alessandro Verri, stabilitosi a Roma, scrive le Notti romane, fondendo reminiscenze classiche e coscienza cristiana.
Ma i segni sono ambigui. Se dei vescovi dell’Italia settentrionale e centrale in genere gli storici parlano bene, al Sud vi sono ancora casi di vescovi non residenti. I preti sono fin troppi e non tutti degni: a Belcastro, in Calabria, un vescovo viene sospeso per le troppe ordinazioni di sacerdoti! E alcuni di loro sono davvero ricchi: si sa di preti nel Veneto, la cui rendita era di 4.000 ducati l’anno. Il vescovo di Oppido è implicato con dei frati nel contrabbando del tabacco. Circolano ancora predicatori vacui (p. Bernardo M. Giacco), mentre il fenomeno degli “abati”, cioè di preti indipendenti dal vescovo diocesano perchè fattisi ordinare “titulo patrimonii sui” (senza impegno pel vescovo al loro sostentamento), produce delle mine vaganti sia nel pensiero (Antonio Genovesi, filogiansenista; Pietro Chiari, filoilluminista) sia soprattutto nella condotta. Tra gli ecclesiastici filogiansenisti e filoilluministi, c’è anche il cardinale Domenico Passionei (1682-1761). Non tutti erano preti coerenti come G. C. Passeroni: ben peggiori del pur compromesso Parini, furono Giambattista Casti, Ferdinando Galiani, Carlo Innocenzo Frugoni, Aurelio de’ Giorgi Bertòla, famosi anche come scrittori. E motivo di scandalo erano gli abati che circolavano in maschera o frequentavano teatri.
Sebbene attenuate dal pericolo che per tutti costituivano le nuove circostanze politiche e culturali in cui la Chiesa si trovava a lavorare, tuttavia permangono tensioni e diatribe fra clero diocesano e religiosi e fra i vari ordini religiosi tra loro. I Domenicani (alla Inquisizione) condannano il francescano conventuale Alessandro Mellano, perchè è contro la infallibilità del papa e sostiene la superiorità del Concilio sul papa stesso (ritratterà in punto di morte), ma non disturbano i loro confratelli che, alla facoltà teologica nella università di Torino, sostengono quelle stesse posizioni.
Il giansenismo, benchè dogmaticamente meno virulento (lo si è detto) è però sostenuto sia dall’Austria che dai Savoia attraverso la nomina di docenti di teologia impegolati in idee che, in ogni caso, difendessero il giurisdizionalismo (come era il caso dei giansenisti). A Pavia insegna Michele Daverio, giansenistizzante, in quanto espone la storia della Chiesa in modo da denigrare la centralità vaticana nella sua organizzazione e da esaltare la suboridnazione del diritto canonico a quello civile. Ne sarà seguace Giuseppe Zola (Concesio, Brescia: 1739-1806), intimo collaboratore di Pietro Tamburini (Brescia 1739-1827): essi si sforzano di sostenere anche la teologia di Cornelio Jansen, subcalvinista e sono tenaci sostenitori della subordinazione della Chiesa allo stato (gallicanesimo, giurisdizionalismo...): assieme ad Eustachio Degola (1761-1826: attivo a Genova), saranno gli ultimi giansenisti in Italia.
Nell’Italia meridionale ci sono figure notevoli di giansenisti: l’arcivescovo di Taranto, Giuseppe Capecelatro e il vescovo di Potenza, Andrea Serrao, ne sono i corifei (con adesioni teoretiche più tenaci): i loro seguaci finiranno per aderire alla repubblica partenopea.
Venezia, più che uomini di pensiero, fornisce l’opera tipografica, grazie ad una censura che sonnecchia.
E non mancano difetti che sembrerebbero impossibili nel secolo dei lumi: si danno falsificatori di dati storiografici. Così, Asola, presso Mantova, riesce ad diventare diocesi sulla base di documenti del tutto inventati; Nicolò Carminio Falcone pubblica una vita romanzata di S. Gennaro; il padre camaldolese Guido Grandi (di Cremona: 1671-1742), docente di filosofia e di matematica all’università di Pisa, membro delle più illustri accademie italiane e della Royal Society di Londra, interpola testi romanisti nel Decretum Gratiani (1140), attribuendoli a Diomede Brava (cfr: G. Penco, Storia della Chies ain Italia, Milano, Jaka Book, 1978, II, pp.164-5).
Benchè nell’usare la cronaca nera o lubrica, per giudicare la società, ci sia sempre il pericolo di estrapolare da alcuni fatti clamorosi al costume generale, tuttavia, quando certi misfatti si ripetono frequenti, denunciano una corruzione morale che, in grado diverso, affligge anche parte delle persone per bene, divenute più tolleranti e concessive (magari non per sè, ma per i figli o per il prossimo). Ora sia il poema allegorico-caricaturale La Marfisa bizzarra, sia le Memorie inutili di Carlo Gozzi ci offrono un quadro poco rassicurante della moralità dei loro contemporanei. Nei versi del poema, il Gozzi denuncia il vuoto spirituale che si nasconde sotto il paravento del progresso economico e culturale, scientifico e tecnico. Sotto il nome degli antichi paladini egli nasconde|rivela personaggi autentici del suo tempo (in Matteo e Marco del Pian di S. Michele sono canzonati il Goldoni ed il Chiari) oppure intere categorie di uomini e donne del Millesettecento razionalista: egli confessa di voler “coprire d’una veste allegorica un piccolo abbozzo del prospetto de’ costumi, della morale de’ giorni suoi e de’ caratteri in generale dei suoi compatrioti, riformati da scrittori perniziosi e dalla scienza del nostro secolo detto illuminato”. Il quadro generale della società contemporanea proposto nell’ultimo canto è desolante: Marfisa, malata per le troppe pazzie ed avventure d’amore (il suo cavaliere-amante Filinoro finisce condannato a morte per aver avvelenato la moglie) insiste nelle sue tresche: “Immagina, lettor, questa signora| già per età presso ai quaranta giunta,| con un fil di febbretta che lavora,| con la tosse, residuo d’una punta,| con la passata vita che l’onora,| pallida, pelle ed ossa arsa e consunta,| che con nèi, con beleltti e bizzarria| cerca d’aver amanti tuttavia” (XII, 84). Il resto della società è moralmente così depresso (salvo Orlando,che è rimasto l’eroe di sempre e che protesta inutilmente) da far presagire la sua caduta: “I signor parean uomin di lasagna,| i soldati vivean per ogni terra| facendo i sgherri, i bari ed i ruffiani;| mangiavan le lor paghe i capitani” (XII, 138). Nelle Memorie inutili, la descrizione è seria, realistica e non meno scoraggiante: si vedano il c. 33 della prima parte ed il c. 32 della seconda. [156]
E’ ovvio pensare che un simile stato di decadenza tocchi anzitutto le città. Ma un passo nel penultimo canto della “Marfisa” lascia il sospetto che il tarlo, attraverso l’interscambio nel tempo di villeggiatura, cominciasse ad intaccare anche la campagna: “Quell’antica innocenza villereccia| un tempo celebrata dai poeti,| non avea più nè seme nè corteccia:| il pudor, il rossor si stavan cheti,| perocchè certi paladin di feccia,| o vogliam dir filosofi indiscreti,| che villeggiavan l’autunno e la state|avean le villanelle addottrinate” (XI, 13). E il carnevale non insegnava certo la modestia alle donne veneziane, anche se non si deve esagerare la responsabilità dell’anonimato, che il costume assicurava, nel processo di dissoluzione dell’amore coniugale o nella diseducazione delle giovani: esso era, alla radice, una forma di svago festoso e chiassoso, senza necessariamente implicare ricerche di occasioni erotiche. E gran parte del popolo semplice e povero non ne veniva toccato.
Pure, una simile società non coltivava certo l’eroismo necessario a difendersi contro l’invasore francese, come dimostrerà la disonorevole fine di Venezia nel 1797.
Nei suoi Animali parlanti, il giudizio di G. B. Casti è meno severo (c. XVIII), ma se ne capisce il perchè: egli era uno dei protagonisti della scostumatezza. Tuttavia una frecciata ironica la scaglia anche lui: “onde felicitarci appien possiamo| dei fortunati secoli in cui siamo” (si vedano “le magnifiche sorti e progressive” rimproverate da Leopardi a Gino capponi, nella Plainodia). D’altronde, contro le villeggiature scrivono Gaspare Gozzi nei suoi Sermoni in versi e C. Goldoni, in più opere dedicvate al fenomeno: La villeggiatura (1754), Le smanie della v.| Le avventure d. v.| Il ritorno dalla v. (1761-2).
Anche l’Alfieri scrisse commedie e in quella intitolata Il Divorzio, riferendosi al costume del cicisbeismo, dà un giudizio tragico: “Meraviglia fia| che il divorzio in Italia non s’adoperi,| se il matrimonio italico è un divorzio?” (atto 5, sc. 5).[157]
D’altronde, in proposito, abbiamo il capolavoro del Parini, Il Giorno, che dununcia l’indolenza, la superficialità, le ipocrisie, i vizi del secolo volterianeggiante (durante la pettinatura del mattino si leggono i libri pruriginosi che vengono dalla Francia); la vanità e l’ingenuità nel lasciarsi adulare; la gregaria sequela delle idee ultramontane; la diffusione del cicisbeismo e dell’annessa vita adulterina pressocchè istituzionalizzta (nei contratti matrimoniali delle classi abbienti); la bassezza morale della dama (contenta delle delusioni amorose dell’amica...odiata, gelosa degli altrui successi, più amante della cagnetta che degli uomini); il rovesciare la notte nel giorno e viceversa, dormendo fino a mezzogiorno, dopo essere rientrati a casa allo spuntar del sole,dagli svaghi notturni presso famiglie amiche. Ed anche le liriche satirico-giocose del Parini “Il teatro” e “Per le nozze Giuliani-Fiori” possono servire a conoscere e giudicare una simile società.[158]
Testimoni del malcostume sono anche i vari avventurieri del secolo, divenuti un mito, tanto la loro vita è fuori da ogni norma morale: Alessandro Cagliostro (in realtà, Giuseppe Balsamo: Palermo 1743-1795), Giacomo Casanova (Venezia 1725- Dux, Boemia, 1795), Lorenzo da Ponte (pseud. di Emanuele Conegliano: Vittorio Veneto 1749- New York, 1838). E ci si potrebbero aggiungere Francesco Algarotti (Venezia, 1712-1764) e Vittorio Alfieri (Asti 1749-1803).
L’effetto delle dottrine non più cattoliche e dei costumi non più cristiani in parte delle élites socio-culturali della seconda metà del Millesettecento in Italia lo si può costatare nel Napoletano, quando vi entra il generale Jean-Etienne Championnet nel 1799. Difatti, sono parecchie le personalità laiche che aderiscono alla “repubblica partenopea” e, quindi, più o meno profondamente, ai principi della rivoluzione francese: fra essi, parecchi esponenti della nobiltà, della borghesia e della “intellighentsia” del Regno (un centinaio verranno fatti giustiziare dal re su suggestione dell’ammiraglio Acton). Ma vi sono anche parecchi vescovi: come già detto, su centotrenta, diciannove aderirono al governo repubblicano filofrancese, a cominciare dall’arcivescovo di Napoli, il cardinale Capece Zurlo; solo dieci si pronunciarono contro esplicitamente; gli altri si chiusero in un prudente silenzio. D’altronde a Milano come in tutte le città, i francesi trovarono minoranze disposte a collaborare: segno sicuro che l’illuminismo aveva fatto breccia anche in Italia, anche se la sollevazione nota come le “Pasque veronesi” (aprile 1797) e la facilità con cui il cardinal Fabrizio Ruffo riconquistò il Napoletano nei primi mesi del 1799, testimoniano che la maggioranza del popolo era tuttora dalla parte della tradizione cattolica e monarchica. Era quel popolo, cui avevano predicato i santi cui si è accennato poco sopra, dai redentoristi di S. Alfonso ai passionisti di S. Paolo della Croce, dai missioanri di p. Martinelli a Milano a S. Leonardo da Portomaurizio, da p. Paolo Segneri junior (morto nel 1713, a 40 anni) a S. Francesco De Geronimo, ecc.
Il “costume” non è solo quello moralmente denotato: vi è tutta una serie di abitudini, moralmente neutre, che pure caratterizzano un’epoca, dalla moda di vestire, al cerimoniale degli incontri sociali.
Il “costume”, in tal senso, è decisamente francesizzante. Dalla lingua (che spesso genera il “raguet”, usando lemmi toscani, con metamorfosi grammaticale francese), ai colori che rifuggono quelli giallo-marroni del barocco, per privilegiare gli azzurri, i grigio-argento ed i rosa, le tinte sfumate ed il bianco schietto delle parrucche. Sembra che l’essenzialità fredda del razionalismo cartesiano si rifletta nello smantellamento del caldo superfluo spagnolesco. I vestiti si fanno attillati per gli uomini (contro gli sbuffi del vestire secentesco) ed argentei, con una raffinatezza che si ritrova nelle lunghe parrucche, negli spadini, nell’uso delle ciprie e dei ventagli per le donne, delle tabacchiere e dell’occhialino per gli uomini; e dei mille gingilli che occupano le nobili tasche dello “smart set”, del bel mondo (cfr. Il Giorno, Mattino, 725: “ tra le folte d’inezie illustri tasche”). Per le donne, i vestiti sono attillatissimi alla vita ma le gonne sono lunghe e larghe: il ventaglio delle signore fa da pendant alla “chiusa nell’oro anglica lente” del cavalier servente. Le sale che frequenta questa progenie degli dei sono adorne di specchiere ampie, incorniciate in telai dorati, con linea ondulata e fregi in rilievo; di arazzi, cristalli, porcellane e miniature: come ironizza il Parini, “e la variata erdità degli avi| scherza in nobil di vasi ordine posta”. Alla boria altezzosa ed ai duelli per diritto di precedenza, succedono un complesso di riverenze e di concessioni: le gare si fanno, ora, per lasciar passare primi gli altri (e il Maffei, dopo la commedia sul “Raguet”, scrive anche quella su “Le cerimonie”, cioè sul nuovo galateo del “secondo posto ad ogni costo”). Nei salotti entrano i tavolini “rococò”, a contorni nè rettangolari nè circolari ma tendenzialmente elissoidali, con gambe ricurve e gentilmente panciute, lavorate in bassorilievi di figure o di vegetazione, quali si possono ammirare sulle linee ondulate degli altri mobili. Mentre l’architettura fa fatica a liberarsi dalle forme barocche, la pittura assume presto caratteri di levità e gentilezza inconfondibili: è l’epoca di Giambattista Tiepolo, di Francesco Guardi, del Canaletto. In parallelo, la musica con Giovanni Paisiello e con Giovanni Battista Pergolesi si espande in ariette e cavatine, in gavotte e minuetti. Una sminuizione di tutto ciò che è materiale per dar rilievo, da parte di questo nuovo manicheismo cartesiano, alla ragione ed alla sola ragione; una umiliazione di quanto è fisico e corporeo, per una esaltazione del pensiero e della scienza: in ogni caso, una unilateralità diversa per un nuvo tipo di disarmonia complementare.
GIUDIZIO SULL’ILLUMINISMO
Movimento teoretico e pratico, di sensibilità e di espressione, l’illuminismo è un cultura totalizzante, una Weltanschauung e un costume, una moda estetica ed una tecnica artistica. Il giudizio deve tener distinti gli aspetti di tale quadruplice dimensione: qui raccogliamo in sintesi le varie osservazioni, spesso già disseminate nel testo e nelle note.
A livello teoretico, l’Illuminismo è una forma di razionalismo, con i pregi di un uso più insistente e più critico della ragione ed i difetti di un suo eccesso di applicazione.
Acquisti per sempre o progressi decisivi. Elenchiamone i principali, prescindendo dalle singole scoperte scientifico-tecnologiche, già richiamate a suo luogo: il progresso nel senso critico, storiografico e scientifico; il principio di tolleranza nelle opinioni di religione rivelata; l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge (abolizione di privilegi dei nobili e del clero); l’avvio verso la democrazia, attraverso lo sviluppo dell’idea che il potere politico risiede nel popolo; la distinzione dei tre poteri fondamentali dello stato e della necessità della loro indipendenza per un giusto governo del popolo; la scoperta che il libero mercato è la forma migliore per i rapporti commerciali fra gli uomini; la intuizione dell’esigenza di una comunità politica universale, data la unità sostanziale degli uomini e la loro tendenza a vivere in società.[159]
Errori marchiani e verità parziali. Il razionalismo, va ricordato, non è un eccesso ma una insufficienza nell’uso della ragione: questo è il suo disordine fondamentale.
E il corollario più grave sta nell’aver fatto della ragione la fonte unica non solo della certezza definitiva di ogni verità, ma anche del suo acquisto immediato. Si tratta di un semplicismo indebito in sede di “gnoseologia”o dottrina della conoscenza umana: vi è un “defectus elenchi”, cioè la mancanza di presa in considerazione di tutte le sue componenti. Come si è insistito più volte, vi sono almeno quattro settori del sapere, in cui i sensi esterni, la emotività (sensibilità interiore?), la fiducia nei testimoni e la rivelazione di Dio costituiscono sorgenti di tale probabilità, da dover essere accettate per la vita, salvo l’apppello lecito, anzi necessario, al tribunale della ragione per una loro conferma o falsificazione.[160] La conseguenza più grave di questa miopia gnoseologica è certo il deismo, sua deduzione coerentissima: difatti solo la esistenza di Dio e dell’anima è provabile con la pura ragione; la verità della Rivelazione ebraica, cristiana e cattolica, fatti storici, sono dimostrabili indirettamente, attraverso la fiducia nei “testimoni” (le “fonti” scritte”), cioè con la costruzione di quella probabilità umanamente sufficiente ad accettare come vere le altre vicende storiche.[161] Comunque, questo esclusivismo indebito richiamerà, per tentativo di compensazione, la sopravvalutazione del sentimento nella prima metà del Milleottocento; a sua volta, questa nuova cultura deluderà pendolarmente ed imporrà un ritorno al razionalismo, ma deteriorato nell’ateismo positivista che, a sua volta precipiterà, nel tentativo di salvare le dimensioni umane in esso trascurate, nel decadentismo. L’umanità si rivela, così, alla ricerca dell’equilibrio della cultura cristiana, di quella antropologia medioevale che, pur con qualche limite nella poca considerazione per la sfera emotiva, prendeva in considerazione tutte le facce dell’uomo, animale ragionevole e libero; teneva sott’occhio, di conseguenza, una gnoseologia completa, in cui la ragione non emarginava le sensazioni (anche se l’arte, pur incoraggiata in ogni sua manifestazione, non era intesa in rapporto alla emotività, ma alla pura ragione e considerata, perciò, come puro artigianato, come una tecnica apprensibile).
Altri limiti (verità parziali) sono presenti nelle dottrine della tolleranza, democrazia, separazione dei poteri, cosmopolitismo. La tolleranza, lo si è detto, è intesa in rapporto alla dottrina stessa: non è tolleranza per l’uomo, per la persona, ma per il pensiero stesso degli altri. La differenza è grave, alla distanza: la tolleranza illuministica sopporta|protegge anche il pensiero che nega le verità evidentemente necessarie alla sopravvivenza (a breve ed a lungo termine) della società; accetta anche le dottrine che sostengono il suicidio (come, almeno nella coerenza logica, il catarismo medioevale; come si è visto in Beccaria); permette anche le teorie che negano la tolleranza, come quelle marxiste e nazifasciste. Alla fin fine, la tolleranza illuminista è una forma di relativismo quasi assoluto: non esistono verità definitive, se non quelle scientifiche che riguardano il mondo esterno. Pel mondo interiore umano o per le verità che non son traducibili in tecnica, vantaggi materiali, comodi, piaceri, danaro e medicine per il prolungamento della vita, vale l’agnosticismo più radicale: come Pilato, gli illuministi chiedono scetticamente: “Che cosa è mai la verità?” La filosofia è detronizzata a vantaggio della scienza; non è una forma di razionalità se non in quanto demolisca la ragionevolezza del filosofare medesimo (Emanuele Kant: Critica della ragion pura).
Che la democrazia
sia la miglior forma di governo in teoria, nessuno può metterlo in dubbio,
purchè si precisi il giudizio nella formulazione di Winston Churchill “è il
peggior sistema di governo, eccettuati tutti gli altri”. Per i limiti di tale
“tecnica del realizzare il bene del popolo”, rimandiamo ancora ad Erodoto,
Storie, III, 80-82. Che il sistema maggioritario sia una pratica oligarchia, lo
dimostrano un dato psicologico (il
fatale disinteresse di gran parte del popolo alle elezioni: negli U.S.A. vota
abitualmente il 30% degli aventi diritto); ed uno tecnico (la possibilità
concreta che chi vince la maggioranza dei voti perda la maggioranza dei seggi).
Che il sistema “proporzionale” sia impossibile a gestirsi, perchè inclinato
alla anarchia, lo dimostra la tendenza di tutti i liberi comuni italiani nel
Medioevo a passare inesorabilmente alla signoria e, poi, alla sua ereditarietà
nel principato.
Che la distinzione dei poteri sia una grande intuizione del Montesquieu, non è da dubitare. Solo bisogna migliorarla, col notare che, trattandosi di principio tecnico-governativo, la storia ha dimostrato che l’essenziale è la distinzione fra potere legislativo-esecutivo e potere giudiziario; la ulteriore distinzione fra potere legislativo ed esecutivo è utile, ma secondaria alla equità del governo di un popolo. E sia chiaro: una miglior tecnica facilita, non garantisce la giustizia.
L’ottimismo degli Illuministi è stato il loro secondo grave errore: la rivoluzione francese, che ne è stato il frutto, lo ha ridicolizzato; la negazione del peccato originale che, secondo il nostro giudizio, ne è stata la causa, costruinge ad affermare: “se il peccato originale non ci fosse, bisognerenbbe inventarlo” o, con Pascal “solo l’accettazione del mistero di Cristo può spiegare il mistero dell’uomo” (della sua malvagità ed ingovernabilità).
Sul libero mercato va ripetuto quanto detto per la democrazia: “è il peggior metodo di amminitsrare i beni terreni e distribuirli, eccetto tutti gli altri”. Ma non possiamo insistere e pretendere che Adamo Smith prevedesse tutte le consuguenze (anche) negative della sua intuizione per tanta parte esattissima, anche se bisognosa delle correzioni, dettate dal primato dell’uomo nell’economia.
Quanto al “cosmopolitismo”, esso rivela la grandezza e la stoltezza della cultura illuministica: scoprire l’ideale di una condizione ottima di vita umana e scambiarla con l’attuabile sua forma concreta. La critica è quella che fa Vincenzo Cuoco agli astratti e distratti intellettuali della Repubblica partenopea a Napoli: voler inmporre all’uomo, alla società, dei metodi più perfetti di governo, senza averne predisposte le premesse, senza averli resi utili di fatto, perchè capaci di rispondere alle esigenze concrete di un popolo.
A livello di prassi, di costume morale. Le continue guerre del secolo (successione spagnola, polacca, austriaca, dei sette anni, della rivoluzione francese) ne sono una condanna morale. Il principio della politica di equilibrio denuncia una situazione di disperazione: si tenta di ottenere la pace non più con ragioni morali (ingiustizia delle guerre di aggressione) ma con motivazioni immorali: accarezzare la superbia e l’avidità delle potenze principali, approvandone l’ambizione ad essere le prime, ma creando una concorrenza così rischiosa, da illudersi di poterne scoraggiare le gare per primeggiare mediante le guerre. Il Milleseicento, almeno a livello di coscienza popolare, aveva combattuto guerre di idee, non di primato!
Se il bene è sempre anche una verità, allora il male è sempre anche un errore: ma se vale questo assioma, che giudizio si riverbera da un’endemica velleità di zuffe mortali sulle premesse ideologiche di una simile società? Il costume cristiano è in crisi a partire da questo secolo, con il passaggio di molti sovrani e uomini di governo alla massoneria: ci vorranno oltre due secoli, ma attorno al 1960 la maggioranza delle popolazioni europee non si riconoscerà più nel cristianesimo e ritornerà a costumi pagani col divorzio anche nei paesi cattolici, coll’aborto, la eutanasia, la droga, l’orgoglio degli omosessuali. In nome della libertà razionalista.
Quando una società accoglie e pratica simili criteri di (im)moralità non è lontana dall’anarchia e, correzione dolorosa ma inevitabile, alla dittatura od alla guerra di tutti contro tutti.[162]
Forse si può dedurre che l’Europa non avrà mai pace, finchè non rinnegherà “davanti a notaio” i principi dell’Illuminismo.
Per il gusto, una volta osservato che la prevalenza di un tono emotivo non decide del valore artistico delle opere di una persona o società, diventa inutile dare un giudizio. Si deve solo dire che, siccome ogni scelta implica una rinuncia, il classicismo del Millesettecento tende ad escludere quelle combinazioni emozionali che risultano in lirismi complessi (estasi e commozione, tenerezza e comicità) che diventeranno così diffusi con il Romanticismo, così come il Petrarchismo li ha privilegiati e Dante li ha negletti: la chiarezza e la semplicità della ragione porta alla univocità del tono lirico da esprimere, sicchè non resta spazio per una loro simbiosi o sinergismo.[163]
Quanto allo stile, le tre unità e l’espressione sostenuta, la imitazione degli antichi e l’impiego della retorica sono accidenti non fatali nè favorevoli alla espressione artistica: che in gran parte vengano poi abbandonati o ripresi, questi elementi non costituiscono nè difetto nè merito.
Neppure si deve credere che sia stato il pensiero razionalistico ad innescare il processo di crescita ed approfondimento sia del senso critico che delle scoperte scientifiche. La causa del progresso è la intelligenza dell’uomo; l’occasione ne è l’economia: il benessere crea tempo libero, esentando l’uomo dalla continua occupazione per sostenere la pura sopravvivenza; e permette agli uomini dotati d’ingegno (o addirittura di genialità) di riflettere ed inventare: sono evidentemente le invenzioni che alleggeriscono il lavoro, lo accelerano e lo rendono più efficiente, abbassando il costo dei prodotti e permettendone il possesso-uso a fasce di popolazione sempre più larghe. L’accelerazione del progresso tende alla proporzione geometrica, non solo perchè le scoperte precedenti facilitano le successive, ma anche perchè fra esse vi sono quelle della medicina, che allungano la vita dell’uomo in genere ed anche quella, quindi, di inventori e scopritori.
Non per nulla le invenzioni si concentrano in Inghilterra, Olanda e Francia, dove l’accumulo di capitale, per lo sfruttamento di commerci e colonie, mette a disposizione più tempo libero per il pensiero e la tecnica.
Che per altro occorra anche l’onestà alla perseveranza nel progresso, lo si può intuire a priori in base a questo assioma evidente: “Ogni uomo sano ed onesto produce più di quello che consuma”. A posteriori, lo testimonia il secolo così detestato dagli Illuministi, cioè il Milleseicento: l’inizio di quasi tutte le scienze moderne avviene in quel secolo, a cominciare dal lavoro di critica storica dei padri Maurini in Francia e Bollandisti in Belgio. Occorre il benessere e la ragione, ma necessita anche la perseveranza della onestà.
Le ideologie servono ben poco al progresso; anzi, finendo per aizzare rivoluzione e spargimento di sangue, rallenta il processo impedendo, col moltiplicare le morti, a molti uomini dotati di capacità inventive, di giungere alla maturità delle scoperte ed innovazioni. Le rivoluzioni in apparenza anticipano di una generazione alcune riforme; ma le deformano, le sofisticano, le sottraggiono ai morti che esse producono inesorabilmente.
Come sapeva anche il non credente Arnold Toynbee (A study of History, nella sintesi di D. C. Somervell, edita da Einaudi, Le civiltà nella storia) solo la carità è il carburante definitivo, perchè non esauribile, del progresso umano: la stessa intelligenza è ambigua, al riguardo, perchè produce tanti strumenti di morte quante di aiuto alla vita ed al miglioramento della sua qualità.
PRODROMI
DEL ROMANTICISMO NEL 1700
L’Illuminismo è la cultura che caratterizza il Millesettecento europeo, perchè il suo razionalismo è la struttura portante degli scrittori del secolo. Esso non esaurisce, però, il pensiero ed il costume di quelle generazioni, perchè la massa italiana del popolo rimane sostanzialmente fedele; perchè voci di dissenso non mancano tra gli stessi studiosi, che o criticano in nome della tradizione cristiana; o precorrono la opposta temperie del Romanticismo, denotata dal prevalere del sentimento. Qui ci interessiamo dell’ultimo gruppo.
In Francia, troviamo specialmente Jean Jacques Rousseau (arrivato da Ginevra); in Germania, il movimento Sturm und Drang, che ha in Herder il suo teorico; in Inghilterra, i poemi di Ossian redatti da James Macpherson; in Italia, Giovan Battista Vico, vari verseggiatori (Alessandro Verri ed Ippolito Pindemonte) e soprattutto il protoromantico Vittorio Alfieri. Non che tutti mettano il sentimento al centro della vita umana, ma tutti ne sottolineano così fortemente la importanza, da farne un contraltare alla pur celebrata ed osannata ragione.
Jean Jacques Rousseau (1712-1778). Rimandando in nota i particolari della sua vita ed opere, qui ci interessiamo ai capisaldi del suo pensiero.[164]
Anzitutto la cultura non rappresenta il progresso, ma la corruzione: la crescita intellettuale di una società, ne segna il regresso morale. La scienza, la dottrina, l’istruzione sono causa del decadere dei popoli, perchè portano lontano dalla natura, cioè dalla spontaneità in cui l’uomo è sincero ed ingenuo, buono e felice.[165]
Il sentimento, invece, è una facoltà naturale, perchè sponmtaneo ed immediato, non complicato artificialmente dall’uomo. E’ appunto vivendo secondo il sentimento, il cuore, la coscienza spontanea che la società può ritrovare bontà e felicità, pace ed ordine.
Il popolo semplice, non smaliziato dal sapere scientifico, non adulterato dai sofismi della ragione è il depositario della onestà e sincerità naturale. Al popolo, perciò, vanno affidati governo, legislazione, tribunali.
Si è accennato in nota che egli è solo in parte dissenziente dal pensiero illuministico, tanto è vero che nel Discours del 1750, a costo di contraddirsi, non propone di sopprimere lo studio e l’uso delle scienze, ma solo afferma che è più importante l’educazione e la preoccupazione per il bene del popolo. Se Voltaire si è specializzato nel demolire il vecchio sistema di idee e di credenze, Rousseau cerca di costruire: accetta le demolizioni razionalistiche nel complesso, ma gli sembra che si possa ricostruire un sistema, più semplice, ma ancora funzionale. Il cuore invita a fidarsi dei sentimenti; la coscienza spinge al bene e testimonia la legge naturale; la natura parla di Dio (Emilio scopre Dio nello spettacolo del sole; e lo adora); la spontaneità raccomanda il metodo induttivo nell’apprendere e la non costrizione (pedagogia condiscendente); il popolo è il più adatto a decidere delle leggi (referendum).... Voltaire si fa leggere volentieri, ma non è riassumibile; Rousseau come scrittore lascia a desiderare, ma è facilmente comprensibile ed apprendibile. D’altronde, non può esservi dubbio: tra il mondo della tecnologia e quello della contestazione, egli starebbe con quest’ultima. La rivoluzione francese lo intuì e finì per pssare dal volterrianesimo borghese al populismo russoiano: peggiorando, però, ulteriormente il proprio fallimento.
Sturm und Drang. Il movimento “Tempesta ed impeto”[166] fiorì in Germani fra il 1770 ed il 1785 e fu un fenomeno non solo letterario ma di cultura complessiva, rappresentativo cioè di una intuizione totalizzante della vita. Tale concezione del mondo (Weltanschauung) suona come spontaneità e ribellione.
La spontaneità vale anzitutto in sede di poetica letteraria, come opposizione al classicismo francese (sulla scia della polemica iniziata da Gotthold Ephraim Lessing), come rivalutazione della libera fantasia e del sentimento, sulla scia dei presentimenti dello svizzero Albrecht Haller[167], di Friedrich Gottlieb Klopstock[168], e dei poeti cimiteriali in Inghilterra[169]. La scuola ebbe i punti di riferimento più efficienti nella coppia formata da Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) e da Johann Gottfried Herder (1744-1803: difensore di Shakespeare e di Ossian, traduttore e divulgatore delle prime raccolte di Canti popolari): al loro incontro a Strasburgo, nel 1770, se ne fa risalire la nascita. Nel 1773, nella raccolta di saggi “Intorno al carattere e all’arte dei tedeschi” (Von deutscher Art und Kunst), essi oppongono la artificiosa poesia d’arte (classicistica, francese) alla spontanea poesia popolare (tedesca: “deutsch” dapprima significò “popolare”): sarà uno dei concetti basilari della poetica del Romanticismo. Ma alla teorizzazione contribuì anche Johann Georg Hamann (1730-1788: antirazionalista, anticlassicista, difensore ad oltranza della genialità, contro schemi e regole fisse, scrittore denso ma non trasparente). E’ il raggruppamento di concetti come “popolo, cuore, sentimento, spontaneità, genio, natura” che fa dello Sturm und Drang una forma non tanto di “preromanticismo”, ma addirittura di protoromanticismo, pur rimanendo per molte vie legato al razionalismo (rifiuto di Dio, della legge morale, delle convenzioni tradizionali...).
Pur nella non piccola produzione di opere sceniche (è nel teatro che si esprime e si propaganda il movimento: temi innovatori e demolitori, forme aperte, linguaggio realistico), le uniche opere importanti le scrisse Goethe: il dramma Goetz von Berlichingen (l’eroe della rivolta dei nobili impoveriti, ai tempi di Lutero) ed il romanzo I dolori del giovane Werther (Die Leiden des jungen Werther: 1774). Il Goethe, lasciando poco dopo il movimento ed unendosi allo Schiller per un sodalizio di classicismo potente, segnava la fine letteraria del movimento, cui avevano appartenuto anche J. M. R. Lenz, H. L. Wagner, F. Muller e il già citato F. M. Klinger.
Ma la spontaneità si estende dall’arte alla vita. La vita è intesa come opera d’arte, con più di un legame colla parallela intuizione del Rinascimento: come il genio artistico non ha altre norme che quelle della sua ispirazione, così l’uomo geniale non ha altri precetti che quelli della sua coscienza. Cade così la fede in una morale oggettiva, cui si sostituisce come legge la “conoscenza della legge” o “coscienza”, che per sè stabilisce solo la responsabilità, non l’onestà dell’atto. Le differenze rispetto al Rinascimento stanno nella coerenza più o meno radicale con il comune principio di fondo: allora gli stessi sostenitori della concezione della vita come “bellezza-arte-genialità” accettavano per lo più regole di stile (classicismo) e di condotta (quelle cristiane), perchè non erano consapevoli di tutte le potenzialità della loro incipiente dottrina; ora, invece, non esistono più nè modelli per gli aspiranti artisti, che ubbidiscono solo al loro estro; nè norme per l’uomo nuovo, geniale forgiatore dei destini dell’umanità. Ecco allora una generazione di giovani ribelli, che dissacrano i valori ricevuti, a cominciare dalla fede cristiana: loro idolo è la natura, che è la manifestazione stessa della divinità; loro bersaglio è la legge morale, che è contro la spontaneità degli istinti; loro nemica è ogni convenzione o abitudine, socialmente recepita come ovvia; loro ideale è il titanismo di chi vuol cambiare il mondo, anzitutto distruggendo anche con la violenza quanto la società offriva loro come sacro, buono, ovvio.
In Inghilterra: la poesia cimeteriale e nuove forme di sensibilità di fronte alla natura, la notte, la
solitudine, la morte.
Rimandando in nota l’apporto del “Pietismo” all’aura romantica in gestazione,[170] dobbiamo invece sottolineare l’apporto del mondo inglese, che avviene non sistematicamente (come con lo Sturm und Drang tedesco) e non attraverso una singola prepotente (e squilibrata) personalità (come in Francia), ma attraverso una serie di modesti verseggiatori o grandi poeti che finiranno però per imporsi alla attenzione del pubblico dell’Europa continentale e costituire dei precursori, fornire delle spinte verso il Romanticismo. Un apporto nella maniera tipica di un popolo dal temperamento complessivamente flemmatico: un concorso disorganico, alla spicciolata, ma efficiente.
Intanto bisogna dire che, dominando sulle scene della storia letteraria inglese il genio di William Shakespeare, un movimento rigidamente classicista ben difficilmente potrà mai imporsi nel mondo anglosassone: se non altro, sarà molto moderato se non approssimativo, perchè a stento il letterato di quella nazione potrà staccare il concetto di classicismo dalla figura di Voltaire, che definisce il grande bardo “un barbaro che non era privo di ingegno”!
Prima di citare i singoli scrittori, vediamone i motivi ispiratori nelle loro novità preromantiche. Il senso affascinante della notte (così seducente pel romanticissimo Tasso) riaffiora assieme a quello oppressivo della morte. Compare la voluttà del dolore, che fa piangere deliziosamente; il piacere della solitudine melanconica e dei paesaggi desolati e sconfinati (foreste, mari, praterie, pianure innevate); il fascino meditativo delle tombe isolate nella campagna; l’ammirazione per l’eroismo primitivo e sfortunato di eroi mitici, dei tempi preistorici, dei popoli nordici... Il paesaggio notturno e lunare, le ombre e la malinconia che caratterizzano più facilmente le regioni nordiche e germaniche dell’Europa, prendono il posto della piena luce solare, del giorno risonante di moto e di attività, di vitalismo anche esorbitante, propri dei paesi dell’Europa meridionale e romanica. Carducci, latino viscerale, vorrà il sole come icona del classicismo sereno ed appollineo, lasciando la luna ai Romantici melanconici e dionisiaci.
Anche nei toni lirici avremo preferenze se non opposizioni: all’idillio-epopea prevalenti in un animo classicheggiante, subentra l’elegia e la tragedia dell’anima romantica, mentre alla ironia allegra e spensierata dei classicisti corrisponde la facile commozione o addirittura il patetismo della nuova letteratura.
Il più fortunato dei nuovi scrittori in Gran Bretagna fu James Macpherson, che pubblicò due poemi, Fingal e Tenora, nel 1762-3, attribuendoli ad un mitico “bardo” gaelico (celtico) del Nord dell’Inghilterra, cui diede il nome di Ossian. Si trattava, in realtà, di due composizioni in prosa cadenzata che alle spalle avevano solo dei frammenti di canti popolari, integrati in maniera personalissima dal Macpherson sino a formare i mitici “poemi di Ossian”. I quali, creduti per lo più edizione autentica di composizioni epiche originali, risalenti ai tempi mitici delle migrazioni germaniche, ebbero un impatto formidabile sulla cultura europea e prepararono da vicino l’avvento del Romanticismo: nelle tematiche, nell’atmosfera lirica, nella libertà della versificazione. In Italia il Cesarotti, candidamente convinto della autentica antichità dei testi ossianici, li traduceva già nel 1763 in endecasillabi sciolti, ottenendo un successo notevolissimo ed offrendo a Vincenzo Monti l’esempio di un risultato felice nell’uso di tale verso, che questi riprenderà per la sua traduzione dell’Iliade (il Cesarotti gli aveva fornito, in verità, anche la traduzione dal greco in prosa toscana del testo Omerico, su cui il Monti –gran traduttor del traduttor d’Omero- lavorò).
Gli altri verseggiatori inglesi, citati abitualmente come parte di questa congiura di tematiche e sentimenti innovatori, sono Thomas Parnell (irlandese: 1679-1718: The night piece on death: Compoisizione notturna sulla morte); Edward Young (1683-1765: The complaint; or nights thoughts on life, death, and immortality: una lunga composizione autobiografica in versi sciolti –il blank verse-, elegante nello stile, accorata nel sentimento); Thomas Gray (1716-177): Elegy written in a country churchyard| The bard| The descent (discesa) of Odino); James Harvey: Meditazioni sopra i sepolcri (imitato dal Alessandro Verri nelle Notti romane al sepolcro degli Scipioni).
L’Italia, sul piano poetico, darà, in un primo tempo, un contributo secondario e tardivo (l’opera testè citata di A. Verri e alcune composizioni di Ippolito Pindemonte, che incontreremo a suo luogo), ma si appresta a culminare questa esperienza con il capolavoro assoluto di Ugo Foscolo “I sepolcri”, che solo a motivo della tecnica stilistica viene aggregato al Neoclassicismo, perchè come spirito appartiene già al primo romanticismo, vicino nelle tematiche alla notte ed alla morte, alla malinconia ed all’eroismo soccombente, anche se questi motivi sono conglobati nel problema centrale, ben più virile, arduo e formidabile, dell’immortalità personale; e se i registri emotivi vengono complicati dalla compresenza di una potente componente epica, che li eleva ad una espressione così intensamente commovente, che in Italia solo Dante ha superato e Manzoni eguagliato.
Eppure proprio il genio italiano partecipa al movimento con uno studioso isolato e non poco strano, con un’opera che non si limita ad affermare intuitivamente, ma tenta anche generosamente di dimostrare la diversità fra arte e filosofia, fra spontaneità-fantasia e sistematicità-ragionamento ed il valore-disvalore di entrambe le operazioni, anzi “età dell’uomo”. E quasi ci riesce. Si tratta di
Giovan Battista Vico e la
sua Scienza nuova.
VITA ED OPERE. Nacque a Napoli nel 1668, dove insegnò all’Università, ebbe famiglia e morì (1744). Una grave malattia a sette anni ne minacciò le capacità mentali e comunque ne minò la salute. Figlio di un libraio con una famiglia numerosa e poverissima, studiò da solo, con la intenzione di arrivare a diventare avvocato. A 18 anni preferì l’incarico di precettore in casa del marchese Rocca (a Vatolla, nel Salernitano), posizione che, tenuta dal 1686 al 1693, gli permise di accrescere la propria cultura e di curare meglio la salute. In quegli anni (1688-93)si procedeva a Napoli contro ateisti e libertini, posizioni che il Vico conobbe ma non pare abbia mai condiviso e che comunque non lasciarono traccia nel suo pensiero maturo[171]. Uscì dalla famiglia Rocca nel 1695, avendo scritto solo la canzone “Affetti di un disperato” di ispirazione lucreziana (1693). Nel 1699 si sposa con una donna analfabeta e ne avrà 8 figli (come la famiglia del padre): nello stesso anno vince il concorso alla cattedra di eloquenza all’Università di Napoli. Coltivò lo studio dei suoi quattro autori, cioè Bacone (l’autore che gli insegna a combattere ogni apriorismo), Platone (che gli presenta l’uomo quale deve essere), Tacito (che gli insegna quale l’uomo è di fatto): Grozio si aggiungerà in seguito, dati i suoi interessi sul diritto e sulla sua fondazione. Iniziò a dar prova delle novità ingenue|geniali delle sue intuizioni nelle “orazioni inaugurali” con cui apriva l’anno accademico, staccandosi sempre più dall’influsso cartesiano. Quella del 1708 (De nostri temporis studiorum ratione: Il piano di studi dei nostri tempi) difende il valore formativo delle discipline umanistiche di fronte all’emergere degli studi scientifici, che tentano allo scetticismo. Verranno poi le sue tre opere fondamentali: De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710: L’antichissima sapienza dei popoli italici, da ricavarsi dalle origini della lingua latina); Princìpi di una scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni (1725; seconda edizione del 1730 e terza, definitiva, uscita nel 1744, qualche mese dopo la sua morte); Autobiografia (1728: continuata poi fino al 1731).[172]
Dell’Antichissima sapienza degli italici è un’opera che rivendica l’origine della filosofia alle popolazioni italiche (etrusche ed ioniche), sia pure in dipendenza dalla scienza esoterica (misteriosa) egiziana. Tale filosofia possederebbe le verità genuine sull’uomo, che lo sviluppo del pensiero greco avrebbe poi corrotte. Di queste verità originarie sarebbero rimaste tracce nella lingua latina, sia pure in forma di non facile intuizione: occorre indagare con acutezza etimologica per leggere nella loro formazione certe parole della lingua di Roma antica, onde risalire dalle parole ai concetti. Ma le proposte del Vico in materia sono tanto sorprendenti quanto inaffidabili; nessuno le accetta: e tutto il suo edificio viene, così, a cadere. Nè depongono per una sua attendibilità razionale il fatto che egli rifiuti il principio di inerzia della materia, che egli pensa ancora animata da impulsi metafisici, dipendenti direttamente da Dio (vitalismo di tutto il creato); o che ritenga arbitrari i principi matematici, sicchè i suoi risultati siano tanto evidenti quanto convenzionali, cioè stabiliti per fini pratici dall’uomo. Ed ecco riaffacciarsi il principio, già affiorato nella “De nostri temporis studiorum ratione”, che l’uomo conosce veramente solo ciò che egli produce o costruisce: la natura, creata da Dio, è inconoscibile all’uomo nella sua vera entità, contro ogni pretesa cartesiana, mentre la matematica, inventata dall’uomo e la storia, da lui realizzata, sono le scienze aperte alla nostra mente con piena capacità di adeguamento.
L’Autobiografia è la esposizione appassionata della sua progressiva scoperta dei princìpi che han dato origine alla “Scienza nuova”, senza trascurare i fatti esterni della sua esistenza penosa: dei figli, uno si ribellò alla famiglia e visse da scapestrato, morendo giovane; il Vico inutilmente aspirò alla cattedra di diritto romano; solo tardi gli vennero riconoscimenti e nel 1734 vien nominato storiografo regio; l’anno dopo gli vien raddoppiato lo stipendio; un figlio gli succede nel 1742 nella stessa sua cattedra di eloquenza.
IL PENSIERO (la “terza” SCIENZA NUOVA del 1744).
Il Vico pensava contro corrente e questa è una motivazione perchè ci sia voluto del tempo perchè la sua intuizione facesse breccia. Solo dopo la morte, in pratica, ci fu il trionfo delle sue idee nè gli mancarono più ammiratori e studiosi, anche se l’acme del suo influsso coincide con il romanticismo e l’idealismo, specie italiano (Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Fausto Nicolini). L’altra motivazione, a nostro parere, fu il linguaggio astruso ed il pensiero involuto, caratteristiche che han poi permesso interpretazioni notevolmente contrastanti e addirittura hanno fatto e fan discutere sul senso preciso e sul valore effettivo del suo pensiero.[173]
Affermando che il Vico precorre, molto prima di Rousseau, il pensiero romantico, non si vuol estraniarlo dalla cultura del suo tempo: egli è a conoscenza ed in contatto con gli studi e la mentalità a lui contemporanea, anche se vi reagisce in maniera atipica, non strutturale: egli non vi si identifica se non marginalmente, trovandosi solitamente sulla sponda opposta, a difendere valori dimenticati od a creare, di essi, una nuova sistemazione.
Lo spunto iniziale del pensiero vichiano è polemico: anticartesiano. Contro la troppa fiducia nelle scienze esatte, venuta di moda dopo la filosofia delle idee chiare e distinte e del metodo di Cartesio, il Vico obietta una sua intuizione che gli pare ovvia: si può davvero conoscere solo ciò che si è fatto noi stessi. Ora il mondo esterno, quello della natura, non è fatto dall’uomo, ma da Dio: solo Lui, dunque, può conoscerlo perfettamente. Con le espressioni “verum ipsum factum” e “verum et factum convertuntur seu reciprocantur”, egli crede di aver dimostrato apoditticamente che l’unico regno di sicura conoscenza per l’uomo è la sua storia, cioè l’unica opera sua reale. Di questa egli crede di aver scoperto le leggi eterne, quelle del corso e del ricorso storico, proprio come lo scienziato si illude di poter formulare leggi universali per i fenomeni di natura.
Il corso storico.
Il corso storico consiste
nello sviluppo della umanità dallo stato ferino, del tutto irrazionale,
a quello pienamente razionale attraverso tre età, secondo il principio
enunciato nella 53.ma “degnità”[174]: “Gli uomini dapprima sentono senza
avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente
riflettono con mente pura. Questa degnità è ’l principio delle sentenze
poetiche, che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a differenza
delle sentenze filosofiche, che si formano dalla riflessione con raziocini:
onde queste più s’appressano al vero quanto più s’innalzano agli universali, e
quelle sono più certe quanto più s’appropiano a’ particolari”. Questi
stadi psicologici di ogni evoluzione umana nel corso dei tempi, egli li chiama
rispettivamente “età dei sensi e degli
dei; età dei poeti, degli eroi e della fantasia; età dei filosofi e della
ragione”.
Legge fondamentale del corso storico: l’altezza dei valori religiosi e morali è inversamente proporzionale a quella della potenza razionale. Non che il Vico esprima in questi termini la legge da noi enunciata, ma le sue parole vi equivalgono: nell’età meno razionale, quella dei sensi, la religione occupa una parte fondamentale della povera mente umana, generando una coscienza morale forte, nella sua semplicità, severa nel suo candore, esigente nella sua elementarità. Man mano che la facoltà razionale cresce in chiarezza e profondità, essa induce valori umani nuovi e sorprendenti, ma eticamente deleteri : dapprima si eleva alla fantasia, generando miti e capolavori artistici (specialmente poetici); poi, si perfeziona nella potenza filosofica, generando senso critico ma anche dubbi, acutezza di indagine ma anche sofismi, genialità di scoperte ma anche scetticismo, padronanza del sapere ma anche cinismo. L’uomo è maturato nella razionalità, ma l’orgoglio che ne consegue lo illude di poter far a meno di Dio; domina il mondo con le scoperte scientifiche, ma si esalta al punto da pretendere di far a meno dalla legge morale. L’uomo giunto all’età filosofica è un essere corrotto nei costumi e avviato quindi, inesorabilmente, ad una nuova barbarie, ad un ritorno alla irrazionalità a causa dei disordini di comportamento. Il raffinato ragionatore tende a ridiventare il “bestione”che, illuminato da qualche avvenimento straordinario (fulmini, terremoti, ecc.) comincia il suo cammino di razionalizzazione, riconoscendo anzitutto Dio: è dalla religione che inizia la civilizzazione, che comprende per altro anche matrimoni e sepolture, famiglie e cura dei morti.[175]
Il ricorso storico consiste nel riprendere da capo il corso della evoluzione e differenziazione delle varie attività umane, dopo la ricaduta nell’età dei sensi e degli dei, a causa della estrema corruzione della società, del disorientamento e deformazione nella vita umana, creati dal troppo sapere e pretesa ci conoscere, nell’età dei filosofi. Della storia che noi conosciamo,[176] già due corsi completi (con un “ricorso” ben dimostrabile) si sono succeduti : Omero e Dante sono testimoni sicuri di un’età di straordinaria potenza fantastico-poetica, di miti e di eroi, che hanno alle spalle un’età di religione profonda ma di facoltà poco poù che sensorie; ed hanno dopo di sè una età di filosofi squisiti fini alla sofistica, corrotti sino al cinismo.
La Provvidenza. Se ci si domanda come mai l’età filosofica non conclude logicamente il suo percorso, sprofondando nell’annientamento reciproco di un egoismo cieco e violento oppure ritornando alla bestialità completa, il Vico risponde appellando insistentemente ad una Provvidenza che guida le vicende umane e non permette la scomparsa dell’uomo, ma lo conduce a dei “ricorsi” che sono sempre ad un livello superiore a quello dei precedenti. Si dovrà concludere da questo che alla fine l’umanità imparerà la lezione e saprà attuare il connubio di scienza e sapienza, di filosofia e religiosità, di padronanza del mondo e di sottomissione alla legge morale? Questa nostra lettura implicitamente la si trova nell’ultima frase dell’opera: “Insomma da tutto ciò che si è in quest’opera ragionato, è da finalmemnte conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, non siesi pio, non si può daddovero esser saggio”[177]. D’altornde il Vico, nella seconda pagina dell’opera non esita ad affermare: “La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per questo aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina”.[178] E ancora: non sottolinea egli l’importanza della religione contro Pietro Bayle (Pensieri sulla cometa), come condizione necessaria all’inzio della civiltà e socializzazione dell’uomo (“Laonde, perdendosi la religione ne’ popoli, nulla resta loro per vivere in società; nè scudo per difendersi, nè mezzo per consigliarsi, nè pianta dov’essi reggano, nè forma per la qual essi sien affatto nel mondo”)? Non sostiene forse che il popolo eletto d’Israele abbia evitato la fase del ritorno alla semibestialità, dopo il castigo del diluvio provocato dalla superbia e lussuria della prima generazione razionalista, per un intervento eccezionale (miracoloso) della Provvidenza divina? Il fine ultimo della Scienza nuova è allora identico a quello del poema virgiliano: “Apprendete la giustizia, ammoniti dalla mia esemplare punizione, cominciando dal non disprezzare gli dei”. [179] Lo scopo dell’opera era quello di salvare gli uomini, superbi ed empi, della propria età. Comunque, è la Provvidenza che attua una “eterogenesi dei fini”, cioè la produzione di determinati scopi “oltre la defension de’ senni umani” (Inf., 7, 81), per vie diverse rispetto alle intenzioni e sforzi degli uomini: “... ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti” (e si veda in apertura dell’opera, nella “Spiegazione” ad essa premessa: “per quelle loro stesse diverse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società... La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare...” (citato sopra). E si veda la settima “degnità” ; ecc.. Si potrebbe parlare con Socrate di “ironia”: questa volta, della ironia di Dio nella storia, come suggerisce anche il libro dei Proverbi (8, 31: Dio che gioca nel mondo, mentre la Sua gioia è stare coi figli dell’uomo).
GIUDIZIO SUL PENSIERO
E SULL’ARTE LETTERARIA DEL VICO
Sul pensiero. Le proposte vichiane sono suggestive, ma il loro significato non è chiaro, perchè troppi concetti sono generici, indeterminati, confusi.
Si prenda la formula di partenza: “verum ipsum factum”. Dal contesto della polemica anticartesiana e del pensiero vichiano più originale, essa deve significare: “(davvero) conoscibile è ciò che è fatto (dal conoscente)”: e, perciò, solo la storia umana è conoscibile dall’uomo. Ma che “vero” corrisponda a “conoscibile” questa è una novità tutta da dimostrare: anche gli errori sono conoscibili.[180] Naturalmente si può dedurne anche la dottrina idealistica della coincidenza tra fatto e verità, tra pensante e pensato, tra idea e realtà. Ma chi, dopo aver letto la Scienza nuova può attribuire alla (ahimè!) troppo candida mente del Vico un simile “oltraggio”, un tale sorpassamento del senso comune, un tale tradimento della ragionevolezza più ovvia?
Quanto al “corso” storico, pensiamo abbia gravato sulla mente del Vico (e di quanti lo seguono) il paradigma dello sviluppo psicologico del singolo uomo, rintracciabile anche presso l’indovinello della sfinge di Tebe[181]: come il singolo uomo ha una età della infanzia, in cui dominano i sensi, nella incoscienza della pur presente ragione; come ha un’età dell’adolescenza, in cui prevale la fantasia ed il sentimento, mentre la ragione non è del tutto sviluppata; come ha poi un’età della virilità con la piena coscienza e sviluppo della razionalità sino alla capacità sillogistico-filosofica, che tende però a precipitare nel rimbambimento dell’età canuta (e solo un ritorno all’età dell’infanzia potrebbe salvare l’uomo dalla morte), così è della vita dell’umanità intera che passa attraverso età parallele, con la differenza che per essa la rinnovazione e risurrezione in nuove infanzie, adolescenze ed età adulte è possibile. Si rilegga la seconda parte della 53.ma degnità, sopra riportata.
Troppe componenti sono qui annebbiate e contradditorie. Anzitutto, la prima età ha l’uso di (un minimo) della ragione, oppure no? Parrebbe di sì, visto che anche questa età si differenzia dallo stato ferino, irrazionale. Lui, a buon conto, dice per immagini: “Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni Affricani...”. Ma, allora, sorge subito una domanda: ci può essere un’umanità adulta che, sana di mente, abbia una misura incompleta di raziocinio? La ragione è la facoltà del ragionamento per definizione, che passa per tre operazioni: la conoscenza intelligente (od astratta), cioè l’acquisizione delle idee; la loro prima organizzazione in giudizio (soggetto, copula, predicato); la loro ulteriore sistemazione in sillogismi o raziocini. In che senso può esistere l’intelligenza senza la possibilità di essere tutta se stessa?[182] Lo stesso va osservato, di conseguenza, per la seconda età di cui il Vico afferma: “La fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio”. Ma la fantasia non è mai, nell’uomo[183], senza il raziocinio, anche se questo può essere, nei singoli, più o meno vasto e|o profondo, indipendentemente dallo sviluppo di quella. E, ripetiamo, una volta che un essere è intelligente, possiede tutte e tre le operazioni razionali: conoscenza astratta, giudizio, ragionamento.[184]
Sui “ricorsi storici” di solito non si insiste molto nelle critiche: nessuno più ha il coraggio di credervi con il candore del Vico, perchè l’unico caso da noi conosciuto, che potrebbe in qualche modo rientrare nella sua teoria, è il passaggio dalla decadenza romana al risorgimento dell’Europa cristiana dopo il Mille, quando l’invasione di Germani e Slavi, di Mongoli ed Arabi nei più che sei secoli dall’anno 400 circa, fu terminata dalla vittoria di Ottone il grande sugli Ungheri (955) e da quelle normanne sui Musulmani in Sicilia (1072: conquista di Palermo). Un caso solo è troppo poco per ricavarne una legge eterna ed universale.[185]
Rimane il problema della Provvidenza, la cui interpretazione è legata anche alla importanza dei contatti del Vico con alcuni condannati nei processi per ateismo (1688-93). L’ipotesi di Croce e dei suoi seguaci era questa: la paura di venir implicato in simili processi fu tale, che l’uomo si sarebbe armato di prudenza e di astuzia per mascherare i suoi veri sentimenti, presentando come cristiana la provvidenza che egli pensava immanente nella storia e non, invece, superiore ad essa e personalizzata in Dio. Le spiegazioni di Franco Amerio hanno dissolto simili “sospetti temerari”: ormai si ammette da tutti la sincerità del cristianesimo nel Vico. Egli non solo combatte il razionalismo di Bayle, ma si preoccupa anche di polemizzare con chi voleva interpretare la Bibbia con i criteri storiografici in uso per ogni altro libro dell’antichità; e ribadisce la propria fede nel libro ispirato, tanto che storia ebraica costituisce una eccezione nel processo dei “corsi storici”, per gli interventi miracolosi della Provvidenza di Dio. D’altronde, quanto egli afferma sia in apertura (“Spiegazione della dipintura proposta al frontespizio che serve per l’introduzione dell’opera”) che nella “Conchiusone dell’opera” testimoniano della trascendenza e personalità della Provvidenza vichiana. Rimandando la citazione del brano iniziale alla documentazione sull’artisticità o meno della Scienza nuova, citiamo qui quello della parte conclusiva: “Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dà il caso, e i di lui seguaci, Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone, e con lui Spinosa, che dànno il fato: al contrario, di fatto è stabilito a favor de’ filosofi politici, de’ quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolare le cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragione Cicerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi, se non lasciava d’esser epicureo e non gli concedeva prima la provvedenza regolare le cose umane...”.[186]
Ma che cosa rimane di vero, in definitiva, nella teoria vichiana? A nostro parere, solo delle “verità psicologiche”.[187] Dobbiamo escludere la possibilità di una umanità solo “sensoria” o solo “fantasmatica” e, quindi, la possibilità che in una certa età tutti gli uomini siano poeti, sicchè Omero e Dante siano solo i simboli di una “poesia popolare”, propria di tutta una generazione. Si possono considerare, invece , come “conquiste per sempre” queste intuizioni:
anzitutto il valore fondamentale della fede in Dio per la crescita spirituale dell’uomo, come essere socievole, come artista e poeta, come ragionatore sapiente, come persona onesta (così da evitare, al limite, l’alternarsi di epoche di splendore ad epoche di grigiore o di decadenza dei valori umani tutti; così da evitare i “corsi storici”);
in secondo luogo, la specificità dell’operazione artistica, che non va confusa con una attività sensoria (il piacere) nè con la scoperta di verità filosofiche o scientifiche (epoca medioevale): l’aver messo in relazione l’attività poetico-artistica con gli affetti, le passioni, il sentimento (età seconda del corso storico) ha piantato una pietra miliare nella comprensione del fenomeno estetico; in particolare, egli ha trovato una via per celebrare la potenza artistica, il genio poetico di Dante, con sicurezza di inutito (anche se con motivazioni discutibili: la stessa discutibilità delle premesse per cui egli rilancia la grandezza della poesia di Omero);
in terzo luogo, l’aver sottolineato la distinzione (almeno) tre sfere di valori nella storia umana, fino all’assurdo di dichiararne (o quasi) la indipendenza e separazione in epoche sociali diverse, ha educato gli studiosi ad un senso storiografico molto più magnanimo perchè molto più realistico, ad un giudizio su personaggi ed epoche storiche molto più comprensivo ed universale. Ad esempio, il Medioevo non è svalutato perchè, essendo “senza ragione filosofica”, è un’epoca delle fiabe e della credulità” (atteggiamento del razionalismo illuministico): anzi, è epoca privilegiata per il fiorire dell’arte, oltre che per la residua fede religiosa, per cui ha dei valori propri: da non sottovalutare. Nel complesso si potrebbe attribuire al Vico (ci pare) questa dottrina: nessuna epoca è superiore od inferiore in senso assoluto alle altre, perchè ciascuna sviluppa delle verità e dei beni (“valori”) suoi propri, per i quali va apprezzata e stimata, anche se non si debbano tacere i limiti e le mancanze in altri valori (“beni e verità”). Il giudizio non è del tutto vero, perchè (per addurre alcuni esempi); la numerazione indo-arabica è definitivamente più adeguata al calcolo che quella romana; la scrittura fonetica è insuperabilmente superiore a quella ideogrammatica; l’astronomia copernicana e newtoniana è semplicemente vera, mentre errata è quella tolemaica; il monoteismo e la morale del Vangelo sono definitivamente superiori a quella del mondo pagano; la tecnologia del ventesimo secolo è per sempre superiore a quella dei secoli precedenti. Ma esso è molto più vero che non il meschino parametro classicistico, per cui le opere di stile gotico sono “Kitsch” e non “Kunst”, il Medioevo è epoca di decadenza, senza valori (secoli persi nella storia umana!), Shakespeare è solo “un barbaro che non era privo di ingegno”, ecc. Vico ha contribuito genialmente a mettere davanti all’attenzione degli storiografi una molteplicità di valori, così da sfumare i giudizi ed avvicinare a quello spirito dantesco per cui la condanna del peccati in Farinata degli Uberti, Brunetto Latini ed Ulisse sono senza appello, ma rimangono salvi la magnificenza e magnanimità, la fortezza d’animo e la genialità, la sublime curiosità per ogni vero, la ricchezza culturale d’eccezione e l’intento generoso di bene che ha distinto la loro vita. Si richiede nello storiografo una “simpatia, una benevolenza, una muratoriana ampiezza di orizzonti” prima di giudicare di un uomo, di un avvenimento o di un’epoca. Abusivo sarebbe però pervenire sino allo “storicismo assoluto”, per cui nulla di male è mai compiuto dall’uomo, ma solo di più o meno bene, per cui, superate le passioni del contesto cronachistico in cui gli “happenings” si verificano, nulla più di deplorevole deve lo storiografo autentico trovare da condannare nella vicende del passato e nei loro protagonisti. Questa deduzione di B. Croce e dell’idealismo in genere è un “trasgredire dalla comprensione magnanima dei diversi valori alla equiparazione di valori e disvalori, di verità ed errori, di bene e di male”. Il corollario dello “storicismo assoluto”, secondo cui “la storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice” è la negazione dei principi di “identità” e di “non contraddizione”: è una rinuncia all’esercizio della ragione fatto davanti a notaio, cioè esplicita, perchè gli stessi termini di “storicismo” (ciò che cambia con il tempo e gli attori della storia) ed “assoluto” (ciò che non cambia, perchè non è contingente ma definitivo) sono in contraddizione fra loro.[188]
Il problema della poesia nelle
espressioni del Vico.
Esaltare il Vico come grande scrittore è un negare la verità conosciuta. Come abbiamo cercato di dimostrare, egli ha un suo posto importante nella storia delle idee, specie in sede gnoseologica, sociologica, psicologica; in tali settori ha anche dei grandi meriti parziali, sia pure immersi in una cornice complessivamente inaccettabile. Ma che sia anche un grande poeta od uno scrittore esemplare, no, no e poi no! Si è davanti, per la letteratura, ad un vero “re nudo” che il romanticismo, prima e l’idealismo, poi, han cercato di “vestire” per motivi ideologici, per i prodromi veri (quanto alla mentalità romantica) o presunti (quanto all’idealismo) del suo sistema di pensiero.
Questo non toglie che nella Scienza nuova si possa sentire l’ansito di un animo epicizzante, che si sforza di trovare la espressione adeguata anche se quasi mai vi riesce. Nelle sue espressioni vi sono allora residui od indizi di una coscienza eccezionale circa la grandezza delle proprie intuizioni; barlumi del fervore di chi ritiene di avere un messaggio messianico per la umanità; brandelli della esaltazione di chi si sente possessore di un tesoro decisivo per le sue sorti: conoscere le leggi della propria evoluzione psicologica e, quindi, offire la competenza per correggerla, migliorarla, sublimarla, eternarla. Questo afflato profetico del’inviato divino, questa intima soddisfazione dello scopritore geniale, questo affanno missionario del banditore regale lo si indovina dalle rare perle espressive eccezionalmente riuscite; lo si intuisce dai troppi più frequenit sprazzi di frasi aggrovigliate, per l’accalcarsi dei concetti che non han trovato il linguaggio pertinente od il rapporto sintattico adeguato a dar voce alla forza della passione, all’impeto del sentimento, all’altezza della emozione con cui la ricerca, scoperta, sistemazione della sua dottrina sono state accompagnate. Certo le idee che aveva da consegnare all’umanità erano formidabili, sconvolgenti,sublimi (anche se in gran parte ambivalenti); certo, il candore con cui egli le viveva dentro di sè è degno di ammirazione, di rispetto, perchè non può non destare un senso di tenerezza. Eppure la mancanza di padronanza della lingua, il pressappochismo del suo esprimersi, la balordaggine di troppe sue proposizioni rendono la Scienza nuova un libro pesante e faticoso, che solo il senso del dovere di un addetto ai lavori può indurre a leggere sino in fondo, che solo la fama usurpata di generazioni può imporre di rileggere per cercare di capirlo e di sfruttarlo nelle sue vene intellettualmente suggestive, anche se letterariamente penose.
Come già dichiarato altre volte, non si può costringerci a documentare le bruttezze di un’opera. Pure, ricopiamo pazientemente qualche frase o poco sensata nel contenuto o poco sensatamente espressa, affinchè evitiamo l’accusa di calunnatori, noi che simpatizziamo per l’uomo ed il cristiano G. B. Vico, ma che ci sentiamo inesorabilmente avvinti ad essere ancora più amici della verità. Concluderemo con qualche sentenza scritta colla solennità di uno stile affine a quello delle dodici tavole delle prime leggi latine, cioè con qualche raro caso di epicità riuscita o...quasi.
Rimandiamo, anzitutto, a qualcuno dei brani già riportati (a proposito della Provvidenza, ad esempio); e ricopiamo un brano fra i primissimi, che ci serve a due scopi: confermare la trascendenza e personalità divina della Provvidenza vichiana e, in secono luogo, documentare la farraginosità del suo pensiero e un’infelicità espressiva che giunge a renderne difficile, se non oscura, la interpetazione: “Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali,[189] per lo quale finora l’hanno contemplata i filosofi; perch’ella in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è il mondo metafisico; per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è il mondo civile, o sia ’l mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co’ geroglifici che spone in mostra di sotto”. Siamo, con questi periodi infiniti, alla prima pagina dell’opera, che spiega il simbolismo della ragione che contempla in Dio il progetto della storia. E c’è di ben peggio, ad ogni piè sospinto, come le spiegazioni sulle imprese di Ercole, nella seconda pagina dell’opera: ma non possiamo ececdere a citare frasi indigeste troppo lunghe. Concludiamo, allora, con la breve “degnità” decimaquarta: “Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose”. Che “natura” derivi da “nascere, nascita”, è ovvio; che siano la stessa cosa, è troppo. E la seconda parte dell’assioma che vuol dire se non (forse) la verità lapalissiana, per cui fin già citata frase (forse la più suggestiva) di tutta la Scienza nuova: “Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura” (LIII).
Ed ecco qualche altro “elemento o degnità od assioma”, anch’esso non necessariamente vero, ma comunque fascinoso: “Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano d’attenersi al certo, perchè, non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza” (IX); “Ove i popoli sono infieriti con le armi, talchè non vi abbiano più luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzo di ridurgli (a popolo, cioè a società) è la religione” (XXXI); “La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio”; “Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innazi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano nell’istrapazzar le sostanze” (LXVI); “La natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta” (LXVII); “Nel gener umano prima surgono immani e goffi, qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; più a noi (vicini) gli appariscenti con grand’immagini di virtù che s’accompagnano con grandi vizi, ch’appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual’i Tiberi; finalmente i fuoriosi dissoluti e sfacciati, qual’i Caligoli, i Neroni, i Domiziani” (LXVIII);”I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli ambiziosi, per farsi seguito, le promuovono; i prìncipi, per uguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono” (XCII).
Ci fermiamo qui. Il lettore giudichi se l’“anima schiettamente poetica”[190] del Vico abbia raggiunto mai una espressione definitivamente poetica.
[1]
Abbiamo già detto, trattando della cultura del Milleseicento, che il gusto
dello spagnolismo enfatico ed esuberante non necessariamente coincideva con
l’orgoglio e la supponenza, sicchè le manifestazioni di comportamento, se
giungevano da una parte al delitto del duello, potevano essere, di solito,
soltanto segni della coscienza, nei
responsabili del comando, della necessità
all’uso di certi atteggiamenti autoritari per la maggior efficacia, col
minor dispendio di energie, della loro missione. Sulla stessa base di retta
intenzione, potremmo ripetere un giudizio assolutorio per la nuova moda
francesizzante, fatta di vestitti attillati e di colori argentei, di sobrietà
nell’uso delle parole, di brevità nella espressione delle singole intuizioni e
di razionalità nella loro organizzazione in discorso: era una
diversa forma di attirare rispetto e procurarsi incisività presso gli
interlocutori (che, per l’autorità, era il popolo tutto). Non per nulla
Scipione Maffei canzonava il nuovo costume sociale con due commedie, che
finiscono per dimostrare come una moda valga l’altra, perchè sta al buon senso scegliere il giusto mezzo tra l’enfasi
piuttosto che l’asciuttezza nei saluti, tra l’esigere piuttosto che cedere il
diritto di precedenza (“Le cerimonie”); o tra
fedeltà alla propria lingua nazionale ed ossequio alla lingua di fatto
dominante nella cultura di cui si fa parte (“Il Raguet).
[2] Si noterà che una simile “crisi” di pensiero e condotta era già avvenuta nei secoli XIV-XVI, cioè nel periodo di incubazione e di fioritura del Rinascimento. Ma vi sono ora due differenze,una radicale ed una marginale. La diversità di contenuto sta nella allora inconscia emarginazione della fede nel peccato originale rispetto alla attuale negazione esplicita di tale dogma da parte sia dell’Illuminismo di marca più razionalistica (Voltaire) che di quello di marca più sentimenatle (Rousseau). La differenza accidentale consiste nella celerità del processo di penetrazione della nuova ideologia: era stata un affare di secoli la diffusione del pelagianesimo inconsapevole, nell’epoca umanistico-rinascimentale; richiede pochi decenni per la sua diffusione l’attuale consapevole emancipazione dell’uomo da ogni dipendenza soprannaturale per la propria piena realizzazione. Gli è che allora la fede cristiana occidentale era unita e faceva blocco di resistenza anche attraverso la autorità civile; ora, essa è divisa e discorde tra cattolici e protestanti e trova il potere politico indifferente od ostile (imperatori, come Giuseppe II e re, come Federico II, massoni; primi ministri anticlericali, se non miscredenti, come Bernardo Tanucci a Napoli o Sebastiano Pombal in Portogallo; educatori di prìncipi, sensisti, come Stefano Condillac a Parma).
[3] La Germania è silente, culturalmente, sino alla fine del Milleseicento, a causa dello spopolamento e della miseria causati dalla guerra dei Trenta anni. Ma, in questo contesto letterariamente morto, il prìncipe di Prussia e Brandeburgo sta costruendosi un esercito che darà il nerbo ad una nuova potenza germanica nel secolo XVIII. Federico, appoggiando l’imperatore Leopoldo I nella guerra di successione spagnola, ottiene il titolo “regale” nel 1701: da Federico III, grande elettore del Brandeburgo, diviene Federico I, re di Prussia.
Il termine “politica di equilibrio” compare esplicitamente nei trattati di Utrecht (1713-15)), come mezzo per assicurare la pace sul continente (“Ad firmandam stabiliendamque pacem ac tranquillitatem christiani orbis, justo potentiae aequilibrio”).
[4] A partire
dal 1609, era riuscito ai Gesuiti ciò che già i Francescani, suggeritore
mons. Bartolomeo Las Casas, avevano tentato invano, più volte, anche per la
minor chiarezza del metodo ed il minor appoggio dei sovrani spagnoli. Ora si
giungeva alla fondazione di almeno
trenta “pueblos” (villaggi) o “doctrinas” (parrocchie), dove oltre centomila
Indios, ivi raccoltisi volontariamente, imparavano a vivere in modo ordinato,
con scuole anche per le ragazze, agricoltura
progredita (divisa tra possesso privato per la famiglia e terreni di
comune proprietà per le necessità dei non addetti all’agricoltura e per quelle
stesse famiglie di contadini rimaste senza il padre), artigianato sino alla
stampa di libri, erezione di chiese monumentali, sviluppo notevole di musica e
strumentazione, recita di opere teatrali, fusione di armi (per resistere alle
invasioni di portoghesi e brasiliani in cerca di schiavi), amministrazione
propria con elezione di un “cabildo” (consiglio municipale), tribunali con condanne che non contemplavano
la pena di morte e, se condannavano alla prigione a vita, non custodivano più
di dieci anni in isolamento, per la
capacità di ricupero e rieducazione delle comunità che vivevano immerse in un sistema religioso così
permeante, da costituire davvero uno scoraggiamento al delitto ed uno stimolo
alle virtù anche sociali.
[5] Nato a Castiglione di Salerno nel 1713, morì nel 1769. Docente di filosofia morale all’università di Napoli,pubblicò opere di valore come le Meditazione sulla religione e sulla morale, le Istituzioni di Logica (Elementa artis logico-criticae) la Diceosina o filosofia dell’onesto e del giusto (trattato sulla “dìche”, cioè sulla giustizia) e gli Elementi di metafisica (Disciplinarum methaphysicarum elementa: 1743 e 1766). Per le lettere, interessa il volume sulla loro funzione sociale Vero fine delle lettere e delle scienze, 1753. Imitazione dell’opera di Biagio Pascal di un secolo prima, sono le Lettere ad un amico provinciale (1759). Ma il suo capolavoro sono le LEZIONI DI COMMERCIO O SIA DI ECONOMIA CIVILE.
[6] Gli furono invece “indicizzate” le Lezioni di commercio, nel 1766, colla nota “donec corrigantur” (cioè finchè non se ne correggano, in nuova edizione, gli errori): sono inficiate di giurisdizionalismo antipapale, che sottometteva la Chiesa al potere civile, compresa la nomina dei vescovi!
[7] Il Giurisdizionalismo era stato teorizzato dal vescovo tedesco Nicolò Hontheim che, nel 1703, pubblicò un De statu ecclesiae, collo pseudonimo di Febronius (onde il nome di “febronianesimo” dato, per un certo tempo, al fenomeno): sintetizzando tendenze nazionalistiche (vedi “Gallicanesimo” per la Francia) e conciliaristiche (superiorità del concilio sul papa) con la teoria della costuituzione basata sui vescovi nella Chiesa primitiva, il giurisdizionalismo sottrae al papa ogni autorità effettiva sulla Chiesa (che viene trasferita al sovrano –regalismo-, sull’esempio dato da Lutero): cadono i “concordati”, la esenzione da controlli nella pubblicazione di documenti e direttive pontificie (per la quale occorrerà ora il “placet” del sovrano o del governo); la libertà della scelta dei vescovi (per l’insediamento nella diocesi, necessita il regio “exequatur”); cade il privilegio del “foro ecclesiastico” (il clero viene giudicato in tribunali ecclesiastici anche per delitti comuni), quello della “manomorta” (non imponibilità della tassa di successione sulle proprietà ecclesiastiche, non appartenendo esse a persone fisiche, ma ad un ente morale, che non muore mai); la libertà d’insegnamento della teologia nei seminari o nelle università teologiche. Spingendosi all’estremo, il “giuseppinismo”, cioè il giurisdizionalismo dell’imperatore Giuseppe II d’Austria (1780-90) giunse a sopprimere più di seicento conventi, ridistribuendone i beni fra diocesi, parrocchie e chiese diverse; ad organizzare la vita dei seminari, prescrivendone l’ordine di studi; a definire il calendario delle feste religiose; a prescrivere l’ordine di processioni e di riti liturgici e modalità, persino, di immagini sacre (non per nulla Federico II, lo chiamò “il mio cugino sacrestano”). Il viaggio a Vienna di Pio VI, pellegrino apostolico nel 1782, per fermare simile opera di statalizzazione della Chiesa, non servì quasi a nulla. Poi venne la rivoluzione francese, che costrinse i sovrani cattolici ad un’alleanza fra trono ed altare, con la riabilitazione dei gesuiti, suggerita dal sospetto troppo verosimile, che il controllo della Chiesa (colla censura) e la presenza dei discepoli del Loyola (come consiglieri dei vari prìncipi), avrebbe evitato all’Europa la tragedia delle carneficine del Terrore e di Napoleone. L’occidente si avvedeva, per la prima volta, che quando la Chiesa è in crisi, la società civile sta entrando in coma...
[8] In Francia, la situzione ibrida si ripete ingigantita. La vita avventurosa di Jean Marie Arouet, dit Voltaire, di Jean Jacques Rousseau e della Enciclopedia ne sono scampoli ed iconi. Il Voltaire ebbe parecchie condanne, ma forse più per le offese contro la nobiltà, che non per quelle verso al religione: spesso i due motivi si mescolano. A 23 anni (1717) è carcerato alla Bastiglia per un’ode attribuitagli contro il Reggente. Quando nel 1726 egli ritorna in prigione, è per uno scambio di ingiurie, a teatro, col cav. di Rohan. Però l’esilio di convenienza in Inghilterra (1626-9) è dovuto già a motivi convergenti: un anonimo l’aveva accusato di deismo e di anticristianesimo, mentre si trovava in prigione. Nessun processo, ma un esilio volontario da Parigi, per salvarsene. Anche la pubblicazione del poema Enriade fuori di Francia (in Inghilterra, appunto: 1628) avviene per l’incrociarsi della duplice causa: egli vi parla troppo bene di alcuni perosnaggi ugonotti (oltre che dell’animo tollerante ed aperto di Enrico IV) ed ha la malagrazia di premettere all’opera una dedica non abbastanza rispettosa verso Luigi XV. Quando, nel 1734, vengono tradotte in francese Le lettere filosofiche (o inglesi), egli ha nuove difficoltà per le tesi religiose ivi sostenute (deismo, tolleranza relgiosa, libertà politica...), ma la bruciatura dell’opera ordinata dal Parlamento (corte di giustizia) di Parigi, ha l’effetto di rendere famosa e diffusa l’opera che, in un solo anno, raggiunge le cinque edizioni (nel 1742, aggiungerà all’opera una 25^ lettera, contro i pensieri di Pascal). Egli, però, ricercato nel 1535 per un mandato di arresto, deve fuggire (Svizzera, Lorena), e finisce per rifugiarsi presso la marchesa du Chatelet, a Cirey-sur-Blaise. Ma già l’anno dopo, la condanna viene ritirata sicchè egli può dedicarsi alla stesura di opere letterarie, storiche, romanzi, versi su temi politici e filosofici., tragedie e commedie; anzi nel 1744 egli ha un posto a corte con uno stipendio. Nel 1746 è ammesso alla Accademia di Francia. In contatto con Federico II si era messo fin dal 1743 per cercare di mantenere il re-filosofo nella alleanza con la Francia. Nel 1750, lascia la carica di corte aVersailles e si reca a Berlino. Ma il tentativo di convivenza e collaborazione tra i due “filosofi” dura solo tre anni: il suo spirito di indipendenza e la invidia di cortigiani lo inducono a tornare in Francia, dopo una rottura clamorosa col re (di cui non accetta le canzonature, mentre pretende che si accettino, a corte, le proprie). Sono anni travagliati: ma al filosofo deista e anticlericale, massone e libertino, viene incontro la ospitalità della abbazia di Sénones. Nel 1755 pubblica il poema La pulcella, su S. Giovanna d’Arco, in tono di canzonatura e di impudenza ariostesca, che divertì i libertini, ma scandalizzò i benpensanti. Decide allora di vivere presso il confine svizzero, a scanso di altri pericoli e, dopo un soggiorno sul lago di Ginevra nella tenuta “Les délices” (1755), acquista un feudo a Fernex (o, come scrive lui, Ferney: 1758) presso la città di Calvino, ma in territorio francese e vive ed opera ivi per gli ultimi venti anni. Da Ferney, egli interviene con successo a combattere il fanatismo ed ottiene la riabilitazione di Jean Calas, un ugonotto giustiziato per l’accusa di aver ucciso il figlio che voleva farsi cattolico (e vi sono altre condanne per motivi anche religiosi , contro un Sirven e un Le Barre, che Voltaire riesce a far rovesciare): nè si può decidere a tutt’oggi se egli rivendicò l’innocenza o la sua apparenza soltanto, chè egli pure peccava di pregiudizi e le sue difese non convincono fino in fondo. Si noti che nel 1763 Voltaire pubblica il Trattato sulla tolleranza: la lotta contro il fanatismo fu al centro dei suoi interessi pratico-politici. Per salvare le apparenze, egli scrive con pseudonimi o sotto anonimato, ma sono segreti di Pulcinella: tutti riconoscono lo stile ed egli ricava da vivere da signore attraverso i suoi scritti (oltre che da investimenti azionari: anche nella tratta dei negri, come mostrano sue lettere di congratulazioni al direttore per le cospicue rendite del capitale investito!). Basta d’altronde che un suo ammiratore giunga al potere (D’Argesson, nel 1744; il Turgot, nel 1771), perchè egli sia riammesso a corte e celebrato.Quando rientra a Parigi definitivamente (nel gennaio del 1778: morirà in maggio) sarà accolto in trionfo e, nelle sofferenze atroci di una malattia poco filosoficamente sopportata, deve prender parte alle fatiche dei ricevimenti e dei banchetti in suo onore. Dapprima vien sepolto di nascosto e solo la rivoluzione avrà il coraggio di farlo accogliere nel Pantheon (1791). La tradizione più accreditata lo vuole cattolico praticante a Ferney, ma solo perchè riteneva che il dare il buon esempio in materia religiosa mantenesse i dipendenti contadini nella buona disposizione di pagare regolarmente i tributi al signore feudatario; e lo vuole organizzatore della sceneggiata di una sua morte ipocritamente cristiana, fino al punto da accordarsi con i fedelissimi per andare alla ricerca di un prete per gli ultimi sacramaneti, quando fosse troppo tardi... Con tutto ciò, la sepoltura avviene presso una abbazia (Scellière). Vogliamo dire: le vicende del letterato-filosofo contiene tutti i sintomi di una crisi della censura religiosa e morale nel regno di Francia (dove le amanti di Luigi XV avevano un ruolo politico), non esclusa la incertezza di fede e disciplina di cardinali e relgiosi: non fa meraviglia la diffusione del pensiero e la stessa libertà e sopravvivenza, anzi il trionfo di una personalità anticristiana come Voltaire.
La vicenda d Jean Jacques Rousseau (1712-1778) è poco meno pasticciata. Dopo la pubblicazione dell’Emilio (1762), egli è condannato dal Parlamento di Parigi a causa del deismo che vi si difende: vive otto anni di proscrizione dura, che lo vedono ramingo da un rifugio all’altro, da Motiers all’Ile de St. Pierre, nel mezzo del lago di Bienne, fino all’Inghilterra (anche a Ginevra, sua patria, era stato condannato dai Calvinisti). Ma col 1770, egli può rientrare indisturbato a Parigi e morirà ospite dei signori De Girardin ad Ermenonville.
La stessa storia ambivalente vale per la pubblicazione della Enciclopedia (1751-1772: costretta ad evitare accuse a personaggi ed esplicite prese di posizione ereticali, ricorse ai rimandi da una voce all’altra, riuscendo ad insinuare dubbi e obiezioni demolatrici. Proprio per questo, ebbe due ordini di sospensione: la prima (1752) è superata un anno dopo; quella del 1759 è resa inutile dalla pubblicazione clandestina degli ultimi dieci volumi, che riuscirono a venire alla luce in quanto la censura non volle vederne la presenza, che avrebbe potuto essere impedita facilmente. Tempi disorientati, che solo un colpo di timone deciso poteva risolvere: ma Luigi XV era alieno dal governo e succube delle varie amanti; Luigi XVI era troppo debole e mutevole; le guerre perse distraevano dai problemi interni ideologici, anche per l’influsso della vincitrice Inghilterra che era la sorgente più disinvolta delle novità illuministiche... Insomma, era la situazione ideale al tentativo clamoroso della Rivoluzione francese per mettere in pratica le idee illuministiche, di Voltaire (dapprima) e di Roussea (poi). Col bel risultato di spianare la via alla dittatura di Robespierre, dapprima; del Direttorio, poi; di Napoleone, infine.
[9] Soppresso un ordine religioso e privato delle sue attività per sostenersi, la S. Sede riduceva a preti col solo voto di castità i membri degli ordini disciolti. Se ne ebbero due conseguenze: da una parte, aumentarono le vocazioni al clero diocesano e, dato il numero, i preti intellettualmente eminenti (prima distribuiti fra i vari ordini e congregazioni), onde gli elogi al clero del principio del secolo XIX di Giovanni Visconti Venosta (Ricordi di gioventù); dall’altra, si ebbe un numero notevole di clero a piede libero, che cercava gli introiti per sopravvivere nelle chiamate di parroci, ora per predicazioni, ora per confessioni, ora per partecipazione a funerali di ricchi (ove erano richiesti fino a dodici sacerdoti a concelebrare e pregare). A Milano, essi si radunavano sul sagrato del Duomo e attendevano qualche messo dalle parrocchie che li ingaggiasse. Erano detti “preti-vetturini” perchè, come i fiaccherai, attendevano clienti ad un posto fisso. La cosa era degna di compassione, ma destava talvolta lo scherno: Carlo Porta ne farà motivo di comicità in più di una sua poesia.
[10]
Pietro Tamburini divenne una specie di ministro degli affari relgiosi quando gli austriaci tornarono a Milano: lo
troveremo fra gli amici di Alessandro Manzoni. Uno dei provvedimenti minori, ma
pur significativo, del giurisdizionalismo di Giuseppe II, fu l’incameramento
del principato di Valsolda, possesso allodiale piuttosto che feudo,
dell’arcivescovo di Milano almeno fin dal 1127: lo annesse alla Lombardia alla
morte del cardinal Giuseppe
Pozzobonelli nel 1783 e trovò in Filippo Visconti l’uomo che accettasse il
fatto compiuto e si lasciasse nominare arcivescovo di Milano senza il consenso
della S. Sede. Il Visconti, che non era una canaglia ma un uomo dalle idee
confuse, pubblicò anche un catechismo popolare per l’insegnamento della
dottrina cristiana e si dedicò alla cura del gregge, ma, prudente e cauto, traghettò immune, per due volte, dagli
Austriaci ai Francesi, e morì a Lione nel 1801, mentre partecipava ad una
convocazione dei membri della Consulta cisalpina in tale città, cui era stato
eletto.
[11] E’, per altro, bene aggiungere che lui, prete, era potutto vivere liberamente a Venezia nonostante le amanti con cui conduceva vita allegra. Ed a Venezia egli era giunto da Padova, dove l’avevano condannato per idee russoviane: a Venezia aveva però un protettore (Bernardo Memmo) che l’aveva coperto da ulteriori inchieste, salvo la interdizione dall’insegnamento.
[12] Vedremo più avanti la differenza tra “ragione(volezza)” e “razionalsimo”, ma sin d’ora si tengano presenti i quattro campi fondamentali in cui la “sola ragione” risulta “irragionevoile e dannosa”: la percezione dei sensi, la verità della rivelazione di Dio, la verità storica, la bellezza artistica. Sono i campi in cui la prima suggestione della verità avviene attraverso quanto la ragione non ha in dominio diretto ed immediato, così che la ragione deve solo convalidare indirettamente quanto testimoniato dai sensi o da Dio o dagli storiografi o dall’intuizione della bellezza ad opera della reazione emotiva (questa sensazione è razionalmente confermabile? Dio si è rivelato davvero?| i testi storici sono degni di fiducia?| l’impressione di piacere appartiene al genere estetico?).
[13] Lettera ad A. Morellet del 26 gennaio 1766, in Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, pp. 205-7.
[14]
A dir il vero, il sentimento è una espressione umana complessa, risultante
dalla confluenza di un dato conoscitivo (la ragione) e di uno appetitivo (la
emotività): è attività unicamente umana ma che, partendo da una idea
(conoscenza razionale) richiama, desta, sollecita, mobilizza, istiga i centri
neurovegetativi della emotività, coinvolgendoli in un atteggiamento complesso
di conoscenza razionale-appetizione anche animale, che è il dato statisticamente abituale in base al
quale l’uomo della strada (ed ogni uomo, quando non si senta impegnato
fortemente dalla coscienza morale o dalla indagine scientifica) basa il suo
pensare ed il suo agire. Praticamente, il sinergismo idee-emozioni (cioè i
“sentimenti”) costituiscono la
psicologia umana, cioè il “brodo”
umano-animale, fisico-spirituale in cui
la persona spontaneamente vive, agisce e pensa normalmente. E’ evidente che
porre al timone del pensiero od alla guida della condotta umana una simile
realtà ambivalente ed ambigua, polivalente e pressappochista è cadere dalla
padella nella brace: il sentimento sarà anche più sincero della ragione, ma non
più vero; la ragione potrà essere ipocrita e falsa per malizia, ma la sua
funzione connaturata è quella di ricercare la verità; il sentimento ha uno scopo di orientamento primario nelle
scelte pratiche, ma sono sollecitazioni generiche, da prendere con un beneficio
di inventario, che solo la ragione ragionevole può operare. In conclusione, il
sentimento elevato a principio di umana guida per la vita tutta, segna il
passaggio da un principio deleterio ad un altro ancor più rovinoso, dalla
troppa fiducia nella ragione al suo
rifiuto totale, per abbandonarsi nelle braccia di una facoltà in cui facilmente
la componente appetitiva e animale tende a
dsorientare quella della conoscenza definitivamente vera.
[15] I tedeschi, coscienti delle loro virtù intellettuali ma anche dei limiti connessi, affermano di se stessi: “Wir reiten eine Idee zum Tod” (noi cavalchiamo una idea sino alla morte); “wir gucken um die Ecke” (guardiamo dietro l’angolo) e “wir machen eine Weltanschauung aus einer Idee” (da ogni idea, noi facciamo una concezione globale del mondo).
[16] Se i libertini all’epoca della reggenza di Maria de Medici nella seconda metà del Millecinquecento facessero sfoggio di princìpi illuministici, la Francia sarebbe all’avanguardia nella sua invenzione e diffusione: ma essi erano gruppi di intellettuali almeno epicurei, ma anche atei e dissoluti, che non portarono nessuna motivazione nuova ad atteggiamenti già presenti nell’antichità pagana e in qualche spirito materialista del Rinascimento italiano (ad esempio, Giordano Bruno o Giulio Cesare Vanini, suo discepolo e influenzato anche dal Pomponazzi, dall’averroismo e dal Cardano; finito sul rogo anche lui nel 1619 a Tolosa). Repressi dal Richelieu nel 1623, rinascono nel 1628 come “libertini eruditi” attorno a Pietro Gassendi, ma vengono dispersi dal Mazzarino nel 1655, finchè si fondono col movimento dei “filosofi”, anche per il fatto che alcuni libertini, per fuggire la persecuzione, si ritirano in Olanda od in Inghilterra, dove il cartesianesimo ha generato l’empirismo di Locke come il panteismo di Spinoza. Della nuova ondata, i nomi più noti sono quelli di Saint-Evremond (1610-1703) e di Ninon Lenclos (col suo salotto mondano).
E’ col Locke e con lo Spinoza che si può far iniziare la mentalità illuministica vera e propria. John Locke (1632-1704) sostiene l’emprirismo in gnoseologia (le idee complesse- sostanze, modi, relazioni, cioè soggetto, attributo e predicato- non garantiscono la conoscenza della realtà: sono puri nomi di comodo, perchè le stesse sostanze materiali sono inconoscibili in se stesse, mentre esistono e sono conoscibili in se stesse –idee semplici- solo le loro qualità sensibili primarie, come l’estensione, la figura, il movimento). In ontologia, dunque, è nominalista o agnostico; è utilitarista in morale; liberale, in politica. Dall’Inghilterra giunge intanto il deismo, preconizzato da Edward Herbert of Cherbury (1583-1648), assunto dalla Massoneria inglese (prima loggia, Londra 1717). Dall’Olanda si diffonde il pensiero di Baruch Spinoza (1632-1677), che vede nel mondo (la “natura naturata”) la vita esteriore di un Dio che è la “natura naturans” (la vita intima del mondo: affinità col pensiero del Bruno, pel quale Dio è l’anima del mondo).
[17] Prima ancora di considerare il contributo di Locke e Spinoza all’origine della mentalità illuministica, bisogna tener presenti delle premesse indirette ma molto influenti: la rottura dell’unità di pensiero esistenziale (Dio, l’uomo, il mondo) da parte della rivoluzione luterana, che ha tolto certezza alla massa della gente ed anche a tutti quegli intellettuali mediocri, per i quali il pensiero di fatto dominante appare come la verità di diritto indiscutibile. In secondo luogo, si danno in Francia guerre di religione che durano tutta la seconda metà del Millecinquecento, con vicende alterne di vittorie e sconfitte che non hanno favorito certo la fermezza dell’adesione alla visione cristiana della vita. L’assurdo, infine, poi, di un cardinale capo del governo (Armando du Plessis, detto il Richelieu), che si allea coi protestanti per fondare la potenza dello stato e prendersi la rivincita sulle nazioni cattoliche di Spagna e impero, disorientava ancora di più le menti, durante la guerra dei Trenta anni. Precursori immediati dell’Illuminismo francese sono i tre grandi seminatori del dubbio: Michele Montaigne (1533-92), Renato Cartesio (1596-1650) e Pietro Bayle(1647-1706). Il primo, nei suoi Saggi, si rivela scettico sull’uomo: tutt’altro che signore e centro del mondo, è incapace di attingere la verità, così che anche la morale diventa relativa. Il secondo, che parte dal dubbio (Discours de la méthode), nel tentativo di ricostruire le verità definitive, andate perse con le guerre di religione, è il padre della critica (la scienza che fonda la certezza delle nostre conoscenze). In realtà, egli semplifica la realtà per capirla: ne esce un sistema filosofico in cui pensiero e materia, spirito e corpo sono non soltanto diversi (esteso-inesteso| attivo-passivo| determinismo-libertà...), ma inconciliabili; e uniti accidentalmente, in modo poco convincente. L’uomo ne fa le spese peggiori, perchè , rinnegato il “sìnolo” della persona in anima e corpo, uniti come materia e forma, esso è predicato come unione accidentale (attraverso la ghiandola pineale od ipofisi) di spirito e materia. Il tentativo di ricostruire l’equilibrio della distinzione-collaborazione tra realtà spirituali e realtà materiali, porterà i pensatori successivi ad assorbire l’una dimensione nell’altra, dividendosi tra empiristi e razionalisti. Pierre Bayle, nel suo Dictionnaire historique e critique (1697), giunge a mettere in dubbio persino la esistenza di Dio (riprende il pensiero di Epicuro riguardo al male nel mondo, per negare la Provvidenza), mentre nelle Pensées sur la comète parla “in recto” (direttamente) contro le superstizioni pagane, ma insinua “in obliquo” (indirettamente) scetticismo sulla fede religiosa in genere: corrosivo di ogni certezza, egli non sostituisce nulla alle credenze che cerca di demolire.
Va tenuto presente, in tale funzione precorritrice, anche Bernard Le Bouvier de Fontenelle (1657-1757), segretario a vita della Accademia delle scienze: con Les dialogue des mortes (1683), riagganciandosi allo scetticismo demolitore di Luciano, mette in dubbio ironizzando, le verità del cristianesimo. Anche lui gioca sulla scacchiera delle superstizioni pagane (Histoire des oracles: 1687), per combattere la realtà dei miracoli cristiani. Egli è un tipico scrittore francese, brillante, sornione, allusivo, umorale, che usa anche i Préfaces ad opere altrui per insinuare dubbi od idee di rottura; e dimostra, negli Eloges académiques (commemorazioni per accademici scomparsi), una capacità di sintesi ed una verve di esposizione che attraggono e seducono. Il capolavoro è forse gli Entreetiens sur la pluralité des mondes ( Conversazioni sulla pluralità dei mondi: difesa del copernicanesimo).
Anche questo è stato il contributo della Francia alla diffusione dell’Illuminismo: lo spirito brillante, satirico, salottiero, frutto di una mente lieta ed intuitiva, ma semplificatrice e riduttiva, che abbassa i sistemi filosofici a slogan pubblicitari o quasi, sicchè, banalizzando le ideologie, le rende tanto accette alle masse, quanto estreme nelle conseguenze. Vedremo, nella prossima nota, i grandi protagonisti delll’Illuminismo francese: da Montesquieu a Voltaire, dagli Enciclopedisti a Rousseau.
[18] Charles Louis de Sécondat, baron de la Brède et de Montesquieu (1689-1755) con le sue Lettres persanes (1721), le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734) e soprattutto con L’Esprit des lois (1748) introduce il concetto della dipendenza delle leggi da fattori storico-geografici, con oblio totale della libertà umana che, a tali fattori ritenuta tradizionalmente superiore, viene ad essi sottomessa deterministicamente. Ecco una sua espressione: “Les lois sont des rapports necessaires qui dérivent de la nature des choses”. La genialità del precetto sulla separazione dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) e la ragionevolezza di altre esigenze che campeggiano nelle sue dottrine (meglio una monarchia moderata, perchè più pronta a rispondere a sfide e necessità, che non un organo collegiale; opposizione alle “lettres de cachet” – imprigionamento senza processi, pel solo ordine del re- e ad ogni dispotismo; contrarietà alla guerra, alla tortura, al pauperismo, ed alle pene barbare) rendono famoso il suo pensiero e lo diffondono anche nelle sue parti più arrischiate e discutibili.
Di François-Marie-Arouet, dit Voltaire (1694-1778) abbiamo già consideraa la biografia, ma in scorcio, cioè per documentare la crisi di potere della Chiesa nella società francese, a livello di censura e di potere inibitorio contro i nuovi eretici (p. 6, nota 2). Completiamo ora qui alcuni dati della vita, del carattere e delle opere. L’Arouet fu il solito studente universitario di legge, che abbandona gli studi per dedicarsi alle lettere. Ma, libertino e scanzonato (nel 1718, a 24 anni, volle assumere il nome di Monsieur de Voltaire) divenne presto la preoccupazione del padre, dei politici e degli educatori (era stato alunno dei gesuiti nel collegio “ Louis-le-grand” di Parigi). Dapprima è l’ode contro il Reggente; poi lo scambio di insulti a teatro con il cavaliere di Rohan che lo portano alla Bastiglia: ne esce solo a patto di non rientrare a Parigi e se ne va in Inghilterra per tre anni (1726-9), divenendo adepto dell’Illuminismo e lottatore unilaterale contro il fanatismo. Del poema Enriade, su Enrico IV, si è detto. Delle 24 Lettere filosofiche od inglesi (1734), sette sono contro la religione di stato cattolica, mentre del tutto ignorato è l’Anglicanesimo di stato, con persecuzione contro cattolici e presbiteriani, in Inghilterra. Le altre lettere criticano politica, società, costumi, letteratura.. In Inghilterra scrive anche la Storia di Carlo XII (romanzata) e l’unica opera teatrale ancora rappresentata abbastanza regolarmente, Zaire (il suo capolavoro tragico). La sua prima tragedia, Edipo, era già una polemica alla moda: esplicitamente contro le superstizioni pagane, implicitamente contro l’eccesso di timore che aduggiava il credo giansenista e, più in generale, contro sacerdozio e profezie cristiane. Brutus (1730) e Giulio Cesare (1733) erano invece contro il dispotismo politico. Seguono Alzira (1736); Maometto (1742), che fece grande scalpore; Merope (1743). La tragedia più tardiva sono Gli sciti (1767). Dopo la condanna (per le Lettere filosofiche o inglesi) e la fuga che finisce a Chatelet, presso la marchesa di Cirey, egli si rivela ottimista, epicureo, soddisfatto: si vedano i libri del tempo (Le mondain: 1736; Discours en vers sur l’homme: 1738). Ma scrive anche il Trattato di metafisica| Elelmenti della filosofia di Newton| Metafisica di Newton: ivi sono esposte le tesi essenziali del suo deismo: Dio come grande “orologiaio” del mondo, che lo crea e lo abbandona al suo meccanismo immutabile e determinato; teorizza, con Locke, la presenza del pensiero già nella materia e, più coerente di quello, la materialità e mortalità dell’anima.
L’ammissione a corte avvenne per la chiamata a ministro degli esteri di un suo compagno di collegio (il D’Argenson); ma ben prsto si attira antipatia e sospetti: deve ritornare a Cirey. Scrive, allora meno ottimista, il racconto in prosa Zadig (autobiografico, anche se ambientato in Oriente). A Berlino termina il capolavoro storiografico, “Le siècle de Louis XIV: nato come elogio totale per il “re sole” ed il suo governo illuminato, continua poi con minor ottimismo e finisce con cinque capitoli di condanna sulla politica religiosa (la lotta contro i Giansenisti). A Ferney, migliora l’agricoltura, introduce l’industria ( concerie e produzione di calze da seta), elevando la vita del villaggio, sicchè diviene quasi un patriarca, padrone riverito e benefico, oltre che famoso letterato e filosofo: riceve visite da ogni parte d’Europa. Il che non gli impedisce di arricchirsi con la partecipazione azionaria alla tratta degli schiavi, dalle coste dell’Africa alle Americhe. Egli scrive dei negri “I negri sono, per natura, gli schiavi degli altri uomini. Essi vengono dunque acquistati come bestie sulle coste dell’Africa” (Saggio sui costumi). E non meno atroce è contro gli ebrei: il capitolo dell’antisemitismo laico è iniziato da lui, al punto che uno storico francese, Henri Labroue, all’epoca in cui il Nazismo dominava la Germania (1942), potè scrivere un libro troppo ben documentato, dal titolo “Voltaire anti-juif”. Ad esempio, 30 delle 118 voci del suo Dizioanrio filosofico (1769), attaccano gli ebrei (”popolo ignorante e barbaro... il più abominevole popolo del mondo”). C’era di mezzo anche un episodio poco onorevole in materia, che finisce per confermare i vizi dell’uomo, “ corrotto all’ingrosso” pur sulla soglia dei sessanta anni. Ospite di Federico II, in combutta con un ebreo, “organizzò ai danni dello Stato una truffa sui titoli pubblici. Truffato a sua volta, dovette comparire in tribunale e il suo odio verso ogni israelita divenne implacabile” (V. Messori, Pensare la storia, Cinisello Balsamo, Ediz. paoline, 1992, pp.232-4).
Nel citato “Essai sur les moeurs” (1756), i 197 capitoli dedicati a madame de Chatelet dovevano essere un manuale di storia universale e diventano, invece, una storia della civilizzazione ove, più che le guerre, importano i progressi della pace (arti costumi, lettere, scoperte e invenzioni); e, accanto all’occidente, è sviluppata la storia orientale. E’ questo il colpo di genio che innalza la ricerca erudita ad opera storica. Alla base, sta il pirncipio che non la bontà o il peccato dettano (con la Provvidenza: vedi la filosofia della storia di Bossuet, nel celebre “Discorso sulla storia universale”) il progresso-regresso delle nazioni, ma la ragione. E vi si lotta, come al solito, contro il fanatismo e la intolleranza. Ancora nel 1756 pubblica il poema “Sur le disastre de Lisbonne” e, sempre in versi, La legge naturale: il terremoto della città lo porta a negare l’ottimismo del “Mondano” e la Provvidenza (problema del dolore degli innocenti). Ma non sarà anche perchè Voltaire, passati i sessant’anni, declina nelle forze neurobiologiche, senza che una fede sicura in Dio o nell’umanità lo sostenga? Satiro disinvolto a vent’anni, comincia a diventare un salice piangente a sessanta, per finire disperato nei tempi della malattia finale, ad 84. Nel 1759 pubblica il capolavoro narrativo, Candide, che conferma il suo pessimismo nelle disavventure del protagonista, di Pangloss e dei due figli del barone “de Thunder-ten-tronck” nella Vestafalia: la conclusione è rassegnata: “Il faut cultiver notre jardin”. A cavallo del Candido, fra il 1748 ed il 1767, pubblica altri racconti filosofici: Zadig| Memnone| Micromega| L’ingenuo| L’uomo dai quaranta scudi. Ma è anche l’anno di un’altra opera storica: Storia della Russia sotto Pietro il grande. Da Ferney egli lancia dei pamphlets in difesa di (probabili) condananti innocenti per motivi anche relgiosi (ed ecco allora il suo arringare contro la Chiesa “Ecrasons l’infame!”; ed il profetizzare acremente, nel 1773: “Nella cultura nuova, non ci sarà futuro per la superstizione cristiana. Io vi dico che, tra vent’anni, Il Galileo sarà spacciato”: V. Messori, cit. p. 51). Scrive ancora (tra il 1763 e il 1772) le Idee repubblicane|Questioni sui miracoli| Filosofia della storia| Il filosofo ignorante| A.B.C.| Bisogna prender partito. Ma le più importanti opere di Ferney sono il Trattato sulla tolleranza (1763) e il Dizionario filosofico (1769).
Che giudizio darne? Forse fu troppo filosofo per essere un grande poeta (Zaire è l’unica opera teatrale ancora rappresentata; Candido interessa forse più per il contenuto, anche osceno, che per l’arte) e troppo poeta per essere un grande filosofo. O forse fu troppo maligno per essere obiettivo e troppo egoista per comprendere a fondo l’uomo: se dai frutti si conosce l’albero, la sua opera va giudicata a confronto della rivoluzione francese: egli è il disorientato sobillatore che più l’ha preparata. Per la superficialità delle sue obiezioni, citeremo, nel testo, il famoso dilemma sulla “virtù della fede”.
Per il ruolo di J. J. Rousseau nei confronti dell’illuminismo, parleremo a proposito dei precursori del Romanticismo.
Invece vogliamo distenderci ancora un momento sulla avventura della “Encyclopédie” (e basta la parola: quando si cita il sostantivo, senza aggettivo, ci si riferisce per antonomasia a quella francese del Millesettecento). Si tratta di 17 volumi di scritture, usciti fra il 1751 ed il 1765, più 11 volumi di illustrazioni, usciti nel 1772. Il libraio-editore Le Breton pensava ad un’opera semplice, che aggiornasse il Dizionario di Pietro Bayle o quello di Trévoux (quest’ultimo, edito dai gesuiti, che pubblicavano anche il Journal de Trévoux). Per lui, tale lavoro poteva consistere semplicemnete nel tradurre la Cyclopedia uscita a Londra nel 1727. Egli si rivolse a Denis Diderot. Questi visse fra il 1713 ed il 1784; fu scrittore di 2 drammi (Fils naturel| Père de famille –che danno inizio al dramma borghese); e di 4 romanzi (fra cui Jacques le fataliste et son maitre| Le neveu de Rameau), nonchè di opere di carattere misto fra letteratura e filosofia, in cui il dialogo è spontaneo e affascina, perchè rivela un grande senso critico, che giunge a rendere verosimili i dubbi su ogni affermazione, comprese quelle favorevoli alle tesi dell’autore. Ebbene, il Diderot non esitò ad optare per un’opera originale e, divenuto il direttore della Enciplopedia, ne fu anche in buona parte il redattore. Raccolse attorno a sè un esercito di collaboratori, sebbene non tutti d’uguale valore (D’Alelmbert la definì “un habit d’Arlequin”): i due “matadores” dell’illuminismo, Voltaire e Rousseau vi misero mano (Rousseau per la parte musicale). L’opera camminò fra tempeste politiche e religiose, ma con appoggi massicci di sottoscrittori. Tra i collaboratori principali si ebbero Jean Baptiste le Rond, dit d’Alembert (figlio naturale di madame de Tencin: 1717-83), che era un matematico famoso, accademico di Francia: ateo e materialista come Diderot; Claude Arien Helvétius (1715-1771), un miliardario, fermiere ed appaltatore generale (sensista ed utilitarista, scrisse De l’esprit); e il barone Paul Henry d’Holbach (di Hildesheim) che era un chimico e mineralogista. Vi furono, inoltre, Jean-François Marmontel (1723-99), letterato e poligrafo; Louis, chevalier de Jeucourt (1704-1779); l’abate André Morellet e l’abate de Prades (1720-82) per la teologia e la metafisica; Anne-Robert-Jacques Turgot (1721-81), seguace del Quesnay (François: 1664-1719), per la economia; gli abati Gabriel Bonnot Mably (1709-85) e Guillaume Raynal (1713-96) per le dottrine politiche (essi sostenevano un comunismo egualitarista); Antoine Nicolas Condorcet (1743-94), condannato alla ghigliottina e trovato morto in carcere durante la rivoluzione: era il marito di Sofia, divenuta, poi, l’amante di Claude Fauriel, l’amico di Manzoni) per la filosofia –ottimistica!- della storia; ed Etienne Condillac (1715-80), il famoso abate sensista della corte di Parma.
[18]Altri esempi del “pirronismo storiografico” cita il Croce, dall’abate Vertot a Paul-Louis Courier (oltre la “Teoria e storia della storiografia”, si veda La filosofia di G. B. Vico, p. 161; e La Storia come pensiero ecome azione, p. 2). Questo non toglie che lo stesso Voltaire fosse uno storico appassionato e scrivesse volumi storiografici molto importanti.
In Italia, tale scetticismo non ebbe seguaci, perchè il buon senso limitava i danni del razionalismo. Rimandando ad altra nota i due principali, L.A. Muratori e G. B. Vico, ricordiamo Pietro Giannone, il polemista della storia dei rapporti fra Chiesa e stato nell’Italia meridionale (Istoria civile del regno di Napoli: 1723); Saverio Bettinelli (Del risorgimento d’Itlia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille:1775); Pietro Verri: Storia di Milano (vol. I: 1783; il II vol. fu finito da P. Custodi ed edito nel 1798); Carlo Denina (1731-1813: Delle rivoluzioni d’Italia: 1769-72).
E molti, anche in Italia, furono quelli che scrissero autobiografie. G. B. Fagioli (Firenze: 1660-1742): commediografo, oltre alle 19 commedie ed alle rime bernesche, ci lasciò Memorie e ricordi). Lorenzo Da Ponte (Ceneda –oggi Vittorio Veneto- 1749- New Kork, 1838: Emanuele Conegliano, nato ebreo e battezzato col nuovo nome, si fece prete per amore dello studio; per errori di dottrina e di malcostume, dovette esulare anche da Venezia e finì, dapprima, a Vienna come poeta di corte, scrivendo libretti per musicisti come Antonio Salieri, W. Mozart e G. B. Martini: Don Giovanni| Le nozze di Figaro| Così fan tutte); morto Giuseppe II, emigrò a Londra e, poi, negli Stati Uniti, dando lezioni di italiano e tenendo corsi su Dante): Memorie (meno affidabili per le notizie sull’autore, interessano per i costumi e la cultura del tempo); Giacomo Casanova (Venezia, 1725- Dux, in Boemia,1798): con Cagliostro, è l’avventuriero per eccellenza del secolo; nei Mémoires, in francese, ci ha lasciato una pittura impudente di se stesso e di parte del secolo (chè l’altra parte a lui non interessa): fino a che punto sono accettabili molti dati su avventure –specialmente femminili- che tendono a fare dell’autore un mito?. G.B. Vico dettò la sua vita fra il 1725 ed il 1731 (Autobiografia: ha di mira la narrazione delle tappe nella ocnquista della sua intuizione sulla storia spirituale eterna della umanità, che esamineremo a suo luogo). Carlo Goldoni, anch’egli autore di Mémoires, che sostanzialmente espongono le tappe della trasformazione della commedia dell’arte in commedia regolare (1787). Vittorio Alfieri nella Vita ci ha lasciato la storia della sua maturazione da signore dissipato perchè senza scopo nella vita, alla conquista di un “amore degno” (Luisa Stolberg) e soprattutto alla scoperta della sua vocazione a scrittore di tragedie. Ma dovremo riprendere l’analisi della “Vita”, perchè anch’essa ha un plus-valore artistico non trascurabile, oltre ad essere, con le Lettere di Giuseppe Baretti, un precorrimento dello stile manzoniano che tuttora usa nella lingua italiana.
[20] Ecco le date per le vicende fondamentali dell’opera: 1746: concessione del sigillo di privilegio; 1750: Diderot lancia il “Prospetto” per raccogliere le sottoscrizioni; 1751 (1 luglio):esce il primo volume, col Discours préliminaire del d’Alelmbert; 1751 (ottobre): esce il secondo volume; i Gesuiti protestano; 1752 (febbraio): ordine di sospensione, per motivi relgiosi; 1752 (maggio): intervento di madame di Pompadour, amante di Luigi XV: la pubblicazione riprende ed entro il maggio 1757 escono altri cinque volumi, senza che venga ritirato l’ordine di sospensione del Consiglio di stato!; 1758: esce il libro dell’Helvetius “De l’esprit”, di chiara impostazione materialistica e, per conseguenza, l’Enciclopedia viene di nuovo proibita. Anche papa Clemente XIII condanna l’opera, che viene pure attaccata da uomini in vista e brillanti scrittori; ne seguono crisi ed abbandoni di collaboratori, ma pare che ormai uomini di governo fossero cointeressati finanziariamente all’impresa: l’opera, proibita, prosegue la stampa clandestina degli ultimi dieci volumi, completi nel 1765. Nel 1772 finiscono di essere stampati i volumi di illustrazioni per incisione. Nel frattempo i Gesuiti erano stati espulsi da mezza Europa e l’anno dopo Clemente XIV ne decretava addirittura la soppressione!
Ebbe riedizioni e traduzioni e fu un grande successo editoriale e culturale, anche se è lecito ai credenti affermare che fu un disservizio complessivo alla verità totale e, in definitiva, alla civiltà umana. L’aver essa favorito la rivoluzione francese è una prova, per i cristiani e non solo, senza appello. I princìpi direttivi sono così riassumibili: il progresso è dovuto alla ragione (non alla fede od alla virtù morale); la tolleranza relgiosa è un diritto che va inbtrodotto in ogni stato; così pure la libertà politica; la morale “naturale” ha una interpretazione nuova: lo spontaneo acconsentire alle passioni genera il progresso (quale?) automatico della umanità.
[20] In realtà, siccome gli animali hanno i centri emozionali, ma non la capacità nè di produrre nè di giudicare opere d’arte, si deve pensare che la “impressione” emotiva sia seguita da un rimando così celere alla facoltà razionale, che la percezione del valore artistico (o no) dell’oggetto in considerazione sia, anche in questo caso, un fatto di intelligenza umana e non solo di impressione sensitiva. Ma tale coinvolgimento immediato della intelligenza ci resta inconsapevole e il giudizio che noi pronunciamo con la ragione sembra proprio essere il puro riflesso della sola centrale emotiva nell’ipotalamo. Nasce da qui, ci semnbra, quella mentalità, tuttora persistente anche presso gente colta, che il giudizio artistico sia soggettivo e che il valore estetico non sia un assoluto o, tanto meno, una qualità dimostrabile: è, questa, una opinione utilissima alle case che gestiscono le aste pittoriche od alle editrici che debbono far considerare capolavori tutti i libri letterari che pubblicano, ma essa rimane una opinione deleteria, che ha condotto il secolo ventesimo ad aberrazioni pseudoartistiche anche più gravi di quelle del barocco (figurativo e letterario) nel Milleseicento.
21) La importanza assunta dalle scienze (a cominciare da quelle matematiche) nella mente del razionalista Kant non è dunque, discutibile: il modello di conoscenza umana è quello matematico-scientifico. Ma essa è, poi, inficiata dal fatto che egli considera anch’esse risultato di un dato oggettivo (dei sensi) e di una manipolazione soggettiva (“forme a priori della ragione”), ciò che rende anch’esse inaffidabili e problematiche. Il suo agnosticismo nasce da una concezione autolesionista del meccanismo di tutto l’umano conoscere, di cui le conoscenze scientifiche restano però sempre quelle esemplari: la filosofia ne è l’analogato minore.
Il prospetto di conquiste scientiche e tecniche nel secolo XVIII, che proponiamo di seguito nel testo, lo prendiamo per lo più da Storia popoli culture, II, di Mario Bendiscioli e di Adriano Gallia, Milano, Garzanti, 1972-3.
[22] Gli si oppose la gerarchia anglicana, che ne bruciò il manoscritto del secondo volume. Tra gli oppositori del Tindal in Inghilterra, Giorgio Berkeley (vescovo anglicano: 1685-1753: Alcifrone, 1732| Siris: 1744) ricorre all’argomento pendolarmente opposto: incapacità della ragione a conoscere la realtà ed a stabilire delle verità (esse est percipi). Joseph Butler, invece (1692-1752, anch’egli vescovo anglicano) sostenne la complementarità fra ragione e rivelazione (Analogia della religione, naturale e rivelata, con la costituzione e il corso della natura: 1736).
[23] Ci pare che tali princìpi si possano ridurre ulteriormente a due soli: esistenza di Dio ed immortalità dell’anima; gli altri tre princìpi sono deducibili facilmente. E, allora, entrambi i princìpi, mostrano o l’influsso del cristianesimo od una incompletezza davvero sorprendenti. L’influsso cristiano è intuibile nel rifiuto del “politeismo”, errore che è praticamente parte di ogni religione, al di fuori della Rivelazione ebraico-cristiana (si deve sospettare che anche il Musulmanesimo abbia dedotto il monoteismo dall’incontro con ebrei e cristiani). Altro che “ragione pura”! Essa lavora con l’eredità inconscia della Bibbia. L’altra osservazione riguarda, invece, la astrattezza di “virtù e peccato” che vengono creduti ovviamente evidenti alla coscienza di ognuno, mentre era sospettabile a priori (ed è confermato a posteriori) che, senza la rivelazione del Decalogo, perfezionato dalla carità evangelica, la “conoscenza” di doveri e diritti, di virtù e vizi abbandonata alla sola riflessione (coscienza) razionale sarebbe giunta in un vicolo cieco, in cui ognuno si forma una onestà a misura di se stesso: predica come morale quel “ giusto mezzo” dove egli si trova e ci sta bene. Quanto alla negazione della Provvidenza, vi è pure il precedente della filosofia pagana: ma per Aristotele Dio non può intervenire nella storia, perchè non è concepibile che lo Spirito assoluto entri in contatto con la materia corruttibile del mondo; per gli illuministi, il motivo è il determinismo meccanicistico: di Dio, suo creatore, il mondo non ha più bisogno.
Una terza osservazione ci sembra da avanzare: una simile religione abbandona completamente il concetto di peccato originale. Il più esplicito negatore di tale dottrina sarà Rousseau, ma già il Tindal lo definirà un mito da rifiutare come forma di ingenuo primitivismo, del tutto irrazionale. E’ qui il punto di riattacco tra le vicende della cultura occidentale dal Rinascimento all’Illuminismo: nella mentalità rinascimentale, l’abbandono della dottrina del peccato originale era un fatto inconscio, anche se decisivo per definirne la novità rispetto al cristianesimo medioevale; ora la negazione è cosciente e recisa, con una accelerazione degli effetti di tale posizione intellettuale rispetto alla concezione dell’uomo (della antropolgia). A Pascal, al giansenismo, al calvinismo e protestantesimo tutto che hanno accentuato le conseguenze della colpa prima fino all’assurdo, si contrappone (in Voltaire, certo anche per reazione al pessimismo giansenistico) il rifiuto totale di una dottrina di cui Pascal affermava: “non è possibile capire il mistero dell’uomo (contrasti esistenziali congeniti nella natura umana, tra verità esigite e dubbio-errore raggiunti,; fra tensione alla felicità e realtà di sofferenza e di morte; fra inclinazione al bene e opere di peccato), se non si accetta il mistero di Cristo (che ci redime appunto dalle conseguenze del peccato originale)”.
[24] In Germania, il deismo, conosciuto per l’opera “Il cristianesimo senza misteri” di J. Toland, si propagò in forme moderate, di cui il maggior rappresentante è Cristiano Wolff (Teologia naturale: 1736-7) e Moses Mendelssohn (Ore mattutine o lezioni sull’esistenza di Dio: 1785) e Gotthold Ephraim Lessing (1729-81: Il cristianesimo della ragione... |Dialoghi per massoni) che concede alle religioni infantili (quelle rivelate) la funzione di preparare l’avvento della pura religione della ragione matura. Deista all’estremo, in Germania, è Hermann Samuel Reimarus (1758-1823).
In Italia, dichiaratamente atei sono l’Alfieri e Ferdinando Galiani (1728-87); quest’ultimo, però, rivela il suo materialismo scettico non egli scritti a stampa, ma nelle lettere private.
[25] A chi desiderasse sapere quale sia la posizione attuale della Massoneria a proposito di fede relgiosa, si deve rispondere che, ufficialmente, la grande Loggia inglese si professa addirittura “teista”. In concreto, però, fuori dall’Inghilterra, si ebbe nel corso della seconda metà del Milleottocento una involuzione in senso positivista e, quindi, ateo. Si ebbe, per questo, una frattura in Francia : la Loggia, fedele al deismo, opposta al “Grande Oriente”, più o meno miscredente. In Italia si ebbe pure la frattura, ma oggi non pare ci sia, in materia, molta distinzione fra le due obbedienze massoniche.
[26] Si è già detto del pessimismo storiografico e altro si può aggiungere (sulla scorta sempre di B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari, Laterza, 1917,pp. 223-41; La filosofia di G. B. Vico, ivi, 1911, p. 161; La storia come pensiero e come azione, ivi, 1938, p. 2...). Ma si è già visto che in Italia tale scetticismo (incapacità dell’uomo a raggiungere certezze sul proprio passato) non attecchì. Ebbene, il più grande erudito del tempo circa la storia (non solo in Italia) fu Ludovico Antonio Muratori, nato a Vignola (Modena) nel 1672 e morto a Modena nel 1750. Sacerdote fedele (laureato in utroque iure, cioè in diritto canonico e civile), fu prevosto esemplare (S. Maria della Pomposa) a Modena e fondò anche una Compagnia della carità, per malati e bisognosi, mentre di persona visitava i carcerati. Favorì la predicazione di p. P. Segneri e scrisse libri di devozione: contrario alle superstizioni, lontano da forme mistiche, egli è però disponibile ad una dogmatizzazione della dottrina dell’Assunzione di Maria. Divenne dottore della Biblioteca ambrosiana di Milano (dal 1695 al 1700) e fu poi chiamato a Modena come direttore dell’Archivio e della biblioteca estense. Fondatore della storiografia moderna (basata sulla ricerca e collezione di tutte le fonti conosciute, della loro eventuale pubblicazione filologicamente corretta e della lettura critica delle stesse, tenendo presenti gli apporti delle scienze ausiliarie, come la diplomatica, la numismatica e la epigrafica), il Muratori, per suo conto, è molto sensibile anche alle dimensioni sociali offerte dai testi (costumi e condizioni di vita del popolo minuto). Si formò alla scuola di p. Benedetto Bacchini (bibliotecario del duca di Modena) e conobbe il lavoro dei Bollandisti e dei monaci Maurini. Rimandando le opere letterarie alla sezione del pensiero estetico del secolo, limitiamoci alle principali opere storiche. A parte le dieci biografie (dal Petrarca a p. Segneri junior) e le due collezioni di Aneddoti (Anecdota latina: 4 volumi; graeca: 1 vol.: fra il 1797 ed il 1713), l’opera che gli ottenne fama sicura fu il primo volume sulle Antichità estensi (1717: il secondo apprirà solo nel 1740), sulle origini del casato e del dominio estense. Interessato alla pura verità storica, si trovò a sostenere i diritti su Comacchio del ramo estense cadetto, rimasto a Modena e Reggio, dopo che nel 1597 la S. Sede si era annessa Ferrara, come feudo della Chiesa, vacante per la estinzione del ramo principale. Comacchio (come Modena e Reggio) era feudo imperiale e, coma tale, non soggetto a devoluzione alla S. Sede. Non fu l’unico caso in cui il Muratori scontentò qualche devoto, anche altolocato, ma la sua ortodossai sicura (combattè il giansenismo come l’empirismo di Locke) e la sua vita illibata gli evitarono qualsiasi denuncia o richiamo e, anzi, gli attirarono la stima altissima di papa Benedetto XIV.
Nel 1721 firmò il contratto col principe Teod. Aless. Trivulzio per la pubblicazione dei Rerum italicarum scriptores, cioè della edizione di tutte le opere attinenti la storia d’Italia dal 500 al 1500. Fra il 1721 ed il 1738 comparvero 27 volumi in folio ed un 28 fu preparato, ma potè uscire solo postumo nel 1751. Col materiale raccolto, pubblicò fra il 1738 ed il 1739 sia le Antiquitates italicae Medii Aevi (75 dissertazioni su questioni che spaziano dal problema di fonti paleografiche a quelle giuridiche, a quelle su costumi e vita del popolo) che il Novus thesaurus veterum inscriptionum (Nuova raccolta di iscrizioni antiche), in sei volumi ciascuna. In 12 volumi in quarto, pubblicò poi, fra il 1743 ed il 1749, gli Annali d’Italia, storia annalistica dell’Italia dall’anno primo dell’era cristiana al 1749: la ricchezza di notizie, (che vanno ben al di là delle guerre e lotte di potere, toccando la moralità e la religione, le condizioni del popolo nella cultura e nel benessere...), l’obiettività dei dati, la chiarezza di esposizioni ne fanno un’opera preziosissima, anche se di erudizione soltanto: il Muratori non si preoccupa di stabilire rapporti di causa ed effetto tra gli avvenimenti; gli basta aver dei dati da esporre.
[27] Nato a Ribemont in Piccardia nel 1741 e dedicatosi agli studi matematici, a 27 anni era già membro dell’Accademia di Francia. Partigiano degli enciclopedisti (Lettres d’un théologien: 1771), curò anche la edizione delle opere di Pascal e scrisse la biografia di Turgot e di Voltaire. Partecipe della rivoluzione, ma di spirito moderato, pubblicò un Raporto sulla istruzone pubblica e lavorò alla stesura della Costituzione, ma cadde in disgrazia quando trionfò la Comune. Dopo un periodo di latitanza, in cui scrisse l’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, venne incarcerato e fu trovato morto avvelenato in prigione. Aveva 53 anni e lasciava la giovane moglie Sofia, che prese la direzione di quel gruppo di liberi pensatori definiti sprezzantemente “idéologues” da Napoleone. Divenuta l’amante di Claude Fuariel, ebbe la ventura di avere fra i suoi frequentatori anche Alessandro Manzoni, che proprio da uno scambio di battute sul tema religioso, avvenuto nel suo salotto, iniziò il cammino di conversione. Nello “Schizzo” egli tenta di dividere la storia umana in nove epoche, dalla società della pastorizia alle rivoluzioni americana e francese, prodromi della decima futura epoca della felicità totale (eguaglianza fra gli uomini, sviluppo delle facoltà umane tutte...).
[28] D’altronde le contraddizioni del razionalismo affiorano già prima della Critica della ragion pura di Kant, che ne è solo la sistemazione finale. Cartesio ha rotto l’armonia tra sensi e ragione, tra anima e corpo, tra spirito e materia. Ne conseguono due sistemi filosofici (empirismo e razionalismo preidealistico) che sottolineano ciascuno la componente più congeniale, fuori dell’equilibrio del “sìnolo” umano, che risulta dalla unità delle due dimensioni. Da una parte, si ha l’empirismo di John Locke (1632-1704) e di David Hume (1711-1776); dall’altra, il presentimento dell’idealismo in Nicola Malebranche (1638-1715), in Wilhelm Leibniz (1646-1716) ed in Baruch Spinoza (1632-1677). Nei primi, la certezza è nelle sensazioni, di cui le idee sono elaborazioni a fine pratico-utilitario, ma senza sicura corrispondenza nella realtà; l’unica garanzia di certezza è allora (per i secondi) o la fede in Dio (Malebranche), che coordina materia e spirito direttamente; o la riduzione della realtà al solo spirito (le monadi di Leibniz); o il panteismo, per cui mondo e Dio si confondono, in paralllelismo di essere ed operare (Spinoza).
Oltre tutto, si osserverà il ritorno dell’astigmatismo, nell’intersse dei due gruppi per due differenti classi di cause: l’empirismo è assorbito dalla preoccupazione per stabilire le cause efficienti; il razionalismo preidealistico ha a cuore le cause finali. Segno ulteriore che l’equilibrio del pensare è rotto ed ognuno sottolinea nella sua indagine gli aspetti più congeniali alla propria intelligenza, sottovalutando od emarginando quelli complementari, che sono altrettanto reali. Il pensiero umano comincia ad oscillare pendolarmente da un estremo all’altro, inutilmente cercando di riacciuffare la conoscenza-concezione equilibrata del reale (nella sua complessità di esistenza ilemorfica) in un andirvieni di sistemi filosofici opposti, di cui non si vede la fine a distanza di oltre tre secoli.
[29] Per altri autori, opere e passi, cfr. Enciclopedia Garzanti di filosofia, alla voce Libertà.
[30] Per intuire il graduale, coerente sfaldamento della libertà, unilateralmente concepita come solo esteriore e politica, si osservi la enunciazione ingenua di Vittorio Alfieri: “Opinioni, quante se ne vuole; individui offesi, nessuni (sic); costumi, rispettati sempre. Queste sono state e saran sempre le sole mie leggi; nè altre se ne può ragionevolmente ammettere nè rispettare”. Si deve opporre a tanta sincera ingenuità: 1) tra le opinioni, ammetteremo anche la espressione di quelle favorevoli al suicidio? od alla rivoluzione violenta? od alla concezione comunistica della proprietà privata come “furto”? E che giudizio ebbe mai a dare l’Alfieri della professione giornalistica e del loro rispetto per la verità e la privacy? (lo citeremo) 2) Che direbbe l’Alfieri se, travasatasi la morbida interpretazione liberale dell’Illuminismo nella sbracata lettura radicale, fosse posto dinanzi alla diffamazione sistematica di ogni personaggio pubblico, divenuto l’allettamento più usato per “acquisire” lettori paganti dei giornali e per fare “audience” alla televisione? 3) Nelle sue opere, bisogna ammetterlo, l’ Alfieri ha rispettato i costumi meglio che nella sua vita pratica. Che cosa direbbe della pornografia subentrata poco a poco, ma inesorabilmente e, dopo l’avvento del cinema e della televisione, imperversante nel mondo occidentale postilluministico? Eppure non si può negare che, poste le premesse, il libertinaggio, sessuale e no, sia una conseguenza coerente: la vita umana è dominata da una forza inesorabile: la logica, la consequenzialità, la “coerenza”, appunto.
[31] Di Jean-Jacques Rousseau parleremo a suo luogo come di un precursore del Roamnticismo. Questo vale per certi aspetti clamorosi della sua prospettiva antropologica. Ma vi sono poi contraddizioni in questo pensatore più originale che sistematico, sicchè molta parte del suo pensiero rientra senza molti sforzi nella diffusa mentalità razionalistica.
[32] E’, quindi, dai borghesi più o meno atei che Marx deriva la calunnia “la religione è l’oppio dei popoli”: la Chiesa (se non tutti gli uomini di Chiesa) ai poveri era vicina per la istruzione ed il soccorso ragionevole e disponibile; e minacciava l’inferno agli sfruttatori dei bisognosi, mettendo tra i “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” anche la “oppressione dei poveri ed il defraudare la giusta mercede agli operai”.
L’espressione di Necker è tolta da F. Moroni, Corso di storia, Torino, SEI, 1960, II, p. 381, nota. Vedremo ben presto che nel Beccaria la propensione a negare privilegi alla nobiltà e, addirittura, a mettere in dubbio il diritto di proprietà privata, nasce da vera compassione per i poveri: il suo è un egualitarismo moderato, consono con la carità evangelica.
[33] Tra i giustiziati della “partenopea” ci fu anche Vincenzo Russo (1770-1799), che nei Pensieri politici presuppone uno stato buono di natura che, però, sulle orme del Vico e diversamente dal Rousseau, si perfeziona nella vita sociale.
[34] In realtà l’Esame critico era stato scritto da d’Holbach e G. A. Naigeon. La risposta dello Spedalieri difende la storicità dei libri del Nuovo Testamento. L’opera uscì che l’autore era già socio dell’Arcadia romana col nome di Melanzio Alcioneo: a Roma era approdato per i contrasti suscitati a Monreale (ove era stato chiamato ad insegnare matematica, filosofia e teologia nel seminario che lo aveva visto studente) dalla spietata sincertià del suo parlare: si era anche ventilato l’accusa di errori, che però a Roma furono trovati inesistenti, sicchè egli potè pubblicarvi (in latino) lo “Specimen propositionum theologicarum” (Saggio di proposizioni teologiche).
[35] E’ solo uno dei quattro figli del conte G. Verri: Carlo è il meno citato; Giovanni sarà un libertino gaudente che forse diverrà padre di Alessandro Manzoni con Giulia, la figlia del marchese Cesare Beccaria, già sposata con Pietro Manzoni ma allora di liberi costumi; Alessandro comincerà illuminista, collaborando al Caffè, ma, dopo un viaggio in Francia ed Inghilterra, si ritirerà a Roma, ritornato conservatore e dedito ad una poesia che pretende al classicismo ma finisce per anticipare il romanticismo. Di Pietro stiamo parlando.
[36] Le Meditazioni sulla felicità hanno una prospettiva tipicamente razionalistica, che riassumiamo con Giulio Natali in queste parole: “essere la virtù l’unico mezzo per conseguire la felicità, e la cultura della mente il modo più sicuro per conoscere ed esercitare la virtù” (Il settecento, Milano, F.Vallardi, 1960, p. 256): quanta ingenuità in quella illusione che la cultura della mente sia garanzia di onestà del volere! Purtroppo la storia umana collega, fuori del cristianesimo, crescita della cultura e corruzione dei costumi, da Atene a Roma, dal Rinascimento all’Illuminismo... ai nostri giorni. Con il Vico, (come vedremo) si è costretti a convenire che solo la religione è fondamento alla crescita integrale umana.
[37] Ricito da Fulvio Diaz, Il Settecento, Milano, Garzanti (1976, p. 158). Lo stesso vale per le citazioni seguenti.
[38] Il concetto sarà ripreso da G. Leopardi nella parte ultima de Il sabato del villaggio.
[39] “Discorso sulla felicità”, a pp. 99-101 della edizione (a cura di R. de Felice) “Del piacere e del dolore ed altri scritti” (Milano, 1964). Idee consimili si trovano nelle “Riflessioni sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio dei grani” (“Sarà sempre però vero che la giustizia e l’interesse del sovrano esigono di lasciare ai cittadini la maggior libertà possibile e togliere loro quella sola porzione di naturale indipendenza, che è necessaria a conservare l’attuale forma di governo” (Scritti vari di P. Verri, Firenze, 1854, a cura di G. Carcano: l’ultima frase è un debito pagato al governo austriaco o comunque un metter le mani avanti per non sembrare rivoluzionario).
[40] “Discorso sulla felicità” in “Del piacere e del dolore...”, citato: pp. 118-9. La citazione seguente è da pp. 180-1.
[41] In “A chi legge” (prefazione al trattato Dei delitti e delle pene del Beccaria) i fratelli Verri, che la stesero, dicono esplicitamente “Tre sono le sorgenti dalle quali derivano i princìpi morali e politici, regolatori degli uomini: la rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società..... Sònovi dunque tre distinte classi di virtù e di vizio: religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contraddizione fra di loro: ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall’una, risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione, lo esige la legge naturale; nè tutto ciò che eisge questa, lo esige la pura legge sociale....Dunque l’idea della virtù politica può senza taccia chiamarsi (esser detta) variabile; quella della virtù naturale sarebbe sempre limpida e manifesta, se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero, quella della virtù religiosa è sempre una e costante, perchè rivelata immediatamente da Dio, e da lui conservata.... sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse in senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, invece di prenderlo per un atto nato dalla corruzione della natura aumana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l’imputar a delitto ad uno scrittore che considera le emanazioni del patto sociale, di (=il)non ammetterle prima del patto stesso...”. Visione non solo cartesianamente chiara e distinta, ma tomisticamente vera ed obiettiva. Ma, purtroppo, non osservata con fedeltà da P. Verri nei suoi rivolgimenti mentali, dopo la vittoria delle baionette francesi nel 1796-7; e stravolta, nel senso “hobbesiano”, da tutta la giurisprudenza postilluministica dell’Occidente: l’uomo è lupo e, come non ha facoltà di libero arbitrio, così non ha legge morale interiore; perciò deve essere tenuto a bada con tutti i mezzi perchè conviva il meno dannosamente possibile in società. Prima della società non esiste legge di natura; fatta la società, resta affidato al potere l’arbitrio più ampio per domare la belva umana.
[42] Citata da pp. 205-7 del volume ricciardiano “Riformatori lombardi, piemontesi e toscani”: cfr. p. 15, nota 14.
[43] E’ la lettera XIII, alle pp. 20-29 nella edizione, a cura di Gianmarco Gaspari, del Carteggio di Pietro ed Alessandro Verri, col titolo “Viaggio a Parigi e Londra”, edito da Adelphi, Milano, 1980.
[44] Lettera 1596, nella collezione curata per i Classici Mondadori (Milano, 1970) da C. Arieti, III, pp. 437 e 819. E’ diretta al Cantù. Non si è rintracciato l’autografo e il foglio che la conserva è senza data. Questa testimonianza è di C. Cantù, teste non sempre affidabile: è confermata, però, da questo commento dello Stampa: “Verissimo, ma il signor Cantù si dimenticò di aggiungere che il Manzoni biasimava inoltre il Beccaria di essere stato uno dei primi a toccare il diritto di proprietà, chiamandolo “terribile e forse non necessario diritto” ( cfr: “Dei delitti e delle pene”, c. 30, “Furti”). Stefano Stampa (nelle “Reminiscenze manzoniane” I, p. 10, nota), commenta, approvando, quest’altra affermazione del Manzoni circa la questione della pena di morte: “Scusami, (si rivolge alla mamma Giulia Beccaria), ma con tutto il rispetto a tuo padre, i suoi argomenti per l’abolizione della pena di morte non hanno valore. Non è questa pena sancita anche dalla legge mosaica? Egli stesso poi non la repudiava in certi casi e singolarmente nelle colpe di stato”.
[45] C’è qui una delle novità fondamentali del secondo Illuminismo, quello di Jean Jacques Rousseau, che vuole la società nata da pura convenzione volitiva (contratto sociale), per evitare il peggio. La dottrina tradizionale, da Aristotele alla fede cristiana, ha sempre presupposto un’inclinazione istintiva, spontanea degli uomini tutti a riunirsi: l’uomo è animale politico, cioè socievole; la società è di origine naturale. Prima ancora che per difendersi, l’uomo si aggrega semplicemente per vivere (visto che l’uomo neppure con la sola famiglia riesce a procurarsi tutti i beni minimi a ciò: cibo| pulizia| vestito|temperatura adeguata); e, più in là, per migliorare le condizioni di vita, comunicando invenzioni teoretiche e pratiche che prolunghino la durata della esistenza, alleggeriscano le fatiche del lavoro e accelerino la realizzazione di prodotti necessari|utili al piacere e divertimento, alla riflessione e crescita culturale, alla estensione di rapporti amichevoli con gli uomini tutti ed alla elevazione dell’animo a Dio. Anche a costo di moltiplicare, nella vita associata, gli abusi delle stesse invenzioni, per errori|malizie moltiplicati. Le due concezioni non si differenziano solo alla radice, ma anche in conseguenze sostanziali: la “società connaturata” accetta dalla natura dell’uomo leggi fondamentali necessarie ed immutabili (morale naturale); la “società contrattuale” può crearsi e mutare le leggi ad arbitrio, non avendo un punto presupposto al libero volere umano, cui soggiacere ed ubbidire. E’ ciò che è successo nella seconda metà del secolo XX, in cui l’Occidente ha abbandonato il giuramento di Ippocrate (di Cos: ca 460-377 a. C.) che proibiva ai medici di praticare o favorire l’aborto. Ma che il “contrattualismo” sia concezione artificiale, pare affiorare anche in alcune contraddizioni del Beccaria. Egli, nello stesso c. 2, da una parte nega la esistenza di un “bene pubblico”, per la quale l’uomo avrebbe rinunciato a parte della propria libertà (negazione riportata anche nel testo: “Nessun uomo ha fatto dono gratuito di parte della propria libertà in vista del bene pubblico: questa chimera non esiste che nei romanzi”); dall’altra, parla di “forti impressioni delle passioni parziali, che si oppongono al bene universale”; di “ben pubblico” come ispiratore delle leggi si parla al c. 20. D’accordo: nel c. 21, i giudici sono vindici non della sensibilità degli uomini, ma solo dei patti che li legano fra loro; ma nel c. 23 si riconoscono dei “sentimenti morali”, che riecheggiano i “sentimenti indelebili” presenti nel “cuore umano”, di cui si parla nel c. 2. E nel c.16 egli afferma che per “sentire la verità della mia asserzione” (contraria alla pena di morte) “basta consultare la natura umana” . Si badi che nel contesto “la natura” ed i “sentimenti universali” appaiono come principi psicologici elementari (paura di venir ucciso da chi vuol invadere la propria sfera di libertà; paura maggiore di una pena prolungata tutta la vita che del dolore momentaneo della condanna a morte), mentre i “sentimenti morali” sono “opera di molti secoli e di molto sangue” (non innati, dunque). Questo, però, significa solo che la ragione deve evidenziare quale sia il vero contenuto (o “significato”) di “natura umana” e di “istinto congenito che spinge alla vita associata” ma, nell’inconscio della sua sensibilità elementare, anche il Beccaria non pare avere dubbi sulla esistenza dell’una e dell’altro,: le sue espressioni sono “lapsus”, confessioni involontarie.
[46] Dietro questa affermazione sta certamente la teoria di Tommaso Hobbes (1588-1679), per cui l’uomo è lupo all’uomo e lo Stato sorge quasi come cacciatore, cioè come ordinatore violento dell’uomo selvaggio (Hobbes è il teorizzatore dell’assolutismo di Stato). Beccaria corregge, però, il pessimismo radicale del filosofo inglese e sostiene che basta una limitazione (la minore possibile) della libertà umana, perchè la vita associata ottenga all’uomo sicurezza sufficiente nella libertà (la più grande possibile).
Di “contratto sociale” o della origine pattizia dello stato, Beccaria parla continuamente: si vedano i capitoli 1| 2| 3| 5| 16| 17| 23| 27| 28| 30| 37| 41. Nella prefazione “A chi legge”, il Beccaria sostiene che affermare l’esistenza di leggi pattizie (del “contratto sociale”) non significa negare le norme superiori dettate dalla Rivelazione e dallo studio della natura umana (“Tre sono le sorgenti dalle quali derivano i principii morali e politici, regolatori degli uomini: la rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le latre per rapporto al principal di lei fine... Il considerare i rapporti dell’ultima non è l’escludere i rapporti delle prime due...”). Ma in realtà il Beccaria mette in questione la proprietà privata, (c. 30), l’omicidio ed i delitti contrari alla sicurezza delle persone (cc. 25-30), il sucidio (c. .35), l’adulterio, l’omosessualità, l’infanticidio (c. 36) e le fedi religiose (c. 37): tutte questioni che sono materia sia della legge rivelata nell’Antico e nel Nuovo Testamento che di quella etica (stabilita in base allo studio della natura umana) e che precedono, quindi, la considerazione puramente giuridica, che dovrebbe riguardare solo le questioni subordinate e dipendenti da quelle (loro precisazioni e dettagli), e non una impostazione innovatrice di quei giudizi precedenti eprevalenti.
[47] Tra questi “rapporti immobili” (immutabili) sta la uguaglianza tra gli uomini: “Non vi è libertà ogni qual volta l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa”; il che avviene “ quando il grande (nobile e ricco)” può “mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero”.
[48] In realtà, Beccaria si rivela un dilettante di genio (cfr. “A chi legge”: “ingenua indagazione della verità”, in opposizione ai solenni compilatori di raccolte e commenti delle leggi di Giustiniano –il Corpus iuris- e di Rotari, -l’editto-, citati poco prima), ma disinformato come capita spesso a chi scrive “saggi innovatori” anzichè monografie esaurienti. Ad esempio, quello che lui chiama “diritto di società” (come la proprietà privata) è in realtà un diritto di natura “secondario” rispetto al “diritto di uso”: la proprietà privata è il mezzo normale per esercitare il diritto di uso, che ne è il fine, precedente e prevalente. Alla confusione ed incertezza delle norme morali contribuiva molto l’interferenza della sfera emotiva nei ragionamenti: l’intelligenza del Beccaria (giovanissimo) non riusciva a controllarla pienamente..
[49] Prendiamo atto della chiara opzione repubblicana dell’autore (è forse il luogo più esplicito di tale sua preferenza, che si può, per altro, indovinare anche altrove), anche se ci spiace che il razionalismo illuministico non abbia ricuperato (con un pizzico di ironia eventuale) la sana lezione di Erodoto, circa la equivalenza, vantaggi e svantaggi, di ogni tecnica di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia), con uguale pericolosità di degenerazione (Storie, III, 80-82).
[50] A questo punto, ci domandiamo chi possa ancora ammirare l’educazione di “Stato” che inculca il proprio tornaconto, salvo a costringerti a passare all’estremo opposto, chiedendoti il “fanatismo” di donare la vita per difenderlo (od anche solo ingrandirlo?). Senza lasciarti il tempo di ragionare, a quanto pare, perchè “il fanatismo previene l’azione”. Non siamo sulla linea delle dittature del secolo XX, quando col “fanatismo fascista” (dell’impero) o hitleriano (della razza) o socioimperialista (del marxismo) si sono immolati decine e decine di milioni di “figli di mamma”, cioè di uomini, cui si era fatto di tutto per togliere “lo spirito di famiglia”? Anche questi sono i frutti dell’Illuminismo razionalista.
[51] Si veda anche, nel c. 25, il paragrafo che inizia: “Questo forma le anime libere e vigorose”. Ma la “libertà” è una virtù? Comunque, l’opposizione fra piccole e grandi virtù , fra piccola e grande morale riaffiorerà Italia solo nel corso del Millenovecento, con Elio Vittorini (Conversazione in Sicilia) e con Natalia Ginzburg (Le piccole virtù): le idee del Beccaria erano state esorcizzate dalla bella riuscita della rivoluzione francese, che aveva introdotto la “libertà” del divorzio e, in nome di libertà, fraternità ed uguaglianza, si accingeva a tagliar la testa a tutti...
Si potrebbe tentare un riavvicinamento fra la stima tradizionale per la famiglia e la disistima del Beccaria, attribuendo alla esperienza negativa personale il fatto che a) egli non parli mai dell’amore, della “pietas”, del legame di carità, che è l’essenza del matrimonio ed è il legame degli sposi fra loro e coi figli; b) che, quando parla di qualcosa che si avvicina a tali concetti, si esprime così: “non sussite altro legame comandato, che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine verso i beneficii ricevuti”; c)in compenso, la vede come soggezione e timore, come un essere “alla discrezione dei padri”. La complessiva disistima (per non dire “paura ed avversione”) dello “spirito di famiglia” era, cioè, il frutto attossicato di un costume, quasi esclusivamente nobiliare ed alto-borghese, che vedeva il padre come padrone, la moglie ed i figli come schiavi, sicchè si trattava di una caricatura della vera famiglia, la quale, invece, educando all’obbedienza nella carità, è davvero il “vivaio della società civile” (“seminarium rei publicae”, dice Cicerone), perchè abitua all’ordine, al servizio, al superamento dell’egoismo nella interdipendenza e cooperazione cui ispira autorevolmente e fraternamente costringe. Ma sarebbe un discorso ipotetico ed inattinente: Beccaria non solo non s’accorge che la famiglia “innamorata”, tradizionale, cristiana è ben diversa da quella maschera deforme che lui presenta in questo capitoletto, ma parla di “contraddizioni fra le leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica”, che “sono una feconda sorgente di altre cotraddizioni fra la morale domestica e la pubblica...”. Cioè, purtroppo, la sfiducia del Beccaria nella famiglia è ideologica, non storicamente condizionata. E l’incuria per l’istituto familiare sarà eredità di quasi tutti i razionalisti di ogni tempo (una eccezione è Giuseppe Mazzini: che non era sposato...).
[52] Sinceramente, non abbiamo capito il significato del penultimo periodo. Quanto segue è già stato da noi citato nella nota precedente.
[53] Il 1968, come è a tutti noto, è stato l’anno in cui scoppiò la rivoluzione giovanile, che trovò l’anno seguente nel Festival di Woodstocke (New York) il suo simbolo (la musica “pop”), come espressione di libertà di costume, al di fuori di ogni convenzione e tradizione, di ogni dipendenza dalle leggi morali del Decalogo, specie in campo sessuale.
[54] L’eloquente elogio dei lumi porta con sè la condanna di atrocità dovute ad ignoranza ed implacabile superstizione, con riferimento alla Inquisizione quasi esplicito ( c. 5: “i ministri della verità evangelica, lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine...”); ed alla esaltazione della stampa che combatte “quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze...”. Della prima si è già discusso; contro la stampa, sentiremo a suo luogo un teste non sospetto, Vittorio Alfieri..
[55] Tale “relativismo” etico dovrebbe concludere ad un parallelo (anzi pregresso) scetticismo razionale: se la ragione non sa giudicare su ciò che è definitivamente buono o male, non si riesce a comprendere come possa giudicare su ciò che è definitivamente vero o falso. Comunque la incertezza dei concetti morali è ribadita nel c. 28: “Misera condizione delle menti umane, che le lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno loro con più distinta cognizione presenti, che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse, secondo che i venti delle passioni le sospingano, e l’ignoranza guidata le riceve e le trasmette!” Il nipote, in uno dei Pensieri religiosi lasciati manoscritti, osserva che in realtà anche le regole matematiche sono precise solo in astratto: quando scendono alla applicazione concreta della “casistica”, la geometria è più incerta della morale: la misura di una superficie accidentata (la più solita, trattandosi di determinare il valore commerciale di un’area agricola non perfettamente piana) è tutt’altro che precisa, essendo troppe le variazioni in gioco.
[56] IL Beccaria oppone spesso “passioni” (nel senso di stimoli egoistici, malvagi, ma non necessitanti: chiamate anche “passioni parziali”, fra esse sono citate “la crudele ignoranza e la ricca indolenza”: c. 1) e “sentimenti” (nel senso di spinte ad agire conformi alla natura umana e, quindi, presumibilmente buone). Oltre ai cc. 1 e 2, si veda il c. 41, dove si oppone “il fermento delle passioni che... fanno infiniti mali alla misera umanità” alla “facile strada del sentimento” per la quale bisogna “spingere alla virtù”. Egli nè dà nè lascia intendere definizioni che spieghino le differenze radicali: noi crediamo che sia qui una delle confusioni più deleterie dell’opera e del suo autore.
[57] “Via di indagine o di studio” è il senso proprio di “metodo”, che in greco (méthodos) significa “strada da seguire” (“metà” significa anche “dietro”; “odòs” è la strada).
[58] L’operetta si chiude praticamente con la esaltazione del Rousseau: nel c. 41, dopo averlo messo a capofila delle “anime sensibili e filosofiche”, lo esalta così “Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utili agli uomini...”.
[59] L’esclusione come sospetto di un teste “quando egli sia membro di alcuna società privata, di cui gli usi e le massime sieno o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche” dovrebbe far concludere che il Beccaria non era membro della setta massonica.
[60] Il governo più indiziato in materia era la repubblica di Venezia, dove esistevano punti di deposito per le denunce anonime. Difatti il Fachinei, che rispose dettagliatamente all’opera del Beccaria, era stato a ciò incaricato dal “Consiglio dei Dieci” della città, che un tale capitolo non poteva certo gradire....
[61] Il Beccaria afferma, dunque, di aver già parlato della necessità che la punizione segua prontamente il delitto, quale mezzo efficace a scoraggiarlo: ma non siamo riusciti a scoprire accenni in materia nei capitoli precedenti. L’abbaglio conferma però la forza con cui tale principio dominava il pensiero dello scrittore, che vi tornerà sopra più e più volte, quasi chiave di volta della nuova giurisprudenza: sostituire la severità delle pene (quella capitale non esclusa) con la correlazione certa e immediata fra “delitto e castigo”, quale mezzo più convincente a dissuadere la delinquenza.
[62] La sminuzione del diritto di proprietà sarà più esplicita nel c. 30, dedicato ai “Furti”: in esso parla con compassione di “quella infelice parte degli uomini, a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necesario diritto) non ha lasciato che la nuda esistenza”. Abbiamo visto come il nipote Alessandro rimproveri al nonno anche questa esitazione su un diritto certo secondario (l’uso dei beni della terra, comune a tutti gli uomini, è diritto naturale primario), ma di fatto necessario, perchè è il mezzo più efficace ad assicurare “al meglio” il raggiungimento dell’uso per tutti. In realtà vedremo ai cc. 17 e 32 che anche il Beccaria non è così certo (anzi è contradditorio) sulla importanza della propiretà.
[63] Abbiamo scelto la espressione “cuore” (anzichè parlare di “cervello ” o di “fortezza, cittadella”) del sistema beccariano”, per i motivi facilmente intuibili anche da queste frasi che ingombrano il capitoletto con patetismi di stampo romantico, più che razionalistico, russoiano piuttosto che volterriano: “ Può egli in un corpo politico che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà, stromento del furore e del fanatismo, o dei deboli tiranni?... Chi nel leggere le istorie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti, che, da uomini che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte più sensibile nel vedere migliaia d’infelici, che la miseria voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli al propri principii, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?”
[64] E a questo punto ci si può chiedere: l’aver premesso i due casi di estrema urgenza, in cui anche Beccaria ritiene necessario il patibolo, è un atto di pura onestà, che vuol precisare nei particolari la sua posizione intellettuale od è anche una astuzia prestidigitatoria, che cerca di rafforzare una prova inconsistente, presentandola in opposizione alle situazioni di guerra e di anarchia, usando cioè uno sfondo cupo, di condizioni totalmente opposte alla pace portata dai lumi della ragione?
[64]Peccato che tra le prove sulla inutilità della pena capitale vi sia una gaffe per disinformazione storica, da squalificare la erudizione del Beccaria: egli afferma che Roma antica non contemplava la pena di morte per i suoi cittadini, ma solo per gli schiavi. Egli confonde la esenzione dei cittadini romani dalla tortura e dalla morte per crocifissione (cose riservate ai “non cittadini”), con la esclusione degli stessi dalla pena di morte. Neppure don Ferrante sarebbe caduto in un simile abbaglio
[65] La prima obiezione alla pena di morte è posta con la astrattezza ed ingenuità tipiche del razionalismo. Non tien conto infatti della ovvia risposta: la giustizia umana non può pretendere di punire ogni ingiustizia di livello sociale, ma solo di riparare a quella parte di delitti commessi che le riesce, anche punendoli nella maniera più idonea a scoraggiare il maggior numero possibile di crimini ulteriori. L’argomentazione si riduce allora a quella psicologica che il Beccaria fa seguire: “Non è l’intensione (intensità) della pena, che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa”. Un principio che citiamo subito dopo nel testo, con un grosso punto di domanda sulla sua validità: se Beccaria prende spesso per leggi fisiologiche universalmente valide le sue elucubrazioni psicologiche, cioè le tendenze nel sentire ed agire che variano da uomo a uomo, che al più possono dar luogo ad una legge statistica prevalente, in questo caso propone come ovvia una tendenza psicologica (è maggiore il timore della prigione a vita che della morte istantanea) che è una lettura dell’animo umanao inaudito prima di lui. E che risulta irrazionale, cioè alieno dalla inclinazione solita, prevalente degli uomini. A dimostrarlo bastano tre osservazioni. Come mai tutti i condannati a morte, sani di mente, cercano in tutti i modi di schivare la pena di morte? E perchè, quando un uomo forte (sia egli un dittatore come Benito
Mussolini od un presidente democratico come Charles De Gaulle) si vede fatto oggetto di attentati, reintroducendo la pena di morte scoraggia per ciò stesso gli attentatori (come è avvenuto per quei due personaggi)? L’affermazione: “Moltissimi riguardano la morte con viso tranquillo e fermo...” (c. 16) è perciò un’illusione dell’autore; i fatti gli stanno contro. Infine, se davvero il Beccaria crede che l’ergastolo è pena peggiore della condanna a morte, come mai la vuol imporre al legislatore, quando esige la dolcezza delle pene (c. 15) e soprattutto il principio di usare la minore (la meno dolorosa) delle punizioni atte a scoraggiare il delitto? Qui si impone il detto di Cicerone: “Naturam, expellas furca, tamen usque recurret”: un principio errato, portato avanti nelle sue conseguenze, si mangia la coda, cioè genera contraddizioni e si rivela errato. Anche il tentativo del Beccaria a rispondere a questa contraddizione interna nel c. 16, non regge: è psicologismo romanzesco: vi contraddiciamo nella nota (97), a p. 94.
La seconda obiezione è debilitata dalle circostanze concrete nella remissione della pena di morte tra il 1741 ed il 1761,voluta dalla zarina Elisabetta di Russia. Le circostanze sono queste: la prontezza, frequenza e crudeltà della pena di morte che han caratterizzato il governo del padre Pietro I il grande (che scese al punto da tagliare lui stesso la testa ai ribelli strelizi, moltiplicando poi le eliminazioni fisiche fra tutti gli oppositori, non escluso il proprio figlio Alessio) crearono un tale stato di terrore e, come conseguenza, di ordine e disciplina, che per una generazione e mezza (era morto nel 1725) si potè “vivere di rendita”, cioè riposare su un costume abbastanza stabilizzato. D’altronde, l’ergastolo in Siberia era qualcosa di diverso da quello nelle regioni temperate del resto d’Europa...
[67] L’ultima esecuzione pubblica, negli Stati Uniti, avvenne il 14 agosto 1936 ad Owensboro (Kentucky): la pubblicità fu abolita proprio per non dare occasione alla “sete di sangue” degli spettatori, quale era esplosa fra i 20.000 presenti. Il Beccaria si aspetta, invece, anche compassione e sdegno, oltre che godimento di uno “spettacolo” nel pubblico presente; anzi, punta sul prevalere della “compassione” come segno che un popolo ha raggiunto la maturità per abolire la pena di morte: non s’accorgeva che la compassione era frutto di educazione cristiana e che, man mano che il razionalismo toglieva efficacia educativa al cristianesimo, l’odio e la gioia della punizione avrebbero prevalso e la pena capitale si sarebbe ridotta a spettacolo (diventando per ciò stesso deterrente sempre più necessario in una società scristianizzata e, perciò, senza più pietà).
[68] Anche studiosi che condividono il pensiero dell’operetta beccariana più di quanto lo condividiamo noi, riconosce che “Dei delitti e delle pene” “è lontano dal poter essere definito un trattato giuridico, sia per la sua scarsa e non certo originale teorica, sia per la febbre e per la passione che tutto lo pervadono e che ne fanno quello che essenzialmente è: un grido dell’anima rivolto a denunciare incongruenze e crudeltà, nell’ordinamento penale del tempo...” ( dalla “Nota” premessa alla edizione di Milano, Rizzoli, 1950).
[69] Vi sono segni di retorica che sono spie (ci pare) dello sforzo di superare gli eccessi|debolezze del ragionamento: anzitutto, spettacoli peggiori della famiglia ridotta a miseria per le vicende toccate al capofamiglia ce ne sono molti, compresi quelli in cui il capofamiglia, innocente, è stato assassinato: in Beccaria, razionalista unilaterale coerente, vi è sempre compassione per il delinquente, mai per le vittime; in secondo luogo il Beccaria usa “strascinata” mentre bastava “trascinata”; in terzo luogo la finale del periodo ( cominciando da “alla quale”) è tutt’altro che perspicua: per capirne il senso occorre rileggere. Lapsus di mente turbata, che si agita a giustificare preferenze legislative discutibilissime?
[70] Non c’è chi non veda che la pronta identificazione e cattura del delinquente e la celerità dei giudizi (e quindi della eventuale pena) rappresenti una dissuasione decisiva per gli aspiranti criminali. Ma interviene, qui, uno dei limiti del pensiero del Beccaria, come di ogni pensatore ottimista e progressista: considerare come dato di fatto ciò che è semplice auspicio; convincersi che esistono già le condizioni per un determinato provvedimento perfezionatore, quando esse esiste solo il germe, di cui bisogna attendere la maturazione (come, più cauti, i conservatori sostengono). Tutta la “macchina” delle proposte beccariane si regge su una “ipotesi”: essa, cioè, potrebbe anche reggersi e funzionare, se fosse realizzabile sempre la immediatezza del rapporto fra delitto e castigo. Beccaria passa dalla ipoteticità alla illusione, obliterando la realtà: egli propone una legislatura valevole per una umanità auspicabile e, forse, nel corso dei secoli futuri, realizzabile, ma certo inesistente ai suoi anni come (almeno in Italia ed U.S.A., dove i processi duranno anche decenni) nei nostri tempi. Con queste proposte, Beccaria si rivela un idealista impenitente o, come dirà il nipote, un giovane con tutte le illusioni della gioventù. Viene la tentazione di travalicare anche noi e trasgredire dalla filosofia giudiziaria all’atteggiamento politico: se a venti anni non si è un po’ a sinistra, si è senza cuore; ma,se a quaranta si è ancora a sinistra, si è senza testa.
[71] Questa affermazione chiara deve essere la chiave per interpretare asserzioni e precedenti e susseguenti non altrettanto perspicue (si leggano, nello stesso capitolo, i brani “Alcuni hanno sostenuto....due codici sovente contradditorii”; “Uno scellerato... intrinseca delle azioni”), fino a lasciare l’impressione immediata di non essere neppure coerenti. Occorre rileggerle alla luce di questa sicura conclusione, per penetrarne il senso concorde.
[72]A proposito di quest’ultimo assioma, va spiegato che il Becaria vuole la abolizione dei “luoghi di asilo”, cioè di chiese e conventi, dove i colpevoli potevano rifugiarsi per sfuggire alla cattura. In proposito va detto che il razionalismo manca di senso storico e giudica, quindi, prescindendo dalle circostanze che potevano rendere ragionevoli in alcuni tempi, privilegi poi divenuti controproducenti. La inviolabilità di alcuni luoghi resi sicuri dalle leggi per un imputato è sancita nell’Antico Testamento per evitare la vendetta privata o il linciaggio popolare ad un delinquente o presunto tale (che può aver agito, cioè, per legittima difesa): si veda Numeri, 35, 9- fine (Luoghi di rifugio). Ritornata la società ad una condizione semibarbarica dopo la invasione dei popoli nomadi nei secoli V-X, una tale disposizione ridivenne utile e provvidenziale, per garantire la incolumità all’imputato, incolumità fino a sentenza pronunciata, per la quale Beccaria continuamente e giustamente si dimostra così preoccupato. Se sopra questo senso istintivo dei “luoghi di rifugio” si sia sovrapposta una esigenza di rispetto per la sacralità dei luoghi di culto (ed affini: conventi) ciò è dipeso anche dal fatto che le chiese storicamente erano servite alla incolumità di troppi innocenti (contro Genserico ed i Vandali, nel 455, Leone Magno ottenne che fossero risparmiate le chiese e tutti i cittadini che vi si fossero rifugiati); e che i conventi benedettini erano stati all’origine della civilizzazione dei barbari, acquistandosi così benemerenze per una attività culturale, che era iniziata molto prima del razionalismo illuministico e del Beccaria. D’altronde, non ci si è mai accorti che tale “inviolabilità dei luoghi di culto” abbia prodotto molti fastidi allo stato o salvato “definitivamente” molti assassini: sia perchè nelle chiese un delinquente non poiteva rimanere a lungo; sia perchè coi conventi lo Stato veniva a patti e ad un certo punto o Ludovico si faceva padre Cristoforo o veniva consegnato alla forza pubblica. Non v’è dubbio, per altro, che, sorto lo Stato europeo moderno, adulto e meglio roganizzato, la funzione di copertura degli innocenti, da parte del mondo ecclesiale, diveniva superflua e, perciò, inutile. Ma non c’era, per questo, bisogno di affermazioni polemiche ed affannose, come qui usa il Beccaria “Moltiplicare gli asili è il formare tante piccole sovranità; perchè dove non sono lleggi che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società”. Vorremmo poi che il Beccaria facesse il nome e le date della affermazione “Tutte le storie fanno vedere, che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle opinioni degli uomini”: per la storia italiana e per gli asili “ecclesiastici”, la cosa non consta; e quanto agli “asili” delle ambasciate, il diritto è rimasto come corollario della incolumità diplomatica, ritenuto principio più importante dei pericoli connessi (si pensi agli abusi che se ne fanno un po’ da tutti i governi, ma specie da quelli perpetrati dalle rappresentanze diplomatiche comunistiche durante i decenni del secondo dopoguerra e fino al 1989 almeno; ma si pensi anche ai benefici per la possibilità di rifugio per i dissidenti, specie anticomunisti, nelle ambasciate di paesi democratici).
[73] In corsivo nel testo dell’opera.
[74] Che cosa sta dietro l’espressione “ le opinioni asiatiche” (cui seguono “le passioni rivestite di autorità”)? E’ un’accusa al Vangelo ed alla predicazione di Cristo, visto che la Palestina è regione dell’Asia? Beccaria si rivelerebbe deista anche nell’animo e non solo nelle espressioni alla moda (che gli fanno evitare puntigliosamente il nome di Dio, per sostituirlo con quello di “Essere supremo –A chi legge-| Grand’Essere –c.12| Prima cagione –c. 20| Invisibile legislatrore –c. 23| Essere perfetto e creatore –c. 24| Essere che basta a se stesso: ib....)? Sarebbe, allora, anche anticristiano? Puzzo di massoneria? Quest’ultimo sospetto dovrebbe essere annullato dalla espressione del c. 8: “La credibilità di un testimoio può essere alcuna volta sminuita, quando egli sia membro di alcuna società privata, di cui gli usi e le massime sieno o non ben conosciute, o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le altrui passioni”. Quanto alla fede cattolica, si noti che nel clero egli riconosce i “ministri della verità evangelica” le cui mani “ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine” (c. 5); che sottolinea esplicitamente i vantaggi morali “di chi, vivendo nella vera religione, ha più sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti (istinti) naturali” (c. 36); che egli parla di “dogma infallibile” a proposito dell’inferno (c. 12) e “dei lumi più sicuri della Rivelazione” (ivi). Invece, l’accenno alla “autorità che più veneriamo” (c.37: è la Chiesa), ha un contesto così contorto che, anzichè un atto di fede sofferta, vi si può anche leggere l’ironia di un appello all’autorità, in mancanza di argomenti probanti. Per altro il termine “cristiano” è scritto in senso positivo nel c. 11, dove anche la religione in genere viene riconosciuta nel suo valore educativo all’onestà (per le masse, almeno: per gli “illuminati” basterebbe la “ragione”?). Invece altre accuse, ora più ora meno esplicite alla Chiesa od a sue istituzioni (Inquisizione e tortura: cc. 12; 37; internato dei collegi ed omosessualità: c. 36) sono al più testimonianze di anticlericalismo (e non sempre ingiustificato), non di assenza di fede.
[75] Ma occorre far attenzione che il criterio della “utilità|danno comune” può essere inteso in almeno due sensi diversi: l’utilità|danno immediatamente rilevabile perchè clamoroso; l’utilità |danno veri, ma apparentemente irrilevanti perchè non clamorosi (in altre parole: vi sono delle utilità| danni che si rivelano solo a lungo termine, mentre possono sembrare trascurabili negli effetti tattici od a breve scadenza). Anticipando rimarchi che dovremo avanzare a proposito del c. 36 (Dei delitti di prova difficile), dobbiamo affermare che irreligiosità (ateismo, bestemmia), divorzio, uso personale della droga, omosessualità, eutanasia e persino aborto, immediatamente (“in the short run) possono sembrare anche insignificanti a livello sociale; ma “strategicamente” (“in the long run”: “finalmente”, cioè “alla fine”, dice Beccaria nel c.27) risultano poi disastrosi. Gli è che si tratta di delitti che difficilmente l’uomo mette nel “contratto sociale”, perchè intuiti, almeno in confuso, come parte del “diritto naturale”, che solo protegge e promuove la vita individuale e sociale nella loro integrale dimensione. Il Beccaria si avvicina a questa intuizione, quando, nel c. 4, deve riconoscere che le “menti volgari” sono “più percosse da un picciol disordine presente, che dalle funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione”. Dopo di che si dovrebbe dire: “Medice, cura teipsum”, cioè sii coerente!
[76] Si applicano qui le osservazioni della nota precedente. Seguono (ed occupano l’altra metà del capitoletto) un periodo per celebrare ancora le virtù di libertà e fortezza cui educherebbero le leggi impostate sulle sole tre categorie di delitti o trasgressioni elencate; ed un intero paragrafo per dichiarare incerte e mutevoli le regole di morale, con i concetti di virtù, di bontà (“buon cittadino”), di vizio e di colpevolezza (“di reo”): lo abbiamo già riportato elencando le premesse ideologiche dell’opera.
[77] Principio ovvio, almeno in linea di diritto, dopo la rivoluzione francese; non altrettanto, prima. Che non si creda che la rivoluzione francese non abbia fatto proprio nulla di bene. Ci mancherebbe! l’uomo è animale intelligente, ma limitatamente tale: nessun suo errore è esente da residui di verità; nessuna sua verità è esente da infiltrazioni di errori.
[78] “Persona” e “cosa” sono rilevate in corsivo nel testo beccariano.
[79] “Acuto” ci sembra il rimarco che del concetto di onore è difficile dare una definizione; che in ogni caso è un bene secondario, non vitale; che l’opinione pubblica crea potere e lo distrugge; che il volerlo definire autoctonamente e difenderlo privatamente è un ritorno alla legge della giungla. “Sottile” è già la impressione che esso sia addirittura impossibile da definire o da proteggere con le leggi; e che il concetto di “onore” consti di chissà quali complicazione di idee semplici e complesse (il sensismo di Locke all’opera !). “Sofistica” è la pretesa che esso si formi ed imponga nelle “monarchie, che sono un dispotismo sminuito” (dalla potenza della nobiltà): il duello venne di fatto dai popoli nomadi che, non avendo leggi scritte nè prigioni, difendevano il proprio “onore” con le armi in pugno; e sopravvisse sotto quella monarchia spagnola, che presso gli Illuministi era sinonimo proprio di “tirannia”.
[80] Di quanto segue per deprecare la mancata distinzione fra le due categorie di delitti, interessa sottolineare il ricorso del Beccaria a paralleli di tipo matematico: “Questi (furto semplice e furto con violenza) sono delitti di differente natura: ed è certissimo anche in politica quell’assioma di matematica che, tra le quantità eterogenee, vi è l’infinito che le separa”. La cosa deve essere sottolineata: nel c. 23 si trovano queste espressioni: “Essi (i disordini) crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degli interessi particolari, che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità”; nel c. 28, dovendo faticare a scoprire gli elementi comuni al complicato concetto di “onore”, egli ricorre alla matematica: “come più quantità complesse algebraiche ammettono un comun divisore”. E’, questo ricorso frequente a paralleli matematici, un indizio di mente completa, che possiede affinità elettive sia per i ragionamenti filosofici che per i valori scientifici. Dallo stesso capitolo, abbiamo altrove citato il contrasto fra la precisa conoscenze delle orbite dei corpi celesti e la insicurezza nelle conoscenze di carattere morale; nel c. 32, si afferma: “Credo massima legislatoria che il valore degli inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della probabilità di verificarsi”. Si veda anche c. 36, nota: l’attrazione sessuale è paragonata alla gravitazione universale (i corpi si attraggono in forza inversa al quadrato dlele distanze!), anche se aumenta con gli ostacoli interposti (mentre “la gravità si mette in equilibrio con gli ostacoli”). Nel c. 41 vi è questo paragone: “Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti...”
[81] Il resto del capitoletto (poco più di una paginetta) consta di motivazoioni psicologiche azzeccate. Il contrabbando non è delitto infamante, in quanto la gente non lo sente come minaccia diretta al proprio interesse e “le conseguenze rimote fanno debolissima impressione”. “La pena di perdere e la merce proibita e la roba che l’accompagna, è giustissima; ma sarà tanto più efficace, quanto più piccola sarà la gabella; poichè gli uomini non rischiano che a proporzione del vantaggio che l’esito felice dell’impresa produrrebbe”.
[82] Vedrei nella troppa importanza, data dal Beccaria alla conoscenza delle leggi, la solita disinformazione (defectus elenchi, dice la logica scolastica) razionalistica, che pare fosse già in Socrate: il male è sempre il frutto di una ignoranza o di un errore; è un fatto sosatnzialmente cognitivo e non specificamente volitivo. Ancora, notiamo che altrove lo stesso Beccaria riconosce la impossibilità di sopprimere del tutto i disordini contro le leggi (c. 23): dovrebbe allora riconoscere tale misera condizione della società anche per quel che riguarda orge e congiure. Che poi, in questo capitolo, il Beccaria accenni alla preghiera ed istruzione religiosa come a mezzi per scoraggiare intemperanze e rivoluzioni, ne prendiamo atto come di una ripresa della intuizione realistica già espressa nel c. 11, circa la forza educativa all’onestà propria della religione, avvertendo ancora una volta, però, che tale riconoscimento contraddice a quanto dirà nel c. 38 (da noi già esaminato a p. 56) sulla poca efficacia delle pene eterne, minacciate dalla religione, a scoraggiare i delitti.
[83] Per nessuno dei due casi, comunque, il Beccaria prevede delle pene: è forse questo il motivo della loro, d’altronde illogica, riunione.
[84] Moralmente, se fatto da persona sana di mente, il suicidio è delitto peggiore dello stesso omicidio: implica odio contro se stesso, peccato inferiore solo al tentativo di uccidere Dio con la negazione o con la bestemmia consapevole.
[85] Oltre tutto, la sentenza è troppo in contrasto con altre pessimistiche del suo trattatello (cfr. c. 2 e passim).
[86] “Un tal bisogno (erotico) sembra, per chi conosce la storia e l’uomo, sempre eguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi, che cercassero diminuirne la somma totale, perchè il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei proprii e degli altrui bisogni; ma saggie per lo contrario sarebbero quelle che, per così dire, seguendo la facile inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento”. Sta facendo le stesse raccomandazioni di Catone il vecchio, maestro in questo anche di Vittorio Alfieri?
[87] Anche il nipote Alessandro dovette passare la sua adolescenza in collegi tenuti da due ordini religiosi (Somaschi e Barnabiti), ma non si è mai lamentato di una simile morbosità e deviazione sessuale. Dove è mai stato educato il nonno? Certo, neppur nei collegi retti da ecclesiastici si è mai stati al sicuro da tali disordini: però non vi è motivo per generalizzare il fenomeno, sia perchè nè Manzoni nè Benedetto Croce (per citare anche un altro testimone, che loderà anzi la scuola dei religiosi, anche se ormai approdato ad ideologie del tutto opposte) ebbero mai a lamentare simili incidenti; sia perchè non sussisterebbe (o sarebbe durata, chè gli “internati” cattolici in Europa sono pressochè scomparsi) la fiducia dei genitori verso simili istituti cattolici, se tali tragiche deviazioni fossero solite, anzichè eccezionali.
[88] Sulla Inquisizione ci siamo già pronunciati chiaramente; qui si vuole solo additare la ambiguità dell’atteggiamento del Beccaria: un fatto che non torna a suo onore. Doveva trovare le ragioni del suo dissenso ed esporle con calma e distacco.
[89] L’affermazione che le leggi non debbano tener conto di quelle che la morale chiama “occasioni di peccato” è la forma razionalistica di ingenuità, uguale e contraria rispetto a quella qui denunciata dal Beccaria (perfezionismo o rigorismo giuridico dei moralisti): è irrealistico voler toglier di mezzo ogni sollecitazione al male, ma è altrettanto utopistico non prenderne in considerazione nessuna. Diremo che le sollecitazioni prossime ( concedere il porto d’armi anche a minori| immedestia spinta sino alla mancanza di pudore| vendita di bevande alcooliche ad individui già ubriachi...) vanno escluse, mentre gli allettamenti remoti (porto d’armi ad adulti incensurati| eleganza sofisticata fino al ridicolo di una certa immodestia|consumo di alcoolici da parte di persone sane di mente) andranno permessi. E’ in questa casistica, posta sulla “soglia” tra incentivi e delitti, che vale la definizione (arrischiata) della politica come “arte del possibile”: non nel permettere anche il delitto (ad esempio, perchè ne è troppo diffusa la pratica o lo vuole la maggioranza: droga, divorzio, aborto...), ma nel tollerare comportamenti solo potenzialmente favorevoli alla trasgressione.
[90] Seguono spiegazioni psicologiche: condivisibili, alcune (“...avvezzi all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito dei loro delitti divien problematico per essi –gli uomini che vivono schiavi del timore di altri uomini potenti e non delle leggi uguali per tutti- in vantaggio della passione che lo determina”); altre un po’ più discutibili (“Gli uomini schiavi sono più voluttuosi, più libertini, più crudeli degli uomini liberi”).
[91] Fin qui i mezzi (solennità del contegno e severità delle leggi) sembrerebbero servire a scoraggiare la corruzione; solo poi ci si accorge che sono, invece, ad essa favorevoli. Tali espressioni disorientate e disorientanti capitano sulla penna del Beccaria, solitamente perspicuo e comprensibilissimo, quando deve barcamenarsi tra la verità ed il timore del “sovrano” di Vienna o della Inquisizione della Chiesa. Qui, però, sospettiamo si tratti di un lapsus della difficoltà a trovare qualche consiglio efficace.
[92] Come distinguere, d’altronde, i processi giusti dagli ingiusti, se le querele non vengono esaminate in tribunale? Quando il “Terrore” si baserà nelle decisioni (condanne) sulla persuasione del giudice o del “giurì” popolare, si avranno le stragi più insensate e selvagge della storia moderna, che le dittature di destra e di sinistra del secolo ventesimo amplificheranno, fino a superare i cento milioni di vittime innocenti.
[93] Tra il 1760 ed il 1762, Gasparo Gozzi pubblica a Venezia la “Gazzetta veneta”, il “Mondo morale” e l’ “Osservatore veneto”, a scadenza settimanale od anche più frequente; trimensile sarà per due anni, a Milano, “Il Caffè” di P. Verri (giugno 1764- maggio 1766) e quindicinale “La Frusta letteraria” di G. Baretti “ (dal 1° ottobre 1763 al 15 luglio 1765).
[94] Sulla “tolleranza degli errori umani” abbiamo già parlato nella nota (73) di p. 57, facendo le distinzioni tra “errori di teologia confessionale” (da permettere come dottrine non evidenti, ma di certezza solo morale) ed errori etico-religiosi elementari, le quali dottrine sono invece od evidenti o dimostrabili razionalmente e, in ogni modo, alla distanza, necessarie al benessere, anzi alla sussistenza della società. Che la “beneficenza” sia conquista dei lumi razionalistici è una favola di cui il Beccaria non comprendiamo come poteva essersi convinto, visto che la “carità” è invenzione evangelica e pratica di tutti i secoli cristiani; quanto alla virtù di “umanità” è così vaga, che può intendersi come “compassione” (ma allora ricade nella carità cristiana) od anche come “gentilezza” (ma allora può venir intesa come pura cortesia mondana, che potrebbe essere anche ipocrita).
[95] D’accordo sugli orrori della tortura praticata anche dall’Inquisizione; sulla ingiustizia della caccia alle streghe e della persecuzione agli errori “confessionali” di teologia cristiana. Fatte salve però le attenuanti del contesto storico: il bruciamento delle streghe servì a risparmiare all’occidente l’uso della droga (di cui almeno alcune di esse pare si facessero spacciatrici); la persecuzione degli eretici riuscì a tener testa all’aggressività politico-militare di cui troppe forme ereticali si armavano fino alla guerra dei Trent’anni inclusa, con una seduzione a cambiar religione che non salvava per nulla la libertà di coscienza, perchè basata sulla forza.. Che, poi, le virtù di tolleranza, beneficenza e compassione possano nascere dal lusso e dalla mollezza, è paranoia razionalista: non è mai l’ambiente che crea le virtù, ma la luce della verità e la educazione della volontà; senza di questi fattori spirituali “il danaro è come le brache degli uomini; serve a nasconderne le vergogne”, come il Parini stava dimostrando poeticamente nel Giorno del giovin signore e come la rivoluzione francese dimostrerà sanguinosamente di lì a venticinque anni. Ci si permetta di ribadire, però, che il Beccaria pare rivelare qui la sua sicura fede cristiana (“ministri della verità evangelica”), anzi cattolica (le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine” non può che riferisi alla Eucaristia).
[96] Senza accorgersene, il Beccaria ha toccato qui la causa fondamentale dei disordini (anche nella legislatura penale) che hanno caratterizzato il Medioevo: si è trattato di un’epoca che ha compiuto l’impresa epica di portare i Germani-Slavi-Mongoli d’Europa al livello della civiltà classica e della cultura evangelica. Una tale missione ha richiesto secoli, in cui i costumi atavici dei barbari, i princìpi evangelici religioso-morali ed il patrimonio di conoscenze greco-romano vennero a compromessi sofferti e penosi, generando quel miscuglio di eroismi e di balordaggini, di genialità e di corruzione che sono proprie di ogni epoca culturale, ma che per quei tempi risultano a noi più obbrobriosi, perchè- ormai superati nelle loro forme specifiche- sono in realtà solo diversi dal miscuglio attuale di eroismi e corruzione, di genialità e balordaggini, propri della della nostra cultura.
[97] Le nostre azioni sono sempre determinate da un complesso di motivazioni, di cui quelle congenite (Gestalt o nature: costituzione cromosomica) e quelle assunte dall’ambiente (Behaviour o norture) finiscono per confondersi, perchè le suggestioni esteriori agiscono sulla sfera istintivo-emotiva, eccitandola, sicchè alla fine è questa sola che direttamente preme sulla volontà. Ma non sono le sole componenti dell’atto umano. L’uomo infatti, almeno nelle decisioni che assumono particolare importanza di fronte alla coscienza, sente di poter tenere in scacco entrambe le sollecitazioni e decidere proprio contro di esse, sia che provengano da puri meccanismi biologici (spinte istintivo-emozionali) sia che questi siano messi in azione dai messaggi esterni (percezioni dei sensi). Nel nostro caso il dolore della tortura si rivela insufficiente a piegare la volontà dell’imputato. Si potrebbe rispondere che una componente interiore (emotiva: timore della pena, capitale o meno), determina la sua tenacità a rimanere sulla negativa. Sì, ma questo toglie che di fronte al dolore fisico egli possa essere e sia di fatto libero. E vi sono, inoltre, casi in cui la non-confessione del torturato dipende solamente dalla sua decisione di rimanere fedele alla verità: si veda il caso di Gaspare Migliavacca nel processo degli untori a Milano negli anni della peste 1629-30 (A. Manzoni- Storia della colonna infame, cap. VI): accusato da due degli imputati per sospetto di unzione malefiche in Milano, egli difende sino in fondola propria innocenza, nonostante ogni sofferenza della tortura. Questo significa che l’uomo può agire in base a motivazioni puramente ideali, prescindendo dalle sollecitazioni di tipo animale insorgenti dall’interno o provenienti dall’esterno: che è il senso della libertà interiore (il libero arbitrio non è agire senza motivazioni, ma decidere al di fuori delle suggestioni istintivo-emotive, insorgenti sempre dall’interno, solitamente con l’interferenza di messaggi esterni). Lo riconosce ancora il Beccaria nel c. 12, quando ipotizza due motivi diversi, per cui la maggior parte delle persone osserva le leggi: “per timore o per virtù”, cioè per spinte emozionali o per convinzioni intellettuali.
[98] In realtà, non c’è proprio bisogno di ragionare sulla forza dei sentimenti di religione (riconosciuta dal Beccaria come “unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini”) rispetto all’istinto di conservazione dell’uomo: un principio morale perenne ha sempre insegnato che “Nemo tenetur accusare seipsum”: tale diritto elementare prevale sul dovere di dire la verità al giudice. L’ottavo comandamento “Non dire falsa testimonianza) è fatto per i testimoni, non per gli imputati.
[99] Sulla doppia contraddizione di quest’ultimo corollario si è già detto: se l’ergastolo è peggiore punizione della pena di morte, il Beccaria contraddice alla sua tesi sul dovere morale di usare il minimo deterrente del delitto per punire il colpevole (contraddizione interna al sistema di idee beccariano); se l’egastolo è punizione più temibile della pena capitale, non si capisce perchè tutti i delinquenti sani di mente preferiscano il primo alla seconda, che cercano di evitare in tutti i modi (contraddizikone dell’assunto beccariano con la psicologia reale). Egli stesso si pone la prima difficoltà nel c. 16, tentando di rispondervi: “Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò, che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà forse anche di più: ma questi sono stesi sopra tutta la vita; e quella esercita tutta la sua forza in un momento...”. Si deve purtroppo rispondere che la persona che soffre è unica e, quindi, la crudeltà della pena rimarrebbe o uguale o superiore a quella capitale, se valesse la psicologia beccariana.
[100] Questa “legge dell’abitudine” in latino trova una espressione sintetica affascinante “Ab assuetis non fit passio” (dalle cose abiutuali non nasce impressione o reazioine emotiva). Ma l’assioma pecca di ambiguità, non distinguendo fra “passione= reazione della emotività; e passione= reazione dell’istinto”. Mentre la legge dell’abitudine vale per le reazioni emotive, essa non vale per le reazioni dell’istinto: non c’è abitudine alla fame che tolga l’appetito (battuta comica sicura: “Toh! adesso che il mio asino si era abituato a non mangiare, è morto!); non c’è educazione al dominio della sfera sessuale che tolga l’impulso erotico; non c’è abitudine ad assistere moribondi od a vedere esecuzioni capitali, col capestro o tecniche affini, che tolga la paura della morte. Lo stesso Beccaria pare intuirlo nel c. 2, dove afferma: “la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, nè si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per controbilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale...”. Si noti che la pena di morte era pubblica proprio all’effetto di impressionare e scoraggiare dal delitto il più possibile, mentre l’ergastolano diventava, dopo il processo, del tutto invisibile ed incapace perciò di impressionare salvo che attraverso la memoria, che è però povero strumento di influsso sull’azione, come assicura il Beccaria anche in questo capitolo (è stata citata testè nel testo “la pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più essenziali”).
[101] Viene alla memoria il caso “Ronsard” , ricordato nel commento ai Ragguagli di Parnaso del Boccalini!
[102] La sentenza è riducibile a coerenza da quanto precede, ma in sè è contradditoria: come faranno le leggi ad essere inesorabili, se dolce ed indulgente è il legislatore? Il Beccaria legge, però, “inesorabile” come “applicate alla lettera”, non come “esigenti e dure, severe e crudeli”. Il legislatore, insomma, deve stabilre delle pene adeguate ma non eccessive; il giudice deve però applicarle implacabile, inesorabile (entrambi gli aggettivi significano “non soggetto a piegarsi alle preghiere altrui, cioè alla compassione”).
[103] Passo già citato a p. 41.
[104] Il suggestivo paragone dei fenomeni fisici rispetto a quelli morali è illusorio, perchè ambiguo. I concetti morali sono come le leggi fisiche fondamentali (la gravità di Newton o la relatività di Einstein) che non mutano mai; le mutazioni fisiche sono quelle geografiche e (bio)chimiche, che sorprendono solo perchè sono il risultato non immediatamente comprensibile dell’incontro di molte leggi fisiche e sono affini non alle norme morali, ma alla casistica che insorge sulla combinazione di molte leggi morali in una sola situazione. Si prenda il caso del furto, che diviene lecito in casi di vera necessità per la propria sopravvivenza. Più in genere, la morale presenta una gerarchia di leggi che prevedono doveri secondari di moralità rispetto a doveri primari ( il dovere del rispetto della proprità privata è secondario rispetto al dovere di permettere l’uso libero dei beni materiali in casi di vera, estrema necessità). Per queste complicazioni che generano la casistica morale, si veda anche il nostro secondo volume di “Ragione, religione, morale, p. V, c. V, pp. 131-143, Milano, Ned, 1989).
[105] Di una funzione positiva della religione si parla nel c. 36, con un elogio che, se è sincero e non “machiavellico”, è in contraddizione con altri giudizi sulla impotenza educativa della religione. Ivi si dice che nonostante l’attrattiva sessuale sia un “bisogno naturale, costante ed universale”; nonostante i matrimoni siano combinati al di fuori della libera scelta degli interessati, schiavi della autorità arbitraria dei padri, tuttavia gli adultéri possono essere resi evitabili nell’ambito della religione cristiana: “Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha più sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali”. Sulla inefficienza delle motivazioni religiose in materia educativo-morale, cfr. ad esempio c. 2 (“nemmeno le più sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni...”); c. 5 (parte finale); c. 11 (Dei giuramenti: “Troppo deboli, perchè troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi, che la religione contrappone al tumulto del timore, ed all’amore della vita”.
[106] Eppure, nel capitolo primo si parla dei “gemiti dei deboli sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza”: si tratta della tortura, che sorgerebbe anche dall’ozio dei ricchi.
[107] Come si è già fatto notare commentando il c. 16 sulla pena di morte, il Beccaria non si accorge come queste sue dichiarazioni sul grande attaccamento dell’uomo alla vita distruggono il motivo principale della sua “dimostrazione” che la pena di morte è inutile.
[108] Che “la continuazione degli atti” che indeboliscono l’amore, dia forza all’odio pare un concetto lapalissiano; quello che non comprendiamo è il perchè tali atti di ostilità debbano continuare, mentre non possano perseverare gli atti che generano l’amore. Il Beccaria ha trasgredito –ci pare- dalla situzione particolare in cui le leggi tolgono inutilmente libertà al cittadino e, quindi, suscitano ribellione, ad una affermazione di carattere generale, che varrebbe anche fuori della condizione specificata. Si tratta di un tipico errore di logica, che pecca contro una legge del sillogismo: “latius hos quam praemissae conclusio non vult”: la conclusione non deve usare i termini (maggiore e minore) in un senso più esteso di quello loro attribuito nelle premesse.
[109] Non è l’unico passo che suggerirebbe la lettura anche di G. B. Vico (“La scienza nuova”), sebbene anche dalla Francia gli veniva il mito del “beau sauvage” (bello e buono). Si noti, però, che proprio in questo capitolo, anche il Beccaria, come il Vico, distingue nettamente la storia “naturale” delle nazioni pagane da quella “soprannaturale” del popolo eletto; e che le espressioni successive sulle “storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto alle epoche principali” costringono a domandarsi: perchè il Beccaria non cita mai il grande pensatore napoletano
[110] A parte la tentazione che ti assale di attribuire al Beccaria una concezione “democritea” (o lucreziana: De rerum natura) della religione, per cui non è Dio che crea l’uomo, ma sono gli uomini che si creano la divinità, resta il fatto che quanto qui è afermato sulla eccezionale potenza educativa della religione, cioè del mondo invisibile e lontano, è in contrasto con quanto detto, nel c. 11, circa la debolezza della religione stessa a trattenere gli uomini dal sacrilegio dello spergiuro e, quindi, anche dai delitti minori.
[111] Chi potrà asserirlo? La vicina rivoluzione francese, forse, che dei “lumi” del razionalismo, cioè di quelle dottrine che hanno illuso come sicure verità il giovane e candido Beccaria, è la figlia legittima e coerente?
[112] Si noti come in questo stesso capitolo si dia una definizione chiara e distinta della “certezza morale” che “rigorosamente... non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perchè ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire” (meno convincente è l’ultima caratteristica: “ed anteriore ad ogni speculazione”). Fosse sempre così diligente il Beccaria, preoccupandosi di definire i vari ingredienti del suo libro! quanta verità in più e meno contraddizioni od oscurità!
[113] In realtà, neppure il nipote un secolo dopo era in grado di distinguere tra istinti, emozioni e sentimenti, trattando della natura e finalità della poesia (Lettera al marchese Cesare D’Azeglio “Sul Romanticismo”; e “Del Piacere”), perchè solo alla fine del secolo XIX si impostò, con James e Lang, la loro distinzione scientifica. Pure un qualche cenno di precisazione era dovuto alla serietà dell’opera, che in gran parte dipende da simili termini e concetti.
[114] Cfr. soprattutto c. 15 (Dolcezza delle pene) e c. 30 (Furti).
[115] Cfr. p. nota 79 a p. 61, per alcune citazioni in proposito.
[116] Si veda il nostro Musica in parole, Varese 1983, p. 94, nota 18.
[117] Si noti come la immagine epica, grandiosa, è espressa enfaticamente, cioè con qualche nota di troppo: “Vi vuole” è espressione eccessiva, che sta invece di “Ci vuole, occorre”. Ma è forma personalizzata verso gli interlocutori: “Vi ci vuole”: è forma che sottintende la foga di un dibattito, il pathos dello sforzo di convincimento in un contradditorio. Che è quanto dire: l’autore parla appassionato per scopi pratici, non liricamente per pura espressione di stati emotivi.
[118] Ahi! ahi!, caro Beccaria: qui vi sono atteggiamenti poco saggi, nonostante i lumi elogiati: anzitutto, unendoti al coro dei tuoi confratelli illuministi, disprezzi il volgo; in secondo luogo, ti autoproclami almeno implicitamente nel numero dei sapienti Soloni e dei Socrati illibati che formano la “felicità” della nazione; infine mandi un segnale a mamma Teresa ed al figlio Giuseppe, felicemente coregnanti aVienna, perchè assumano uomini come te per garantire leggi utili alla felicità dei popoli soggetti... Tuo nipote Alessandro non sarebbe mai caduto, dopo la conversione, in tali ingenui autoincensamenti ed in tale adulazioni al potere...
[119] Si suppone nota la regola della natura e dell’uso del gerundio italiano: esso è un “aggettivo verbale”, cioè una forma del verbo che si usa come aggettivo, ma attribuibile solo ad un soggetto (se un verbo deve fare da attributo ad un complemento oggetto od altro, si deve usare il participio presente o passato, ma non mai il gerundio). Un solo esempio: “Ho visto dell’acqua corrente” (complenmento oggetto); “Ho visto dell’acqua correndo” (soggetto: Io, mentre correvo, ho visto dell’acqua).
[120] Talora servirà qualche piccolo arrangiamento che segnaliamo di volta in volta. Ad esempio qui abbiam soppresso la “o” finale; più avanti “Se- io” abbiamo evitato la elisione e stabilito un iato; ecc.
[121] E’ noto che il nome al verso (dal quinario all’endecasillabo, per fermarci ai sette tipi di verso più in uso) deriva dal numero di sillabe che esso ha nel caso (di gran lunga più solito) che sia “piano”, cioè che finisca con parola che ha l’accento sulla penultima sillaba. Ma quando l’ultima parola è tronca, il quinario sarà di 4 sillabe e l’endecasillabo di sole dieci (e così quelli intermedi), mentre se tale parola è sdrucciola, tutti i versi avranno una sillaba in più (il quinario, sei; l’endecasillabo, dodici; ecc.). Per la precisione, quindi, i versi italiani si definiscono in base all’accento ultimo del verso: il quinario è il verso che ha l’ultimo accento ritmico sulla quarta sillaba....; l’endecasillabo è il verso che ha l’ultimo accento ritmico sulla decima; e così gli altri.
[122] Con piccole variazioni, si possono far scaturire versi da altri passi “concitati”. Nel classico c. 41 (Come si prevengono i delitti): “Vogliam noi prevenire i delitti? (10)|Fate che le leggi sian chiare (9)|semplici e che tutta la forza (9)| della nazione sia condensata (11)| e nessuna parte d’essa (8)| sia impiegata a distruggerle”
[123] Per chi volesse conoscere qualche affinità concettuale o addirittura verbale con il nipote, segnaliamo: c. 9 (“a questo segno”: cfr. nel c. II dei P. Sp., Lucia che esclama: “fino a questo segno!”); c. 14 (“tasteggiano gli animi, come i musici gli stromenti”: cfr. finale del c. IV: “Chi, passando per una fiera, s’è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda il suo stromento...”); c. 36 (“Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha più sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali”: cfr. c. X: “E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa”); c. 38 (“Quanto il timore... è più pubblico, ed agita una moltitudine più grande di uomini, tanto è più facile che vi sia o l’imprudente, o il disperato, o l’audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti più grati, e tanto più seducenti, quanto il rischio dell’intrapresa cade sopra un maggior numero..”: cfr. la folla del c.XIII, all’assedio della casa del vicario di provvisione, esaminata con sublime intuito psicologico, nel brano che inizia: “Nei tumulti popolari”. Invece vi è contrasto fra il pessimismo del Beccaria al c. 2 (“Nessun uomo ha mai fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del bene pubblico”) con quanto dice il Manzoni nel c. XXII a proposito del cardinal Federigo; o nel c. XXXI, a proposito dei cappuccini al Lazzaretto durante la peste.
[124] Joseph Addison (1672-1719) fu deputato Whig (progressista) e sottosegretario nel governo inglese, dopo l’avvento degli Orange e la cacciata degli Stuart (1688). Della atmosfera borghese e puritana rappresentò il risvolto letterario ed etico: sobrio ed elegante nello stile, quanto disciplinato ed esigente nella moralità. Egli aveva collaborato con Richard Steele nel The Tatler (Il chiaccherone), rovesciando poi le posizioni e avendo come collaboratore subordinato lo stesso Steele per The Spectator . Questi era un dublinese dissipato ed avventuriero (1762-1729), che finì per morire coperto di debiti. Ma era stato lui opure deputato ed aveva scritto commedie sentimentali (The tender husband: Il marito affettuoso: 1705; The conscious lovers: Gli amanti coscienziosi: 1722) ed aveva diretto altri periodici, come “The Guardian” (1713: risorto, poi, a Manchester come il quotidiano “liberal” per eccellenza) e “The Englishman” (1713-4). Ma Addison lo oscurò con le sue doti letterarie di vivacità ed umorismo. Dello stile colloquiale (semplice ma disinvolto, sobrio ma divertente) dello Addison han fatto le spese il cattolicesimo, cui egli si oppose cordialmente; e l’Italia tutta, che egli visitò, scrivendone giudizi poco lusinghieri (Remarks on several parts of Italy: 1705).
[125] Gasparo Gozzi (avremo modo di incontrarlo fra i letterati del secolo) aveva come modello The Spectator di Addison ed era finanziato, per la “Gazzetta veneta”, da un gruppo di commercianti, cui stava a cuore più la pubblicità degli annunci commerciali che non le notizie letterarie o di costume (fatti di cronaca veneziana), che invece erano più congeniali al Gozzi, che vi esprimeva la sua vena umorale e il gusto per la descrizione realistica. Pubblicando, in proprio, prima L’osservatore veneto e, poi, gli Osservatori veneti, egli abbandona la cronaca spicciola, perdendo così l’agilità e la scanzonatura della narrazione; subentrano descrizioni più prolisse di fantasia o di morale, che compensano il minor vigore stilistico con una maggior sapienza psicologica, particolarmente nei ritratti di personaggi, caratteristici della società del tempo.
[126] Queste leggi della produzione-commercializzazione dei beni trasformati dall’uomo sono innegabili: il marxismo, che le ha combattute, è crollato senza colpo ferire, proprio per il fallimento dell’antiliberismo più accanito e sistematico che si sia mai sperimentato nella storia umana. Ma, a sua volta, il sistema puro mette al centro della economia non l’uomo, ma la produzione ed il guadagno: si finirà, così, per avere l’efficienza ottimale di tale sistema nelle sole nazioni all’avanguardia del progresso tecnico, cioè creatrici geniali di sempre nuovi brevetti di produzione, che finiscono per garantire il dominio del mercato con l’incremento continuo della efficienza nel lavoro e, quindi, con la possibilità di immetterla in commercio a prezzi concorrenziali insuperabili. Ma il resto della umanità sarebbe, in tal modo, condannata a venir esclusa dal progresso nel benessere, od a diventar schiava dei paesi efficienti. Perchè i criteri liberisti evitino questo scoglio disumano, esigono come premesse o la unità politico-economica del mondo intero od alcuni correttivi transitori, anche protezionistici (in favore, appunto, della parte più debole dell’umanità) per i tempi necessari alle nazioni meno abili ad apprendere le nuove tecniche ed a sostituire le attività (dalla agricoltura alla industria ed alle tecniche di commercio) non più redditizie, perchè incapaci di concorrenza sul mercato mondiale. La mancata finalizzazione ultima della economia all’uomo può condurre alla situazione denunciata dal tremendo assioma della sapienza latina : summum ius, summa iniuria (la sola giustizia conduce alle ingiustizie più gravi).
[127] G. Palmieri, nativo di Lecce e morto a Napoli, fu amministratore e direttore delle finanze nel Regno. Scrisse, tra l’altro, le Riflessioni sulla pubblica felicità| Pensieri economici| Della ricchezza nazionale.
G. M. Galanti, nato a Santacroce del Sannio (Benevento) e morto a Napoli, fu anche uomo politico. Scrisse un Elogio del Genovesi, la Descrizione del Molise, Descrizione della Sicilia (incompleta) ed il Testamento forense.
G. D. Romagnosi, nato a Salsomaggiore e morto a Milano, studiò presso i gesuiti, si laureò in giurisprudenza, si iscrisse alla massoneria e si pose al servizio dei francesi entrati in Italia nel 1796. Imprigionato dagli Austriaci nel 1799, liberato nel 1802 ed ottenuta la cattedra di diritto pubblico a Parma, contribuì alla stesura del codice penale del Regno italico e nel 1807 ottenne cattedra a Pavia (diritto civile). Fondò la Scuola speciale politico-legale a Milano, che, tornati gli Austriaci nel Milanese, dapprima mantenne (benchè dal 1812 soffrisse i postumi di una emiplegia). Scrisse anonimo il volume: Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (Lugano, 1815): quando lo si scoprì autore, gli fu tolto l’insegnamento (1817) e gli fu impedito di accettare la cattedra che gli Inglesi gli offrivano a Corfù. Finì nella povertà, ma ebbe discepoli Carlo Cattaneo, G. Ferrari e Cesare Cantù. Dalle molte opere, si rivela un uomo di cultura eccezionale,dalla filosofia (Vedute fondamentali sull’arte logica| La scienza delle Costituzioni| Assunto primo della scienza del diritto penale| Giurisprudenza teorica ossia Istituzione di civile filosofia: egli è un giusnaturalista, che vuol conciliare ordine e libertà e sostiene la monarchia temperata come forma ideale di governo) al diritto (Genesi del diritto penale), dalla storia (a parte la collaborazione agli Annali di statistica, egli tentò di delineare la evoluzione della civiltà umana in “Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento” che si appoggia alle dimensioni morale e politica, economica e diritto) alla economia ed alle scienze matematiche.
Pasquale Paoli, patriota corso e capo della ribellione per la indipendenza dell’isola, combattè, vittorioso, contro i Genovesi e, perdente, contro i Francesi, cui era stata venduta l’isola (1768); si appoggiò agli Inglesi (1790) che però non lo vollero vicerè e solo lo ospitarono a Londra quando l’isola tornò alla Francia.
[128] Gli “Elementa metaphysicae mathematicum in morem ordinata (1743-7; in volgare nel 1766 col titolo: Istituzioni di metafisica) sono dedicati a Benedetto XIV e confutano il panteismo ed i fatalisti (prima parte: ontofisica e cosmosofia); il deismo (seconda parte: teologia), epicureismo e materialismo (terza parte: psicosofia); ed i libertini (quarta parte, aggiunta successivamente: scienza morale). Ciò non toglie che l’opera fosse accusata presso la Congregazione dell’Indice, per panteismo e giansenismo: è falsa la prima accusa e, sebbene non fosse senza fondamento la seconda, il libro non venne proibito, per l’intervenmto di mons. Celestino Galiani, suo protettore. Le tesi giansenistiche, che sottopongono troppi atti della Chiesa al controllo statale (anche secondo il Genovesi, la scelta dei vescovi è pure un diritto del governo!) sono più chiaramente sostenute nelle Lezioni di commercio, che furono messe, per questo, all’Indice dei libri proibiti (1766), ma soltanto “donec corrigantur”, cioè sino alla correzione dei passi incriminati. Vista la sincerità nell’esporsi chiaramente alle conseguenze delle idee che sapeva contrarie alla dottrina della Chiesa, non c’è motivo di vedere della ipocrisia nel complesso dei suoi scritti, che sono sostanzialmente cattolici, anche se nelle “Lettere ad un amico provinciale” (chiara imitazione delle Lettres provinciales di Biagio Pascal) egli si rivela, da buon giansenista, anticlericale.
Diamo qui l’elenco delle altre opere. Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (1753); Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale (1758); Lettere filosofiche (1759: apologia del proprio pensiero); Elementi di fisica sperimentale, ad uso dei giovani principianti (1761); Elementa logico-criticae (1766: Istitutuzioni di logica); Logica per i giovanetti (id.); Metafisica per i principianti (id.); Lettere accademiche sulla questione se siano più felici gli ignoranti o gli scienziati (1766, il primo volume; postumo –1777- il secondo: quest’opera è connessa con un’altra in latino, intitolata “De iure et officiis”: 1764). Nella Diceosìna, o filosofia dell’onesto e del giusto, il Genovesi si rivela cattolico, anche se ancora aspro contro la struttura della Chiesa, che egli auspica puramente spirituale, praticamente disincarnata.
[129] Prescindiamo, qui, dal caso in cui si agisce al di fuori (“moti primi primi” od inconsapevoli, dettati da un “arco riflesso semplice” del sistema nervoso) o contro coscienza (e qui siamo nella sfera del disonesto), per solo impulso emotivo-istintivo; e da quello opposto, in cui si agisce contro le sollecitazioni sensoriali, per pura forza di volontà che rinnega ogni spinta animale (atti non rari, in cui occorre vincere istinti, paure, rabbia, per seguire la coscienza morale; ed atti eccezionali, in cui si rinuncia addirittura all’uso della vita emotivo-istintiva non strettamente necessaria alla sopravvivenza, (con i voti di povertà, castità, ubbidienza od anche col martirio). Solitamente le due sfere –neurovegetativa e razionale- non sono in contrasto, ma in sintonia: almeno nelle persone equilibrate e mature.
[130] Promessi Sposi, c. 13 (brano “Nei tumulti popolari”).
[131] Nel “Settecento” vallardiano di Giulio Natali, si possono trovare altri titoli di poemo eroici, in genere scritti da religiosi e su temi sacri, magari ad imitazione di Dante: si veda al capitolo XII (vol II, pp. 1044-8 della 5^ edizione 1960): Il Trionfo della Chiesa (in seguito: La Gigantomachia) di Jacopo Visetti (1775-7| 1814); Adamo, di Giuseppe Rota (1778); La Provvidenza , di Gasparo Leonarducci (1739).
[132] “Niente è buono se non il vero; il vero solo è amabile: esso deve regnare dappertutto ed anche nella favola... Amate dunque la ragione: che sempre i vostri scritti attingano da essa sola e il loro splendore ed il loro pregio”. Seguiamo, per queste note di estetica del secolo, N. Sapegno, Compendio di storia della lett.it., cit. II, p. 380 e ss.
Un altro teorico di arte che ebbe influsso in Italia fu il gesuita Domenico Bouhours (1628-1702): sebbene la sua opera “Manière de bien penser sur les ouvrages de l’Esprit” (1687) abbia incontrato polemiche roventi, per l’accusa alla letteratura italiana di essere stata la fonte del malgusto barocco, ebbe però anche seguito pel suo appello ad un “purismo” moderato che, sulla lingua, rifuggiva tanto dall’arcaismo programmatico che dal neologismo acritico, per una scelta basata sul buon senso e sul gusto delle persone colte; e, sulla produzione letteraria, si affidava alla imitazione dei classici. Il confratello italiano Francesco Saverio Quadrio (1695-1756: uscì, poi, dalla Compagnia) rappresenta uno dei teorici più estremisti del classicismo in sede letteraria (Della storia e della ragione di ogni poesia: 1739-52: vasto panorama di storia letteraria universale). In sede di arti figurative, vi è uno studioso altrettanto unilaterale, Francesco Milizia (1725-98) che con le sue numerose opere (1768: Vite dei più celebri architetti d’ogni nazione e d’ogni tempo; 1773: Del teatro; 1781: Princìpi di architettura; 1781: Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno; 1787: Dizionario delle arti del disegno) si attirò il titolo di “scudiero dei classici”.
[133] Nella filosofia di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), il salto fra la sensibilità animale e la ragione umana è quello posto fra le “percezioni semplici” ed “appercezioni coscienti”: ma anche all’interno delle appercezioni vi sono poi infinite gradazioni, sicchè vi è posto per una attività razionale-cosciente, non filosofico-scientifica, l’arte appunto...
[134] Oggi Roggiano Gravina, in prov. di Cosenza.
[135] Altre opere di carattere letterario: Delle antiche favole (1696), Opuscula (id.), Tragedie cinque (Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano); De disciplina poetarum (1712); Della tragedia (1715); Della divisione dell’Arcadia (1712).
[136] Oltre le poesie (che Carducci, amabilmente, sconsiglia di leggere...), ricordiamo la edizione delle opere di Carlo Maria Maggi, le biografie del Castelvetro, di Carlo Sigonio, del Tassoni, di Francesco de Leméne, di Carlo Maria Maggi, di Gian Giuseppe Felice Orsi; studi di psicologia (Delle forze dell’intendimento umano; Della forza della fantasia);
[137] L’uso dell’endecasillabo e la rigorosa osservanza delle tre unità (argomento, tempo e luogo) nelle sue tragedie attestano che il Conti rimane sostanzialmente nell’area razionalstico-classicista anche in sede di poetica. Il Conti commise, infatti, attentati drammatici, anzi tragici: le sue “bombe” teatrali riescono però troppo fredde e... non fanno colpo: Giunio Bruto| Marco Bruto| Druso| Giulio Cesare. Tradusse inoltre da Anacreonte e da Orazio, da Racine (Athalie) e dal Pope (Il ricciolo rapito). Suo è anche un poemetto (Il globo di Venere) ed un idillio (Proteo). Era uomo di vasti interessi e viaggiò per l’Europa occidentale, dalla Francia alla Germania, dall’Olanda all’Inghilterra.
[138] E col Vico inizia, prima dell’idealismo tedesco, l’errore che possa esistere una razionalità non logica, un’umanità che pensa ma non ragiona, un’attività non più animale ma non pienamente umana (sensibilità, fantasia...). Con questa falsa prospettiva, non solo l’arte finisce fra le operazioni dell’uomo prelogiche e, quindi, meno spirituali, ma anche la religione, altra pretesa operazione solo auroralmente razionale, non dimostrabile filosoficamente. Di qui la nostalgia dell’età romantica per la fede nella divinità e nella immortalità dell’anima, unita alla pretesa coscienza scientifico-filosofica della fabulosità o miticità di simili miraggi, ideali da sogno e non da realtà. La religione, come l’arte, diventa un “sogno fatto in presenza della ragione”! Vedremo questa dottrina diventare somma poesia in U. Foscolo. Il positivismo di Augusto Comte (1798-1857) riprenderà, in peggio, simili posizioni denigratorie rispetto alla piena razionalità delle aspirazioni, della fede e delle pratiche religiose.
[139] Etienen Bonnot de Condorcet (Grenoble 1715, m. nel 1780). L’opere che lo resero famoso sono L’essai sur l’origine des connaissances humaines (1746) e soprattutto il Traité des systèmes (1749), sebbene siano più originali il Traité des sensations e il Traité des animaux. Fu messo all’indice il Cours d’étude (1769-1773) in 13 volumi: le lezioni tenute all’infante Ferdinando di Parma, di cui era stato precettore per nove anni; nel 1776 pubblicò Le commerce et le gouvernement considéré relativement l’un à l’autre; dopo la morte uscirono La logique e, incompiuta, La langue des calculs. Mentre il sensismo fu superato e più nessuno lo difende, vi sono invece delle intuizioni pedagogiche originali che, esposte nel Piano d’educazione tradotto dal Muratori in italiano, sono tuttora suggestive nel campo dell’insegnamento (iniziare dalla esperienza dell’alunno per innalzarlo gradatamente alle idee universali).
[140] Nel “Compendio” più volte citato, Firenze, 1963, vol.. II, p.550. Ne seguiamo, nel complesso, le indicazioni per questo studio sugli autori di poetica del Millesettecento in Italia.
[141] La mancata conciliazione delle due componenti dell’arte non solo compromette la possibilità di comprendere ed aderire alla loro teorèsi estetica, ma disorienta altresì la loro capacità di giustificare alcune intuizioni critiche esatte e fondamentali o di condurre una storiografia critica (e non soltanto erudita) della nostra letteratura. Per quest’ultimo limite, basti pensare alla informatissima Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi (1772-82: dagli Etruschi al 1700): un monumento di erudizione ed una nullità di critica. A documentare, invece, l’incapacità di motivare scelte di gusto in campo poetico, sta la vicenda della fortuna di Dante nei vari studiosi del secolo. Che rinasca la fortuna del sommo poeta stanno a dimostrarlo le trentasette edizioni, rispetto alle sole cinque del Milleseicento (computo di Bartolomeo Gamba). Ma, se si eccettuano il Vico e l’Alfieri, le altre personalità letterarie del secolo, dal Gravina al Parini passando per il Bettinelli, riducono al lumicino il suo valore poetico e lo difendono fino ad un certo punto. Il peggior intenditore della Commedia è stato certamente il Bettinelli, nelle sue “Lettere virgiliane”: eppure Pietro Verri loda tale libro come uno dei... più benemeriti che da molto tempo siansi fatti”. Neppure il Tiraboschi mostra molta simpatia per il poeta fiorentino. Basti vedere, raccolte dal Sapegno, le critiche che questi classicisti muovevano al suo stile, definito ora gotico e rozzo, ora barbaro e disordinato. Anche il solitamente azzeccato Baretti (che difese la Commedia contro il Bettinelli ed il Voltaire), esce (“nei momenti in cui era più sincero” denuncia impietoso il Sapegno) in giudizi come questi: “non v’è uomo che lo possa più leggere senza una buona dose di risolutezza e di pazienza, tanto è diventata oscura, noiosa e seccantissima”. Se questa insensibilità è comune a quasi tutti, le difese che pure molti tentano contro il Bettinelli sono prive di sinderesi, cioè mancano della stella polare della estetica per orientarsi. Poco manca che ritornino alla stima medioevale del capolavoro per motivi allotrii: se le ragioni non sono più quelle teologiche, diventano però ora la sapienza filosofica (G. Gozzi), ora la profondità di lettura psicologica dell’animo umano, ecc.: pregi veri, ma inattinenti. Lo stesso G. B. Vico esalta Dante, perchè vede in lui il nuovo Omero, che incarnerebbe il “popolo poeta” e testimonierebbe di un’età dotata di fantasia razionale ma non di ragione filosofica... Ben più importante è la ammirazione del Baretti, che è brillante nello stile e indovinata a proposito della personalità del poeta. Ma qui è anche il limite del discorso barettiano: egli intuisce la eccezionalità dell’uomo Dante, che merita davvero l’elogio del c. XVI dell’Inferno: “Se l’altre volte sì poco ti costa –rispuoser tutti- il satisfare altrui,| felice te che sì parli a tua posta!” Ma si tratta sempre di un riconoscimento alla virilità e potenza della sua figura esistenziale (che il Baretti “arieta” contro la fiacchezza e pochezza di tanti scrittorelli del tempo), non della sua poesia.
Dunque, dal Gravina al Parini, Dante viene ammirato senza essere inteso nella sua dimensione poetica. Ma ecco che sorge Vittorio Alfieri, anche lui inteso a battagliare contro la poesia arcadica ed il poco livello artistico di tanti scrittori a lui contemporanei, ma capace di intuire che la vera grandezza di Dante sta non nella recisione dei suoi gesti di attore politico o nei suoi pronunciamenti di giudice storico o nella sua profondità di pensatore filosofico, o nella chiarezza dell sua fede religiosa, ma nella forza emotiva della espressione di tutto questo suo mondo e pratico e morale e meditativo e religioso, tanto che ne farà il proprio modello, pur senza dimenticare il Petrarca: primo esempio di un tale abbinamento.
[142] Di S. Bettinelli dovremo parlare più estesamente come scrittore significativo nella produzioneletteraria del seoclo e là daremo notizie più estese; viceversa, pel Cesarotti, artisticamente poco significativo, diamo qui tutte le notizie.
[143] L’Andrès ha lasciato anche le Cartas familiares, cioè le lettere ai parenti, che sono interesanti per le notizie sullo stato degli studi in Italia tra il 1785 ed il 1793.
[144] Pierre Corneille (1608-84) scrisse, fra le altre tragedie, il Cid (1636), il Cinna, l’Horace (1640) e il Polyeucte (1643). E’ anche autore di commedie.
Jean Racine (1639-1699) fu giansenista (fu educato alla scuola del famoso monastero di Port-Royal des Champes), scrisse un’unica commedia (Les plaideurs –I litiganti) e molte tragedie, fra cui Britannico (1669), Berenice (1670), Bajazet (1672), Mitridate (1673), Ifigenia (1674), Fedra e Ippolito (1677), Ester (1689) e Atalia (1691).
Jean Baptiste Poquelin, dit Molière (1622-73), sommo commediografo francese, ha tra i suoi capolavori Les précieuses ridicules (1659), Sgnarello o il cornuto immaginario (1660), L’école des maris (1661), L’ècole des femmes (1662), Tartuffe (1664), Dom Juan ou le festin de pierre (1669), Le misanthtrope (1666), Le médecin malgré lui (1666), Le bourgeois gentilhomme (1670), Les fourberies de Scapin (1671), Les femmes savantes (1672) Le malade imaginaire (1673).
Nicolas Boileau-Despréaux (1636-1711) lo abbiamo già incontrato: più che per le sue 12 Satire ed altrettante epistole, ci interessa per l’Art poétique del 1674, che canonizza il grand siècle, con le verità ed i pregiudizi del razionalismo ad esso collegati.
[145] G. F. Galeani Napione fu un funzionario d’alto rango ed integerrimo dello stato sabaudo; a suo tempo sarà tra i fautori del neoguelfismo, per una confederazione italiana di prìncipi sotto l’alta autorità del papa. Tra il 1813 ed il 1826 pubblicò a Pisa dieci volumi dei suoi scritti, tra i quali vi è un poemetto (La morte di Cleopatra) e una tragedia (Griselda).
[146] Si pensi alla mentalità materialista del marxismo nel mondo occidentale, dopo il cinquantennio di pressione militare-politico-culturale operatasi in quel gran numero di stati, su cui esso si era imposto come dittatura comunista dopo la seconda guerra mondiale: smascherato nei suoi errori, difetti e delitti e sfasciatosi a causa loro, il marxismo ha lasciato una scia di pratico (e teorico) materialismo che sembra invincibile, pur nell’assenza del potere militare-politico che è stato la base del suo fascino ideologico. Due generazioni di lavaggio del cervello attraverso una propaganda raffinata od aggressiva, non si convertono radicalmente per il semplice venir meno di nuovi input istigatori: occorreranno altre due generazioni perchè il “mito” si dissolva di fatto. Con le debite differenze, questa valeva per l’efficacia della riforma tridentina, dopo un secolo e più di massiccia operosità non solo intellettuale, ma anche politica e sociale.
[147] Interessante, anzi scioccante, è il motivo immediato del suo abbandono del mondo per dedicarsi alla Chiesa: dopo aver vinto varie cause, gli capitò di difenderne una della cui giustizia era convinto per la reticenza dei suoi clienti: la scoperta di prove insuperabili della loro colpevolezza da parte dell’accusa lo deluse talmente che abbandonò il foro, come troppo pericoloso per la salvezza dell’anima. E’ dottore della Chiesa per i libri di scienza morale (egli, difendendo sia il probabilismo che l’equiprobabilismo, mise fuori causa sia il lassismo che il probabiliorismo o rigorismo (quest’ultimo era il sistema dei criteri sostenuto dai giansenisti). Partecipò anche alle preoccupazioni per i problemi posti dall’illuminismo alla fede, scrivenmdo l’opera “Breve dissertazione contro gli errori dei moderni increduli”.
[148] Ignazio Silone inserisce il ricordo del miracolo nella miseria infinita dei cafoni, nel suo romanzo Fontamara.
148 S. Giovanni Battista de’ Rossi (1698-1764: era nativo di Voltaggio, nel genovese) che fu prete secolare e visse povero e paziente (soffriva di epilessia), ma si dedicò alle opere di carità e di penitenza (questa, fino all’imprudenza) ed al ministero delle Confessioni, con frutti straordinari; San Giuseppe Pignatelli, italo-spagnolo morto nel 1811, che preparò la restaurazione dei gesuiti; San Giovanni Giuseppe dela Croce (1654-1734); San Teofilo da Corte, minore francescano (Corte, in Corsica: 1676-1740); S. Veronica Giuliani (1660-1727), clarissa cappuccina; beato Gaspare Bertoni; beato Crispino da Viterbo, frate cappuccino; beato Francesco Antonio Fasani, francescano; beata Maddalena Martinengo...
[150] Non che tutto il razionalismo fosse un danno a livello religioso: la credulità nelle streghe va scomparendo; una testimonianza ne è la disputa sulla realtà stessa della loro esistenza fra l’abate G. Tartaglia e Scipione Maffei.
[151] Resta sbalorditiva, pur tenendo conto del permanente malcostume delle famiglie nobili o benestanti a monacare a forza le figlie ed ad avviare alla carriera ecclesiastica i cadetti fra i maschi: che la Chiesa non vi avesse responsabilità lo dimostra il fatto che, documentate alcune situazioni, si scioglievano dai voti le persone interessate (cfr. un caso ne I cento anni, di Giuseppe Rovani). D’altronde, l’avvento delle armate di Napoleone, nel 1796, non significò per nulla l’abbandono della fedeltà ai voti religiosi in un numero clamoroso di persone, “liberate” dai monasteri o dai conventi.
[152] Per questa carrellata sul Settecento fra cristianesimo ed illuminismo, ci rifacciamo sia a Gregorio Penco, Storia della Chiesa in Italia, sia a G. Natali, Il Settecento, opere citate.
[153] Lorenzo Mascheroni (Castagneta, Bergamo 1750-Parigi 1800). Lo ritroveremo tra i letterati, avendo scritto il poeemetto Invito a Lesbia Cidonia. (1793).
[154] Niccolò Forteguerri , di Pistoia (1674-1735) pervenne alla segreteria di “Propaganda fide” (oggi, Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli). Oltre al Ricciardetto (che in 30 canti di ottave, più che imitare l’Ariosto, ha presenti il Pulci ed il Berni, avviato decisamente verso il burlesco e la caricatura dei costumi del tempo), scrisse Capitoli amabilmente critici nei confronti della curia romana e, in latino, Apologhi e Orazioni.
[155]
Nato a Scarperia, in provincia di Firenze, nel 1754, morirà a Firenze nel 1825.
Sacerdote, studiò la prosa italiana del Tre- e Quattrocento e curò l’edizione
delle opere di Lorenzo il Magnifico. Secondo lo stile realistico-canzonatorio
scrisse il Lamento di Cecco da Varlungo
in morte della Sandra. Le cose migliori sono ritenute le Favole, che rivelano un vivo senso del
paesaggio e dei valori morali; meno riusciti i versi, troppo arcadici (Sonetti pastorali| Pastorali per il santo Natale).
[156] Ecco un brano dalle “Memorie”: “ Il contemplare donne divenute uomini, uomini divenuti donne, donne e uomini divenuti scimmie; tutti immersi nello studio delle scoperte e principalmente nelle invenzioni e ne’ cambiamenti delle innumeri follie della moda; in traccia come bracchetti di sedursi gli uni con l’altre, le altre con gli uni; gareggiare nelle lascivie e nel lusso per rovinarsi e per desolare le loro famiglie a vicenda; ridersi de’ Platoni, de’ Petrarchi, lasciare la vera sensibilità del cuore inoperosa, credere la brutalità de’ sensi, leggiadramente vestita, sensibilità; cambiare la indecenza in decenza; chiamare ipocriti tutti quelli che pensavano diversamente, ed ardere incensi con filosofica solennità al culto del dio degli orti; furono tutte cose che dovevano presentarsi agli occhi miei in un aspetto di lacrimevole tragedia, e tuttavia non furon mai che una farsa piacevole all’interno mio niente affatto strupefatto o niente ammirato de’ capogiri dell’umanità”.
[157] Meno attinente è l’altra commedia La finestrina, perchè l’argomento si aggira sulla perenne malizia e malvagità del cuore umano, senza riferimenti, nel complesso, al suo tempo (ma cfr. atto I, sc. 4).
[158] Benchè ormai lontani dal contesto sociale presentato, anche il libro di Cesare Cantù “L’abate Parini e la Lombardia nel secolo passato” (1832) oppure la commedia di Paolo Ferrari “La satira e Parini” (1856), come quella di Alfredo Testoni del 1905 “Il cardinal Lambertini” possono servire ad inquadrare certi aspetti del costume settecentesco.
[159] Le obiezioni teoretiche le riprenderemo subito, studiando i fattori negativi delle proposte settecentesche. Qui ci soffermiamo su alcune obiezioni pratiche. Circa il senso critico, ad esempio, si vorrebbe scommettere che dopo l’Illuminismo nessun Manzoni, per quanto intellettualmente smaliziato e malizioso, potrebbe più procurarsi il divertimento di inventare una biblioteca come quella di don Ferrante, almeno nel mondo occidentale. Questo corrisponderebbe all’incremento di senso critico divenuto d’obbligo con la celebrazione dei “lumi” e l’esaltazioine della “ragione” nel secolo XVIII. Noi siamo d’accordo... fino ad un certo punto: se non per ingenuità “donferrantesca”, una simile biblioteca ha rischiato di riaffiorare vuoi per l’eccesso di malizia (il fenomeno delle menzogne politiche, negli studi disonesti di storiografia da parte del marxismo sovietico; e quello della bugia al martello, da parte di Hitler e dei suoi seguaci, nel secolo XX), vuoi per l’unilteralità sconcertante dei tre figli del razionalismo nel secolo XIX (Karl Marx, Sigmund Freud e Friedrich Nietzsche: i loro libri si stanno riducendo ad un tragico sciocchezzaio, al più rallegrato da qualche scintilla di poesia,almeno nelle opere di Nietzsche).
[160] Ribadiamo i ragionamenti. Per i “sensi esterni”: da una parte, essi ci danno verità pratiche indispensabili per sopravvivere ed operare; dall’altra, necessitano del controllo della ragione, perchè possono condurre ad errori madornali (teoretici: l’apparente aggirarsi del sole attorno alla terra; pratici: il non saper distinguere cibi nutritivi e cibi velenosi o, comunque, dannosi, come avviene invece spontaneamente negli animali). Per l’emotività: la capacità unica di distinguere il piacevole dal disgustoso, l’interesssante dal noioso, l’affascinante dal repellente, il bello dal brutto; solo la ragione, però, sa distinguere il comico dal ridicolo, il piacevole istintivo o pratico-sentimentale da quello artistico od estetico o lirico o puramente emozionale. Per la fiducia nei testimoni: essa è l’unica via per conoscere il nostro passato, cioè la storia umana, compresi alcuni dati a noi indispensabili per vivere “umanamente” (realtà dei nostri genitori); solo la ragione, però, può dimostrare la attendibilità definitiva o soltanto probabile o del tutto inesistente dei testimoni. Per la rivelazione di Dio: se Dio, infinitamente sapiente e buono, parla, va creduto: spetta alla ragione dimostrarne la esistenza e l’attendibilità storica della Sua rivelazione.
[161] Dobbiamo aver anche segnalato come si possa passare dalla probabilità (o certezza morale soltanto) alla certezza assoluta: è l’atto di volontà che decide di aderire alla “parola di Dio” (se essa appare alla ragione come storicamente attendibile) come a qualsiasi altra verità in sè evidente (assiomi) o dimostrata dalla ragione. Tale “promozione del grado di certezza” è imposta dalla ragione stessa, quando si tratti delle verità che più impegnano la nostra vita (caso di paternità e maternità personale| caso di personaggi storici da cui dipende ancora la nostra cultura- ad esempio la esistenza di Napoleone| caso della adesione a Dio, che non può tollerare in sè alcuna esitazione o dubbio).
[162] René Le Senne, nel suo Traité de caractérologie (Parigi, P.U.F., 1952 ) afferma che “il secolo XVIII in Francia si è costruita una filosofia adatta ai caratteri dei collerici e dei sanguigni: i primi, santificatori degli istinti; i secondi, salottieri e amanti della conversazione brillante e maligna”, pp.322-3.
[163] Che il “secolo di Dante” (che è il Milledue, non il Milletrecento!) sia un secolo razionalista e scientista, lo sostiene G. Toffanin nela sua Storia dell’Umanesimo, come già dichiarato a suo luogo.
[164] Nacque a Ginevra nel 1712 e fu, dunque, calvinista. Il padre era lunatico e il figlio fu allevato male, essendo morta la madre nel darlo alla luce. Indocile alla disciplina ed al comando, sognatore, asociale, inizia da ragazzo le sue fughe dalla società, i suoi fallimenti, le sue peregrinazioni. Pastorello indocile (il padre deve emigrare per una rissa), addetto poi ad una cancelleria come aiuto, passa a lavorare come incisore. Una sera, tornato a casa tardi, trova chiusa la porta e decide di partirsene all’avventura. Si converte al cattolicesimo, sotto l’influsso della signora di Warens ed a Torino è ribattezzato. Ma seguono ancora vagabondaggi in Francia ed in Svizzera. Raccolto ancora da madame Warens nel 1732, ospitato alle Charmettes (Chambéry) come amante, legge molto, fa musica, si abbandona alla natura: diventa un autodidatta. Dopo una dicina d’anni (1741), è la rottura: scende a Parigi, dove rimarrà sino al 1749. Si occupa in impieghi vari (collabora con Voltaire, viene associato alla Ecnyclopédie per la parte musicale, accompagna a Venezia l’ambasciatore di Francia.... ma fa fallimento nei salotti, per mancanza di prontezza di spirito e per la sua relazione con una cucitrice, che poi sposerà (Teresa Levasseur, da cui ha vari figli che abbandona all’ospizio dei trovatelli). Nel 1749 il Mercure de France lancia il famoso concorso “Si le rétablissement des sciences et des arts a contribué à épurer les moeurs”. La risposta negativa di Rousseau forse era l’eco dei paradossi e dei ragionamenti scherzosi che gli fece quel caposcarico di un Diderot, che si trovava in prigione a Vincennes per aver difeso l’ateismo e che il Rousseau andava a trovare leggendosi il Mercure. Nel suo Discours del 1750, Rousseau sostiene, dunque, che “la civilisation et le développement a été funeste à la vertu primitive de l’homme”. Elogia la virtù dei primitivi Svizzeri e dei selvaggi d’America, adduce gli esempi di Sparta e di Catone; mette in luce come la scienza produca il lusso, l’orgoglio e, quindi, la corruzione. Egli sostiene però che non occorre tornare indietro, ma preoccuparsi di più del pubblico interesse e della educazione che non della scienza. Contro il suo secolo e contro i lumi, dunque,.... ma fino ad un certo punto. Dopo questo successo, egli partecipa anche al secondo concorso (“Quelle est l’origine de l’inégalité parmi les hommes et si elle est autorisé par la loi naturelle”) e risponde mettendo in luce i misfatti della proprietà: ma stavolta la tesi, che apre la strada al socialismo e non tien conto del libero arbitrio, rendendo gli uomini dipendenti dalle circostanze ambientali, non è premiata. Si ritira allora a Ginevra, dove abiura al cattolicesimo e ritorna calvinista. Accetta poi l’invito di madame d’Epinay all’Ermitage (Montmorency): ma la presenza di Tersa e di sua madre creano pettegolezzi e dissapori; si aggiungano il suo amore platonico per M.me d’Houdetot, amica del poeta St. Lambert e la inimicizia di Grimm, a fargli abbandonare il nuovo rifugio. Si urta anche con Diderot; al D’Alelmbert che elogia il teatro sulla Encyclopédie, egli risponde con una lettera in cui condanna la commedia come corruttrice, citando ad esempio Molière (1758).Ormai Rousseau è isolato: ha rotto anche con i “filosofi”. Dal 1757 al 1762 è ospite della famiglia del maresciallo de Luxembourg e pubblica in 15 mesi La nouvelle Héloise, Le contrat social e l’Emile. In realtà La nouvelle Heloise trascrive il suo dramma con M.me Sophie d’Houdetot, il suo amore puro ed ardente. E’ un romanzo epistolare ed a tesi: la vita rustica esalta la virtù (Héloise rimane fedele al marito, anche quando torna il suo antico precettore Saint-Preux, amante-riamato, con cui ha avuto un rapporto, ma che ormai non può più amare , perchè essa ha sposato per volontà dei parenti e criteri di stato sociale, M. de Wolmar, scettico, oltre tutto, mentre lei e credente. Muore cristianamente, per lo sforzo di salvare un figlio che stava per annegare nel lago. Ne Le contrat social (1762), afferma che l’uomo abdica ai suoi diritti naturali, per aver protezione nella persoan e nei beni. Il contratto non dovrebbe togliere la libertà solo nel senso che “donandosi a tutti, non si dona a nessuno”; esso manterrebbe l’uguaglianza e creerebbe il passaggio dallo stato naturale (senza diritti nè doveri) allo stato civile. La forza non crea diritti. La volontà del popolo crea il potere. Il potere è di tutti e non può essere diviso, ma ha per fine gli interessi particolari. Dei tre governi tradizionali, la democrazia è quello ideale,anche se il più lento; l’aristocrazia elettiva è l’ordine migliore e più naturale (Ginevra come modello!); quello monarchico è veloce nelle decisioni, ma tende alla tirannia. In base alla storia romana, auspica un tribunato conservatore, l’eccezionale istituto della dittatura in casi estremi, la censura per il buon costume e la religione civile per una mistica dei cittadini. Emile, da piccolo, viene allevato senza fasce; da ragazzo, senza costrizioni nè troppi studi; con metodo induttivo da adolescente; alla religione, solo a 18 anni. Ed ecco che cresce sano, secondo natura e si sposa felice con Sofia, educata alla stessa maniera. Non costringere, spontaneità, legge naturale, non sottomissione all’uomo, doveri di natura soltanto, non imposizione dell’educatore... Il Parlamento di Parigi condanna l’Emile, che viene confiscato e bruciato. Vi è, anzi, un ordine di arresto contro l’autore, che però fugge. Cacciato pure da Ginevra e dal suo territorio, nonchè da quello di Berna, trova alfine rifugio in Inghilterra, invitato da Hume, con cui, manco a dirlo, si urta. Torna nel 1767 e, dopo un vario girovagare, scende a Parigi nel 1770. Ora lo prende la mania di giustificarsi: ecco le Confessions (edite solo postume in due parti, tra il 1782 ed il 1789, ma conosciuto ampiamente, per le letture da lui fatte nei circoli alla moda); ed ecco tre strani dialoghui, raccolti in Jean Jacques juge de Rousseau. Egli sospetta che vi sia ora una congiura universale contro di lui, mania da disequilibrato, nonostante il fatto che lo scritto (con tutta probabilità di Voltaire) “Sentiment des citoyens” aveva procurato una sassaiola contro la sua abitazione nel canton Ginevra. Nel 1776 si è però liberato da tale ossessione e vive in pace, scrivendo Les reveries d’un promeneur solitaire (1776-8). E’ ospite dei signori Girardin, ad Ermonville, presso i quali muore: nello stesso anno, 1778, che Voltaire. Scrisse anche la Lettre sur la Providence (1756) e La profession de foi d’un vicaire savoyard. Temperamento nervoso (emotivo, distonico a prevalenza vagale, non attivo, instabile), egli è ipersuscettibile, facile a sentirsi umiliato ed a chiudersi in se stesso (vicinanza al tenmperamento sentimentale): è un caso subpatologico. Da almeno tre personaggi è stato definito pazzo: dal conte Montaigu, ambasciatore a Venezia, quando dovette licenziarlo dal posto di segretario d’ambasciata, dopo solo undici mesi (Rousseau evitò l’arresto fuggendo); da Edmund Burke (“In lui il vizio della vanità sfiorava la pazzia”); dal biografo di David Hume che, commentando la lettera di 18 pagine “in folio” scritta al filosofo, la definisce “prova irrefutabile dell’incoerenza dei folli. Essa rimane uno dei documenti più brillanti e affascinanti prodotti da una mente stravolta” (cfr. Paul Johnson, Gli Intellettuali, Milano, Longanesi, 1989). Errore fondamentale della sua interpretazione dell’uomo: esclusione del peccato originale, come affermò subito l’arcivescovo di Parigi, Christophe de Beaumont, condannando l’Emile.
[165] Tesi sostenute nella partecipazione al concorso promosso dall’Accademia di Lione (1750).
[166] “Sturm und Drang” furono o i due termini usati per disprezzo dallo svizzero C. Kaufmann per definire il lavoro teatrale di Friedrich Maximilian Klinger (1752-1831), intitolato Caos (Wirwarr) o il titolo proprio di un altro sfrenato dramma dello stesso Klinger (da tradursi come “Bufera di sentimenti”).
[167] A. Haller fu docente di anatomia e chirurgia a Gottinga, ma scrisse anche un poemetto che esprime la poesia della montagna, a contatto con la natura (Die Alpen, Le Alpi, del 1729): è considerato un precursore-ispiratore di Klopstock.
[168] Klopstock è l’autore del poema intitolato Der Messias (poema epico in 20 canti di esametri, finito nel 1773), ma anche di odi ed inni ispirati e dell’ossianesca trilogia scenica Arminio, con cui nasce il teatro nazionale germanico.
[169] Thomas Parnell (irlandese, 1679-1718: The night piece on death -Composizione notturna sulla morte-); Edward Young (1683- 1765: The complaint; or nights thoughts on life, death, and immortality: una lunga composizione autobiografica in verso sciolto –blank verse- elegante ed accorata); Thomas Gray (1716-177: Elegy written in a country churchyard; The bard; The descent of Odino). Li riciteremo a suo luogo, fra non molto.
[170] Dobbiamo prendere in considerazione anche il Pietismo, che fu un movimento di spiritualità cristiano-luterana in Germania: consisteva nell’emarginare, come fattori di dissipazione e dissensi, le questioni teologiche riguardanti la interpretazione della Scrittura e la fede (il dogmatismo, che si era conservato anche nella teologia protestante) per rifugiarsi nella devozione interiore, nella “religione del cuore”, nell’intimo della propria coscienza, dove trovare Dio e parlarGli. Era uan forma di religiosità che puntava sul sentimento più che sulla ragione: per questo può essere inteso come contrastante il razionalismo e come un prodromo della psicologia romantica. Si sviluppò dal 1670 al 1740 circa, ma fu in tempo ad influenzare il giovane Goethe che, sulla linea dell’attitudine spontaneo-sentimentale del pietismo, scrisse le pagine intitolate “Confessioni di un’anima bella”, inserite poi nell’opera “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister”: egli aveva contattato il movimento attraverso Susanne von Klettenberg, durante una malattia della gioveninezza, negli anni 1768-9. Anche Herder e Klopstock ne erano a conoscenza ed influenzati, grazie alla pubblicazione da parte dei “pietisti” di un genere quasi nuovo di letteratura: la autobiografia spirituale, in cui esponevano, per la edificazione dei lettori, le loro esperienze religiose. E’ da tali pubblicazioni ( si citano il fondatore del movimento, Ph. J. Spener, A. H. Francke, J. H. Jung-Stilling) che nascerà il romanzo “epistolare”, il genere di diario che giungerà presto ai “Dolori del giovane Werther” ed alle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”. Attraverso Herder, il pietismo ebbe risonanze nello Sturm und Drang: anch’esso disdegnava l’uso arido e polemico della ragione, per rifugiarsi nel sentimento (pur senza accorgersi che almeno un effetto era uguale al razionalismo illuminista: la religione finiva per ridursi alla religione naturale, al deismo, anche se i gruppi di “pietisti”, appoggiati dal re di Prussia Federico Guglielmo I, nelle adunanze meditavano sul Nuovo Testamento, con finalità edificanti, dando per scontata la fede tradizionale in Cristo salvatore). Si noti fin d’ora che l’atteggiamento passerà poi a Friedrich Schlegel (romanzo Lucinde: 1799) e, attraverso Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834), preparerà il movimento Modernista in campo cattolico.
[171] In proposito si veda B. Croce, “La filosofia di G. Vico”, Bari, 1922; e la “Introduzione allo studio del Vico” di Franco Amerio, Torino, SEI, 1947; Fausto Nicolini, “La religiosità di G. Vico”, Bari, 1949.
[172] B. Croce afferma che le tre opere che val la pena di leggere sono l’Autobiografia, il De antiquissima italorum sapientia e la Scienza nuova. Tuttavia segnaliamo ancora De universi iuris uno principio et fine uno (1720), il De constantia iurisprudentis (1721).
[173] Tra le interpretazioni più discusse, stanno quella del senso del suo assioma iniziale: “verum ipsum factum”; della esistenza o meno di un “senso” e di una “fantasia” senza la razionalità piena (sino alla logica) negli uomini delle prime due età del corso storico; quella (conseguente) della indifferenza tra sentimento ed emozione; quella della trascendenza o meno della “Provvidenza”, riconosciuta dal Vico nell’elevarsi delle singole età all’interno dei singoli “corsi” e nel trapassare dalla decadenza più corrotta dell’ultima età di un corso alla ripresa di un nuovo corso (“ricorso”) storico; quella della liceità o meno per lo storico a pronunciare giudizi di approvazione e condanna su personaggi ed epoche storiche, vista la necessità-validità di tanti strati diversi di elevatezza umana nel corso delle diverse età. Vedremo che l’accettare uno dei corni di questi dilemmi piuttosto che l’altro definisce la posizione religiosa ed etica dello studioso, cioè fa del Vico od un cristiano candido e fedele, pur nell’approssimazione di alcune sue sentenze; oppure un precursore dell’idealismo e dello storicismo assoluto, di stampo crociano. Ne riparleremo.
[174] “Degnità” è per il Vico un assioma o postulato, premessa evidente, cioè, alle sue riflessioni sulla scienza storica.
[175] E’ il Vico che ha ispirato al Foscolo i versi dei Sepolcri “Dal dì che nozze e tribunali ed are| diero all’umane belve essere pietose| di se stesse e d’altrui...”
[176] Il Vico prescinde esplicitamente dalla storia sacra del popolo ebraico, perchè essa è guidata da una Provvidenza soprannaturale che la mente umana nè sa scoprire nè sa spiegare.
[177] Le citazioni sono prese dalla “Conchiusione dell’opera”: nella edizione curata da F. Nicolini per “Gli scrittori d’Italia” Bari, Laterza,, 1953, sono nel secondo volume, a pp.164-6.
[178] A p. 6 del I volume, nell’edizione a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1953.
[179] Chi parla è Flegia(s), figlio di Marte e padre di Issione, condannato agli inferi pagani per i molti delitti commessi: la pena è la minaccia della caduta di una enorme roccia incombente, che lo paralizza dallo spavenmto: egli grida perciò “Discite iustitiam, moniti, et non temnere divos” (Eneide, 6, 620).
[180] Il legame tra “verità” e “conoscenza” esiste, ma in questo senso: la “verità” è la “realtà tutta in quanto conosciuta”. L’altra frase da lui usata “verum et factum convertuntur” egli la prende dalla Scolastica, che però afferma “ens, verum et unum convertuntur”, nel senso che l’esistente, il vero e l’unità si possono trasformare l’uno nell’altro” e –al limite (cioè in Dio)-coincidono. Il Vico corregge “convertuntur “ in “reciprocantur” che ci pare sottolineare la reciprocità ed escludere la coincidenza (il vero e il fatto si richiamano vicendevolmente o si possono scambiarele parti, ma non coincidono perfettamente).
[181] L’indovinello è notissimo: “qual è l’animale che al mattino cammina con quattro gambe, a mezzogiorno con due ed alla sera con tre”.
[182] Ne consegue che, nell’uomo sano di mente, mai può darsi attività conoscitiva che non sia anche razionale e soggetta alle leggi della logica; nè attività ludicra che non sia anche responsabile e soggetta alle leggi morali. L’arte letteraria non può prescindere dal ragionamento, a meno di non essere artistica perchè non umana.
[183] Abbiam detto, per scrupolo, “nell’uomo”. Infatti, gli animali non pare abbiano fantasia nel senso umano. Se la fantasia è la “mobilizzazione” della memoria, certo, gli animali possono giungere a connettere le varie cognizioni della memoria, ma solo attraverso stimoli sensoriali (sia interni che esteriori: la comparsa, dall’esterno, di un oggetto amico o nemico; la sollecitazione di un ormone, dall’interno). Ma nell’uomo, la fantasia può essere mossa dalla semplice volontà di lavoro, cioè dal bisogno intellettaule di farla agire, unificando i “messaggi|conoscenze” più disparati della memoria a fini intesi dalla intelligenza come utili in ogni modo, anche indipendentemente dalla ricerca del piacere o dalla fuga dal dolore, che sono in definitiva gli unici motori della fantasia animale.
[184]Un problema ulteriore: visto che il Vico connette “l’animo perturbato e commosso” (o “le passioni e gli affetti”) con l’arte, allora vale per lui come per tutti i teorici d’estetica|poetica del Millesettecento l’interrogativo: questi vari “animi motus” (mozioni dell’animo) sono emozioni irrazionali o razionalissimi sentimenti? Ma è chiaro che non potevano, prima degli sviluppi della scienza neurologica della fine del Milleottocento, nè lui nè i suoi contemporanei, dare una risposta qualsiasi.
[185] Solitamente si considera la cultura romana come una dipendenza e continuazione di quella greca, più che una sua risurrezione: quando Roma occupò la Grecia nel 146 a. C., la lingua e la cultura greca dominavano il mondo del mediterraneo e Roma stessa fu assorbita nell’ambito di tale forma di civilizzazione (Orazio: Graecia capta ferum victorem cepit: “La Grecia, sottomessa, si impadronì del vincitore selvaggio, barbaro).
[186] Si veda anche la “sezione quarta: Del metodo” a pp. 123-131 del vol. I dell’edizione Laterza, cit.
[187] Per dimostrare la discreta acutezza psicologica del Vico, si legga tutta la “Sezione seconda” –Degli elementi-, che riporta ben 114 “assiomi o degnità”: esse riguardano, appunto, il comportamento umano comune, lo standard dei criteri di azione dell’uomo di sempre: sono a pp.73-116 del primo volume, dell’edizione Laterza, cit. Noi avremo modo di riportarne più di uno, per documentare quel tanto di (almeno potenziale) poesia, presente in alcune espressioni della Scienza nuova.
[188] Con altre parole potremmo forse dire: uno storicismo metodologico o relativo è da accettarsi ed inculcarsi; uno storicismo metafisico ed assoluto, è da rifiutarsi come disumano. Occorre, cioè, mettersi nell’atteggiamento di chi vuol badare più al positivo che al negativo, assumere un atteggiamento equo, imparziale, distaccato o addirittura fraterno (comprensivo anche delle colpe ed errori). Ma altrettanto fermamente, occorre non abbandonare mai i canoni della verità, del bene, del benessere, della felicità per dare un giudizio certo di conquiste e perdite, di vantaggi e svantaggi, di progresso e regresso nei singoli settori della attività umana (verità, bene, utilità, ricchezza materiale, sicurezza e gioia psicologiche). Altrimenti, come pronunciare giudizi, se non si hanno parametri di confronto? E la nostra espressione è fatta di giudizi, cioè del legame (positivo o negativo) fra due idee attraverso al copula “essere”. La realtà va rispettata, gli errori combattuti, le verità difese, il bene approvato ed il male condannato: anche da parte degli storiografi. Altrimenti, si rinuncia ad essere uomini.
[189] Abbiamo sottolineato noi, per rilevare la trascendenza del concetto vichiano di Provvidenza.
[190] Natalino Sapegno, Compendio, cit., II, p. 422: è nella frase conclusiva di ben 19 pagine dedicate al Vico, senza documentare con una sola citazione i molti “mirallegri” al valore poetico della Scienza nuova....