CAPITOLO X: LA LETTERATURA MINORE DEL MILLESETTECENTO
INTRODUZIONE. La produzione
letteraria del Millesettecento italiano inizia all’insegna della dolce, tenera,
timida Arcadia e termina con i furori tragici di Vittorio Alfieri, attraverso il mare mosso e variegato del petrarchismo,
classicismo, neoclassicismo, preromanticismo. Pure, se si eccettuano l’Alfieri
ed il Baretti, tutti i letterati pagano pegno ai motivi ispiratori (paesaggi di
pace, amori idealizzati), ai toni lirici (contemplativi, tenui, adolescenziali)
del neopetrarchismo metastasiano: persino Parini (nelle canzoentte per dame e
damine e negli scherzi per ventole e parafuochi); pure il Foscolo (nelle rime giovanili di fine secolo...). Lo
stesso Neoclassicismo è un innesto più maturo operato sul fusto snello e
flessuoso della chiarezza e della mitologia arcadica. Non deve far meraviglia
se è attorno all’Arcadia che noi
raccoglieremo i vari rappresentanti della letteratura minore del secolo, sottolinenado
di volta in volta le novità, sia tra i lirici che negli altri settori di
impegno artistico-verbale. Ci ritroveremo, alla fine di questa panoramica (che
non si occuperà per il momento dei tre grandi “matadori”, cioè del Goldoni, del
Parini e dell’Alfieri) con l’antiarcadico Giuseppe Baretti. Ci incontreremo?
No: ci scontreremo, chè lo scrittore torinese, lungi dall’essere una tenera
pecorella dell’ovile belante dell’Arcadia,
si eresse piuttosto a ringhioso
custode del buon gusto, a cane custode del buon senso, impietoso
addentatore di ogni pastorelleria e sdolcinatura, stroncatore di pampini
gementi e di fronde ciondolanti. Ma,
diremo subito, il Baretti ammira il Metastasio: non è l’Arcadia che egli
condanna, ma alcuni o molti o troppi dei suoi rappresentanti e della sua
produzione pseudopoetica. E’ l’attitudine che ci sembra giusta e degna di
essere seguita anche da noi.
L’ARCADIA.
DEFINIZIONE E DESCRIZIONE
COMPLESSIVA.E’ la corrente letteraria che domina la poesia lirica e
melodrammatica in Italia dal 1690 alla metà del Millesettecento: la data
della pace di Aquisgrana (1748) è un utile spartiacque, sebbene poeti arcadici
sopravvivano e producano ancora all’inizio del secolo successivo (Jacopo
Vittorelli, uno dei più grandi poeti del movimento assieme al Metastasio ed a
Paolo Rolli, nacque nel 1749 e morì nel
1835).
E’ caratterizzata da un programma
in parte negativo (antisecentismo,
cioè rifiuto delle ampollosità e del tono stentoereo della produzione barocca)
e, in parte, positivo (semplicità,
chiarezza, razionalità, ordine, naturalezza), al seguito dell’influsso
francese e dei princìpi cartesiani.
Le manifestazioni più
caratterische sono la predilezione già detta per determinati temi di
ispirazione (paesaggi consolatori, amori pastorali, sofisticati se non
illanguiditi, spesso galanti e frivoli,
ma normalmente riportati al pudore petrarchesco, all’idealità
platonizzante); la correlativa dote di emozioni melodrammatiche, che
stanno nei registri oleografici dell’elegia
e dell’idillio, quando non scendono al patetismo, alle sdolcinature,
alla languidezza ed alla rugiadosità; ed infine una tecnica di verseggiatura
che potremmo dire “minore”: senza escludere l’endecasillabo, però la
preferenza va alle canzonette e ariette, ai versi quinari-senari-settenari, con
un linguaggio lontano dal realismo secentesco e nobilitato dalla reminiscenze
classiche (mitologia, termini latineggianti, ecc.).
PREMESSE, RAPPRESENTANTI,
LINGUAGGIO. Il predominio francese col suo spirito di finezza, chiarezza e
distinzione, proteso all’ordine, alla razionalità avevano già da tempo generato
disgusto e stanchezza nei confornti della “barbarie” marinista, del “cattivo
gusto” barocco. L’organizzazione del nuovo atteggiamento spirituale si ebbe con
la fondazione della nuova accademia, l’Arcadia: Roma, 15 ottobre 1690. Ma, a
spiegare la specifica piega o viraggio pastorale di una reazione, per sè aperta
a diverse soluzioni,[1]
occorre tener conto, anzitutto, del successo mantenuto lungo il secolo
decimosettimo dal “dramma musicato” ( spesso a soggetto pastorale); e, in
secondo luogo, della moda “anacreontica, lanciata con grande successo in Italia
da Gabriello Chiabrera, fin dai primi decenni del Milleseicento. Se il
Metastasio, il genio principe
dell’Arcadia, ha potuto incanalare le sue doti nel teatro lirico-pastorale,
dando al movimento arcade la persuasione di essere un moto letterario riuscito[2],
perchè capace di produrre “capolavori”, è perchè tale genere poetico esisteva
già come atmosfera od aura poetica nei motivi
che ispiravano appunto il dramma pastorale, anche se i sentimenti
relativi (idillio, elegia) erano rimasti per lo più allo stato di conato o pura
velleità. Fu il Metastasio che vi
comunicò un soffio vitale, un’onda di vera poesia, anche se i motivi
ispiratori rimasero alquanto ingenui (inverosimili) ed il lirismo riuscì non
poco patetico. Il Metastasio finì per risultare lui il vero inventore, non dell’Accademia in sè, ma
delle caratteristiche che la distinsero soprattutto nei registri lirici, che
addirittura si riassunsero
nell’aggettivo “arcadico”: tonalità idillico-dolciastre, elegiaco-svenevoli,
drammatico-patetiche. Senza di lui, l’Arcadia non meriterebbe forse una
trattazione a sè stante: i vari iscritti all’accademia verrebbero analizzati
ciascuno per proprio conto, chè
basterebbe il contrasto e di teoresi estetica e di espressione lirica fra il
solenne, risentito Gravina ed il mite, condiscendente Mario Crescimbeni per
testimoniare di una diversità di attitudini,
che avrebbe reso impossibile
accomunare i vari componenti sotto il minimo comun denominatore di un motivo
ispiratore e di una tonalità lirica coerente.[3]
Le premesse formali (cioè
essenziali) dell’Arcadia ci sembrano risultare, così, queste quattro: il
dramma pastorale nusicato, la poesia classicheggiante ed anacreontica del
Chiabrera, la cultura frncese semplificatrice e chiarificatrice, la personalità
del Metastasio. Minor importanza ha la quinta componente, che pure,
materialmente, fu quella decisiva: il circolo letterario esistente a Roma e
sponsorizzato da Cristina, già regina
di Svezia perchè figlia del grande Gustavo Adolfo. Piena di vigore maschile e
convertitasi al cattolicesimo, abdicò e venne ad abitare a Roma, risiedendo
dapprima a palazzo Farnese e, poi, in quello Riario (ora “Corsini”). Pur fra
stravaganze (anche sanguinarie) raccolse attorno a sè, con munificenza
mecenatesca, letterati ed ecclesiastici di spirito : Alessandro Guidi, Vincenzo
di Filicaia, Giovanni Francesco Albani, Benedetto Odescalchi (poi papa Clemente
XI) ed il cardinale Decio Azzolino (che di Cristina aveva affascinato l’animo e
cercava di mitigarne il temperamento impulsivo e prepotente). Ebbene, morta
Cristina il 19 aprile 1689, i letterati del suo circolo, tutti antibarocchi e
più o meno classicheggianti, si ritrovarono ancora e, ricordando le adunanze
presso la sovrana, ebbero la impressione di aver rinnovato il mondo
dell’Arcadia, cioè di quella cultura attribuita al Peloponneso mitico,
idealizzato dai poeti come sede della vita pastorale innocente e felice. La fondazione avvenne il 15 ottobre 1690,
quando fu pronunciata la fatidica frase “ Egli sembra che noi oggi abbiamo rinnovato l’Arcadia!” (il senese
Agostino Maria Taja).
Tra i fondatori vi erano G. B.
Crescimbeni, l’arciprete (già incontrato) di S. Maria in Cosmedin che sarà
eletto presidente (“Custode generale” col nome di Alfesibeo Cario); Vincenzo
Gravina, che scrisse le leggi e prese il nome di Opico Erimanteo. Vi aderirono,
poi, tutti gli antisecentisti: oltre al Guidi ed al Filicaia, Francesco da
Leméne, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti, Carlo Maria Maggi, ecc. Dalle leve
più giovani vennero, degni di ricordo, Eustachio Manfredi (Bologna: 1674-1793),
Giovan Battista Fagioli (Firenze: 1660-1742), Giovan Battista Zappi (1667-1719:
assumerà il nome di Tirsi Leucasio e sarà impietosamente canzonato dal Baretti
come l’inzuccheratissimo Zappi, per
quei suoi “smascolinati sonettini, mollemente femminini, tutti pieni
d’amorini”), Carlo Innocenzo Frugoni, genovese (1692-1768: professore di
retorica a Parma, da non confondersi con il religoso secentista Francesco
Fulvio), Ludovico Vittorio Savioli Castelli (Bologna: 1729-1804), Paolo Rolli
(Roma: 1687-1765), Jacopo Vittorelli (Bassano: 1749-1835), Giovanni Fantoni
(Fivizzano, Massa e Carrara: 1755-1807: Labindo Arsinoetico), Lorenzo
Mascheroni (Castagneta, Bergamo, 1750-1800), Aurelio Bertòla de’ Giorgi
(Rimini, 1753-1798: Ticofilo Cimerio), SaverioBettinelli (Mantova: 1718-1808:
Diodoro Delfico), Paolina Secco Suardo Grismondi (Lesbia Cidonia: quella cui il
Mascheroni dedicherà l’“Invito”), Teresa Benedettini Landucci (Amarillide
Etrusca: Lucca, 1763-1837: famosa improvvisatrice), Francesco Cassoli (Reggio
Emilia: 1749-1812), Agostino Paradisi: Vignola, 1736-1783), ed il figlio
Giovanni (1760-1826).
E vi appartennero tutti i
maggiori letterati del secolo: Pietro Trapassi, (Artino Corasio)[4],
il Parini (Darisbo Elidonio), l’Alfieri (Filacrio Eratrastico) e il Monti
(Antonide Saturniano). Vi fu iscritto anche il Goethe. Il Foscolo, non iscritto
ufficialmente, inizia però la sua scrittura poetica all’insegna della
sensibilità metastasiana e dei metri
arcadici.
Il secondo Settecento, benchè
risenta man mano del viraggio neoclassico che, dalle arti visive e attraverso
il Parini, discende alla espressione letteraria[5],
si rivela ancora legato alla atmosfera arcadica, sia pure filtrata dala
produzione policroma e versatile (fin troppo!) di Comante Eginetico, cioè del
professor C. I. Frugoni, che passeggiava da padrone fra tutte le tendenze e
tutti gli schemi metrici del movimento, aggiundendoci di suo il verso sciolto ed il poemetto filosofico. Vi
apparteranno anche alcuni dei preromantici: Ippolito Pindemonte (Verona,
1753-1828) vi ebbe il nome di Polidete Melpomenio.
Non solo le “leggi” dell’’Arcadia imitavano lo stile lapidario
delle Dodici tavole romane, ma tutto il linguaggio “burocratico” del movimento
assunse un riferimento alla classicità latina, puntigliosa come la
grecizzazione dei nomi degli aderenti. Il presidente è il Custode generale (del
gregge bucolico); l’archvio è detto serbatoio; simbolo od insegna è la “fistula
o zampogna”; protettore è Gesù Bambino (visitato alla nascita dai pastori). La
fondazione di una sezione in altra città veniva chiamata “dedurre una colonia”;
i nomi dei pastori si rifanno a quelli resi famosi da poeti greci o latini:
Titiro, Licida, Fileno; e Filli, Clori, Nice, Irene sono i nomi delle
pastorelle...
CARATTERISTICHE GENERALI
DELL’ARCADIA. Studiando ora più diffusamente i Motivi ispiratori, le Tonalità
liriche e la tecnica espressiva (Stile) del movimento, ci riferiremo
soprattutto alla produzione lirica. Da una parte, infatti, il Melodramma (l’altro genere letterario che
ne incarna lo spirito) già esisteva, tanto da risultare più genitore che figlio
dell’Arcadia; e, dall’altra, esso ha una parte drammatica che non sempre riesce ad adeguarsi ai suoi idealismi e
sofisticazioni: della stessa produzione scenica del Metastasio, si citano a
testimoni dell’aura arcadica quasi solo le canzonette e le “ariette”, perchè
l’azione teatrale procede con criteri
che devono pure, talora, accostarsi al dramma ed al realismo della vita
concreta, cioè all’“antiarcadia”.
I motivi ispiratori. Vi è una discreta
concordanza di tematiche, almeno finchè non interverranno gli arcadi delle
correnti preromantiche.
Negativamente, vi è anzitutto la esclusione di temi
eroico-militari: questa scelta si può sospettare che , almeno in parte,
dipenda dai circa 150 anni di pace nella penisola: dal 1559 almeno (pace di
Castel Cambrese) al 1700 (guerra di successione spagnola). Sono esclusi anche
i temi fantastico-avventurosi, sia per reazione ai romanzi secentisti, sia
per influsso del razionalismo cartesiano. E sono assenti anche i grandi temi
della problematica esistenziale, cioè, in definitiva, etico-religiosi:
questo perchè la fede è ormai tornato
un patrimonio tranquillo, sia pure anche grazie alla non sempre discreta
attività della Inquisizione.
Positivamente, abbiamo il prevalere dei due temi adolescenziali per
eccellenza, paesaggio ed amore, cui si affiancano celebrazioni religiose e civili.
L’amore è al centro
dell’ispirazione arcadica, come affetto e galanteria o come lieve malizia
voluttuosa. Se non tutti riescono ad “adornare d’un velo candidissimo” i propri
affetti come il Petrarca,, per altro siamo ben al di qua delle temerarietà rinascimentali
e mariniste. L’amore trova bensì espressione in tutte le sue vicende, liete e
tristi, comiche o strazianti, ma galanteria e grazia complimentosa, moine,
capricci e languori prevalgono.
Rinnovata e moderna è
l’analisi psicologica dell’animo innamorato: acuta, minuziosa, sottile, la
bravura nell’anatomizzare le gioie e le pene,
le speranze ed i timori, le attese e le delusioni sono tali da fare
impallidire Ovidio e Petrarca. Gli è che Cartesio e l’esempio francese di un La
Rochefoucauld (François: 1613-1680: Réflexions ou sentences et maximes morales)
e di altri scrittori, han fatto scuola, sicchè si giunge a complicazioni nella
invenzione di stati d’animo perplessi ed oscillanti, tali da rasentare il
grottesco, pur conservando una loro umanissima verosimiglianza (si legga “La
partenza” del Metastasio, ad esempio).
Il paesaggio è bensì contemplato, talora, in se stesso, ma
più solitamente è sentito come cornice all’amore ed agli stati d’animo
dell’innamorato. Il paesaggio è così inteso in relazione e subordinazione
all’uomo: è questa, per sè, una prospettiva “romantica”: la natura comunica con
l’uomo, vive sorride e piange con lui. Splendida al canzonetta di J.
Vittorelli: “Guarda che bianca luna!” Gli arcadi rivelano anche la preferenza
per i paesaggi primaverili o notturni: tepore, penombre, frescura. Anche in tal
senso, l’Arcadia previene il romanticismo.
Le poesie su motivi religiosi
sono innumeri, anche se la produzione copiosa non ha un grande significato.
Feste e santi locali ne sono occasioni propizie, anche se prevalgono quelle per
monaczione: la famiglia benestante o quelle amiche procuravano la stampa di
omaggi poetici. Ne compone anche il Parini, con un livello di dignità degno di
lui, ma talora sbuffando per la frequenza delle richieste cui non poteva
sottrarsi. Non occasionali, son degni
di ricordo i pur mediocri Inni sacri
del monaco agostiniano Giovan Battista Cotta (Tenda, 1668-1738), che serviranno
di spunto alla ispirazione del Manzoni, nel secolo seguente, per le prime
poesie dopo la conversione.
Nel frattempo, continuano le “sacre rappresentazioni”, specie nei
collegi dei gesuiti.
Accanto alla produzione
religiosa, si esercita quella civile, per avvenimenti e personaggi particolari
(Parini ha più di un sonetto per celebrare il ritorno, dalla schiavitù in paesi
maomettani, di cittadini liberati dalla munificenza della loro città).
I toni lirici. L’elezione del bonario
G. M. Crescimbeni a “custode generale” dell’Accademia e l’allontanrsi del solenne
e lapidario V. Gravina dal sodalizio, per mancanza di congenialità emotiva, sono indizi significativi del trionfo
nell’Arcadia del viraggio contemplativo, mite, tenero e dolce, dei registri
idillico ed elegiaco su quelli drammatici dell’epopea e della tragedia. A
pastori colla zampogna in braccio, seduti in verdi prati in riva ad un ruscello
frusciante non s’addice la tromba epica, ma l’estasi od il pianto d’amore. Non
che manchino membri dell’Accademia intonati sui registri eroici o tetri ma, anche se iscritti, non li sentiamo
“arcadi” (si pensi ad Alfieri!) o coll’Arcadia li intuiamo poco in sintonia (Frugoni o Maggi). In realtà il
mannello di poesie valide (od il covone: ma non oltre!) lasciatoci in eredità
dal movimento è intonato flebilmente, nella gioia come nella pena.
Nell’idillio, le Anacreontiche
ad Irene di Jacopo Vittorelli sono la cosa migliore: grazia e galanteria,
vagheggiamento e frivolezza vi si mescolano suggestivi.
Nell’elegia (che predomina) vi
è languore e tenerezza, talora leziosità e svenevolezza. Accanto al Solitario bosco ombroso di Paolo Rolli,
stanno la Partenza di Metastasio (che per altro non manca di
note drammatiche): entrambi preparano il terreno alla Malinconia di Ippolito Pindemonte.
Idillio ed elegia talora
si sposano, come ne La libertà
del Metastasio.
Il patetismo è in agguato
nella poesia arcadica: le situazioni ed i personaggi sono talmente
idealizzati che, posti fra eroismo e sventura non generano commozione, ma un sentimento patologico deamicisiano. Addirittura
il ridicolo spunta fuori dall’eccesso di ingenuità ed artificiosità, quando
la inverosimiglianza attinge dei diapason intollerabili. Se si rilegge (con
meno sorpresa della prima volta e con maggior senso critico, perciò) La Partenza e ci si trova a riflettere
che è l’innamorato a soffrire per la
partenza di “Nice”, a sospettarla dimentica e spensierata (“E tu chissà se mai|
ti sovverrai di me”), allora è difficile non venga la tentazione di sorridere
di fronte a questo povero uomo, che si
trova fedele ad ogni costo, mentre la pastorella... beh! meglio non pensarci...
Le parti, cioè, si sono invertite rispetto alla statisticamente più solita
infedeltà maschile: la situzione desta
un po’ di pena , ma anche un po’ di comicità.
Tali distorsioni nascono dal
carattere “professionale” dell’amore messo in versi. Si ripete la
situazione di alcuni rinascimentali e secentisti, che non cantano un amore vero
come quello del Petrarca per Laura, ma una condizione puramente fanatastica.
Così il Metastasio, sospettato di relazioni scorrette con Marianna Pignatelli
Belmonte, vedova del conte d’Althan, si dichiarava pronto, per allontanare ogni
maldicenza, a farsi sacerdote (aveva gli ordini minori dalla prima giovinezza),
assumendo così il voto di castità. Jacopo Vittorelli ebbe a confessare che
tutti i suoi versi amorosi nascevano da un gioco di fantasia e non avevano
alcun innamoramento vero dietro di sè. Ora, questi due grandi arcadi riescono,
nei momenti di estro, a illudere sulla
realtà del loro sentimento. Pure essi,
però, quando la ispirazione è mediocre, lasciano intravedere la fragilità della
costruzione, la povertà nel canovaccio della vicenda. Si prenda la Palinodia (Metastasio): il poeta finge
di ritrattare i sospetti sulla fedeltà di Nice, avanzati ne La Partenza: non basta la scaltrezza
psicologica a surrogare la insincerità degli affetti dichiarati.
Non paia strano che riserviamo
alla fine di questa panoramica sulle tonalità emozionali l’elenco delle quattro
grandi famiglie (correnti), solitamente distinte nella vita dell’Arcadia nel
Millesettecento: di solito ci si riferisce alle diverse componenti tecniche
(metriche) per stabilirne la classificazione, ma a noi pare che c’entri anche
una differenza di viraggio lirico, almeno tendenziale o programmatico
(qualunque ne siano i concreti risultati). Ecco dunque i quattro gruppi di
fondo.
Scuola
petrarchesca: il rappresentante prìncipe è Eustachio Manfredi (1674-1739:
della “colonia” bolognese).
Scuola
anacreontica, che imita Teocrito, Virgilio, Sannazaro e adotta i metri minori delle composizioni
attribuite al poeta greco Anacreonte. Ne sono rappresentanti il Metastasio
(canzonette La Partenza, La Libertà, Palinodia...), Paolo Rolli (Lontananza,
Solitario bosco ombroso...), Jacopo
Vittorelli (Anacreontiche ad Irene,
specialmente Guarda che bianca luna, Non t’accostare all’urna, Fingi, vezzosa Irene”). Ci si accorgerà,
per quanto prima esposto, che è questa la corrente più tipica e rappresentativa (nonchè la più
riuscita) di tutto il movimento.
Scuola
classicheggiante e pindarica: si rifà a Pindaro, attraverso il Chiabrera;
vi appartennero G.B. Zappi e C. I. Frugoni.
Scuola
preromantica: sorge nella seconda metà del secolo e comprende Alessandro
Verri, Melchiorre Cesaroti ed Ippolito Pindemonte.
Notazioni stilistiche.
Spesso le diverse categorie di
arcadi privilegiano, con una specifica tonalità lirica, anche alcuni schemi
metrici. Così la corrente petrarchesca predilige il sonetto; quella
anacreontica ama la canzonetta; quella pindarica frequenta la canzone
tradizionale e l’ode; quella preromantica preferisce il verso sciolto.
Il Millesettecento fu un fucina
di inventori di strofe nuove, di combinazioni cioè più o meno geniali di versi
differenti che si ripetono poi nella composizione poetica: creatori o
rimaneggiatori felici fuorno specialmente Giovanni Fantoni (Fivizzano,
Lunigiana, 1755-1807) e C. I. Frugoni. La loro versatilità nella metrica era
purtroppo inversamente proporzionale alla potenza melodica, all’estro lirico
(il Frugoni, che ne era cosciente, non si preoccupò mai di pubblicare i suoi
versi, che furono editi dopo la sua morte).
Eppure non bastano la divisione
in scuole diverse o la variazione camaleontica degli schemi strofici a
mascherare un poeta arcade: dopo aver letto una certa percentuale di versi
arcadici, un lettore attento sa rintracciare gli altri, benchè mescolati ai
versi di poeti italiani di qualsiasi altro secolo. In proposito, è da segnalare
non solo il Foscolo giovanile, ma addirittura Cesare Pavese, i cui unici versi degni di nota sono appunto quelli aracdici,
che redasse in inglese nella sua miglior stagione!
Razionalità e cartesianesimo
significa chiarezza e distinzione. Per sè, chiarezza e distinzione possono
condurre diritti al classicismo, come di fatti avvenne in Francia. Da
noi, non mancarono simili risultati, con più di uno scrittore in corsa per
rinnovare la tragedia regolare. E se
nella Merope di Scipione Maffei
la gentilezza dell’aura arcadica è
onnipresente (ad estenuarne la forza drammatica), nelle tragedie di Vittorio
Alfieri siamo totalmente fuori da tale atmosfera. Tuttavia, all’interno del
mondo arcadico, non mancarono spiriti più virili che lavorarono su versi
robusti, come l’endecasillabo, eventualmente unito al settenario nella
canzone tradizionale (Manfredi e la
scuola petrarchesca, Frugoni e la scuola pindarica). Così, ricompare la
esigenza di verosimiglianza complessiva, che viene puntellata con una dose di
analisi psicologiche acute, sempre sorprendenti anche se non sempre
convincenti. Orazio e Pindaro sono di gran moda, assieme ai più delicati
Anacreonte e Catullo. La mitologia prende piede sino a giungere, in alcuni
scrittori, ad una specie di “idolatria”
come noterà Manzoni e come dovremo costatare noi stessi; e, mentre si canta
l’amore, il paesaggio, le ricorrenze
religiose o civili, trovano spazio sentenze sapienziali ed incitamenti morali.
Ma l’effetto più consono al
movimento metastasiano, fu la semplificazione ed abbreviamento delle
strutturre metriche, che (come
per la moda dei periodi brevi nella prosa, venuta di Francia) può dare frutti
di proposizioni brillanti e persuasive,
ma anche di semplicismo e sciatteria. La canzone è declinata in canzonetta,
con strofe semplificate, senza la bardatura tradizionale di piedi e volte: i versi
vanno dai quinari ai novenari, con il settenario privilegiato, mentre la
posizione delle rime varia facilmente; si introduce un uso frequente di diminituvi,
vezzeggiativi, aggettivazione patetica (dolce, tenero, leggiadro, infelice...).
E vi è un’ulteriore
caratteristica nella poesia lirica[6]
arcadica, che le viene insinuata dal melodramma, con cui essa è affiatata,
imparentata, legata a filo doppio. Ed è la tendenza a dare più importanza
alla componente musicale dei versi, a scapito della loro dimensione ideale o razionale. Molti componimetni
di questi poeti (ma l’uso è legato all’origine greca come alla rinascita romanza della poesia “lirica”, cioè con
accompagnamento musicale) sono destinati alla musicazione, specie le canzonette,
cui han dato opera Alessandro Scarlatti (Palermo 1660-1725), Nicola Antonio
Porpora (Napoli, 1686-1768) e persino Wolfgang Mozart. Il poeta finisce per
pensare le parole in funzione della melodia e, se non la inventa più lui stesso
come i “trovatori” medioevali, tuttavia
sembra voglia predisporvi i propri versi, con un musicalismo verbale parte
spontaneo, parte studiato, che rischia davvero di travalicare il doverosamente
prevalente valore ideologico della parola. Quali i mezzi più evidenti? L’uso
della rimalmezzo; il predominio di consonanti liquide (l| r), nasali (m| n),
fruscianti (f| v| s dolce); la semplificazione dei concetti, in frasi brevi,
quasi che la struttura logica della espressione voglia nascondersi, scomparire.
Capitava, così, che a teatro il “rispettabile pubblico” bociasse indiscreto e villano durante tutta
la recitazione della vicenda,
scribacchiata approssimativamente (un po’ come
le commedie improvvise), ma zittisse poi e si mettesse in ascolto
estatico delle “cavatine”, cioè delle ariette
rivestite con melodie felici da musicisti famosi.
Ovviamente, se lo scrittore è
ispirato, l’uso di questi accorgimenti si assomma ad un risultato poetico di un
sapore peculiare e caratteristico; se manca l’estro, le novità tecniche
diventano una diversa forma di retorica, non molto differente da certo
classicismo o dallo stesso barocco. Come dice bene Mario Apollonio: “ai
pennacchi eroici” si erano solo sotituiti “i fronzoli pastorali”. E il Baretti
potrà divertirsi a farne bersaglio per le sue impietose, allegre “frustate”.
In tutti questi caratteri si può
intuire la mano delicata ma efficace del Metastasio: non fu l’Arcadia, infatti,
a forgiare il Metastasio, ma fu questi a dar uno spirito (motivi, lirismo,
stile) a quella.
PIETRO METASTASIO
LA VITA. Pietro Trapassi (in Arcadia, Artino Corasio), nacque a Roma nel 1698 e morì a Vienna nel 1782. Era di umile famiglia, ma ad 11 anni fu preso con sè dal Gravina, che lo aveva conosciuto come precoce e sorprendente poeta improvvisatore, oltre che cantante dalla voce felice. Ottenne poi di adottarlo e gli grecizzò il nome (Metastasio), educandolo alla letteratura classica latina e greca, vietandogli l’accostamento del Tasso e dei secentisti. Attraverso Gregorio Caloprese, filosofo di Scalèa (Cosenza) e già suo maestro, lo avviò anche alla filosofia di Renato Cartesio, senza fargli trascurare gli studi giuridici. Il Gravina voleva farne il poeta tragico italiano da mettere a confronto dei francesi Corneille e Racine. A sedici anni il Metastasio è abate, come il suo protettore, ricevendo i soli ordini minori[7]. Nel 1718, il padre adottivo muore e il giovane ventenne si trova a disputare la eredità con tre concorrenti, pure discepoli del Gravina: “amico del quieto vivere, per evitare una lite e levarsi d’impiccio, venne con essi ad una transazione, dalla quale uscì spennacchiato”.[8] Morto il protettore, nel 1719 egli fu in trattative per sposare una Rosalia Gasparini: il matrimonio non si realizzò ed il Metastasio, come era seriamente innamorato della giovane, così rimase onestamente abate tutta la vita. Il motivo per cui lasciò Roma per Napoli non fu la povertà (poteva vivere ancora di rendita, anche se non largamente), ma fu l’ostilità che aveva circondato il Gravina a Roma (e se ne indovina il motivo, conoscendone l’intelligenza anticonformista ed il temperamento forte ed aggressivo) e che si rifletteva sul discepolo prediletto. La scienza giuridica acquisita la esercitò nello studio di un avvocato, che pare gli facesse promettere di non scrivere mai più versi. Se Giovanni Antonio Castagnola ottenne mai un simile impegno dal suo dipendente, è certo che questi non lo mantenne. Non poteva soffocare la sua vocazione poetica, così autentica da essere personalissima e da condurlo ad amare Tasso, il Marino, Ovidio e Catullo più dei tragici e dei filosofi. Pur aspirando ad una cattedra di giurisprudenza (a Torino!), egli andava componendo versi che lo avrebbero reso ben presto il poeta ufficiale della società aulica napoletana. L’Endimione, serenata che dedicò alla contessa Marianna Pignatelli sposata d’Althann (era cognata di una nobildonna napoletana, per la quale era stato pregato di scrivere un epitalamio) fu così gradito che fu probabilmente l’occasione per cui gli giunse la richiesta di una opera scenica, da recitarsi a Napoli per il genetliaco della imperatrice d’Austria, la moglie di Carlo VI. Furono Gli Orti Esperidi, in cui recitò e cantò la “Romanina”, cioè Marianna Benti Bulgarelli: fu un successo tale da ottenergli la protezione della Bulgarelli, la quale gli aprì la strada verso lo Scarlatti ed il Porpora; e verso il melodramma. Studia musica e, quando nel 1724 mette in scena la Didone abbandonata, la sua fama diventa europea. La musica (di D. Sarro) non era superlativa, sicchè fu proprio il testo letterario a trascinare all’entusiasmo gli spettatori: d’altronde, durante il secolo, la Didone fu musicata da quasi 40 maestri! Nel 1729, egli è chiamato a Vienna come poeta cesareo, succedendo ad Apostolo Zeno, che aveva ridato dignità e struttura classica al melodramma, pur senza riuscire ad infondervi poesia. Benchè, partito per Vienna, egli lasciasse l’amministrazione dei suoi beni alla Bulgarelli; benchè essa, morendo nel 1734, lasciasse erede dei suoi beni il Metastasio (che per senso di “dovere, e come uomo onorato e come cristiano”, rinunciò in favore del marito); benchè giunta la notizia della morte della Bulgarelli, Metastasio si astenesse per il dolore dal presentarsi a corte, non si hanno indizi seri che fossero amanti: era una amicizia affettuosa e protettrice quella della donna, tenera e riconoscente quella del poeta, come avverrà per la contessa d’Althann, la seconda Marianna (Pignatelli, vedova del conte d’Althann dal 1722): per la terza, la Martinez, il sentimento fu quello di affetto paterno. Era, quest’ultima, la figlia del cerimoniere della nunziatura apostolica a Vienna, nella cui casa il Metastasio prese dimora[9]. Il fratello di lei, Giuseppe, divenne suo segretario: egli gli ottenne il titolo di consigliere aulico e la carica di custode della biblioteca palatina e lo lasciò erede universale (pur provvedendo ai familiari del fratello e sorella che l’avevano preceduto nella tomba). Durante l’ultimo decennio di regno di Carlo VI, sino al 1740, dunque, il poeta continua a scrivere capolavori: è il tempo di Marianna d’Althann, il cui salotto frequentava, anche perchè era stata lei per prima a raccomandarlo all’imperatore Carlo VI. Quanto le fosse amica, lo dice il fatto che essa non mancò giorno dal far visita al poeta, durante il tempo del suo cordoglio e clausura per la morte della Bulgarelli. Essa morì nel 1755 ed il Metastasio scriveva al grande soprano Farinello: “Venticinque anni e più di amicizia che non lascia rimorsi, son nodi che non si spezzano, senza scosse crudeli”. Dopo il 1740, essendo imperatrice Maria Teresa, egli rimane il poeta di corte eccezionale, ma non più geniale: la musa, precocemente sbocciata, precocemente si avvia ad un prolungato tramonto. Egli diventa una componente così significativa della Vienna teresiana, che nessun personaggio, di passaggio nella capitale dell’impero, può far a meno di far visita al poeta. Si noti che, raro esempio di spirito sapiente e sagace, egli seppe leggere i segni dei tempi, sentendo che la situazione stava diventando insostenibile: quando, nel 1782, egli morì, la rivoluzione francese era, difatti, alle porte. Morì per un’affezione alle vie respiratorie, pel freddo preso volendo seguire dalla finestra aperta una processione guidata dal pellegrino apostolico, il papa PioVI, venuto a Vienna a supplicare Giuseppe II di recedere dal giurisdizionalismo estremo, di cui si è detto a suo luogo.
LA PERSONALITA’. Di media statura, persona anche fisicamente bella, era florido e vermiglio nelle gote, segni di un temperamento a prevalenza vagotonica. Fu probabilmente un sentimentale, cioè un emotivo, non attivo stabile (secondario). La capacità di comunicare emozioni,[10] dote di tutti i poeti ed artisti, è evidente nelle sue opere, non grandissime, ma sicuramente liricizzate, emotivogenetiche. La non attività è rivelata da troppi elementi. Anzitutto dal fatto che non uscì mai, nel suo lavoro, dallo studio e dallo scrivere: introverso e sedentario, si mosse solo per seguire la vocazione poetica, le fonti della sopravvivenza e l’iniziativa dei vari padroni o protetttrici. La sua “inattività” si rivela anche nella sua eccessiva deferenza alla corte di Vienna, quella che suscitò lo sdegno dell’Alfieri, che ne rifiutò l’incontro, dopo che lo vide fare la “genuflessioncella d’uso” alla imperatrice M. Teresa: e si legga, nel Natali, il primo incontro con l’imperatore Carlo VI, ove non si sa se scuotere la testa più per la inutile sostenutezza del sovrano o per la timida devozione del neoservitore, che gli imprime sulla mano “un bacio così sonoro, che potè il clementissimo Padrone avvedersi che veniva dal cuore”. Il temperamento non risentito del Metastasio si rivela anche nella “neutralità donabbondiescamente disarmata” in mezzo alle tensioni fra la S. Sede e il governo di Vienna (già disinvolto, seppur graduale e cauto, usurpatore anche sotto Maria Teresa): ciò spiega come egli, “ossequioso all’autorità del pontefice”, restasse “indifferente alle contese giurisdizionali”.[11] Ancora: vissuto a Vienna dal 1730 al 1782, non si preoccupò mai di imparare il tedesco (l’italiano era lingua d’obbligo a corte, non solo per la musica, ma perchè una parte delle province dell’impero erano in Italia)! E “ricusò i titoli di conte e di barone e la croce dell’ordine di S. Stefano d’Ungheria. Serbò sempre calma imperturbabile dinanzi alle acri censure, che non mancarono alle sue opere....” Ma le prove più indiscusse della sua “inattività” si hanno dalle sue stesse confessioni: alla Bulgarelli confidava che la indecisione, espressa dal protagonista nella scena terza dell’atto terzo dell’Adriano in Siria, la viveva egli nella realtà del suo animo: “...Oh tu non sai| qual guerra di pensieri| agita l’anima mia!...|Tutto accordar vorrei; trovo per tutto| qualche scoglio a temer. Scelgo; mi pento| poi d’essermi pentito;| mi ritorno a pentir; mi stanco intanto| nel lungo dubitar, tal che dal male| il ben più non distinguo: al fin mi veggo| stretto dal tempo, e mi rivolgo al peggio”. Per questa indecisione, egli non era un estemporaneo, come la vita esige troppo spesso per il successo. Di qui, anche di qui certamente, il bisogno che egli ebbe sempre di tutori, di guide per la vita, senza le quali ci si domanda come avrebbe potuto sgrovigliarsi nei vortici inevitabili della esistenza: le donne per il Metastasio reale furono quello che Camilla per Virgilio e Clorinda per il Tasso furono nella fantasia. La Provvidenza gli mise sulla strada quei complementi di natura a livello psicologico-esistenziale, che egli aveva finito per escludere a livello erotico- parentale. Non è facile dire se le “tre Marianne” gli facilitarono o meno la fedeltà al celibato: certo che, almeno le prime due, gli portarono un equilibrio di iniziativa, decisione, attivismo, che compensava le carenze della sua individualità.
E poi e poi e poi: non è solo Adriano che si pente d’essersi pentito: tutti i suoi eroi, ammalati di distonia vagoprevalente[12], decidono di non decidere: soffrono di velleitarismo e scelgono di non scegliere, lasciando fare al caso od alla Provvidenza. E’ per questo che le sue trame anche tragiche non danno come risultato delle tragedie, ma dei melodrammi: manca ai suoi personaggi, come al loro inventore, la stoffa dell’eroe, la statura alfieriana, cornelliana o shakespeariana. Manzoni comprendeva a fondo tale difetto del Metastasio, difetto che anche in lui limitava la disinvoltura della esistenza pratica in misura subpatologica: sebbene, infatti, in lui chiara era la facoltà critica nel distinguere il vero dall’errore e ammirevole la coerenza nello scegliere il bene contro il male, tuttavia, nelle decisioni circa due beni o fra il bene ed il meglio, neppure egli sapeva prendere quella posizione veloce e netta che distingue gli individui pratico-operativi, realizzatori della storia: in proposito si legga la lettera, in cui egli si confessa agli elettori del collegio di Novara, per rifiutare la candidatura a deputato che gli avevano offerto. Ebbene, il Manzoni scagliò contro il Metastasio delle strofette canzonatorie, che colla loro analisi acuta e parodia impietosa, scoprono l’affinità della psicologia e la repulsione di fronte ad essa (sono infatti gli animi con “cariche psicologiche uguali” che si respingono!)[13]. Le citiamo in nota, mentre qui riportiamo ancora un giudizio del Natali: “ Il suo egoismo fu piuttosto amore del quieto vivere.... Non voleva nemici e non lesinava generiche lodi a quanti, adulandolo, gliene chiedevano (Victor Hugo faceva lo stesso): ma con gli amici veri e degni era sincero”.
E la sua intelligenza? Era chiara e organica, ma superficiale, non profonda. Aveva cioè potere di sintesi facile, proprio perchè trascurava molti elementi della realtà e, a costo di risultare inverosmile, si soffermava soltanto su alcune componenti dell’animo umano e delle relazioni tra persone e popoli. Grande sistematore, perchè grande riduttore e semplificatore. Aveva cioè una intelligenza più sintetica che analitica, che trovava più consono mobilitare ordinatamente pochi dati sensazionali che approfondire situazioni e problemi; e che delineava personaggi semplici, la cui unica complessità consisteva nella oscillazione fra le due spinte psicologiche più solite, fra il richiamo morale e quello affettivo: scelta fra amore e dovere, fra amore e amicizia, fra amore e patriottismo... Anche la psicologia e sapienza delle sue “ariette” sono tanto evidenti e facili, quanto semplici ed ovvie. Se la analisi dell’animo dell’innamorato|a nelle sue canzonette è sottile e sofisticata, non è poi profonda o realistica: è l’anatomia di casi-limite, che minacciano il ridicolo per la ingenuità o la adolescenzialità dei tormenti interiori. Ecco, Metastasio rivela una psicologia ed una intelligenza poco virile, molto simile a quella della donna media, anzi della ipersensibile, chinata su se stessa e sui problemi del suo cuore: il Metastasio ha un cuore più grande della sua intelligenza.
La fantasia era più verbale che figurativa, più musicale che verbale: la parola esprimeva idee ed avvenimenti, ma tendeva a far prevalere, su tale potere, quello del musicalismo e della sonorità. Era però, a suo modo, aperta anche al movimento ed all’azione; era cioè una fantasia congenialmente drammatico-teatrale, portata, cioè, ad esprimere i propri sentimenti, almeno tecnicamente, più attraverso il dialogo che non nella forma diretta in “io” della poesia lirica; ed attraverso il rapporto di amicizia o di contrasto di due o più personaggi fra loro. E’ un dato di fatto che i sonetti valgono poco e che solo le due canzonette La Partenza e La libertà sono davvero riuscite. A limitare la “drammaticità e teatralità” della musa metastasiana sta, però, il fatto che i personaggi sono costruiti autobiograficamente: sono proiezioni della sua individualità indecisa e perplessa oppure compensata da personaggi integratori di essa, attraverso un iperattivismo ed iperdecisionismo, compensatori e simmetrici ai vuoti di tali doti nel poeta. E l’incontro-scontro avviene prima e più all’interno dei singoli personaggi che non nei rapporti fra loro. Di questa singolarissima disposizione “drammatica” del Metastasio, dovremo riparlare ancora e più di una volta.
Tutto sommato lo potremmo dire un Petrarca dimezzato, un Virgilio in sedicesimo, un Tasso in edizione drammatica anzichè epica.
LE OPERE. Ventisette melodrammi, otto azioni sacre (oratori), circa quaranta azioni sceniche per feste teatrali, cinque canzonette, e, in più, madrigali, idilli, poesie religiose. Trentadue i sonetti, di pochissimo valore e non arcadici (cioè, non metastasiani). Se questa è la quantità delle composizioni, ci limitiamo a dare qui il titolo delle opere qualitativamente più significative.
I melodrammi migliori sono i capolavori del secondo periodo: la OLIMPIADE (1736) è giudicato il più bello in assoluto; seguono, nella classe dei melodrammi sentimentali, il DEMETRIO (1731), la ISSIPILE (1732), il DEMOFOONTE (1733); poi, nella classe degli “eroici”,[14] LA CLEMENZA DI TITO (1734), il TEMISTOCLE (1736) e l’ ATTILIO REGOLO (1740); notevoli sono anche ADRIANO IN SIRIA (1732), ACHILLE IN SCIRO (1736), CIRO RICONOSCIUTO (1736), ZENOBIA (1740).
Anche tra gli “oratori sacri” (azioni teatrali in due parti, brevi, di argomento religioso) si hanno opere di valore: Per la festività del santo Natale (1727), La passione di Gesù Cristo (1730) , S. Elena al Calvario (1731), Morte di Abele (1732), Giuseppe riconosciuto (1733), Betulia liberata (1734), Gioàs (1735), Isacco, figura del Redentore (1740).
Le canzonette sono cinque: le due giovanilki sono le meno valide (Primavera: 1719| Estate: 1724); migliori le tre più tardive, tra cui i due piccoli capolavori La libertà (1733) e La partenza (1749), con La palinodia (1746) solo discreta.
Le “arie od ariette” sono oltre milleduecento: la più parte sono affettuose o passionali; alcune sono sentenziose, sapienziali, didascaliche. Avremo modo di citarne alcune, per documentare i vari moduli lirici del poeta.
Gli atti scenici sono una trentina: si cita L’isola disabitata come il migliore fra essi.
I MOTIVI ISPIRATORI. Quello vero, lo indovineremo poco a poco, procedendo dall’esterno (i molti motivi materiali) all’interno (i due motivi fondamentali), all’intimo dell’animo del poeta (motivo formale od autobiografico).
Materialmente, i temi trattati dal Metastasio sono molti; e molti, perciò, i motivi ispiratori della sua produzione. Ciò dipese, dapprima, dal bisogno di affrontare un po’ tutti i tipi di argomento, pel desiderio di varietà da parte del pubblico e fors’anche per sfida alla propria fantasia ad affrontare le situazioni più diverse. Così, dopo il dramma sentimentale della Didone, egli affrontò il tema eroico con il Catone in Utica, dandogli una finale tetra, con il suicidio in scena del protagonista. Canzonato, però, da Pasquino, mutò la finale ed introdusse Marzia a narrare la scena tragica. Da quella volta volta, il poeta prese atto “del genio delicato del moderno teatro” e seguì la moda del lieto fine anche per le azioni eroiche. Un terzo modello è la trama di intrigo, che offre varietà a abse di colpi di scena. Passato a Vienna, la moltiplicazione dei motivi ispiratori nasceva dalla sua posizione di “musa appigionata” (Alfieri):egli doveva fornire al teatro di corte un certo numero di opere teatrali ogni anno: religiose, in occasione di Quaresima e festività particolarmente importanti; profane, per carnevale e feste civili od auliche (genetliaci, matrimoni...). Il fatto che recitassero anche giovani della famiglia imperiale o dame di corte, imponeva di evitare ogni immodestia dei vestiti, sicchè il mondo greco con le vesti succinte delle divinità era escluso a priori, mentre erano accettabili vicende immaginate in paesi orientali, dai costumi abbondevoli (egli stesso espone la cosa in una sua lettera). Ma tali condizionamenti non sono impacci alla genialità dell’artista, così come l’imposizione del tema del giudizio universale da parte di Giulio II non impedì a Michelangelo di creare quel capolavoro che tutti ammiriamo stupiti nella cappella sistina. Vogliamo dire che Metastasio, con qualunque tematica scelta od imposta, avrebbe lavorato secondo la sua individualità artistica, sottoponendo l’argomento esteriore ad un viraggio deformatore o trasfiguratore che l’avrebbe reso in ogni caso inconfondibilmente metastasiano.
Perchè egli lavora al meglio soltanto su due lunghezze d’onda congeniali: l’AMORE E l’EROISMO. La tematica affettiva gli è resa molto consentanea, grazie al suo temperamento sentimentale; quella eroica, dalla sua intelligenza chiara e dal candore del cuore, dalla educazione severa del Gravina e dalla fede cristiana cordialmente condivisa: tutti fattori che lo portavano ad ammirare sinceramente il sacrificio per gli ideali del bene e del meglio (Olimpiade| o La clemenza di Tito, ad esempio, dove l’amicizia tende a superare il criterio di pura giustizia, per una generosità non strettamente esigita dalla obbligazione morale).
Amore ed eroismo non sono, poi, sempre dissociati: solitamente sono compresenti e contrastanti. La situazione più solita del protagonista è quella della scelta tra la fedeltà volitiva al proprio dovere e l’inclinazione del cuore al proprio affetto. Vince, alla fine, il senso del dovere, ma non senza lotte ed esitazioni, contrasti ed angosce, incertezze e spasimi, che generano quel tanto di “tragedia” cui era aperta la musa del Metastasio. Così Enea (Didone ababndonata) deve scegliere fra l’amore per la donna di Cartagine e la missione di capostipite dei Romani e della loro storia gloriosa. Tito imperatore deve scegliere tra la fedeltà all’ufficio di imparziale responsabile dello Stato e l’amicizia per Sesto, che è schiavo dell’amore per Vitellia, la quale pretende o il talamo o il cadavere di Tito; questi, a sua volta, vuol sposare Servilia, che è anche amata da Annio, amicissimo di Sesto, fratello di Servilia, i quale ha appunto promessa all’amico la mano della sorella. Un grovigli di affetti, su cui domina, non senza oscillazioni patetiche all’estremo, la virtù magnanima dell’imperatore: egli dona Servilia ad Annio, perdona a Sesto pentito (che ha cercato, con un ultimo rivolgimento d’animo, di fermare la mano dell’attentatore), rinuncia a prender rmoglie, dopo che Vitellia si è confessata all’origine della tormentata congiura, proclamando Roma sua uniuca sposa, mentre consente a Sesto di unirsi in matrimonio a Vitellia, rea confessa! Nella Olimpiade, Megacle è alle prese tra la riconoscenza verso Licida e l’amore per Aristea. Nell’Attilio Regolo, l’eroe è schiacciato tra l’amore per la patria, per i suoi familiari per la propria vita e la fedeltà alla parola data ai Cartaginesi: ma anche l’amore sessuale vi gioca la sua parte, fra i personaggi minori o deuteroagonisti del melodramma, creando coppie e triangolazioni di amanti doloranti: Publio-Barce-Amilcare, Licinio-Attilia.
Anzi, i due motivi si rivelano solo l’occasione per manifestare la vera sorgente della drammaticità che pur rimane nel teatro del poeta arcadico:che è la stessa che in Petrarca, anche se più sofisticata e meno profondamente sentita. Si tratta, dunque, di un’altra battaglia etico-affettiva che rimane ancipite, cioè indecisa, sino all’ultimo momento: è il contrasto interiore per la scelta tra due valori, entrambi seducenti ed idealizzati al sommo dalle circostanze. Il vero motivo ispiratore, dunque, è la psicologia del poeta; e la drammaticità metastasiana non è scontro fra individui con idealità, programmi, operazioni ostili, ma è la lotta fra esigenze divergenti, incompatibili nellla coscienza della sua stessa persona, proiettata nei personaggi. Tale condizione pone il personaggio in una vera agonia psicologica, inducendolo ad una oscillazione di intenzioni, di propositi, di affetti che inducono a lamenti, a disperazione, persino a “conati” di iniziative, ma che lasciano alla fine la soluzione alla intraprendenza di personaggi esterni al protagonista e di lui più forti e decisi. Sarà il volere di Giove, nella Didone abbandonata; sarà la intraprendenza delle donne ne La Clemenza di Tito; sarà una specie di destino, che si riduce al caso di soluzioni improvvise, offertesi al di fuori dell’iniziativa dei personaggi. Si noti, intanto, che mentre gli uomini si rivelano spesso proiezioni autobiografiche dello scrittore (indecisi, penosamente straziati fra i due poli della scelta inesorabilmente necessaria), le donne sono rappresentate, nel bene come nel male, intraprendenti, decisioniste, trascinanti all’azione: tali sono Servilia e Vitellia nelle Clemenza di Tito. Il dibattito del protagonista avviene dentro lui stesso e, non trovando soluzione, si riduce a dubbio, perplessità, velleitarismo, indecisione, tormeno e contraddizione: è la condizione patologica di un’anima che, lungi dall’essere eroica, “sfiora l’Antenora; giace nel Limbo”[15]. Si tratta, in definitiva, di anime in pena, perchè la distonia neurovegetativa non è superata da una forza di convinzione intellettaule e di fermezza volitiva che travolga titubanze e scrupoli. Tali anime sono spesso degne di compassione; talora (lo vedremo) sfiorano il ridicolo; mai possono generare stati d’animo grandiosi, nella epicità o nella tragedia. I protagonisti si riducono, così, a poveri uomini, che si riconoscono essi stessi come irresoluti, instabili, titubanti, incapaci di uscire dall’ambiguità della vita. Si leggano le parole di Enea che confessa la sua ambiguità interiore: “Dovrei... ma no| L’amore... oh, Dio! la fè?... |(ad Osmida) Spiegalo tu per me” (parte). Quando sembra alla fine aver raggiunto una decisione, ottiene un elogio superlativo, che egli stesso pensa subito a smentire. Parla, dunque, Osmida “Oh generosi detti!| vincere i propri affetti| avanza ogni altra gloria”. Ma Enea ribatte: “Quanto costa però questa vittoria!”, per ricadere poco appresso nel solito, completo disorientamento di mente e di volere: “Se resto sul lido,| se sciolgo le vele,| infido, crudele| mi sento chiamar.|| E intanto, confuso| nel dubbio funesto,| non parto, non resto,| ma soffro il martìre| che avrei nel partire|, che avrei nel restar” (Didone, I, 18). E si noti che Enea non risolve lui la situazione: egli parte, ma solo perchè costretto dal volere di Giove. Ed è allora Didone a subentrare nella patetica indecisione: “Vado... ma dove? Oh,Dio!| Resto... Ma, poi... Che fo?| Dunque morir dovrò| senza trovar pietà?...”
TONALITA’ LIRICHE : PROSPETTIVA GENERALE.
Anche solo leggendo le “ariette” (si è detto che sono più di milleduecento) ci si può accorgere che il Metastasio è poeta qualitativamente universale, cioè aperto a tutti i registri delle tonalità liriche: idillio, elegia, dramma, epopea; ed a qualche loro combinazione .
Altro discorso, invece, è quello “quantitativo”, cioè della “caratura”, della forza od altezza dell’impeto lirico nel nostro poeta. L’assenza di grandi pagine artistiche, cioè di poesia sublime è purtroppo evidente: Metastasio, almeno fino al 1740, è poeta fecondo e discretamente costante nel fluire della sua vena poetica, ma il getto della sua sorgente non è potente, non è travolgente. E’ per questo che dovremo parlare per lui di un perseverante rigagnolo di “poesia drammatica”, ma non mai di un fiume possente di “poesia tragica”.[16] E’ per questo che sarà più facile trovare una epopea raddolcita dall’idillio (estasi), che non squarci di chiara potenza epica. Il Metastasio rimane un poeta mediocre, un poeta minore della nostra storia letteraria.
Eccoci allora a rincorrere gli spunti di poesia, non solo monodica (idillio, elegia, dramma, puri), ma anche complessa (sinergismo dei registri puri). Ma mentre dovremo inchinarci alla discreta estasi dell’incontro felice fra idillio ed epopea, ci troveremo commossi a contraggenio, di fronte alla fusione patetica di elegia ed epopea (pseudocommozione) o, peggio, di fronte alla comicità involontaria del ridicolo!
I SINGOLI TONI LIRICI.
Non escludiamo del tutto la epopea isolata, ma dobbiamo riconoscere che essa è rara. Si veda il “coro” nell’Olimpiade, II,6 (“Del forte Lìcida| nome maggiore| d’Alfeo sul margine| mai non sonò...”). E si legga questa arietta: ““Quel destrier, che all’abergo è vicino,| più veloce s’affretta nel corso.| non l’arresta l’angustia del morso;| non la voce che legge gli dà.|| Tal quest’alma, che piena è di speme,| nulla teme, consiglio non sente;| e si forma una gioia presente| del pensiero che lieto sarà” (Olimpiade).
Leggiamo qualche “aria” di valore estatico, che cioè fa convivere epicità ed idillio. Ci sembrano tali le due ariette famose sulla esistenza di Dio: “Dovunque il guardo io giro,| immenso Dio, ti vedo;| nell’opre tue t’ammiro,| ti riconosce in me.|| La terra, il mar, le sfere| parlan del tuo potere:| Tu sei per tutto e noi| tutti viviamo in Te” (La Passione di Gesù Cristo); “Se Dio veder tu vuoi,| guardalo in ogni oggetto;| cercalo nel tuo petto,| lo troverai con te.|| E se dov’ei dimora| non intendesti ancora,| confondinmi se puoi:| dimmi dov’ei non è” (Betullia liberata). Ma ci pare a metà strada fra i due stati d’animo (anzi, loro simbiosi) anche questa limpida meditazione sul valore del lavoro|ozio, del sacrificio| negligenza umani, letta nelle opposte vicende possibili dell’acqua “Quell’onda che ruina| dalla pendice alpina,| balza, si frange e mormora,| ma limpida si fa.|| Altra riposa, è vero,| in cupo fondo ombroso,| ma perde in quel riposo| tutta la sua beltà” (Alcide al bivio). E si legga anche questa “estasi di amore”: “Sogna il guerrier le schiere,| le selve il cacciator;| e sogna il pescator| le reti e l’amo.|| Sopito in dolce oblio| sogno pur io così| colei, che tutto il dì| sospiro e chiamo”. (Artaserse)
Per l’idillio puro non c’è molto spazio, in un mondo caratterizzato da contrasti esterni e contraddizioni interiori. Troviamo, tuttavia, nelle ariette, qualche breve momento, minacciato (nella seconda strofa) dal dinamismo drammatico: “L’onda che mormora| tra sponda e sponda;| l’aura che tremola| tra fronda e fronda,| è meno instabile del vostro cuor.|| Pur l’alme semplici| de’ folli amanti| sol per voi spargono| sospiri e pianti| e da voi sperano| fede ed amor” (Siroe). E Le prime dieci strofe de La Primavera sono complessivamente idilliche, anche se la poesia vi è appena sufficiente.
Ma esso ha luogo anche in qualche cantuccio dei melodrammi, specie affettivi. Segnaliamo, nella Olimpiade, Atto I, scena 4 (dialogo fra Argene ed il Coro); nel’Endimione, parte I (“Nice, Nice...”|”Quel ruscelletto...”| “Lode al cielo che partissi...”| “Silvia, Elisa, Licori...”); la finale degli Orti esperidi, parte seconda (“Sì, sì, tutte in oblio...).
Tra gli oratori sacri, il più ricco di brani idillici è La festività del santo Natale, specie la prima parte; e quasi tutte le ariette (fanno eccezione la terzultima -“In faccia alla minaccia”- e la penultima -“Fra i perigli dell’umido regno”-, che esprimono invece una aliquale epicità).
Lo stesso vale per la elegia, contaminata normalmente da risentimenti drammatici. Ne è esempio notevole la canzonetta La Partenza. A parte, infatti, il ritornello quasi ridicolo (“E tu chi sa se mai| ti sovverrai di me”), essa aspira alla tristezza contemplativa, ma non riesce a liberarsi da memorie pungenti, da sentimenti tormentosi (basta notare il “fiero istante” del primissimo verso...): “Come potrò, ben mio,| viver lontan da te?|| Io vivrò sempre in pene,| io non avrò più bene...|| Io fra remote sponde| mesto volgendo i passi| andrò chiedendo ai sassi:| -La ninfa mia dov’è?...||Io rivedrò sovente| le amene piagge, o Nice,| dove vivea felice,|quando vivea con te.|| A me saran tormento| cento memorie e cento...”. Invece, nell’arietta “Rondinella, a cui rapita| fu la dolce sua compagna,| vola incerta, va smarrita,| dalla selva alla campagna,| e si lagna, intorno al nido,|| dell’infido cacciator.| Chiare fonti, apriche rive| più non cerca, al dì s’invola,| sempre sola, e sinchè vive| si rammenta il primo amor” (Semiramide: si notino le rimalmezzo) la elegia è quasi pura.
Il modulo drammatico è quello quantitativamente più frequente, come è naturale posto il motivo ispiratore intimo del dissidio interiore e la discreta congenialità al dialogo-azione scenica del poeta. E’ per questa interiore tendenza al dialogo ed al contradditorio dei personaggi in se stessi, che il Metastasio riesce un non disprezzabile scrittore per scene, un organizzatore di azioni e dialoghi, di contrasti e diverbi che reggevano alla recita e che, accompagnati dalla musica, destavano addirittura entusiasmo ed applausi scroscianti. Nonostante la inverosimiglianza di molte situazioni, non tutte minacciano il ridicolo: alcune si lasciano accettare dal cuore,anche se non convincono del tutto la mente.
Il timbro drammatico è già presente in molte ariette: “E’ la fede degli amanti| come l’araba fenice:| che vi sia ciascun lo dice;| dove sia, nessun lo sa.|| Se tu sai dov’ha ricetto| dove muore e torna in vita| me l’addita, e ti prometto| di serbar la fedeltà” (Demetrio). “Tutto cangia, e il dì che viene| sempre incalza il dì che fugge;| ma cangiando si mantiene| il mio stabile tenor (contegno, comportamento)|| Tal ristretta in doppia sponda| corre l’onda all’onda appresso,| ed è sempre il fiume istesso,| non è mai l’istesso umor” (Il tempio dell’eternità). “Se a ciascun l’interno affanno| si leggesse in fronte scritto,| quanti mai, che invidia fanno,| ci farebbero pietà.|| Si vedria che i lor nemici| hanno in seno, e si riduce| nel parer a noi felici| ogni lor felicità”. “E’ pena troppo barbara| sentirsi, oh Dio, morir,| e non poter mai dir:| Morir mi sento.|| V’è nel lagnarsi e piangere,| v’è un’ombra di piacer;| ma struggersi e tacer| tutto è tormento” (Antigono). Anche i cori esprimono più spesso melodie drammatiche: Olimpiade, III, 6; Achille in Sciro, II, 7 (Achille e coro); Betulia liberata, finale (Giuditta e coro).
Le canzonette tutte hanno segni più o meno diffusi di drammaticità; se La Partenza ha versi elegiaci; se La Primavera presenta le prime dieci strofette in registro complessivamente idilliaco, le altre –e specialmente La libertà- esprimono un lirismo sostazialmente drammatico (comprese le ultime otto strofe de La Primavera). E drammatica è la tessitura melodica dei brani recitativi, cioè nella parte di gran lunga dominante, dei melodrammi. Ma, eccettuati i casi che segnaleremo come patetici, il dialogo non è la parte più poetica dei lavori metastasiani.
Quando il Metastasio tenta la coniugazione di elegia ed epopea, egli non raggiunge la commozione (come il Foscolo nei Sepolcri od il Manzoni in molti capitoli dei Promessi), ma svicola nel patetico. Questa forma di pseudocommozione è generato dalla inverosimiglianza dei motivi ispiratori, sicchè mentre il cuore piange, la mente si rifiuta di aderire e rimane cosciente della falsità dei rapporti creatisi. In pratica, si è messi di fronte ad un eroe... dell’indecisione, condotto da circostanze esteriori, più che da una volontà precisa, a scegliere il sacrificio e la rinuncia piuttosto che tradire l’ideale di amicizia (Megacle) o di vocazione provvidenziale (Enea) o di dignità sociale (Tito), ritenuto dal protagonista come dovere inesorabile, pur trattandosi semplicemnete di una libera opzione del meglio o dell’ottimo di fronte alla stretta giustizia e legittimo interesse. Il patetico è una scimmiottatura della commozione, che è pure il sinergismo di epopea ed elegia: nel patetismo, però, le situazioni affiorano alla coscienza come fantastiche ed arbitrarie, lontane dalla realtà di persone mentalmente sane od adulte e proprie invece di individui disarmonici perchè immaturi (adolescenziali) o malati (disequilibrati). Il contrasto fra elegia ed epopea viene a dipendere da situazioni, che la mente rifiuta di credere, anche se il cuore accetta di “comprendere e compatire”. Di fronte al “patetico”, si finisce anche per commuoversi (nei racconti del “Cuore” di De Amicis” si può giungere alle lacrime, nonostante gli sforzi in contrario), ma sempre con la coscienza che la situazione non merita tale tributo di partecipazione emotiva, perchè nata da comportamenti irrazionali: solo un ingenuo o un esaltato può assumere simili parti che la ragione non giustifica, anche se la sensibilità ammira e compiange. E’ quest’ultima la situazione in cui ricadono molti personaggi e trame metastasiane. La Olimpiade, l’Attilio Regolo ne sono prove convincenti. Dell’Attilio Regolo si leggano specialmente l’atto terzo, con la scena finale.
E vi sono dei casi in cui, mentre la sfera neurovegetativa è indotta al pianto, la ironia della ragione è tentata addirittura al sorriso. Non si può negare, infatti, che la irresolutezza del presunto eroe rasenti talora il ridicolo. Certe battute od ariette dei melodrammi si prestano a quella molteplice recitazione cui certi comici da proscenio hanno sottoposto le strofette “La vispa Teresa| aveva tra l’erbetta| a volo sorpresa| gentil farfalletta;|| e tutta giuliva,| stringendola viva,| gridava a distesa:| “l’ho presa! l’ho presa!...”. Basta, cioè, mutare l’intonazione con cui i versi vengono pronunciati, perchè tutto cada nel grottesco. Come già osservato da Francesco De Sanctis e sviluppato da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), una comicità involontaria (il ridicolo appunto) è latente nella mancanza di carattere in molti personaggi e nel groviglio inestricabile di tribulazioni in cui vanno a cadere per la loro irresolutezza. Il caso già citato di Enea, in Didone, I, 18 (“Se resto sul lido,| se sciolgo le vele...”), mette in penosa tentazione di pensare alla ragazza che sfoglia la margherita recitando “Mi ama| non mi ama...”; o di immaginarsi l’eroe troiano che sta sul lido d’Africa con un piede sulla spiaggia ed uno nell’acqua, fermamente deciso a non prendere una decisione... Altre testimoni a carico sono disponibili: la già citata arietta di Antigono, I, 11 “E’ pena troppo barbara| sentirsi, oh Dio, morir...”); questi versi da Demofoonte, I, 12) : “Padre, perdona...Oh pene!| Prence, rammenta... Oh Dio| Già che morir degg’io| potessi almen parlar!...”; e quest’altra arietta, dallo stesso (II, 17):”No, non chiedo, amate stelle,| se nemiche ancor mi siete:| non è poco, o luci belle,| ch’io ne possa dubitar.|| Chi non ebbe ore mai liete,| chi agli affanni ha l’alma avvezza,| crede acquisto una dubbiezza,| ch’è principio allo sperar”.
Oltre a questo pericolo di scivolare nel ridicolo, il dialogo scade talora a banalità: personaggi regali, dignità auliche, eroi militari si abbassano improvvisamente a popolani pettegoli, astiosi, cafoneschi. [17] Nella Didone abbandonata, Iarba (che è il re in persona, ma si finge il proprio ambasciatore) protesta davanti alla regina di Cartagine: “Or sa l’Africa tutta| che dall’Asia distrutta Enea qui venne;| sa che tu l’accogliesti e sa che l’ami;| nè soffrirà che venga| a contrastar gli amori| un avanzo di Troia al re dei Mori”. Didone interrompe il suo discorso: “E gli amori e gli sdegni| fian del pari infecondi”. E Iarba subentra “Lascia pria ch’io finisca e poi rispondi”. La rimbeccata di Iarba contiene perle scaramazze: “Generoso il mio re, di guerra invece,| t’offre pace, se vuoi;| e in ammenda del fallo,| brama gli affetti tuoi, chiede il tuo letto,| vuol la testa di Enea.” Ma Didone raccoglie la sfida in questa ritorsione: “Dicesti?” Iarba: “Ho detto”. Didone: “Dalla reggia di Tiro| io venni a queste arene| libertade cercando e non catene.| Prezzo dei miei tesori,| e non già del tuo re Cartago è dono.| La mia destra, il mio core,| quando a Iarba negai,| d’esser fida allo sposo allor pensai.| Or più quella non son...” Iarba (interrompendo) “ Se non sei quella...” Didone (pareggiando il conto della battuta precedente di Iarba) “Lascia pria ch’io risponda; e poi favella”. E’ facile pensare che di frornte a simile ritorsione, il pubblico sia scoppiato a ridere ed applaudire; ma è altrettanto facile costatare che il personaggio Didone esce sminuito da simile battibecco, che l’avvicina troppo al rozzo ed incivile Iarba.
Ancora possiamo divertirci a spigolare. In Attilio Regolo, I, 9, Amilcare dice all’amata Barce. “Addio:| Publio seguir degg’io. Mia vita, oh quanto| quanto ho da dirti!” (Barce) “E nulla dici intanto.” Nell’Olimpiade, discorda il tono truculento e l’argomentare sillogistico del re Clìstene, che vuol condannare a morte il figlio Lìcida, il quale, incosapevole del legame di sangue, aveva tentato di ucciderlo: “E’ forse| la libertà de’ falli permessa al sangue mio? Qui viene ogni altro| valore a dimostrar: l’unico esempio| esser degg’io di debolezza?| Ah! questo| di me non oda il mondo. Olà, ministri,| risvegliate su l’ara il sacro fuoco:| va’, figlio e muori. Anch’io verrò fra poco”. Questa è un’eco dell’orrore nell’Aristodemo di C. Dottori (1618-85), che a Vienna aveva preceduto il Metastasio come poeta cesareo ed aveva prodotto melodrammi.
NOTE DI TECNICA STILISTICA.
Questa volta analizziamo anzitutto i melodrammi: essi offrono i criteri per una lettura critica anche delle ariette e delle canzonette. E la scoperta prima è la costatazione che, una volta individuato il motivo ispiratore, il poeta che merita tal nome, anche se non grandissimo, è coerente nella deduzione dei toni lirici e della tecnica espressiva, che ne rispecchiano i caratteri.
La ambivalenza della impostazione letteraria: fra lirica e dramma. . E’ già essa stessa melodrammatica, cioè ambivalente nel senso di una “teatralità lirica”; di un apparente dibattito in “io|tu”, nella realtà del monologo in “io” soltanto: presenta infatti, come struttura intima, un continuo contrasto (potenzialità drammatica); ma si tratta, poi, di un contrasto tutto interiore al singolo personaggio e, dunque, soggettivo all’estremo (potenzialità lirica). E’ questo il melodramma: un teatro in cui i singoli personaggi straziano se stessi nell’apparente dialogo con gli altri; in cui dibattono l’un contro l’altro armati, mentre la guerra è solo all’interno di ciascuno di loro.
Gli elementi di contrasto (di “dramma”, dunque) sono, poi, moltiplicati: in ogni opera metastasiana vi sono almeno due coppie di personaggi in concorrenza fra loro. Ma il contrasto risulta poi interiorizzato nei singoli personaggi: di qui la loro incomunicabilità, chè ciascuno è costretto a dire solo quanto l’interlocutore può venir a sapere, tacendo o deformando le notizie che l’altro non deve conoscere: si parlano e talora recitano un verso assieme, ma la dissonanza è radicale: ognuno intende ciò che può e fraintende ciò che si illude di sapere. In realtà, il loro, diviene talvolta un dialogo fra sordi, perchè uno di loro non vuol farsi capire, trovandosi in un dilemma al limite dell’assurdo e della disperazione. In personaggi secondari, il “discordo” può cadere fra due passioni maligne, egoistiche: ad esempio, Vitellia, ne La Clemenza di Tito, da una parte aspira al trono imperiale divenendo moglie di Tito; dall’altra è disposta a sposare Sesto, se questi assassinerà Tito, il figlio dell’odiato Vespasiano che ha ucciso il padre di lei, Vitellio. Nei personaggi principali, l’agonia nasce dal contrasto fra dovere ed affetto, tra passione e ragione, fra amore terreno e missione storico-provvidenziale[18]. E siccome spesso la scelta non è tanto fra bene e male, ma fra un bene ed un (presunto) meglio, ecco che le opere del Metastasio sottopongono i protagonisti ad un vero martirio, nel contrasto fra il dettato del buon senso, della pura giustizia e di un diritto ovvio, da una parte; e idealismo, eroismo e carità, dall’altra. Comunque, questo dissenso interiore sminuisce l’azione drammatica a sfogo soggettivo, abbassa il dialogo scenico a confessione personale: riconduce il dramma (genere di letteratura in “io-tu”), alla poesia lirica (in prima persona). L’approdo al “melodramma” avviene prima della rivestizione musicale: è nella struttura intima dell’impostazione: vi è dramma nell’apparenza materiale, tecnica; vi è “melos” (cioè poesia lirica, soggettiva) nella realtà formale, spirituale. A questo modo i melodrammi del Metastasio sono a metà strada fra tetaro ed effusione lirica, fra incontro (scontro) sociale e solipsistica confessione dei propri sentimenti.
Il momento saliente del lirismo soggettivo si ha nelle
ariette, dove il personaggio parla per suo conto, quasi in prima
persona, fuori di ogni dialogo: spesso
l’attore le esprime colla
pretesa di non farsi udire dall’interlocutore, ma solo dal pubblico in platea:
e, per raggiungere meglio tale fine, essi non recitano le “ariette”, ma le
cantano!
Ecco degli esempi (oltre quelli citati nei Motivi ispiratori). Nella Didone abbandonata, ad Enea, buono ad ogni costo, si contrappone Osmida, malvagio senza remissione. Enea vorrebbe far felice Didone e, contemporaneamente, obbedire al comando di Giove ed al destino della sua gente (III, 3); Osmida è deciso invece a prendersi Didone in sposa, a dispetto degli dei (III, 2 e 4); Enea è conteso da Didone e dalla sorella di lei Selene, che l’ama pur essa. Didone, a sua volta, è disputata fra Enea, Osmida, Iarba. Ma i contrasti si interiorizzano, poi: Enea è indeciso fra Giove, Didone, il dovere verso la sua discendenza; tra la felicità del soggiorno cartaginese e l’aspirazione alla gloria futura. Tali contrapposizioni si esprimono al meglio nelle ariette. Ecco in I, 2: (Enea ad Osmida) “Dovrei...ma, no...| L’amore...oh Dio! la fe’...| A! che parlar non so:| spiegalo tu per me”. Od in I, 3 (Selene a Didone): “Dirò che fida sei;| su la mia fe’ riposa:| sarò per te pietosa.| (per me crudel sarò):| Sapranno i labbri miei|scoprirgli il tuo desio.| (ma la mia pena, oh Dio!| come nasconderò?)”. I, 18: “Se resto sul lido...”: già citata. I, 9 (Enea a Selene): “Tormento più crudele| d’ogni crudel tormento| è il barbaro momento,| che in due divide un cor.|| E’ affanno sì tiranno,| che un’alma nol sostiene.| Ah! nol provar, Selene,| se nel provasti ancor”. II, 14: (Didone, sola): “Va lusingando Amore| il credulo mio core:| gli dice: -Sei felice-;| ma non sarà così.|| Per poco mi consolo;| ma più crudele io sento| poi ritornar quel duolo| che sol per un monmento| dall’alma si partì”. III, 12 (Didone): “E’ ver, corriamo.| Io voglio...Ah, no....restate...| ma la vostra dimora...| Io mi confondo...E non partiste ancora?”
III, ultima scena (Didone): “Vado,....Ma dove? Oh Dio!| Resto...ma, poi... che fo?| Dunque morir dovrò| senza trovar pietà?”
Anche l’Olimpiade offre un guazzabuglio psicologico paradossale (o peggio). Vi si gioca una partita amorosa a quattro: Aristea, figlia del re di Sicione, è amata da Megacle, ateniese vincitore ai giochi olimpici; Argene è amata da Lìcida, che però la dimentica per innamorarsi della propria sorella –a lui sconosciuta come tale- Aristea. Aristea, promessa in sposa al vincitore, è vinta da Megacle che però ha lottato sotto le spoglie mentite dell’amico Lìcida, perchè questi, a suo tempo, gli ha salvato la vita. La ingarbugliata vicenda si scioglie felicemente, ma non senza patemi psicologici, che sfiorano il ridicolo. Argene è travestita da pastorella col finto nome di Licòri; Megacle si batte ai giochi olimpici col finto nome di Lìcida: tutte circostanze che complicano la trama. E le ariette rivelano l’oscillazione interiore dei personaggi ( e...del poeta). Ecco la donna schiava e padrona dell’uomo: “Del destin non vi lagnate,| se vi rese a noi soggette: siete serve, ma regnate| nella vostra servitù.|| Forti noi, voi belle siete| e vincete in ogni impresa,| quando vengono a contesa| la bellezza e la virtù” (I, 5). Ecco la oscillazione nell’amore, mancanza di perseveranza, di fedeltà ecc.“Più non si trovano| fra mille amanti| sol due bell’anime che sian costanti:| e tutti parlano di fedeltà.|| E il reo costume| tanto s’avanza| che la costanza| di chi ben ama|ormai si chiama| semplicità” (I, 7).
Ed ecco le battute del testo: (Megacle) “Taci, bell’idol
mio”. (Aristea) “Parla, mio dolce amor”. (Megacle) “Ah! che parlando, oh
Dio! (Aristea) “Ah! che tacendo, oh
Dio!”. (assieme) “Tu mi trafiggi il cuor”. (Aristea) “Veggio languir chi
adoro,| nè intendo il suo languir”. (Megacle) “Di gelosia io moro,| e non lo
posso dir”. (assieme “Chi mai provò di questo| affanno più funesto,| più
barbaro dolor! (I, 10). La scena terza dell’atto secondo è una gara fra Argene
ed Aristea su chi delle due sia più infelice; e termina così, per bocca di
Aristea: “grandi, è ver, son le tue pene:| perdi, è ver, l’amato bene;| ma sei
tua, ma piangi intanto;| ma domandi almen pietà.|| Io dal fato, io sono
oppressa:| perdo altrui, perdo me stessa| nè conservo almen del pianto|
l’infelice libertà”. La scena nona vede Megacle che non sa che fare, dopo che,
svelato il segreto che egli ha vinto Aristea alla Olimpiade, ma per l’amico
Lìcida, vede l’amata svenire: partire? uccidersi? restare? E’ un
amletico...trilemma! Alla fine della scena successiva, la decima, vi è la
famosa arietta: “Se chiama, se dice:| -L’amico dov’è?-| -L’amico infelice-|
rispondi –morì.| Ah! no, sì gran duolo| non darle per me: rispondi, ma solo:|
-Piangendo, partì-|| Che abisso di pene| lasciare il suo bene,| lasciarlo per
sempre,| lasciarlo così”. In II, 15, Lìcida, credendo morto Megacle e avendo
ricevuto ordine di lasciare Olimpia perchè era stato scoperto lo scambio fra
lui e Megacle, esce in queste complicate, contradditorie affermazioni: “Odio la
vita,| m’atterrisce la morte; e sento intanto| stracciarmi a brano a brano| in
mille parti il cor. Rabbia, vendetta,| tenerezza amicizia,| pentimento, pietà,
vergogna amore| mi trafiggono a gara. Ah! chi mai vide| anima lacerata| da
tanti affetti e sì contrari!| Io stesso non so come si possa| minacciando
tremare,arder gelando,| pianger in mezzo all’ire| bramar la morte e non saper
morire”. In III, 1 vi è un doppio contrasto: fra Megacle, candidato suicida
trattenuto da Aminta, aio di Lìcida; ed Aristea, votata allo stesso disperato
gesto, trattenuta da Argene: il palcoscenico viene diviso a metà dalle due
coppie, che recitano contemporaneamente
e che rischiano di scontrarsi, all’uscire dalla propria area di
recitazione!!!
Ma basta con le testimonianze. Come osservazione finale, notiamo che tale carattere semiteatrale e semilirico dei melodrammi metastasiani fa sì che essi debbano essere integrati colla musica oppure affidati solo alla lettura: una recitazione non musicata farebbe una gran fatica a reggere, chè troppo i limiti d’inverosmiglianza affiorerebbero alla coscienza dello spettatore; viceversa, il lettore appena introdotto lascia passare indulgente le parti infelici, in attesa della poesia delle ariette o delle scene patetiche, che soffocano, almeno in parte, la coscienza critica.
Ambivalenza nella trama e nella statura morale dei personaggi. Vogliamo far emergere questo dato di fatto: argomenti elevati, divinità ed eroi, re ed imperatori si lasciano coinvolgere in intrighi di passioni, tormenti, meschinità e debolezze da ricreare quel “démimonde” delle corti e dei salotti, delle dame e dei cicisbei, propri del secolo imparruccato ed incipriato. Anche qui, assistiamo allo sforzo per elevarsi alla tragedia, col risultato di riuscire quasi sempre al genere comico, in cui la tensione drammatica si scioglie puntualmente nell’esito felice. Anche qui abbiamo lo scompenso tra lo stato dell’essere e le leggi di comportamento, tra le esigenze della dignità ideale e la meschinità della condotta reale.
Ambivalenza nella psicologia dei personaggi e loro tendenza al macchiettismo. Se ne è già parlato più volte: i personaggi sono proiezioni autobiografiche della distonica individualità del poeta e la loro drammaticità rischia di ridursi al lirismo della espressione del loro strazio intimo. Questo, aggiungiamo ora, tende a scorciare i personaggi in “macchiette”, cioè a individui caratterizzati da poche notazioni psicologiche, semplificati ad un meccanismo elementare che è definito da un paio di motori (dovere ed amore) e quasi deformati a livello di manichini, che si sa già fin dal principio come agiranno e reagiranno. A variare la trama delle vicende sono solo delle peripezie esterne, perchè i personaggi sono incapaci di decisioni che mutino la situazione in cui sono incorsi, spesso per la loro imprevidenza. La donna tende ad avere una parte non inferiore all’uomo nell’evoluzione della vicenda, perchè essa rappresenta il polo attivistico, complementare all’uomo indeciso ed imbelle: ma, anch’essa, si definisce per tratti sommari e riduttori, riuscendo una tiranna travolgente.[19]
Il vocabolario. E’ stato il Baretti a denunciare per primo la povertà della lingua metastasiana: non si va al di là di sei o settemila vocaboli.
Pur non mancando di termini concreti, tuttavia la lingua del Metastasio frequenta più facilmente quelli astratti: di fronte a “principesse ed amici, il genitor ed i figli, il terreno ed il lido, le onde ed il mare, le vele e le sarte, il canape ed il ciglio”...stanno i ben più numerosi “sdegno, timor, fe’(deltà), arbitrio, giorni, destin, colpa, fato, riposo, merito, zelo, sonno, oblio, sembiante, regno, valor, momento, il vivere, promessa, ozio, amore, orror....”. E la concretezza viene ulteriormente attenuata attraverso sineddochi (vele=navi; legni=navi; onde=mare...), litoti (“non sono ingrato”: due negazioni per affermare attenuano l’affermazione stessa) ed altri accorgimenti (lido=litorale; numi=divinità; il sembiante del genitor= il padre in persona...).
Tale spontanea preferenza per l’astrattezza dimostra una tendenza alla filosofia, ad una visione universalizzante della realtà, anche se denunciano un minor realismo ed una minor presa sulla concretezza della vita. Difatti, la lingua usata è quasi una impronta digitale della nostra psicologia... Ma purtroppo anche la “disposizione filosofica” del Metastasio è limitata: la mente è chiara, ma non profonda; la sua filosofia non va molto al di là della formulazione di giudizi dettati dal senso comune e dal “buon senso” o sapienza intuitiva. Quando si arrivasse a ragionamenti più o meno sillogistici, a confronti fra idee per deduzioni ulteriori, la penetrazione filosofica del poeta si troverebbe presto impacciata ed ostruita: la congiunzione “perchè=poichè non trova molto impiego nelle sentenze del Metastasio. La grandezza dell’uomo sta nella sua discreta genialità poetica, non nella eccezionalità del suo pensiero (e, ancor meno, della sua potenza di azione).
Si noti infine: un effetto del contrasto interiore, inverosimile, è quello di generare contrapposizioni di parole di tipo concettista: avviene di rado, ma capita: “ E’ pietà con Didone esser crudele” (II, 11); “Io d’amore, oh Dio! mi moro” (III,7); “Siete serve, ma regnate” (Olimpiade, I, 5) Sempre dall’Olimpiade, si sono già citati i versi chiaramente secentisti di II, 15 (“...minacciando tremare, arder gelando| piangere in mezzo all’ire,| bramar la morte e non saper morire”). Non del tutto inverosimile la sentenza è invece la sentenza “Amore e maestà non vanno insieme”.
Tecnica teatrale e metrica. Fu il Metastasio il poeta che fissò al numero di tre gli atti del melodramma. Nel dialogo fra i personaggi, il Metastasio usa l’endecasillabo mescolato liberamente a qualche settenario. Nelle composizioni liriche (sonetti a parte), preferisce metri minori: il settenario per le canzonette; metri più vari –dal quinario al decasillabo- per le ariette. Il settenario, l’ottonario ed il novenario sono i versi più frequenti. Abbiamo segnalato tacitamente le rimalmezzo o simili, col selezionarle in carattere corsivo.
Musicalismo dell’espressione.
Non possiamo essere aiutati dalla frequenza più o meno straordinaria di sdrucciole o tronche. Le parole proparossitone (sdrucciole) si ritrovano nelle ariette alla fine dei versi che non fanno rima, ma in una proporzione normale, non più densamente cioè che nel testo recitato (le ariette sono più solitamente composte da quartine, in cui i due versi piani rimano fra loro; gli altri due possono essere a loro volta piani, oppure sdruccioli o tronchi). Più facile scoprire dei vocaboli tronchi, presenti più frequentemente alla fine dell’arietta (l’ultimo della prima strofetta rima con l’ultimo della seconda), ma proprio questa loro posizione conclusiva ne attenua l’impatto musicale, perchè è legge del nostro orecchio interiore che l’ultima sillaba di verso tende a contar di meno (“ultima non curatur” pare incidano eccessivamente sull’impressione musicale ricavata dalla lettura delle ariette o del testo metastasiano.
Abbandonata questa pista, non ci rimane che esaminare l’impasto vocalico e consonantico del linguaggio melodrammatico del Nostro. Qui ci troviamo di fronte a fattori di forza ed a componenti di tenerezza, cioè alla conferma di quell’ambivalenza drammatico-lirica dell’opera metastasiana.
La vocale che fa da trave portante alla qualsiasi sua validità drammatica è più la “O” che la “A”: anche quest’ultima si fa sentire, ma la vocale più frequente è certamente la prima. Si tratta dunque di una vocale forte, ma non della più forte: la “O” ovatta i propri colpi, ottunde la propria potenza, ingentilisce la propria forza: percuote ma non morde. La vocale “A” predomina eccezionalmete in Didone I, 17| II, 1 e 4. A sostenere la sonorità dramamtica intervengono allora le consonanti “T|S|R” (ST|TR|NT): dentali e sibilanti forti, in consonanza con la “R” liquida ambivalente, che accarezza ruvida, punge sorniona. Meno significativo è l’apporto scarso di labiali (esplosive), gutturali e stridenti (ST|TR|NT).
A dirigere l’orchestra del linguaggio per l’espressione “melica o specificamente lirica”, cioè della dolce eleganza, della tenerezza affettiva, sta la vocale media “E”, sia pure corteggiata dalle più deboli “I,U”: la “E” accompagan e cotrasta particolarmente la “O”; le I” ed “U” attenuano più solitamente la “A”. Le vocali “E|I|U” prevalgono sullle “A|O”; frequenti sono le combinazioni “EI (èi)| IO (ìo)”. Tra le consonanti, collaborano più le nasali M|N, le fruscianti “F|V|S|R” e le palatali “C|G” (GN|GL). La liquida “L” è meno frequente e sentita.
Questa interpretazione è stata dedotta dall’analisi particolare di Didone abbandonata, atto I, scene 3, 5, 6, 7, 8, 10, 13,18; atto II, sc. 6.
Questo è dunque il Metastasio: non sordo al drammma altrui, ma ben più schiavo del proprio interno sentire distonico, ambiguo, oscillante, eternamente vagante da un estremo all’altro del dilemma tra moralità ed affettività; non senza rischio di ridicolo, ma con pause di elegia, oasi di tenerezza patetica, scampoli di gnomica epicità. Un poeta minore, ma pur un vero poeta; un pensatore modesto, ma non senza un patrimonio di saggezza; un uomo limitato, ma con una sua dignità di pensiero e di comportamento. Non fu un eroe, ma fu un lavoratore onesto; non fu un santo ma riuscì un bravo cristiano; non fu un personaggio che conia la nuova storia, ma neppure fu un disorientato che, la storia, la fa camminare in senso antiorario, come regresso spirituale ed umano, pur nei successi di opinione, di vittorie e di conquiste.
Altri scrittori per melodramma
Dal punto di vista strettamente letterario sono ben povera cosa. Pure, qualche nome interessa per la storia dlela musica che, dal dramma pastorale, va evolvendosi verso l’opera lirica e l’opera buffa; sia per la storia della cultura, perchè essi confermano una fedeltà longeva al genere arcadico, che è in contrasto con l’intellettualismo dominante e previene, in qualche modo, aspetti del neoclassicismo e del romanticismo.
Precedente addirittura al Metastasio è Paolo Rolli (Roma,1687-1765), che, a Londra scrive libretti, per il teatro italiano, già nel 1719 e 1723 (e altri ne scriverà dal 1733 al 1737). Lo studieremo più a lungo come lirico, chè lui stesso chiamava i suoi testi per teatro in musica “drammatici scheletri”. Del primo periodo, la cosa migliore fu l’Erminia; del secondo, l’oratorio sacro David.
Degno di ricordo è anche Ranieri de’ Calzabigi (Livorno, 1714-1795). Condusse vita avventurosa e non sempre limpida, tra Parigi, Pisa, Vienna e Napoli. Fu critico letterario e librettista per teatro. In sede critica, son degne di considerazione le Dissertazioni su le poesie drammatiche del signor abate Pietro Metastasio (1755), studio che precede un’edizione parigina delle sue opere; e la Lettera a Vittorio Alfieri sulle quattro sue prime tragedie, lettera che meritò una rispettosa, anzi ammirata risposta dello stesso Astigiano. Nel campo della produzione per teatro, egli tentò un ritorno alle origini del dramma pastorale, cioè al primato del testo letterario su quello musicale (al primato della “musica in parole” nella poesia rispetto alle “parole per musica” nella melodia). La musica avrebbe dovuto solo accentuare il valore lirico del testo verbale. Ma dice bene il Sapegno: “Il suo ideale, rigorosamente neoclassico, consisteva in un ritorno alle linee semplici e caste delle favole antiche, messi da parte gli ornamenti superflui e le stravaganaze romanzesche degli intrecci: un ritorno ai modi del Rinuccini, ma senza, purtroppo, l’ingenua grazia e l’affettuosa poesia del fiorentino” o. c., II, 444). Le cose migliori sono i melodrammi composti a Vienna e misicati da Cristoforo Gluck: Orfeo ed Euridice (1762), Alceste (1768), Paride ed Elena (1770). Ci restano di lui anche commedie musicali, drammi pastorali e storici (L’opera seria| La finta giardiniera| Elvira...) L’Elvira fu musicata dal Paisiello ma, come l’altra tragedia per musica, Elfrida, è letterarariamente fallita al pari delle opere realistiche di impegno etico-culturale (“L’opera seria” è una critica del teatro per musica). Si noti invece che le opere mitologiche hanno un loro incipiente valore poetico: Orfeo (che nella sua redazione, assume un finale felice, colla salvezza per Euridice) contiene la famosa arietta “Che farò senza Euridice? Dove andrò senza Euridice?...”
Solo, invece, per motivi di costume e di storia socio-culturale, ricordiamo Francesco Cerlone (Napoli, 1730-1810 ca). Questi scrisse 70 libretti per opera buffa in musica. Le cose migliori sono Bellinda (1781) e L’osteria del Marechiaro, musicata dal Paisiello. Si deve al Cerlone se la maschera di Pulcinella divenne così popolare, da impersonare o quasi il napoletano popolare tipico.
Suo contemproaneo e conterraneo fu Giambattista Lorenzi (Napoli, 1719-1807). Fu direttore degli spettacoli di corte alla reggia dei Borboni; scrisse 30 libretti di commedie per musica. Ecco alcuni titoli: Fra i due litiganti, il terzo gode (1766), L’idolo cinese (1767), Il furbo malaccorto (id.), La luna abitata (1768), La finta maga per vendetta (1768), Don Chisciotte della Mancia (1769), Nina o la pazza per amore (1789: quest’ultima è il capolavoro della commedia lacrimosa musicale, in Italia. Egli mise mano anche al capolavoro dell’opera buffa musicata, Socrate immaginario (1775): coautore del testo fu Ferdinando Galiani. Il Socrate immaginario è una parodia del classicismo, alle spese del mondo universitario partenopeo, specie di un Saverio Mattei, eruditissimo ma scriteriato cultore di cose greche e latine. Dopo cinque rappresentazioni, il Mattei ottenne dal ministro Tanucci che ne fosse sospesa la recita, ripresa solo dopo alcuni anni. Due sono i personaggi centrali: don Tàmmaro (che incarna Socrate) e Mastro Antonio (che è la controfigura di Platone). Seguendo i dati delle “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio, si mettono in scena le peripezie della vita di Socrate novello, che tutto vuol grecizzare in casa (la moglie Rosetta diventa Santippe; la figlia, Sofrosine; il barbiere, Platone). Per dirla con alcuni versi delal commedia: “In casa mia| voglio che tutto sia grecismo;| che sin il can che ho meco| dimeni la coda all’uso greco”. Queste commedie ebbero la musica del Paisiello. Invece Cimarosa ne musicò L’apparenza inganna (1784: sulla villeggiatura); e Il marito disperato (1785).
Di un altro scrittore per opere buffe, Giambattista Casti (1724-1803), avremo modo di parlare a proposito dei poemi nel Millesettecento, oltre che nello studio dei “lirici”.
E veniamo a Lorenzo da Ponte: ebreo, nato a Céneda (ora Vittorio Veneto) col nome di Emanuele Conegliano, visse dal 1749 al 1838 una esistenbza di instabilità ed avventure tragicomiche. Spesso sfrattato e ramingo, ebbe anche periodi di onori e di prestigio, salvo a ricadere nella condizione di esule tuttofare. Finì negli Stati Uniti, adattandosi ad ogni mestiere per sopravvivere, ma facendo anche il tipografo e pubblicando autori italiani, a cominciare da Dante. Si era fatto cattolico; anzi, aveva presi gli ordini ed era divenuto sacerdote senza vocazione, come era senza criterio in quanto uomo. Insegnante nel Seminario, si fece espellere per dottrine ereticali e, rifugiatosi a Venezia, vi incontrò il Casanova. A Vienna, sotto Giuseppe II e per l’interessamento del maestro A. Salieri, riuscì a farsi preferire al Casti come poeta dei teatri imperiali,; ma Leopoldo II, succeduto al fratello, gli preferì il Casti ed egli, abbandonata la capitale dell’impero, fu a Dresda ed a Trieste. Finì pere emigrare in America, morendo a New York nel 1838: avendo esercitato anche l’insegnamento di lingua e letteratura italiana, contribuì a diffondere il culto della lingua toscana e delle opere di Dante nel Nuovo Mondo. Le sue “Memorie” sono poco attendiili, perchè tese a giustificarsi ad ogni costo, scaricando la colpa dei suoi fallimenti sugli altri. Comunque, a Vienna scrisse tre non infelici libretti: Le nozze del Figaro; Don Giovanni; La scuola degli amanti, che ebbero la musica di Wolfgang Amadeus Mozart!
LA TRAGEDIA
I letterati italiani avevano fatto scuola nei secoli XV e XVI all’Europa intera, ma con il Millseicento essi si vedono eclissati dal “grand siècle” francese e dal “siglo d’oro” spagnolo. Essi sono particolarmente imbarazzati che la Francia avesse avuto due geni nel campo tragico, cioè Pierre Corneille (1606-1684) e Jean Racine (1639-1699), continuati nel Millesettecento dal Voltaire e dal Crébillon (Prosper Jolyot de: 1674-1762), mentre l’Italia doveva accontentarsi di mediocrità. Fin quando non sorse Alfieri, ci fu un vero complesso di inferiorità, una specie di frustrazione nazionale che suscitò reazioni diverse. Da una parte si traduceva dal francese, per portare a conoscenza dei capolavori anche a gente non particolarmente dotta. D’altra parte, si compilavano raccolte di opere teatrali italiane, che in qualche modo costituissero un “parnaso tragico nazionale”: Scipione Maffei pubblica dal 1723 al 1725 una tale collezione dal titolo “Il teatro italiano”. Ma soprattutto si tenta da varie parti di pareggiare la sorella neolatina in questo campo della letteratura, che la tradizione ha sempre considerato come il più arduo, il sublime per eccellenza. In genere, però, si trattava di “lirici” o “commediografi” che attentavano il “genere tragico” non tanto per vocazione congenita, ma per puntiglio di sfida e di gara. I risultati furono al più mediocri. Ecco qualche nome meno effimero.
PIER IACOPO MARTELLO (Bologna: 1665-1727). Professore di eloquenza nella città natale, dal 1708 al 1718 passò al servizio della S. Sede a Roma, ma fu richiamato a Bologna come maggior segretario del Senato, dopo che ebbe edito la collezione delle sue opere teatrali (“Teatro”: 1715). Scrisse, in prosa, di poetica e di critica: Del verso tragico (1709: per difendere il verso “martelliano”, come fece anche nel dialogo L’impostore del 1714: ne riparleremo subito); Della tragedia antica e moderna (1715); Il Tasso o della vana gloria (1722); Il vero parigino italiano; Del volo[20]. Non si può dire che non avesse una preparazione e storica e critica alla impresa tragica: produsse sedici opere. Si possono dividere, in base agli argomenti, in romane (La morte di Nerone| Quinto Fabio| M. T. Cicerone| Perseo), greche (Edipo tiranno| Edipo Colonéo| Alceste| Arianna| Elena casta| Efigenia in Tauris), bibliche e cristiane (Sisara| Rachele| Procolo| Gesù perduto) e orientali (Perselide| I Taimingi).[21]
Ma il suo carnet è molto ricco: egli si potè vantare di aver frequentate “tutte le sorti antiche e moderne dei drammi”. Nè si limita all’arte drammatica. Cominciando dalla lirica pura, ecco il Canzoniere (1710); venendo ai poemetti, ve ne è uno religioso (Gli occhi di Gesù) ed uno romanzesco (Carlo Magno: incompiuto); e c’è posto anche per sei satire: Il secretario Cliternale al baron di Corvara. Ma scrisse anche commedie “da camera” o “per letterati”, cioè destinate non alla rappresentazione ma alla lettura (Che bei pazzi!: 1717| Lo starnuto di Ercole: 1717). Tra queste ultime vi è anche Il Femia sentenziato (1724), che è una canzonatura di Scipione Maffei e di Vincenzo Gravina (entrambi nemici del verso martelliano): come già il “Socrate immaginario”, a Napoli, anche Il Femia (anagramma di Maf(f)ei) fu ritirato dal commercio, oltre che dalla rappresentazione; e solo poche copie riuscirono a salvarsi! [22]
Quale il valore di tutta questa produzione?
Le teorizzazioni di poetica e di critica letteraria non contano molto, anche se rivelano intuito azzeccato (ma non capacità di dimostrazione) sia nei princìpi teorici che nei giudizi critici.
Tutto sommato, si trovano oggi più lettori favorevoli al Martello comico che a quello tragico. Così piace ancora il Femia sentenziato “la prima e la più bella di quelle parodie drammatiche di cui fu assai ghiotto il Settecento” (Natali, cit.); e non dispiacciono le altre “commedie da camera” (Che bei pazzi! e Lo starnuto d’Ercole). Discretamente efficace la polemica, nelle sue Satire contro la ciarlataneria letteraria (Il secretario Cliternale al baron di Corvara), che preannuncia l’ironia protratta del Parini, per un finto ammaestramento (di un nobile idiota, questa volta: ne Il Giorno, si tratterà della nobiltà corrotta). La tecnica del Femia e di Che bei pazzi! consiste nell’uso ironico dello scrittore classicista (leggi “nell’abuso ridicolo” dei personaggi), come del loro stile e gusto. La sostenutezza del Gravina (messo in scena sotto i panni del pastore Bione) e la sdolcinatura del Maffei (anagrammato in Femia) sono in balia di Mirtilo, che impersona l’autore.
Nel Canzoniere si trovano sia un sonetto che un’egloga, ispirati alla morte di un figlio: che sono cosa gentile. Di alcune composizioni giovanili meno controllate (dieci sonetti d’amore e la canzone sull’età dell’oro) gli sono state rivendicate dal Croce (Natali, cit: II, 660). Ma forse più significativo è il valore “culturale” della produzione giovanile del Martello. Come il Croce ha evidenziato, il Martello aveva iniziato secentista e, pur essendosi alfine ribellato, non se ne liberò del tutto,[23] tanto è vero che nel “Comentario” che precede il Canzoniere, egli fa pronunciare in Parnaso una sentenza di conciliazione e compromesso fra Petrarchisti puri e Marinisti.
Veniamo ormai alle tragedie. La preferita dal suo secolo, fu la Ifigenia in Tauris (o “Taurix”, cioè in “Tauride”, come ormai traduciamo noi). Ma anche Alceste e Rachele hanno scene patetiche, cioè di appassionata tenerezza arcadica.[24] Il limite di J. Martello come trageda è la mancanza di forza, di fermezza, di rigore. Lo abbiamo visto accondiscendere a ritirare dalle scene e dalla stampa il suo Femia: troppo buono di cuore, per riuscire un poeta tragico. Difatti il Natali lo definisce “il vero arcade della tragedia” e parla del suo sentimentalismo per le tragedie citate. Ma vi è anche della comicità (voluta) e della satira in queste opere che risultano confidenziali e troppo alla mano . Di “tono famigliare e dimesso” parla il Natali che aggiunge: “Non giunse il Martello a crear caratteri”, riconoscendogli per altro il merito di aver portato in scena situazioni “naturali”. Fu un progresso verso un realismo che, se faceva scadere la tragedia verso l’atmosfera mediocre della comicità, la liberava però dall’arbitrio, dall’inverosimile: sono esclusi gli intrighi ed i colpi di scena (peripezia imprevedibile, perchè altamente improbabile)
Concludiamo con le debite notazioni sul “verso martelliano”, cui egli ha dato il suo nome, perchè fu il poeta che più lo usò e inculcò. Inutilmente. A stento trovò seguaci per la tragedia (C. Gozzi: Marco Polo; e F. Ringhieri: Saul). Per la commedia, si lasciò sedurre il Goldoni, dimostrando, così, la sua poca sensibilità alla versificazione in genere. Il Chiari, lo seguì, perchè quello era il suo modello e bersaglio (imitazione-parodia). Ma poi scomparve dall’orizzonte della poesia italiana. D’altronde lo stesso Martello si servì dell’endecasillabo nell’Elena, nel Perseo, nella Morte di Nerone; e nella commedia il Femia sentenziato: con quest’ultima opera, egli fu di stimolo al Parini, che se ne confessa debitore per l’uso nel “Giorno”.
Il verso martelliano è un doppio settenario, un verso di quattordici sillabe che copia l’alessandrino francese, rendendolo però “piano” (in francese le sillabe sono sempre tredici, perchè metricamente tutte le parole sono tronche). Ma esso risulta troppo lungo e prolisso, cioè troppo vicino alla prosa: la fantasia umana probabilmente non riesce a percepire, come un’unità musicalmente significativa, un complesso verbale che superi una certa quantità di sillabe e di ictus. Manzoni, nel primo coro dell’Adelchi si illuse di introdurre il dodecasillabo: in realtà il tentativo riuscì a poesia, unicamente perchè (inconsapevolmente?) egli scrisse dei doppi senari, perfettaemnte separati nel ritmo e legati solo dalla continuità tipografica del rigo. Probabilmente il verso martelliano è una delle ragioni, per cui manca nerbo e solennità, dignità ed elevatezza alle tragedie di J. Martello, assieme a quel cercare un suo realismo ed una sua naturalezza, che sono certo il vero carattere della “classicità”, a patto che il “realismo” non significhi banalità e che la “naturalezza” non si abbassi alla confidenzialità. Egli, rifiuta le “unità” scenica e cronologica, volendo avvicinare la recitazione il più possibile alla parlata naturale. Così, rifiutando come sofistiche le regole pseudoaristoteliche, egli cadeva nella arbitraria illusione che la tragedia possa costruirsi senza ingredienti straordinari e comuqnue fuori della norma: la tragedia, se è eccezionale forma di sofferenza sino alla morte, come contiene nella trama vicende fuori della banalità quotidiana, così deve incarnarle in personaggi di carattere adeguato, cioè tetragoni e combattivi; ed esprimerle in parole gravi, solenni, tremende. Sarà quello che riuscirà spontaneamente ad Alfieri, ma che era inconcepibile alla struttura mentale, alla dotazione cromosomica di un J. Martello, di uno S. Maffei.
VINCENZO GRAVINA. Nacque a Reggiano (Cosenza) nel 1664 e morì a Roma nel 1718.
Lo conosciamo già come teorico di poesia (1692: Discorso sopra l’Endimione del Guidi; 1708: Della ragion poetica); come fondatore dell’Arcadia, di cui scrisse le leggi nello stile sobrio e solenne delle XII Tavole romane; e infine, come protettore e maestro del Metastasio. Egli era, però, giurisperito di professione e insegnò alla Sapienza di Roma diritto civile e canonico. Fu strenuo antigesuita. Scrisse opere nella materia da lui insegnata (1713: Origines iuris civilis; 1715: De romano imperio), attraverso le quali influì sul Vico. Carattere forte, difficile e risentito, non ebbe fortuna immediata con le sue idee ed atteggiamenti (si autoescluse dall’Arcadia del Crescimbeni, fondando l’effimera Accademia dei Quirini) e fu riscoperto nel tardo Millesettecento dal Cesarotti, dal Conti e dal Foscolo, che apprezzarono le sue idee estetiche. Queste, frutto del grande carnevale barocco, portavano però in sè germi che il Romanticismo avrebbe sviluppato: rifiutare le regole soffocanti e le pedanterie retoriche del classicismo per proclamare la inventività, imprevedibilità ed originalità della poesia. Dimostrò anche di possedere un innato gusto critico, come dimostrò col presagire il genio metastasiano, col celebrare Omero e Dante in tempo in cui tali poeti erano sospetti e giudicati duri od astrusi. Stimò anche l’Ariosto.
Qui, egli ci interessa ovviamente come scrittore di tragedie, il genere letterario supremo, cui egli sperava di indirizzare il diverso genio di Pietro Trapassi. Ma troppo più prepotente era in lui la inclinazione al filosofare che non alla poesia: troppa poca “musica in parole” si diffonde dalla sua puntigliosa attività di trageda! Approfittando delle sue vaste conoscenze storiche e giuridiche del mondo classico, scrisse, dunque, Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano. Fedele ai modelli greco-romani e cinquecenteschi, il suo classicismo in atto è impregnato da quell’intellettualismo che le sue dottrine estetiche avrebbero per sè dovuto scoraggiare. Egli si fa un merito, nel prologo alle cinque tragedie (edite nel 1712), di averle composte in soli tre mesi: eppure chiarezza di impostazione, fedeltà ai dati storici, presentimenti alfieriani per questioni politiche portate in scena, analisi psicologiche notevoli non bastano a renderle artisticamente significative. La sua brama di dotare l’Italia di opere all’altezza della invidiata Francia risulta in un fallimento. Difetta al Gravina il senso della modulazione espressiva e la vivacità dell’azione scenica nelle opere pur pensate organicamente , con caratteri coerenti, con sviluppo logico, con catastrofe storicamente vera o psicologicamente verosmile. Gli manca “quel certo non so che”, che affascina popolo e dotti, che rende vivi i personggi, che coinvolge nella vicenda: manca una partecipazione emozionale alla vicenda, che è ben posseduta col cervello ma non rivissuta nel cuore. E allora la sala rimane vuota; anzi, non si trova la compagnia che voglia recitarle nè il regista che voglia portarle sul palcoscenico.[25]
SCIPIONE MAFFEI (Verona, 1675-1755). Uomo dalle molte anime, il Maffei non fu solo letterato, erudito e storico, critico e moralista. Da giovane combattè dalla parte dei Bavaresi (alleati dei Borboni, nella guerra di successione spagnola) contro l’Austria: il fratello Alessandro era generale per i Wittelsbach di Monaco. Dimorò tre anni a Parigi, in Provenza, in Inghilterra. Gli si deve riconoscere il merito di essere stato, con L. A. Muratori, l’autore che più ha contribuito a introdurre la cultura italiana nella mentalità critica moderna, frutto positivo del razionalismo illuministico. Egli combatte pregiudizi (sui diritti nativi della nobiltà) e superstizioni (la magia) e studia direttamente i codici medioevali, utilizzando acutamente la filologia per la loro interpretazione e immettendovi un senso socio-culturale con cui far parlare i monumenti e poter sfruttare a fondo la testimonianza degli scrittori. E, in armonia con questa intelligenza nel leggere la storia, egli avanza anche proposte per la vita politica del tempo. Scrive così Della scienza chiamata cavalleresca (1710), De fabula equestris ordinis Constantiniani[26] (1717), Arte magica dileguata (1749) e Arte magica annichilata (1754): tutti libri che avrebbero potuto rimediare a qualche fisima dello sprovveduto don Ferrante. Nell’Italia diplomatica (1727), egli legge con senso storico così penetrante i documenti, che può dedurne valutazioni in favore della fede cattolica ed a critica del giansenismo (Istoria teologica: 1734-1752). E bisogna dire che anche l’opera apparentemente solo erudita “Verona illustrata” (1732: la sua opera più importante, in sede di storiografia), in realtà rivela aspetti socio-culturali che sorprendono per le cause ritrovate di usi e costumi, per i legami scoperti fra citta e contado. Un’opera parallela è quella intitolata “Galliae antiquitates” (Antichità della Francia: 1732-3), che prevengono di dieci anni le Antiquitates italicae Medii Aevi, del Muratori. Invece il Consiglio politico presentato al governo veneto (1738) auspica un governo costituzionale di tipo inglese.
Benchè il valore dell’opera strettamente letteraria del Maffei sia inferiore a quella storico-filologico, tuttavia non è da sottovalutare il suo contributo alla repubblica d’Apollo in terra ausonia. Si è già letto il suo nome come cofondatore del “Giornale de’ letterati d’Italia”, assieme ad Apostolo Zeno ed ad Antonio Vallisnieri (1710). Continuò poi tale lavoro con le “Osservazioni letterarie”, che occupano sei volumi. Inoltre la sua tragedia Merope, come non manca di un suo valore poetico, così interessa per aver introdotto alcune modalità di fondo nell’opera tragica italiana, agendo da mediatore fra il modello greco e quello francese. Meno significative il dramma per musica (La fida ninfa) e le sue due commedie (Le cerimonie| Il raguet): queste ultime si leggono ancora con qualche accenno di sorriso, ma esercitarono una critica sociale, benevola ma azzeccata, su usi e costumi del tempo. Delle Rime, piacciono ancora le Canzonette a tavola: bella specialmente la prima, che equivoca tra eserciti e vini in contesa. Tradusse anche i primi quattro canti dell’Iliade.
Ma veniamo alla Merope.[27] Più che una tragedia è un dramma a lieto fine: che muoiono sono i malvagi, mentre i buoni trionfano, pur tra peripezie paurose (o che dovrebbero esserlo, almeno). Eppure, non è una commedia, ma una specie di dramma pastorale: l’atmosfera prevalente è infatti arcadica, specie ad opera del servitore Polidoro, che migliora in senso cristiano le caratteristiche del vecchio nella classica prospettiva di Orazio. Non “difficilis” (difficile da accontentare), ma “mellifluus” (dolce, tenero, mellifluo); non “querulus” nel senso di “lamentoso”, ma di “chiaccherone” (“laudator temporis acti” (lodatore del tempo antico, quando lui era giovane...) può rimanere).[28] E’ lui che fermerà la mano della madre che, per la seconda volta, tenta di sopprimere il creduto assassino del proprio figlio: questi è invece lo stesso figlio che, sotto falso nome e inconsapevole di esserlo, è venuto a far vendetta della morte del padre. E vi riesce, uccidendo, nel tempio, Polifonte, il tiranno usurpatore che pretende anche in sposa la vedova dell’assassinato Cresfonte. Il dramma è, quindi, a lieto fine, con il figlio (Cresfonte di nome, come il padre) che proclama di essere più contento per la ritrovata madre che per il ricuperato regno. La ambientazione nella reggia (emblema di grandiosità degna della tragedia classica) è temperata dalla semplicità di Polidoro, che vi sostiene la parte di un vero pastore, abituato come è ormai da quindici anni a vivere l’aurea esistenza della campagna (vi è stato inviato da Merope, che salva così l’ultimo dei tre figli, creduto morto nella carneficina seguita all’assassinio del marito). L’uccisione finale è narrata da Ismene, dama di Merope (questa, degna di Penelope, ha messo come condizione a divenir sposa dell’usurpatore, l’attesa di quindici anni, salvando così la vita e permettendo al figlio di crescere per la vendetta). D’altronde anche Cresfonte-figlio compare in scena vestito di pelle, con la clava in mano, che sono il trofeo del ladrone ucciso durante il viaggio di ritorno. La commozione (patetica) domina sul terrore, tanto che Alfieri, nel leggerla, si sentirà spinto a contrapporle una vibrante tragedia di passioni esacerbate, senza alcuna digressione sentimentale, come invece capita nell’opera maffeiana. Ma proprio questo compromesso fra tragedia e melodramma fece la fortuna dell’opera, che, rappresentata a Modena la prima volta nel 1713, ebbe più di cinquanta edizioni, con imitazioni senza numero in Italia ed all’estero. A sua volta, però, pare aver subito l’influsso del melodramam dallo stesso titolo, composto da Apostolo Zeno un anno prima (1712).
Abbiam detto del doppio valore –assoluto, come fatto d’arte; relativo, come innovatore nella tecnica tragica italiana- della Merope del Maffei.
Ora segnaliamo i brani liricamente migliori, ricordando che si limitano al patetico, alla commozione sofisticata): la scena seconda del secondo atto e le scene prima e quinta del terzo.
Tecnicamente, l’opera è importante perchè introduce la mediazione fra schema greco e schema francese: molti dei suoi caratteri rimarranno nella tradizione del Settecento italiano. Vengono, dunque, aboliti i cori, mantenuti i soliloqui, adottato vittoriosamente l’endecasillabo sciolto senza commistioni di settenari, resa più severa la trama con la riduzione degli elementi lirici o cantabili. Saranno elementi che con Vittorio Alfieri avranno una conferma autorevole.
Rimangono, però, residui arcadici e persino secentisti: restano nel patetismo di alcuni personaggi e nei giochetti di parole, concettini, fiori di retorica sparsi qua e là: si legga il diverbio fra Adrasto e Ismene (IV, 1); gli scambietti fra Egisto e Polidoro (V, 1); e i monosillabi di IV, 7.
Per la senteziosità “oraziana”, si vedano i due giudizi di Polidoro sulla vecchiezza, così umani, ma così poco intonati con lo spirito tragico: “Ma il tempo non perdona” (IV, 7); e “Non tutti i mali| vecchiezza ha seco, chè restando in calma| da le procelle degli affetti il core,| se gli occhi foschi son, chiara è la mente| e, se vacilla il piè, fermo è il consiglio” (ib).
IL TEATRO COMICO
Ben più numerose le commedie, fruizione più lieta e pascolo più ambito dalla gente, dotta ed indotta alla pari: poca però la messe di poesia, prima del Goldoni.
Delle due commedie del Maffei si è detto quasi tutto, quando si sono definite come tentativo di critica sociale. Le cerimonie contrappongono e mettono in burletta il galateo spagnolesco (che si impunta sul diritto di precedenza) e quello francesizzante, che preferisce cederlo. La trovata più comica è il mettere in scena una situazione in cui due gentiluomini della nuova era rischiano il duello per voler concedere la precedenza ad ogni costo, mentre un terzo, ad evitare un tale rischio, entra dalla finestra nel palazzo dove è invitato, attraverso una scala a pioli!. Il Raguet è la canzonatura della moda, imperversante fra le persone istruite, di parlare ad ogni costo la lingua dei nuovi vincitori, il francese, lingua che hanno studiato troppo poco. Ecco allora l’allegro uso delle radici di parole italiane accomodate con desinenze francesi, con effetti ridicoli: è il raguet, appunto. Ma attenzione alle conseguenze sociali: se si annuncia l’arrivo di un pretendente alla mano di una fanciulla, dandone come uno dei segni di riconoscimento l’uso di tale linguaggio, può capitare (pressappoco come nell’Ispettore di Nicola Gogol), che un furbo matricolato approfitti del temuto arrivo per intascare vantaggi, come se fosse lui l’atteso. Qui l’arrivo è desiderato e gli effetti molto meno gravi che in Gogol, ma la potenzialità per situazioni divertenti ci sono tutte, anche se poveramente sfruttate.
Giovanni Battista Fagiuoli (Firenze, 1660-1742) fu scrittore bernesco (Rime piacevoli Fagiuolaia| Capitoli) e autore di 19 commedie, di alcune delle quali diede anche una redazione in versi. Qualche titolo: L’avaro punito| Il marito alla moda| Il cicisbeo sconsolato| Amore e fortuna... Stimato dal Crescimbeni, fu scritto all’Arcadia col nome di Sargonte. Sentì l’influsso del Moliére e tentò, quindi, la commedia di carattere (l’avaro Anselmo Taccagni, il cicisbeo Vanesio, il contadino avveduto e rozzo- Ciapo-, il vecchio innamorato... ). Ma dipinse con qualche efficacia anche la semplicità dei costumi contadini (Un vero amore non cura interesse), facendo un uso ghiotto della parlata toscana nelle figure di gente del contado.
Fu il commediografo più applaudito dei suoi tempi ed ha il merito di aver superato la commedia dell’arte, abolendo le maschere, scrivendo tutto il testo delle opere, purificando la lingua da ogni barocchismo e dalle scurrilità ed oscenità frequenti nella commedia improvvisa. Ma gli mancava il genio per scrivere commedie artistiche. La sua prolissità (Baretti si sbrigò di lui col nominarlo “principe dei seccatori”) è il segno della carenza di quel potere di sintesi, che concentra in una battuta la satira o l’unorismo, lo scherzo o l’ironia. Egli è troppo analitico: i dialoghi e le diatribe si prolungano in particolari convergenti, col risultato di rendere maniacale l’elemento sproporzionato di un “carattere o personaggio”, senza riuscire a farne scoppiare nè comicità nè sdegno morale. Egli ha operato nel senso della riforma tecnica, ma non nel senso della creazione artistica. Tanto più che egli non è riuscito neppure a togliere la inverosimiglianza di peripezie romanzesche e gratuite. Quel tanto di comico che si può, con molta buona volontà, ritrovare nelle sue commedie, dipende ancora troppo da battute isolate o da situazioni stravaganti, legate al contesto sociale, venuto meno il quale anche l’interesse per il suo teatro è tramontato.
Interessanti, invece, a documentare i tempi, i suoi Memorie e ricordi, scritti oltre tutto con brio e vivacità fiorentina.
Iacopo Angelo Nelli (Siena, 1673-1767) fu abate, sacerdote e pastore arcade, al servizio di famiglie nobiliari (gli Strozzi, ad esempio) in Roma ed in Firenze; e fu anche antigesuita. Le sue commedie prevengono la riforma goldoniana per la moralità del testo, la correttezza della lingua (anzi, più ricca che nel collega veneziano), il tentativo di ricostruire caratteri ed ambienti coerenti (realismo). Manca però anche in lui, il colpo d’ala poetico, il senso di comicità –umoristico o satirirco, ironico o farsesco- irresistibile. Egli rimane uno degli anelli (e forse il maggiore) di congiunzione fra l’antico ed il moderno, fra Commedia dell’arte e teatro del Goldoni: certe scene corali fanno pensare al genio del veneziano. Ad esempio “La famiglia dell’antiquario” del drammaturgo veneziano fu dapprima intitolata “La suocera e la nuora”, come una del Nelli: anche il tema “serva-padrona” fu ripreso e variato dal Goldoni infinite volte.
Fra le commedie più note del Nelli vi sono appunto La serva padrona, La suocera e la nuora, Le serve al forno, La moglie in calzoni, Il tormentator di se stesso... Egli ne produsse moltissime, pur stampandone solo 15, in 5 volumi (fra il 1731 ed il 1758). Moltissimi caratteri e situazioni sono esemplati su modelli francesi (Molière e La Fontaine). Pure, Il Faccendone (l’uomo intento infantilmente a far piacere agli amici, sino a diventare insopportabile), La Serva padrona e l’Amante per disprezzo sono caratteri originali che si muovono in situazioni nuove, così come molte parti di altre opere. Incerto rimase pure lui fra commedia di intreccio (derivante dalla Commedia dell’arte) e commedia di carattere (suggerita dai modelli francesi). Sarà Goldoni a fondere, dapprima, in sintesi poetica entrambe le prospettive e ad assurgere, poi, ad opere impostate sostanzialmente sul “tipo” umano che si pone al centro della comicità, perchè è la sua condotta che crea le sitazioni sproporzionate.
Girolamo Gigli (1660-1722) fu uno di qui senesi che, se non ci fossero quei due giganti della santità e della letteratura che hanno nome Caterina e Bernardino, farebbero ritenere giustificato il sarcasmo di Dante nei loro confronti. Rimandiamo in nota alcuni dati sulla vita e sulle opere, limtandoci a dire una parola sulle due commedie principali, Don Pilone, ovvero il bacchettone falso (1707) e La sorellina di don Pilone, ovvero l’avarizia più onorata nella serva che nella padrona (1712 .[29]). In queste commedie il Gigli raggiunge il suo intento di satireggiare i falsi devoti , ma senza attingere momenti di convincente comicità: le due vicende sono immeschinite dalla volontà polemica (contro il clero, in “Don Pilone”; contro i difetti della propria moglie, ne “La sorellina” ), sicchè mantengono componenti pratico-passionali (animosità, ira, quasi una volontà di vendetta).
In Don Pilone, egli imita “Le tartuffe” , di Molière, ma con un occchio anche a fra Timoteo della “Mandragola” ed a “L’ipocrito” di P. Aretino. Originale è “La sorellina di don Pilone”, ma rispecchia da vicino la situazione della famiglia al suo rientro da Roma (dove egli finirà per ritornare per disperazione e morirvi nel 1722); ed è sovraccarica di elementi secentisti (travestimenti e riconoscimenti, cambi di scena troppo frequenti, canti e danze...)
Ma, originale od imitata, la materia nelle mani del Gigli viene avvilita da estremismi volgari e da atteggiamenti grossolani: il “Tartufo” di Molière, essendo un laico ricercato dalla giustizia, è più verosimile che si riveli un falso devoto ed un gaglioffo a caccia di ricchezze altrui: Nel Millesettecento, con tanti abati in circolazione, era possibile anche un don Pilone, ma oggi una tale figura riesce a convincere molto meno. E l’aver messo in scena gli affari di famiglia nella “Sorellina” è segno della mancanza di criterio, fino all’autolesionismo (si ripete la situazione: don Pilogio ha un influsso tale sulla sbalordita Egidia, che a stento il marito, Geronio, riesce a salvare dalle sue cupide mani, la cassa di famiglia). Se si vuole avere un indizio delle virtù e dei limiti della “musa” del Gigli, si prendano i nomi che egli inventa per i suoi personaggi. Don “Pilone” è accrescimento della “pila” dell’acqua santa; don “Pilogio” si riconnette a “piluccare”; Geronio è il vecchio (dal greco). Ma si ripete il caso di Matteo Maria Boiardo: puntiglio intellettuale per inventare nomi comunque accennanti a caratteristiche dei personaggi, ma insufficiente fantasia per trovarne una concretizzazione piacevole, oltre che significativa. Non per nulla, quando si vuol riferisi ad un prete intrallazzato con macchinazioni subdole, si pensa anche in Italia al don Basilio della commedia “Il barbiere di Siviglia”di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, non al don Pilone del Gigli.
Sia “Don Pilone” che “La sorellina” ebbero successo non comune: Carlo Goldoni ricorda nelle sue “Memorie” di aver recitato da ragazzo una parte nella “Sorellina”, commedia che gli piaceva.
Nel complesso condividiamo il giudizio del Baretti che lo giudicava un “triste poetastro”,[30] e, almeno per il teatro, non riusciamo ad acconsentire con Giulio Natali, che giudica degna di ammirazione “la festività e causticità del suo ingegno, l’originalità e sveltezza del suo scrivere, la sua versatilità”.
Pietro Chiari (Brescia, 1711-1785). Fu un gesuita, uscito dalal Compagnia nel 1747 e portatosi a Venezia, dove visse scrivendo per il teatro e no. Era stato professore di eloquenza a Modena e la cattedra gli si addiceva, almeno al prender atto delle opere stampate: poligrafo, ebbe facilità, celerità e inverosimiglianza nell’immaginare, come banalità nella espressione. Scriveva per sfogare i propri sentimenti pratici, [31]senza riuscire a tradurli in emozioni, cioè a sublimarli in stati d’animo universali. Scrisse “de omnibus rebus et de quibusdam aliis”[32], producendo qualcosa come 240 opere a stampa! Oggi lo si ricorda più che altro per il suo antagonismo col Goldoni, che fece epoca a Venezia nei quindici anni che vi rimase a lavorare: si costituirono addirittura due partiti, dei “chiaristi” e dei “goldonisti” e, almeno nel carnevale 1754, vincitore fu il Chiari, che andò calando però in seguito. Ma dovette intervenire l’autorità per calmare gli animi, perchè quell’anno l’antagonismo aveva rischiato di mettere a subbuglio la città. Parte del successo derivava dal suo adulare gli attori comici ed ingraziarsi la clientela con elogi ad ogni costo. Egli di solito rispondeva alle opere del Goldoni con imitazioni-caricature che piacevano al “rispettabile pubblico”, ma erano effimere come la più parte delle vignette dei giornali o la satira sociale dell’avanspettacolo. Così alla “Vedova scaltra” rispose con La scuola delle vedove (1749); alla “Sposa persiana” , con “La schiava cinese”(1753); al filosofo inglese, con “Il filosofo veneziano”(id.). Nel “Molière marito geloso” egli usa anche il verso martelliano, impiegato prima dal Goldoni per il suo “Molière”. Anche il Goldoni mise in burletta il Chiari nei Malcontenti una commedia però complessivamente infelice, in cui solo il personaggio di “Crisologo” (“parola d’oro”), controfigura del Chiari, si salva. Ma ecco che, nel 1761, i due antagonisti si riconciliarono: dovevano far fronte ad un comune concorrente, loro critico e satireggiatore, Carlo Gozzi. Questi nel poema “Marfisa bizzarra”, si burla di loro, adombrati chiaramente sotto i nomi di Matteo e Marco del Pian San Michele. Siamo nel 1761: l’anno dopo, Carlo Gozzi metteva in scena “L’amore delle tre melarance”, la sua prima fiaba, che metteva in pericolo il primato di entrambi presso il pubblico veneziano. Nel 1761, il Chiari subentrava a Gasparo Gozzi nella direzione della “Gazzetta veneta” e poi rientrava a Brescia. L’anno dopo, Goldoni partiva per Parigi e fino al 1765 sulle scene trionfava il Gozzi con le altre sue fiabe.
Ma il Chiari continuava a lavorare, indefesso e improvvisatore, sfacciato scopiazzatore di opere straniere, o raffazzonatore da vari autori, facile e non infelice nelle trame e nella organizzazione del materiale, cascante e deludente nella concreta espressione linguistica.
E come componeva imitando o scopiazzando, dipendendo cioè da altri, così il suo pensiero era al seguito del vincitore del momento: si aggiornò naturalmente alle idee illuministiche, credendo nel contratto sociale, considerando ilmatrimonio una schiavitù, auspicando l’emancipazione della donna e adulando sfacciatamente il popolo, perchè egli aveva intuito in anticipo che “il cliente ha sempre ragione”. Era il suo padrone, perchè gli dava da vivere riempendo le sale di teatro e comperando i suoi romanzi.
Tentiamo qui una cronolgia delle sue opere principali, elencando ulteriori commedie e commentando la produzione sterminata di romanzi.
1749-52: Lettere scelte di varie materie, piacevoli, critiche ed erudite ad una dama di qualità.
1749-53: scrive commedie in prosa, per maschere, al teatro San Samuele, per la compagnia Imer-Casali.
1753-62: passato al Medebac, scrive opere in versi e senza più le maschere, seguendo puntualmente il Goldoni.
1761-2: subentra a Gasparo Gozzi nella direzione della “Gazzetta veneta”.
1762: scrive Il secolo corrente (dialoghi di una dama e di un cavaliere).
1780: scrive il Trattenimento dello spirito umano sopra le cose del mondo passato presente e possibile ad avvenire.
La produzione maggiore riguardò le commedie ed i romanzi. Delle prime, alcune le abbiamo già citate in riferimento alla concorrenza con Goldoni. Eccone un elenco meno incompleto.
In prosa, con maschere, al teatro San Samuele: L’avventuriero alla moda (1749), La scuola delle vedove (id.), Marianna, o sia l’orfana (1750), L’orfano perseguitato, ramingo, riconosciuto (imitato da Henry Fiedling: Tom Jones).
In versi martelliani, al teatro S. Angelo (ivi, il Chiari succede nell’autunno 1753 al Goldoni, passato al San Luca): Il Molière, marito geloso (1753), La schiava cinese (id.)[33], Il filosofo veneziano (1754), Le sorelle cinesi (id.), La vendetta amorosa (1755), L’inganno amoroso (1756), Plauto (1755:caduto a Milano, così come “I Malcontenti” di Goldoni caddero a Verona), Diogene (1755: dopo il “Terenzio” di Goldoni), Koulik-Kan, re di Persia (1759)[34], La madre tradita (tragedia popolare: 1759), Tetralogia troiana (1760, al S. G. Crisostomo, sempre col Medebac: vi sono coinvolti Venere, La Sibilla, Caronte, Vulcano e i ciclopi).
Di romanzi ne scrisse una quarantina. Fu il più fecondo ed il più letto romanziere nella Italia del secolo. Sempre raffazzonando, traducendo, scopiazzando impudentemente, egli ha il merito di aver ridato voga al romanzo, che da mezzo secolo era caduto in oblio, come prodotto barocco di un’epoca ormai detestata. Citiamo i titoli più...citati: La filosofessa italiana (1753), La ballerina onorata (1754), La commediante fortunata (1755: il signor Vanesio impersona il Casanova), La giocatrice al lotto (1757: uno dei romanzi più letti), La bella pellegrina (1759), La francese in Italia (id.), L’uomo d’un altro mondo (1760), La veneziana di spirito (1762), La donna che non si trova (1768: imita la Nouvelle Eloise), La cinese in Europa (1779). Oggi ci risultano insopportabilmente noiosi, nonostante qualche concessione all’erotismo.
Carlo Gozzi (1720-1806).
Veneziano, minor fratello di Gaspare, di famiglia nobile ma dissestata economicamente, tentò in Dalmazia la carriera militare dal 1741 al 1744 e, tornato, fondò la Accademia conservatrice dei Granelleschi, combattendo non soltanto le innovazioni linguistiche (infranciosamento della lingua), ma anche le novità razionalistiche tutte e difendendo la religione, il pudore femminile, l’amor patrio e l’eroismo, la classicità. Valori sacrosanti, che egli però difendeva con una personalità bizzarra: come si rifiutò sempre, per residuo orgoglio di classe, di ricavare guadagni dalla sua attività letteraria, così la lingua per lui era quella dei cruscanti, ferma al Milletrecento e Millecinquecento. Che se la rivoluzione francese gli diede sostanzialmente ragione nella sua condanna delle “novità”, non era però neppure equilibrato vedere solo gli aspetti negativi della nuova cultura. Questa battaglia contro il lusso eccessivo (villeggiature), la emancipazione femminile, la decadenza della morale e la perdita della fede, egli la combattè dagli spalti del suo poema eroicomico Marfisa bizzarra (di cui parleremo a parte) e nei ricordi autobiografici che intitolò Memorie inutili (1797-8). Da queste ultime si ricavano però dati troppo accentrati sulla propria vita (e della famiglia paterna), mentre la società è relegata sullo sfondo. La sua avversione al Goldoni fu troppo affrettata e sconsiderata: anche in questo caso, egli incideva su un paio di difetti autentici: la povertà linguistica del commediografo compaesano e la presenza, fra le commedie, di qualche aborto infelice e di molte mediocrità, dovuti alla fretta con cui quegli doveva comporre ed al conseguente numero eccessivo di commedie messe in scena. Ma dimenticava gli autentici capolavori che nascevano da questo turbine di lavoro, da queste condizioni scoraggianti di scrittura. L’averlo accomunato all’ingegnoso ma sterile Chiari, rivela, di nuovo, una mente acuta, ma non profonda, dotata di senso critico insufficiente. Nella Tartana degli influssi per l’anno bisestile 1756, (almanacco nello stile Burchiello e del Pulci,edito nel 1757) chiamò i due commediografi “geni dell’incoltura” e nella “Marfisa” abbiamo già visto che li satirizza assieme nelle figure di Matteo e Marco dal Pian di San Michele. Solo dopo l’uscita del “Bourru bienfaisant”, egli si inchinò al capolavoro: l’unico, a suo parere, scritto dal Goldoni! L’impatto della personalità e degli scritti del Gozzi sulla pubblica opinione si rivelano dal riaccostamento fra loro di Goldoni e Chiari, per difendersi dal comune critico ed osteggiatore: il Goldoni si umiliò ad elogiare oltre ogni merito il Chiari, pur di difendersi dalle critiche del Gozzi!
Il tempo delle dieci Fiabe (1761-5) fu quello del suo maggior prestigio: furono rappresentate dalla compagnia di Antonio Sacchi (“Truffaldino”). Le mise in scena, per confutare la difesa a cui i due commediografi si rifacevano: il successo presso il pubblico. Egli volle dimostrare a quei signori che per attrarre il pubblico bastavano le favole per bambini. Scrisse, in seguito, altri 23 lavori teatrali , opere di scarsa importanza. Nel 1782 la compagnia Sacchi si sciolse ed egli visse ipocondriaco e occupato nel commercio, per avere da mangiare. Anni penosi, che furono aggravati fino allo strazio per gli avvenimenti del 1797 che condussero alla occupazione di Venezia da parte di Napoleone, cioè del portainsegna di quel prgresso che, divenuto violenza, egli aveva combattuto (saggiamente, nei suoi aspetti morali e religiosi; troppo indiscriminatamente, nei suoi parametri socio-politici).
Ma veniamo adesso alle due opere letterariamente più significative.
La Marfisa bizzarra fu scritta in buona parte nel 1761 e rifinita nel 1768 (gli ultimi due canti): pubblicata nel 1772, non ebbe altre edizioni prima del 1911! Si tratta di dodici canti in ottave, secondo lo schema metrico classico per i poemi cavallereschi, dai quali discende, ma con un viraggio differente: non è l’ultimo poema del genere, ma la loro negazione, nella satira o nella caricatura umorale. Non si tratta infatti propriamente di poema cavalleresco (ad esempio, Malagigi, convocato a rimediare con la magia alle situazioni fallimentari dell’impero, nega sia più il tempo di simili sotilegi: la magia è morta), ma allegorico, satirico od umoristico (secondo il mutevole stato d’animo dell’autore, ora divertito, ora esacerbato dall’andazzo delle cose). Lui stesso vi appose delle note per far comprendere le molte allusioni e gli scopi per cui l’aveva scritta, scopi che trovavano, pur nella inferiorità di stile ed arte, un parallelo in quelli del Giorno pariniano. Per sè il poema del Gozzi precede, nei primi dieci canti, il “Giorno”, ma la Prefazione fu scritta a lavoro finito: è così che il veneziano può tessere un elogio eloquentissimo delle prime due parti dell’opera pariniana. Entrambi polemizzano contro quel secolo, che Parini chiamerà “spietato” nell’ode “A Silvia”. Carlo Magno ed i suoi paladini, infatti, sono coinvolti nella corruzione... del secolo XVIII! La pace, l’ozio e i libri alla moda han travolto tutti, eccetto Orlando, che inutilmente se ne lamenta con l’imperatore. Chi fa l’usuraio (Namo di Baviera), che si è dato al vino (Rinaldo), chi fa il cicisbeo (Astolfo); Gano di Maganza, sempre traditore, ora si è dato a barare nel gioco della bassetta e del faraone e a novant’anni, sarà divenuto così falso che, come ser Ciappelletto, muore in odore di santità. Marfisa, già imprevedibile nelle armi, ora è bizzarra anche nell’amore e, ai ferri corti colla cognata Bradamante, si lascia inebetire dal guascone Filinoro, che diventa il suo amante-cavalier servente, mentre lei accetta di sposare Terigi, gabelliere arricchitosi disonestamente. La cosa divien così scandalosa, che Marfisa vien fatta rinchiudere in convento; ma ne fugge, secondo il modo insegnato nella “Filosofessa italiana”, dal Chiari! Ammalatasi, dopo altri tentativi di attirasi amanti con belletti e comportamento bizzarro, si rassegna a divenire una pinzochera. Quando, alla fine del poema, Marsilio dalla Spagna minaccia guerra a Carlo Magno, il Gozzi passa in rassegna gli uomini dell’impero per costatare che solo Orlando ha l’antico spirito ed è preparato: il resto è uno sfacelo tale, che può presagire la prossima, ingloriosa fine della repubblica veneta.
Questa la trama: ma quale è il valore poetico? Non è gran che. La radice ultima della insufficienza complessiva sta nella personalità del Gozzi, che non ha bastante carica emotiva per tradurla con musica in parole. Tale insufficienza, assume forme espressive sintomatiche: per cominciare, l’autore non supera l’incertezza fra l’atteggiamento simpatetico, caricaturale-umoristico (sulla scia del Pulci e del Berni) e quello ostile, ironico-satirico (alla maniera del Parini). Si verifica, cioè, una sovrapposizione elidente, una dissolvenza incrociata. Il risultato è una caricatura spesso grossolana e ridanciana, che cade anche nella volgarità. E, ancora, permane (come nella prosa delle “Memorie inutili”) quell’alternarsi di rare espressioni vive, azzeccate con la norma di un linguaggio piatto ed insignificante; di invenzioni felici nella ideazione (caratteri, azioni, relazioni dei vari personaggi), ma scadenti nella versificazione. Per le eccezionali aperture poeticamente valide, anzitutto citiamo col Natali le due strofe 84-85, di un passo elegiaco-patetico che occupa, nel c. VI, tutte le strofe 77-93: “Angelin di Bellanda, la mattina| del cimento fatal,[35] per tempo assai| con la sua famigliuola sì meschina| er’ito a certi frati pien di guai,| in una chiesa fuor di via, piccina,| dove le genti non andavan mai,| perch’era ignuda e sull’altar maggiore| due candeluzze sol facean splendore.|| Organi non ci sono: oro o ricchezze| non si vedea, ma le pareti bianche;| tenuto il pavimento con nettezza,| e gli altari e le lampade e le panche:| ed un silenzio, una certa grandezza| splende, che si può dir che nulla manche| a compunger il core e capir tosto| che il puro Agnel divino è qui riposto”.
In tono comico (ma da farsa, veh!), ecco la strofa in XI, 129: “Ferraù con un “oh!” d’ammirazione| volle abbracciar l’amico[36] e a mezzo resta.| Marfisa con un “ah!” di soggezione| rimase con la faccia bassa e mesta:| Ipalca con un “uh!” di confusione| si cacciò la baù (t)ta su la[37] testa;| Ruggero con un “eh!” si morse un guanto,| e io con ipsilon termino il canto”. Ed ecco una strofa tra ironia e dramma (di canzonatura e di condanna, dunque) sul declino di Marfisa: “Immagina, lettor, questa signora| già per età presso ai quaranta giunta,| con un fil di febbretta che lavora,| con la tosse, residuo d’una punta,| con la passata vita che la onora,| pallida, pelle e ossa, arsa e consunta,| che con nèi, con belletto e bizzarria| cerca d’aver amanti tuttavia” (XII, 84).[38]
Le fiabe furono scritte a sfida di popolarità col Goldoni e la compagnia Sacchi le mise in scena con sucecsso. Sono dieci: la prima fu L’amore delle tre melarance (15 gennaio 1761): è la caricatura del mago Celio (cioè di Goldoni) e della fata Morgana (cioè del Chiari). Si tratta di questo: il principe Tartaglia (cioè il popolo di Venezia) si ammala di indigestione... di versi martelliani, ma sarà guarito da Truffaldino, cioè dal ritorno della Commedia dell’arte.
Il corvo fu verseggiata in sciolti e rappresentata il 24 ottobre 1761.
Il re Cervo: Angelica scopre in un cervo il re che essa ama (5 gennaio 1762).
Turandot (22 gennaio 1762): una principessa cinese darà la mano solo al pretendente che saprà sciogliere tre enigmi. Calaf li scioglie, ma la principessa è allora contesa fra amore ed orgoglio. Musicata da Puccini e da Ferruccio Busoni (1866-1924).
Dopo questa fiaba, Gozzi resta solo in campo: Goldoni è partito per Parigi; Chiari, per Brescia.
La donna serpente (29 ottobre 1762): una fata, per amore, rinuncia alla immortalità. Ebbe musiche di Wagner e di Alfredo Casella (Torino: 1883-1947).
Zobeide (11 novembre 1763): mette in scena la lotta fra magia, religione ed innocenza.
I pitocchi fortunati (29 novembre 1764): un re si aggira in incognito nei suoi stati, per scoprire la malvagità dei ministri ed i bisogni del popolo.
Il mostro turchino (8 dicembre 1764): è l’insidiatore dell’amore coniugale.
L’augellin belverde (19 gennaio 1765), assieme a Zeim, re dei geni (25 novembre 1765), è una satira al secolo dei lumi. Nell’Augellin, due fratelli poverissimi si arricchiscono studiando i filosofi grazie all’arte magica, ma diventano cattivi, superbi e dissennati.
Gozzi, a parte il momentaneo trionfo sulle scene, trovò più entusiasmo all’estero che nella critica italiana. Goethe e Schiller lo ammirarono; Fr. De Sanctis diede un giudizio equilibrato fra sostenitori e denigratori. Poco, secondo noi, è il valore letterario, che sul palcoscenico doveva essere gonfiato dalla abilità degli attori. Solo in piccola parte riesce la espressione della atmosfera fiabesca, di incanto e di idillio. Si mescolano infatti almeno tre sentimenti originari. Vi è il vagheggiamento idillico di figure e situazioni, emblematiche nel loro significato: eterne, ideali. Vi è la elegia nostalgica, per la coscienza che tale idealità non sussiste più al presente, ma solo nella innocenza e virtù del passato. Vi è infine la ironia per la consapevolezza che –almeno in misura così sublime- tali costumi e persone esistono e sono esistite solo nella fantasia del poeta, nel sogno dell’uomo candido.
POESIA SATIRICA, EROICA, DIDASCALICA.
La riunione dei tre generi letterari della satira, del poema eroico, del poema didascalico in un unico capitoletto non è così forzata come sembrerebbe a prima impressione. Ad esempio, il secolo XVIII fu l’ultima stagione alla fioritura di poemi in ottava (ma anche in sesta) rima, ma la cultura ipercritica della società li sottopose ad un viraggio ora comico-parodistico ora satirico-didascalico. In tal senso abbiamo già preso in considerazione la “Marfisa bizzarra” di Carlo Gozzi: la veste cavalleresca non è più che un pretesto per condannare, attraverso il riso della satira, i costumi contemporanei all’autore; e per insegnare a rifuggirne.
Gasparo Gozzi: veneziano, visse dal 1713 al 1786. E’ inferiore, come artista, al fratello Carlo, anche se i suoi 19 Sermoni ebbero l’onore di fornire spunti al Goldoni per molte commedie e persino al Parini per “Il Giorno”. Anche sulla moda stilistica ebbe incidenza, perchè, usando l’endecasillabo sciolto, ne diffuse la voga, prima del Cesarotti e secondo solo a C. I. Frugoni (1692-1768).
Lui stesso ci ha dato un profilo autobiografico fisico e psicologico, interessante da leggersi. “Statura alta, magro, faccia intagliata, malinconica, grand’occhi traenti al cilestro, al muoversi tardi; e più tradi piedi... Capelli avea neri, or quasi bigi: direbbe alcuno per li soverchi pensieri, egli per gli anni. Leggere, meditare, scrivere furono le sue occupazioni; sentiva in suo cuore ch’era infingardaggine, veniva detto amore di gloria, se ne innamorò tanto più sotto a così onorata maschera. Pizzicò sempre alquanto di poeta, molte cose in ischerzo dettò, non poche alte; in tutto seguì glki antichi, per gareggiare co’ migliori ed esere vinto da genti che non possono più parlare. Per natura volentieri presta altrui orecchi; parla di rado; talora diresti ch’è mutolo, se non ci fossero il sì e il no, voci a lui per la brevità carissime; e per la loro difinitiva sostanza da lui più spesso che tutte l’altre proferite. Per avere molte cose pubblicate, noto divenne ad alcuni: desiderarono di vederlo. La prima volta bastò: il suo silenzio nocque alle stampe. Egli se n’avvide e fu lieto per amore della solitudine. Tutte le voglie ebbe in suo cuore; si lusingò fosse virtù; ma, esaminandosi, trovò che gli morirono in corpo per la picciola fortuna. Ne rise, e si invogliò di vedere quali effetti facciano in diversi animi stimoli a’ suoi somiglianti. Perciò si diede a viaggiare, e sconosciuto vide varie generazioni di genti, e Pellegrino divenne. Nelle città da lui trascorse non misurò campanili, non disegnò architetture di ricchi palagi, non piazze, non vie; sempre ebbe gli occhi attenti a gli abitatori. Stanco d’aggirarsi, si diede a scrivere quello che vide, arrestandosi nella sua patria”.[39]
Della sua vita sarà da ricordare ancora che fu il maggiore in una famiglia con una diecina di figli. La famiglia era nobile e ricca, ma già il padre aveva amministrato con leggerezza ed in perdita. A Gasparo, riuscì di ultimare studi regolari, ma dovette vivere in povertà, coi proventi di letterato, finchè potè; come sovrintendente alle scuole in Padova, dopo il 1774. Ad invischiarlo sempre più nel bisogno fu anche il matrimonio con un’altra letterata, Luisa Bergalli (in Arcadia, Irminda Partenide): con una tale moglie, la sua casa assunse, sempre più, una amministrazione di tipo “pindarico”[40], cioè al di là di ogni realistica disponibilità della borsa. Gli anni più difficili erano stati quelli fra il 1752 ed il 1760, quando egli “dovette pattuire il cervello e farlo operaio degl’ingrati librai” (Sermone al Foscarini). Ma la numerosa famiglia (cinque maschi, oltre le figlie), come fu un peso, così fu anche un aiuto: tutti, compresi i fidanzati, collaborarono all’immane fatica di traduzione di ogni genere di opera greca, latina, moderna... lavorando di seconda mano su traduzioni francesi dall’originale! La letteratura divenne, allora, non un hobby, da trattare secondo la isprazione spontanea, ma seocndo la necessità delle finanze dissestate. Tradusse Plauto, Longo Sofista, Luciano, Molière, Klopstock. Prese in appalto il teatro S. Angelo nel 1747, ma ci perse; fu al servizio di Marco Foscarini come segretario e lo aiutò a preparare la “Storia della letteratura veneziana”. Tentò la stampa di opere proprie Lettere diverse (serie, facete, capricciose, strane e quasi bestiali: 1750 e 1752), Rime piacevoli (1751), Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante ingiustamente attribuita a Virgilio (1758: è l’opera comunemente conosciuta come “La difesa di Dante”, scritta contro la complessiva denigrazione della Commedia, fatta da Saverio Bettinelli nelle “Lettere virgiliane”)[41]. Sistemati tutti i figli, successero tempi più felici quando fu chiamato a stendere la “Gazzetta veneta” (bisettimanale: dal 6. 02. 1760 al 31.01.1761; in tutto 103 numeri). Ma gli sponsorizzatori, commercianti, esigevano più notizie economiche e meno divagazioni di cronaca e letteratura. Dovette, alllora, lasciare il posto al Chiari, mentre egli pubblicava per suo conto l’“Osservatore veneto” (dal 4.02. 1761al 18. 08. 1762: dapprima, bisettimanale; poi, settimanale; in tutto 104 numeri)[42]. Egli aveva affiancato alla “Gazzetta”, nel maggio 1760, una pubblicazione settimanale intitolata “Mondo morale”: si tratta di una specie di romanzo allegorico-didascalico, a puntate, che non gli riuscì, però, di condurre avanti neppure con ordine e trama convincente. Si dice solitamente che proprio nell’attività giornalistica, specie della “Gazzetta”, egli abbia trovato il suo momento espressivo più felice. Si noti che la stesura era effettuata praticamente tutta da lui e dalla moglie. Ne riparleremo. La nomina a “censore delle stampe e sovrintendente all’arte de’ libraj” (1762) ed a consulente della riforma degli studi, dopo la soppressione dei gesuiti (1773), così come l’incarico di direttore scolastico a Padova (1774) furono il segno della stima che si era procurato con i suoi scritti; e furono anche un aiuto economico.
Ma le condizioni di salute declinavano e, durante un accesso febbrile, si buttò nel Bacchiglione, tentando di suicidarsi (1777). Salvato, fu protetto dalla potente famiglia Tron, della quale fu ospite abituale a Padova. Morta la moglie Bergalli, si sposò con la istitutrice di casa Tron, Giovanna Cénet, da cui era stato assistito durante la convalescenza. Negli ultimi anni, pur divenendo sempre più misantropo, potè dedicarsi anche all’orticultura, a godersi la natura e le opere d’arte, dilettandosi ancora di studiare. A Padova morì nel 1786.
Venendo alle sue opere letterariamente significative, dobbiamo prendere in considerazione i Sermoni e gli articoli giornalistici, coinvolgendovi anche le “Lettere”.
I Sermoni furono composti fra il 1742 ed il 1781: sono diciannove, in endecasillabi sciolti; riecheggiano ovviamente Orazio; si possono dividere in tre gruppi.
Primo gruppo: contro il malgusto nella letteratura. Fustiga cattivi poeti e critici presuntuosi o ignoranti. Si noti che, pur avendo aderito alla Accademia dei Granelleschi (del fratello Carlo), egli non si riduce ad un conservatore accanito: ha buon gusto e lo anche oltre la “difesa di Dante” e la stima per le opere del Goldoni.
Secondo gruppo: lettere in sciolti su casi personali (doloranti, per lo più) ad amici e protettori (si è citata una espressione di quello a Marco Foscarini).
Terzo gruppo: fustiga costumi ed abusi, pur nei limiti permessi dalla pignola censura veneziana (che difendeva l’aristocrazia di cui era espressione e, quindi, anche le abitudini discutibili della classe dirigente). Diede in ciò parecchi spunti al Parini (Del passeggiare la sera in piazza| Ritratto degli innamorati moderni: previene la dama e il cavalier servente de Il Giorno)| Contro le mollezze del vivere odierno| Contro la corruzione dei costumi....). Il sermone più riuscito è intitolato Del villeggiare che suggerì la trilogia (ma in realtà, comprendendo “I Malcontenti”, si giunge a cinque commedie) su tale tema, al Goldoni.
Quale è il valore artistico dei Sermoni? Una sufficienza stentata gliela si può concedere: da più di un critico (compreso il Carducci) gli si concede la palma tra i satirici prima del Parini. Ma non sono neppure essi grande poesia; per questo non si troverà facilmente citato qualche verso dai Sermoni di Gasparo. Il registro più felice è quello scherzoso: di fronte al suo mondo, Il Gozzi è meno satirico e più scherzoso che non il Parini; è più dolce ed amichevole dello stesso Goldoni: rischia di diventar complice del malcostume che pure condanna convinto: lo fa per troppo buon cuore.
I motivi ispiratori sono stati enunciati nella tematica dei singoli gruppi: autobiografismo (dolente), letteratura (cattiva), costume (scaduto).
Ci rimane qualche nota stilistica. Fermiamoci sul musicalismo, perchè la lingua è stata studiata ed elogiata da altri. Diremo che le vocali si susseguono in proporzione normale: non costituiscono una sorgente di quella particolare sonorità che pur caratterizza il verso del primogenito dei Gozzi. La strumentazione consonantica è invece accentuata in senso contemplativo, dolce, elegante: ci si accorge che a tale effetto gioca la abnorme presenza di liquide, nasali e fruscianti. Addirittura il verso del Gozzi è più scorrevole e fluido che non quello pariniano! I motivi sono molteplici ma coerenti. “Prima facie” (a prima impressione) sta la presenza, nel Parini, di una musicalità vocalica ben precisa, formata dal binomio “A” ed “O”, che costituiscono una spina dorsale che, se non toglie eleganza, dà grinta e muscolo alla versificazione: al Gozzi manca una struttura portante forte tra le vocali, per cui l’espressione scorre via veloce, snella, carezzevole, vellutata. Alle spalle di questa “fisica della sonorità gozziana”, sta la mentalità ispiratrice, sta la diversa posizione intellettuale che il nobile decaduto di Venezia ed il contadino brianzolo di Bosisio assumono di fronte al loro soggetto comune: la condanna del malcostume. In Parini vi è l’ronico fustigatore: in Gozzi, vi è il compassionevole burlone; il poeta lombardo ha in sè qualcosa dello spirito germanico che lo fa erigere a giudice severo: nel veneto, dalla natura dolce e arrendevole, vi è l’osservatore indulgente che sorride al gran teatro del mondo; nell’autore del Giorno vi è ancor la speranza della conversione del suo “giovin signore”, sicchè può permettersi di essere pungente nei suoi confronti: nello scrittore dei Sermoni, non vi è alcuna fiducia di ripresa e salvezza, sicchè egli guarda scettico un mondo dal quale non si attende più nulla di buono.
La produzione giornalistica non ci pare, invece, offra vere pagine artistiche. Siamo di fronte ad un caso simile (ci sembra) a quello degli elzeviristi e saggisti della Ronda (anni “Venti” dell’Italia, nel secolo XX): precisione di linguaggio, scioltezza di espressione, acutezza di osservazioni psicologiche, gioia dell’osservare e raccontare possono indurre ad una prima lettura, che risultando istruttiva più che piacevole, non invita alla rilettura, come accade invece per i brani liricamente riusiciti. Il Gozzi ama soffemarsi sulla cronaca della sua Venezia, risalire dal fatto al “tipo” di concittadino, dalla vicenda al contesto socio-morale, aggiungere pigmenti di costume: ma non attinge l’alone della poesia che commuova o diverta. Nella parte fantastica, le “novelle argute, briose” interessano più per la sapienza educativa che per la fantasia commossa. Scomparsa la cronaca, quando passò dalla “Gazzetta” all’ “Osservatore”, nelle discussioni di livello più elevato ed nel più ampio spazio alla fantasia, egli si rivela più uno psicologo acuto (tratteggiamento di “caratteri”, con un pizzico di ironia in favore della moralità) che non un grande artista: i suoi interessi etico-sociali interferiscono nella libera effusione emozionale. Insomma, chi troppo vuole, nulla stringe e le dissolvenze incrociate sono inesorabili. Le stesse osservazioni valgono per le sue Lettere serie, facete, capricciose, strane e quasi bestiali: offrono spunti acuti di osservazioni psicologiche, morali, sociali e l’arguzia fa capolino, sottilmente pungente o divertita. Ma resta il fatto che le “Lettere” di Giuseppe Baretti, che ci occuperanno alla fine di questa “letteratura minore” del secolo, si leggono e rileggono con gusto e divertimento; quelle del Gozzi, si possono leggere con qualche noia una prima volta; una seconda, no. Un paio di meriti, invece, sono da ascriversi a tutta questa produzione in prosa di Gasparo: purezza della lingua toscana e ricchezza del vocabolario.
Possiamo inserire qui altri meriti di Gasparo traduttore: la versione della “Morte di Adamo” (di Friedrick Gottlieb Klopstock) è migliorata rispetto al testo francese su cui lavorava; e così pure gli Amori di Dafne e Cloe ricuperano nel testo italiano parte della sostanza poetica del greco di Longo Sofista, andata perduta nella traduzione francese.
In conclusione, Gasparo Gozzi fu costretto a fare troppo e troppo celermente, sacrificando l’arte all’utile: un utile immediatamente economico, ma profondamente religioso, etico e sociale che fa di lui, però, più un testimone ed un educatore del suo secolo che uno scrittore-poeta.
Poemi eroici.
I motivi per cui essi vanno socmparendo sono facili ad indovinarsi. Anzitutto, si diffonde un maggior senso critico, che rende più difficile al poeta di sintonizzarsi su un mondo di favole, di magie e di storie addomesticate, anche se, una volta versificate a dovere, tali tematiche sono ancora in grado di affascinare. Si vuol dire: non è sminuita il piacere della poesia favolosa o semistorica; è diminuito la stima per tale surrealtà da parte delle perosne dotte e, quindi, la passione per narrarle e la pazienza per versificarle. E i poeti appartengono alla classe istruita, anche quando si abbassano alla “poesia popolare”.
Se si volessero citare Dante ed il Tasso, come poeti intellettualissimi eppure autori di mondi pieni di realtà miracolose, si deve dire che proprio una atmosfera razionalistica come quella illuminista scoraggiava anche il fantastico preternaturale e soprannaturale (i miracoli ed i fatti mistici, appunto), tanto da rendere quasi impensabile che essi avrebbero potuto scrivere i loro poemi nel secolo XVIII. Da una parte, infatti, la fede esitava a moltiplicare gli interventi di Dio ed a prendere in considerazione fatti soprannaturali fuori di quelli attestati dalla Rivelazione (Bibbia); dall’altra, il rispetto umano diminuiva ogni entusiasmo per le cose di fede anche presso la massa dei credenti: immaginarsi se erano in grado di commuoversene al punto da creare fantasie aggirantesi attorno a sognati fenomeni al di là di esperienza e ragione!
Ma due altre ragioni vanno qui citate. Anzitutto il fallimento di troppi tentativi nel secolo precedente: proprio il Marino era motivo di scoraggiamento, ormai, più che di sfida e stimolo a nuovi tentativi. In secondo luogo, il romanzo ricuperava la meschnità dei suoi esiti più soliti con la velocità di composizione ed il successo economico del risultato, se appena appena gradito al pubblico: pubblico che poteva ben essere scadente come gusto e senso critico, ma che si era enormemente allargato grazie alla maggior abbordabilità di un prodotto decisamente meno ostico che non quello in versi. Se si aggiunge che il contrabbando di materiale narrativo di contenuto erotico o politico non mancava, si comprenderà come il romanzo faccia nel Millesettecento una concorrenza sleale al poema e, poco alla volta, lo soppianti.
Comunque non mancarono opere di questo genere nel secolo dei lumi. Ma siamo nel registro della caricatura oppure ci si avvia al poemetto didascalico. Dopo la Marfisa bizzarra, ecco il Ricciardetto, il Carlo Magno, il Cicerone, La rete di Vulcano, Gli animali parlanti, Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Sul versante didascalico, abbiamo l’ Invito a Lesbia Cidonia, di Lorenzo Mascheroni.[43] Siccome il poema rappresenta per gran parte dei loro autori l’unica opera importante, così intitoleremo il paragrafo dedicato allo scrittore col titolo dell’opera, eccetto che per G. B. Casti, i cui versi vanno ben al di là degli “Animali parlanti”.
Il Ricciardetto è la migliore fra tutte queste composizioni. E’ opera di Niccolò Forteguerri (Pistoia: 1674-1735). Di nobile famiglia che lo destinò al sacerdozio, giunse alla laurea in giurisprudenza e occupò uffici ecclesiastici a Roma, giungendo ad essere segretario di Propaganda fide (l’attuale Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli). Fece parte anche dell’Arcadia (Nidalmo Tiseo). Non aveva ambizioni, ma egli sbaglia a farsene un merito (in una ottava autobiografica del Ricciardetto: VI, 2): con tutta probabilità era la sua natura introversa di letterato ed uomo di studio quella che lo teneva lontano dalla ricerca del potere. Difatti le sue “rime” (sparse in diverse raccolte) sono di stampo arcadico, curate nei particolari come se si trattasse di disegnare miniature; il verso è aggraziato e,anche nelle satire contro la curia romana (uno dei bersagli favoriti, non solo nei Capitoli) il tono è moderato, anzi blando. Un sintomo ulteriore per una tale diagnosi psicologica, lo si può vedere nel disinteresse per le sue opere: lui vivente, videro la luce poche rime e qualche “orazione” (discorso), sicchè quasi tutte le sue opere furono edite postume, compreso il poema (1738). E, infine, il sentire come autori preferiti il Pulci e l’Ariosto, Matteo Boiardo, Francesco Berni, Francesco Bracciolini e Teofilo Folengo, non depone propriamente ad un’anima eroica, pronta alle responsabilità, non leggére, del potere inteso come servizio d’autorità... Insomma, qualunque sia il grado della sua levatura poetica, doveva avere l’anima di un introverso, fra il nervoso ed il sentimentale, comunque nato per l’otium letterario e non per i “negozi (nec-otium)” pratici.
Oltre al Ricciardetto, sono lodati i vivaci Capitoli, imitati sul Berni. In più tradusse da Terenzio e da Euripide; compose in latino alcuni apologhi.
Al Ricciardetto attese tra il 1716 ed il 1725, finendolo in trenta canti di ottave. E’ l’ultimo lavoro del genere degno di essere letto e studiato. Ma non è tanto un poema cavalleresco, quanto una parodia di tale mondo: Orlando fa lo spenditore per Carlo Magno; Rinaldo, il cuoco; Ferraù è ridotto a palafreniere; Ricciardetto, a barbiere. Devono lavorare per guadagnarsi da vivere.
Incominciò il poema per una scommessa coi giovani amici che si radunavano in casa sua per ascoltare la lettura dei suoi poeti preferiti, il Pulci, il Boiardo, l’Ariosto: siccome si nasce poeti, non deve poi costare tanta fatica lo scrivere un poema, come egli si impegnò a fare, preparando un canto intero per la sera seguente, che unisse assieme lo stile dei tre poeti letti. Riuscito nell’intento, egli curò l’opera per alcuni anni (1716-25), riservandone la pubblicazione ad un’età meno “villana e fera”, più suscettibile di attenzione alle opere d’arte.
Il motivo ispiratore varia tra il divertimento della parodia sui poemi cavallereschi e la critica della società a lui contemporanea: frequenti le condanne della curia romana ed dei conventi corrotti, ma anche “la satira delle donne, delle corti, della nobiltà, del lusso, della ipocrisia, della guerra, del lotto...” (Natali, o. c. II, p. 1054). Sono forme di satira già presente nei Capitoli. Satira, però, pacata e troppo flebile: la indecisione di quest’uomo, che il Natali chiama “galante Monsignore”, si ripercuote nelle sue forme espressive, che crea versi scorrevoli con discreta scioltezza, che dice cose con realismo chiarozzo chiarozzo, ma elide la caricatura nella satira, frena il riso nella serietà, smorza l’intento moralizzatore verso il presente nel diletto demistificatore del passato. D’altronde anche nella vita concreta era rimasto indeciso e il proposito di distruggere le sue opere sul letto di morte è il segno che non poteva permettersi più, di fronte alla sua vocazione di vivere nella ambiguità. Rimandando alcuni particolari della incoerenza nella vita di pensiero e di opere alla nota[44], citiamo qui alcune strofe non sublimi ma non disprezzabili: sono il simbolo della stentata sufficienza poetica.
Ecco come sono ridotti i cavalieri carolingi: “O gran miseria delle umane cose!| O crudeltà di barbara fortuna!| Ecco l’onor de l’armi, e le famose| destre, ch’ove il sol muore, ove ha la cuna,| sempre furo e saranno gloriose;| Destre che invan non fero impresa alcuna,| ridotte adesso a far de le polpette,| a menar striglie, ad arricciar basette” (VI, 59).
Questi versi, invece, irridono alla idealizzazione della donna: “Però ridete pur, quando ascoltate| che son le belle donne come scale| per girsene al fattor che le ha formate,| perchè per esse a contemplar si sale| le divine bellezze a noi negate.| Avante del peccato originale| forse questo accader potea nel mondo:| ora son buone per mandarci al fondo” (XXII, 33).
La strofa 92 del c. XXVI celebra la virtù della poesia, che anche su un “trovato” (invenzione della fantasia) sa far nascere diletto: “E di qui nasce il fior de la bellezza,| di cui s’adorna sì la poesia,| che dà vita, dà forza e dà vaghezza| al nulla: e da quel nulla tragge e cria| ciò ch’ella vuole, e move ad allegrezza| gli animi, oppure a la malinconia:| ancorchè noi sappiamo esser stato| quel fatto che si narra, un bel trovato”.
Versi che non spiacciono, ma che non affascinano; che si leggono con qualche piacaere e qualche indulgenza una prima volta, ma che non si fanno rileggere una seconda. Si tratta di un poeta incerto tra forza e dolcezza, tra veemenza e delicatezza: il risultato è poca, povera poesia.
Il poema giocoso Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno comparve a Bologna nel 1736: in venti canti in ottave, venti (o solo diciannove?) poeti buontemponi (tra essi C. I. Frugoni) verseggiarono la materia che Giulio Cesare Croce aveva steso in prosa (1606). Lo stile è quello del Berni; molti della ventina di verseggiatori erano ecclesiastici. La fama non li ha... perseguitati! Non che verseggino scelleratamente, ma non riescono a farci ridere , pur trattandosi di materia comica garantita dal testo prosastico (almeno per la prima parte). Citiamo dal Natali una strofa dell’ultimo canto, che corrisponde ad una domanda di scusa per aver perso il tempo ed averlo fatto perdere ai lettori: “Ma per dirla a quattr’occhi, e fra di noi,| che debbon mai cantar questi poeti,| se son sì scarsi a’ nostri dì gli eroi| che voglian mantenerli e grassi e lieti?| Quindi colpa non è se questi poi| trattan soggetti a modo lor faceti,| e senza rifrustare altra fortuna| secondan la poetica lor luna”.
Non mancano accenni satireggianti contro usi più o meno irragionevoli del secolo: guardinfanteide, parrucche, gioco del lotto, egualitarismo, medicina disorientata, poeti adulatori, sbirri, gnealogie nobiliari, commercio degli antiquari, condotta delle donne... Ma come il possesso delle regole dell’armonia non fa il musico geniale, così il padroneggiare la versificazione non fa il poeta riuscito. Di nuovo: poeta nascitur...
Il Cicerone, di Gian Carlo Passeroni, è un poema in 101 canti, didascalico ed umoristico, nonostante l’avvio storicamente impegnativo ed intenzionalmente epicizzante. L’autore era di Condamine (Nizza: 1713-803), ma visse a Milano, come precettore, dopo aver studiato presso i Barnabiti ed essere diventato sacerdote nel 1737. Fu intemerato, benefico (anche verso il Parini, nei tempi dell’oscurità e del bisogno), modesto. Maria Teresa gli aveva assegnato una piccola rendita, che Giuseppe II soppresse nel 1786, ma che Francesco Melzi d’Eril gli restituì nel 1802: l’anno dopo moriva novantenne. Fu arcade, col nome di Niceno Alcimedonzio.
Scrisse Rime giocose, satiriche, morali (1776) e le Favole esopiane (1779-88), ma la sua fama è legata all’opera della sua maturità, cioè al poema satirico Cicerone, scritto fra il 1755 ed il 1774. La vita del grande oratore e politico romano di Arpino è un puro attaccapanni per continue digressioni sui costumi dell’epoca contemporanea al poeta. Scherza, deride, condanna bonariamente gli uomini del suo tempo, anticipando il più severo e coerente Parini in non pochi punti. Così è messa in burla divertita la moda delel “raccolte” (di poesie) per matrimoni e monacazioni; si decanta la vita campestre, a detrimento della vita noiosa e falsa della città; si deplora l’amore delle dame per i cagnolini (cfr: la “Vergine cuccia” del Parini)...
La lettura delle opere del Passeroni è sconcertante, perchè la mente è divisa tra ammirazione e delusione: da una parte si deve riconoscergli una vena perseverante e feconda, una capacità di metter tutto in versi scorrevoli nella metrica e trasparenti nelle idee: tali da far invidia a molti dei più grandi poeti. Il musicalismo è complesivamente carezzevole e dolce; la rima, pronta. Laurence Sterne (1713-1768) confessò al Passeroni che il Cicerone gli aveva suggerito l’ispirazione per il suo romanzo “Vita e opinioni di Tristan Shandy” (prima parte, 1760). Il Baretti elogiò il poema ne “La Frusta letteraria” (n. 6), pur riconoscendo che “tutta l’opera... non è che un bizzarro tessuto di digressioni che non hanno che fare col titolo e che per la maggior parte satireggiano o criticano o corbellano ogni sorta di gente dappoco, ridicola o viziosa”. Eppure, l’opera non convince: si resta incerti se promuoverla alla sufficienza poetica. E la critica impressionistica, spontanea è confermata da quella riflessa, cioè dallo studio delle componenti della espressione verbale. In Passeroni si sovrappongono almeno tre motivi ispiratori; si scontrano almeno tre tonalità liriche; si elidono almeno tre componenti musicali. L’intento storico svanisce nell’amore alla favola, al punto che l’autore si riferisce anche lui, come l’Ariosto, alla testimonianza dell’arcivescovo Turpino, la sorgente “doc”[45] delle fantasie epico-cavalleresche. Dalla favola nasce l’idillio, come dalla celebrazione del grande oratore latino dovrebbe sgorgare l’epopea. Ma vi è l’intento moralistico, che tende a servirsi di un registro drammatico, perchè vuol rimproverare i malvagi, condannare il male, incitare la bene. E vi è alfine l’intento del puro divertimento, quello comico-scherzoso, che nasce dal fatto che il mite prete non vuol che venga offendere nessuno e che tutto si risolva in sorriso benevolo, che corregga senza pungere troppo (il Passeroni opta decisamente per la medicina, meglio se omeopatica; è contro l’intervento chirurgico, doloroso). Troppe cose, ahimè!, caro, simpatico abate: i poeti devono essere coraggiosi, a costo di sembrare violenti. Per accontentare tutti e non irritare nessuno, tu sei rimasto indeciso se scrivere la vita di Cicerone o quella dei tuoi tempi; se fustigare o scherzare; se sognare o predicare. E nulla è più esiziale per un artista che l’incrocio e sovrapposizoione di molteplici motivi ispiratori, che generano nella mente un groviglio di stati d’animo, i quali, se non trovano uno spirito più complesso del tuo, meno classico e candido, ma complicato e, insomma, romantico, non finiscono in tonalità di sinergismo, ma in dissolvenze incrociate. Un conato lirico uccide l’altro o almeno lo attenua, rendendo piacevole l’inizio della lettura del Cicerone, ma finendo per renderlo noioso ed inutile. Non vi è spazio per alcuna sollecitazione emotiva, perchè, come mille velleità non costituiscono una volontà, così mille spunti lirici non fanno una melodia compiuta.
La rete di Vulcano. Fu composta durante al giovinezza di Domenico Luigi Batacchi, nato a Pistoia nel 1748, da famiglia nobile, ma totalmente dissestata dal padre, ubriacone e donnaiolo. Non potè seguire studi regolari e dovette accontentarsi di un impego in dogana, come gabelliere. Questo non gli impedì di essere ammesso all’Arcadia nel 1788, per la fama dei suoi versi (Pasiteo Laerzio) Anticlericale e sboccato nelle sue scritture, fu coinvolto nella persecuzione contro i giacobini e mandato ad Orbetello a morire di febbri malariche maremmane, sotto faccia di un impiego statale (1802). Il poema La rete di Vulcano per il quale egli volle essere ricordato,[46] non fu per altro l’unica sua opera. In 12 canti, scrisse lo Zibaldone, poema satirico; e 24 Novelle, in versi. Queste ultime opere sono in sesta rima (strofe di sei endecasillabi: ABABCC); il poema è in 24 canti ed in ottave tradizionali.
Nello Zibaldone l’autore, cresciuto nel disordine della vita paterna, che gli rendeva troppo facile assorbire lo spirito anticristiano del secolo dei lumi, presenta come eroe alla rovescia l’arciprete don Barlotta che, nei rapporti con una donna, si ammala di sifilide e finisce per impiccarsi. Il tutto in tono canzonatorio: eroicomico. Anche le Novelle in versi sono anticlericali e scurrili. Come opera d’arte, minacciano il primato del genere (Novelle in versi) a quelle di Giambattista Casti: il Foscolo (seguito dal Natali) giudica superiore il Batacchi; il Goethe ne fu un ammiratore, ma preferisce ancora il Casti. Alcune delle 24 Novelle sono lunghe, in più canti. La disputa sul valore artistico di cui si è detto non deve far pensare ad una grande opera, ma semplicemente alla sua sufficienza poetica. Il Natali afferma che per le stroncature del Carducci e del filologo purista Pietro Fanfani (1815-79),le opere del Batacchi sono uscite dall’orizzonte della nostra letteratura, dove meritano invece un posto certalmente superiore a quello di Francesco Bracciolini, autore dello “Scherno degli dei” (1618), poema che certamente il Batacchi ebbe presente e al quale in parte si ispira per la stesura de La rete di Vulcano: con risultati decisamente migliori. Ma, ancor più del Bracciolini, Batacchi ebbe come maestro l’Adone del Marino; e non mancò di tendere l’orecchio alla “Secchia rapita” del Tassoni. Il poema, ad ogni modo, è superiore anche alla “Marfisa bizzarra” del Gozzi. In esso, il Batacchi non ha tanto in mente gli antichi miti (amori profani di Venere, Marte, ecc.), ma il suo secolo e la sua società, che egli fustiga, trattando della nobiltà, della guerra, di poetastri ed avvocati, di medici, frati, monache e preti, di miscredenti e bacchettoni, della Inquisizione, dei pedagoghi, degli zerbinotti... su su fino alle bastonate (per le quali vedi, poi, il c. V dei Promessi, nella comicissima disputa alla tavola di don Rodrigo, ove p. Cristoforo è chiamato a far da giudice). Siamo, cioè, di fronte ad un poema eroicomico, in cui si fa la parodia della poesia epica, presentando eroi da commedia o da satira.
Inutile dire che il Batacchi, come era filodemocratico in politica, così era più vicino al realismo romantico (e, addirittura, naturalista) che non all’aura idealizzante dell’Arcadia metastasiana.
Oltre tutto, le opere del Batacchi[47] sono pregiate per la purezza, estrosità e novità della lingua toscana: anche il Fanfani (che gli rimprovera la sensualità, ma gli riconosce facilità di verso e vivacità di fantasia) lo cita nel suo “Vocabolario”. Ma delle tre opere conservate, solo le novelle furono edite dall’autore: a dispense di due fogli l’una, inizando dal 1791; le altre videro la luce postume. La Zibaldone venne edito a Parigi nel 1805; La Rete, a Milano nel 1812.
L’ Invito a Lesbia Cidonia ci riporta in pieno Settecento arcadico. Si tratta di un poemetto didascalico, frutto dello “zelo diffusore dei lumi”, proprio della mentalità illuministica. E’ l’opera letteraria di Lorenzo Mascheroni (1750-1800), prestigioso professore di algebra e geometria alla università di Pavia, di cui fu anche rettore. Il Mascheroni era nato a Castagneta nel bergamasco; fu pastore arcade (Dafni Orobiano) e aderì a Napoleone ed alla repubblica cisalpina, morendo a Parigi, dove si trovava come membro della Commissione internazionale dei pesi e delle misure. Nel poemetto didascalico, egli vorrebbe che la “pastorella” Paolina Grismondi Secchi Suardi (in Arcadia, Lesbia Cidonia) venisse in visita e, a tal fine, egli la prepara illustrando, nella cornice ideale dell’ateneo, le nozioni più aggiornate delle varie scienze, dalla botanica alla fisica, dalla anatomia alla chimica e zoologia. Il poemetto, uscito nel 1793, risente della raffinatezza quasi neoclassica del miglior Parini, esprimendosi forbitamente in versi eleganti . Ma questi non raggiungono la vita artistica definitiva: si ammirano, ma non si amano. Volendo dare un’idea del suo musicalismo, faremo notare che, fra le vocali, le “A” prevalgono chiaramente sulle “O”; che la “E” è rintracciabile sì, ma in proporzioni minori, mentre le strette “I” ed “U” sono molto rare e non si fanno sentire. Tra le consonanti prevalgono liquide, nasali ed “S” fruscianti, contrastate però da numerosi suoni duri, in cui predominano le dentali su labiali e gutturali.
Giovan Battista Casti (1724-1803).
Vita. Nato ad Acquapendente (Viterbo, nel 1724, studiò ed insegnò nel seminario di Montefiascone. Calato a Roma come abate, ne fu scacciato per immoralità. Per le sue idee riformatrici, fu ben accetto alla corte di Firenze. Essendovi giunto l’imperatore Giuseppe II, per far visita al fratello (Pietro) Leopoldo, egli si invaghì del Casti e lo portò a Vienna come poeta di corte. E vi ebbe successo, ma preferì poi passare a Pietroburgo presso Caterina II. Quando però fu conosciuto il suo Poema tartaro, che denigrava la sovrana, egli si inimicò contemporaneamente Russia ed Austria: passò allora a Venezia. Aveva già viaggiato per l’Europa, accompagnando il figlio del ministro di Maria Teresa Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg: ora, partendo da Venezia, visita Costantinopoli, Torino e Milano. Nel 1790 lo ritroviamo a Vienna, con l’imperatore Leopoldo I e Francesco II. Nel 1798 passa a Parigi, dove muore nel 1803: vi si era recato per seguire l’amica marchesa Lepri, da lui già cantata col nome di Filli, durante la residenza a Firenze. Fu poeta arcade col nome di Niceste Alideno. Della sua libertà e franchezza di parola testimoniano gli scritti e quanti contemporanei lo conobbero. Eppure vi sono contraddizioni patenti. Era incline ad elogiare i grandi di cui aveva bisogno e troppo facile a denigrarli, una volta lontani o morti. Di Caterina II si è già detto a proposito del Poema tartaro. Negli Animali parlanti si parla male della democrazia, che egli aveva elogiato nei giorni del trionfo sanguinoso della rivoluzione: ora regnava Napoleone e la democrazia era in declino. E lasciamo Parini a testimoniare sul suo sfacciato libertinmaggio sessuale.[48] Per questa inaffidabilità morale e cattiva fama conseguente, fu accusato di cinismo e fu ascritta a congestione la sua morte avvenuta dopo un pranzo luculliano: è certo che morì per freddo e infiammazione alle vie respiratorie, dopo un pranzo presso amici. Aveva 82 anni ed era il 5 di febbraio 1803.
Opere. Sacerdote ed insegnante al seminario di Montefiascone, divenne famoso per la raccolta di sonetti giocosi contro i creditori, intitolati I tre giulii.
Vennero poi le Novelle: in ottava rima, oscene, furono poste all’Indice nel 1804; dal 1778 al 1802 divennero in tutto quarantotto. Si è già detto del confronto fatto da giudici eminenti con quelle del Batacchi.
Il Poema tartaro è una composizione satirica in ottava rima, contro la Russia, ancor medioevale, della imperatrice-filosofessa Caterina II, che l’aveva ospitato con grandi favori. Composto nel 1778 ed edito nel 1797, è opera improvvisata e trascurata.
Liriche: sebbene non siano l’opera più importante, pure le ventotto canzonette per la marchesa Lepri (Filli) e per altre dame fiorentine; nonchè le “cantate”, scritte col metro messo in voga da Ludovico Salvioli (quartine di settenari alternativamente sdruccioli aritmici e piani rimati), che celebrano Venere, Bacco, Montefiascone, ci possono aprire uno spiraglio sulla incostanza, la civetteria, il principio dell’ “afferra l’attimo” (“carpe diem”) che deprime l’umanità del Casti; ma anche la linea di sfaldamento, di fallimento della sua produzione poetica. A parte, dunque, la immoralità del contenuto faunesco, che denuncia una povera stoffa umana, la versificazione (proprio anche perchè trasandata, quasi estemporanea, non rifinita) fa emergere il contrasto spontaneo presente nella mente castiana. Essa, da una parte, privilegia d’istinto motivi ispiratori idillici, frivoli, goderecci: le tematiche suggerite dal predominio del sistema vagale e non controllate da una volontà decisa, riequilibratrice. Eppure la sfera musicale del suo cervello aveva a disposizione solo od in prevalenza il messaggero chimico opposto, quello di tipo adrenalinico; difatti l’espressione è dominata da suoni forti e drammatici. In altre parole, nei versi del Casti, noi siamo costretti a costatare un “discordo” (disaccordo) abituale fra le due componenti espressive della parola: quella ideativa e quella musicale. Le due dimensioni non sono unanimi, ma divergenti. Da una parte, egli non pare conoscere altri motivi di canto, fuori dell’amore (affettivo ed erotico) e del ridere e deridere divertito (non polemico). Così, ad esempio, la canzonetta “A Clori” è di una malizia erotica peggiore che “Il tempio dell’infedeltà” di C. I. Frugoni; e così la “State” e “L’Inverno” cantano l’amore spudorato: egli giustifica il libertinaggio sessuale e lo esalta. Questi sono gli argomenti più consoni all’animo immaturo dello scrittore umbro. Situazione ( si osserverà) cui ci si trova davanti decine di volte nella storia di qualsiasi letteratura e che denuncia la povertà umanadi moltissimi scrittori in versi. Ma la novità del fenomeno sta in questo: la felicità musicale è sorprendente; la versificazione è scorrevole, i concetti non fan fatica ad ordinarsi nella metrica del verso e ad assoggettarsi al giogo della rima. Tutto è così facile, spontaneo, musicalmente fluido, che si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un poeta geniale (Goethe lo ritenne tale, accostandolo al Batacchi, come si è visto). Solo che il risultato lirico è perennemente insoddisfacente. Qual è la causa esterna, immediata della contraddizione? Lo abbiamo già detto: la fluidità dei versi non è nel senso contemplativo, idillico, arguto, gioioso esigito dai motivi ispratori, ma è nella direzione della drammaticità epicizzante. Ci si trova innanzi, cioè, ad un caso clamoroso di dissolvenza incrociata fra il genere di idee più spontaneo (quello adolescenziale e sorridente) e la loro armonizzazione espressiva (che è invece quella adulta e combattiva). Ne nasce lo strano fenomeno: i versi del Casti si fanno leggere volentieri, a prescindere dal loro contenuto, unicamente per l’onda musicale che avvolge il fruitore: specialmente al primo impatto con essi, l’impressione è favorevolissima. Ma dopo poco si avverte la presenza di una stonatura, della non consonanza, cioè, fra gli elementi costitutivi della espressione: e si abbandona un dettato che finisce per deludere puntualmente perchè messaggi coscienti e messaggeri inconsapevoli camminano su sentieri diversi, disorientando il lettore, che cerchi la gioia dell’arte e non sollecitazioni allotrie.
Abbiamo parlato di fattori inconsapevoli nella produzione metrica del Casti: eppure l’uomo non era intellettualmente così sprovveduto da non accorgersi che due anime si dibattevano dentro di lui. Ecco che nella cantata Il contento, la terza quartina può esser spia al fenomeno. Egli vi recita, infatti: “Voci di giubilo| canore e pronte| m’ispiran Pindaro| e Anacreonte”. I due poeti greci avevano ormai un significato liricamente opposto: Pindaro era il poeta della poesia epicizzante; Anacreonte, di quella idillica. Proprio così: Pindaro ed Anacreonte si dibattevano in lui senza esiti risolutori. Chi ne usciva sconfitta era l’arte, che non trovava la necessaria unanimità fra idee e parole o, meglio, fra idee e musicalità delle parole. E, salva la libertà di autocontrollo, cui almeno da un certo punto della sua vita il Casti rinunciò, il dissenso fra la dimensione verbale (filosofica) della parola e la sua componente musicale rivelano una disfunzione interiore, neurologica, che non gli impedirono di avere un successo mondano sfacciato ed ininterrotto, ma che denunciano una minor pienezza e coerenza aumana, uno squilibrio, una disarmonia interiore.
Libretti per teatro. Dal 1748 al 1788, il Casti, benchè soppiantato da Lorenzo da Ponte nella successione al Metastasio alla corte di Vienna, compose opere buffe, fiabe, drammi eroicomici, che sono legati dal filo comune di esser destinati alla musica (onde una certa vicinanza al melodramma). Lo aveva sollecitato a tale attività il Pergolesi Il primo frutto di tale attività fu anche il suo capolavoro: Teodoro in Venezia (1784). Questo libretto fonde liberamente il fatto storico dell’effimero regno di Teodoro Neuoff in Corsica con un capitolo del “Candido” di Voltaire, che immagina un raduno di prìncipi spodestati, a Venezia: la prospettiva del Casti, manco a dirlo, è quella comica ed il risultato così gustoso ed allegro, che il Foscolo la giudicò così felice da non sapere “se fosse mai stata pareggiata”.
Del 1786 è la rappresentazione (sempre a Vienna, dove il Teodoro aveva avuto accoglienza entusiastica) de La grotta di Trifonio, fiaba retta dala magia e, se pur con qualche intenzione satirica, sostanzialmente un grande divertissement, cioè uno scherzo a puro scopo di sollazzo. Sempre del 1786 è l’atto unico Prima la musica poi le parole che proseguiva (dopo lo stesso Metastasio, il Goldoni ed il Calzabigi) la critica a certo tipo di melodramma, sempre in pericolo di abborracciare il testo (come faceva il Da Ponte) per lasciar dominare la musica.
Nel 1788 fu recitato Cublai, gran Can dei Tartari (ricavato dal canto XI del Poema): si tratta sempre di lavoro al limite fra satira e scherzo, in cui la storia è poco più di un pretesto. E’ la trasposizione in termini più recenti dello strapotente Ercole (Cublai), che viene asservito dall’amore di una donna (europea, stavolta).
Del 1792 è Catilina, parodia della storia (e dell’opera di Voltaire dallo stesso titolo): persino Catone e Cicerone vi fanno la parte dei buffoni.
Altre sue opere teatrali non furno mai rappresentate. I dormienti fu edito nel 1826 (è un dramma comico:due soldati delle Crociate si risvegliano dopo secoli, credendo di aver dormito una sola notte). Addirittura Orlando furioso, Rosmunda, Teodoro in Corsica, Lo sposo burlato, Bertoldo (non finito) non sono mai stati editi e giacciono alla Nazionale di Parigi. Pure, il Natali, sulle orme di L. Pistorelli, afferma che i drammi per musica del Casti sono “tutti piacevoli per la festività, per la snodatura degli originali intrecci, per la solita, un po’ sciatta, facilità di verso” (o. c. II, 837).
Gli animali parlanti. E’ un poema in 26 canti, in sesta rima, composto fra il 1794 ed il 1802 e risulta una satira di personaggi e costumi politici, delle corti come dei sudditi. Incerto fra monarchia e repubblica, detestava l’assolutismo come la demagogia. Egli ha così molte cose da narrare, ma non un ideale definito da comunicare. Forse anche per questo, il poema risulta tanto scorrevole quanto prolisso, interessante ad una prima lettura, ma insopportabile alla seconda: importa la materia per la sua varietà (anche se non trova però una sistemazione univoca); affascina per un certo tempo anche la forma, che però non è adeguata alla materia. La finalità pratica di colpire persone precise e precisi metodi di governo, nascosti sotto l’allegoria di determinati animali, finisce per togliere potenza alla satira e fascino alla favola: nonostante la solita facilità versaiola, il poema rimane complessivamente prosaico. Questo non toglie che alcuni passaggi siano artisticamente validi. Così la “disfida e la battaglia” nel c. 21 sono davvero animate da passione eroicomica: è una parodia della battaglie di Omero trasferite nel mondo animale. Anche notevoli alcune osservazioni di buon senso, passate in proverbio, come la canzonatura della pretesa di “allungar le corna ai tori o raddrizzar le gambe ai cani” (5, 98); oppure la ironica esaltazione dei propri tempi (“i fortunati secoli in cui siamo”: 18, 106), che nel Leopardi diventeranno “le magnifiche sorti e progressive” (Palinodia a Gino Capponi). Leopardi, ancora, riprendeva metro e atteggiamento allegorico-satirico contro la politica della Restaurazione dopo Vienna, nella sua “Batracomiomachia” (o, meglio, “Paralipomeni alla Batracomiomachia di Omero”), canzonando sia l’Austria che i patrioti dei primi moti risorgimentali. Per la sapienza delle osservazioni, merita il titolo di maggior poeta esopiano, di tutti i tempi, in Italia.
Ma bisogna riconoscere che la fortuna del poema fu più dovuta alla tempestività, anzi contemporaneità delle vicende e personaggi canzonati, che non al plus-valore estetico della forma letteraria: di nuovo, ritroviamo dissolvenze incrociate fra ideazione incerta e verseggiatura facilona, anche se scorrevole. Ancora: gli argomenti erano già affiorati nei quattro apologhi in sestine, in cui degli animali fanno da allegorie per gli uomini: Le pecore (come L’Asino) abusate da altri animali; La gatta e il topo, simboli di Caterina II e Giuseppe II; La Lega dei forti (smembramento della Polonia). Ora, ne Gli animali parlanti, le allegorie si estendono ai grandi temi di democrazia e monarchia, con alle spalle gli avvenimenti della Rivoluzione francese. Leone I governa tramite la reggenza della Lionessa (Caterina II): il principe Lioncino è ammaestrato a dovere per riuscire un gaglioffo, mentre la Volpe astuta ha soppiantato il Cane nella direzione del governo. Il tutto conduce ad una rivoluzione che dà modo (attraverso l’Orso, che impersona il poeta, il quale per altro interviene talora di persona, interrompendo la favola) di alludere ai recenti fatti della Francia.
POESIA LIRICA
Tanto è funzionale allo studioso riuscire ad incasellare molti peti di una stessa età nello schema di un unico movimento, affine per motivi ispiratori, tonalità liriche e tecnica stilistica, quanto è concretamente impossibile. Ogni poeta riuscito è un mondo a sè; ogni nostra classificazione avviene in base alle intenzioni dei poeti, non agli esiti delle poesie. Così nel Millesettecento si potrebbe conglobare tutta la poesia lirica nella “scuola arcade”, visto che persino Alfieri, visceralmente antiarcadico, è iscritto alla accademia! Naturalmente è una illusione: solo Metastasio, Rolli e Vittorellli li sentiamo autenticamente pervasi da spirito arcade nelle loro più riuscite composizioni. Per il resto, diremo che il gusto contagiò quasi tutti: certo è che canzonette di tono galante ne composero anche Parini e il giovanissimo Foscolo, ma non sono quelle a costituire la loro poesia più congeniale e caratteristica. Era una adesione alla moda, fatta trionfare dal poeta melodrammatico di Roma e Vienna.
La realtà del valore puramente utilitario della classificazione “arcadica” è immaginabile già a partire dal programma con cui nasce l’Arcadia, un programma genericissimo tanto nei princìpi negativi che in quelli positivi. Mettersi all’insegna di un “No, al barocco! basta coi concettini!” e di un “Sì, al Petrarca! ritorniamo ai classici del Millecinquecento!” apriva la strada a qualsiasi forma di classicismo o realismo lirico, cioè ad ogni espressione sincera, non sofisticata. Se finì per imporsi la terminologia pastorale, per di più declinata in piagnistei, sdolcinature e galanterie, tale esito (non del tutto positivo) lo si deve alla personalità e produzione discretamente riusicta del Metastasio e del Rolli, che trovò continuazione degna nel Vittorelli. La prova più immediata della polivalenza (ed anzi opposizione) propria del programma originario dell’accademia, la si può vedere nel contrato Crescimbeni-Gravina, che nasceva dalla eccessiva genericità delle intenzioni dei fondatori, che fu, però, anche la sua fortuna: la sua diffusione (e la sua sopravvivenza per olttre tre secoli) è dovuta proprio a tali esigenze minimalistiche: si scriva senza lambiccature strampalate; si versifichi secondo che detta il cuore.
Se ci si domanda come mai Metastasio, anzichè rimanere un caso isolato, divenne l’emblema di un genere letterario da tutti accettato, due ci sembrano le risposte ragionevoli. La prima si riferisce alla “mediocrità” del poeta e della sua produzione: come il Petrarca dovette al sua fortuna (nei confronti di Dante) alla sua apparente facilità, che dipendeva dalla sua reale non sublimità, così il Metastasio divenne modello universale nel Millesettecento, proprio grazie alla sua (apparente) imitabilità: che dipendeva dalla sua pochezza poetica. L’altro fattore è invece storico-culturale. Nel Milleseicento si era salvato dalla intemperie marinista solo il dramma pastorale. Anche se era disceso ai compromessi legati alla necessità di variare spesso il repertorio, non potendosi cambiare il pubblico, per la difficoltà tecnica negli spostamenti delle compagnie professionali, tuttavia tali compromessi si erano limitati a sacrificare la verosimiglianza della trama, il realismo del contenuto, ma non avevano intaccata la ragionevolezza della espressione verbale. A questo modo si era conservato un minimo di dignità del genere teatrale e ci si poteva, quindi, dedicare ad esso senza il sospetto di continuare la barbarie barocca. Non per nulla il romanzo subisce una crisi (che, lo si è visto, solo quell’ingegnaccio sfacciato del Casti rilancia nella seconda metà del secoclo) e la commedia dell’arte si avvia alla riforma, riuscita al Goldoni, ma tentata già prima da vari scrittori di commedie.[49] Il dramma pastorale aprì la via al Metasatsio; questi impose una svolta lirica al libretto già emendato da Apostolo Zeno e determinò il gusto poetico del movimento arcade: che, riferendosi ad un lirismo patetico (quello più riuscito del Metastasio, appunto) ha assunto un senso non del tutto positivo: “arcadico” è un termine di compatimento più che di lode.
Ed ogni poeta arcade cantò secondo il proprio genio, situandosi fra il Metastasio, il Petrarca, Anacreonte e Pindaro, contribuendo a quel processo di raffinamento che sfocerà, nell’ultimo quarto del secolo, al duplice movimento del Neoclassicismo. e del Preromanticismo. Nè i due esiti si possono nettamente distinguere tra loro, anche perchè la comune radice arcadica costituisce per tutti (anche per il Foscolo!) il “vivaio” ed il tirocinio inevitabile della propria iniziazione poetica.[50]
E’ dunque con questa duttilità, che usa le classificazioni in funzione generica e didattica, che daremo uno sgurado ai principali “lirici” del Millesettecento, a cominciare dal Metastasio “canzonettista”, sino alla soglia del Preromanticismo e del Neoclassicismo.[51]
Il Metastasio (1698-1782). Anche nelle composizioni “liriche” di Pietro Trapassi (sonetti, canzonette: soprattutto La Partenza| La Libertà| La Palinodia), i motivi ispiratori sono il paesaggio e soprattutto l’amore. Le tonalità frequentate sono oscillanti fra l’idillio galante, l’elegia nostalgica ed il dramma risentito, fra il ricordo di momenti felici e la tensione (prevalente) di una sofferenza che nasce da vicende negative (o temute tali) nel rapporto d’amore. La tecnica espressiva è sorprendente anzitutto per la acutezza delle analisi psicologiche; poi, per la capacità di sofisticare i sentimenti, rendendoli frivoli o patetici, emanazioni affettive di anime oziose e sazie. In consonanza, si trova quel musicalismo già analizzato per la produzione melodramamtica. La forza del dramma è sostenuta dalla “O” e, più raramente, dalla “A” (ne La Partenza, soprattutto); è moderata dalla frequenza della vocale “E”, dalla “I” accentuata e trafiggente, nonchè dalle consonanti “CH| ST| TR| RR”. Viceversa, la dolcezza della espressione si rivela dalla liquida “R” (isolata), dalle fruscianti “S| F| V”, dalle nasali “M| N”, mentre molto più discreta, per non dire rara, è la “L”).
Ripetiamo che il ridicolo è in agguato ne La Partenza: l’aucompatirsi del poeta ed il suo timore che la donna si dimentichi di lui, rovesciando le posizioni psicologiche più normali, non rende facile frenare il moto dei muscoli risori, che obbediscono alla percezione della sfera emotiva ed alla appercezione della coscienza razionale...
Paolo Rolli (1687-1765). Romano come il Metastasio e, come lui, improvvisatore precoce ed allievo del Gravina. Anche lui trovò all’estero e presso una corte il riconoscimento ed il compenso per il suo genio poetico: ma al servizio della corona inglese. Incaricato di ammaestrare nela lingua italiana la famiglia reale, operò di fatto dal 1715 al 1744 una specie di osmòsi fra la cultura italiana e quella inglese. Curò la pubblicazione di classici italiani e tradusse in versi sciolti il Paradiso perduto di John Milton ed alcune parti di Shakespeare. Con un saggio in lingua inglese, difese Dante, Shakespeare, Tasso e Milton dalle censure impertinenti del Voltaire. Cultore di classicità greco-latina, tradusse da Anacreonte e da Virgilio (Bucoliche); e tradusse pure la “Athalie”, di Racine.
Come già detto, egli acquisì il merito di grande innovatore nella metrica italiana. A lui si deve, in particolare, la intuizione di rendere l’endecasillabo catulliano con due quinari, di cui il primo, sdrucciolo: metro che, sdoppiato come due quinari consecutivi ma indipendenti, troverà uso nel Parini, in Carducci e nel Giusti.[52]
A Londra lavorò anche come librettista di melodrammi per il Teatro italiano. Dapprima solo, ebbe poi un concorrente in Giacomo Rossi: i libretti del Rolli li musicava il Porpora; quelli del Rossi, lo Haendel. Fu una gara da interessare e coinvolgere corona e governo, oltre alla opinione pubblica della città! Purtroppo il valore di Rolli come scrittore per teatro e musica è davvero poco: artista più monodicamente contemplativo, mancava di schietta fantasia cinestetica (del moto, dell’ operare, delle interazioni fra personaggi): le cose meno peggiori sono ritenute Erminia| Davide e Bersabea.
Ma la gloria del Rolli è assicurata dalle canzonette liriche. Fra le sue Rime (1717) ed i suoi Componimenti poetici (1753: edizione definitiva) ci sono gioielli autentici: Solitario bosco ombroso| Tornasti, primavera| La neve è alla montagna. I motivi ispiratori sono i paesaggi e l’amore; i registri lirici sono l’idillio e la elegia, in misura molto più pura e convincente che non nelle liriche del Metastasio, ove la nota drmmatica inquina il tono e sminuisce il risultato. Nel Rolli, vagheggiamento e nostalgia si fondono continuamente.
Questa predilezione per le tonalità contemplative non gli impedisce, però, di innalzarsi alla tonalità epicizzante o di accondiscendere al tono scherzoso dei canti conviviali. Prevenendo Giusti e Carducci, egli celebra vino ed amore: è il migliore tra i poeti conviviali di tutta la nostra letteratura! Tiene presenti Anacreonte, Catullo in conoscenza diretta; poi, Chiabrera e Petrarca, per non parlare della padronanza della letteratura inglese e francese. Egli meriterebbe un posto più ampio nella nostra storia letteraria.
Jacopo Vittorelli (Bassano- Vicenza- 1749- 1835). Addetto alla amministrazione pubblica di Venezia e, dopo l’arrivo dei Francesi, ispettore degli studi durante il Regno italico, si ritirò poi a Bassano, vivendo in semplicità di vita ed in mediocrità economica. La sua arte non fu toccata gran che dagli sconvolgimenti politico-sociali del tempo. Egli era un fedele del bosco d’Arcadia, delle sue ninfe e dei finti sospiri, immaginarie tristezze, fantasiosi gaudii, tenerezze sognate, galanterie fittizie: degli amori letterari, insomma. La musa d’altronde, non fu una professione di vita, ma l’hobby di un uomo posato. Si divertì da giovane con poemetti burleschi (Tupé| Naso| Farnetico| Specchio) o elogiatori (A Maria Teresa) o didascalici (Commercio); occasionalmente dedicò sonetti ad avvenimenti anche politici (in senso conservatore), riuscendo però meglio in quelli religiosi (i sonetti alla Vergine sono sinceri e, perciò, emotivogenetici, cioè capaci di riprodurre nel lettore il sentimento da cui han tratto origine). Ma l’apogeo della sua produzione sta nelle quaranta Anacreontiche ad Irene e nelle non molte altre A Dori. Fra le composizioni più riuscite stanno, dunque, Guarda che bianca luna| Ecco di Gnido il tempio| Ascolta, infida, un sogno| Non t’accostare all’urna| Fingi, vezzosa Irene. La prima edizione fu del 1784.
Pur trattandosi di amori puramente letterari (egli stesso confessò che “tutti i versi di argomento amoroso da lui composti erano semplice gioco di fanatsia”), la loro forza è tale da indurre nel lettore uno stato d’animo conforme alla espressione poetica: i versi del Vittorelli possono servire ad ogni cuore innamorato per portare allo zenit i propri sentimenti.
La popolarità acquisita tenne testa a quella del Metastasio: le sue canzonette furono infatti musicate (anche da Verdi: “Guarda che bianca luna”) e cantate; e celebrate da poeti italiani (anche dal Parini) e stranieri (Giorgio Byron).
Dello stile, è scontata la preferenza per i versi minori e, in particolare, per il settenari. Del resto, la musicalità del Vittorelli è limpida e costante, ancor più di quella metastasiana. Tutte e cinque le vocali si ritrovano in proporzioni normali, anche in posizione ictata, salvo le strette “I ed U”,che sono lievemente più frequenti della media prosastica. Sostanzialmente l’impianto vocalico è equilibrato, con una live tendenza (o, forse meglio, disponibilità) alla attenuazione e declinazione verso il musicalismo flebile, sussurrato. Il resto della colonna sonora del Vittorelli è affine a quello metastasiano: frequenti i vocaboli sdruccioli, le consonanti liquide (con la “L”equivalente con la “R” e questa, meno frequente che in Metastasio); più frequenti ancora le nasali e le fruscianti (azzurra| sussurra...). Non mancano consonanti dure (dentali, anche doppie; labiale “P”; gutturale “C”), che però sono rare ed assorbite, quindi, facilmente dal concerto delle consonanti dolci, cui per altro conferiscono una forza residua che impedisce alla espressione complessiva di cadere nello sdolcinato, nel patetico, nel morbido o nel ridicolo[53]. L’armonia che ne deriva è, a nostro parere, più suggestiva di quella metastasiana. Certo, Metastasio possiede due vantaggi sul Vittorelli. Anzitutto, quello di una maggior sapienza psicologica, che gli offre modo di variazioni magari sofisticate, ma che permettono di prolungare il gioco della finzione amorosa, mentre nel Bassanese il candore conduce presto alla fine il gioco dei sentimenti. In secondo luogo, quello di saper tradurre in trame di intrecci teatrali la vicenda delle passioni, coinvolgendo molti personaggi e complicando le situazioni affettive, di passare cioè dal lirismo puro alla composizione drammatica, dalla scrittura alla recitazione, dalla sola parola alla azione scenica. Ma, a livello di puro musicalismo, il Vittorelli è più limpido, coerente, armonioso, suggestivo.
Carlo Innocenzo Frugoni (Genova 1692; 1768).
Nacque a Genova e pronunciò i “tremendi voti” (di povertà, castità ed obbedienza) per forza di parenti ed a contraggenio. Protetto dal card. Bentivoglio, ottenne di essere ridotto a semplice abate, col solo voto di castità comune ai sacerdoti secolari (cioè, non religiosi): che non riuscì, comunque, ad osservare. Poeta e storiografo a servizio dei Farnese di Parma, si dovette rifugiare a Venezia, quando la città venne annessa alla Lombardia (Asburgo: 1737); vi potè rientrare coi Borboni alla fine della guerra di successione austriaca (1748) e fu fatto ispettore del teatro e maestro dei ducali infanti. Accolto in Arcadia col nome di Comante Eginetico, scrisse e raffazzonò melodrammi a non finire; compose poesie arcadiche in vari metri e colle tematiche più varie (religiose, militari, amorose...). Divenne famoso, celebrato, esaltato per le sue poesie liriche, ma la sua vena facile e disponibile ad ogni argomento, tanto felice musicalmente quanto emotivamente sorda, venne colta nei suoi limiti, nel suo vuoto anzi, da Giuseppe Baretti che lo “frustò” a dovere. Ma lui stesso era ben cosciente di essere un verseggiatore tanto facile quanto superficiale: non si curò mai di pubblicare le sue composizioni. Anzi, quando Saverio Bettinelli ebbe la infelice idea di pubblicare suoi propri versi, assieme a quelli dell’Algarotti e del Frugoni, col titolo supponente “Versi sciolti di tre eccellenti autori”, si guardò bene dal protestare, come invece voleva fare l’Algarotti per la temerarietà della edizione senza il consenso dgli autori! Eppure echi del Frugoni sono rintracciabili sino al Carducci, nonostante che l’Alfieri lo avesse definito “pomposo e galleggiante scioltista caposcuola”... Mancava di una forte coscienza morale e viveva e si dichiarava epicureo: non si trattava solo del libertinaggio sessuale, ma anche della passione pel gioco d’azzardo! D’altronde, odiava la melanconia, temeva la morte, detestava i preti, contento di esserlo lui, solo perchè libero dai doveri di una famiglia; era pigro, scettico, gaudente: era un don Abbondio vizioso, un abate Casti forse peggiore anche se meno laido, un materialista servile ed egoista.
Motivi ispiratori. Non avendo ideali propri da esprimere, fu poeta sostanzialmente occasionale, disponibile a tutti i motivi che le circostanze gli offrivano od esigevano.
In compenso, si destreggiò da padrone in tutti e quattro gli indirizzi lirici dell’Arcadia: Sonetto descrittivo o narrativo, Canzonetta per musica, Canzone-ode, Verso sciolto.
Come poeta, ebbe a modello Orazio, Pindaro, Anacreonte, Chiabrera.
Tonalità liriche. Noi oggi siamo disposti a prendere in una certa considerazione solo poche delle sue cose: alcuni sonetti, canzonette e versi sciolti.
Fra i sonetti, si possono rileggere quelli di tono epicizzante: L’Angelo sterminatore| Annibale sulle Alpi|Ostracismo di Scipione. Tra quelli galanti (e poco castigati) Il bagno di Filli e qualche altro diretto a donne.
Tra le canzonette anacreontiche, la maggior parte sono erotiche (Navigazione d’amore|Ritorno dalla navigazione d’amore| L’isola amorosa| Amore pitoccante| La follia delle donne...); altri sono brindisi conviviali.
Quanto all’endecasillabo sciolto, il Frugoni fu lo scrittore che lo fece trionfare, sostituendolo alla terzina dei secoli XIV e XV, alla ottava dei secoli XVI e XVII. Il Cesarotti, il Parini ed il Monti, accettandone il rilancio, ne segnarono anche l’apogeo, prima che il Romanticismo lo emarginasse di nuovo. Tra le composizioni in “sciolti”, ricordiamo il poemetto L’ombra di Pope| Il genio dei versi sciolti (scritto contro il Baretti)| A Caterina II| Voti (per la guarigione di Leone Guglielmo du Tillot, ministro del duca Filippo di Borbone)| Epistole| Canti pastorali (fra essi vi è Auronte, dedicato a Stefano Bonnot de Condillac).
Alla importanza delle sue innovazioni metriche si è già
dato spazio. Basti qui aggiungere che dei 20 metri diversi delle “Odi” pariniane,
8 sono già in Frugoni (che, anzi, è riecheggiato anche altrimenti nell’ode “Il
messaggio”); che il Monti imitò da vicino, ne “La morte di Giuda”, il suo Angelo sterminatore; che il Manzoni ne
“Il Nome di Maria” ebbe presente Per la
festa del Rosario, da cui prese spunti. [54]
Giambattista Felice Zappi.
Nacque ad Imola nel 1677 e morì a Roma nel 1719. Alunno dei gesuiti, laureatosi a Roma in diritto, a Roma esercitò l’attività forense. Fu uno dei 14 fondatori dell’Arcadia nel 1690 ed ebbe il nome di Tirsi Leucasio.[55] Fu poeta per hobby, compositore di sonetti, canzonette, cantate ed egloghe; e fu declamatore di successo dei propri ed altrui versi nei salotti aristocratici della città. Molte delle sue rime apparvero nel primo volume delle “Rime degli Arcadi”. La moglie Faustina pubblicò, nel 1723, l’edizione definitiva delle poesie del marito, assieme alle proprie.
I motivi ispiratori sono quelli tipicamente arcadici: l’amore (egli canta la sua ninfa col nome di Filli o di Clori), la religione (Mosè| Natività di Gesù...). Ma nessuna delle sue composizioni, forse, merita la sufficienza, anche se non dispiacciono del tutto. L’ispirazione è dispersiva; il lirismo si dissolve nell’incrociarsi delle emozioni espresse; lo stile pecca di retorica e di incertezza metrica. Cerchiamo di documentare con il commento ai sonetti su Mosè e sull’amore infantile per Clori (tramontato, poi, in lei, ma vivo ancora in lui adulto).
L’intento di celebrare la maestosa grandezza del condottiero d’Israele, originata dalla contemplazione del capolavoro di Michelangelo, si disperde nella duplicità dell’ammirazione: per il patriarca ispirato e la sua azione possente, da una parte (vv. 4-11); per la statua stupenda, quasi divina, dall’altra. Per sè entrambe le impressioni (sia quella della narrazione biblica che quella della statua michelangiolesca) tendono spontaneamente a generare epopea, per cui, questa volta, non sarà la loro alternanza a causare il fallimento lirico, che deriva invece dalla impressione di sofisma e di forzatura che rendono i versi. Lo stile denuncia la insufficienza della mente a trovare una forma espressiva epicamente valida. Ora saranno i particolari banali scelti a testimoni della grandezza di Mosè (la barba!); ora è il barocchismo del sinonimo (“onor del mento”) che egli sostituisce al termine proprio (per evitare una parola impertinente rispetto alla dignità del tema, egli scivola nella sofisticata eleganza di una circonlocuzione non meno inadeguata); ora è il ricorrere impacciato a descrizioni pressappochiste (la locuzione “le sonanti e vaste| acque ei sospese a sè d’intorno” dovrebbe indicare il dividersi del Mar Rosso al tocco della verga di Mosè); ora il richiamare in servizio parole dotte od arcaiche per motivi di metrica e di rima (“scolte= scolpite”| “conte= conosciute”); ora l’introduzione, fin dall’inizio del sonetto, di domande retoriche stentoree; ora lo zoppicare di un verso (il terzo) con tre accenti consecutivi sulla 6-7-8 sillaba...[56]
Il sonetto forse migliore dello Zappi inizia felicemente: “In quell’età ch’io misurar solea| me col mio capro (e il capro era maggiore)”, ma l’amore per Clori non rimane fedele all’aura discretamente idillica dei primi sei versi.[57] Il poeta, infatti, dapprima approfondisce la sua emozione nella delusa espressione di Clori, che è già conscia delle vicende spesso tristi del rapporto amoroso; infine passa al dramma della divaricazione del primo affetto: il poeta che si crogiola “negli infelici affanni” dovuti alla dimenticanza e dissspazione di Clori, che trafigge la fedeltà dell’innamorato. Il sonetto diventa, così, dispersivo e attutisce i singoli toni lirici, coll’interromperne il corso del primo per il sopravvenire indiscreto del successivo. I singoli affetti si fanno sentire, ma pare non abbiano il tempo di crescere a statura pienamente soddisfacente. Se si va a ricercare l’origine di tale mediocrità credo ci si debba soffermare su precise componenti, riguardanti sia i motivi ispiratori (alla fin fine, è inverosimile un simile innamoramento, quando il poeta è più piccolo di un capro, mentre Clori è già troppo esperta della natura ambigua dell’innamoramento: la differenza di età potrebbe essere quella fra un bambino di quattro ed una adolescente di quattoridici anni o più!); sia la accennata mutazione frequente del registro emozionale; sia qualche sfaglio nella versificazione (il terzo verso ha accenti sulla 4-7-10, scansione consona ad un lirismo drammatico, ma fatale all’aura idillica). Nessuna indicazione particolare ci sembra suggerire la musicalità: vocali e consonanti sono presenti in una proporzione assolutamente normale, senza alcuna prevalenza: il musicalismo non aiuta il lirismo in un senso (contemplativo) piuttosto che nell’altro (drammatico).
Segnati così i limiti delle composizioni dello Zappi, il poeta va disilluso sulla riuscita del suo intento di imitare Pindaro: no, non vi è riuscito; l’epopea è tentata ma non raggiunta. Ma egli va anche difeso dalla calunnia del Baretti che gli si rivolge così: “oh! il mio inzuccheratissimo Zappi” e gli rimporvera, poi, quei suoi “smascolinati sonettini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini...”. Talvolta, certo; ma, normalmente, nè epopea nè sdolcinature; solo una mediocrità deludente.
Faustina Maratti Zappi (Roma, 1679-1745). Figlia di un pittore (Carlo) e sposa di un poeta, ebbe in Arcadia (col nome di Aglauro Cidonia) voce robusta, sul tipo di Gaspara Stampa nel Millecinquecento. Più coerente del marito, tende al dramma. La sua vita ebbe vicende turbolente. Figlia naturale, legittimata col matrimonio tra padre e madre, subì nel 1703 un ratto da parte del duca Giangiorgio Sforza Cesarini, che inutilmente ne attentò la virtù. Sposa nel 1705 di G. B. F. Zappi, rimase vedova dopo solo 14 anni e per di più privata dell’unico figlio Rinaldo. Un bastardo del duca volle essere riconociuto come suo figlio ed il processo che la liberò da quell’assurda pretesa fu un altro momento penoso della sua vedovanza. Ma la donna aveva tempra virile, oltre che una ferma fede cristiana: i versi ne sono buoni testimoni.
La ispirazione è di solito realistica; si rifà, cioè, non ad immaginarie vicende, ma ad avvenimenti della vita: la tristezza per la morte del figlio, che si armonizza con la fede, esorcizzando disperazione e depressione; l’aspirazione alla gloria poetica, che si sposa con l’amore per il marito poeta; la decisione di resistenza contro persecutori ignobili, che si esprime con decisione precisa, sono i temi prevalenti, anche se non unici, della sua poesia.
Ma quella virtù che rende splendida la sua vita, rischia di rovinare il suo canto. Ad esempio, nel sonetto sulla morte del figlio (“Amato figlio, or che la dolce vista| sicuro figgi nel gran Sole eterno...”), una fede scrupolosa inibisce la tristezza naturale e santa della perdita (anche Gesù pianse sulla morte dell’amico Lazzaro), pel timore di offendere la bontà e provvidenza di Dio! Ed allora si rifugia nel desiderio della morte, per ricongiungersi al figlio nella visione del Signore. Le troppe intenzioni elidono gli afetti che si sovrappongono e dissolvono.
Dello stile, il vocabolario comprova il realismo e la musicalità conferma la drammaticità prevalente.
La dentale media “D” è presente in misura eccezionale, mentre “ST| SCR| il gruppo gutturale CH| e la “I” accentata” hanno una frequenza discretamente superiore alla norma. Si legga il sonetto: “Scrivi, mi dice un valoroso sdegno,| che in mio cuor siede armatao di ragione;| scrivi l’iniqua del tuo mal cagione...”.
Eustachio Manfredi (Bologna 1674-1739).
Fu alunno dei gesuiti ed ottenne la laurea in legge. Fu arcade (Aci Delpusiano) ma, portato allo studio delle scienze, fu professore a Bologna di matematica, divenne membro dell’Accademia delle scienze di Londra e di Parigi, direttore dell’Osservatorio astronomico di Bologna, sovrintendente alle acque del territorio bolognese e direttore del collegio pontificio di Montalto. Appartenne anche all’accademia della Crusca: fu, insomma, un uomo dalla mente davvero universale. E benchè tutte queste cariche ed attività scientifiche e pratiche lo sottraessero all’impegno poetico, tuttavia egli potè curare una raccolta di Rime (1713), collaborare col Giornale dei letterati d’Italia (quello fondato dallo Zeno), scrivere un libretto per melodramma e completare una traduzione dell’Orlando furioso in dialetto bolognese!
In Arcadia, fu un rappresentante notevole della
tendenza petrarcheggiante.
Scrisse sonetti e canzonette non spregevoli. I temi ispiratori ne sono l’amore (più o meno inventato), la natura, la religione e la politica. In quest’ultimo campo, compiange l’Italia (“Vidi l’Italia col crin sparso, incolto”); ma celebra anche il re di Spagna Filippo V Borbone, in visita nella penisola (“Tal for era in sembianza il garzon fero...”). Si vuol dire: il patriottismo del poeta era a misura di... circostanze, sicchè non sai quanto di sincerità e quanto di adulazione egli esprima. Il sonetto “Vidi L’Italia col crin sparso, incolto” fu scritto, ad esempio, per la nascita del primogenito di Vittorio Amedeo II, sicchè il grido “Italia, Italia, il tuo soccorso è nato” non può essere preso univocamente come auspicio di unità e liberazione della patria.
Dei sonetti ispirati alla fede,[58] molti sono quelli per monacazione ed il migliore è ritenuto quello che inizia “Vergini che pensose a lenti passi...”: egli studia l’animo femminile e vi intravede le lotte e le tensioni psicologiche fra le attrattive del mondo e quelle di Dio.
Alla natura si ispira anche il sonetto sulle colombe: “Come se dal bel nido,almo, natio...”
Vi sono, poi, versi dettati dalle circostanze, per personaggi od avvenimenti particolari: bella la canzone in morte di Vincenzo Filicaia (“Verdi, molli e fresch’erbe”).
Per la caratura lirica, diremo che tutte le sue composizioni hanno una nobiltà innata, una eleganza spontanea: come chiaro e coerente è il pensiero, così i versi sono metricamente scorrevoli e musicalmente inclini alla dolcezza. E tutte sono animate da un minimo di lirismo, che privilegia l’idillio e, subito dopo, l’elegia, mentre la epopea celebrativa risulta solo velleitaria.
La imitazione del Petrarca è riuscita, per consonanza congeniale; ma è il Petrarca medio, non quello sublime, che egli riecheggia felicemente. Si esprime con la stessa composizione musicale, contemporaneamente dolce e sofferente, come quella del cantore di Laura: liquide, nasali, sibilanti, fruscianti (prevale la “V” sulla “F”), con le dentali frequenti ma attenuate dalla “consonanza” colla vocale debole (“I”) o media (“E”), prevalgono nettamente sui suoni forti e duri. Eppure, neanche nei tre sonetti citati (certamente fra i migliori suoi) egli raggiunge un diapason eccezionale: rimane prigioniero di una mediocrità affettiva, che non prorompe in versi fascinosi o commoventi e che non invita alla rilettura.
Ludovico Vittorio Savioli Fontana Castelli (Bologna, 1729-1804).
Nato a Bologna, fu allievo dei gesuiti e, in seguito, del poeta e studioso di scienze Ferdinando Ghedini. Nel 1744 fu accolto nella “colonia Renia” dell’Arcadia col nome di Lavisio Eginetico. Fu senatore della città e gonfaloniere di giustizia; ebbe cattedra di “storia universale profana”, dopo che ebbe pubblicato tre volumi di Annali bolognesi dall’anno di Roma 363 al 1274. La rivoluzione francese finì per affascinarlo: inviato a Parigi dal senato bolognese nel 1796, ne tornò repubblicano e collaborò poi con Napoleone e con la repubblica cisalpina, scrivendo poesie animate da spiriti libertari e partecipando nel 1801 alla Consulta straordinaria per l’ordinamento della Cisalpina.
La sua fama poetica è legata alle ventiquattro canzonette anacreontiche, pubblicate col titolo ovidiano di Amori nel 1765 ( dodici erano già state edite nel 1712). L’altra sua poesia notevole è la canzone Amore e Psiche, che traduce il romanzo di Apuleio in versi di levità e limpidezza geniali. La tragedia Achille; l’imitazione dell’Arcadia di Sannazaro (Monte Liceo) e le composizioni politiche per le novità francesi e per Napoleone non valgono, poeticamente, altrettanto.
Giudizio poetico. Savioli fu studioso di Ovidio e volle consapevolmente esserne imitatore. Ma riuscì diverso e migliore del modello. Diverso, anzitutto, perchè meno portato alle “narrazioni” e, quindi, alla epoepa; e più propenso, invece, al “commento lirico”, cioè alla espressione diretta dei propri sentimenti. Egli, cioè, è meno “oggettivo” (e meno arido) del poeta di Sulmona; non sa fermarsi alla esposizione staccata di miti, alla narrazione impersonale di avvenimenti: deve esprimere la propria reazione emotiva, il proprio coinvolgimento psicologico. Diverso, ancora, perchè il Savioli è meno padrone dei versi “eroici”: se Ovidio usa con disinvoltura l’esametro, egli si serve con preferenza (e, in ogni caso, con migliori risultati) di schemi metrici minori: la canzonetta, che alterna il settenario sdruccciolo sciolto a quelli piani, rimati. Ma il Savioli è diverso da Ovidio, soprattutto perchè gli risulta superiore come poeta: è più vicino ad Orazio, seppure non altrettanto intenso.
Motivi ispiratori. Il tema amoroso si intreccia a quello mitologico, confondendovisi in maniera nuova, in un rimando insistito dall’antico al moderno, quasi in un rispecchiamento elegante, in un intarsio raffinato. Tale accostamento ravvicinato, con tendenza alla fusione, farà scuola al Parini, al Monti, al Foscolo. [59] Dei due motivi, quello amoroso resta formalmente primario; il mito, la reminiscenza letteraria hanno funzione subordinata, illustrativa. Pure favola e letteratura ritornano e si dilungano, così da occupare, quantitativamente, buona parte della composizione. A questo modo, il Savioli precede addirittura il Neoclassicismo e lo prepara: quando nel 1758 egli pubblica le prime dodici canzonette, mancano ancora sei anni alla edizione della “Geschichte der Kunst des Altertums” (Storia dell’arte nell’Antichità), di Johann Joachim Winckelmann, che è considerato il singolo avvenimento generatore della moda neoclassica.[60]
Accanto, dunque, alla solita trama di amore-ripulsa fra innamorato e donna petrarchescamente renitente e disperante, si fa avanti il motivo paganeggiante della mitologia, riscoperto da una società che si distanzia dal Cristianesimo. Ma, almeno nel Savioli delle opere poetiche, il distacco non è consapevole e voluto, come dimostra qualche composizione religiosa dello scrittore (ad esempio: Per prima Messa). E ci fu spazio anche per qualche composizione politica: prima di scrivere per esaltare di Napoleone, aveva verseggiato Per il passaggio di Carlo III in Spagna. Ma che un regresso della fede stesse alle spalle dell’uso della mitologia (Manzoni dirà che la mitologia è idolatria, nella lettera al marchese Cesare d’Azeglio del 1823), non lo dimostra solo il facile passaggio del Savioli agli entusiasmi per la rivoluzione di Francia, ma anche lo spirito di vagheggiamento e quasi di complicità che egli assume nelle tematiche erotico-galanti della “dolce vita” settecentesca, fra damine e cavalier serventi: come si è detto, solo nella canzonetta All’ancella egli previene il Parini anche nel tono ironico-satirico; pel resto egli descrive, partecipe e compiaciuto.
Tonalità liriche. Abbiam dedicato spazio notevole all’arte del Savioli; lo abbiamo proclamato superiore ad Ovidio e non lontano da Orazio. Ma tutto questo è dipeso dalla presenza assorbente della mitologia e del mondo antico tra i suoi motivi ispiratori; dal suo linguaggio e musicalismo, che preludono al neoclassicismo e si situano anzi nello stile “rococò”, termine che è ormai usato anche per quella parte della letteratura, specie in Germania, Inghilterra ed Italia, che prelude al neoclassicismo. Questi scrittori (che col Lessing ed il Pope comprendono anche il Parini) puntano sulla “medietà” sia emozionale che stilistica, cioè su una misura di sobrietà ed eleganza, che si tien lontana dai toni grandiosi (pindarici) come da quelli teneri (metastasiani), per trincerarsi nelle emozioni che oscillano fra la contemplazione pacata e la drammaticità contenuta; e che cesellano con raffinata eleganza la propria espressione, aliena da ogni retorica come dal patetismo illanguidito.
Ma queste precisazioni han già lasciato intuire che il risultato lirico nelle anacreontiche savioliane non è gran che. E’ vicino, il risultato, al più solito[61] Parini de “Il Giorno”, ma nessuna strappa una piena sufficienza. Pur non rivolto all’ironia, il registro è leggermente più mosso, più vivace, più dramamtico di quello pariniano: vi si presagisce il Foscolo ed il Neoclassicismo. Vi è dunque una chiave drammatica sullo sfondo, che prevale sulle aperture idilliche, sulle parentesi elegiache (e sulle forzature retoriche, cui tenta innalzarsi talora il registro drammatico). E si può sospettare, a questo punto, che l’incontro di tali molteplici intenzioni-emozioni conduce alle dissolvenze incrociate, perchè la vena drammatica avvizzisce l’idillio e spegne la elegia che sono il corredo più tradizionale dell’amore petrarcheggiante. C’è disarmonia fra “cervello pensante” e “cervello musicale”, fra la intenzione, arcadica, del tema e la espressione, “rococò”, ritmata su note limpide e cristalline anzichè su accordi teneri e morbidi. O, come abbiamo documentato a sufficienza per i verseggiatori secentisti, vi è contrasto fra due o più motivi ispiratori e, conseguenza, fra il vortice di emozioni che ne discendono e, infine, tra i fattori discordi della tecnica espressiva. Di quest’ultima ci occupiamo subito.
Notazioni stilistiche. Ecco come concorrono fra loro, elidendosi i due motivi ispiratori di fondo, amore e mitologia. L’amore, fromalmente primario, è la sorgente di quella cordialità espressiva che affiora qua e là; la prospettiva mitologica, in cui viene immerso, dona quella patina di antichità e di nobiltà, di elevatezza ed atemporalità che smorza i sentimenti nell’eleganza e raffinatezza della forma. Nel Monti, tale appello alla mitologia desterà soltanto l’imitazione arida, anche se altisonante e presuntuosa; nel Parini, tale affabulazione susciterà l’estro di nuovi miti, , di favole morali che tanto più sferzano moralmente il “giovin signore”, quanto più sembrano innalzarlo in una sfera olimpica e sovrumana; nel Foscolo il mito greco sarà finalmente assoggettato all’agonia di un cuore incontentabile, sublimandone aspirazioni ed illusioni, dubbi e negazioni ad altissima poesia.
La musicalità del Savioli è degna di nota, perchè singolare. Benchè egli puntasse su Ovidio, in realtà il suo musicalismo è più vicino a quello di Orazio e di Parini. Il vocabolario si equilibra fra sostantivi astratti e concreti: e siccome quelli astratti sono in numero minore (coincidono solitamente con le parole sdrucciole aritmiche), ecco che quelli concreti, per adempirea ad una funzione di stilemi raffinati, sono scelti lungo una cadenza armonica levigata, elegante, elitaria. Tenendo presenti le due canzonette La Felicità e La Maschera, presentiamo un elenco che ci pare significativo: occhi, lacrime, urne, arene, ceneri, volto, vesti, manti, rose, faccia, fronte, bipenne, ali, fiori, polveri, gemme, nei, acque, collo eburneo, crine, teatri, sole... La aliquale banalità della rima piana è riscattata dalla sonorità eletta e scorrevole e dal vocabolario lucido e levigato. La “colonna sonora” del Savioli anticipa quella del Parini: impianto vocalico saldo (A|O prevalgono su I|U; la “I”, spesso ictata, assume vigore, mentre la “U” è quasi assente); struttura consonantica raffinata per la sproporzionata frequenza di liquide, nasali, sibilanti dolci e fruscianti (“F|V”), pur nella presenza di gruppi stridenti (“SCH”|STR|SP...:si veda l’ultima strofa dell’Amica che lascia la città: estrania, biechi, vestano, spoglie, Psiche, destrier...).
L’ambiguità della ispirazione (realtà del cuore-mito della reminiscenza) si riflette, dunque, puntualmente nella dissolvenza lirica (idillio-dramma) e nella ambivalenza musicale (vocali forti, consonantismo prevalentemente dolce).
Giovanni Fantoni (1755-1807).
Nato a Fivizzano (Massa Carrara) da famiglia nobile, studiò presso i Benedettini a Subiaco e presso gli Scolopi a Roma. Passò poi a Torino, per intraprendervi la carriera militare. Ma ecco il primo sfaglio di una vita movimentata: per debiti, subisce la prigione e deve abbandonare i sogni di gloria nella milizia. Intanto, però, a soli 25 anni è chiamato a far parte dell’Arcadia, per varie composizioni poetiche: assume il nome di Labindo Arsinoetico. Invitato a Napoli dalla regina Carolina (1785), dovette venirne via per la ostilità di lord Acton.[62] Manifestava tendenze troppo avanzate e, difatti, aderirà ben presto alle idee della rivoluzione francese: fu attivo in Emilia. A lui si deve l’inno scritto per i ragazzi di Modena, col famoso proposito. “Noi siamo piccoli|, ma cresceremo| e pugneremo| pel patrio suol....”. Ma il temperamento, eccetto che nei casi in cui intervenga la coscienza ad inibirne alcune manifestazioni chiaramente percepite come immorali, non si smentisce: si urtò anche con i Francesi, perchè troppo disinvolto assertore della libertà d’Italia, contro le misure imperialistiche che il Direttorio imponeva di fatto, ad onta degli ideali libertari sbandierati. Fu in prigione a Modena, Torino, Milano e Grenoble, ma fu lasciato libero di partecipare alla guerra contro gli Austro-Russi al comando di Joubert e Massena (André). Ottenne la cattedra di eloquenza a Pisa, suscitando però un nuovo inghippo: non dissimilmente dal Foscolo a Pavia, dopo pochi mesi fu rimosso dall’incarico, per la troppa politicizzazione che- agli occhi dei francesi- egli imprimeva alle lezioni. Tornò in patria a finirvi i suoi giorni, fatto segretario, prima e, poi, a pochi mesi dalla morte, presidente della Accademia eugeniana delle belle Arti.
Le Poesie contengono poemetti, anacreontiche, odi... Uscirono in varie edizioni, di cui l’ultima e più completa, in tre volumi, fu curata da un nipote nel 1823.
Motivi ispiratori. L’altalena della sua vita pratica si riflette implacabile nella sua mentalità, ideologia, atteggiamento intellettuale di fronte alle varie tematiche prese a soggetto di canto. Sembra che non riesca a svolgere nessun argomento con coerenza e serietà definitiva. Inizia solitamente con batteglie, eroi, rivoluzioni, conquiste, argomenti politici, ecc. , ma finisce sempre per rincattucciarsi nell’atteggiamento del “dimentichiamo e ritiriamoci nell’angolino della modesta ma sicura felicità del desco conviviale, della contemplazione paesaggistica, della fruizione amorosa”. Accenna a temi filosofico-politici molto più spesso che non Giosuè Carducci o Giacomo Zanella (per citare subito due poeti che devono non poco al Fantoni o che, comunque, si sono trovati a poetare sulla stessa sua scia), ma la conclusione è quella di Orazio, Odi, I, 7,[63] cioè un ripiegamento su posizioni epicuree, di scetticismo disimpegnato: la pace arcadica, i brindisi agresti, gli amori liberi e libertini. Ecco un esempio, dall’ode “A Odoardo Fantoni, sul duplice merito, politico e scientifico, di Beniamino Franklin” “Vuotiam, Fantoni, nove tazze al nome| e alla salute dell’eroe; festose| cetre agitiamo e incoroniam le chiome| d’apio e di rose”: è un motivo che ritroveremo riecheggiato e quasi plagiato in Carducci, ma poco ha a che fare con l’eroe cantato.
Si vuol dire: se a livello musicale Fantoni affascina e trascina, sul piano delle idee egli è una delusione: il panorama che non esita ad ampliarsi alle vicende dell’Europa, dell’espansione inglese in India e della rivoluzione americana, viene ad un certo punto emarginato per un meschino ripiegamento su un autobiografismo borghesuccio e gaudente. E la evanescenza della tematica avrà riflessi e paralleli nel gioco delle tonalità emotive e della tecnica stilistica. Tale contrasto fra la grandiosità dell’impianto iniziale vuoi ideologico, vuoi musicale e la pochezza delle sue conclusioni etico-esistenziali deve essere stato all’origine dell’oblio che ha coperto il Fantoni durante l’epopea eroica del Risorgimento e che lo tiene tuttora più ignorato del suo merito artitstico. Evidentemente il critico serio e l’intelligente fruitore di poesia chiedono al letterato anche qualche ideale per cui impegnarsi, qualche valore per cui entusiasmarsi, proprio grazie ai versi ed alla musica: nel Fantoni egli incontra solo spunti iniziali di tale natura, che però recedono nel corso della composizione, risultando solo miraggi e fate morgane. Alle promesse di grandi problematiche , di altisonanti argomenti ispiratori segue puntualmente il banchetto di cibi succulenti, di vini prelibati, l’aspirazione ad amori consolatori o peggio: l’effimero è la fine di tante magnanime intenzinalità.
Tonalità liriche. L’epopea si addice ovviamente all’apertura delle composizioni fantoniane: vi si impostano grandiosi motivi, che coinvolgono la filosofia e la politica, Francia e Spagna, Inghilterra ed America. Ma anche molte descrizioni paesaggistiche sono intonate su registri altisonanti: sono precarducciani per la sostenutezza, il calore, la forza, tanto che, se si prescinde dal capolavoro della “Conchiglia fossile”, il valore medio dei versi di Fantoni è superiore al risultato solito di quelle dello Zanella (mentre rimane al di sotto della poesia media carducciana).
Nella seconda parte delle poesie, là dove l’argomento scade nel domestico, nella rinuncia alla “cura dei pubblici negozi” per rincattucciarsi nell’ozio dell’amicizia, quiete e feste conviviali, ebbene, anchè lì penetra e si mantiene accesa la fiaccola del vitalismo epico, anche se evidenteemnte il dissidio (fra modestia del contenuto rinunciatario e congeniale musicalismo stentoreo), attenua l’efficacia della espressione: vi è cotrasto fra la musicalità grandiosa e la pochezza dei propositi. E’ questa la sorpresa cui mettono di fronte i versi fantoniani: su un “vuoto di idee”, riesce a prender corpo un’onda musicale cordialmente calorosa, tenorile, una orchestrazione corale che intona a piena voce un testo frivolo arcadicamente od orazianamente dimesso. Il risultato è che la musica continua a piacere, ma l’insieme della poesia non soddisfa.
Questa tonalità maggiore è quella consueta del Fantoni, ma non l’unica. Vi è posto per l’idillio puro (Per la pace del 1783| finale della saffica Ad Odoardo Fantoni); oppure per un miscuglio indiavolato di idillio ed epopea (saffica A Fillide siciliana| saffica A Vincenzo Corazza): un piglio lieto e potente che ritroveremo in Carducci. Variazioni di tonalità più vicine al dramma (tragedia minore) e addirittura alla elegia si alternano all’epopea ad esempio nel’ode A Venere (sistema giambico secondo) e Ad Apollo (saffica).[64]
Notazioni stilistiche. Fantoni è il poeta che ha ridato naturalezza, scioltezza, ovvietà ai metri latini nella lingua italiana, tanta è la profusione e la padronanza delle imitazioni metriche. Ma le trasposizioni in lingua toscana suonano “barbare”, come con piena coscienza del fenomeno, dirà Carducci. La mancanza del senso della “quantità” (breve o lunga) delle sillabe rende praticamente impossibile la aderenza completa del verso neolatino al ritmo dei nostri padri greco-romani, salvo che nella “saffica minore”, visto che in latino si hanno tre endecasillabi ed un quinario con accenti che possono essere riprodotti anche in italiano. Ma attenzione, tra la varietà notevole delle accentuazioni nell’endecasillabo toscano, la aderenza al sistema saffico obbliga ad usare solo endecasillabi piani (non sdruccioli, non tronchi); endecasillabi per di più formati da una prima metà di cinque sillabe che non possono elidere con la prima del senario seguente, sempre piano, che completa le undici sillabe.[65] Per i versi degli altri schemi strofici, il Fantoni rimedia a suo rischio, in realtà reinventando versi, che si limitano ad orecchiare, cioè sono ispirati solo complessivamente alla metrica classica antica. Suo maestro primo è Orazio, onnipresente. Addirittura la saffica A Giorgio Viani è non solo imitazione ma, in parte, traduzione di Odi, II, 16. Pure, egli impiega anche il sistema giambico secondo, che non trova esempi in tutta la lirica latina: sa rifarsi direttamente agli esempi greci.[66]
Il vocabolario è aulico, eletto, raffinato: ma non puntigliosamente.
La “colonna sonora” del Fantoni è congeniale a quella del Craducci. Si trovano vocali piene, larghe in posizione ictata e la “A” è più frequente della “O”. Fra i dittonghi, “AU” è molto usato. Non mancano “E|I|U” anche in posizione accentata , ma sono meno frequenti. A bilanciare la robustezza di simile impianto vocalico, stanno i frequentissimi sdruccioli, che imprimono movimento, dinamismo, vivacità ed eleganza alle composizioni: questi sono espressione dell’idillio e della componente lietamente drammatica di cui si è parlato.
L’impasto consonantico più solito è equilibrato, adatto ad esprimere ogni registro melodico, ma nelle poesie liricizzate specificamente (idillio, notazioni drammatiche od elegiache, come in A Venere| Ad Apollo| Per la pace del 1783) la caratura delle consonanti si adegua notevolmente al lirismo: attenuandosi, nell’idillio; assumendo striature dissone, nel dramma.
I PREROMANTICI
In L. Savioli ed in G. Fantoni ci siamo imbattuti nel groviglio inestricabile di arcadia e rococò-neoclassicismo: ora, con Aurelio de’ Giorgi Bertòla, con Diodata Roero Saluzzo, con Ippolito Pindemonte e con Alessandro Verri dobbiamo fare i conti con poeti arcadi, inclinati al romanticismo, che essi presentono e precorrono. Questi scrittori confermano la più volte asserita verità: non esistere scuole di poesia, se non in senso “relativo ed accomodato”: esistono cioè i poeti, che tanto più sono grandi, tanto meno sono classificabili in “scuole”; che, anche se minori o minimamente artisti, possono possedere un viraggio emotivo del tutto personale, salvo a condividere, poi, tutti l’atmosfera culturale e sicuramente anche tecnico-stilistica della loro epoca. Nel nostro caso, l’Arcadia serve da comodo punto di riferimento sia per gli schemi metrici, sia per una certa frivolezza e tenerezza, puerilità e gentilezza, eleganza e galanteria (“il vello pastorale”) che costituisce il minimo comun denominatore di almeno alcune composizioni in pressochè tutti i poeti del secolo decimottavo, eccettuato l’Alfieri. Al di là di questo precario legame (il “vello” si riduce facilmente a “velo” pastorale), ogni artista costituisce un mondo a sè, che non può prescindere dalla propria costituzione neurobiologica, dal proprio temperamento ed intelligenza. Così la “Gestalt” congeniale avrà sempre il sopravvento sull’ambiente (behaviour), sebbene la componente socio-culturale si imporrà tanto meglio, quanto più scarsa è la “personalità” o genialità dell’artista. Le scuole, le fanno i “mediocri”: il genio è sempre solo, inventore, sulla cresta di quell’onda che crea lui stesso.[67]
Aurelio De’ Giorgi Bertòla (1753-1798)
La vita. Nato a Rimini, ritornò monaco olivetano, dopo esserne fuggito per un tentativo infelice di vita militare: fu in Ungheria, ma dovette prender atto della propria incompatibilità con la milizia. Dapprima insegnò a Monteoliveto (Siena), scrivendo le Notti clementine per la morte di papa Clemente XIV (1775). Fu, poi, titolare della cattedra di storia e geografia nell’Accademia marina di Napoli (1776), dove rimase fino al 1783: vi scrisse i suoi versi migliori (Addio a Posillipo). Non divenne, però, sacerdote e, incapace di requie e disciplina, ottenne la riduzione a semplice “abate”, cioè ad ecclesiastico coll’obbligo del celibato, ma libero di dimorare fuori convento e di possedere ed usare beni economici. Per raggiungere un tale compromesso trovò un protettore che intercedette per lui, il nunzio apostolico a Vienna, mons. Giuseppe Garampi: egli si era recato là per approfondire la conoscenza della letteratura tedesca. Nel 1784, grazie alla pubblicazione delle Lezioni di storia tenute a Napoli (1782), fu nominato professore di “storia universale” all’università di Pavia. Nel frattempo aveva pubblicato anche versi che nel 1782 confluirono nelle Poesie di Ticofilo Cimerio (era il suo nome in Arcadia); del 1783 sono le prime trentaquattro Favole (in versi). Innamorato e studioso della produzione letteraria germanica, si era spontaneamente sintonizzato cogli “Idilli” del poeta zurighese Salomon Gessner, che egli andò a visitare nel 1787, pochi mesi prima che questi morisse. Ne imitò gli “Idilli”. Questo non gli impedì di accostarsi alla poco idillica rivoluzione francese e di pubblicare le Idee di un repubblicano ai suoi concittadini che lo avevano richiesto di un piano di pubblica istruzione: lo scritto esce a Rimini, perchè il Bertòla, vacillante nella salute, era rientrato in patria, dove sarebbe morto l’anno successivo (1798).
Le opere. In versi: Poesie di Ticofilo Cimerio (1782)
Favole (130, nella edizione definitiva )
Notti clementine (1775: si ispirano ai “Night Thoughts” di Edward Young, pensieri notturni sulla vanità delle cose umane, nascenti dalla contemplazione delle tombe).[68]
In prosa: Lezioni di storia (1782)
Della filosofia della storia (1787)
Idea della poesia alemanna (1779)
Idea della bella letteratura alemanna (1784)
Viaggio sul Reno e dintorni (1795: l’opera in prosa di maggior rilievo)
Saggio sopra la grazia nelle lettere ed arti (postumo, 1822)
Il pensiero. Il Bertòla, dunque, si accostò all’Illuminismo come pensiero, facendo anche parte attivamente della Massoneria e preparando così il terreno alla rivoluzione francese. Non c’è da meravigliarsi, chè anche la sua condotta ed il suo poetare non erano coerenti colla legge cristiana: vita galante, fantasia libertina, canto erotico.[69] Pure, gli rimase abbastanza buon senso da condannare certi effetti della nuova cultura. Nella sua favola La toletta e il libro attribuisce alla lettura delle opere “illuminate”, aggiornate, moderne, l’effetto dell’accresciuta pazzia nella donna (“Ah un mese è appunto| ch’è più pazza che non era!”).
Il Bertòla si è preoccupato delle leggi che governano il progresso-decadenza dei popoli: è il primo in Italia che scriva un’opera intitolata “Della filosofia della storia”, un libro fortunato, tradotto in francese ed in tedesco. Egli trova in Machiavelli ed in altri italiani (il Paruta, l’Ammirato, il Boccalini) gli iniziatori di questa scienza; vede all’estero i suoi sviluppi (Jacques-Bénigne Bossuet, Montesquieu...); tra i moderni, cita Carlo Denina (Delle rivoluzioni d’Italia) come filosofo inconscio della storia, mentre non stima molto il Condillac, il D’Alembert, il Mably (Gabriel Bonnot de: 1709-85) e... non conosce il Vico! Analizza la storia antica (del M. Evo ha un concetto degno del secolo: “la barbarica notte”), tentando di ricavarne leggi universali. Distingue tra “cagioni”, “mezzi” ed “effetti” nel cammino della storia. Ma non si pone il problema della distinzione fra “cause” (operosità umana: istituzioni civili e religiose, governo, leggi, saggia politica, costumi) e “condizioni” (esterne all’uomo: il clima, ad esempio).) E non separa le “cagioni” ovvero i “mezzi” del solo progresso da quelle del solo regresso (tra i “mezzi”, infatti, accanto al commercio, alle arti, alle scienze ecc. vi sono anche le guerre...). Ne consegue che gli “effetti” possono essere i più contrari: epoche di floridezza, di conquiste, di decadenza, di rivoluzioni, di rovine! D’altronde, è bravo chi sa distinguere, come fa lui, le “cagioni” ed i “mezzi” della storia! Mancava, dunque, di profondità di vedute e di coerenza. Ma egli prepara il terreno a Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), che con più acume indagherà su questa problematica nella sua opera “Dell’indole e dei fattori d’incivilimento” (1832).
La poetica. La sua concezione dell’arte tenta conciliare la spontaneità preromantica e il modo di poetare del congeniale Gessner con le esigenze di armonia winckelmanniana (eleganza neoclassica). Rifiuta il concetto di “orrore” romantico, diffida di Shakespeare, rifugge dal “Goetz von Berlichingen” del giovane Goethe. Eppure è filorussoiano, favorisce il sentimento ed è favorevole in particolare alla malinconia, a ciò che commuove. Non attinge, quindi, un concetto univoco di poesia, che valga per ogni scuola e per ogni poeta. La poesia, l’arte rimangono per lui “il sempre invan dell’arte| tentato non so che”. A conferma di tale disorientamento ed indecisione, sta il suo vocabolario, che parla di “sentimento furtivo, furtiva grazia, finezza, gentilezza, delicatezza, voluttà, lepidezza” e vuole che la poesia sia fresca, leggera, innocente. Siamo, a ben guardare, sulla linea della “armonia” del primo Millecinquecento.
La poesia. Delle sue prose, meriterebbe un’analisi il Viaggio sul Reno, perchè è opera subpoetica, che rischia di fare di lui il primo scrittore paesaggista della nostra letteratura in prosa. Ma non si giunge al fascino della pagina sufficientemente, sicuramente poetica.
Nei suoi versi possiamo distinguere le Notti clementine, le liriche (odi, canzonette, ottave, sestine, terzine, sonetti) e le Favole. Nelle Notti clementine (1775) imita, dunque, lo Young, ma d’istinto stempera nella tenerezza patetica l’elegia, mescolandola con l’idillio innato e togliendo quanto vi era di ossessivo ed eccitato nel poeta inglese. Le parole “lugubre, orrore” ritornano anche nel Bertòla, ma in un contesto dolce e soave.
Per le liriche, riportiamo anzitutto le strofe finali de La Sera, su cui poi ragionare:
Ecco su rosse nubi fra quelle pietre stan Sì disse Ermindo, e al sasso
dall’alto Espero vien: pendenti e rotte Nirea s’avvicinò;
a quella luce in sen Anch’io (memoria ingrata!) e lesse e sospirò
nascoso è un nume (Venere); vissi notturno augel, su’ segni mesti.
quel che dagli occhi tuoi quando sott’altro ciel Indi a quei sassi il grembo
esce possente stral passò Nirea. di propria man segnò:
ebbe il suo dì natal Solo al cader de l’ombre Nirea fedel tornò
dentro quel lume. io qui volgea il piè; su queste sponde;
Ecco i notturni augelli, e questo mar con me vive d’Emindo al fianco
nemici all’aureo sol rauco gemea. di due s’è fatto un cor;
alzan gracchiando il vol Guarda quei sassi,o cara; scrisse; e quei segni ancor
lungo le grotte; v’è scritto il mio dolor rispettan l’onde.”
mira la cima alpestre ah! ve lo scrissi allor;
del masso più lontan: vuoi che vi resti?
Ci pare che queste strofe bastino a confermare l’ispirazione plurivalente (amore dolce e triste, pungente e letificante, deludente e amaro) cui si è accennato qua e là: il tema amoroso è ambiguo, perchè prende le mosse dalla situazione di Ermindo, abbandonato dell’amata Nirea, ma conclude felicemente con il ravvedimento e la rappacificazione.
Toni lirici: non si tratta nè di elegia pura nè di ididlio sereno: nelle strofe liete come in quelle deluse, si insinua prepotente una variegazione drammatica, di sofferenza risentita, di dramma incipiente anche se non tragico. La conclusione, a livello emozionale, è purtroppo, la costatazione di una dissolvenza incrociata: fra i troppi litiganti, nessuno gode. Raramente riesce al Bertòla di liberarsi da un simile equivoco: allora una vena di poesia sufficiente si accende. Imitando, ad esempio il Vittorelli, scrive due quartine su Gli occhi (“Guarda il color del mare,| guarda il color del cielo;| ah quell’azzurro velo| quanto somiglia a te!|| Somiglia alle tue luci| così pietose e care;| ma cangia il cielo e il mare;| tu cangerai per me?”) che ridestano, in parte almeno, la soave tenerezza di “Guarda che bianca luna”.
E, visto che il dramma è una costante nella musa del Bertòla, gli riesce il tono satirico in qualcuna delle Favole che trova la coerenza della ispirazione nell’intento di critica, di condanna, di derisione malevola: cosa, però, difficoltosa all’animo instabile,variabile ed incerto del poeta. Pure si addìta Il Cocchio come un caso del genere. Si tratta di un quadretto, di probabile ispirazione pariniana (parte finale de “Il Mezzogiorno”), che inizia dapprima soltanto mosso, ma procede, poi, insinuando il sospetto della canzonatura, del doppio senso delle parole; finisce scopertamente e pungentemente satirico. E’ come se il poeta dicesse “Quanta species! Cerebrum non habet” (Quanto è bella: peccato che non abbia cervello!), perchè la dama sta recitando la commedia “Molto rumore per nulla: Much ado about nothing”...
E veniamo allo stile. Anzitutto, alle spalle del Bertòla stannoTibullo e Petrarca, Tasso, Marino, Metastasio, alcuni poeti preromantici come Thompson (James: poeta scozzese, 1700-1748) e Gessner; ed il Rousseau. Una seconda osservazione marginale: mentre nella teoria, espressa nei suoi scritti di poetica e di critica letteraria, egli dà molta importanza al legame tra poesia e pittura, fra parola e disegno, in realtà, nonostante la spontanea sintonia con gli Idyllen del Gessner, la componente paesaggistica non ha riflessi nel Bertòla: colori e disegno non hanno nei suoi versi quella risonanza che gli attribuisce la sua povera teorési estetica.
Quanto alla musicalità, le strofette citate denunciano la tracimazione della molteplicità incongrua dei motivi ispiratori e dei toni lirici alla tecnica espressiva. Sia il vocabolario che la sonorità, cioè, sono ambigui anch’essi, come la resa lirica e le premesse ideali. L’abate galante e patetico frequenta di preferenza motivi tenui e delicati, dolci e teneri, ma li esprime con una concertazione incoerente, che vede suoni forti e impertinenti controbilanciare se non superare quelli dolci e soavi: invita alla contemplazione, ma la disturba lui stesso con dissonanze incongrue. Le vocali forti “A|O” prevalgono sulle deboli “I|U”, che pure i temi arcadici ed amorosi preferirebbero. Nelle dieci strofe, le vocali finali ictate non presentano alcuna “I”, tre sole “U”, una dozzina di “E” e quasi il doppio tra “A” ed “O”. Quanto alle consonanti, le liquide, le nasali e le fruscianti sono frequentissime, ma in contesto per loro elidente: le “R” stridono quasi sempre per accoppiamento con dentali e sibilanti; le “S” sono spesso raddoppiate e, quindi, inasprite; nasali e liquide sono dimezzate dal trovarsi in finale di parola tronca ed accentata (specie in rima); la frequenza di labiali (esplosive), gutturali e gruppi stridenti (STR|SCR|GR|SP|TR...) equilibrano la musicalità, che alal fine impressiona nel senso della forza e rudezza per altre componenti espressive. Ad esempio, le sdrucciole sono pressochè bandite (solo i due aggettivi “rosee|aureo|”) dal suo vocabolario, mentre le tronche dilagano, perchè i due versi centrali delle quartine sono sempre tali. Ancora: la scelta delle parole privilegia bensì quelle astratte o vaporose (nubi, luce, nume, ombre, volo...) o le rende tali con scrittura raddolcita (augelli, sen, stral...), ma inserisce poi dei termini concreti così forti e realistici (occhi, grotte, piè, pietre, mar, sassi, fianco, cuor, rauco, rotte,) che non solo equlibrano l’eleganza delle prime, ma offendono l’orecchio e spengono ogni insorgenza idillico-elegiaca. Gli stessi nomi dei protagonisti (Ermindo, Nirea) sono alquanto prosastici, almeno per un mondo arcadico, ove l’amore è concepito in ambiente di tenerezza e di dolcezza. La musicalità è coerente, quindi, con la...incoerenza dei motivi ispiratori e dei velleitatri toni lirici. E la sua letteratura è congrua con la sua vita pratica: la inclinazione alla vita frivola e raffinata, elegante e piacevole si trova sintonizzata alla fine con la rivoluzione sanguinaria, con la violenza tirannica, con la prepotenza bestiale. In Bertòla la dissonanza lirica è segno di una discordia psicologico-culturale: è il frutto di una natura nevrosica, che non ha saputo equilibrarsi con una educazione intellettuale e morale adeguata.
Vorremmo infine notare come l’uso della mitologia e dell’aggettivo “divino” per cose ed azioni (gli uomini vengono addirittura chiamati “dio”, cui si fa adorazione e si elevano altari, come egli vorrebbe per il Metastasio) lascia il sospetto che la drastica equiparazione del mitologismo neoclassico con la idolatria, avanzata dall’onesto Manzoni nella sua lettera a Cesare d’Azeglio sul Romanticismo, nel 1823, non era frutto di una coscienza scrupolosa, quanto il pericolo vero od ormai la posizione reale, propri di certa parte dei letterati, nella seconda metà del Millesettecento in Italia. Questi poeti sono ormai postcristiani e fondamentalmente irreligiosi: anche se abati ed ex-monaci...
Diodata Saluzzo Roéro (1774-1840).
Nata a Torino da nobile famiglia, nel 1774, sposò nel 1799 il conte Massimiliano Roéro di Revello, ma ne rimase vedova solo tre anni dopo. Aveva già scritto un poema di ottave in 24 canti (Le Amazzoni: 1792) ed i Versi (1796)[70] che le avevano attirato le lodi dei poeti più in vista del tempo, dal Parini al Cesarotti, dall’Alfieri al Foscolo, dal Monti al Pindemonte. Il poemetto Rovine era stato stimato, da Ludovico Di Breme, opera tipicamente romantica. Fu accolta in Arcadia col nome di Glaucilla Eurotea. Scrisse poi due tragedie (Erminia| Tullia) ed un poema (Ipazia, ovvero della filosofia: 1827). Nel 1830 pubblicò otto Novelle, di argomento per lo più medioevale.
In questa poetessa, il classicismo della forma si fonde con la sottile venatura melanconica e drammatica, di spiritualità romantica. Così, ad esempio, il poemetto Rovine unisce la forma saffica alle suggestioni di orrori ed errori medioevali, ipotezzati in presenza dei ruderi di un antico castello. Così pure, il sonetto Alla chiesa di Superga rievoca, a contrasto, la felicità della passata giovinezza e la miseranda condizione del presente, unendo alla propria infelicità personale quella per il Piemonte schiavo della Francia (1813). Ma il tono elegiaco è eliso dallo stile sostenuto: l’incertezza fra l’epopea della magnifica chiesa dello Juvara (Filippo: Messina, 1678-1736), l’idillio della giovinezza fiduciosa e la elegia delle attuali miserie si intralciano a vicenda, sovrapponendosi in dissolvenza. Un altro esempio di simili corrosive complicazioni è il sonetto consolatorio All’amica (Faustina Maratti Zappi: questa le aveva scritto “Muse, poichè il mio sol gode e desia” in occasione della morte di Massimiliano): il richiamo ai comuni lutti, alla comune miseria ed alla sola rivalsa che è Dio, è contrastato stilisticamente da una espressione robusta e sostenuta: la tristezza è detta e comunicata intellettualmente (lingua, codice, paradigma), non sentita e trasmessa emotivamente (parola, messaggio, sintagma).
Ippolito Pindemonte (1753-1828)
La vita. Nacque a Verona da famiglia agiata e seguì gli studi classici: il contatto con i grandi autori (a cominciare da Omero) dovette servire ad equilibrare la sua personalità tendente al romanticismo. Potè viaggiare molto, sia in Italia (Roma, Napoli, Sicilia, Malta) che all’estero (fra il 1788 ed il 1789: Inghilterra e Francia). Per tale possibilità di peregrinazioni culturali, il Foscolo che a lui dedicherà i “Sepolcri”, lo invidia: “Felice te, che il regno ampio de’ venti,| Ippolito, ai tuoi verd’anni correvi...”). Durante il suo soggiorno a Parigi, si entusiasmò per gli inizi della rivoluzione. Gli eccessi e gli orrori che l’accompagnarono ben presto, lo disillusero del tutto: si ritirò a Verona e non si commosse neppure per le vittorie napoleoniche. Approfondì, anzi, i valori tradizionali della fede e oppose un suo carme a quello del Foscolo, con lo stesso titolo ed argomento, ma, ahimè!, con troppo inferiore potenza poetica. Fu membro dell’Arcadia, col nome di Polideto Melpomenio. Morì nel 1828,come l’altro grande traduttore di Omero, Vincenzo Monti.
Le Opere. Si lasciano distinguere in (prevalentemente) classiche e (prevalentemente) romantiche. Fra le prime vi è la traduzione dell’Odissea in endecasillabi sciolti (1822), preceduta nel tempo dalle Epistole (1805), da I Sepolcri (1807: risposta al Foscolo), dai Sermoni (1819). In tutti questi lavori, forme neoclassiche avvolgono valori romantici ed il tutto non convince: è letteratura elegante, dignitosa, ma fredda, non emotivogenetica. L’ispirazione di tipo romantico è più felice, perchè congeniale: Poesie campestri (1788: la più famosa ha per titolo Melanconia); Prose campestri (1795), Novelle in versi (Antonio Foscarini| Teresa Contarini| Lettera di una monaca a Federico IV| Sul ritorno del capitano Parry); Tragedie (Arminio| Annibale in Capua).
La individualità. Appare, dalle poesie, un introverso, timido, non attivo, discretamente emotivo e stabile. Fu, a nostro parere, un sentimentale ( emotivo- non attivo- stabile o secondario), distonico (a prevalenza vagale o parasimpatetica), di tipo flebile o melanconico. Dotato di fantasia musicale discreta, fu carente in quella visiva e più ancora in quella cinestetica. L’intelluigenza fu mediocre: platonicamente incline ad intuire confusamente i grandi temi dell’esistenzialismo (senso della vita e sua finalità), piuttosto che ad indagare aristotelicamente e cartesianamente le realtà tutte, nel loro essere, prima che nel loro divenire. Con Platone e Leibniz, è più portato a soffrire ed a scavare nei problemi collegati col finalismo della vita e dell’umana storia, piuttosto che a ricercare le cause efficienti del cosmo e della natura tutta (dai minerali agli umani).
La POESIA. I Motivi ispiratori. Vasto, quantitativamente, è il suo orizzonte poetico. Dalla storia (tragedie) alla cronaca (Novelle in versi), dagli argomenti morali (Sermoni| Epistole) alla filosofia esistenziale (I Sepolcri), dalla mitologia (Odissea) al paesaggio ed alla natura (Poesie| Prose campestri). Ma i soli temi, pei quali si esprime con un plus-valore emotivo sono o quelli strettamente autobiografici o quelli in cui gli riesce di trasfondere (incarnandolo in un personaggio che sia proiezione del suo io incerto), la sua psicologia oscillante, la propria sensibilità, interessata sino alla sofferenza per le tematiche religioso-morali. Si tenga presente in particolare, la Lettera di una monaca a Federico IV (re di Danimarca), in cui il conflitto di coscienza diventa qualcosa di equivoco: un voglio-rifiuto della ancor giovane suora che, amata un tempo dallo stesso re, se lo trova davanti in convento, dove egli è venuto a farle visita. E’ una psicologia tutta romantica, che risente della “anceps pugna”, delle oscillazioni continue del Petrarca. Vi è un altro poeta, cui somiglia da lontano: il Tasso. Come lui, il Pindemonte riesce poeta quando proietta in altri personaggi la propria biografia interiore; manca, invece, al Pindemonte la capacità di dar movimento, azione, corposità tridimensionale al suo sosia: gli riesce solo di prestargli la parola.
Le sue cose migliori si trovano nelle parti autobiografiche delle Poesie campestri: soprattutto Melanconia si rilegge ancora volentieri. Egli inventa anche una parola nuova per questa tristezza compiaciuta, amica, accarezzata: “leucolia”, cioè “tristezza bianca”. Piace anche La solitudine e, fra le poesie in terza persona, la citata Lettera.
Le tonalità liriche. Dunque, un cantuccio di vera poesia c’è in Pindemonte e, nella sua sicura sufficienza, si caratterizza per il registro elegiaco. Nella “Lettera” l’elegia si complica di epopea, fino a bussare alla porta della commozione: la grandezza d’animo della suora, che finisce per deprecare l’incontro e sentirsi colpevole del solo ricordare, dà un colpo d’ala al pianto che mormora in fondo al cuore straziato. Si allea allora nel lettore l’ammirazione per il sofferto trionfo dello spirito con la compassione per un amore troncato, per una felicità illusoria ma tanto affascinante. Non si tratta di poesia sublime, ma, nella sua elementarità, anche questa composizione del Pindemonte invita alla rilettura pel suo fascino emozionale (che –lo vedremo- è la prova “barettiana” del plus-valore lirico per le opere letterarie). Eppure si tratta di una commozione sospetta, che cioè non convince completamente: le motivazioni di fondo non sono del tutto ragionevoli, perchè la volontaria monacazione avrebbe dovuto cancellare l’affetto e la tentazione della nostalgia ed evitare simili patemi d’animo (anzi, l’incontro stesso). Molto migliore si rivela il poeta, quando si abbandona alla sua tristezza inconsolabile (leucolia!) che gode di se stessa, perchè vien ritenuta una forma di nobiltà e superiorità d’animo!
Note stilistiche. Accenniamo solo al musicalismo, perchè il vocabolario non offre particolari sorprese: manca il classicistico appellarsi a termini greco-latini, rari, raffinati. E’ il vocabolario dell’uomo semplice, casalingo, cui solo la diuturna frequentazione dei classici permette di evitare la banalità.
Quanto alla musicalità essa è già tipicamente romantica, benchè le vocali siano presenti in misura equilibrata e non ve ne sia alcuna che prevalga chiaramente: strette, media e larghe si equilibrano. Se la “O” non è rara, la “U” la armonizza con frequenza superiore alla media. La “I” ictata fa sentire la presenza di una tensione drammatica, una battaglia interiore, una psicologia con un residuo dui sofferenza. Ma tale impasto vocalico, complessivamente equilibrato, è attutito da uan struttura consonantica dolce e tenera: liquide, nasali, fruscianti (f,v) prevalgono, come si addice ad un arcade. Ma attenzione: le nasali sono più numerose che le liquide; “C|G” palatali (dolci, dunque) sono frequenti al di là della media normale, così come “RN| RM| GL| GN| LL”: operano come una stoffa vellutata che attutisce quel tanto di sostenutezza che le vocali potrebbero insinuare.
Alessandro Verri (1741-1816).
Figlio di Gabriele e fratello di Pietro, di Carlo e di Giovanni, laureato in giurisprudenza, collaborò al Caffè con 32 scritti, editi postumi nel 1818 (Discorsi vari), il più famoso dei quali è quello intitolato “Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca”. E la grafia dell’epistolario (anche del fratello Pietro) è così carente (fra dialettismi lombardi, latinismi, francesismi ed incapacità a decidersi fra uso di consonanti scempie e doppie, abitualmente invertito), da giustificare il disgusto scandalizzato e contestatore del Baretti[71]. Iniziò le pubblicazioni in proprio difendendo le opere del Beccaria (lo scritto per “interpretare” “Dei delitti e delle pene” fu edito a Lugano ed accolto dall’autore come prefazione dell’opera). Accompagnò a Parigi il Beccaria nel 1766 e, ritornato questi troppo presto a Milano, proseguì da solo per l’Inghilterra, da dove nel 1767 passò direttamente a Roma. Qui rimase praticamente tutta la vita, sia per contrasti con la famiglia (sia il padre che il fratello Pietro erano dittatori nati), sia per le “delizie erudite” della città eterna, sia per l’amore alla marchesa Margherita Sparapani Boccapadule Gentile. A Parigi ed Londra aveva avuto modo di conoscere da vicino gli intellettuali più in vista e di osservare con spirito critico i loro costumi e quelli delle loro nazioni. Pur approfittandone lui stesso, della corruzione sessuale di Parigi, scrive: “I costumi qui sono certo maledettamente perverititi” (Lettera a Pietro del 19 ottobre 1766). Su D’Alembert scrive: “egli ama più parlare del basso ventre che della testa” (a Pietro, 2 novembre 1766). D’altronde, anche Pietro era contro la irreligiosità dei “philosophes” francesi (a Pietro, 25 ott. 1766). Già nel 1767 (lettera a Pietro, del 10 maggio) egli considera la persecuzione contro i geusiti come una ingiustizia, paragonabile a quella contro i Templari fra il 1307 ed il 1312, ad opera di Filippo il Bello. E, ad un certo punto, entrambi passano dalla simpatia ad ogni costo per Rousseau, ad un atteggiamento critico nei suoi confronti (Note di pp. 564-5 a “Viaggio a Parigi e Londra. Carteggio di P. e A. V., Milano, Adelphi, 1980). Nel 1792, egli giudicherà severamente la cultura enciclopedista, che aveva saputo solo distruggere senza edificare (a Pietro, 19 maggio).
Il distacco dal mondo illuminista si completò nel soggiorno romano, fino alla netta condanna della rivoluzione ed alla esaltazione dei valori cristiani, che egli difese anche nelle Notti romane. A Milano ritornò brevemente solo un paio di volte e il distacco fu provvidenziale, perchè gli diede motivo per mantenere un frequente Carteggio col fratello Pietro (che, da lontano, gli era carissimo): una corrispondenza molto sincera e realistica, che ci mette in contatto vivo con personaggi e vicende culturali del tempo. Dovremmo studiare il Verri tra i prosatori del secolo, perchè egli non ci ha lasciato opere in versi[72]. Ma la caratteristica preromantica è così forte nella sua opera maggiore (Notti romane al sepolcro degli Scipioni), che abbiamo preferito collocarlo in questa sezione. Non che tutto il Verri rientri in tale definizione. Egli espresse il suo mondo interiore soprattutto attraverso tre romanzi, ma di essi solo le Notti sono prevalentemente precorritrici della nuova cultura; negli altri due egli si rivela un classicista almeno velleitario (e, in ogni caso, inquieto), sia per i motivi ispiratori che per l’impegno stilistico. D’altronde scrisse anche due tragedie: una di argomento antico (Pantea) e una di argomento moderno (La congiura di Milano).
Accenniamo alle opere secondarie, prima di parlare delle “Notti”. Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene (1782) ebbe un notevole successo. Piacquero per la accurata presentazione delle “istituzioni” della Grecia antica (feste, cerimonie religiose, arte, costumi, ecc.): quanto alla tesi centrale, egli interpreta Saffo come donna superiore e di vita morale, che si suicida disperata per la mancata corrispondenza di Faone, suo unico amore. Per ultima venne la Vita di Erostrato (1793, ma edita solo nel 1815), preziosa per notizie storiche e archeologiche e per la introspezione psicologica. Questo cittadino di Efeso, infatti, giustiziato per aver dato fuoco nel 356 A. C. al tempio di Artemide (Diana) onde acquistarsi fama immortale, è immaginato come amante sfortunato ed eroe non riconosciuto: l’analisi del tormento interiore, che lo induce al misfatto come ultima risorsa per la sua ricerca ossessiva di gloria e notorietà, è uno dei pregi e delle attrattive dell’opera.
Ci si può chiedere se anche le Notti romane siano un romanzo (il terzo): manca infatti una trama ed un personaggio centrale. L’opera, uscita la prima volta nel 1792 comprendeva solo tre notti di colloqui tra i grandi dell’antica Roma, presso il sepolcro degli Scipioni sulla via Appia (il sepolcro era una scoperta archeologica del 1780): discutono sulla grandezza ed errori della Roma pagana. Nella seconda parte (altre tre notti), lo stesso autore guida gli spiriti magni di Roma antica a visitare la città moderna, rinnovata e segnata dal cristianesimo. Le parole di Cicerone con cui si conclude l’edizione del 1804 mettono un sigillo cristiano sulla finalità dell’opera: “Ogni vicenda di questa dominazione è così diversa dal consueto procedere d’ogni altra, ch’io, percosso da stupore, non ti nascondo ch’ella ha fragranza divina. Esulto perciò veggendo questa patria fiorire eterna, quasi mèzzo perpetuo scelto dalla provvidenza del cielo ad eseguire le più meravigliose vicende della terra”.[73] La terza parte è stata edita solo nel 1967! Ma l’opera ebbe un successo straordinario: cinquanta edizioni circa in quaranta anni, traduzioni nelle principali lingue d’Europa, traduzione in versi (terza rima!) ad opera di un abate Sanguinetti, letture popolari sino alla metà del Milleottocento, riflessi in opere della Stael, di Byron e di A.G. Schlegel, imitazioni ancora nel 1893 (“Veglie pompeane”, di Diego Vitrioli).
Il pregio dell’opera sta anzitutto nella intelligenza del Verri, che sa scorgere le varie facce (virtù e difetti) di un fenomeno così vasto e complesso come la più che millenaria vicenda di Roma antica; in secondo luogo vi è la solita, concreta ed ampia conoscenza della civiltà di cui parla attraverso i suoi protagonisti. Ma il pregio letterario più grande è la forma espressiva, che nella sua solennità e concitazione avvicina poesia e prosa, preparando quella prosa numerosa e quasi ritmica, cioè prosa liricizzata, che sarà propria dello Chteaubriand (François René de: 1768-1848) in Francia, del Foscolo (“Orazioni| Ultime lettere di Jacopo Ortis”) in Italia. Non c’è vera poesia, ma ne siamo sulla soglia, chè la sincerità dell’enfasi è innegabile
Le note preromatiche si saranno già intuite: sulla scia dello Young, egli si lascia avvolgere da quell’amore per le penombre notturne, quasi forma di minor materialità rispetto alle giornate piene di sole e di passionalità, quasi forma di spiritualismo nella vaghezza delle figure indefinite dei personaggi, intravisti nella oscurità della notte. Vi è, anzi, qualche concessione all’amore per il tetro ed il lugubre che dilagherà nel Romanticismo.
In conclusione, Alessandro Verri fu un vero uomo di frontiera: stile velleitariamente classico, retorica compresa, ma argomento romantico e fantastico; esaltazione dei valori cristiani ma interesse prevalente per i personaggi, la storia e la mitologia classica; nostalgia per il mondo passato, ma con presentimenti per una cultura in formazione e, quindi, avveniristica. Un miscuglio di intenzioni e velleità, che la sua vita pratica conferma, nella incapacità a vivere secondo quei canoni cristiani che egli pur esalta a parole, perchè la sua mente non riesce a non aderivi. Qualcosa, si noti, delle ambiguità, certo più sottili e sofisticate che, un secolo dopo, saranno rintracciabili in Alfredo Panzini con i suo romanzi classico-decadenti.
SCRITTORI DI PROSA ARTISTICA
I grandi della prosa sono tre “B”: Cesare Beccaria (già visto a suo luogo), Saverio Bettinelli e Giuseppe Baretti. Non si tratta solo di lingua moderna e quasi manzoniana, ma di una scrittura animata emozionalmente, scritta con trasporto affettivo e capace perciò di ridestare nei lettori gli stati d’animo da cui è stata dettata.
Saverio Bettinelli (1718-1808).
Mantovano come Virgilio, entrò a diciotto anni nella Compagnia di Gesù e insegnò a Brescia, Bologna e Venezia (dove divenne il punto di riferimento per i verseggiatori della città). Fu poi chiamato a Parma, come poeta di teatro al collegio dei nobili e come prefetto per l’Accademia degli “Scelti”. Aio dei figli del principe di Hohenlohe, visitò Italia e Francia, dove conobbe e si fece amico di Voltaire (fu durante questi viaggi che egli scrisse le “Lettere virgiliane”). Lo scandalo per la condanna di Dante (e la supponenza trbunizia dei suoi giudizi in genere) indussero i superiori a ritirarlo dall’incarico di Parma, per assegnarlo ad una casa di attività pastorali presso Verona. Insegnò, quindi e predicò a Verona per qulche tempo. Ma la soppressione della Compagnia di Gesù (1773) lo trovò professore di eloquenza italiana alla università e prefetto delle scuole di Modena. Tornò a Mantova, attendendo a pubblicare le sue opere. Dapprima ostilissimo ai francesi ed a Napoleone, dopo il 1793 vi si avvicinò e finì per essere eletto cavaliere della corona di ferro, membro dell’Istituto nazionale e del Collegio dei dotti della penisola! In Arcadia aveva nome Diodoro Delfico. Morì nel 1808.
Del Bettinelli si possono esaminare gli scritti da due punti di vista ben diversi: il loro contenuto culturale ed il loro valore lirico. Quanto al primo, egli ebbe interessi vasti, di tipi umanistico-educativo: dalle dottrine di estetica ai problemi di critica letteraria, dalla storiografia (con intenti metodologici oltre che informativi) ai problemi etico-sociali (s’interessò della posizione della donna nella società del secolo XVII, ad esempio), dalla partecipazione diretta all’attività apostolica della Chiesa attraverso le prediche, ai testi teatrali per i giovani nei collegi della Compagnia... Quanto al plus-valore estetico, esso non è garantito tanto dai suoi versi, ma una aliquale animazione emotiva delle Lettere virgiliane (il suo capolavoro) e, in minor misura, delle Lettere inglesi e di qualche lettera autentica, realmente scritta a persone contemporanee (fra queste spicca quella a Lesbia Cidonia, cioè a Paolina Secco Suardo Grismondi, sull’incontro col Voltaire a Ginevra).
Rimandando in nota le opere minori, fermiamoci sulle Lettere Virgiliane[74].
Il plus-valore estetico del Bettinelli, specie nelle “Virgiliane”, sta in una ricchezza di estro ironico o polemico, canzonatorio o demolitore che fa rileggere anche una seconda volta qualche pagina ispirata, anche se non se ne condividono i giudizi. Questi ultimi non solo non convinsero, già allora, la più parte dei lettori, ma addirittura fan fatica ad andar d’accordo con se stessi. Non c’è solo contrasto fra le opinioni del Bettinelli con la realtà (o, almeno, la coscienza comune del reale), ma incorenza anche di princìpi e giudizi propri. Il valore, dunque, delle Virgiliane sta in una seppur lieve animazione poetica; il rumore che fecero le sue sconcertanti opinioni sul valore dei vari poeti italiani è dovuto alla carica emotiva che rendeva pericolosi i suoi giudizi scriteriati. Eppure bisogna levargli il cappello per un certo brio della sua scrittura. Lui che nei versi era riuscito poco più che un quacquaracquà, eccolo risultare un poeta tollerabile in prosa! Gli è che la sua intelligenza critica era inferiore alla sua fantasia inventiva, come si addice ad ogni mediocre scrittore: egli intuiva o fabbricava tante ipotesi, mettendo a confronto un sì gran cumulo di conoscenze recepite o scoperte che, fra queste, alcune finivano per essere esatte; ma non riusciva poi lui stesso a sceglierle e giudicarle (ad “abburattarle”), per separare la farina delle verità dalla crusca degli errori.[75] La conclusione è che l’autore merita schiaffi per la superficiale disinvoltura (e per l’adolescenziale sicumera) con cui mena colpi demolitori a destra e a manca, senza badare ad autorità competenti, a giudizi ormai garantiti da secoli di incontestata condivisione. Eppure egli riesce leggibile per le due corde artisticamente intonate della sua arpa, quella satirica e quella ironica: entrambe a carattere comico-drammatico, ma di grado diverso in malignità.
L’ironia si rivela specialmente nelle lettere seconda, sesta, ottava, nona.[76] Satirica è la polemica all’inizio della terza lettera (vi si fa parlare Giovenale), all’inizio della settima e tutta la decima. Le cose migliori (a nostro parere) delle dieci lettere sono la nona e la decima (Scelta e riforma| Codice). “L’editore a chi legge” ha momenti di retorica studiatamente polemica (cioè accentuazioni a scopo ironizzante, sul tipo del secentismo canzonatorio che Manzoni userà, poi, nell’Introduzione al romanzo).
Ma il senso critico-letterario che il Bettinelli (per bocca del compaesano Virgilio!) rivela nei suoi giudizi sulla letteratura italiana conferma quella mediocrità rovinosa della sua intelligenza, che altre opere di scrittura (e di vita vissuta) hanno segnalato. Impulsivo e settorialmente emotivo, cioè limitato ai registri arcadici o contemplativi, non seppe entrare in risonanza con i poeti realistici e drammatici come Dante e Berni. Il suo giudizio sulla nostra storia letteraria è così demolitore che si attirò il nomignolo di “padre Totila”: ben poco si salva infatti dalle sue scorrerie distruttrici. Dante è il peggio valutato. La Divina Commedia? Un trattato scientifico, tessuto di prediche, composto in stile barbaro e strano: “Quattordicimila versi di tali sermoni chi può leggerli senza svenir d’affanno e di sonno?” Corollario tanto coerente quanto impertinente: si potrebbe salvare l’equivalente di cinque canti e fors’anche millecinquecento versi (quasi tutti della prima cantica, l’Inferno): il resto è erudizione, non poesia! Che se qualcuno volesse difenderlo, appellandosi alla sua antichità, “padre Totila” risponde che tanto varrebbe fare di Pacuvio e di Ennio i poeti più grandi di Roma. Prove definitive della povertà poetica di Dante sarebbero i difetti di stile: razionalismo geometrizzante, arcaismi nella lingua, vocabolario ostico ed oscuro...
L’infausto giudizio suscitò reazioni tutt’altro che univoche. L’Algarotti, recriminando per la pubblicazione inconsulta dei propri versi, si affrettava a dissociarsi dai giudizi denigratori su Dante. Difese di Dante scrivono Gasparo Gozzi, Giovanni Paradisi, Giuseppe Gennari. Purtroppo però non tutti discordano: Pietro Verri elogia le “Lettere” sul suo “Caffè”: era l’eco dei giudizi del Boccalini (“Ragguagli”) e del Tassoni (“Considerazioni sopra le rime del Petrarca”) contro la rusticità del sommo poeta[77]; era la opinione della inzuccherata schiera della classe media italiana, arcadicamente belante o petrarchescamente sospirosa, impaurita dalla sublimità della concezione e dalla potenza lirica del sommo poeta.[78] La “difesa” più decisa della grandezza di Dante venne dalla Compagnia di Gesù, che esiliò il Bettinelli ad Avesa, presso Verona, almeno per qualche tempo.
Con pari disinvolta severità era trattata la restante letteratura italiana, il cui principe era riconosciuto nel Petrarca: ma anche del Canzoniere, un terzo era di troppo. I Cinquecentisti, suoi seguaci, erano concentrabili in un libretto di venti sonetti e tre canzoni. Tra i poemi cavallereschi, valore estetico è riconosciuto solo al “Furioso”, da purgarsi però delle parti scurrili e magiche. Il Tasso non se la cava poi male: ben metà dei suoi veri si possono salvare, sopprerssi però gli episodi insostenibili di Olindo e Sofronia ed Armida. Sentenza benevola del Bettinelli: il Tasso ed il Chiabrera sono gli ultimi grandi poeti italiani. Poco stimati gli Arcadi ed i Trecentisti minori (il Dolcestilnovo!) trattati peggio dei minori Cinquecentisti.[79]
Passando dalla critica storico-letteraria alle proposte di poetica, egli si schiera contro le regole, tranne pochissime; contro le Accademie; contro le raccolte per nozze e monacazioni; contro lo spagnolismo (secentismo o barocco).
Un certo sapore estetico conservano anche le successive Lettere inglesi, anche se molto minore. Un inglese immaginario lamenta i difetti d’Italia, attribuiti alla mancanza di un centro politico unitario della nazione, con l’auspicio che Roma papale si faccia motore per unificare ingegni ed iniziative a dar splendore alle arti ed alle scienze della penisola.
Dei suoi versi si è detto abbastanza quando si prende atto che ne scrisse molti, ma nessuno commovente: è vicino al Frugoni con un verseggiare disinvolto, scorrevole ma insignificante: il difetto è già nella carenza di grandi motivi ispiratori. Non molto favorevole alla rima, scrisse però vari poemetti in ottave, che non pubblicò: Le raccolte| Il Mondo della luna| Il ritorno| La monaca| Il Pindemonte| Il Parnaso veneziano| Il gioco delle carte. Scrisse Epigrammi| Orazioni sacre e, anch’essi inediti, dodici poemetti in endecasillabi sciolti: fra essi stanno quello della ripulsa alla rivoluzione (L’Europa punita, ossai il secolo XVIII: 1791-7) e della adesione a Napoleone (Bonaparte in Italia: “il traditor della tradita madre” è ora inneggiato senza riserve).
Delle “Lettere” in prosa, molte in realtà sono dei saggi, cioè dei piccoli trattati, che vennero editi: oltre alla ricordata lettera a Lesbia Cidonia, vi sono Lettere d’una dama sulle belle arti|... sui pregi delle donne|... d’un’amica|... a Lesbia Cidonia sugli epigramm| I Fiori e i cagnolini: dal carteggio fra due amiche. Vi sono i Dialoghi sull’amore, del 1796, interessanti perchè commentano piuttosto negativamente Metastasio, Alfieri e Monti; ed i Ragionamenti filosofici (anch’essi in forma dialogica). In queste opere della età avanzata, il Bettinelli risulta un galante difensore dei diritti delle donne. Si può anche ricordare lo studio storico Discorsi delle lettere e delle arti mantovane (1774).
Giuseppe Baretti (1719-1789)
Nato a Torino, passò la più parte della sua vita adulta a Londra, dove approdò nel 1751 e morì nel 1789. Si formò la competenza in cose letterarie in Italia, alla università di Torino (seguì le lezioni di eloquenza di Girolamo Tagliazucchi), ma più ancora attraverso il contatto con scrittori incontrati a Parma, Mantova e, soprattutto, a Venezia, dove fu nel 1738 e dal 1744 al 1748: a Milano fu in rapporto con l’Imbonati ed i Trasformati, così come a Venezia bazzicò con i Granelleschi. I motivi del suo espatrio sono da ricercarsi soprattutto nel suo temperamento che i napoletani chiamerebbero “tuosto”, cioè impulsivo nella sua sincerità. Aveva intuizione pronta e discretamente azzeccata nei giudizi su uomini e cose della vita, ma la striatura risentita, con cui si esprimeva gli attirerà sempre più antipatie che simpatie. Vicino al tipo nervoso (il mutamento frequente di soggiorno e la difficoltà a mantenere le amicizie lo dimostrerebbero), aveva anche molto del collerico, con una tentazione all’attività sia pure a livello libresco-letterario, da cui doveva talora recedere per la instabilità del temperamento. Potremmo forse definirlo un emotivo|subattivo| primario. Certo aveva una distonia simpaticotonicoprevalente (cioè piùttosto aggressiva e drammatica, che contemplativa e arrendevole). Egli ruppe in famiglia, col padre che si era risposato: mise mano alla spada di fronte al cicisbeo della matrigna e dovette diventare un “avventuriero onesto”, inziando a girovagare da Guastalla a Parma, da Mantova a Venezia e Milano. Congeniale gli tornò ben presto la poesia bernesca, polemica e canzonatoria. Anche a Londra, per legittima difesa, uccise un aggressore e si fece non pochi nemici. Ma anche le amicizie furono molte e calde (così come molte pagine dei suoi scritti hanno aperture di un lirismo accattivante. In Italia, si legò col Frugoni, col Passeroni, con Domenico Balestrieri (poeta in dialetto meneghino ed in lignua tosca), con Vittorio Vettori (poeta bernesco mantovano) e con Giovan Maria Giuseppe Bicetti (medico e poeta); a Venezia, in particolare, con Apostolo Zeno e con la famiglia Gozzi. In Inghilterra divenne intimo del giornalista e critico letterario Samuele Johnson, che lo introdusse nel “literary club” e gli mostrò nel “Rambler” (uscito tra il 1750 ed il 1752) un esempio di periodico libero o di opinione, discreto pur nella vivacità (al contrario, le conversazioni tra i due erano molto più mordaci, come sarà, imprudentemente, il Baretti anche a stampa, ne La frusta). Dirà di lui il Johnson. “Non conosco nessuno che s’erga nel conversare più in su del Baretti. Vi sono facoltà gagliarde nel suo cervello. Egli non ha molti uncini: ma a quelli che ha si attacca con incredibile tenacità”.[80] In Inghilterra preparò un dizionario italiano-inglese che segnò un progresso su quanto vi fosse allora in commercio. E si fece una piccola fortuna con lezioni e scritture letterarie. Potè, così, rientrare in Italia attraverso il Portogallo (appena colpito dal terremoto, che distrusse Lisbona nel 1755), la Spagna e la Francia. Le Lettere ai familiari, che scrisse ai fratelli durante il viaggio, furono edite a Milano e Venezia (47 in tutto), ma la censura le bloccò, per le proteste degli ambasciatori del Portogallo, realisticamente descritto e scanzonatamente trattato, in qualcune delle missive, da questo scrittore senza peli sulla lingua e senza prudenza nella penna.
Dal 1 Ottobre 1763 al 15 gennaio 1765 pubblicò, a Venezia, la Frusta letteraria, quindicinale di critica, che, collo pseudonimo molto significativo di “Aristarco Scannabue” scriveva praticamente tutta da solo (rari i contributi di amici). Ma dovette interrompere anche questa impresa per l’intervento della censura veneta: altri otto numeri pubblicò dall’aprile al luglio 1765, non più da Venezia (dove già nel 1764 aveva dovuto interrompere la periodicità in agosto e settembre, uscendo col venticinquesimo numero solo nel gennaio 1765), ma da Monte Cardeto, presso Ancona, quasi di contrabbando[81]. Da Venezia venne via dopo che il procuratore Contarini gli intimò la cessazione della “Frusta”, per le critiche mosse alla povera poesia del Bembo, cioè (come narra il Baretti) per lo “atroce delitto di provare che un gentiluomo di quella città, morto da più di due secoli, fu uno de’ più magri poeti d’Italia”. Nelle Marche, egli era protetto dai gesuiti, ma nascondeva la sua residenza anche agli amici più intimi e datava la stampa da Trento! Lo sfrattò di là il padre celestino Appiano Buonafede[82]: questi aveva pubblicato contro di lui un feroce libello dal titolo “Bue pedagogo”, per avere il Baretti mosso qualche appunto ad una sua commedia “I filosofi fanciulli”, del 1754. Non l’avesse mai fatto! Baretti perse la testa e si abbassò a scrivergli contro otto discorsi sugli ultimi otto numeri del periodico. Ma comprese, attraverso questa polemica, che troppo diverso da quella inglese era l’atteggiamento della autorità verso le pubblicazioni in Italia, dove non bisognava fare i conti solo colla censura religiosa e morale della Chiesa, ma anche con veti civili circa avvenimenti e persone, da parte di nazioni abbastanza potenti per “inibire” le notizie comunque spiacevoli. Se ne ritornò in Inghilterra, dove tali pastoie ad opinioni non esistevano, come non esistevano privilegi da proteggere ad ogni costo. Ivi divenne il segretario, per la corrispondenza straniera, nella reale Accademia di belle arti (1769). L’anno dopo –1770- finiva di pubblicare in Inghilterra le Lettere familiari. Continuò la sua produzione critica: Introduzione a tutte le opere di Niccolò Machiavelli (1772) e il Discours sur Shakespeare et Monsieur Voltaire (1777), che segna non solo, negativamente, la demolizione degli affrettati ed infelici giudizi del francese, ma anche, in positivio, la fondazione della critica shakespeariana e no, imperniata non su regole astratte di composizione (le tre unità, ecc.), ma solo sulla genialità del poeta. Una difesa dell’Italia e degli Italiani uscì contro le “Letters on Italy” di Samuel Sharp: An account of the manners and customs of Italy, with observations on the mistakes of some travelers with regard to the country (1768). Ultima grande fatica fu la ripubblicazione delle lettere nel 1779, col titolo Scelta delle lettere familiari: pretendeva di essere una antologia di tale genere epistolografico in Italia e, per prova, pubblicava come prima una lettera di Annibal Caro, mentre per il resto egli antologizzava se stesso (anche con brani da La Frusta) o inventava lettere nuove per l’occasione, attribuendole ad amici, per offrire l’esempio di una lingua italiana disinvolta e vivace, pur senza dialettismi nel vocabolario od irregolarità nella sintassi. Non vi si trovano nè periodoni alla Boccaccio nè retorica di sussiego nè impaccio di circonlocuzioni: il suo italiano è chiaro, conciso, scattante.
Non che a Londra tutto filasse liscio: fu in questo secondo soggiorno che gli amici, deponendo a suo favore in tribunale, lo salvarono dalla pena capitale per l’omicidio difensivo. Nè seppe mantenersi aperte tutte le case in cui era ospite, perchè accolto, dapprima, a braccia aperte. Si mantenne però un numero sufficiente di contatti amichevoli e morì in pace, a settanta anni, nel silenzio meditativo. Circa la sua fede cattolica, accenenremo parlando del suo pensiero complessivo.
L’uomo Baretti.[83] Fisicamente, la sua costituzione ci risulta da una miniatura fatta da artista inglese (un certo Macpherson): appare robusto, curvo per evidente miopia, intento come è stato ripreso, ad esaminare uno scritto con una lente attaccata ad un nastro nero: si era sempre rifiutato di portare occhiali. Psicologicamente, lui stesso si presenta così: “un uomo fatto apposta per amare la gente dotta e dabbene, ma un uomo collerico che per poco andava in bestia e metteva mano alla spada (contro il cicisbeo della matrigna, ad esempio); piacevole e pieghevolissimo con le donne, senza complimenti e cerimonie con gli uomini; di poche lettere, ma sa quel che cinguetta; disprezzatore dei tristi e degli ignoranti, quantunque siano grandi e tanto mordace e satirico e severo con quelli, quanto sincero e cordiale e generoso e largo quanto più può con quelli che tristi e ignoranti non sono”. L’Astaldi ne tenta il ritratto morale, mettendolo a confronto col suo amico e protettore inglese: “Anche se Johnson era molto superiore per erudizione ed ingegno, lui e il Baretti avevano molte cose in comune: il carattere brusco e generoso, l’atteggiamento sentenzioso e intollerante... Entrambi apprezzavano il parlare elegante, la battuta azzeccata e si mettevano d’impegno per brillare nella conversazione; se entrambi coltivavano un ideale di saggezza stoica e cristiana ad un tempo, nessuno dei due era esente da paradossi, ingiustizie e sfuriate”. Temperamento collerico in entrambi, dunque? Noi vedremmo intaccato il Baretti da una venatura nervosa: se la generosità e larghezza è propria del collerico; la instabilità dell’italiano ci pare eccessiva, visto, anche, che nell’inglese essa è assente. La primarietà di un temperamento fra il nervoso ed il collerico, oltre che in giovinezza, si rivelò anche negli anni maturi, come dimostra la polemica sproporzionata contro il padre Buonafede, che riempì quasi interamente gli ultimi otto numeri de La Frusta: la collera gli impedì di vedere la mediocrità dell’avversario, la inutilità di raccoglierne gli insulti, la umiliazione in cui si precipitava con una simile polemica, la disaffezione che si procurava presso i lettori. Davvero la collera è una pazzia momentanea. Difatti anche negli ultimi anni inglesi, sin negli ultimi suoi scritti, egli rivela una mancanza di misura vuoi nella apologia, vuoi nella polemica. Per di più si adira per motivi meschini, per cagioni futili: una mente chiara ed intuiva, ma non molto profonda nèampia di vedute (il Johnson non tace questi limiti).
Come sempio della bruschezza indiscreta delle sue uscite, si cita quella alla signora Lennox: il Baretti stava giocherellando con la bambina di quella e fu da essa richiamato. La risposta fu questa: “La vera bambina siete voi, sia per la statura che per il cervello”!!!
Il pensiero del Baretti. Non ci si deve aspettare un sistema, ma solo affermazioni lasciate cadere dalla penna qua e là (ci riferiamo alle Lettere familiari). I giudizi critici de La Frusta, li vedremo in un paragrafo a sè stante.
Le sue persuasioni estetiche, le troviamo specialmente nella 13.ma e 14.ma lettera.
Necessità dell’entusiasmo per scrivere poesia; l’estro, il genio non possono essere ridotti a pura razionalità nè, quindi, a regole; di conseguenza, non sono apprensibili o trasmissibili per mezzo di apprendistato.
Fa parte di questo entusiasmo il possesso ovvio della lingua e la facilità della rima (componente musicale, dunque!).
Il poeta deve dilettare, oltre che istruire.
Ogni lingua possiede un suo “genio” poetico, cioè una maniera più adeguata di fare poesia (anche nella 21.ma lettera).
La “rima” è parte di questo “genio” della poesia italiana, contro l’opinione degli “scioltisti”, quali Gravina, Maffei, Crescimbeni...
Un criterio molto semplice per un giudizio di critica letteraria (“spontanea”, non riflessa) è questo: una composizione in versi od una pagina letteraria si possono considerare valide poeticamente, se si fanno rileggere volentieri: il tempo farà passare di moda i capolavori di una stagione che non invitano alla rilettura. E’ un principio ovvio come l’uovo di Colombo, per la prima volta enunciato (in Italia, almeno), anche se non è un principio definitivo: un libro si può far rileggere più volte per il contenuto molto interessante di trama (di storia, di politica, di costume, di vicende belliche complesse); spesso si fa rileggere anche solo per motivi erotici. Il motivo artistico va definito a parte; cioè, occorre una estetica chiara, per giudicare in modo riflesso un libro, un quadro, ecc. ...[84].
Il pensiero etico-religioso. Lettera nona: condanna l’empietà blasfema dei marinai.
Lettera 12, del 29 agosto 1760: condanna il rigorismo puritano del riposo domenicale, introdotto dai nuovi farisei presbiteriani e metodisti; la conseguente l’ubriachezza che nasce dall’ozio nella plebe, a causa della proibizione di ogni divertimento alla domenica; il sistema di usare avide spie per sorvegliare la religiosità del pubblico; la prassi dei consigli parrocchiali anglicani di appropriarsi delle offerte destinate agli indigenti (davvero?).
Lettera 16, del 31 agosto 1760: Baretti va a Messa (in Portogallo). Detesta certi frati che hanno donne avvenenti per collaboratrici e usano ritorsioni contro gli odianti ed odiati soldati (ladri nel convento, nel caso: lettera 45, del 30 settembre; e 46, del 1 ottobre 1760). Parla male dell’ozio dei frati (lettera 20), del lusso del patriarca lusitano e dei finanziamenti da parte del re (lettera 25).
Condanna spesso le idee illuministiche come “bricconesco sistema di dissoluta filosofia”, “con false massime e dottrine empie” (lettera 15, del 31 agosto) Pure, contro il primitivismo di Rousseau, è favorevole alla diffusione della cultura o “lumi” (lettere 23, 25, 30, 38).
Il poeta deve conoscere la Bibbia e rispettare le idee religiose e morali (lettera 13, del 29 agosto 1760).
E’ preoccupato degli aspetti morali del problema economico-sociale, che si presenta quando un imprenditore trasferisce all’estero fabbriche e lavoro, sottraendo così ricchezza alla propria patria (lettera 47): lascia ai “casuisti” (moralisti del probabilismo) la soluzione.
Le donne sono elogiate come più morali e religiose (lettere 21 e 22). Ci sono però delle ragioni “mondane” (puramente razionali) “che forse più delle non mondane (della Rivelazione o della religione) vagliono per tenere la concupiscenza delle donne giovani nei dovuti limiti” (lettera 22).
Lettera 25: parla bene delle suore inglesi e dei frati cappuccini destinati alle missioni.
Lettera 28: rimprovera al vocabolario della Crusca di riportare una parola oscena, solo perchè fiorentina.
Lettera 30: si dichiara contro la schiavitù. Costata la devozione dei Portoghesi verso Maria SS., verso i santi e verso i frati.
Lettera 35: si dichiara contrario alla mescolanza di sacro e di profano in occasione del matrimonio di don Pedro con una principessa del Brasile (maschere che ballano; santi e frati e monache invocati nel proclama per il matrimonio).
Lettera 45: scandalo perchè i frati tengono in servizio fantesche giovani e belle.
Lettera 46:si scandalizza dell’ostilità abituale tra monaci e soldati in Spagna.
I giudizi critici sui letterati nei numeri de La Frusta. A firma di Aristarco Scannabue, egli trincia giudizi che fanno onore allo pseudonimo assunto: non guarda in faccia a nessuno, emana sentenze a lume dei suoi gusti innati, in cui confluiscono però, più o meno consapevoli, anche dei princìpi di estetica.
Anzitutto facciamo i nomi più illustri di alcuni suoi eroi e di alcune vittime del suo tribunale letterario. Egli difende Gasparo Gozzi ed il suo “Osservatorio veneto”, assolve il Metastasio drammaturgo, esalta il Parini per le parti de “Il Giorno” pubblicate, elogia l’abate Genovesi e le sue “Meditazioni sulla religione e sulla morale”, celebra Shakespeare, Milton, Dryden.[85] Combatte Goldoni (per alcune commedie minori, come le due Pamele, nubile e sposata); si azzuffa col Verri che difende Goldoni dagli spalti del “Caffè”; condanna quelli che chiama “antiquari” (vi immette anche Carlo Denina, storico di letteratura nel “Discorso sopra le vicende di ogni letteratura”); disdegna Voltaire, sia perchè non riesce a capire ed a stimare Shakespeare, sia perchè, come razionalista, è unilaterale e privo di buon senso (altrettale è il giudizio su Anthony Asley Cooper, conte di Shaftesbury, perchè la sua filosofia, che riduce il fondamento della morale ad una spontanea simpatia tra gli uomini, è troppo superficiale: l’Astaldi afferma che Lord Shaftesbury, era per una morale del sentimento e del gusto, che sostituiva, così, il bello al buono); non ha in simpatia gli scrittori scozzesi (ad esempio, Thompson, di cui recensisce negativamente “Le stagioni”, tradotte in italiano), perchè tristi e decadenti; non dà tregua al padre Buonafede, perchè le sue “Commedie filosofiche” gli sembrano parodie infantili dei grandi filosofi antichi, che il Baretti stima e difende; ed infine rifiuta il Frugoni e critica con candida impudenza il Bembo, di cui vede troppo bene la carenza di lirismo pur nella purezza della lingua, non badando però al pericolo della reazione del governo veneziano di fronte all’offesa di un suo cittadino già classificato come illustre! Gli sarà proibita, per simile critica, la pubblicazione del quindicinale a Venezia, anche se in realtà, pare che quello fosse il pretesto ufficiale, dietro il quale stavano le stroncature a libri di scrittori ben vivi...
Che dire di questa allegra critica letteraria, spesso indovinata, talora stranamente disorientata? . Anzitutto, per farcene un’idea meno approssimativa, più adeguata, sentiamo il parere di Manzoni: “...quell’Aristarco che ebbe, e ha ancora, la reputazione di critico incontentabile, peccò piuttosto di troppa indulgenza, giacchè, se fu ingiusto più che severo verso due o tre scrittori, diede a molti di più delle lodi che il tempo non ha confermato”.[86] Questo non toglie che , se si confrontano i giudizi del Bettinelli con quelli del Baretti, la superiore facoltà critica di quest’ultimo si impone.
Quanto ai criteri di riferimento, siccome il Baretti non li esplicita, occorre indovinarli confrontando i vari suoi giudizi, nel tentativo di leggere la psicologia che vi sta sotto, cioè le motivazioni in parte dettate dalla ragione cosciente e in parte dalla emotività inconscia, cui si affida la sua critica letteraria. E, nell’analizzare in maniera chiara e distinta le componenti della complessa mentalità che serve da codice penale per il Baretti, affidiamoci ad Attilio Momigliano (“haud spernendus auctor”[87] ogniqualvolta si tratti di diagnosi psicologiche). Il Baretti, dunque, secondo il Momigliano, si rifà a quattro parametri, tutti umanamente saggi, ma non tutti pertinenti con la critica artistico-letteraria. Egli esige anzitutto la serietà del motivo ispiratore, cioè la importanza del contenuto: lo scrittore deve dire cose, non parole; e dire “cose naturali, cose belle, cose grandi, cose molte, con semplicità e forza, con entusiasmo”. Per questo (anche per questo) egli condanna le rimerie di bembeschi ed arcadi minori, che esprimono addirittura situazioni amorose fittizie e, perciò, chiaccherano al vento. Il secondo criterio è questo: il contenuto deve essere moralmente elevato e ragionevolmente presentato. Per questo è contro Voltaire e gli illuministi francesi, i cui sofismi finiscono in massime perverse che servono solo a “sconquassare e porre sossopra ogni ordine civile ed ecclesiastico”. Per lo stesso motivo si schiera contro Pietro Verri (definito “una testa sgangherata”) e contro Cesare Beccaria. Per un eccesso di tale principio, finisce per mettersi contro anche a Goldoni, la cui moralità nelle commedie gli pare troppo accomodante e superficiale. Il terzo criterio si rifà in qualche modo alla chiarezza dello stile e della impostazione dell’opera (limpidezza della trama e del linguaggio): di qui gli apprezzamenti per il Furioso dell’Ariosto e per le opere del Metastasio, anche se il primo manca di serietà (realismo| moralità) ed il secondo manca di quell’energia e forza che costituisce il quarto criterio di validità letteraria per il Baretti. Egli infatti privilegia gli scrittori forti, virili, gagliardi, battaglieri (un po’ costruiti come lui, insomma...). Per questo principio egli difende Shakespeare contro Voltaire e Dante contro il Bettinelli. Per questo egli esalta la “Vita” del Cellini, edita la prima volta nel 1728; per questo egli disprezza la flebile Arcadia e specialmente l’inzuccheratissimo Zappi, per quei suoi “smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini”. Come si vede, ai criteri estetici si mescolano parametri temperamentali o psicologici, etici, umanistici (nel senso più ampio della parola). Egli trova modo, così, di condannare quella filosofia che “ non t’insegna a passar la vita quieta dovunque la Provvidenza ti conduca”; condanna la scienza che non serve “a migliorare te stesso ed altrui”; egli vuole una letteratura atta a “render l’uomo, uomo”.[88]
L’artista. Ma se i suoi “lemmi e postulati” estetico-critici sono suscettibili di dissensi e dubitazioni, la sua scrittura concreta sia nelle Lettere familiari sia nella Frusta letteraria si fa perdonare limiti e difetti, errori ed incoerenze per il suo splendore emotivo: scattante e musicale.
La “poesia” della prosa ne La Frusta letteraria . Il merito dei suoi giudizi critici potrà essere talora discutibile, ma la forma espressiva giustifica il riportato elogio del Johnson e trascina il lettore fra divertimento ed ammirazione: ammirazione per la fermezza dei giudizi demolitori; divertimento per le talora potenti, farsesche. Egli è uno scrittore davvero simpatico, uno dei grandi prosatori italiani. Rileggiamo il notissimo inizio dell’“Introduzione a’ leggitori”: “Quel flagello di cattivi libri, che si vanno da molti e molti anni quotidianamente stampando in tutte le parti della nostra Italia, e il mal gusto di cui l’empiono, e il perfido costume che in essa propagano, hanno alla fin fine mossa tanto la bile ad uno studioso e contemplativo galantuomo, che s’è pur risoluto di fare nella sua ormai troppo avanzata età quello che non ebbe mai voglia di fare negli anni suoi giovaneschi e virili, cioè si è risoluto di provvedersi d’una buona metaforica Frusta, e di menarla rabbiosamente addosso a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impure, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sè il minimo sugo, la minima sostanza, la minimissima qualità da renderle o dilettose o giovevoli ai leggitori ed alla patria”.
O si riprenda sotto gli occhi l’autopresentazione, nei panni del suo prestanome: “Io sono Aristarco Scannabue e voglio adoperare il mio giudizio e voglio col mio giudizio giudicare anche il giudizio degli altri, e giudicarlo severamente, senza curarmi un fico dell’autorità di chicchessia...” Il modo di parlare, nei momenti migliori, è più solitamente quello di un gigante in vena di allegria, che entra in un arcadico negozio di cristalli e mena la sua proboscide (anzi, la sua “frusta”) con divertito spirito non genericamente demolitore, ma sapientemente ridimensionatore: dopo la sua irruzione, la bottega, guarda caso, si trova sfoltita di molte anticaglie e mistificazioni, ma mette in miglior mostra le sue merci di valore. E quando la frusta colpisce a vanvera (Manzoni, lo abbiamo visto, è stato un esigente commentatore delle sentenze barettiane), si tratta di errori “a novanta gradi”, che si denunciano da sè, come frutto di “momenti di collera distratta”.
Il tono lirico è fondamentalmente epico-drammatico, ma solitamente imparentato con la comicità: ironia franca, canzonatura baldanzosa, satira divertita. La sua comicità rasenta la farsa geniale, rabelaisiana; la sua polemica ha il piglio epicizzante della prosa carducciana. Macchè timidezza d’approccio, meticolosità d’analisi, paura di offendere: il suo è un ridente combattimento, una battaglia eroicomica, un assalto alla Morgante od alla Margutte; la sua prosa è una forza di natura, scatenatasi in tempo di carnevale, che manda al macero un bel po’ di cianfrusaglie della nostra tradizione letteraria. La caricatura è cordialmente grandiosa, la ironia è impietosa ma piena di brio, la canzonatura è potente e solenne: il suo è uno “ sdegno allegro ”, una “feroce gaiezza”: il malcapitato scrittore cade in frantumi, ma dalle sue ceneri è nato un brano di prosa artistica italiana, si edifica la figura eroicomica di Aristarco, personaggio da commedia bernesca, da farsa rabelaisiana. Egli previene le “Stroncature” di Giovanni Papini, con meno studio e minor scientificità, ma con superiore ispirazione comica. L’incontro giovanile con i sonetti ed i capitoli del Berni svilupparono in lui delle congenialità cromosomiche, delle affinità psicologiche che si scatenarono nel suo quindicinale fustigatore.
Riassumendo, il lirismo barettiano ne La Frusta è quello epico-comico: vicino all’eroicomico, consta di un ottimismo giocondo sposato ad una polemica incisiva: riso e dramma che passano dall’ironia alla satira, dalla commedia di Molière alla farsa di Rabelais.
La poesia nelle Lettere familiari. Qui è meno clamorosa la dimensione satirica, ma affiora continuamente la comicità umoristica (amichevole, benevola) e, a tempo e luogo, ironica (sottilmente ostile e malevola), con osservazioni birichine, canzonature sornioni, non solo su fatti letterari, ma anche su avvenimenti di cronaca o condizioni socio-politiche di popoli e nazioni. Questi ultimi rilievi non furono sempre avanzati in maniera abbastanza prudente ed eufemistica, sicchè l’ambasciatore di Portogallo ottenne, dal governo di Venezia, il ritiro delle Lettere dal commercio. Ma, complicazioni politiche a parte, è questo plus-valore comico che costituisce il fattore artistico fondamentale, che rende affascinante questa corrispondenza coi fratelli.[89] In realtà le sue narrazioni sono dei reportages quanto mai briosi, scritti da un giornalista sbrigliato avanti lettera. Per comprenderne il tono, riporteremo qualche frase spulciata qua e là. Tra le lettere più divertenti, suggeriamo la 26.ma e la 41.ma.
Dalla lettera 14: “Sarà vero che le Muse fanno sino i sonetti e le ode e le canzoni senza rima, indotte dalle potentissime ragioni del Gravina, del Crescimbeni e del Maffei, che hanno dottamente chiamato la rima una invenzione barbara e fratesca: ma, Amedeo, io compatirò sempre que’ poveri stampatori che stamperanno de’ grossi volumi di versi sciolti a proprie spese...”.
Dalla lettera 35: “diedi un’occhiata a un castellaccio antico, il quale sta sur un’altura digrignando i denti, voglio dire che ha certi merli scantonati che in un bisogno[90] di rima si potrebbono paragonare ai denti di un vecchio babbuino quando sorride”... “coraggioso come un Patroclo o un Brandimarte se avesse avuto a far battaglia con uno stufato”... “e di fatti scrisse giù, per quanto potetti argomentare, che –o senhor Jospeh Baretti è un uomo piuttosto grande che picciolo, piuttosto brutto che bello, con un’aria di matto piuttosto che di savio- e cose simili...”.
Dalla lettera 47: “... essendo il signor direttore [91] stato accusato e quasi convinto d’aver rubato alcuni milioni di reali alle manifatture e di averli allegramente spesi in mantenere sgualdrine teatrali e fatte altre simili opere pie, era stato arrestato non come gentiluomo, ma come un mascalzone e mandato a Madridde carico di ferri, dove probabilmente morrà d’apoplesia (sic), perchè d’apoplesia muore chiunque si fa stringere il collo con una fune”.
Ecco qualche stralcio dalla lettera ventiseiesima, scritta da “Cimbra, li 11 settembre 1760”. Il viaggiare è una cosa che chi non l’ha provata crede sia una beatitudine in terra, ma venga in Portogallo chi è di questa opinione, e se non si sganna, sgiusèppimi e sbarèttimi pure, che gliela perdòno..... Orsù, perchè voi fratelli siate bene informati delle mie fresche disavventure, è d’uopo che io mi faccia da capo, e che dia principio alla dolorosa cronaca da jermattina sino a stasera; ed ecco che mi gratto la zucca, tosso, sputo, mi soffio il naso, tomo un polvo,[92] ed incomincio.
Jer mattina dunque alle sei io e il signor Edoardo montammo in un calesso tirato da due muli e condotto da un robusto Negro nativo di quella parte d’Africa nominata Senegal.... I due prefati muli, per non derogare alla paterna gravità, fecero la via così lentamente lentamente, che in cinque ore strascinarono pur e il calesse e noi a un’osteria chiamata Cabeça, lontana tre leghe da Lisbona. Oh la confortevole cosa che sono le osterie che si trovano a cammino per questo glorioso regno!... A quella Cabeça scendendo di calesso, ci fu additata una camera dove dovevo desinare; e trattone il soffitto e il pavimento e l’uscio e le finestre, che ad ogni cosa mancavano quindici o venti de’ rispettivi pezzi, era una camera buona assai per alloggiarvi un giudeo o un assassino. E i muli e il cavallo furono introdotti in una stalla, che li ricevette con molta cerimonia senza barretta in capo (il tetto), che le fu portata via da terremoto. Un’ora dopo la nostra giunta ecco il pranzo: e che pranzo! Oh che bravi cuochi s’hanno gli osti portoghesi! Prima uno sporco piatto pien di brodo, in cui era stato bollito un buon pezzo di lardo rancio, e quel brodo era tanto bello di colore, che ogni professore di Coimbra l’avrebbe scambiato pel brodo nero degli Spartani. Poi sur un altro sporco piatto il prefato lardo rancio da sè. Quindi un pollo, le di cui carni erano state magicamente converse in cuoio di bufali. E in quarto e ultimo luogo un salame che uno avrebbe giurato all’odore aver servito d’ornamento alle gambe di qualche principe Ottentotto. Il pane che l’oste ne diede, non aveva avuto la pazienza di stare un minuto nel forno per paura d’ardersi la corteccia; e il vino era fratello primogenito dell’aceto, come lo sono io di voialtri....Addio dunque, cara la mia Cabeça. La sera giungemmo a Mafra, lontano da Cabeça altre tre leghe, e mi fu detto, prima che la vedessi, che sarei quivi stato alloggiato in un convento di frati. E veramente l’osteria di Mafra servì un tempo di convento a’ Francescani, chi volesse prestar fede al presente padre guardiano, cioè all’oste...” Segue la descrizione di un’altra cena sul tipo di quella della Cabeça (ma da questa, come da quella, si liberano grazie alla preveggenza del vecchio oste inglese del Baretti, che lo accompagna e porta con sè abbondanti provvigioni, avendo presagito come le cose sarebbero andate in un paese povero di per sè ed ultimamente immiserito dal terremoto del 1756): la esposizione che segue delle insonni e martirizzanti ore notturne sembra plagiata sulla “Malanotte a Povigliano” di Francesco Berni, se non avesse con sè tutte le carte in regola per essere originalmente vera.
Dalla lettera 41.ma (Da Maxaras, li 27 settemrbe 1760) apprendiamo che le cose in Spagna vanno meglio anche per i turisti estemporanei, cioè non annunciati. Anzi, la splendida luna in cielo, il clima favorevole e l’allegria ciarliera della gente, induce il Baretti ad una di quelle festose generosità che mettono a subbuglio tutto il piccolo villaggio e, attraverso la distribuzione di monetine (quartillos), generano gioia, canti ed amicizia: “Fatti quindi entrare in quella porta todos los muchachos y todas las muchachas, gridai a queste di venire le prime fuora a una a una. Tutte volevano essere prime, ma i quattr’uomini (scelti come guardiani per l’ordine) tennero saldo, e le fecero uscire nel dovuto ordine una dopo l’altra. – Chi sei tu?- -Son Teresuela- -Teresuela, fa’ un salto, e grida -Biva el Rey d’Espana- Uppe: Biva el Rey d’Espana.- -Ecco il quartillo, Teresuela, va con Dios- -E tu chi sei?- -Son Maffia, son Manuela, son Paolita, son Pepina, son Antonietta, son questa, son quell’altra.- Tutte insomma dissero il loro nome, tutte fecero il lor salto, tutte gridarono Biva el Rey d’Espana, e tutte ebbero il quartillo, e forse alcuna delle più grandi n’ebbe due, e anche tre. Poi i ragazzi passarono nello stesso modo che le fanciulle, con applauso e risa e grida dell’astante popolo adolescente, vecchio e decrepito di Mexaras, che, dacchè Mexaras si fabbricò nel tempo de’ Mori, non si fece qui festa così grande e così gaudiosa o così generalmente approvata... La festa finì con un viva generale a los strangeros: licenziati ed esortati tutti ad esser buoni ragazzi e buone ragazze, tutti e tutte se n’andarono con moltissimo fastuono... Ma non ho più candela, onde con la solita uniformità vi dico addio”.
Lo stile del Baretti. E’ in sintonia col lirismo, come ci mostreranno le Lettere familiari, che saccheggeremo.
Anzitutto diremo con Giulio Natali che, come il Parini è “il rinnovatore della nostra lingua poetica”, così “il suo amico Baretti (lo è) della lingua prosastica” (o.c. II, p. 712). Direi che senza il Baretti e l’Alfieri (della autobiografia), Manzoni avrebbe dovuto faticare molto di più per risciacquare i propri panni in Arno e definire una lingua toscana esatta razionalmente e musicalmente coerente, valida, quindi, per ogni tempo. Nel Baretti si può ritrovare addirittura il seme di alcuni personaggi e situazioni che nei Promessi avranno uno sviluppo sublime: il mercante di Gorgonzola, nella lettera ventunesima; Renzo all’osteria, nella 36.ma. Quasi dispiace scoprire come anche delle singole espressioni del romanzo siano state prese dalle Familiari del Baretti, sia che si tratti delle “penne d’oca” con cui si scrivevano allora le lettere, sia che, per esprimere il massimo di corruzione, si parli di persone che “darebbono il fuoco , per modo di dire, a un santuario” (“al paradiso” perfeziona il Manzoni nel c. XVI, per bocca del mercante di Gorgonzola). Comunque, per il torinese Baretti non era necessario “inabissarsi nel vortice grammatichevole” come sarà invece necessario per il corregionale Alfieri, onde scrivere in pretto toscano. Il Baretti seppe apprendere il toscano con una genialità italiana (lontana da ogni ricercatezza gergale, cioè), così come seppe apprendere l’inglese –partendo da zero, quando sbarcò in Inghilterra- in modo così preciso, da poter compilare il miglior vocabolario per le due lingue fino allora comparso in pubblico.
La sua comicità sa combinare allusività e realismo: la sproporzione, cioè, può essere evidenziata o direttamente o attraverso un finto elogio: si veda la sala da pranzo nella “cabeça” portoghese, dove mancavano bensì molti pezzi a finestre e porte, al soffitto ed al pavimento, ma per il resto “era una camera buona assai per alloggiarvi un giudeo o un assassino”.
Un’altra caretteristica della lingua del nostro autore è costituita dai “barettismi”, che prevengono gli “alfierismi” della Vita dell’Astigiano. Si tratta di neologismi, cioè di parole di uno scrittore, che egli inventa sulla base di radici presenti nel lessico toscano, ma con desinenze-deformazioni improbabili e, di fatto, non usate, con efficacia artistica, se non da chi è dotato ad inventare artisticamente: simili lambiccamenti della lingua si possono bensì operare da ognuno, ma non da tutti con effetti tollerabili, perchè esteticamente positivi. Si tratta allora di “idiotismi”, cioè di parole “proprie” di un letterato, che in mano ad altri difficilmente hanno senso od efficacia: occorre un contesto adeguato. Vogliamo dire: se tutti gli “alfierismi” sono efficaci, anche perchè più rari, gli idiotismi barettiani, molto frequenti, fanno talora fiasco. Comunque, si tratta, ad esempio, di superlativi di sostantivi (vergognissima) o di aggettivi che non li tollerano (furbeschissimi), di accrescitivi azzardati (saputoni), di aggettivi estrattii da sostantivi che non ne tollerano (calesseresco), verbi ricavati da nomi propri (sGiuseppinare) e da cognomi (sBarettinare), persino... Ma veniamo agli esempi concreti.
Si è già citata la canzonatura dello Zappi (inzuccheratissimo, coi sonetti smascolinati, ecc.).
Eccone altri: (dalla lettera 14): “gente che non fece mai, o molto di rado, una capriola con l’ingegno... per non tombolar giù (dal Parnaso)... e rompersi la noce del collo”|; (Il Paradiso perduto di Milton) “ti stucca e t’assassina con la sua barbarie e foresteria di linguaggio”| versibianchisti| versiscioltai| buaggine;|| (dalla lettera 15): “bricconesco sistema di dissoluta filosofia” (quello che insegna a rinnegar la legge morale e la religione);|| (dalla lettera 20): “il fifflautare e il violinare”| “ i quali (uomini portoghesi) stanno duramente sussiegati anche quando sorridono”;|| (dalla lettera 22): “ la pece e il catrame, con cui si lava il viso ogni sorta di barche”| “voglio perder il meglio dente ch’io m’abbia in bocca, se non conchiudi che ella (la donna in generale) è un miglior ente, vuoi per bontà, per senno... che non dieci della maschia dozzina”;|| (dalla lettera 23): “intoppammo un’avventura assai mala”| “come cittadino del mondo e come membro di quella gran società chiamata genere umano”| “le barbassore signorie” (cfr. “i barbassori” della “Vita” di Alfieri);|| (dalla lettera 26): “se non si sganna (colui che pensa il viaggiare turistico sia una fortuna paradisiaca) sgiusèppimi e sbarèttimi pure”| “tomo un polvo” (una presa di tabacco);|| (dalla lettera 29): dottissimi patrassi”| “La vista che si ha dalle finestre di quella sala dei daini è molto bella, perchè l’occhio comanda molto paese”;|| (dalla lettera 30): “strade iniquamente sporche””;|| (dalla lettera 35): “pifferare e tamburinare”;|| dalla lettera 36): senza vergogna delle lor (dei portoghesi) calze, piene di porte e di finestre”;|| (dalla lettera 37); sguardi furbeschissimi| saputoni| fratellesco| franceserie| ghiribizzare| barbitondere e barbitonsora (parrucchiera)| la pioggia veniva giù alla gagliarda;|| (dalla lettera 39): “tutta la ragazzaglia maschile e femminile”;|| (dalla lettera 40): “sublunar vita (vita terrena)| tantafera dell’uniformità” ( si noti: “tantaféra” sarà ripresa dal Manzoni per autoironia circa il suo romanzo, che stava facendo “tantochiasso” nell’opinione pubblica);|| (dalla lettera 41): diàscane (diamine!)| calesseresca palabra (parola di calessiere)| ciuffò (acciuffò)| fanciullaglia| spiritare (spaventarsi) uomanacci| scimiotti (ragazzi)| arlecchine (ragazze);|| (dalla lettera 42): “asinesche fatiche”| “Beati saranno quei tempi ne’ quali s’avranno di quelle eruditissime erudizioni a carra, come i tempi nostri sono stati beati per quelle tante che si sono avute intorno alle iscrizioni etrusche e intorno a’ dittici Quiriniani”| “io però non me ne sbigotto, chè le mie gambe mi servono bene”;|| dalla lettera 44): vergognissima;|| (dalla lettera 45): “capperi! bisogna esser fabbricati a prova di bomba per non le far proposizioni di matrimonio” (a proposito di una bellissima domestica di una osteria, posseduta e gestita –l’osteria, almeno!-da frati...);|| (dalla lettera 46): “ciaramellare” (chiaccherare);|| (dalla lettera 47): mostri cornuti, dentuti, unghiuti, codilunguti” (a proposito di soldati spagnoli);|| “se colui (il corregidore o giudice spagnolo) ricevesse la gente con indosso un abito degno del suo impiego (anzichè a sbrendoli) non l’avrei probabilmente -vostedato-, ma -vossignorato- a suo talento” (il corregidor tratta bruscamente il Baretti, che gli ha dato solo del “voi|Lei” anzichè del “Vossignoria”, come si doveva al suo grado: c’erano di mezzo delle malefatte di un calessere o di qualche altro servo addetto alla carrozza)| “la stupida gravità che gli (al coregidor) campeggiava in faccia chiedeva pugna e serguzzoni d’una libbra ciascuno”| “Oh che brutta e vecchia squarquoia!” (a proposito di donna Fernanda, a Zevolla, il 2.10.1760).
Residui metrici nella prosa barettiana (sia della Frusta che delle Lettere). Il sospetto che una componente della artisticità nella prosa del Baretti consistesse in un musicalismo, sia pure imperfetto e brado (cioè non continuato, ma sparso qua e là), ci è venuto dalla lettura dei suoi versi. E’ vero che neppure noi li apprezziamo fino al punto da considerarli come opere esteticamente grandi o almeno sufficienti, tuttavia crediamo che il difetto delle composizioni barettiane non stia nella scarsa (od impertinente) musicalità, ma solo nella mancanza di grandi cose da dire: il tarlo dei versi baerttiani è, a nostro parere, la mancanza di adeguati motivi ispiratori, non la scarsezza di musicalismo. Johnson gli ha mosso l’appunto di non avere molti “uncini” nel suo cervello, pur elogiandolo per il sapientissimo uso che ne sapeva fare. A noi pare di tradurre questo rimprovero... laudativo in un altro: Baretti, oltre a non essere un grande erudito, non era neppure una mente filosofica, sicchè il suo orizzonte culturale era limitato alle proprie esperienze personali, ai libri letti, alla cronaca del suo tempo. Dotato di “sinderesi” notevole nei giudizi su tali tematiche, mancava però della profondità di pensiero per inventare argomenti ed argomentazioni al di là della cultura del suo ambiente e persona. Ma l’estro per la metrica l’aveva buono.
Un sondaggio sulla sua prosa della “Frusta” ha dato subito esito positivo. Ci sembra di poter dire due cose: il ritmo preferito è quello decasillabico, anche se spesso uno degli accenti anapestici cade fuori posto.[93] In secondo luogo, i versi sono sempre maggiori, cioè ondeggiano fra il novenario e l’endecasillabo. Più spesso l’endecasillabo inizia i paragrafi[94]. Tutti segni di un estro grandioso, che diventa farsa piu tosto che che epopea.
Limiti e difetti. Se si leggono, avulsi dal contesto, gli idiotismi barettiani nella Storia della lingua italiana di B. Migliorini (Firenze, Sansoni, 1966, p. 523), se ne troveranno più ostici ed antipatici che divertenti ed azzeccati: boccacceria, brunocchiuto, creanzuto... illustrità, insignità, scredente...”. Anche il “fifflautare e violinare” delle lettera 20 da noi citati non sono grandi invenzioni. E un motivo lo si è già detto: Alfieri ne ha pochi e tutti sorprendenti simpaticamente; Baretti ne inventa troppi: è molto più superficiale ed affrettato dell’Astigiano e molte “scoperte” linguistiche riescono improvvisate ed infelici. Si dovrà ovviamente risalire alla personalità più estemporanea del Torinese, rispetto alla pensosità programmatrice di Alfieri, che certo è più filosoficamente motivato e impegnato, mentre Baretti è più semplice ed intuitivo, anche se supera in buon senso non solo l’Alfieri, ma tutta la “intellighentsia illuminista”.
Ed ecco anche il vocabolario e la grafia del Baretti. Benchè prevenga il Manzoni ed il toscano tuttora parlato, a distanza di quasi due secoli e mezzo, pure presenta i suoi nei: una bella mente di linguista (accordo fra parola-idea e parola-musicalità), ma non così perfetta come quella di Manzoni e dello stesso Alfieri. Anzi troviamo anche qualche raro anacoluto di sbadataggine. Esemplifichiamo: Aplopesia (con una sola “s”)| in oltre (staccato)| dovrebbono| infanteria (ma anche il moderno “fanteria”)| tutt’a due| veddi| potrebbono| acquidotto| spedale| monistero| tutt’ora| vegghiando| conchiudere| ricogliendo| goto (gotico)| conghietturare| altramenti| la di cui vista, le di cui case (cfr. C. Beccaria)| amor propio| oriuolo...
Ecco i rari anacoluti: “In Castiglia non veddi cosa rimarchevole tranne i pochissimi resti di una picciola rocca, situata sur una vetta assai alta e che il terremoto deve aver fatto fatica a demolirla” (letetra 21); “I quali (cavicchi) facendo battere certi martelletti sopra certi legni resi sonori dalle reciproche proporzioni, se ne cava una musica non dispiacevole” (lettera 29); “che io me ne rallegro sempre assaissimo” (lettera 38).
Stranamente presente qualche volgarità nelle lettere 32 e 36 (Edizione 1871, Guigoni, in Milano, p. 206).
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[1] Difatti, la mentalità cartesiana non generò per nulla in Francia lo “spirito arcade”, ma confermò il classicismo delle tragedie, la ironia delle commedie e lo spirito forte degli scrittori illuministi alla Voltaire.
[2] Anzichè “moto letterario riuscito” avremmo voluto scrivere “autentico”, ma la ragione cartesiana ce lo ha impedito. “Autentico” significa (qualcuno) o qualcosa che si convalida da sè, cioè che ha in sè l’autorità di definirsi davvero quello che è (“letterario”, nel nostro caso). Che, poi, l’uso abbia introdotto un senso più sottile corrispondente più o meno all’aggettivo “genuino, valido, vero e buono”, cioè appunto “riuscito”, questo è frutto della evoluzione inesorabile della lingua, aiutata dalle forzature e confusioni o malizie degli utenti il linguaggio. E, nel nostro caso, la traslazione di significato ci sembra meno giustificata e onesta: il soggetto si giustifica da sè come “valido, genuino, riuscito”: eh! via, è un po’ troppo. E’’ prerogativa di Dio, questa!
[3] E’ noto che il Gravina, dopo aver dettato in stile grave e solenne le leggi dell’Accademia, quasi fossero le nuove leggi delle “dodici tavole”, finì per uscirsene, sbattendo la porta e fondare, nel 1714, l’accademia dei “Quirini”: che fu però cosa effimera. A parte la farsa che il Baretti si divertì a fare, di tale scissione, un cinquantennio dopo, sulla sua “Frusta”, resta il fatto che “l’Arcadia” fu la prima accademia che riunì tutti i letterati d’Italia in una comunità organizzata, con scambio di lettere e di incontri; e l’unica che rimanga tuttora come “Accademia letteraria italiana” (1925) con convegni, pubblicazioni e con la iscrizione selezionata di personalità distintissime nei vari campi del sapere umanistico.
[4] “Metastasio” è la grecizzazione del cognome “Trapassi” fattagli dal Gravina, non il nome arcadico del poeta.
[5] Il Parini insegnava alle Scuole di Brera, dove convivevano il Regio Ginansio (e il Parini aveva cattedra di lettere) e l’Accademia delle belle arti (disegno, pittura...). Anche prima di divenire il “Soprintendente” delle Scuole di Brera, il Parini ebbe incarichi di insegnamento nelle scuole superiori dell’Accademia, tanto che ne maturarono i “Princìpi delle belle lettere applicati alle belle arti”. D’altronde, già come professore al ginnasio, aveva avuto come uditori discepoli delle arti figurative. La collaborazione, poi, coi colleghi di arti visive giunse a tal punto, che i pittori chiedevano consigli al Parini per i soggetti mitologici da dipingere nelle case patrizie, che in questo secolo si dividono l’opera degli artsti, assieme ai clienti religiosi tradizionali per chiese e conventi.
[6] Dobbiamo richiamare che l’aggettivo “lirico” è, purtroppo, equivoco: nel senso più usato e più generico, esso è sinonimo di “artistico, estetico, poetico”; nel senso più ristretto, con cui lo stiamo usando ora, significa “contemplativo, non drammatico, non epico, non scenico”. Si tratta cioè della poesia più spontanea, in cui il poeta esprime i propri affetti come propri, idealmente “in io”, cioè usando la prima persona singiolare, mentre il poema epico si serve della terza persona (singolare e plurale) e la poesia teatrale adopera il dialogo col “tu|voi”.
[7] Si entrava a far parte del clero con la “tonsura”, taglio circolare di capelli al vertice del capo; il progresso verso il sacerdozio era segnato (fino al Concilio ecumenico vaticano II: 1962-5) da sei tappe, di cui le prime quattro erano chiamate “ordini minori”, cioè l’abilitazione ad essere ostiario (sacrestano), lettore (nella Messa), esorcista (contro il demonio), accolito (inserviente alla Messa), mentre gli ultimi due, considerati ordini maggiori, erano il suddiaconato (che implicava l’impegno al celibato e alla recita quotidiana del “breviario”, cioè di un’ora, ogni giorno, di preghiere ufficiali nella Chiesa cattolica) ed il diaconato, che abilitava alla predicazione, alla amministrazione del battesimo ed alla distribuzione della Eucaristia, già consacrata dal sacerdote. Sebbene già fin dalla “tonsura” si era tenuti al celibato, però si poteva venir dispensati con una certa facilità, mentre ciò non era più concesso dopo il sacerdozio.
[8] G. Natali, Il Settecento, Mi., F. Vallardi, 1960, II, p.784: per le notizie esteriori, seguiremo il ben informato Natali anche per il Metastasio; le citazioni senza indicazione diversa, originano dalle pagine 782-820 di quest’opera.
[9] Che il Metastasio fosse troppo sentimentale nell’esprimersi e potesse destare speranze o sospetti al di là delle sue intenzioni, lo dimostrano gli strascichi giudiziari che egli lasciò in Italia, per un presunto innamoramento a Roma, quando vi fece ritorno qualche anno, dopo il trionfo della Didone: la lite terminò solo nel 1737, ma rimane misterioso il suo preciso contenuto, che il Metastasio attribuisce a calunnie nei suoi confronti. Nello studio del “temperamento” del Metastasio noi vedremo la sua mancanza di doti pratiche e di vita sociale e la sua tendenza a dipendere da donne anche affascinanti, ma che fossero attive, intraprendenti e protettrici come la Bulgarelli: è il sogno di una Camilla per Virgilio e di una Clorinda per il Tasso. Può, quindi, aver ragione il Natali che, al seguito di tutti i biografi del Millesettecento, parla di amicizia tenerissima, e definisce un romanzo le ipotesi di rapporti erotici con lei. Nel formarsi di un tale romanzo, una parte di colpa hanno avuto anche gli studi, molto brillanti ma troppo sospettosi, del Carducci. Le insinuazioni a proposito dell’ultima Marianna, la Martinez, Metastasio le dissipò dicendosi disposto a farsi ordinare sacerdote, cioè ad un impegno al celibato non solo perpetuo, ma soggetto a continui sacrilegi, nel caso inevitabile di dover celebrare la Messa in stato di peccato grave come la fornicazione: era conosciuto comer troppo galantuomo e cristiano per non essere preso sul serio.
[10] Ricordiamo: “Emotivo” non significa “soggetto a provare emozioni” (dote di ogni uomo, anzi degli animali stessi), ma “capace di “comunicarle altrui, di coinvolgerli nei propri stati d’animo”. Così pure, “attivo” non significa solo “capace di agire”, ma “capace di coinvolgere gli altri nella propria azione”. “Secondario” significa stabile, perseverante come “primario, “instabile o soggetto ad oscillazioni positive-negative delle doti possedute”. Così il tipo “nervosos” è forse il soggetto sottoposto alla maggior attività, fatica, tormento di tutti i temperamenti, a parità di effetto raggiunto: deve agire solo, perchè più o meno incapace di farsi seguire ed aiutare dagli altri.
[11] Una tragica prova della incapacità a far fronte alle sfide della vita sarebbe la causa della sua morte, quale la racconta Lorenzo Da Ponte nelle sue Memorie: avendo deciso il nuovo “Padrone (Giuseppe II) di abolire le pensioni troppo generosamente assegnate dalla madre, morta due anni prima, Metastasio si sentì perso e ne fu così accorato che ne sarebbe morto, nonostante l’imperatore avesse escluso il venerando cortigiano dal provvedimento. L’annuncio arrivò troppo tardi per risollevarlo. D’accordo, il Da Ponte non è sempre affidabile nelle sue notizie: ma, però...! (la interpretazione rimane significativa, anche se non fosse vera: il personaggio si prestava a simili calunnie!)
[12] Per “vagoprevalente o parasimpaticoprevalente” intendiamo un temperamento con emotività prevalentemente vagotonica o parasimpaticotonica (la parte de sistema neurovegetativo che comanda la diastole del cuore).
[13] “Tu vuoi saper s’io vado,| tu vuoi saper s’io resto:|sappi, mio ben, che questo| non lo saprai da me.|| Non che il pudor nativo| metta alla lingua il morso| o che impedisca il corso| quel certo non so che.|| Vuoi ch’io dica perchè non lo dico?| non lo dico, o destino inimico,| non lo dico, o terribile intrico!| non lo dico perchè non lo so.|| Lo chieggo alla madre| con pianti ed omèi; | risponde: -Vorrei| saperlo da te.|| Se il chieggo alla sposa: -decidi a tuo senno-| risponde; un tuo cenno| è legge per me.|| Se il chieggo a me stesso...” (qui, “cadde la stanca man”). Nel romanzo, il povero don Ferrante, “va a letto a morire come un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle”, dopo aver subìto stoicamente la peste, quale frutto inevitabile degli influssi astrali, senza preoccuparsi, quindi, di usar precauzioni contro il contagio.
[14] Assumendo la catalogazione di Carducci, distinguiamo tre peridodi: ascendente, culminante, discendente. Al periodo primo od ascendente appartengono: Didone (1724: eroico), Siroe (1727: sentimentale e di intrigo), Catone in Utica (1728: eroico), Ezio (1728: eroico), Semiramide riconosciuta (1729: sentimentale), Alessandro nelle Indie (1729), Artaserse (1730). Quelli del secondo periodo, culminante, sono stati citati nel testo. Al terzo periodo, discendente, sono assegnati: Antigono (1744), Ipermestra (1744), Il re pastore (1751), L’eroe cinese (1752), Nitteti (1754), Il trionfo di Clelia (1763), Romolo ed Ersilia (1765), Ruggiero, ovvero l’eroica gratitudine (1771).
[15] L’espressione è coniata sui versi del “Re Tentenna” di Domenico Carbone (1823-83), a proposito di Carlo Alberto (“Sfiorò l’Antenora; giace nel Limbo”).
[16] I termini “ drama, drammatico” (lo ripetiamo) han due sensi: uno generale o generico, più ampio; un altro più specifico e limitato, più ristretto. “Drammatico” indica cioè sia entrambi i toni emotivi mossi e vivaci, forti e travolgenti (nella gioia: epopea; nel dolore: tragedia); ma indica pure la forma di tragedia “attenuata”, non portata al massimo di potenza, di sconforto o di sconvolgimento. E’ questo che vogliamo dire: in Metastasio manca la capacità di sentire e comunicare la forza estrema della sofferenza, del dolore. In questo senso lo possiamo dire un poeta drammatico, ma non tragico.
[17] Non ci si sarebbe mai aspettato, d’altronde, dalla figura ideale del Metastasio, la composizione di quello “Scherzo estemporaneo”, che lo umilia fra i poeti pedestri e scurrili.
[18] Nei drammi sacri (Oratori), sbandito l’amore sessuale, presentano il contrasto fra virtù e tentazione, con la vittoria dle bene assicurata dalla fonte biblica cui l’opera scenica fa riferimento.
[19] Con questo non si vuol negare la presenza di un certa misura di realismo nei melodrammi del Metastasio. Esso consiste nella coerenza colle regole del gioco, connesse colla tradizione del genere letterario. Si vuol dire: una volta concessa una certa misura di inverosimiglianza alla costruzione della vicenda scenica, per il resto il poeta rimane fedele ai canoni così definiti e non procede con arbitri ulteriori: i personaggi, se non altro, agiscono con psicologia pertinente. In proposito è bene richiamare che la dignità dell’intreccio e la legge della coerenza, se non della verosimiglianza, nella sua strutturazione erano già stati realizzati dalla “riforma” di Apostolo Zeno, veneziano (1668-1750). I suoi libretti (Gli inganni felici: 1698; Lucio Vero: 1700; Merope: 1711; Alessandro Severo: 1716...) avevano ricondotto il testo del melodramma alle unità aristoteliche, alla regolarità della trama ed alla divisione in atti e scene, ecc., riscattandolo dalla improvvisazione sul tipo della Commedia dell’arte. Per questo, aveva meritato di essere chiamato a Vienna quale poeta cesareo. Senza che i suoi libretti avessero meriti artistici, egli aveva tentato di creare la “tragedia per musica”, preparando il terreno al Metastasio, il quale non dovette cominciare dal caos, come dovrà fare il Goldoni per la commedia in prosa.
[20] “Del volo” celebra quello da lui ipotizzato nel poema Gli occhi di Gesù.
[21] “I Taimingi” sono una tragedia di argomento cinese, sulla base di notizie provenienti dai missionari. Egli ha il primato nel trattare tale tema esotico, prevenendo sia il Metastasio (L’eroe cinese: 1752) sia Voltaire (L’orfano della Cina). A chi lo vorrebbe una “scimmia dei francesi”, il Natali concede la cosa per l’uso del verso “alessandrino” di cui parleremo, ma cita il Crébillon come modello solo per il M.T. Cicerone “Le Triumvirtat”) e per La Ifigenia in Tauris (Elettra).
[22] Al dir del Natali (o. c., II, pp. 943-6), il Femia fu ritirato per troppa accondiscendenza del benevolo autore. Ma, come il Maffei continuò ad essere ostile al Martello, ciononostante, così il Martello scrisse contro i due avversari anche l’Euripide lacerato e La rima vendicata. E’ inoltre autore anche di una Vita di A. Guidi.
[23] B. Croce, Le prose di P. Martello, in “La letteratura italiana del Settecento”, Bari, Laterza, 1949
[24] Anche qui seguiamo il giudizio di G. Natali, nel II volume del Settecento vallardiano, pagine citate.
[25] Il Gravina fu anche autore di “alcune mediocri ecloghe” (Natali, o. c. II, 946)
[26] “Sulla favola dell’ordine equestre di Costantino”.
[27] Eccone la trama. Polifonte si fa tiranno della Messenia, dopo averne ucciso il re Cresfonte con due dei suoi tre figli. Il terzo figlio –Cresfonte junior- , creduto morto nella strage, è salvato dalla madre e mandato in Grecia con il vecchio, fido servo Polidoro. Polifonte, intanto, chiede alla vedova Merope di sposarlo: ella acconsente per salvarsi la vita, ma pone un termine di 15 anni, per dar corso alla vendetta. Con questo stratagemma (imitato sulla Penelope dell’Odissea), ella permette il ritorno di Cresfonte, che però non sa di essere il figlio di Merope e porta il nome di Egisto. Sfuggito alla sorveglianza di Polidoro, ricevuto l’anello di riconoscimento già prima (col comando di non rivelare la cosa) egli finisce per uccidere, per legittima difesa (vedi Edipo re), un giovane, affermando di aver tolto a lui l’anello. Giunto alla reggia, è la madre che tenta di uccidere colui che ella crede sia l’uccisore del proprio figliuolo. La cosa si risolve, poi, nel migliore dei modi: Polifonte (come Egisto nella Oresteia, di Eschilo) è ucciso, nel tempio, da Cresfonte junior, con la scure del sacerdote.
[28] Nell’Ars poetica, Orazio raccomanda che la figura del vecchio sia quella più solita: incontentabile, lamentoso, lodatore del tempo antico, quando lui era giovane...”. Maffei lo ha fatto non triste e suscettibile, egoista e lamentoso, ma mellifluo, dolce, benevolo, disposto ad ogni servizio ed opera di bene.
[29] Si veda Inferno, 29, 121-9; Purgatorio, 13, 151-4. Ma , a parte santa Caterina e san Bernardino, proprio nel secolo diciottesimo si ha anche J. A. Nelli che fa onore alla città. Insegnò letteratura nello Studio della sua città e fu, poi, al servizio di casa Ruspoli in Roma. Campanilista appassionato, tentò di sostituire alla lingua della triade fiorentina Dante- Petrarca-Boccaccio quella di S. Caterina e pubblicò un Vocabolario cateriniano, edito fino alla lettera “R” nel 1717 e, completo, nella edizione delle sue opere tutte nel 1797. Questo fatto gli meritò la espulsione dalla Crusca, dall’Arcadia e dal corpo docenti dello Studio senese, anzi dalla sua stessa città e da Roma, sicchè dovette fare atto di sottomissione, almeno per quanto concerneva lo stile e l’animo con cui l’opera era scritta. Difatti, non fu solo il programma balordo che gli attirò la detestazione universale: polemico, fazioso, beffardo, il libro fu pubblicamente condannato e bruciato. Egli satireggiò il purismo ed il classicismo anche nella Brandaneide (la fontana della città, per cui vedi Dante, Inferno, 30,78) e nel Collegio petroniano delle balie latine (1719)[29]. Si rivela antigesuita sia nel Gazzettino (od “Avvisi ideali”: fatti circolare manoscritti fra il 1712 e il 1714) e nella Lettera intorno ai presenti sconcerti della Compagnia. Si noti che nel Gazzettino usa notizie fantastiche su progettati matrimoni fra Amazzoni cinesi e personaggi europei, con lettere dell’imperatore cinese al papa e viaggio di quelle, che offrono spunti al suo spirito caustico.
Poligrafo come era, scrisse anche commedie, passando dai modelli della Commedia dell’arte a quelli spagnoli (Don Chisciotte, ovvero un pazzo guarisce l’altro, opera serioridicola in tre atti: 1698), per concludere con opere di uno spregiudicato realismo, più vicine agli esempi francesi nella analisi psicologica, se non nelal carica comica. Ne Il Gorgoleo, ovvero il governatore delle isole natanti, egli ha presente la commedia-balletto “Monsieur de Pourceaugnac”; come per Le furberie di Scappino traduce anche il titolo (Les fourberies de Scapin) di Molière. Per I litiganti, ovvero il giudici impazzito, segue, anche se non pedissequamente, “Les plaideurs” di Racine, ma tenendo presenti anche Le Vespe ed i Cavalieri di Aristofane; Antoine Jacob Montfleury si riflette in Ser Lapo, ovvero la moglie giudice e parte, come anche ne La scuola delle fanciulle (L’école des filles). Jean Palaprat è il modello per i Vizi correnti all’ultima moda.
[30] A dir la verità, il Baretti non si riferisce direttamente alle commedie, ma alle poesie (sacre, profane e facete). Il Natali sostiene, però, che “alcuni suoi sonetti sono arguti, brioso il capitolo sulla Gelosia”. Non ci pare proprio: Si tenga presente che nel Diario sanese egli “aggiunse frottole alle notizie , fornitegli dal Benvoglienti”. Scrisse anche orazioni, lettere, drammi per musica, oratori, un melodramma (Don Chisciotte e Coriandolo), feste teatrali, cantate.
[31] Non nel senso che siano autobiografici, ma nel senso che il protagonista narra in prima persona avventure, amorose o meno, della propria vita.
[32] “Di tutte le cose e di qualcun’altra ancora”.
[33] Il Natali fa osservare che era quello il tempo della letteratura di falso conio orientale od esotico: Lettere persiane (1721, di Carlo Luigi di Secondat, barone di la Brède e di Montesquieu: 1689-1755); Lettere cinesi (1739-40, di Giov. Battista de Boyer, marchese d’Argens: 1703-1771), Lettere turche (F. G. Poullain de Saint-Foix, 1698-1776), Lettere d’una peruviana (1747, di Francesca Graffigny: 1695-1758).
[34] Era un usurpatore, assassinato nel 1747.
[35] “cimento fatal”: si tratta della elezione a “custode del sigillo”, carica importantissima alla corte dell’imperatore.
[36] L’amico di Ferraù è Ruggero, già musulmano e, convertito alla fede cristiana, divenuto sposo di Bradamante.
[37] “Baùtta” voce veneziana per maschera, cappuccio, mantelletta per coprirsi il viso buttandola sul capo.
[38] Nel 1819 vennero pubblicai i primi due canti di un poema scritto da C. Gozzi (assieme a Daniele Farsetti ed a Sebastiano Crotta). Gozzi aveva 16 anni al momento del tentativo: e non è l’unico poema giocoso iniziato da lui nella giovinezza....
[39] “Osservatore”, n. 8, del 28 febbraio 1761. Ricitiamo dal Natali, iI, pp. 1145-6..
[40] “Amministrazione pindarica” è la definizione ironica che diede Carlo al modo, fantastico e spendereccio, della cognata nell’amministrare le finanze del fratello.
[41] “La difesa di Dante” è, criticamente, una povera cosa e lo si è già detto: Dante è difeso in base alla intuizione ed al buon senso, ma senza prender coscienza che i fattori della grandezza della Commedia sono al di là della retorica e della stessa unità ed organicità del poema, perrfettamente da lui compresa ed affermata: di una percezione della componente lirica od emozionale non vi è ancora traccia. Va notato che Gasparo, a differenza di Carlo, comprese la grandezza del Goldoni, celebrandone I Rusteghi come capolavoro.
[42] Nell’ “Osservatore veneto”, il Gozzi volle seguire l’esempio di Joseph Addison nello Spectator (1711-12 e 1714) e l’ispirazione che gli veniva da Orazio, Luciano, Gelli e Boccalini. Ma non vi era un pubblico preparato (neppure in Italia) a spender soldi per simili capricci di cultura geniale. Egli, comunque, nell’Osservatore, alternò dialoghi, ragionamenti, favole, allegorie, sogni ed “altre ingegnose e piacevoli cose, tutte tendenti a migliorare la specie nostra, sempre mettendo in ridicolo i difetti, sempre deprimendo il vizio e sempre eccitando alla virtù” (giudizio del Baretti).
[43] Gli autori hanno scritto altre opere più o meno importanti oltre il poema: ne tratteremo quasi sempre nel contesto della rubrica presente (sui poemi), per il porposito di dedicare a tutto un autore un solo spazio nella nostra scorsa sulla letteratura italiana.
[44] A parte l’ammirazione per le valenti danzatrici di XXIII, 44-60, troppo privilegiata è la critica delle cose della Chiesa (curia e conventi) rispetto all’andazzo del mondo. Ma c’è di peggio: coinvolte nella parodia sono anche alcuni aspetti della liturgia della Chiesa. Non ci meraviglierà, allora, che l’opera sia stata pubblicata a Venezia, con pseudonimo (M. Carteròmaco) dai curatori post mortem, ma subito indicizzata dal S. Uffizio (1739).
[45] “D.O.C.” è la sigla per “denominazione di origine controllata”.
[46] Nello stesso poema, egli si definisce “Il cantor della Rete di Vulcano” (IX, 97).
[47] Egli scrisse anche sonetti, favole e canzonette giocose, un melodramma scherzoso intitolato La Didone pisana e un poema burlesco, circa la reazione popolare cattolica contro i rivoluzionari in Toscana, dal titolo volterriano La Pulcella di Valdarno. Ma tutte queste opere sono andate perdute.
[48] Ecco il sonetto caudato del Parini, composto forse nel 1790, quando il Casti ritornò a Vienna, dopo il soggiorno a Milano, come poeta di corte: “Un prete brutto, vecchio e puzzolente,|dal mal moderno tutto quanto guasto| e che, per bizzarria dell’accidente,| dal nome del casato è detto casto;|| che scrive dei racconti in cui si sente| dell’infame Aretin tutto l’impasto| ed un poema sporco e impertinente| controla donna dell’impero vasto;|| che,sebbene senz’ugola è rimaso,| attorno va, recitator molesto,| oscenamente parlando col naso;|| che dagli occhi, dal volto e fin dal gesto| spira l’empia lussuria ond’egli è invaso,| qual satiro procace e disonesto:|| sì, questo mostro, questo| è la delizia dei terrestri numi.| Oh che razza di tempi e di costumi!”.
[49] Si veda G. Natali, o. c. , cap. X, La commedia, vol. II, pp. 847-62.
[50] Anche Foscolo, dunque, inizia arcade e metastasiano. Che più? A nostro parere le uniche poesie riuscite di Cesare Pavese, nel secolo XX, sono le strofette arcadiche scritte in inglese!
[51] I canzonieri dei vari Frugoni, Manfredi, Salvioli e Zappi sono ascritti alla produzione della Accademia e (non si può negarlo) hanno qualche composizione di “spirito” arcadico. Ma la sostanza della loro espressione letteraria non si affiata con quella tipica del Metastasio, del Rolli e del Vittorelli. Nè la più parte dei motivi ispiratori è di contenuto pastorale nè la metrica segue, in prevalenza, quella ridotta e cantante delle ariette-canzonette. E, viceversa, non sempre i metri minori e le “pastorellerie” edite da poeti arcadi sono cose riuscite: c’è la tecnica di scuola; ne manca l’estro specifico. Molto più “arcadiche” sono le cose minori del Parini (canzonette e scherzi per parafuoco o ventole). Nella più parte dei poeti minori del Millesettecento converge, da una parte, tutta la eredità classica ed emerge, dall’altra, il genio personale, che privilegia temi di canto i più lontani dal mondo pastorale (non mancano canzoni epiche o militari). Fra i poeti più amati ed imitati, vi è Pindaro (filtrato da Chiabrera), ed Anacreonte (che fa la parte del leone); dei latini Orazio, Catullo, Virgilio; fra gli italici, Petrarca ed i Cinquecentisti. In più, vi è la inventività di metri nuovi o rinnovati, con strofe che mescolano vari tipi di versi: il caso degli sdruccioli aritmici con versi piani rimati nella stessa strofa non è che un esempio. In quest’arte combinatoria, Frugoni risulta il principe; accanto a lui, su una lunghezza d’onda poetica diversa e superiore, troviamo il Rolli: il Romanticismo ed il Carducci coglieranno i migliori risultati poetici da simili innovazioni. Frugoni, in realtà costituisce il perno della cerniera nel passaggio fra un certo tipo di Arcadia (genericamente classicheggiante ed ancorata alla tradizione toscana del Tre- e Cinquecento) ed il Neoclassicismo (rivalutazione della mitologia e dell’armamentario tutto del paganesimo greco-latino; sintassi elaborata e complessa, solennità aulica del dire...). Il Frugoni come il Rolli preparano il terreno al Parini, al Foscolo, ai romantici colla varietà dei metri, la sostenutezza drammatica del tono, la levigatezza ed eleganza del musicalismo raffinato.
[52] Per il Parini, vedremo presto; il Carducci costruisce così il suo felicissimo “Congedo”; il Giusti imposta parecchie composizioni con tale metro: “Parole d’un consigliere al suo principe” (“Altezza, il secolo| decimonono| pareva un’epoca| fatale al trono...”) ed in due delle molte parti del polimetro intitolato “Gingillino” (“Bimbo, non piangere:| nascesti trito...”|| “Tra mille ergastoli| di mille tinte...”).
[53] Sarebbe esatto dire che sono gli stati d’animo più sereni ed equilibrati del Vittorelli che creano la musicalità pertinente: il nostro modo di esprimerci risale, invece, dalla strumentazione espressiva agli stati emozionali che la dettano, rischiando di scambiare causa ed effetto. Ma come è inevitabile, per indicare il corso del giorno, affidarsi alla terminologia “tolemaica” che si basa sulle apparenze, perchè risulta molto più facile e sbrigativa, così nella critica estetica torna comodo puntare sui mezzi espressivi ultimi per spiegare il lirismo soggiacente, anche se sono essi che dipendono da quelli interiori e non viceversa.
[54] Ecco il testo del sonetto più famoso: “Annibale vincitore che per la prima volta dalle Alpi ammirò l’Italia”: “Ferocemente la visiera bruna| alzò sull’Alpe l’affrican guerriero,| cui la vittrice militar fortuna| ridea superba nel sembiante altero.||Rimirò l’Italia; e qual che in petto aduna| il giurato sull’ara odio primiero,| maligno rise, non credendo alcuna| parte secura del nemico Impero.|| E poi col forte immaginar rivolto| alle venture memorande imprese,| tacito e in suo pensier tutto raccolto,|| seguendo il Genio, che per man lo prese,| coll’ire ultrici e le minacce in volto,|terror d’Ausonia e del Tarpeo, discese”. Ecco L’angelo sterminatore: “Foco eran l’ali folgoranti; ed era| fulminea fiamma il ferro, che stringea| l’Angel, che in notte orribilmente nera,| rotta da rosse folgori, scendea.|| Sulle gran penne, che copriano intera| la minacciata terra, alto pendea;| quando tonando dalla somma sfera| l’onnipotente Voce a lui dicea:| -Venner dell’ira mia, vennero i tempi:| mio portator di morte e di spavento| ferisci , atterra: il grand’eccidio adempi!|| Disse: e su cento inique fronti e cento| scese l’ultrice spada e feo degli empi| arida polve che disperse il vento”. L’impegno per una “resa” feroce è innegabile, eppure non riesce al senso tragico voluto: vi sono dissolvenze incrociate a livello di motivi ispiratori e tonalità liriche, che si ripercuotono sulla stessa sonorità, solo in apparenza coerente. Vediamo l’ambivalenza dei motivi ispiratori in “Annibale vincitore”: l’incertezza dell’intento è patente: celebrare l’uomo astuto e formidabile (“vittrice militar fortuna| ridea superba| E poi col forte immaginar rivolto| alle venture memorande imprese| tacito in suo pensier tutto raccolto,|| seguendo il Genio, che per man lo prese...”) e, contemporaneamente, detestarne l’animo barbarico, spinto alle stragi dall’odio contro Roma (“Ferocemente la visiera alzata|...e qual che in petto aduna| il giurato sull’ara odio primiero,| maligno rise|| coll’ire ultrici e le minacce in volto,| terror d’Ausonia e del Tarpeo, discese”). Ne consegue l’ambivalenza erosiva delle tonalità liriche: epicità e tragedia si mescolano, si urtano, si logorano, si elidono. E l’espressione , lo stile ne soffrono: ecco una litote (“non credendo alcuna| parte secura del nemico Impero”) che attenua epopea e tragedia; ecco un atteggiamento “contemplativo” (“tacito e in suo pensier tutto raccolto”) che ne è alieno ed alienante; ecco un’espressione musicalmente forte, ma edulcorata dalla raffinatezza delle due inversioni (l’odio antico fattogli giurare sull’altare dal padre: “il giurato sull’ara odio primiero”); ecco uno sdrucciolo (“tacito”); ecco un sostantivo che è troppo elegante per il contesto drammatico (“Ausonia”= Italia); ecco un’eccessiva presenza del suono medio “E” rimato ben sette volte ed ictato anche all’interno del verso; ecco, anzi, quattro rime poggianti sulla tenue “U”; ecco gli accenti ritmici poggiare anche sulla ancor più debole “I” (“maligno rise| ire ultrici”). In conclusione: nonostante l’inizio violento (“Ferocemente”), nonostante il raddoppiamento prepotente della “F” (“affrican”), nonostante l’accumularsi di attributi negativi (maligno| sembiante altero| terror d’Ausonia| coll’ire ultrici e le minacce in volto...). Qualcosa del genere si potrebbe dire, studiando nei particolari l’altro sonetto.
Vediamo qualche canzonetta. La Navigazione d’amore è una canzonetta in quartine di ottonari piani, a rima alternata. Descrive la nave di Cupìdo, su cui il poeta si imbarca per essere condotto all’isola dell’amore, dove si invaghisce di una ninfa e ne rimane prigioniero. Quel minimo di plus-valore poetico che la composizione esprime è sulla linea dell’idillio fiabesco, al modo del miglior Ariosto nel poema: l’idillio affiora sulle ali di un’armonia soporifera, quasi di una cantilena per bambini. Lo stesso senso si ricava dal Ritorno dalla navigazione d’amore, che dispiega una padronanza e felicità di versificazione di tipo ovidiano: molto da descrivere, nessuna idea da comunicare, in un versificazione scorrevole che merita il rimprovero “odio il verso che suona e che non crea”. L’isola amorosa è una canzonetta di doppie quartine, costruita come “La neve è alla montagna” di P. Rolli: la prima quartina ha un settenario piano aritmico (senza rima); prosegue con due piani a rima baciata; termina ocn un settenario tronco che rima coll’ultimo della strofa seguente, la quale, per altro, ha i primi tre versi sdruccioli senza rima (schema: abbc|defc). L’isola amorosa dimostra come la musicalità prenda il sopravvento nella fantasia del Frugoni sul contenuto ideale: le idee sono “psicologicamente” inesistenti, cioè non attraggono l’attenzione, non penetrano nella mente, offuscate dall’onda cullante e carezzevole. Ripetiamo: tale versificazione richiama l’Orlando Furioso. La versificazione ariostesca è meno fascinosa, ma ha più continuità, cioè conduce avanti una simile malia per molte più strofe, per interi canti del poema.
Amore pitoccante è una canzonetta di quartine doppie di settenari, con schema ritmico abac|dedc (“c” è tronco; tutti gli altri sono settenari piani). Si cercherebbe invano il preciso significato della composizione: che Amore si nasconda sotto le spoglie di un mendìco per ottenere ciò che vuole, è una fantasia così irragionevole, che non fa presa sulla mente. Difatti, egli non trova ascolto in alcuna delle belle ninfe, se non in quella (Dori) che lo riconosce come Cupìdo travestito. Il poeta vuol dirci che la ninfa del poeta (Dori) è la più furba, oltre che la più bella, sì che sa riconoscere amore pur travestito? Oppure che l’amore si ottiene più facilmente con le belle vesti e la sontuosità della presenza, tanto che l’immiserirsi come mendicante non dà risultati? Oppure, Frugoni ha voluto solo scherzare: canzonare le donne che si innamorano dell’uomo, anche se si tratta di un povero diavolo che accatta? Tutte possibili interpretazioni, ma nessuna esplicitata o convincente. Il risultato della indecisione del motivo ispiratore (cioè il senso disorientante della canzonetta) trascina con sè la confusione tra idillio e comicità (toni lirici) e nella tecnica stilistica (realismo e concretezza da una parte; sapore di favola in altri vocaboli, dall’altra).
Anche La follia delle donne (tutte si credono la più bella) ed Il tempio dell’infedeltà presentano gli stessi ondeggiamenti nella ispirazione: nella prima, la serietà con cui si tenta di dimostrare la diversa bellezza delle donne, secondo categorie estetiche tutte da primato, si scontra con la canzonatura della pretesa assurda; nella seconda, il pur infedelissimo autore (convinto della bontà del fatto, sino ad elevarlo a divinità) non riesce a superare il senso della temerarietà del culto alla dea infedeltà, sicchè oscilla fra serietà e canzonatura, fra esaltazione e sorriso sornione di chi sa che tale condotta è soltanto “comoda” ed è una dimostrazione della instabilità umana. I toni lirici si elidono, ovviamente, coerentemente. E lo stile mescola una verseggiatura levigata, scorrevole (ed un linguaggio per lo più eletto ed elegante), con cadute popolaresche degne del Berni (la bella che “in virtù d’anni diciotto| ai quaranta dà cappotto”); oppure il poeta gioca su personaggi e scandali del bel mondo contemporaneo, chiamando “franchezza” la sfacciataggine con cui “il gran Fileno”, cioè Francesco Calcagnini, abbandona la marchesa M. Maddalena Bevilacqua-Trotti per altre amanti. La canzonetta sulla “Infedeltà” fu scritta su incarico della marchesa tradita, come vendetta, sia pure scherzosa, dell’abbandono.
La metrica della “Follia” è basata su ottonari piani a rima baciata; quella del “Tempio dell’infedeltà” usa sempre ottonari, ma di tutti i tipi: piani, sdruccioli e tronchi (ed anche gli sdruccioli trovano la rima!).
[54] Si sposò con Faustina Maratti, altra poetessa arcade (Aglauro Cidonia), che leggeremo subito dopo il marito.
[56] Ecco il snetto su Mosè: “Chi è costui che in sì gran pietra scolto| siede gigante, e le più illustri e conte| opre dell’arte avanza, e ha vive e pronte| le labbra sì che le parole ascolto?|| Quest’è Mosè. Ben mel dicea il folto| onor del mento e ’l doppio raggio in fronte;| quest’è Mosè, quando scendea dal monte| e gran parte del Nume avea nel volto.|| Tal era allor che le sonanti e vaste| acque ei sospese a sè d’intorno, e tale| quand’il mar chiuse e ne fè tomba altrui.|| E voi, sue turbe, un rio vitello alzaste?| Alzato aveste imago a questa eguale,| ch’era men fallo l’adorar costui”.
[57] Ecco il sonetto: “In quell’età ch’io misurar solea| me col mio capro, e il capro era maggiore,| io amava Clori che insin da quell’ore| maraviglia e non donna mi parea.|| Un dì le dissi: -Io t’amo”-, e ’l disse il core| poichè tanto la lingua non sapea.| Ed ella un bacio diemmi e mi dicea: - Pargoletto, ah non sai che cosa è amore-.|| Ella d’altri s’accese, altri di lei;| io poi giunsi all’età ch’uom s’innamora,| l’età degli infelici affanni miei.|| Clori or mi sprezza; io l’amo insin d’allora.| Non si ricorda del suo amor costei;| io mi ricordo di quel bacio ancora.”.
[58]
Appartenente ad una
famiglia di dottissime persone, con le due sorelle Maddalena e Teresa pure
dedite alle scienze matematiche ed alla poesia, col fratello Gabriele
matematico e geografo, aveva anche un
fratello gesuita (Emilio).
[59] Riecheggiamenti ed imitazioni li accenniamo in nota. Al Parini, le “anacreontiche” del Savioli offrirono più di uno spunto per la materia de “Il Giorno” (si occupano anch’esse di vita dell’alta società: passeggiata, toeletta, gelosie., vita notturna..); addirittura la canzonetta “Il Mattino” offrì il titolo per la prima parte del poema pariniano, con la dovuta distinzione, però, dello spirito diverso: generalmente, nel Savioli vi è solo galanteria, contemplazione innamorata della vita elegante; in Parini subentra la satira. Generalmente: nell’anacreontica All’Ancella, l’ironia è già presente anche nel Savioli. Inoltre (sebbene questo non sia frutto di imitazione, ma di congenialità spontanea), la colonna sonora del Savioli è quasi la stessa che quella del Parini. Al Monti vennero suggerimenti dalla canzonetta All’amica che lascia la città, per le strofe finali dell’ode “Al signor di Montgolfier”. Il Foscolo potè trovare ne La maschera ispirazione per le sue Odi, specie per la più famosa, “All’amica risanata”.
[60] Il Winckelmann aveva già pubblicato, nel 1755, i Gedanken uber die Nachahmung der grieschichen Verke in der Malerei und in der Bildhauerkunst (Pensieri sulla imitazione delle opere greche di pittura e scultura), ma l’opera non era conosciuta in Italia ed è certo che il Savioli non ne fu ispirato. Invece già erano conosciute le riproduzioni delle pitture di Ercolano, venute alla luce per gli scavi iniziati sotto Carlo di Borbone, re di Napoli e Sicilia, (1735-1759), pitture di un disegno preciso e sobrio, che possono aver insegnato anche al Savioli.
[61]“Parini più solito”: a prescindere, cioè, dal risultato eccezionalmente buono dell’episodio della “vergine cuccia” e di qualche altra strofa, più in su della solita sufficienza generale del poema pariniano.
[62] Lord John Francis Edward Acton (1736-1811), inglese, fu primo ministro del Regno di Napoli dal 1789 al 1804: con la regina Carolina, fu colui che rescisse la capitolazione onorevole, offerta dal cardinal Fabrizio Ruffo al gruppo di nobili ed intellettuali che avevano aderito alla repubblica partenopea nel 1799, condannandoli come traditori alla morte.
[63] In tale ode, Orazio lascia ad altri (non senza ammirazione) la gloria di narrare le grandezze e le bellezze di varie località come Rodi, Mitilene, Efeso, Delfi, Argo, Micene, Corinto, Atene, Sparta... Quanto a lui, ha sentito di più l’attrattiva di Tivoli e del precipitoso Aniene, dove c’è la caverna della ninfa Albunea, un boschetto e frutteti bagnati da ruscelli scorrenti: anche tu Planco, impegnato in imprese militari, ricordati di por fine alla tristezza ed alle fatiche della vita con la dolcezza del vino puro: “Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilinen| aut Ephesum bimarisve Corinthi| moenia vel Baccho Thebas vel Apolline Delphos| insignes aut Thessala Tempe.||....Me... percussit... domus Albuneae resonantis|| et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda| mobilibus pomaria rivis...||... sic tu sapiens finire memento| tristitiam vitaeque labores| molli, Plance, mero...”
[64] Dicendo “(ode) saffica” si intende la “saffica minore”, quella che risulta di tre endecasillabi ed un adonio (verso quinario), come vedremo meglio studiando lo stile, che il Carducci seguirà nelle sue “Odi barbare”
[65] Questo tipo di endecasillabo si chiama “a minore”, perchè la prima parte (quinario) ha meno sillabe della seconda parte (senario). Per la varia composizione dell’endecasillabo italiano, si legga oramai qualsiasi Dizionario od enciclopedia della Letteratura.
[66]
Ecco come trasferisce
alcuni schemi strofici classici. Il verso asclepiadeo minore vien reso con tre
endecasillabi sdruccioli (ciascuno risultante da due quinari sdruccioli, con
elisione fra loro), che si concludono con un settenario pure sdrucciolo e non
presentano nessuna rima. Il pitiambo primo lo traduce con quartine in cui il
primo e terzo verso sono endecasillabi piani; il secondo ed il quarto sono
invece settenari sdruccioli. Il sistema giambico secondo è verseggiato in
quartine, di cui il primo e terzo verso sono settenari sdruccioli con accento
sulla quarta sillaba; il secondo e il quarto sono endecasillabi sdruccioli,
cioè trimetri giambici puri. Il sistema alcaico è tradotto con due
endecasillabi alcaici (quinario piano+ quinario sdrucciolo), seguiti da due settenari
piani a rima baciata.
[67] “Sì, ma l’onda l’ho creata io” pare sia stata la risposta del fisico Albert Abraham Michelson ( 1852-1931) a chi gli osservava, con stizza, che egli si trovava sempre “sulla cresta dell’onda”.
[68] Il poeta inglese Edward Young visse dal 1683 al 1765; fu cappellano di Giorgio II; scrisse i “Night thoughts” fra il 1742 ed il 1745. Il titolo “Notti clementine” nasce dall’occasione dei versi: la morte di papa Clemente XIV (1769-74).
[69] Le “Rime e prose”, più volte stampate quasi di contrabbando, rivelano un Bertòla “precettor d’infame rito”, sulla voluttà ed il piacere dei sensi. Una delle prose è intitolata “Filosofia per Giulietta”. Il Natali, dal quale dipendiamo per molte notizie e giudizi su vita, pensiero, poesia, scrive: “Molto notevoli i 38 sonetti, di cui non si possono citare, perchè arditissimi, i versi migliori” (Il Settecento vallardiano, II, p. 729).
[70] Essa continuò a scrivere poesie liriche tutta la vita, tanto che la edizione del 1816 era in 4 volumi; ed Poesie postume furono pubblicate nel 1843.
[71] Vedi “Scelta di lett. fam.”, p. II, lett. VII.
[72]
Ci ha lasciato una traduzione da Omero,
ma già il titolo dice la natura equivoca tra classicità e modernità: “Iliade tradotta in compendio e in prosa
(1789). Tradusse anche da Shakespeare (Amleto, Otello). Tradusse pure da
Longo Sofista (Dafni e Cloe). Opera
storiografiche sono il Saggio sulla Storia d’Italia, scritto
fra il 1761 ed il 1766 (inedito); e le Vicende memorabili de’ tempi suoi dal 1789
al 1801 (edite nel 1858).
[73] Cfr. G. Natali, IL SETTECENTO, Milano, Fr. Vallardi, 1963, II, p. 1108.
[74] Due le opere di “estetica”: Dell’entusiasmo nelle belle arti (1769) e Saggio sulla eloquenza (1782). Non sono coerenti fra loro. Alla prima si è accennato nello studio delle dottrine estetiche nella seconda metà del secolo. La definizione dell’arte come “sogno che si fa in presenza della ragione” non è sua: egli la riprende dal confratello Tommaso Ceva (1749-1736), che l’aveva usata nell’opera “Memorie d’alcune virtù del signor conte Francesco de Lemene con alcune riflessioni su le sue poesie” (1706). Ma egli intuisce che il vantaggio e pregio dell’arte sta nell’accordare due facoltà solitamente nemiche: entusiasmo e ragione. Siamo ad una etsteica che fa compiere davvero un passo innanzi alla esatta concezione dell’arte, perchè prende in considerazione come contemporaneee e collaboranti sia la ragione che l’ “entusiasmo”. Se si fosse già conosciuto e parlato di “emozione”, è facile che il Bettinelli avrebbe trovato le parole giuste per impostare una sensata inchiesta sulla natura dell’arte. Comunque, è chiaro che la sua dottrina previene quella romantica che, all’entusiasmo, sostituisce il “sentimento”; e fa compiere un buon passo in avanti, rispetto alle più vaghe ipotesi del “non so che” o del “gusto”, tipiche del Milleseicento. Ma vi è di più: il musicalismo è da lui sottolineato, accanto alle immagini, come essenziale all’arte poetica. L’arte è un insieme di “parole e suoni”, esprimenti “immagini od affetti”, in cui il suono è strumento di inganno e di diletto! E’ vero che mancano documentazioni e la intuizione rimane generica, ma egli riscopre la verità già nota a Dante: che la poesia è intraducibile. E vi aggiunge la intuizione (grandiosa, per uno spirito educato al classicismo): non è con l’imitazione che si fa arte! La poesia è creatività, affetto, genialità; non servono le regole retoriche, perchè “poeta nascitur” (si nasce poeti, mentre ci si può formare oratori: la espressione è di Cicerone). Siamo in pieno romanticismo, fin qui. Purtroppo, però, il Bettinelli (come informa G. Natali) ricade nel classicismo più ingenuo: vorrebbe bandire la terminologia “arte|artistico” ecc. per sostituirla con i termini “natura” e “imitazione”. L’oggettivismo impersonale, asettico, razionalistico di questa teorési classicistica trova eco nelle Lettere vergiliane, che lasciano intravedere la credenza in una lingua per se stessa più poetica di un’altra, la necessità di alcuni “ingredienti” tecnici inevitabili perchè un’opera sia poetica (immagini, ordine, chiarezza...); la tendenza a fare della poetica arcadica (doclezza, soavità) e classica (ordine e chiarezza, appunto) l’ideale definitivo di ogni opera poetica; la strana relativizzazione di tutto il valore estetico, in quanto il tempo ed il mutare della lingua fanno decadere o crescere il valore stesso (nasce di qui la condanna di gran parte della “Commedia”, in quanto la lingua non corrisponde all’ideale linguistico del suo secolo?). Così pure, egli tende a vedere lo stile come un “ente a sè stante” nel complesso dell’opera d’arte.
[75] Di questo limite di intelligenza, la sua vita pratica ed alcune sue opere danno, purtroppo, conferma. Ma è mai possibile che un uomo di criterio (e lasciamo stare l’onestà, in una persona che era anche un religioso, con una educazione morale alle spalle assolutamente eccezionale!), è mai possibile, diciamo, che giunga alla stoltezza di pubblicare (assieme alle Lettere virigiliane, che ne erano, nella prima edizione, una premessa) i versi di due poeti contemporanei (Frugoni ed Algarotti) senza avvertirli e chiedere loro il consenso? e di pubblicarli assieme ai propri, concedendosi l’orgoglio di inserisi come terzo degli “eccellenti autori” annunciati dal titolo? E il fatto che egli, acceso nemico della rivoluzione francese, ne divenga poi sostenitore nel suo continuatore Napoleone, quale giudizio può insinuarci sul suo acume intellettuale, prima ancora che sulla sua coerenza umana e cristiana? Ma, a parte la sopravvalutazione dei propri versi, anche l’opera che voleva essere contemporaneamente di storiografia e di metodologia della storia (Del risorgimento d’Itlia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille: 1773) è una povera cosa. Egli voleva imitare il nuovo indirizzo storiografico instaurato dal Voltaire, cioè fare una storia non tanto delle guerre e dei domini politici, ma del progresso (regresso) dell’umanità, attraverso la presentazione delle conquiste filosofiche, artistiche, economiche; ed attraverso l’esame di usi e cosumi, ecc. Ma egli dimentica che le guerre diventano incentivo alle invenzioni tecniche come al malcostume morale, hanno cioè una parte non piccola nella costruzione-demolizione del progresso umano. Egli attinge al Muratori, al Tiraboschi, al Quadrio (questi due ultimi, per la parte letterario-artistica). Ma se agli “Annali” del Muratori manca un tocco di filosofia della storia, alle pagine chiaccheratissime del Bettinelli manca la documentazione adeguata. Egli, cioè, ha saputo estrarre davvero poco dalle pagine muratoriane: e la interpretazione supera di troppo le prove fattuali. L’espressione inoltre, diversamente che nelle “Lettere”, è lenta ed impacciata: la conclusione è che vi si impara pochissimo e ci si annoia invece moltissimo, anche se Salvatore Rossi ne ha curata una nuova edizione per l’editore Longo, di Ravenna, nel 1976.
[76] Ecco un uffuciale delle truppe austriache, che “protestava di non gustare altro poeta fuori di questo (Dante), in cui trovava lo stesso diletto che negli angoli e nei quadrati...” (Lettera seconda). “Non avessima mai letto nè lodato il Petrarca: non altra volta fu mai veduto tanto scatenamento di poeti importuni, di rimatori, verseggiatori, come il giorno che ritornammo a far adunanza. Più di trecento poeti italiani ciascuno con un libro di rime sue, con un suo canzoniere, alcuno con più volumi, e tutti col nome di petrarcheschi, e più col titolo di cinquecentisti, che per loro era dire altrettanto che del secolo d’oro e di Augusto, vennero ad assediarci...” (lettera sesta). Per un po’ di satira, si può leggere l’inizio della settima lettera (è contro la propensione scimmiesca degli italiani), ma molto più saporita è la ricetta della decima lettera: “Sonnifero efficacissimo. Recipe: una scena o due, prese a caso dalla Rosmunda, dalla Sofonisba, dal teatro del Gravina, e stemperate con mezza scena delle commedie moderne. Purgante prontissimo. Recipe: alcune carte dell’Iliade tradotta dal Salvini mescolate con qualche prefazione o prosa fiorentina. Strignente e indurante. Recipe: tre o quattro versi lirici dell’abate Conti, una strofe de’ cori delle sue tragedie, si leghino con un terzetto dantesco. Vomitorio infallibile. Recipe: venti versi, detti alessandrini, con infusione d’ingiurie , e di pedanteria, come s’usa. Emolliente. Recipe: un recitativo e un’arietta di dramma involti in una carta di musica, e così applicati alla parte. Vescicanti. Recipe: un capitolo dell’Aretino, impastato delle quistioni intorno alle lammie, ai teatri, all’usura, alla magia, al probabile, ecc. secondo il metodo dei novellisti letterari. Fanne il cerotto caustico, ma levalo dopo un’ora, e avrà operato.”
[77] Ad essi aveva risposto nel 1718 G. M. Bianchini con la sua “Difesa di Dante”.
[78] Si è tentati di tragredire da un secolo all’altro, dal Milleseicento al Millenovecento: quanti seguaci ed elogi (persino i premi Nobel!) per ermetici e marxisti, per correnti d’avanguardia e liberoversismo di ogni tipo. Che dire? Quanta species: cerebrum non habent. Non si dimentichi che il romanziere più venduto dall’editore Arnoldo Mondadori e più letto in Italia a suo tempo, fu Virgilio Brocchi, cui nessuno riconosce virtù poetiche (1876-1961); e molto letta fu pure la fecondissima Carolina Invernizio (1858-1916), che è citata solo per suscitare ilarità fra i critici.
[79] Ma ecco alcuni dei
(forse) diciassette canoni per la
“Scelta e riforma de’ poeti italiani per comodo della vita e della poesia”.
“Tutti gli antichi o contemporanei di Dante, si consegnino alla Crusca, o al
fuoco.| Dante sia posto tra’ libri d’erudizione, siccome un codice e monumento
d’antichità, lasciando alla poesia que’ cinque canti incirca di pezzi insieme
raccolti che gli antichi stimarono degni....| Petrarca regni sopra gli altri,
ma non sia tiranno ed unico. Si ripurghi di una terza parte inutile....|Le
ottave rime del Poliziano si serbino con alcun piccolo pezzo di Giusto de’
Conti, che non sia tutto petrarchico, alcune immagini ed espressioni del
Tibaldeo.| Bembo, Casa, Costanzo, Guidiccioni e i cinquecentisti tutti
riducansi ad un librettuino di venti sonetti e di tre canzoni...| L’Ariosto...
è gran poeta, se alcuni canti si tronchino dell’Orlando Furioso ch’egli stesso condanna, e tutte le stanze che non
contengono fuor che turpi buffonerie, miracoli di paladini, incanti di
maghi...| Gli Orlandi poi tutti...sian
tutti soppressi senza pietà.| Il Tasso più non si stampi senza provvedimento
all’onor suo. L’epidosdio di Olindo e di Sofronia è inutile. I lamenti di
Armida sono indegni del suo dolore. Erminia si lasci, in grazia dela poesia....
Riducasi a metà tutto il poema e correggasi molto lo stile....| Tutta (la traduzione della) l’Eneida d’Annibal Caro viva ancor essa, per lo stile poetico
veramente e franco...| Il Chiabrera restringasi in un solo volume, e sia
piccolo...| Alamanni e Ruccellai formino la georgica dell’italiani colla Riseide dello Spolverini, e poc’altro.|
Dell’Adone si spremano quattro o sei
canti, che ragionevoli siano e castigati. Se tuttavia pecchino di fumosità,
s’adacquino con un poco dell’Italia
liberata del Trissino.| Il Malmantile
e tutte le poesie composte di riboboli e d’idiotismi fiorentini, di pure frasi
toscane, siano date a’ fanciulli e a gente oziosa, da divertirla come si fa con
le bolle alzate soffiando nell’acqua intinta di sapone...| La Secchia rapita conservisi eternamente, dopo fatteci alcune
correzioni.| Il Ditirambo del Redi sia l’unico ditirambo italiano....|
Vivano... alcuni pochi sonetti e capitoli del Berni, se ne formino alcuni
pochissimi di ritagli presi dal Lasca. dal Firenzuola...| Di (poesia) satiriche
ancor meno che d’ogni altra cosa facciasi conto...La lingua italiana non sembra
adatta a questa poesia, e gli Italiani dan troppo presto all’armi. Il meglio è,
dunque, che satire non abbiate, e state sani”.
[80] G. Natali, Il Settecento, F. Vallardi 1960, II, 1154).
[81] Nell’agosto 1764 ebbe ritardi a causa di una lite con lo stampatore Zappa, sicchè i due numeri di settembre uscirono solo nel dicembre, seguiti dall’unico numero del gennaio 1765.
[82] Il padre Buonafede era un monaco dell’ordine fondato da Pietro da Morrone, divenuto papa per cinque mesi nel 1294 col nome di Celestino V. Il Buonafede era nato a Comacchio nel 1716 e morì a Roma nel 1793. Oltre all’insulto del titolo, egli dileggiò il Baretti anche con il termine “cachistarco”, che veniva a dirlo “principe malvagio”, mentre Aristarco significa padrone o principe eccellente.
[83] Per questo profilo idiografico mi servo delle “Lettere ai familiari”, di brani della Frusta, oltre che del libro “Baretti” di M. Luisa Astaldi, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 152-3; 157.
[84] Facciamo un esempio del secolo XX. Tra i libri sulla vicenda dell’esercito italiano in Russia durante la seconda guerra mondiale, si pensi all’interesse autentico, ma puramente contenutistico, delle pur invitanti narrazioni di Eugenio Corti (“Il cavallo rosso”, Milano, Ares, 1983, per iniziare), rispetto a quelle spesso poetiche di Giulio Bedeschi (a cominciare da “Centomila gavette di ghiaccio”, Milano, Mursia, 1963).
[85] John Dryden (1631-1700) è un poeta e drammaturgo inglese, disprezzabile (forse) per la troppa prontezza ad adattarsi al regime di turno (celebrò Cromwell, esaltò la restaurata monarchia Stuart, si fece cattolico con Giacomo II, dopo aver scritto in favore della chiesa anglicana), ma non spregevole come autore di tragedie (La conquista di Granata| Tutto per amore|) di una commedia (Matrimonio alla moda), di vari poemetti (Annus mirabilis| Absalom e Achitophel| La medaglia| Religio laici| La cerva e la pantera) e di Favole.
[86] Lettera a Ruggero Bonghi, del 5. O4.1855: cfr: Lettere, a cura di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970, III, p. 38.
[87] “Scrittore da non disprezzarsi”: il celebre elogio, dato in forma smussata (litote), ma con effetto di sublimazione, è di Tito Livio a proposito di Polibio, quando si accorse che parte della Storia di Roma era già stata trattata, in greco, da quello storiografo, troppo superiore a lui.
[88] Come detto, ci riferiamo ad Attilio Momigliano, Storia della Letteratura italiana, Milano-Messina, Principato, 1948, pp. 360-1: sintetizziamo e sistemiamo a nostro rischio.
[89] Delle lettere ai tre fratelli, lui ne pubblicò solo quarantasette, ma Laterza di Bari ne mise assieme un’antologia più vasta nel 1912; poi, sempre nella collana degli Scrittori d’Italia, apparve, poi, l’intero Epistolario; Rizzoli di Milano ha edite tutte le opere del Baretti nel 1967.
[90] Cfr. Manzoni, c. 5. “vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulal li aizzasse, a digrignar le gengive...”
[91] Si tratta del direttore delle manifatture di Talavera la Reyna, dove il Baretti ha passato la notte e la mattinata del due ottobre 1760: la lettera è scritta da Zevolla, un villaggio distante quattro miglia soltanto, ma dove è arrivato solo alla sera, per disavventure in quella città, che han ritardato la partenza oltre il mezzodì.
[92] “Tomo un polvo” è la dizione spagnola di “prendere una presa di tabacco”.
[93] Restando, per ora, nella Introduzione alla Frusta, ecco un decasillabo imperfetto: “Quel flagello di cattivi libri”. Ma eccone uno preciso che segue subito:“che si vanno da molti e molti anni”. Eccone due altri, uno esatto e l’altro scazonte: “ e robusto vecchio a dichiarare” “come solennemente dichiara”.
[94] Ecco un paio di endecasillabi che aprono paragrafi: “Molto magnanimo, come vedete”. Segue un novenario: “signori miei, molto magnanimo” e da un altro endecasillabo: “è il motivo che induce questo vegeto...”. Più avanti, gli endecasillabi sono addirittura tre di seguito:”Chi egli sia, leggitori, non vi si può| per anco dir per alcune ragioni,| che troverete buonissime quando...”. Ecco il nuovo paragrafo iniziare pure con endecasillabo “Non v’aspettate, però, leggitori”...