GIACOMO
LEOPARDI (1798-1837)
LA VITA.
Nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, dal conte
Monaldo e da Adelaide Antici. Avrà come fratelli Carlo (1799), Paolina (1800),
Luigi (1804).Il padre era un reazionario fanatico, tanto ingenuo nella coerenza
con un certo sistema di idee socio-politiche, quanto inetto alla
amministrazione del patrimonio. L’amministrazione fu affidata alla moglie, con
l’effetto di rendere così parsimoniosa la economia della casa, da appesantirne
l’atmosfera chiusa, già improntata ad una austerità priva di confidenza ed esternazioni affettive, quando non
amareggiata da tensioni e diffidenze reciproche.
Si innamora della erudizione, del sapere, scansando
i giochi abituali dei fanciulli. Ha per pedagoghi l’ex gesuita messicano
Giuseppe Torres e don Sebastiano Sanchini. Dopo il latino e lo spagnolo, impara
il francese; il greco e l’ebraico li apprende autodidatticamente. A dieci anni
si rende indipendente dai pedagoghi (Mondadori, Lettere, n. 486, a C. Pepoli);
a 15 anni ha il permesso di leggere i libri all’indice, contenuti nella
biblioteca paterna. Si preoccupa di accumulare un corpo di notizie vastissime,
che egli va ordinando, secondo un’esigenza di chiarezza e completezza,
traendole dalle opere di letteratura, filosofia e patristica greco-latina, che
la biblioteca vastissima del padre gli metteva a disposizione. Di questi anni
egli stesso scriverà: “Io sono andato un pezzo in traccia dell’erudizione più
peregrina e recondita e dai 13 ai 17 anni ho dato dentro a questo studio
profondamente, tanto che ho scritto da sei a sette tomi non piccoli sopra cose
erudite” (lettera al Giordani del 30. 05, 1817). L’anno dopo, sempre al
Giordani, scriverà: “...io mi son rovinato con sette anni di studio matto e
disperatissimo...” (lettera del 2- 03.
1818: i sette anni sono quelli dal 1808 al 1815). [1]
Colla fine del 1815 o l’inizio del 1816 sino al 1822 si attuano in lui tre crisi, a livello letterario, politico, religioso. Passaggi in parte giustapposti, in parte sovrapposti, evoleventisi non con univoca linearità, ma intrecciati fra loro e complessi, anzi (l’ultimo) incerti nel loro sviluppo.
Dapprima avviene una “conversione letteraria”, il passaggio dall’ “erudizione al bello”,
cioè lo spostamento dei suoi interessi dalla ricerca di notizie e di idee, alla
fruizione del plus-valore estetico od artistico.[2]
Quasi contemporaneamente si colloca la sua conversione
politica: da sostenitore della restaurazione ad un atteggiamento
patriottico. [3]
Non va dimenticato che nel 1815 il
Leopardi aveva scritto un’orazione Agli
Italiani per la liberazione del Piceno, in cui sosteneva ancora le idee del
padre e della restaurazione: meglio vantaggi concreti, attraverso piccoli stati
politici, con sovrani illuminati, che l’ideale fantastico dell’unità d’Italia.
La terza
mutazione, quella filosofico-religiosa. è più laboriosa e protratta. Per essa, il Leopardi
passa “dal bello al vero”: “cominciai a divenir filosofo di professione (di
poeta ch’io era)”, “tutto dedito alla ragione e al vero”. Tale conversione
avviene anche per i gravi disturbi alla vista, che lo costringono ad una
immobilità pensosa (si veda Zib. pp. 143-4, 2 luglio 1820; e la lettera al
Pepoli, cit., che rievocano tale crisi del 1819). Il risultato di tali
meditazioni solitarie, lo portano a ripensare il senso tutto della vita, sulla
scia dei molti autori illuministi che aveva letto (Montesquieu, Hélvétius,
D’Holbach, Rousseau, I dolori del giovane Werther, la Vita di Alfieri...).[4]
Quello che, fino allora, era un pessimismo personale, che egli attribuiva alla
sua particolare situazione, amara per la poca salute e per la solitudine
libresca, viene assunto come una
condizione insita essenzialmente nella costituzione del vivere umano: la
vita è sofferenza ed han ragione quegli scrittori dell’antichità pagana (di cui
egli ha tradotto i pensieri deprimenti), come gli ateniesi Anfide ed Ebulo: la
vita umana è una scempiaggine, sicchè
“nascer non si vorria, ma posto il nascere, si avria per lo meglior a morire
subito”. La visione radicalmente negativa della umana esistenza lo porterà,
dapprima, al dubbio sulla interpretazione cristiana dell’uomo e della vita
(1821); poi, a posizioni decisamente antiprovvidenzialiste ed apertamente
materialistiche.[5]
Tali crisi ebbero anche risvolti pratici molto
significativi: nel 1819 smette la veste di abatino;[6]
si innamora segretamente della cugina Geltrude Cassi Lazzari, scrivendo la
lirica Il primo amore (patetica, in
realtà, fin troppo) ed un Diario d’amore, che ne studia le
manifestazioni psicologiche più sottili. Convinto, inoltre, che la sua
infelicità nasca dalle circostanze ambientali, egli chiama ormai “tana e
caverna” Recanati e sogna un mondo diverso, aperto alle persone istruite e
sensibili. Travagliato da un “grandissimo, forse smoderato e insolente
desiderio di gloria”[7]
e da una “ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che lo lima e lo divora”[8],
tenta una fuga da casa. Ma i familiari si erano accorti e lo prevennero. Non
gli proibirono di andarsene, se avesse voluto, ma non di nascosto. Fu l’atteggiamento
giusto per farlo recedere dal proposito.
Dal 1819 al 1821, mentre continua a scrivere canzoni
(patriottiche o filosofiche), mette in carta anche quelle composizioni che egli
chiamerà “Idilli” e che, per distinguerli da quelli composti fra il 1828 ed il
1830, sono chiamati i “primi” od anche i “piccoli” idilli.
Dal 17 novembre 1822 al 3 maggio 1823, d’accordo coi
genitori, si reca a Roma presso uno zio materno. Rimane, però, deluso e
disgustato della società romana, per quella che a lui sembrava grettezza intellettuale e meschinità morale: per ottenere impieghi e
carriera (aveva chiesto una cattedra universitaria o un posto nella
amministrazione eccelsiastica) doveva farsi prelato, cioè prendere la tonsura e
far parte, così, del clero: lui che si era ormai staccatao dalla fede!).
Rientra, allora, a Recanati. (cfr. lettera al Pepoli del 1826, n. 486, pp.
725-6, della edizione Mondadori).
1824: nel “natio borgo selvaggio (e sepolcro di
vivi)” scrive le prime venti Operette morali, che saranno edite nel 1827 (altre
due le scriverà nel 1832). Impara l’inglese.
1825: invitato dall’editore Stella, si reca a Milano
con il programma di pubblicare edizioni di classici latini ed italiani commentati. Usciranno di fatti tre volumi: le
Rime del Petrarca (1826), la
Crestomazia italiana (antologia di brani in prosa dei migliori scrittori
italiani: 1827); e la Crestomazia italiana poetica (1828). A Milano, però, il
Leopardi rimane poco: dimora dapprima a Bologna e, nel 1827, a Firenze, dove si
fa amico del gruppo raccolto attorno a Giovan Pietro Vieusseux: Gino Capponi,
Pietro Giordani, Pietro Colletta. Si incontra col Manzoni (con cui, però, pare
non abbia dialogato) e con quell’Antonio Ranieri, che sarà suo ospitante a
Napoli dal 1833. Nella primavera del 1828 si trova a Pisa, dove un
miglioramento della salute, anche per il clima favorevole, gli aprirà il cuore
alla creazione poetica. Vi compone infatti, nell’aprile, Il Risorgimento ed A Silvia.
Ma in quello stesso 1828, ripreso da sofferenze
fisiche (la vista è ancora in regresso), rinuncia al contratto con lo Stella e
rientra a Recanati, dove si sente in “una sepoltura di vivi e prigione”, dove
trascorre “sedici mesi di notte orribile”, ma dove nascono anche i “grandi
idilli”.
1830: Gli amici di Firenze, su iniziativa di Pietro
Colletta, gli procurano i mezzi per una vita indipendente, fornendogli un
sufficiente assegno mensile per un anno e sollevandolo così dalle
preoccupazioni finanziarie. Egli si reca, allora, a Firenze. Ivi si lascia illudere alla possibilità di un amore
con Fanny Targioni Tozzetti. La disillusione del rifiuto lo amareggia
profondamente: ne saranno riecheggiamenti Il
pensiero dominante, Aspasia, A se stesso. Nel settembre 1831, egli
segue Antonio Ranieri, trasferitosi a Roma per seguire una donna amata: ne
soffre come in un “esilio tristissimo”. Rientra a Firenze nel marzo 1832 e vi
rimane sino all’ottobre 1833.
1833-7: sperando trovare, nel clima mite, sollievo
alle sofferenze, si porta col Ranieri a
Napoli, dove rimarrà sino alla morte. Nell’aprile del 1836 va ad abitare
coll’amico in una villa alle falde del Vesuvio, fra Torre Greco e Torre
Annunziata: ivi compone La ginestra
e Il
tramonto della luna. A Napoli, nell’estate del 1836, si diffonde il colera.
Lui morrà, però, d’idropisia ed asma il 14 giugno 1837.
LE OPERE: LE POESIE
La fama del Leopardi è legata essenzialmente alle
sue liriche, che egli nella edizione per l’editore Piatti, a Firenze, nel 1831,
intitolò CANTI, nome che rimase il
loro. Noi li distingueremo in quattro gruppi.
Le prime canzoni sono a contenuto
patriottico, filosofico, cronachistico, non autobiografico. Lo schema
metrico è dapprima quello della canzone petrarchesca, quasi regolare (All’Italia: 1816); poi, diventa via via
più disimpegnato nella metrica, fino a giungere alla canzone libera
leopardiana, che non rispetta nè il numero dei versi per ogni strofa nè la
distibuzione delle rime, che appaiono qua e là spontaneamente, secondo
l’ispirazione, al di fuori di ogni schema. Le canzoni sono dodici, di cui due pubblicate
postume. Migliori sono ritenute da tutti
All’Italia (1818) e Ultino canto di Saffo (1822); noi ci
aggiungeremmo l’ Inno ai patriarchi
(1822).[9]
I Primi o piccoli Idilli.
Sono poesie composte per lo più fra il 1819 ed il
1821. Il metro è quello degli endecasillabi sciolti. Si distinguono dalle
canzoni più o meno contemporanee non solo per la metrica, ma anche per il motivo
ispiratore di fondo, che è sempre quello autobiografico. Sono L’Infinito (primavera 1819), Alla luna (luglio 1820), La sera del
dì di festa (ottobre1820), Il sogno
(1820-21), La vita solitaria (estate 1821).
Precorritrice e cerniera alla fase successiva dei
“Grandi idilli”, può essere considerata la canzone abbastanza regolare Alla sua donna (settembre 1823).
I grandi Idilli
Furono composti fra il 1828 ed il 1830. Sono stati,
questi tre, gli anni della più grande poesia leopardiana (a parte L’Infinito ed A se stesso), pressappoco come gli anni 1821-3 per il Manzoni. Hanno,
per lo più, forma di canzoni ed ispirazione autobiografica: Il Risorgimento (1828: settenari in
quartine doppie, di tipo arcadico), A
Silvia (id.), Le Ricordanze
(id.: lasse di endecasillabi sciolti), La
quiete dopo la tempesta (id.), Il
sabato del villaggio (id.), Il canto
notturno di un pastore errante dell’Asia (1830), Il passero solitario (id.).
Gli ultimi canti.
Furono scritti fra il 1831 ed il 1837. Si tratta, per lo più, di canzoni libere: Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, (la migliore delle ultime composizioni: 1833), Aspasia (lasse di endecasillabi
sciolti), Il tramonto della luna
(1837: gli ultimi versi vennero dettati poco prima di morire), La ginestra (1837: incompiuta).
LE
OPERE: LE PROSE
Come gli Idilli
costituiscono il fulcro della poesia del Leopardi, così le OPERETTE
MORALI costituiscono il meglio della sua prosa. Le OPERETTE sono delle
composizioni di meditazione e riflessione esistenziale, a metà strada fra poesia e filosofia. Egli
non rifiuta che siano considerati “un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di
capricci malinconici ovvero come la espressione della infelicità dell’autore” (Dialogo di Tristano e di un amico). Sono venti, nella prima edizione (1827:
Milano, Stella); 23 nella progettata e solo in parte attuata edizione
definitiva (Napoli, Starita, 1835). Per lo più sono in forma di dialogo.[10] Eccone l’elenco, dove sottolineiamo le più
importanti o per carica poetica o per acutezza di pensiero: Dialogo d’Ercole e
d’Atlante; Dialogo della moda e della morte; Proposta di premi fatta
all’accademia dei sillografi; Dialogo di un folletto e di uno gnomo; Dialogo
di Malambruno e Farfarello; Dialogo della natura e di un’anima;
Dialogo della terra e della luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un
fisico e di un metafisico; Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio
familiare; Dialogo della natura e di un islandese; Il Parini ovvero
della gloria; Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie; Detti memorabili di Filippo Ottonieri; Dialogo
di C. Colombo e di Pietro Gutierrez; Elogio degli uccelli; Cantico del
gallo silvestre; Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco; Dialogo di
Timandro ed Eleandro; Il Copernico; Dialogo di Plotino e di Porfirio;
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere; Dialogo di
Tristano e di un amico.[11]
I PENSIERI.
Sono, in tutto, centoundici e furono pubblicati postumi. Erano forse appunti destinati ad un’opera sistematica di filosofia antropolgica. Sono, in ogni modo, lo sforzo congeniale del Leopardi per dimostrare la verità del proprio pessimismo universale: la dimostrazione, infatti, è affidata non a lunghi ragionamenti, ma a “flash” od intuizioni staccate; e la dimostrazione è affidata ad osservazioni psicologiche, attinenti il modo di sentire e parlare e comportarsi degli uomini. Ad esempio, per Leopardi la sinonimia di bontà e ingenuità nei termini “uomo buomo –buon uomo; uomo dabbene –dabbenuomo (dabbenaggine)” sono testimonianza indubbia della infelicità della vita e dell’errore di chi segue la verità e la giustizia come ideali di fede e di comportamento (pensiero n. XLVI). Ma simili prove hanno un valore relativo, pechè sono basate su dati di fatto solamente statistici, con un cumulo di eccezioni, che addirittura possono diventare la regola. E’ per questo lavorare su dati psicologici che si sono avute difficoltà a riconoscere il carattere filosofico al pensiero di Leopardi, anche se si deve riconoscere che in alcune pagine dello Zibaldone, Leopardi sappia essere più oggettivo nelle prove e più organizzato nei ragionamenti.
LO ZIBALDONE
DI PENSIERI
E’ un raccolta di impressioni e appunti vari dal
1817 al 1832. Le 4526 facciate dei quaderni trattano anche delle vicende
interiori ed esterne del poeta, ma non possono essere intese come “diario o giornale dell’anima”, perchè la
vastità dei temi si allarga enciclopedicamente ben al di fuori della propria
esistenza: filologia e linguistica, natura della poesia, la storia letteraria
italiana con giudizi su molti scrittori (anche) stranieri, sue prospettive sui
costumi e sulla società, suoi giudizi su popoli ed etnie, l’evoluzione del sua
interpretazione dell’uomo e della vita (praticamente, la esposizione della
propria filosofia...). In questa prospettiva anche le sue impressioni o ricordi
di paesaggi, degli anni della
fanciullezza ed adolescenza, il sorgere ed evolversi di impressioni che
poi troveranno espressione in componimenti poetici si perdono come cespugli in
una foresta vergine.
Non è opera di poesia. Iniziata sicuramente
nell’estate (luglio-agosto) del 1817, la prima datazione posta dal poeta è però
quella dell’8.01.1820; l’ultima, quella del 4.12.1832. Circa tre quarti dell’opera sono stati
scritti negli anni 1821-1823. Fu pubblicato la prima volta a cura di una
commissione di studiosi presieduta dal Carducci, in sette volumi, a cominciare
dal 1898 (presso Le Monnier, Firenze).[12]
L’EPISTOLARIO.
Si tratta di 931 lettere, che vanno dal 1810 al
1837. Ci interessano per almeno tre motivi. Anzitutto, molte di esse ci offrono
dati concreti, utilissimi a comprendere “i giorni e le opere” del poeta (quella
da Bologna, del 1826, al conte Carlo
Pepoli è fra queste (Mondadori, Lettere, n. 486). In secondo luogo rivelano il suo temperamento, come
spiegheremo più avanti. Infine, esse sono per lo più aride (quasi lettere di
“affari”) e, quando confessano sentimenti, pene e preoccupazioni, sono effusive
e indiscrete (caso notevole: la lettera
Agli amici suoi di Toscana del 15
Dicembre 1830, che premise all’edizione Piatti dei Canti.): riescono patetiche anzichè artistiche. In conclusione, non
è un epistolario che aggiunga alla statura del poeta mentre, purtroppo, toglie
talora a quella dell’uomo.
ALTRI SCRITTI IN PROSA
A parte quelli già citati come lavori di filologia o
di erudizione (traduzioni e compilazioni), vanno ancora segnalati tre scritti
di poetica ed uno di critica storico-morale. Gli scritti di estetica sono
anzitutto quelli inviati alla “Biblioteca italiana”, che aveva ospitato
l’articolo della Stael “Sull’utilità delle traduzioni”, segnando l’inizio del
romanticismo. Il Leopardi scrisse allora una prima “Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana” (7 maggio 1816);
la seconda, del 18 luglio 1816, è la “Lettera ai signori compilatori della B. I.
in risposta a quella di Mad. la baronessa di Stael Holstein ai medesimi”; il terzo scritto è il Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica. (1818).
Uno scritto di “storiologia” (filosofia della
storia) su base etica, è intitolato “Discorso sopra lo stato presente dei
costumi in Italia” (1824).
Sono scritti che ci serviranno per definire il
pensiero del Leopardi sulla poesia e il suo giudizio sull’umanità a lui
contemporanea
Le testimonianze altrui
“Fu di statura mediocre,
chinato ed esile, di colore bianco che volgeva al pallido, di testa grossa, di
fronte quadra e larga, d’occhi cilestri e languidi, di naso profilato, di
lineamenti delicatissimi, di pronunziazione modesta e alquanto fioca, e d’un
sorriso ineffabile e quasi celeste”.[13]
“..l’aria del sembiante è
viva e gentile, il corpo è alquanto difettoso per altezza di spalle, il tratto
dolce e modesto, parla ben poco, è tinto di pallore, e sembrami
malinconico...”.[14]
“Il primo aspetto del
Leopardi... ha qualche cosa di assolutamente orribile, quando uno se l’è venuto
rappresentando secondo le poesie. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso pallido e
sofferente, ed egli peggiora le sue cattive condizioni col suo modo di vivere,
perchè fa del giorno notte e viceversa. Senza potersi muovere e senza potersi
applicare, per lo stato dei suoi nervi, egli conduce una delle più miserevoli vite
che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino, scompare
quanto v’è di disaggradevole nel suo esteriore, e la finezza della sua
educazione classica e la cordialità del suo fare dispongono l’animo a suo
favore...”.[15]
“Levate quelle due ore (di
conversazione coi fratelli) era ordinariamente silenzioso, mai però burbero o
scortese, e quando se gli dirigeva il discorso o rispondeva con brevi e cortesi
parole, o pure, sorrideva. Alla mensa sedeva vicino a me, ed aspettava che gli
si mettesse la vivanda nel piatto non volendo incomodarsi a prenderla; e
neppure voleva il fastidio di tagliarla col coltello. Toccava a me il tagliare
a minuto le sue vivande, altrimenti le stracciava con la sola forchetta, ovvero
impaziente le ripudiava. Non so dire quante forchette rompesse per quella sua
avversione all’uso del cortello... Amava molto il dolce e con una libbra di
zucchero condiva solamente sei tazze di caffè.”[16]
Proposta per una ricostruzione organica della individualità
Fisicamente mediolineo, tendenzialmente florido (anche se incavatosi negli
ultimi anni: si confrontino i ritratti in vita con la maschera ricavata sul
viso da morto). Afflitto da scoliosi, che si aggravò con gli anni e con la vita
eremitica di molti studi e troppo poco moto; ebbe organismo fragile,
esauribile, morendo a 39 anni; soffrì di disturbi alla vista, che lo resero
quasi cieco, dopo averlo costretto a vivere in oscurità per mesi ed anni interi
(nel 1819; dal 1825 al 1827, quando lavorava per lo Stella). Doveva essere ipoglicemico,
vista la sua avidità per lo zucchero ed i dolci. Doveva soffrire anche di
ipotensione arteriosa, riuscendo così pigro e poco risaliente contro i mali
fisici e psicologici della sua esistenza.
Psicologicamente. Fu certo eccezionalmente
ricco di sollecitazioni emotive, con prevalenza decisa del tono vagale o
parasimpatetico. Non era, perciò, portato all’azione (era un non-attivo,
introverso e mite, dolce e docile di temperamento). Aveva momenti di commozione lirica intensissima, ma breve: l’esauribilità
del suo organismo si rifletteva anche sulla durata della carica emotiva dei
suoi centri neurovegetativi. Tale cedevolezza e recessione degli stati
d’animo si rifletteva poi anche sulla perseveranza- incostanza del pensiero. La
sua mente era portata al dubbio, alla incertezza e, di conseguenza, alla
sequela dell’opinione dominante: dapprima, quella della famiglia, con
espressioni di religiosità straordonarie; poi, quella dei libri illuministici
letti, con rovesciamento della sua posizione mentale nella miscredenza e nel
nichilismo. Siamo così di fronte ad un
caso tipico di nevrosi, cioè di stato infiammatorio del sistema
neurovegetativo, con disequilibrio in favore del polo vagale o parasimpatetico.
Era dotato, dunque, il Leopardi di un temperamento nervoso, di provenienza
sentimentale: decaduto al livello “primario” (esauribile e instabile) da
un predecessore “secondario”, che si
può facilmente intuire essere stato quello del troppo candido padre Monaldo. Ad
intaccare l’ingenuo ottimismo della sentimentalità paterna può essere stato
l’intervento dei cromosomi materni: la madre era più risentita, fredda e
calcolatrice.
Un nervoso non
è una personalità attiva, cioè capace di progettare realisticamente e condurre a termine le
attività programmate, coinvolgendo anche gli altri al proprio seguito: il
tentativo di evasione da casa è così mal preparato, che viene scoperto e
prevenuto. In seguito, il Leopardi sarà sempre un dipendente ed uno sconfitto
nella vita pratica: sconfitto nelle sue velleità di innamoramento (Firenze,
1833, Fanny Targioni Tozzetti) e totalmente mantenuto da amici e familiari. Ed
anche lo stigma della frequente mutazione di residenza gli si adatta: Recanati,
Milano, Bologna, Firenze, Recanati, Firenze, Roma, Napoli.... Una vita di pellegrinaggio
o vagabondaggio. Giacomo fu un contemplativo geniale nella vita poetica; fu un
“seguace, un gregario” nella esistenza pratica e, almeno a noi sembra, anche
nel modo di pensare. [17]
Tipo di fantasia. Vivissima era la
immaginazione e felicissima quella uditivo-verbale
e musicale; minore quella visiva ed assente quella
tridimensionale o plastica. Egli riesce
un poeta, la cui emotività è istigata soprattutto dal paesaggio, e
dall’autobiografismo psicologico od interiore con preminenza della problematica
filosofico-etico-religiosa. Tali motivi egli esprime anzitutto attraverso la
proprietà della parola e con la felicità della sua intonazione musicale; solo
secondariamente con la componente visiva, che è vaga ed evanescente più che
icastica e incisiva (più petrarcheggiante che dantesco-manzoniana). Infine,
egli descrive più adeguatamente scene stabili, che azioni mosse e vivaci
(scarsezza di fantasia cinestatica).[18]
Tipo di intelligenza.
1) Benchè disponesse di una intelligenza notevolissima, tuttavia aveva una sensibilità più intensa del suo potere di controllo intellettuale: l’attività dei centri neurovegetativi era superiore a quella del potere razionale.
La prima consueguenza fu una aliquale tendenza al ragionamento secondo linee suggerite dalla emotività, cioè ad una attività razionale a rischio di rimaner prigioniera delle suggestioni emozionali. Una intelligenza eccessivamente soggettiva e sentimentale lo porterà a ridurre la filosofia ad antropolgia ed a fondare questa su impressioni per lo più psicologiche.
2) Il potere di analisi aveva, inoltre, in lui il sopravvento sulla forza di sintesi.
Questo è dimostrato anzitutto dalla estensione delle sue opere: quelle macroscopiche, sono compilazioni giovanili (il Saggio sugli errori degli antichi e la Storia della Astronomia); le altre sono di mediocri dimensioni.
Ma la prevalenza dell’analisi si documenta soprattutto dalla dispersione delle sue riflessioni filosofiche, che denunciano una minor “densità” di pensiero, nel senso che questo fa fatica a raccogliersi in trattati ordinati e sobri. Anche il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818) e l’altro “Sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani” (1824) sono troppo dispersivi e chiaccherati. E il poema dei Paralipomeni alla Batracomiomachia non ha nè personaggi nè episodi nè conclusione che diano unità alle trecentosettantacinque ottave ed ai tremila versi.
Tipiche del suo intelletto analitico sono invece le collezioni di Pensieri, vuoi nell’operetta così intitolata per raccogliere 111 riflessioni sparse, vuoi soprattutto nelle 4526 pagine dello Zibaldone: impressioni singolari e acute ovvero citazioni di sentenze altrui, selezionate in vista di una costruzione (mai sistemata, ma portata avanti a pezzi e bocconi) di una filosofia della infelicità umana, anzi dell’ultrafilosofia che mette capo alla insensatezza dell’ esistere tutto.
E la testimonianza più grave dei limiti della sua intelligenza, analitica sino alla dispersione, sta nei mutamenti facili di pensiero, sino alle contraddizioni che avremo purtroppo modo di documentare. Pensiero che si rovescia su troppi punti, passando dalla fede religiosa all’ateismo materialistico; dalla credenza in una natura benigna, dapprima, al concetto di natura impassibile e, infine, addirittura malvagia. Affine è la transizione dalle persuasione che il tradimento della natura sia l’illudere nell’infanzia-adolescenza con l’attesa della felicità, salvo a precipitare l’adulto nella costatazione che questa non esiste, alla convinzione che tutta la vita è infelice (tedio), perchè non v’è nè per l’uomo nè per il cosmo nessun disegno nè fine nè senso. La ricchezza-dispersione-divaricazione delle osservazioni singole è così imponente, da rendere perplessi gli studiosi, che vedremo o negargli la patente di filosofo o interpretarlo con difficoltà e diversità per l’accumulo disordinato delle note nello Zibaldone. La sintesi della sua “ultrafilosofia” (come lui stesso la chiama in Zib. p. 115, il 7. 06. 1820) la debbono fare i critici: il ridurla a sistema coerente costa loro sforzi enormi di concentrazione, mentre rimane il sospetto che occorra qualche contorsione intellettuale (cioè il perdonargli qualche contraddizione non infrequente) per far quadrare tutte le tessere del sistema, sia pure tenendo distinti i tre tempi, quello della fede cristiana e della fiducia nella natura; quello della prima metafisica, cioè delle illusioni destinate dalla natura a durare sempre, ma infrante dall’eccessivo ragionare degli uomini, che con la ragione si sono avulsi essi stessi dalla felicità, cui la natura li destinava; e quello della seconda metafisica, cioè della pura esistenza, senza essenze, per cui verità, bontà, felicità e piacere sono puri nomi e la vita in sè (non più per colpa della ragione umana) sarebbe una maledizione ed un orrore.
In
conclusione, il Leopardi fu una grande mente, affidata ad un corpo malato: in lui le doti esimie
della intelligenza erano scompensate da minorazioni fisiche notevoli, non tanto
per la scoliosi e la quasi cecità, ma soprattutto per la grave nevrosi, che finì per chiuderlo in se stesso, farne un
introverso inguaribile, renderlo inetto o quasi alla vita sociale e limitato
anche nei criteri a propria disposizione per giudicare della realtà generale e
delle vicende storiche, perchè si trattava di criteri troppo dipendenti da
impressioni emozionali. Egli fu un
“enfant prodige”, che però non giunse a maturazione virile, ma rimase un
perenne adolescente. Non riuscì mai, infatti, a pervenire alla serenità
dell’uomo pacato nel ragionare e fermo
nei propositi; alla padronanza della sua sensibilità che gli rendesse
possibile accedere ad osservazioni
oggettive su uomini e cose; alla età adulta che uscisse dal solipsismo delle
proprie sofferenze ed esigenze, limiti e virtù, per accorgesri che egli poteva
venir incontro a quanti come lui o pressappoco soffrivano o nello spirito o nel
fisico, poveri, malati, disperati; per approdare al minimo di avvedutezza e
prender atto che il progresso tecnico e il fermento politico erano realtà di
fatto, che non si poteva deridere o negare. Certo egli, come il Foscolo e tutti
gli immanentisti postrivoluzionari, è un testimone della disarmonia
esistenziale dell’uomo, del contrasto fra aspirazioni e realizzazioni, fra
desiderio di verità e muro di mistero, fra tendenza alla felicità e
costatazione di dolore, fra bisogno di bontà e coscienza della debolezza morale che contraddistingue l’uomo
storico. Ma il Leopardi mancò di
iniziativa e di senso sociale: nè fu il maestro di un ordine nuovo in Italia od
Europa (si pensi all’altro grande introverso, il Mazzini), nè fu l’attore di
imprese socialmente significative (si pensi al Foscolo ed alla sua
partecipazione attiva alle lotte per mutare la vita politica in Italia). Il suo
pessimismo radicale rese insignificante il suo pensiero e degna solo di
compassione la sua vita, sul cui tronco un solo frutto giunse a grande
effiorescenza ed altezza: l’espressione, appunto, della propria infermità, che,
interpretata come male immedicabile dell’umanità intera, raggiunse vette di
lirismo seconde solo alla sublimità assoluta di Dante, Manzoni e Foscolo.
Sul piano politico-militare, Leopardi
sentì dapprima il momento della restaurazione più che quello della rivoluzione
e di Napoleone. E questo, non solo per la età (egli giungeva ai 17 anni quando
Napoleone scompariva definitivamente dalla scena politica europea), ma
soprattutto per la famiglia, in cui il padre si fa un orgoglio di essere
“l’ultimo spadifero” d’Italia; depone le insegne nobiliari solo dopo le
vittorie napoleoniche, nel 1798; e pubblicherà i “Dialoghetti sulle materie
correnti nell’anno 1831”, di spirito nettamente conservatore.[19]
Cresciuto in tale contesto, egli fino al 1816 si rivela un suddito fedele del
papa: del 1815 è quell’orazione Agli
Italiani che è esecrazione della tirannide di Napoleone e di Murat ed una
difesa dell’antico ordine feudale.
La famiglia
La famiglia costituì un ambiente affettivamente
disarmonico, fra la eccessiva debolezza del padre e la freddezza ed il rigore
della madre. Monaldo era così pigro,
che giungeva a non aprire neppure le lettere che riceveva, per non avere il
fastidio di rispondervi, giungendo così a rompere relazioni epistolari: “Ed è
suo vecchio costume, che quando ha omesso una o due volte di rispondere, allora
sentendosi in colpa, neanche apre più le lettere di quella tal persona, volendo
godere in tutto e per tutto della sua
santa pace. Per la qual santa pace fa godere a me questa spaventosa vita”.[20]
E ancora: “Questa sua strana indolenza è conosciuta, ammirata, e dimostrata da
milioni di esperimenti”.[21]
Finirà col dover rinunciare alla responsabilità nell’amministrazione del
patrimonio familiare, in favore della moglie, che lo governerà dal 1803 al 1820, non solo tamponandone le falle, ma
accrescendolo. Queste preoccupazioni porteranno ad un irrigidimento della sua attitudine nei confronti della famiglia,
in lei che già per temperamento e per educazione nobiliare era piuttosto
staccata e autoritaria. L’educazione tende ad essere soprattutto negativa, con
controlli che riducono la casa ad una specie di carcere: Giacomo, senza
accompagnatore ufficiale, esce di casa la prima volta nel settembre 1818,
essendo venuto a fargli visita il Giordani![22] La corrsipondnza è controllata: le lettere
in partenza sono soggette alla censura.[23]
Egli potrà scrivere non senza[24]
ragione: “Alla fine io sono un fanciullo e trattato da fanciullo, non dico in
casa, dove mi trattano da bambino, ma fuori...”. Benchè coi fratelli Carlo e
Paolina fosse in ottimi rapporti, dalle
lettere tutte, specialmente da quelle al Giordani, risalta che il “natio borgo
selvaggio” è da lui detestato, perchè alieno e derisore della cultura e delle
aspirazioni superiori, che erano la sostanza della sua vita.
L’ambiente culturale.
Dapprima è saturo di fede e di pratica religiosa: si è già visto la straordinaria
inclinazione del piccolo Giacomo alla vita liturgica, fino a prender gusto in
giochi che di solito preannunziano una vocazione religiosa (imitare il
sacerdote che celebra la Messa, ecc.). L’esempio di casa, il pedagogo don
Vincenzo Diotallevi, il maestro don Sebastiano Sanchini gli erano di modello e
di stimolo in questo. Ma col 1813 (a 15 anni!), egli ottiene la licenza di
leggere i libri messi all’Indice dalla Chiesa e nella sua cultura entrano i
razionalisti con Montesquieu e Voltaire, Helvétius e D’Holbach, Rousseau...
D’altronde anche la lettura della Vita dell’Alfieri, del Werther di Goethe e
dell’Ortis di Foscolo, delle opere di Luciano di Samosata agiscono su di lui in
senso anticristiano. L’incontro col Giordani, poi, accentua il contrasto fra le
due culture, favorendo la crisi filosofico-religiosa del 1819-22.
Per la cultura propriamente letteraria, egli si immerge nelle
opere strettamente classiche, aiutato dapprima dai maestri (fino a dieci anni
soltanto, dice lui nella citata lettera al Pepoli), ma proseguendo poi da solo
(oltre tutto, da solo, impara il greco, l’ebraico e l’inglese).
In sede di lettere italiane, la prima linea di
studio è quella arcadica e neoclassica: dal Frugoni al Monti. In seguito
allargherà gli orizzonti da Dante al Foscolo. Avrà una sua concezione
particolare della poesia, distinta in gradi in base anche ad elucubrazioni
psicologiche, che sembrerebbero affini alle distinzioni del Vico. In concreto,
poesia somma è quella della immaginazione pura, non interferita nè da
ragionamenti nè da sentimenti: essa è consentita solo alle età primitive
(Omero) o ritornate tali (Medioevo e Dante), anteriori all’imporsi della
ragione e della coscienza. Ma, dopo il contatto con gli scritti della Stael
(Corinne:1807; De l’Allemagne: 1813; De l’esprit des traductions: 1816), con I
dolori del giovane Werther (Goethe), il Giuarro (Byron), René (François-René de
Chateaubriand) e gli scritti di Ludovico Di Breme (Intorno alla ingiustizia di
alcuni giudizi letterari italiani: 1816), egli dapprima difende la fedeltà alla
tradizione classica contro le novità romantiche, ma alla fine conclude che la
sola poesia possibile ai tempi moderni, dominati dalla razionalità, è quella
del sentimento. In questo modo, egli riesce a mantenersi amico del classicista
Pietro Giordani, pur riuscendo egli stesso poeta di somma spontaneità e
sentimentalità romantica. E’ interessante anche notare come, dopo il 1819, egli
passa dalla ammirazione incondizionata per i sommi classicisti della sua
fanciullezza-giovinezza (Alfieri, Parini, Monti), ad un loro ripudio. Del Monti
è famosa la definizione “poeta dell’orecchio e della immaginazione, del cuore
in nessun modo”). Per gli altri pure userà formule di severea limitazione, coinvolgendo
addirittura anche il Petrarca (Zib. p. 4249, del 27. 02. 1827). Sempre
altissima rimane la stima per Dante.[25]
IL PENSIERO
DEL LEOPARDI
Il CONTENUTO
NEI SUOI PUNTI CARDINALI.
Premesse. Nell’estate del 1819
Leopardi scrive delle tracce in prosa per degli “Inni cristiani” e, a fine
anno, un “Supplemento al progetto degli inni cristiani”. Le tracce recano
espressioni di fede ancora sicura (a Cristo egli si rivolge come a “uomo Dio”),
di apologetica inconcussa (“necessità della Religione e della immortalità
ecc.”) e di preghiera accorata (“Invocazioni a Maria per la povera italia”
(sic); “O uomo Dio, Pietà di questa miseranda vita”). Fino al 1819, dunque, lo
Zibaldone presenta un atteggiamento di
fede cristiana, con spunti apologetici. Incertezze tra fede e suo rifiuto si
possono leggere il giorno 19 marzo 1821. Sebbene il “passaggio dallo stato
antico al moderno” è dallo stesso Leopardi datato al 1819 (Zibaldone, 1 luglio
1820), questo non significa che tale “mutazione” abbia toccato a fondo la stessa
concezione globale e religiosa della vita.
Il passaggio ad una ideologia coerentemente immanentistica (e
disperatamente pessimistica) avviene gradualmente: a ciò han contribuito anche
i penosissimi mesi di inattività forzata, per la oscurità di cui necessitano i
suoi occhi per salvare un minimo di potenza visiva (id.). Ancora nel 1821 si
esprime l’accettazione della fede, sebbene adattata al suo sistema filosofico
(Zib. pp. 1619-1645). Ma già sono affiorati forti dubbi e sospetti di fronte
alla fede. Dal momento che essa proibisce all’uomo, radicalmente infelice, di
uccidersi, Leopardi ne ricava l’accusa ipotetica: “La nostra sventura, il
nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir
la miseria quando ci piaccia. L’idea della Religione ce lo vieta... così
possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione dell’infelicità dell’uomo
misero, ma non istupido nè codardo, è l’idea della Religione, e che questa, se
non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo” (Zib. pp 817-8:
19 Marzo 1821). Al tempo del “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”
(1825), il materialismo è diventato esplicito e l’ateismo, una conseguenza.
Dopo il 1830, con il Dialogo di Tristano
e di un amico, con i versi di Amore e
morte, A se stesso, I nuovi credenti, La ginestra, Leopardi giunge alla
derisione, alla sfida, alla bestemmia: questa è contro la natura, ma in realtà
è contro Dio: non tanto perchè in altri tempi egli ha scritto: “ “la natura è
lo stesso che Dio” (Zib. p. 393), ma perchè, in Amore e Morte, egli protesta alla Morte che non si farà trovare
(“com’usa| per antica viltà l’umana gente”)
a lodare e bendire la mano di chi “flagellando si colora| nel mio sangue innocente”, ma piuttosto a
“gittar da me” “ogni vana speranza
onde consola| se coi fanciulli il mondo” ed “ogni conforto stolto”, sicchè non
vuole “nell’altro in alcun tempo| sperar, se non te sola”. E ancora, perchè nel Dialogo di Tristano e di un amico,
egli afferma: “Il gener umano che ha creduto e crederà tante scempiataggini (sic),
non crederà mai nè di non saper nulla, nè di non esser nulla, nè di non aver
nulla a sperare” “dopo la morte” (come è specificato a pagina 4525, la
penultima dello Zibaldone). Anzi, egli giunge addirittura, con un abbozzo per
un inno “Ad Arimane” (Firenze, 1833, dopo la delusione dell’amore per Fanny
Targioni Tozzetti?), alla stravolta, disperata, sconvolgente celebrazione della
divinità malefica. Sarebbe un progetto di un “inno a Satana” ante litteram,
anche se vi sono, qui, unificate esaltazione ed esecrazione, perchè vien
detto “Re delle cose, autor del mondo”,
ma anche “arcana| malvagità...| ... eterno| dator de’ mali...”?.
Per una visione più specificata del pensiero di
Leopardi, nei suoi vari aspetti, evoluzione e motivazioni, seguiamo lo studio
di Romano Amerio “L’ultrafilosofia di
Giacomo Leopardi”, Torino, Edizioni di filosofia,1953.[26]
L’Amerio
riconosce anzitutto (pp. 7-11) il carattere filosofico del pensiero
leopardiano, come lo riconobbero molti dei contemporanei (dal Giordani al
Gioberti) e come soprattutto esigette lo stesso poeta: “Che poi il L. abbia
avuto persuasione di filosofare lo provano centoluoghi (per es. Z. 1742 ed
Epist. vol. IV, p. 196)[27],
ma specialmente quello degli Abbozzi e
appunti per opere da comporre (del 1828) dove così descrive il Trattato della natura degli uomini e delle
cose: “conterrebbe la mia metafisica o filosofia trascendentale, ma
intelligibile a tutti. Dovrebbe essere l’opera della mia vita” (Scritti vari
inediti, p. 396).
Dissolve,
poi, le obiezioni a tale riconoscimento. Quella del Vossler (il sistema leopardiano
è costruito sulla psicologia e sul sentimento, non sulla ragione) trova questa
risposta: “Il sentimento dell’uomo infatti non può investire tutti i problemi,
ma è l’adito storico alla totalità che il pensiero investe”; “La ragione... non
può supplire al sentimento, in cui confluisce all’uomo il tutto dell’esistenza
e in cui stanno implicati quei rapporti tra cosa e cosa che alla filosofia
spetta di esplicare e ragionare”. Quelle del De Sanctis (p. 10:
sostiene, seguito da molti altri critici, che il Leoaprdi “non abbia
proporiamente filosofato, chè a filosofare si richiede metodo”) e di G. A.
Levi”[28]
(id.: impossibile rifare il sistema della filosofia leopardiana, perchè i
pensieri dello Zibaldone “sono senza disegno prestabilito”), induce l’Amerio a
ricordare: “il sistema è un ordine di concetti intrinseco ad essi.... che non
ammette di andar confuso col metodo, che è ordine delle operazioni logiche onde
quei concetti si ritrovano, nè tantomeno con un ordine prestabilito al loro
trovamento. Se il sistema vien proposto in maniera tale che ad esso corrisponda
il metodo, che cioè all’ordine della dottrina corrisponda l’ordine inventivo e
didattico, la filosofia riceverà una perfeziona che giova quoad usum, ma
non sarà da questa perfezione secondaria formata la sua essenza, che è non
di ordinare ma di trovare le ragioni della verità” (Zib. 947).[29] Amerio può concludere (pp. 10-11) che “la
esistenza di una filosofia leopardiana .... non ci par rimossa da nessuna delle
considerazioni esaminate: non dalla personalità del filosofare, se il
filosofante arrivi dall’ecceità all’universalità; non dal manco di metodo, se
il pensatore veda ciò nonostante l’unità sistematica del reale; non infine dal
carattere rapsodico dell’esposizione, se in quella qualunque forma dei
pensamenti, sia evidente la vis del
pensiero”.
Ed eccoci al
concetto centrale della ultrafilosofia leopardiana, che è “riduzione della
ragione alla natura”: “Secondo il concetto leopardiano la filosofia è il sistema della
natura appreso dalla ragione, affinchè l’uomo, che è ragione, torni alla natura.
Lo scopo della filosofia non è di spiritualizzare le cose, ma al contrario di
restituire lo spirito alla naturalità, fino a combaciarsi il vivere col puro
esistere, la vita interna colla vita esterna (Z. 3936).[30]
Vi è infatti una ragione innata e propriamente naturale, che non è vizio (Z.
657)[31]
e che il L. non condanna (Z. 447 e 1825)[32];
ma la naturalità della ragione innata non risulta dal suo essere parte integrante
della costituzione dell’uomo (giacchè anche in ogni altro grado essa lo è), ma
esattamente dal trovarsi essa in quel grado in cui era nella costituzione
primitiva dell’uomo: è una naturalità storica e non metafisica, e piuttosto
natività che naturalità. E siccome nella costituzione primitiva dell’uomo si
immedesimano la perfezione e felicità di lui, la filosofia in tanto sarebbe
perfetta, in quanto, per le vie della riflessione, rimettesse l’uomo alla sua
naturalità soltanto annullando se stessa. (Z. 305, 1163, 2669)[33].
Cioè: o non essendo (il che è
impossibile, dato il passo che l’uomo già ha fatto dalla natura alla ragione) o concludendo la propria necessaria
distruzione. L’uomo insomma si trovava naturalmente nel possesso delle
opinioni che bisognano alla vita. In un secondo momento, per il progresso della
ragione, egli si svestì di quelle e altre ne adottò incompatibili colla
felicità. Infine la ragione, filosofando, sentenzia la
propria superfluità e nullità. “L’ultima conclusione che si ricava dalla
filosofia vera e perfetta si è che non bisogna filosofare” (Timandro,...
Pensieri, n. 27...).[34]
Ma una tal conclusione l’uomo non può più condurre ad effetto. Se invero
bisognasse non filosofare, l’uomo potrebbe non più filosofare, ma la
conclusione ultima è che bisogna non aver filosofato. Perciò la filosofia è
possibile soltanto in un grado mezzano, di semioblio di sé stessa (sic),
quando, non sviluppando all’ultimo la necessità della propria annullazione,
lasci sussistere l’altra parte della vita consistente ancora nella natura (Z.
408|9)[35].
Un’altra via di ricuperare la naturalità accenna il L. in Z. 867[36],
dove la reintegrazione si fa non per la via della filosofia che distrugge sè
stessa, ma per l’estrema corruzione a cui giunge il circolo delle cose umane.
Tale ritorno non appare come il L. concepisse. Vero è che egli aggiunge che in
tal caso il mondo “comincerebbe un altro andamento e quasi un’altra essenza ed
esistenza” (ivi).
Nei cc. 6 e 7, l’Amerio espone il pensiero di Leopardi, mutato nel tempo, sul modo con cui l’umanità ha abbandonato la natura ed iniziato un uso erroneo e deleterio della ragione. Siccome lo stesso Leopardi si rifa, nel 1820, al c. 3 della Genesi, cioè alla colpa originale, per spiegare il fatto, tale chiarificazione finisce per mettere a contatto con quello che sarà il problema delle conseguenze religiose nell’evoluzione ideologica del recanatese. Diciamo subito che potremmo considerare queste meditazioni del 9-15 Dicembre 1820 (Zib. pp. 393-420), un momento di lotta per difendere la propria fede traballante[37], con quei fraintendimenti o deformazioni che preannunciano l’abbandono. Ma seguiamo ormai la ricostruzione dell’Amerio. “Il passaggio dalla natura alla ragione il L. ritenne un tempo che avvenisse per opera propria della ragione, sicchè la ragione si mettesse, non per intento della natura, ma da sè stessa, al di là dell’intento della natura, fuori della natura. La ragione che da sè stessa si pone fuori della natura, si pone assolutamente e si identifica colla libertà. La libertà infatti è un atto oltrepassante le sue condizioni. Più tardi il L. considerò il passaggio dalla natura alla ragione come promosso e necessitato dalla natura e quindi levò di mezzo la libertà.... La prima posizione, che cioè la decadenza dell’uomo non fosse intesa nè voluta dalla natura creatrice, il L. ritiene quadrare a puntino col dogma biblico del peccato originale e dà un’ampia dimostrazione di questo consenso (Z. 393|420, del 9| 15 Dicembre 1820). Tra la posizione leopardiana e il dogma cristiano corrono infatti due principali somiglianze. Prima: come nella teodicea cristiana, il sistema del mondo è per il L. alterato storicamente da una defezione. Questa defezione fa cadere la benda agli occhi del peccatore e introduce nell’uomo la conoscenza sperimentale[38] del bene e del male, prima a lui estranea. Seconda: come nella teodicea cristiana, il disordine dell’uomo è imputato alla libertà dell’uomo, causa immediata di esso, senza che della causa immediata esso risalga alla causa della causa, cioè a Dio.” Amerio mette poi a confronto le due dottrine dettagliatamente: a noi servono solo alcuni punti, che collegheremo fra loro con sintesi nostre. “Il L. concepisce la colpa di Adamo come un attentato di sapere per opera propria, cioè per scienza riflessa, -quello che già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera immediata e primitiva di Dio- (Zib. 396|7).[39] Il passaggio dalla cognizione innata alla cognizione riflessa apre gli sviluppi ultranaturali della ragione, stacca l’uomo dal suo stato primitivo e lo avvia a una perfezione di autoperfezionamento, come se più da sè che dal creatore dovesse derivare egli la sua perfezione.” Amerio fa notare a questo punto (p. 13) che la tradizione teologica comune pone piuttosto in una diffalta della volontà, piuttosto che in un esercizio dell’intelletto, la sostanza della colpa originale. E cita la Somma di san Tommaso, che egli interpreta in senso più vicino a quello leopardiano che non sembri il caso. Infatti la dottrina cattolica comune non fa consistere il peccato nella acquisizione per ragionamento proprio del concetto di bene e di male, ma nella pretesa di diventare simili a Dio. E questa superba esigenza sembra esigere la interpretazione che la “conoscenza del bene e del male” fosse piuttosto il potere di determinare loro stessi ciò che fosse bene o male, come il verbo “detrminaret” di Tommaso lascia spazio ad essere interpretato. [40]
Ma il parallelo fra dato biblico e pensiero
leopardiano viene a cessare del tutto, quando si scopre che l’ovvio pensiero
della Sacra Scrittura considera la felicità come dono divino reale, sia
essa dipendente dalla ingenuità delle cognizioni infuse ed irriflesse (come
vuole Leopardi) , sia essa connessa anche con la conoscenza razionale e
riflessa (come sostiene la dottrina cattolica, che dichiara Adamo peccatore non
per aver voluto conoscere il bene ed il
male di sua iniziativa, ma per la pretesa di diventare lui – e non Dio- il
principio discriminatore del bene e del male), mentre L. considera la felicità
come pura illusione, garantita solo dalla ignoranza del vero. Ecco come spiega
Amerio il pensiero di Leopardi: “l’ordine primitivo dell’uomo è fondato
nell’illusione, e non nella verità, sta cioè tutto nel giro delle cose inesistenti ma concepite. L’illusione
poi è la persuasione di un bene inesistente come esistente o, secondo Z. 272,[41]
è –apparenza di piacere- non riconosciuta per apparenza. Mentre dunque ogni
sistema religioso, in generale, e la fede cattolica, in particolare,
considerano l’uomo ordinato ad un bene realissimo, che la mente gli
rappresenta, la volontà gli appetisce e Dio lo aiuta a conseguire con ausilii
efficaci, l’uomo del L. è da natura ordinato a un bene immaginario, a un
“subbietto speculativo” (Tasso p. 70) [42],
che non può mai ridursi a realtà e dilegua quando l’uomo conosca la realtà e si
riduca alla realtà. La verità adunque non è nè principio etico nè principio
eudemonologico. Nè la virtù consiste nel
volere le cose secondo il grado della loro realtà, nè la felicità nel goderne
secondo il grado del possesso della loro realtà. Virtù e felicità
consistono al contrario nel desiderio e nel godimento di enti irreali, che sono
però nel pensiero e fuori di quello sono nulli. Fin dal novembre 1820 trovando
nel celebre “Essai sur l’indifférance en matière de religion” del Lamennais,
che la felicità dell’uomo consiste nel vero, il L. opponeva che anzi consiste
nell’ignoranza (Z. 327)[43]
e che l’umana vita è stabilita e conservata dall’errore e distrutta dalla
verità (Z. 332)[44]. Nel Saggio sopra gli errori degli antichi,
composto nel 1815, era parso al L. che
la natura costituisse l’uomo in uno stato di non cognizione, ma non mai in uno
stato di errore e di illusione; che gli celeasse molte parti del vero, ma non
lo facesse assentire al falso. Nello Zibaldone
invece non pure l’ignoranza, ma l’errore divien necessario alla felicità
delle cose e per questo è voluto, dettato, stabilito e fortemente protetto
dalla natura contro gli attentati della ragione che svelando la verità
partorisce la corruzione e la miseria dell’uomo.” (p. 15).
Per far accettare una posizione così
sorprendente anzi grottesca, Leopardi è costretto a fare il prestigiatore, ad
introdurre ragionamenti funambolici: “Se il vero, egli dice, felicitasse l’uomo, la natura, che fece l’uomo felice, gli
avrebbe aperto il vero, anzichè celarglielo profondamente e opporsi a tutta
possa alla sua rivelazione. Inoltre, se la destinazione dell’uomo fosse alla
beatitudine mediante la conoscenza, nessuna verità gli riuscirebbe indifferente
e non solo la cognizione delle verità morali e religiose, ma di qualunque
verità fisica... (Z. 385 e 414-5)”[45].
Egli addirittura sostiene, come prova centrae della sua tesi, che “la natura
universale ha costituito la natura dell’uomo come una facoltà di concepire e di
assentire al concepito, cioè di illudersi, ma non affatto come una facoltà di
concepire il reale e di assentire al reale per ordinarsi al reale. La
destinazione della facoltà intellettiva non è il vero, ma il concepire (Z. 384)[46]
e la relazione su cui è fondata la felicità non è tra l’uomo e il reale, ma tra
l’uomo e la immagine del reale, indipendentemente dal reale: -la felicità può
consistere nella cognizione e giudizio del vero o falso”- (Z. 381)[47];
-verità o errore, bastava ed importava solamente che l’uomo credesse quelle cose,
senza le quali non poteva essere felice- (Z. 413)[48]...
Non la verità, ma l’errore, è quello che libera
l’uomo o meglio è quello in cui l’uomo già è stato liberato. La natura
facendolo primitivamente felice, lo incatena naturalmente all’illusione e rimane
perciò incolpevole, quando l’uomo, con uno sviluppo da lei non inteso,
disvoluto e contrariato, si mette da sè stesso fuori dell’illusione
precipitando nell’infelicità” (p. 16).” E’ ovvio che Amerio abbia (come noi e
come l’uomo della strada, nonchè il filosofo di professione) qualche obiezione
da avanzare su questa dottrina del Leopardi. Ecco le parole di Amerio: “Che
la felicità supponga la cognizione del vero noi desumiamo dalla necessità, in
cui trovasi l’uomo, di eleggere, per perfezionarsi ed essere felice, quelle
cose che sono conformi alla sua struttura e alle sue relazioni finalistiche col
bene, sicchè non potrebbe l’uomo determinarsi bene e conseguire il bene suo
proprio, se non facesse giudizio vero di quelle relazioni e di quel bene”
(p. 15).
Ma donde è venuta al Leopardi la teoria che
la illusione e non la verità sia sorgente della felicità dell’uomo? Amerio
scopre due “ascendenze storiche” (§10, pp. 16-17).
“Da un canto essa discende dagli spiriti materialistici dell’Illuminismo,
che pronunziando impossibile ogni ente oltre quello corporeo e ogni azione
altra da quella che tocca il senso, doveva per forza trasferire dall’orbita del
reale a quella dell’irreale tutte le concezioni e gli appetiti dell’anima
attinenti all’infinito e all’ideale, e così trasformare in puri –subbietti
speculativi- (Tasso p. 70) tutti i valori che operano nell’uomo con un’azione
eccedente i limiti della materia: -il
corpo è l’uomo- (Tristano p. 213).
Dall’altro canto la teorica dell’illusione,
come dichiara in Z. 4190,[49]
discende dal soggettivismo di quelle
morali antiche.... per le quali il costitutivo della beatitudine è il
sentimento di beatitudine del soggetto, indipendentemente dallo stato reale di
perfezione o di difetto in cui il soggetto si trovi. Onde non soltanto
necessaria (come tutti riconoscono), ma addirittura sufficiente è alla
beatitudine o alla miseria dell’uomo l’interiore disposizione soggettiva, cioè
il giudizio ond’egli si stima beato o misero: -e tanto è miser l’uom quant’ei
si reputa ((è un verso del Sannazzaro)) e tanto è beato quant’ei si reputa- (Z.
385)[50]:
sicchè in ogni caso è preferibile un bene illusorio a un male reale, secondo la
massima di Menandro citata in Z. 4002 e quella di Federico il grande citata in
Z. 3955: -Quoi qu’on en dise, il vaut mieux etre heureux par l’erreur que
malheureux par la véritè-: tutte proposizioni che riescono false ed orribili al
cristiano, sia perchè attribuendo all’uomo di poter rendersi da sè stesso
perfetto e beato, di tanto troppo l’innalzano, di quanto abbassano Dio,
togliendogli l’opera più eccellentre di tutte, cioè di perfezionarci e
felicitarci, sia perchè fondano la felicità sull’errore e l’illusione, cioè la
perfezione sull’imperfezione, la pienezza della vita sopra la vanità e il
nonessere.” (pp. 16-7).[51]
In conclusione: “L’ultrafilosofia (Z. 115)[52] è il ritorno dello spirito alla natura, la ridiscesa dal reale all’illusione (Gallo silvestre, p. 159)”[53].
Amerio annota, a questo punto (§§ 11-12, pp. 17-19):
“La teorica leopardiana dell’illusione involge due importanti esautoramenti di
valore: 1) nega la conoscenza, per
lasciar luogo alla vitalità, e 2) nega
il bene morale, per lasciar posto all’eudemonologico.[54]
La degradazione della conoscenza appare in testi
perspicui:
-lo scopo della facoltà intellettiva non è la cognizione, inquanto cognizione
derivata dalla realtà, ma la concezione e l’opinione di conoscere, sia vera sia
falsa- (Z. 387); -l’oggetto della facoltà intellettiva è il concepire (non il
vero, come dirò poi).... L’uomo prova piacere nella maggior estensione
possibile della concezione ossia dell’atto della facoltà intellettiva. Questo è
indipendente dal vero. L’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire
infinitamente- (Z. 384). Qui è insegnata una duplice degradazione: che l’intelletto ha valore non in quanto
riconosce l’oggetto, ma in quanto concepisce; e che il concepire ha valore in
quanto è atto del desiderio infinito del piacere (non del conoscere). Questo
infinito desiderio di godere (non di conoscere) rimane inappagato nella sensazione,
di cui l’oggetto è materiale e limitato, e nella cognizione, che circoscrive
gli oggetti alla verità e rimuove l’infinità, ma trova appagamento (almeno
relativo) nella pura concezione, cioè nell’immaginazione capace di spaziare
nell’irreale e nell’illimitato. Dunque l’intelletto
vale genericamente come vitalità e in servizio del piacere, ma non specificamente come intelletto:
consegue il suo fine non inquanto si
determini nel vero (tale determinazione e terminazione è contraria alla
tendenza illimitata verso il piacere), ma inquanto si eserciti spaziando in
tutto il concepibile; e ricusa di determinarsi nel vero, perchè il vero è meno
del concepibile e l’infinito accessibile all’uomo è l’infinito dell’illusione
corrispondente all’infinito del desiderio, che vien deluso e mortificato dalle
cose reali. Il pensiero non essendo ordinato al vero[55],
ma direttamente alla felicità, la quale consiste in oggetti speculativi, e non
reali, quegli oggetti si hanno da specolare e non da conoscere, devono essere
conservati nell’ordine soggettivo e non ricercati nell’oggettivo, basta che
l’uomo vi assenta, non occorre che essi siano. E l’attitudine ad assentire non
dipende dalla forza del vero, ma dalla forza della vitalità, dalla tendenza
infinita al piacere, ed è tutta in servizio di essa, come vedesi nei fanciulli,
nei giovani, nei popoli antichi, in cui tutto è assenso in una quasi nullità di
conoscenza: -felice davvero non la rende ((la vita)) altro che il falso, ed
ogni felicità fondata sul vero è falsissima, o, vogliam dire, ogni felicità si
trova falsa e vana, quando l’oggetto suo giunge ad essere conosciuto nella sua
realtà e verità- (Z. 352)”.
2) Degradazione dell’etica ad eudemonologia. Nella filosofia del L. non
ha officio alcuno la nozione di bene morale. Qui non accenniamo
all’impossibilità dell’azione morale in un sistema della filauzìa
assoluta, che riguarda la virtù come una modificazione dell’amor proprio
di per sè stesso invincibile (quest’impossibilità è confessata dal L. in Z.
1100).[56]
Più preme indicare le ragioni metafisiche di quest’impossibilità, la quale è
innata nel sistema dell’illusione. Essendo infatti la moralità la congiunzione del reale e dell’ideale ad
opera della volontà, dove l’ordine del mondo si faccia consistere nella
pura soggettività e destinato a rimanere nella soggettività, pena la corruzione
e rovina sua, quivi è impossibile che sorga l’attività morale a procacciare
quell’unione. Potrà il conoscimento del reale distruggere l’idealità dissipando
l’illusione, ma finchè questa sussiste non deve nè legarsi colla realtà sua
inimicissima e costantissima antitesi. E due sono le situazioni dell’uomo: 1) nell’illusione, quando egli persegue gli
oggetti prefissi dalla natura al suo vivere, irreali ma creduti, e allora egli
è felice; 2) nella verità, quando
egli riconosce la nullità degli oggetti creduti e la vanità dell’esistenza, e
allora egli è infelice. E sono entrambe situazioni eudemonologiche. Così manca
la situazione morale, giacchè il reale e l’ideale sono dal L. destinati ad
escludersi e non ad unirsi e quando compare il reale dilegua ogni ideale. In
tutta la dottrina il cocnetto del bene è eudemonologico, equivalente alla
felicità, e viceversa il concetto del male non risponde mai al peccato, ma
sempre all’infelicità. E mentre il principio della disarmonia del mondo si
fa dalla teologia risalire a un’azione morale dlel’uomo..., nella teoria
leopardiana non vi ha l’elemento etico, ma soltanto quello eudemonologico: il
tragico dell’uomo non è il dolore del farsi giusto, ma l’impossibilità del
farsi felice e la caduta di lui avviene senza prevaricazione. Non diviene
l’uomo infelice, per essere divenuto malvagio, ma diviene infelice primario et simplicter ((senza cause
precedenti)). Non vi è peccato teologico, che contraddica la volontà
suprema, nè peccato filosofico che contraddica l’essere delle cose, ma
soltanto, vogliam dire così, peccato eudemonologico, che non fa perdere
l’essere, ma l’illusione dell’essere, nella quale consiste il bene. Il L. pone il problema della felicità senza
avvertire che l’eudemonologia è nell’uomo condizionato dall’etica e che se la
felicità può essere il fine a cui l’uomo è ordinato dalla natura, non però la
felicità, bensì la giustizia è il fine a cui egli deve ordinarsi, per essere
ordinato anche alla felicità secondo l’ordine dell’essere. Onde v’è
indubbiamente una metafisica nella
dottrina leopardiana, poichè l’affermazione che l’ordine della vita umana è un
ordine solo parvente e immaginario e che quindi l’illusione entra
sostanzialmente nella composizione dell’esistenza (Z. 51 e 99)[57]
è di conio metafisico; ma non ha affatto
una teodicea, perchè la teodicea
è il nodo della giustizia e della felicità, e chi ignora il fine delle cose,
ignora la giustizia come esigenza dell’uomo per solo fissare nella felicità il
fine delle cose, ignora per forza anche la teodicea. Il problema stesso che
tanto stringe e tortura il L. perchè cioè sia l’uomo sventurato, gli rimane
insolubile non avendo egli prima trovato che l’infelicità dell’uomo ha radice
nella colpa di lui e che il male è altro dal dolore. Quest’unilateralità appare
in molte pagine che identificano il bene col piacere (Zib. 4047)[58]
e sentenziano che tutto è male perchè tutto è in stato di souffrance (Z. 4175)[59],
ma si avverte anche dal manco di ogni teoria sulla colpa e di ogni indagine
sopra l’arcano della volontà torta al peccato. Svolge, è vero, la dottrina del
peccato adamitico nelle pagine già esaminate dello Zibaldone (cfr. il § 6), ma
lo svolgimento è fatto ad hominem per un’accomodazione estrinseca del suo sistema
al dogma, e l’idea del bene e del male morale non è affatto nelle viscere del
sistema (esattamente il Tilgher, La filosofia di G. L., Roma, 1940, p. 84).
Negli indici dello Zibaldone fatti dall’autore la voce “peccato” neppure figura
e in quelli annessi all’edizione Mondadori non fu potuta portare che un’unica
volta ed è soggetto di un’osservazione psicologica”. (§ 12, pp. 18-19).
Riduciamo al minimo la prima parte del §13
intitolato “Il Cristianesimo come illusione filosofata”. Avendo già l’umanità della Grecia classica
e di Roma imperiale abusato della ragione e dissolte le illusioni, riducendo
l’uomo da primitivo a civilizzato e, perciò, corrotto, essa viveva nella
infelicità, con rischio di estinzione (Zib. p. 335, che citeremo). Difatti
“L’energia dell’assenso, che faceva gli uomini operare vigorosamente e
immolarsi dietro i fantasmi eccellentissimi della Giustizia, della Virtù, della
Gloria e dell’Amor Patrio (Storia del genere umano, p. 9) è andata distrutta
senza possibilità di naturale o soprannaturale restauro” (p. 20).[60]
Ebbene “Alla mortificazione della vita per l’estinzione delle illusioni il
Cristianesimo ovvìa sostituendo le illusioni, che facevano credere i beni della
vita presente, con verità che fanno credere i beni dell’altra vita, rispetto
alla quale, ma non in sè, anche i beni illusori della presente cessano di
essere illusori. Ma queste verità, grazie alle quali si risuscita l’attività
vitale, non operano gli effetti salutari come verità, ma come una nuova illusione (Z. 335)[61],
non, s’intende, come una illusione naturale, ma come un’illusione riflessa e
razionale, escogitata dall’inteletto conforme allo stato corrotto dell’uomo...
E il Cristianesimo, che salva i beni prima creduti e poi discreduti, facendoli
veri nella sostanza di una vita soprannaturale, si presenta come un’illusione
filosofata.... Esso risponde in pari tempo alla necessità vitale, che non è di
assentire al vero, ma di assentire in ogni modo, per poter operare: credo, ut
vivam. Che la rappresentazione dell’altra vita sia vera, nel momento in cui
scrive le pagine dello Zibaldone[62]
il L. sembra concederlo, certo per accomodazione (Z. 412 e 416)[63],
ma anche qui egli non trasgredisce i termini del suo sistema. La verità è per
lui indifferente all’uomo, poichè –la cognizione del vero era necessaria non
come indirizzata al vero, ma come solo fonte di quella credenza che gli
bisognava per riacquistare la felicità. Verità o errore, bastava e importava
solamente che l’uomo credesse quelle cose senza le quali non poteva essere
felice- (Z. 413)[64].
Il § 14 (pp. 21-2) dello studio di Amerio è
intitolato: “Reiezione dell’immortalità:
Psicologia materialistica.” Vi si dice: “Se peraltro il L. ha profondamente
riconosciuto nella fede di un’altra vita la verità primaria del Cristianesimo[65]
, non ha però potuto ammetterne la credibilità necessaria, secondo il suo
sistema, a fondare un’illusione filosofica sostitutiva delle illusioni
naturali. Glielo impedivano da una parte l’ontologia
materialistica e dall’altra la sua teorica fondamentale che il mondo delle
realtà e il mondo dell’illusione siano repugnanti
e inconciliabili, riuscendogli travisato il nesso che la religione pone tra
l’esistenza terrena e l’altra vita. Il solo ente concepibile da noi essendo
l’ente materiale, come il L. professa con gli ideologi francesi, tutto quello
che nelle nostre concezioni passa la materia, passa assolutamente l’ente. Il
pensiero non può escludere la materia e neppure prescindere dalla materia:
perciò la sussistenza dell’anima incorporea riesce del tutto inintelligibile
(Z. 603)[66].
L’identificazione di ciò che è immateriale con ciò che è semplice, la quale
forma il nervo di ogni sillogismo psicologico[67],
è impugnata con forza nelle meditazioni metafisiche del febbraio 1821 (Z.
602-6).”[68] 1) La
nozione di parte è distinta formalmente da quella di parte materiale, come il genere dalla specie: perchè adunque,
supposti diversi generi di sostanza immateriale, non potrebbero esservi gli
elementi immateriali, di cui esse sostanze fossero composte? (Potrebbero
esservi, e, pur non spiegando come riesca uno il composto, farebbero che il
composto immateriale andasse soggetto a scomposizione. Anche nella Scolastica
la composizione metafisica di essenza ed essere ((esistenza)) lascia un margine
di validità all’obiezione). E la molteplicità funzionale dell’anima che opera
diversamente, discontinuamente e indipendentemente con diverse facoltà è
appunto una forma di composizione che permette di dire che l’anima -nasce a
poco a poco come tutte le cose composte di parti- (Z. 604).[69]
2) D’altronde se l’immaterialità è semplice e indivisibile, allora nemmeno può
esistere in quello stato di divisione che è la molteplicità degli individui:
non avrebbero luogo più anime, ma tutte le anime sarebbero un’anima sola (è
l’istanza dell’intelletto unico di Averroè) [70].
3) Se l’immortalità deriva dalla semplicità, cioè dal non potersi scomporre,
dalla semplicità deriverebbe parimenti l’innascibilità, cioè il non potersi
comporre e il non poter cominciare ad esistere (è l’istanza platonica,
rovesciata a inferire l’impossibilità anzichè l’eternità). E d’altronde non c’è che una maniera di
perire, cioè il disciogliersi? (Z. 629).[71]
4) Che se l’immortalità dell’anima risulta dalla semplicità, non risulta a
pari, l’immortalità della materia (Frammento apocrifo di Stratone p. 163),[72]
la quale, se è composta, sarà composta di elementi che non siano composti? Anzi
risulta a fortiori, poichè in quei suoi elementi vi è costantissima omogeneità
e impossibilità a incontrariarsi (Z. 630-1)[73].
Tutta la sua metafisica dell’anima il L. compendiava
ancora nel marzo 1827 nell’asserto che “la materia sente e pensa” con
un’argomentazione di cui il Tilgher (op. cit. p. 91) dice non essere stata
rilevata la profondità filosofica, ma di cui è invece palese il vizio logico.
“Io veggo dei corpi che pensano e sentono. Dico dei corpi, cioè uomini e
animali, chè io non veggo, non sento, non posso sapere che siano altro che
corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire, pensa e sente” (Z. 4252)[74].
Qui si scambia illegittimamente la proposizione -io vedo i corpi che pensano e che sentono- colla
proposizione –io vedo i corpi sentire e pensare-, come se questa fosse
contenuta in quella e fosse equipollente, laddove dal vedere il corpo, il quale
per un altro canto sente e pensa, non viene che io veda, cioè colga, il sentire
e il pensare. Colgo sì il pensare e il sentire mio, ma un tal cogliere è
distinto dal cogliermi come corpo, anzi in quel cogliermi (se vale l’istanza
cartesiana) il mio corpo non è colto che come sentito, e (se vale l’istanza
tomistica) è colto come esteso, cioè come altro dal principio che lo coglie.
Tralasciamo altri argomenti che appartengono alla topica del materialismo e che
non vengono neppur colorati dal Leopardi (per es. in Z. 4289 quello lucreziano,
che innegabilmente noi sentiamo di pensare col cervello, come di toccare con le
mani ecc.)[75]. Resta che
la mortalità dell’anima è una persuasione saldissima e continua della
metafisica leopardiana, e attestata sin nelle estreme pagine dello Zibaldone (4
Dicembre 1832), dove le tre verità ultime, che gli uomini per la loro viltà non
si indurranno mai a credere interamente, terminano in questa: -di non aver
nulla a sperare dopo la morte- (Z. 4525 e cfr. Tristano, p. 211)”.[76]
Che una visione materialistica della vita conduca ad
un contrasto col Cristianesimo, a vari livelli, è troppo ovvio. Noi riassumiamo
perciò brevemente, in nota, i §§ 15 (Reiezione
dell’immortalità: il cristianesimo come antivita), 16 (Unilateralità della concezione leopardiana del Cristianesimo), 17 (Filosofia della claustrazione. Attività e
contemplazione), 18 (Negazione della
speranza e della Grazia)[77],dallo studio di Amerio (pp. 22-26).
Quale è il fine cui tende l’umanità, anzi la vita
tutta intesa come sola materia? E’ la felicità, concepita come promessa ed attesa di ogni piacere, nelle illusioni della
fanciullezza-adolescenza-prima giovinezza; e sofferta, poi, come delusione, per
la scoperta da parte dell’uomo raziocinante della vanità e insignificanza delle
attese: la felicità è un sogno e lo stato del’uomo è il più miserabile concepibile. Ma che cosa attendeva il fanciullo e che cosa gli nega la vita?
Ecco la sintesi del pensiero leopardiano nel § 19 dell’Amerio: “La differenza tra il sistema dell’illusione
e il sistema della realtà, cui risponde il passaggio dalla felicità
all’infelicità, si può stringere in questo: il desiderio infinito del piacere
che nel sistema dell’illusione viene equilibrato dalla creduta infinità del
piacere, rimane squilibrato nel sistema della realtà, in cui il piacere,
scoperto finito, lascia inappagato il desiderio, e torna nuovamente ad essere
irreale e vano. Che il desiderio del piacere sia infinito deriva
dall’essere desiderio del piacere in universale, e non di uno o più piaceri;
trascendendo così e nell’intensione e nell’estensione il desiderio di ogni
immaginabile piacere particolare. Questo elemento di infinità che inerisce
alla nozione universale e dalla nozione ridonda sul desiderio, è posto dal L.
per un’interpolazione extrasistematica: se infatti, come egli insegna,
l’uomo desidera la sua propria felicità, conveniente e proporzionata al suo
proprio modo di esistere (Z. 4191)[78]
e ogni reale è finito, donde viene
questa inclinazione di un finito per uno stato e compimento infinito? Egli se
lo domanda come poeta (Sopra il
ritratto di una bella donna, vv. 54-6: -Natura umana, or come| se frale in
tutto e vile,| se polve ed ombra sei, tant’alto senti?-), ma venuto nella
speculazione del filosofo ad analizzare l’infinito del desiderio, lo trovò
senza radice e senza sostanza. Un tempo, è vero, l’incontentabilità dell’uomo
gli sembrò una prova grande dell’immortalità dell’anima, perchè –repugna alle
leggi che si osservano costantemente seguite nelle opere della natura, che vi
sia un animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli
altri e di questo intero globo, il quale racchiuda in sè una sostanziale
infelicità e una specie di contraddizione colla sua esistenza, al compimento
della quale non è dubbio si richieda la felicità proporzionata all’essere di
quella tale sostanza- (Z. 40)[79].
Ma l’argomento gli si ruppe tosto nelle mani, giacchè supponeva tre
proposizioni che la sua dottrina non poteva stabilire, e cioè: -la principalità
ed egemonia dell’uomo nel creato; 2) l’armonia teleologica essenziale (come
nota in Z. 44)[80], e infine
3) la poziorità dell’essere sul non essere (dichiarata in Zib. 51)[81].
L’equilibrio tra il desiderio infinito
del piacere e il suo oggetto, che vuol essere un piacere reale infinito non è
dato all’uomo, in un piacere reale infinito, ma in un piacere immaginato
infinito, tutti i piaceri reale essendo finiti. L’esser data la felicità in
un piacere illusorio anzichè in un piacere reale produce come conseguenza la
necessaria infelicità, non appena sia levata l’illusione e veduta la
sproporzione tra il desiderio e gli oggetti destinati a saziarlo. Non già che
prima della caduta delle illusioni il bene si trovasse in proporzione col
desiderio dell’uomo e dopo non più, essendo o l’uomo divenuto incapace e
inutile a conseguirlo, o il bene essendosi sottratto all’uomo: l’infelicità è la cognizione
dell’infelicità. (Z. 78-9: la grassettatura è nostra)[82].
E questo costituisce la differenza tra il dolore
antico e il dolore moderno:
quello restava secondario e accidentale all’essenza della vita, nascendo dagli
impedimenti della felicità creduta possibile; questo al contrario è primario,
nasce dalla consapevolezza dell’intrinseca infelicità, non da accidenti che la
attraversino, e costituisce la vera e nuda essenza della vita (Z. 76-7, 485 e 504)”[83].
Anzi Leopardi critica il nostro stesso concetto od
impressione di “infinità”, così che –da una parte- fa esplodere la nostra
esigenza di “infinità” come dimostrazione dell’esistenza di Dio e della Vita
eterna; dall’altra- crede provata la impossibilità dell’uomo ad essere felice
collo svelare il meccanismo illusorio che domina la nostra psicologia: credere di essere fatti per l’infinito,
quando si è semplicemente protesi e bramosi dell’indefinito. Ecco –più
adeguate- le parole di Amerio.
(§ 20: Desiderio infinito e facoltà finite.
L’infinito leopardiano è un infinito in fieri): “L’impossibilità dell’uomo
ad appagarsi delle cose del mondo (da cui la religione e, inizialmente e
debolmente, anche il L. ricavano l’esistenza dell’oggetto infinito, oltre le
cose del mondo) non attesta dunque più l’esistenza di un tal oggetto e per
conseguenza non è una prova della grandezza dell’uomo, destinato a un bene infinito che il mondo non può contenere,
ma soltanto di una grandezza fallace, cui si adegua non un bene infinito, pieno
e determinato, ma soltanto un bene
indefinito, di cui non sono soggettivamente rappresentati i limiti,
ma non positivamente pieno e infinito. In un luogo importante il L.
distingue tra il desiderio di amare e la facoltà di amare, affermando che
–l’uomo desidera di amare, cioè di determinarsi piacevolmente verso gli
oggetti... e questo suo desiderio è infinito, ma non prova che la facoltà di
amare sia infinita nell’uomo- (Z. 389). Questa è dunque già una disarmonia e
conseguentemente un’illusione prima ed essenziale, che cioè noi desideriamo
infinitamente di amare (e di conoscere), non possiamo però nè amare nè
conoscere infinitamente, ma sempre soltanto cose finite con atti finiti,
proporzionati alla nostra facoltà finita. Quest’impossibilità è rincalzata
dall’osservazione fatta da Z. 3824[84]
che la capacità dell’uomo è inferiore al piacere e che egli non può molto
godere, sia perchè la sua capacità di godere è inferiore alla forza loro ed
egli è subito e di gran lunga vinto dalla forza loro e fatto incapace di
gustarli, come vedesi per es. nella venere. Se la facoltà di godere non è
infinita e infinito è il desiderio di godere, il desiderio si applica dunque a
una facoltà che non gli risponde nè può rispondergli mai nè coll’infinità
dell’oggetto nè coll’infinità dell’atto suo.
Ma conviene osservare esattamente che il senso
dell’infinito, al quale nessuna cosa al mondo può fare equilibrio, non è il
senso dell’infinito pieno, che il L. nega anzi essere nell’uomo, ma il senso
dell’infinito in fieri(-materiale- in
Z. 179)[85]
così poco peculiare dell’uomo che par verisimile esista anche nelle bestie (Z.
180). L’infinito pieno è l’essere non ristretto da limiti, perchè totale e
tutto interamente determinato, laddove l’infinito
in fieri è l’essere ristretto da limiti, ma pensato senza limiti non di
contenuto (che tornerebbe all’infinito pieno), ma di qualche sua proprietà o
attinenza... (Zib. 472 e 610...)[86].
Ora nè l’amor di sè, che è la radice di ogni desiderio, nè la conoscenza, nè
l’immaginazione (in particolare Z. 472)
si riferiscono al primo di questi due infiniti, ma al secondo. L’uomo è
infelice non perchè non può conseguire un bene positivamente infinito (un
tal bene è inconcepibile e inappetibile all’uomo, essendo al tutto fuori della
sua natura), ma perchè non può conseguire i beni finiti secondo uno di
quei modi infiniti, o di durata o di
estensione o di intensità, nei quali va immaginandoli colla mente sua. Così
la base del pessimismo leopardiano non è l’impossibilità di godere l’essere
totale (anche l’uomo vivente di illusioni non ebbe Dio, ma cose terrene, come
fine), bensì l’impossibilità di godere gli esseri finiti dell’esistenza
presente nella loro devoluzione infinita. La realtà intera essendo data,
secondo il L., dall’insieme delle cose finite dell’esistenza presente, anzichè
dall’ente totale e in un’altra esistenza, l’infelicità risulta soltanto
dall’impossibilità di fruire la vita presente. La spiritualità dell’uomo rimane
dunque espressione dell’infinità di un piacere materiale, -quantunque
quell’infinità o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di
qualche cosa di spirituale-. Invece –quello spirituale che noi concepiamo nei
nostri desideri.... non è altro che l’infinità o l’indefinito del materiale-
(Z. 1025-6). Il pessimismo del L. dal punto di vista interno del sistema, non è
dalla privazione del paradiso celeste e nemmeno dalla privazione di una
fruizione terrena del paradiso celeste.... Esso è precisamente e assolutamente
dalla privazione della felicità terrena in una creatura tutta terrena.”
(Amerio, pp. 27-29).
Amerio dedica il § 21 a mostrare come il rifiuto
dell’infinito pieno (la vita di Dio)
condanni all’inseguimento di una fuga infinita dei finiti (l’ “infinito
interminato e indeterminato consistente nella devoluzione infinita delle cose
finite”), che rende inafferrabile l’infinito, perchè si tratta della “fuga in
infinito delle cose finite, date all’uomo ad una ad una”, sicchè esse risultano
“ugualmente impossibili a fermare e ad avere tutte insieme”. Se ne deduce che
“L’infelicità della creatura non
proviene dall’impossibilità di integrarsi perfettamente in Dio, ma dalla
impossibilit di integrare a sè la vita terrena nell’intera devoluzione sua,
che, essendo infinita per successione e per addizione, non è ultimata mai.” A
conferma di tali corollari Amerio cita sia San Tommaso (Summa theol. Ia IIae,
q. 30, art. 4: “si concupiscentia esset infinita, sequeretur quod nunquam
fieret delectatio”) che S. Agostino (Confessioni, l. IV, c. 11), sia Epicuro
(che “condannava come la più esiziale delle cenodossie[87]
questa immagine di un piacere indeterminato”), sia lo stesso Leopardi (Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio
familiare: “la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente
imperfetta”).
Amerio fa seguire un parallelo fra il pensiero del
Leopardi e quello del Foscolo (§ 22: “Dinamica della vita. Leopardi e Foscolo”;
§ 23: “Impossibilità del piacere” e § 24: “La felicità è vita e non vita.
Soluzione dell’antinomia”: pp. 29-32), interessante perchè chiarisce e
approfondisce il senso della dottrina di entrambi i poeti-pensatori circa la
infelicità umana.
(§22: Dinamica
della vita...”). “Il sistema leopardiano dell’illusione ha, in questo
rispetto, un’evidente affinità col
sistema della speranza di Ugo Foscolo. Il desiderio dell’uomo ha per
oggetto le cose del mondo e siccome queste, essendo date come particolari e
finite, sono impari allo hiatus (apertura, voragine, “gap”) di quello, e
siccome neppure la devoluzione infinita di esse cose finite è pari al desiderio,
appunto perchè non è mai compiuta, ma sempre aperta, non è mai, ma sempre in procinto di essere, così lo hiatus
del desiderio rimane incolmabile e l’uomo sempre imperfetto. La felicità non
consiste allora che nella speranza, ossia non nel compimento, ma nell’esercizio
stesso del moto della vita successivamente proiettato nell’ulteriorità di
sempre nuovi oggetti, che valgono non perchè riempiano proporzionatamente
l’anima, ma perchè la agitano, tenendo aperto lo hiatus del desiderio e
perpetuando la dinamica della vita. Il Foscolo sostiene che il desiderio
essenziale dello spirito è il movimento e che perciò quanto più l’uomo è
agitato sia di dolore sia di piacere, tanto più ha di felicità. Questa non
istà nel conseguimento, ma nella tensione eccitata nell’uomo dalla speranza
fallace della felicità, ma nè il vero nè il piacere possono mai essere
raggiunti, perchè allora, cessato il movimento, si avrebbe non beatitudine, ma
morte. Anche nel L., che ebbe presto superata la concezione della felicità come -quieto stato con speranza- (Z. 76),
l’infinità dell’anima è questa infinità motoria, che non arriva mai all’ultimo
suo, e non arrivando e perpetuamente in atto di compiersi, non solo mancando,
ma da sè stessa privandosi del proprio compimento: -se l’uomo si trovasse nel
più felice stato di questa terra, senza che egli potesse promettere di
avanzarlo in nessuna parte e in nessuna guisa, si può quasi dire che questi
sarebbe il più misero di tutti gli uomini- (Detti
memorabili di Filippo Ottonieri pp. 126-7). E -tutto il piacere umano
consiste nella speranza... e posseduto non è piacere, e quello stato che non si
può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per sè, è sempre infelicissimo-
(Z. 2527). Non v’è che il piacere cinetico, cioè la vita nell’atto suo
diveniente. Dio e il paradiso del dogma cristiano non meno che la stabile
securitas dell’etica di Epicuro (cfr. Z. 537), escludendo l’ulteriorità
progressiva del piacere, includono per il L. un assurdo eudemonologico.
(§23: Impossibilità
del piacere). In entrambi i sistemi il vivere è concepito come una dinamica
infinita, ma il fine di tale dinamica è altro in Foscolo e in L. In Foscolo la
speranza fallace riesce ad un mero
vitalismo, in cui l’illusione ha per officio di movimentare la vita,
e in questo movimento consiste precisamente il fine dell’esistenza. In L.
invece la dinamica della vita non è, nell’uomo,
il suo stesso fine proprio, ma tende al piacere, che versando in una
devoluzione infinita di finiti, non può mai essere raccolto dall’uomo in alcun
atto (chè l’atto è finito). Di qui la somma dell’edonistica o, meglio,
della lipetica[88] del
Leopardi: al piacere, sempre limitato, sovrabbonda il desiderio, che è
illimitato....: -quindi il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo
possibile, ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E
bisognerebbe possederlo pienamente e al tempo stesso indefinitamente, perchè
l’animale fosse pago, cioè felice. Dunque la felicità è impossibile a chi la
desidera, perchè il desiderio sì come è desiderio assoluto di felicità e non di
una tal felicità, è senza limiti necessariamente, perchè la felicità assoluta è
indefinita e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se
medeismo di non poter essere soddisfatto- (Z. 648). Si badi bene. Il finito
onde è impossibilitata la felicità non è l’opposto dell’infinito in fieri (il momento per opposto alla
devoluzione interminata). Perciò quando leggiamo che –la speranza è meglio del
piacere, contenendo quell’indefinito che la realtà non può contenere- (Z. 1017)[89]
non intenderemo che nessun piacere del mondo contiene il piacere infinito,
bensì che nessun particolare piacere tutti i particolari piaceri della
devoluzione. Quest’impossibilità che un momento di piacere sia tutti i momenti
di piacere ha come effetto che il piacere non consiste mai nell’attualità sua,
ma sempre nell’inattualità e nella sola soggettività, sia della speranza sia
della memoria, fonte di concezioni indefinite levanti i limiti delle cose
(Parini, p. 98). E poichè il vago immaginare e lo sperare sono più adeguati al
desiderio infinito che non il preciso e particolare godere, -il peggior tempo
della vita è quello del piacere- (Z. 1044); il piacere (persino quello della
speranza, Z. 612)[90]
non è mai presente, ma sempre e solamente futuro (Z. 532-5)[91];
anzi, siccome nel punto medesimo del piacere il desiderio viene accresciuto
dalla realtà del piacere e insieme deluso dalla nullità di esso piacere, accade
che nel piacere l’infelicità dell’uomo sia persino più grande che nel dolore
(Z. 3876 e segg.).[92]
(§24: La
felicità è vita e non vita. Soluzione dell’antinomia). Anche il Foscolo...
pone la felicità in fieri e mai in facto esse, e per bocca dell’Ortis
sentenzia che –il cuore non può soffrire un momento solo di calma: purchè sia
sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spirino avversi o propizi:
ove gli manchi il piacere, ricorre al dolore” (ed. di Bari, 1825, vol. II, p.
269). Ma del vitalismo foscoliano si distacca apertamente il L., negando che
nella vita in esercizio si trovi il fine della vita e che questa pertanto
cammini sempre congiunta con quello.
Vi sono invero molti luoghi nei quali il Recanatese
dichiara che la felicità è tutt’uno colla
vita e
col sentimento della vita maggior possibile secondo i diversi generi di viventi
(Z. 3814, Elogio degli uccelli)[93];
che –la vita meno infelice è la più viva- (Z. 4063)[94];
che –una sensazione (interna o esterna) è necessariamente per sè, e in quanto
sensazione o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione senz’altro, necessariamente
e insitamente ed essenzialmente piacevole- (Z. 4601, ma nella lezione da me emendata).[95]
Onde quanto maggior quantità di vita è in uno spazio di tempo, tanto più
intensa e felice riesce l’esistenza, sicchè gli esseri effimeri risultano
proporzionatamente più felici dei longevi (4063), e l’arte della felicità
richiederebbe, come ancella, non l’arte di prorogare, cioè diluire, ma di
scorciare, cioè condensare, la vita (Dialogo
di un fisico e di un metafisico)[96].
Ma molti altri luoghi dichiarano al contrario che la felicità è
tutt’uno con la non vita e col sentimento della vita minor possibile (Dialogo della Natura e di un’Anima)[97].
L’esistenza mancando in ciascun momento del suo fine e così essendo infelice,
tanto meno infelice riesce, quanto meno sente quel mancamento, e tanto meno
sente quel mancamento quanto meno desidera il suo fine. Perciò tra i viventi i
più felici sono i meno viventi e quanto più si accostano ai generi meno
animali, come i polipi e zoofiti (Z. 3847-8)[98].
E l’uomo, che è il più vivente dei viventi (Z. 3381)[99],
allora solo è più felice, quando vivendo non vive: -non c’è maggior piacere nè
maggior felicità nella vita, che il non sentirla- (Z. 3895 e 3848)[100].
L’antinomia
per cui si afferma prima che felicità è abbondanza e poi che è povertà di vita,
dilegua se si scende nella radice delle due posizioni antinomiche: il desiderio
essenziale della felicità. Questo non potendo mai essere
paga, ne viene che lo stato più tollerabile dell’umana esistenza è lo stato di
esistenza minima ovverosia di sentimento minimo dell’esistenza. In questa
proposizione fondamentale si risolve anche la proposizione antinomica, che lo
stato più tollerabile sia il più attivo: infatti le attività, le occupazioni,
le passioni conferiscono alla felicità non precisamente in quanto aumentino la
vita, bensì in quanto disvìano l’animo dalla sua ingenita ed essenziale
tendenza al piacere, che non perviene mai al suo fine. E tutte queste cose sono
tipicamente rappresentate dall’ebbrezza, la quale –accrescendo la vita e il sentimento
di essa, fa nel medesimo tempo che l’individuo non rifletta (naturalmente), non
consideri questa vita e questo sentimento (Z. 3905-6 e Z. 3835 non interamente
coerente). [101] Vi ha sì
aumento di sensazione, ma l’aumentata sensazione vien divertita dall’oggetto
suo ordinario e necessario, che è la felicità, impossibile a conseguire, e la
vita vi rimane dunque applicata con minor forza e vivacità. Così in ultima
analisi la felicità assoluta consisterebbe nel godimento pieno di un piacere
pieno che non è mai: perciò è chimerica. E la minor infelicità possibile
all’uomo è un’occupazione o distrazione dell’animo dal fine, ottenuta con vari
mezzi (Zib. 647-50).[102]
(25. L’oziosità
dell’esistenza. La noia.) “Non potendo riempirsi del fine, per il quale
è fatta, la vita resta sempre metafisicamente disoccupata e l’occupazione, che
ne fanno le vive ed energiche passioni, è piuttosto alienazione che occupazione:
è infatti occupata, ma non in quello per il quale è fatta. Per la speranza che
movimenta la vita e la protende verso il vago e lontano dell’illusione,
conviene all’uomo del L. il detto di Manlio: -victuros agimus semper nec
vivimus unquam” (Astron. IV, 5). Per la disoccupazione che mette in lei il
vacuum del non conseguito fine, gli conviene la sentenza profonda di Seneca: -
magna pars vitae elabitur nihil agentibus, tota aliud agentibus- (Epist. I, 1).
Ed è significante il confronto che può farsi tra il poeta antico che vede tutto
il genere umano sospirante all’otium come al pieno possesso del fine (Hor. Carm.
II, 16) e il poeta moderno che nell’otium, destituzione continua del fine, vede
la condizione universale e inevitabile dell’esistenza in cui si annulla
ogni opera: -E’ tutta| in ogni umano
stato ozio la vita,| se quell’oprar che a degno| obbietto non intende, o che
all’intento| giunger mai non potria ben si conviene| ozio nomar- (Al conte
Carlo Pepoli, vv. 7-12). Questa carenza assiologica della vita,
strettissimamente inerente all’esistenza, ha un’espressione nel sentimento della noia, il quale non è del
genere, di cui sono specie opposte il piacere e il dolore, ma è la percezione eterogenea, continua ed
immanente, ancorchè non sempre riflessa, dell’esistenza allo stato puro,
cioè dell’esistenza immobilmente e necessariamente separata dal suo fine, Anzi
questo sentimento che costituisce il fondo della vita è soltanto variato o
parzialmente sospeso per distrazione dal piacere e dal dispiacere, ma irrompe e
perfonde ogni interstizio lasciato da quelli (Z. 3714)[103].
E’ il desiderio di felicità lasciato puro (Z. 3879)[104],
cioè senza l’atto che l’offende (dolore) e senza l’atto che lo delude (piacere)
(Tasso, p, 72)[105].
E’ la semplice vita pienamente sentita. (Z. 4043)[106].
La profondità
metafisica della noia oltrepassa però la destituzione del fine, ed attinge l’inanità stessa
del fine. Dicendo il L. che essa sente l’infelicità nativa dell’uomo e che –l’assenza di ogni special sentimento di
male e di bene ((che è appunto la noia)), è dolore e male- (Z. 4498), egli deduce la miseria non più dal mancamento
del fine, ma dalla nullità stessa del fine. Dirimendo l’univocità del
termine, diremo vanità della vita essere non soltanto l’inconseguibilità del bene, ma l’insignificanza e nullità intrinseca
del bene, e non soltanto del bene, ma della vita fatta per quel bene. Per modo
tale che anche il piacere e il dolore,
prima concepiti come conformità o contraddizione al fine, partecipando della
degradazione del fine, divengono essi stessi vani (non: inconseguibili, ma:
nulli) e cadono in una quasi equivalenza,
che è lo stato sostanziale e reale della noia: “E nessuna cosa è più
ragionevole della noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso, parlo di
quello dell’animo, per lo più è vano, perchè se tu guardi alla causa e alla
materia, a considerarla bene, ella è di poca entità o di nessuna. Il simile
dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la quale nasce sempre
dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno-. (Plotino, p 192-3). Per questa profondità metafisica (che ci è
attestata anche dalla concezione antipsicologistica inclusa nella voce latina
–taedet-),[107] la noia
sembra al L. –il più sublime dei sentimenti umani e il maggior segno di
grandezza e nobiltà, che si vegga, della natura umana-, non perchè essa
certifichi che l’animo nostro è fatto per l’infinito (Z. 28 e 40)[108],
ma perchè mostra che esso è sempre più grande di ogni cosa data e di ogni cosa
possibile nella devoluzione del mondo (Pensieri n. 68, p. 41)[109].
Che poi il puro sentimento della vita disgiunta dal fine sia noia e non
disperazione, come vorrebbe il Tilgher (op. cit. p. 71), è chiaro per la doppia
ragione chiarita: cioè che il fine è inconseguibile insieme e insignificante”
(26. Profondità metafisica della noia. Passaggio
al pessimismo metafisico ((alla seconda metafisica)). La teorica della noia
ci riconduce ai princìpi supremi dell’ultrafilosofia leopardiana. La noia, a
differenza del dolore, attesta un mancamento della natura dell’uomo risaliente
alla natura della natura. Che l’uomo sia destituito del fine a cagione della
ragione, sviluppo disvoluto e contrariato dalla natura, è cosa che non
intaccherebbe l’ordine universale, ma che il fine, conseguito o perduto che sia
dall’uomo, sia destituito di valore e consista in una purissima vanità e
insignificanza, appartiene alla disposizione primitiva della natura. Mentre
il dolore è soltanto la rivelazione dell’inarrivabilità del piacere, il tedio è
la rivelazione della nullità di esso, sicchè l’aver messo le illusioni come
parte sostanziale del composto delle cose non è più sufficiente a sostanzializzare
le cose e a dar consistenza all’ordine del mondo. Quella che era parsa nella prima metafisica un’accidentalità
(cfr. § 7) del sistema, appare ora la sostanza sua. E mentre prima il dolore
era cosa esistente, cioè fatta esser
fuori del sistema per opera dell’uomo, ora è cosa dell’essenza del sistema e contraddice al sistema (Z. 141)[110].
Come accadde
il passaggio alla seconda metafisica? Come venne il L. a far rea d’ogni cosa la natura
(Z. 4428) da lui prima giustificata, come nel sistema cristiano si giustifica
Dio rispetto al male del mondo (cfr. § 7)?[111]
(§ 27. Analisi
del passaggio al pessimismo metafisico). La prima
ragione adunque di questo mutamento della metafisica fu data al L. dall’approfondimento del concetto della
delusione, nella quale egli trovò non più soltanto il dolore, ma la noia.
Finchè l’infelicità gli appariva come una contraddizione inflitta dall’uomo
alla natura, che lo aveva destinato all’ordine dell’illusione e non a quello
della realtà, la natura poteva stimarsi incolpevole di una contraddizione da sè
non intesa e non voluta, ma quando
l’analisi della noia lo ebbe persuaso che non nella contraddizione col fine, ma
già nella sua assolutezza e purità l’esistenza è insignificante, questa
insignificanza o vanità della pura esistenza non poteva più essere ascritta
allo sviluppo indebito dell’uomo, giacchè è anteriore a un tal sviluppo, ma
ricadeva sopra l’autore dell’esistenza. Perciò lo stato primitivo non è più
quello dell’illusione, ma dell’infelicità, e l’illusione è già una protezione
gettata dalla natura stessa sopra l’infelicità ch’essa ha fatta. Così dalla
proposizione: -la natura non avea fatto l’uomo infelice-” (Z. 2492)[112]
si viene all’antitetica: -la natura ci
ha fatti infelici- (Plotino, p. 203)[113],
quantunque essa si sia sforzata di medicare la nostra infelicità coprendola
colle illusioni. Per gli Scolastici è impossibile che la creatura sia difettosa
nel primo istante della creazione, per il Leopardi essa lo è. La vita essendo
noia, cioè nullità e insostanzialità, tanto nell’ordine dell’illusione quanto
nell’ordine del reale, è impossibile che la colpa non investa la natura o
meglio detto (per levare ogni ombra antropomorfica) è impossibile che la natura essendo insostanziale non sia
insostanziale. Il L. aveva elaborato il concetto dell’incolpabilità della
natura anche in un’altra forma, dicendo che essa mette nell’uomo la
possibilità, ma non la disposizione all’infelicità, e che da quella e non da
questa viene l’infelicità libera dell’uomo, mediante uno sviluppo non naturale
di facoltà naturali (Z. 1434 e 1453)[114].
Egli ricalcava esattamente la dottrina della teologia ortodossa che considera
la libertà come una facoltà naturale avente nel peccato un uso non naturale. Ma
l’analisi della noia, svelandogli
un’infelicità inerente non allo sviluppo, ma alla facoltà stessa, gli
sottraeva anche quest’altro modo di trasferire dal tutto alla sola parte il
male della sola parte e così fare incolpevole la natura.
(§28.
L’insostanzialità della vita e la negazione dell’idea). Ma donde viene l’insostanzialità della vita? Essa era già
contenuta, e doveva germogliarne, nella prima metafisica. Già infatti la natura
innocente è una natura senza valore:
non tanto perchè essa feliciti l’uomo con una felicità irreale e solo
subiettiva (sebbene già questo trabasterebbe), quanto perchè ha nel suo grembo soltanto l’esistenza e non l’idea. Il L.
mette in capo al sistema, in luogo dell’infinito determinato pieno, l’infinito
dell’indeterminatezza, cioè la pura e
astratta possibilità, infondata e immotivata. La negazione del Platonismo,
che il L. tenne fermissimamente, pur misurandone il carattere eversivo e
radicale, è il carattere sommo e ultimo del sistema. Anche il passo di Z. 3349[115],
che il Levi (Giornale storico della letteratura italiana, vol. 57, p. 70)
prende per un ritorno al Platonismo, è una valutazione del Platonismo, ma non
una professione di esso. La realtà delle cose è insignificante e inespressiva, perchè non vi ha un’idealità da cui il mondo proceda appunto come parola profferita
(sic) e su cui si modellino determinatamente le cose, ma l’idealità nasce a un
parto coll’esistenza, la ragione delle cose colle cose, l’essenza
coll’esistenza. Rinnovando la radicale
posizione di Epicuro, il L. fa del principio del reale un effetto del reale.
In talune pagine l’ordine delle idee e il mondo dei valori sono concepiti
occamisticamente e cartesianamente come fatture
della divina volontà (Zib. 154)[116],
sicchè di tutti i princìpi del pensare e dell’operare dell’uomo sfumi
l’assolutezza intrinseca, restandone soltanto il vigore condizionale,
contingentato dall’arbitrio di quella volontà. Così per es. in Z. 1622[117]
dove a Platone che faceva gli archetipi
indipendenti da Dio si contrappone giustamente S. Agostino che li fa esistenti
in Dio, ma si suppone erroneamente che, in questo caso, Dio li abbia fatti. Questa degradazione delle idee ad effetti e
del mondo a puro fatto distrugge l’intelligibilità dell’esistenza, ma
permetterebbe ancora di rimetterne il valore, per via di fede, all’intelletto
celato e inespresso dietro quell’arbitrio creatore. Ma in altre pagine, e più spesso, il L. nega che anteriormente
all’esistenza reale si dia nonchè l’intelletto, nemmeno l’arbitrio divino ed,
esclusa ogni ragione a priori delel realtà e dell’intelligibilità, egli mette
la ragione dell’esistenza nell’esistenza, ossia rifiuta ogni ragione all’esistenza: -le cose non sono quali sono,
se non perch’elle son tali. Ragione preesistente, o dell’esistenza o del
suo modo, ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo reale di
essere delle cose, questa ragione non v’è nè si può immaginare- (Z. 1613)[118].
“Niente preesiste alle cose. Nè forme o idee, nè necessità nè ragione di
essere o di essere così o così ecc. Tutto
è posteriore all’esistenza” (Z.
1616)[119]. Così il
rapporto tra l’esistenza e la sua ragione, dal quale nasce il finalismo o
significazione di essa, rimane invertito e, nell’inversione, annullato. Le cose, che rifiutano ogni anteriorità,
rifiutano parimenti ogni ulteriorità ed esistono senza perchè e senza fine.
Certo esistendo, esse prendono un ordine e una correlazione fra di loro (Z. 949
e 1090)[120], ma tale
sistema è puramente fattuale ed
esistenziale, non essenziale e di principio, poichè il principio di
quell’ordine anzichè da un’idea assoluta fuori dell’ordine, dipende interamente
da quell’ordine. (Z. 4142-3)[121].
E sebbene per un’extrapolazione indebita il nostro pensiero dignifichi quel
principio, come se trascendesse l’ordine esistente, esso è invece interno e
relativo all’ordine esistente, non esterno e superiore ad esso, così da poterlo
giudicare in assoluto: quindi -è forza
che, riconoscendo tutto per relativo e relativamente vero, rinunziamo a
quell’immenso numero di opinioni che si fondano sulla falsa idea dell’assoluto,
la quale non ha più ragione alcune possibile, da che non è innata nè
indipendente dalle cose quali elle sono e dall’esistenza- (Z. 1617-8)[122].
Così, negato il logo, rimane il corso in infinitum dei pensieri umani, coerenti
tra di loro, ma non può nè appoggiarsi nè risolversi in un primo vero (Z. 1772)[123],
che ne misuri e fermi la verità. E rimane sì il corso in infinitum delle azioni
umane, ma non può nè volgersi nè appagarsi di un primo bene, che ne misuri e
fermi la bontà: -non esiste nè può
esistere nè sommo bene nè sommo male, tanto come sommo, quanto come bene o
male, nessuna cosa essendo per sè o buona o cattiva- (Z. 2232: cfr. anche
391)[124].
Il mondo non procede da Dio mediante l’idea, ma è pura esistenza immotivata,
senza alcun valore che non sia relativo al suo mero esistere così e così (Z. 1644-5)[125]
e la vita dell’uomo ugualmente immotivata è un’esistenza pura, vana non perchè
frustrata del fine, ma perchè come esistente non ha destinazione al fine.
(29. La
negazione del Platonismo come radice dell’ultrafilosofia. Conclusione).
La negazione del Platonismo, cioè dell’assoluto
assiologico (l’idea) e del suo fondamento ontologico (Dio), è riconosciuta in
sè e nelle sue conseguenze in Z. 1342[126]:
-certo che distrutte le forme platoniche
preesistenti alle cose, è distrutto Iddio.- E non è nè medicata nè
ritrattata in Z. 1619-23, dove si tenta di identificare Dio in una astratta
onnipossibilità, che non sarebbe costituita dalla concepibilità delle cose, ma
starebbe per sè, immotivata e cieca. Questa
apriorità dell’onnipossibile, lo confessa il L., equivale propriamente al nulla
(Z. 1341)[127]: non al
nulla dell’inesistenza (che anzi è tutto esistenza e non altro che esistenza),
ma al nulla dell’esistenza che non ha significazione e, per l’assenza del logo,
giace indifferente ad ogni modo di essere, per contraddittorio che sia ad ogni
altro modo di essere (chè la contraddizione è di questo modo cosiffatto, ma non
di altri possibili, e tra i modi, non tra l’esistere). Ed ecco trovata la radice ultima delle dottrine leopardiane. Tolta
l’idea, secondo la quale proceda la realtà, la realtà potrà tuttavia procedere,
ma procederà come pura esistenza immotivata e immobile, senza una ragione e
senza una destinazione. La negazione del logo involge la negazione del carattere germinale e dialettico della vita:
l’uomo esiste, affinchè esista, non affinchè rioperi sè stesso, svolgendosi e
compiendosi secondo l’idea: perciò il suo sviluppo morale è esiziale e fallace,
e il suo ciclo operativo lo travaglia, ma non lo perfeziona. L’immobilità radicale della vita in tutti i
suoi momenti è percepita dall’uomo mediante un sensorium commune, il cui atto è la noia. In secondo luogo,
tolta l’idea, e rimasta l’esistenza universale senza significazione, questa
trovasi in contraddizione col desiderio
dell’uomo di superarla come pura esistenza e di farla condizione e materia
di valore. La contraddizione è espressa con una non facile formola in Z. 4168-9[128]:
-il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine
cercato dalla natura dell’uomo: questo fine non esiste in natura e non può
esistere in natura.- Cioè: il fine cercato dalla natura nell’uomo è altro dal fine cercato dalla
natura dell’uomo. Il primo infatti è l’esistenza, senza significazione alcuna
(onde è fine equivocamente), l’altro invece è il piacere, sommo bene a lui, ma non all’esistenza, la quale fa che
gli esistenti esistano, soltanto affinchè si esista (Z. 4169). E così la
natura, che ha coordinati (sic!) gli effetti a cause finali parziali, non li ha
coordinati a una causa finale totale, che sarebbe l’idea di tutte e l’armonia
in cui le disarmonie si risolverebbero. Onde non si può sfuggire alla –generale, sommaria, suprema e terribile
conclusione- che –nè l’uomo, nè la vita, nè alcun oggetto di questo mondo è
propriamente per lui, ma la contrario esso è tutto per la vita- (Z. 4169). Eppure questa conclusione, orribile al L.,
è la conclusione stessissima del
Cristianesimo, anzi di ogni filosofia che metta in capo al sistema del
reale non l’esistenza, ma l’essenza. Invero nè l’uomo, nè la vita, nè alcun
oggetto della vita è per l’uomo, ma l’uomo e il tutto per Dio. Se l’uomo è
fatto non per sè, ma per altro, il fine dell’uomo nell’uomo coincide però col
fine di Dio nell’uomo, perchè Dio vuole l’uomo volendo sè, così come pensa
l’uomo pensando sè, e in questa identità suprema tutte le cose sono
armonizzate, da essa ricevono significazione come singole e come universo, e in
essa infine –discernesi il bene| perch’al mondo di su quel di giù torna- (Par. IX. 109-10). Invece, assolute come
sono dell’assolutezza dell’esistenza e non dell’assolutezza del logo, le cose
del mondo leopardiano formano una molteplicità di assoluti (Z. 1792)[129],
ai quali manca il punto in cui convergere e armonizzarsi. Allora, poichè niuna
di esse è tutte le altre (chè sarebbe il suo proprio fine), ciascuna rimane col
suo hiatus, parte souffrante di un
universo, che è destinato soltanto a fare l’esistenza, ma non l’essenza, cioè
il valore del mondo. Così, caduta la mediazione del logo tra il nulla e
l’esistenza, questa diviene un’irregolarità e una mostruosità (Z. 4133-4 e
4171)[130].
Adeguandosi alla pura eistenzialità sua l’uomo tenta levare le contraddizioni
inerenti all’essenzialità e rifà la natura, cioè il nulla. L’ultrafilosofia, distruzione impossibile dell’essenzialità, non è un
vacuum di Cristianesimo, ma l’inversione del Cristianesimo. Nella pallida
pianura dell’asfodelo essa adora ed esecra Arimane (Ad Arimane).[131]
NOTE
INTERESSANTI. I) Lo Zib. fino al
settembre 1821 testimonia ancora della fede in Dio, anzi nel Cristianesimo:
vedi pagine 1616-1645 (settembre). Con
il 7 Dicembre (p. 2232) vi è la dichiarazione della impossibilità di
odiare se stessi per amor di Dio e, quindi, di assurdità del Cristianaesimo
II)
Eppure Leopardi segna le festività o date liturgiche ancora nel 1829
(Zib.p. 4489: 14 Aprile , Martedì santo 1829; id. p. 4490: 19 Aprile, Pasqua)
III)
La obiezione fondamentale al Leopardi è quella di Manzoni a Kant: ci sono forse
due ragioni, una che è svalutata come sorgente di infelicità e contraria alle
intenzioni della natura; ed una (quella
del Leopardi che costruisce il suo sistema) che giudica esattamente della
ragione e dell’essere tutto? Ma cfr.
meglio spiegato in nota 135 alla
pagina 48 del nostro testo.
IV) Resta un fatto che la prima parte del tempo trascorso a Pisa fu
per lui di sorprendente sollievo fisico-psicologico, come annuncia alla sorella
Paolina, fin dalla prima lettera dell’arrivo (12. 11. 1827). La conseguenza fu
la scrittura dei primi due grandi idilli:
Il Risorgimento ed A Silvia, che
egli annuncia cisì alal sorella: “...dopo due anni, ho fatto dei versi
quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta”
(30 Aprile 1828).
LA POESIA DEL LEOPARDI
Noi prenderemo in considerazione, per un esame approfondito, tutti gli Idilli e le Operette morali; rimanderemo in nota il giudizio sulla poeticità ed i caratteri delle prime ed ultime composizioni.
GLI IDILLI e le canzoni[132]
I motivi ispiratori
PREMESSA: LA DOTTRINA POETICA DEL LEOPARDI.
Il Leopardi afferma che la più alta poesia è quella di pura immaginazione (fantasia avanti la coscienza della sua non verità od illusorietà?); che essa è propria dei poeti classici come Omero, Virgilio e Dante; che essa è preclusa ai poeti moderni, cioè venuti dopo il trionfo della ragione sulla immaginazione; che a questi ultimi rimane, come surrogato, la poesia dei sentimenti, ricavati anzitutto dal rivivere il tempo della loro fanciullezza con i suoi sogni (ecco le “ricordanze”); e, secondariamente, dalla “ragione”, che ne svela la illusorietà mediante la scoperta dell’arido vero. Egli giustificava così la poesia classica come autentica ed eccelsa; quella romantica, come sostitutiva ed inferiore, anche se la sola ormai accessibile.
Il Leopardi credeva di teorizzare una “poetica” oggettiva ed universale. Non s’accorgeva che, invece, descriveva quelli che erano i motivi ispiratori particolari della sua poesia, cioè i temi più sentiti della sua concezione di vita, quelli più capaci di scuotere, mobilitare ed infiammare la sua sfera emotiva, in modo che quei concetti assumessero il calor bianco della massima commozione e trovassero l’espressione più adeguata a far entrare in risonanza il lettore-uditore con lo stato d’animo del poeta.
Tre infatti sono i temi dominanti nelle composizioni più riuscite del Leopardi: lo spunto del paesaggio, l’evocazione autobiografica, la riflessione razionale. Che è quanto dire: dopo un innesco paesaggistico, la rievocazione (“ricordanze”) dell’età felice, delle illusioni, della candida fanciullezza e il pianto inconsolabile delle delusioni apportate dalla crescita filosofica.
Lo spunto paesaggistico.
Lo potremmo anche
chiamare il motivo dell’infinito o, almeno, dell’indefinito. Il paesaggio
rimane generico, accennato in alcuni elementi, significativi al cuore del
poeta, ma non tali da costituirlo in fattore assoluto, a sè stante: i
particolari paesaggistici, privilegiati dalla memoria spontanea del Leopardi,
sono funzionali alla sua storia interiore, sono
una pura introduzione al motivo autobiografico.
Particolarmente suggestivi sono i notturni: come in Ultimo canto di Saffo, La sera del dì di festa, Alla luna, Le ricordanze, La vita solitaria (quarta strofa), Canto notturno..., Tramonto della luna Frequente è il paesaggio lunare, vago, indefinito, di lumunosità tenue, dolce. Oltre i “Canti” citati per i notturni, vi sono accenni dello Zibaldone: “Era la luna nel cortile”[133] (versi che praticamente aprono la raccolta di pensieri); “vedendo meco viaggiar la luna” (Zib. p. 23)..... Ma vi è spazio anche per il colle, la siepe (L’infinito); per i paesaggi vespertini (Il passero solitario); per la torre, il cielo, il volo degli uccelli (ivi); per il paesaggio mattutino (Il sogno e La vita solitaria); per il paesaggio domestico (le quiete stanze) illuminate dal canto di Silvia o vivificato dal lavoro (La quiete dopo la tempesta: “apre i balconi...”); per la campagna (Il sabato del villaggio: “al biancheggiar della recente luna”) e per la vita delle strade (La sera del dì di festa: “il solitario canto| dell’artigian, che riede a tarda notte...”); e per il paesaggio vesuviano (La ginestra).
Come in parte si è già accennato, tre sono le caratteristiche del paesaggio leopardiano.
Anzitutto si tratta di un luogo domestico, di un panorama a lui caro (appartenente alla geografia del “natio borgo selvaggio”), compreso quello cosmico, astrale, che egli , pensoso, contempla abitualmente.
In secondo luogo, è motivo di apertura, di introduzione, quasi a predisporre l’animo ad una distensione contemplativa, lieta o mesta, serena o malinconica, ma sempre dolce e delicata. Quando il poeta si sofferma per descrizioni prolungate, si può essere certi che l’espressione lirica ne risente con un calo di intensità e di efficacia: non è questo il motivo che più sollecita l’emotività del Recanatese. E, così pure, la forza poetica dei versi recede quando il paesaggio si fa troppo preciso o realistico: indefinito o infinito è lo sguardo che il Leopardi riserva al panorama, un riflesso della modulazione prevalente della sua sensibilità, specializzata lungo il tono vago o parasimpatetico: si veda Zib. p. 4426 (del 14.12. 1828): “il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago.”
In terzo luogo, la nota paesaggistica è funzionale al richiamo dei suoi ricordi, alla riflessione sulal sua condizione psicologica. Coerentemente con lo “spirito romantico”, in lui, come in Manzoni, la natura inanimata è sentita come subordinata all’uomo. Ma mentre nel Manzoni, l’uomo cui è riferito l’ambiente non è mai il poeta stesso, ma i personaggi o i popoli divenuti protagonisti della sua lirica storico-meditativa, nel Leopardi il paesaggio è la incarnazione dei suoi sogni fanciulli o delle sue amarezze adulte; il paesaggio è partecipe di gioie e dolori, di speranze e delusioni del solo protagonista della poesia leopardiana, il poeta stesso. La “lirica” del Manzoni tende alla epopea, poesia in terza persona; quella del Leopardi è lirica pura, poesia in prima persona. Familiarmente vicino od infinitamente lontano, il panorama ambienta e introduce le peripezie interiori del poeta, perchè, in realtà, è sentito come partecipe delle sue affezioni, degli stessi stati d’anmo.
Il motivo autobiografico, delle “ricordanze
o rimembranze”.
Costituisce il polo positivo, quasi il cuore della ispirazione leoaprdiana: è il momento dei sogni, delle illusioni, delle speranze. Siccome tale momento di felicità non può sussistere che nella fanciullezza inconsapevole, l’unica via per riviverla e darle effusione di canto è il richiamarla alla memoria, intatta il più possibile dalla riflessione razionale. Rievocare i miti della prima età è la strada per rivivere in qualche misura la gioia di esistere; di obliare la realtà e ritrovare lo stato di idillio, di riconciliazione, cioè, con la vita. Leopardi riesce tanto più poeta, quanto più aderisce alla definizione che egli stesso ha dato di “Idillio”: “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”. L’ “eidùllion” non è più il quadretto di natura campestre, un motivo paesaggistico puro, come in Teocrito, ma è invece un’istantanea di vicende trascorse del proprio animo, anteriori alla scoperta della “infinita vanità del vero” (Zib. p. 69); sono una rievocazione e quasi invocazione: “O speranze, speranze; ameni inganni| della mia prima età” (Le ricordanze, 4 strofa).
Non si tratta, dunque, di condiscendenza del poeta nello splendore o tepore, nella pace o nella tempesta del paesaggiio, ma viceveresa dell’assunzione di alcuni particolari dell’ambiente da parte del poeta (astronomici o geografici, meteorologici od animati od umani) ad “iconi” di uno stato d’animo, di un’atmosfera interiore, per rivivere le “speranze antiche” e “quel caro immaginar mio primo” (id.). Si tratta di autobiografismo psicologico, cui la cronaca fa da esca introduttiva.[134] Non interessa, perciò, molto il sapere che tanto Elvira quanto Aspasia rappresentano entrambe Fanny Targioni Tozzetti; non conta molto, alla comprensione dei canti relativi, il cerziorarsi sulla identità di Silvia (A Silvia), Nerina (Le rimembranze) ed Elvira (Consalvo) e scoprire se tutte siano sempre e solo Teresa Fattorini (la figlia del cocchiere di casa Leopardi) o se alle loro spalle stia anche Maria Belardinelli (una tessitrice di Recanati, anch’essa morta giovanissima e per la quale il poeta avrebbe sentito attrattiva intenisssima). Il motivo ispiratore non è l’amore nè la persona amata, ma l’animo di Leopardi, la sua illusione di felicità, prima, la sua delusione definitiva, poi. Le donne e la loro fine sono iconi, simboli della fioritura adolescenziale e dell’appassimento, anzi morte, giovanile dei sogni di felicità nel cuore del poeta.[135]
La cosa è detta esplicitamente dal Leopardi nello Zibaldone (p. 4426, del 14. 12. 1828): “Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo (sic) a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico....”.[136] E ancora (Zib. p. 4513, del 21. 05 1828): “Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono più cari....”. E quattro giorni dopo: “Similmente molte immagini, letture ec. ci fanno un’impressione ed un piacer sommo, non per se, ma perchè ci rinnovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse cose a da analoghe immagini e letture in altri tempi., e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse. Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai più bella che un’altra, indipendentemente dal merito intrinseco ec. ec. “ (Zibaldone, II, p. 1323).
A conferma della centralità di questo motivo sta il ritorno, nella poesia del Recanatese, di sostantivi e verbi riferiti al “ricordo”: ricordanze, sovvenir, memoria, rammentar.... Un canto ha addirittura il titolo “Le ricordanze” e contiene “rimembrar, risovverrammi, ricordanza, rimembranza” nella terza, quarta e settima strofa). L’infinito al v. 11 ha “mi sovvien l’eterno”: La sera del dì di festa, al v. 18, contiene “ti rimembra”. Alla luna, al v. 11, ha “la ricordanza” (anzi questo era il titolo con cui essa comparve ne Il nuovo raccoglitore, gennaio 1826); al v. 1 “io mi rammento”; al v. 14 “la memoria”.
In A Silvia ritornano “rimembri ancora” e “sovviemmi” (vv. 1 e 32); La Ginestra ha “rimembranza” al v. 110.
La riflessione della intelligenza, terzo motivo ispiratore della grande poesia leopardiana.
Se il tema della “ricordanza” è confessato dal poeta esplicitamente moltissime volte, anche il motivo della “riflessione” ha almeno una citazione nel titolo della poesia “Il pensiero dominante”. Ecco delle conferme alla centralità delle due ispirazioni, teoricamente contrastanti che, per altro, possono persino convergere liricamente.
Ne L’infinito, il verbo sovvenire è già connesso con la riflessione (“e mi sovvien l’eterno,| e le morte stagioni, e la presente| e viva, e il suon di lei”), riflessione suscitata da un secondo spunto paesaggistico: “E come il vento| odo stormir tra queste piante, io quello| infinito silenzio a questa voce| vo comparando”. In apertura, invece, il paesaggio aveva indotto una disinibita attività della immaginazione, libera dal pungolo della ragione, dimentica di affanni e di problemi, obliosa di dolori e delusioni, per stabilire il poeta in una estasi dove la coscienza sembrava assopirsi, con una specie di ritorno inconsapevole, ma felice, alla fanciullezza: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle,| e questa siepe. che da tanta parte| dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.| Ma sedendo e mirando, interminati| spazi di là da quella, e sovrumani| silenzi, e profondissima quiete| io nel pensier mi fingo; ove per poco| il cor non si spaura.” Eppure, i due momenti si saldano così positivamente da potenziarsi a vicenda; infatti la riflessione indotta dal vento è genericissima: il pensiero dell’eterno e le epoche ormai trascorse della storia si accumulano con la evasione nell’infinito e nei suoi silenzi, per creare un vuoto di cose, un’assenza di persone, un’oasi di pace ove il cuore si riprende dallo spavento momentaneo, sicchè “tra questa| immensità s’annega il pensier mio:| e naufragar m’è dolce in questo mare”. L’idillio si unisce qui alla epopea creando il fascino dell’estasi.
E’ un’eccezione: solitamente l’interferenza della ragione critica sulla reminiscenza immaginativa sottopone il Leopardi ad uno spin emotivamente innovativo: dalla tonalità idillica egli trapassa a quella elegiaca od a quella drammatica o addirittura, nella fusione di due stati d’animo, alla tenerezza.
Ecco un caso di riflusso sofferto e risentito (drammatico), dopo una introduzione paesaggistico-idillica che è trafitta dalla esperienza personale della infelicità: “E l’antica natura onnipossente| che mi fece all’affanno. A te la speme| nego, mi disse, anche la speme; e d’altro| non brillin gli occhi tuoi se non di pianto” (La sera del dì di festa, vv. 13-15). L’inizio era stato dei più idillicamente fascinosi: “Dolce e chiara è la notte e senza vento,| e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti| posa la luna, e di lontan rivela| serena ogni montagna.” (vv. 1-3).
In A se stesso, la riflessione sulla sfortuna ed infelicità personale (vanificazione dell’illusione amorosa per la Fanny), dapprima, induce la elegia, che fluisce a stento (a frasi smozzicate) dalla rassegnazione e della calma conquistata con sofferto sforzo di volontà; ma alla fine esplode incontenibile in una drammaticità che rasenta la tragedia (sottolineatura): “Or poserai per sempre| stanco mio cor. Perì l’inganno estremo| ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento| in noi di cari inganni,| non che la speme, il desiderio è spento.| Posa per sempre. Assai| palpitasti. Non val cosa nessuna| i moti tuoi, nè di sospiri è degna| la terra. Amaro e noia| la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.| T’acqueta ormai. Dispera| l’ultima volta. Al gener nostro il fato| non donò che il morire.| Ormai disprezza| te, la natura, il brutto| poter che, ascoso, a comun danno impera,| e l’infinita vanità del tutto”.
Più solitamente, però, è la persuasione che non solo per lui, ma per tutti gli uomini (anzi, per tutti i viventi) la vita è senza senso, senza scopo, senza gioia; è uno scherzo assurdo che illude l’uomo, lo tormenta, lo travolge. Tale pensiero è ossessivo e può generare anche nei canti più tipicamente elegiaci qualche nota drammatica. Ad esempio ne Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sia il v. 104 (ultimo delal quarta strofa) ed i versi finali dell’idillio sono amari, dopo una prolungata effusione dolcemente elegiaca: “A me la vita è male” e “Forse in qual forma, in quale| stato che sia, dentro covile o cuna,| è funesto a chi nasce il dì natale”.
La felicità, concessa all’uomo solo come sogno, attesa, speranza, illusione, cade per il sopraggiungere della riflessione razionale o dei sofismi razionalistici: convinzione espressa per immagini eloquentissime ed estatiche anche negli ultimi versi del canto A Silvia: “All’apparirr del vero| tu,[137] misera cadesti: e con la mano| la fredda morte ed una tomba ignuda| mostravi di lontano”. Assieme a L’infinito, A Silvia segna lo zenit della poesia leopardiana.
Ed ecco il Leopardi interrogare la natura, con attitudine accorata, dapprima: “O natura, natura,| perchè non rendi poi| quel che prometti allor? perchè di tanto| inganni i figli tuoi?” (A Silvia, vv.36-9); oppure, nel Canto notturno, quarta strofa: “A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo| infinito seren? che vuol dir questa| solitudine immensa? ed io chi sono?”
Ma egli sa che la domanda è inutile. “Arcano è tutto| fuor che il nostro dolor. Negletta prole| nascemmo al pianto, e la ragione in grembo| de’ celesti posa...” (Ultimo canto di Saffo, terza strofa). Infine, il discorso con la natura assumere toni sarcastici: “Piacer figlio d’affanno...| O natura cortese,| son questi i doni tuoi,| questi i diletti sono| che tu porgi ai mortali. Uscir di pena| è diletto fra noi” (La quiete dopo la tempesta, seconda e terza strofa.). Finchè giunge a bestemmiare contro la natura, detta “rea, empia, matrigna, inimica all’uomo” (La ginestra: passim nella terza strofa).
Le teorie pessimistiche dai Pensieri e dallo Zibaldone, dalle Lettere e dalle Operette morali divengono, dunque, nella produzione in versi, il terzo dei motivi ispiratori, generando ora notevoli momenti drammatici ora brani elegiaci di suprema bellezza. Tali dottrine costituiscono il polo negativo nel cuore della ispirazione leopardiana: sopravvengono ai sogni adolescenti e li disperdono; contrastano l’amenità delle ricordanze e le incupiscono; si oppongono all’ottimismo idilliaco delle attese e lo soffocano. La poesia più alta del Leopardi nasce per lo più da un sinergismo di motivi, dal sovrapporsi di temi, dall’oscillare fra un ricordo consolante ed un pensiero agghiacciante: il motivo ispiratore, a parte lo spunto paesaggistico, risulta dalla sovrapposizione di due atteggiamenti intellettuali opposti: il sovrapporsi di una grandiosità epica all’adesione candida alla felicità, iscritta nella mente del fanciullo (come ne L’infinito); ed il sopravvenire della critica intellettuale, che spaura, “come uno stormo di passere all’apparir del nibbio”[138], i sogni e le speranze. La simbiosi, il sinergismo è già nei motivi ispiratori, prima che nei toni lirici; nelle idee, prima che nelle emozioni.
I tre motivi sottolineati (paesaggio, ricordanze, riflessione) si susseguono di solito ordinatamente, ma spesso si alternano e si sovrappongono, nel corpo del “canto”, dando luogo ad un inteccio di luci ed ombre, in cui l’uno si continua e quasi si fonde nell’altro, si dissolve e si riprende, preparando una parallela e dipendente commistione e modulazione dei toni lirici.
I toni lirici
Quale è il livello poetico, la grandezza artistica, il valore estetico del Leopardi, nelle sue migliori espressioni? Ebbene, egli è un poeta grandissimo, uno delle più alte voci della letteratura italiana in versi, inferiore solo a Dante, Manzoni e Foscolo, superiore a Petrarca, Tasso ed Alfieri, da mettere alla pari col Carducci e col Pascoli, ciascuno per le loro composizioni migliori.
E quali sono le poesie più alte del Leopardi, in base alla caratura lirica, alla intensità emotiva, alla bellezza estetica, al contenuto artistico, alla capacità di comunicare emozioni, alla forza emotivogenetica, cioè alla capacità di far entrare il fruitore, in risonanza con lo stato affettivo del poeta? Purtroppo non sono moltissimi i “canti” che raggiungano il “diapason” della poesia somma; talvolta la composizione inizia all’apogeo (Ultimo canto di Saffo| La sera del dì di festa) e poi si perde nella mediocrità; oppure è poesia suprema nella parte descrittiva (La quiete dopo la tempesta: prime due strofe) e scade di nuovo nella medietà appena discreta dei versi filosofici, nella parte riflessiva. Ma i primi sei versi dell’Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, i primi tre versi e mezzo de La sera del dì di festa, La quiete dopo la tempesta (prime due parti), Il sabato del villaggio, Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (strofe prima, quinta e sesta: non altrettanto sublimi le altre), A se stesso sono davvero arte eccezionale, poesia da estasi. E vi sono, poi, i due capolavori: L’Infinito ed A Silvia, che raggiungono la vetta più alta di ogni poesia e letteratura: in questi due canti, Leopardi è all’altezza di Dante, Foscolo e Manzoni.[139]
A un gradino inferiore stimiamo la pur buona poesia del troppo emarginato Il risorgimento, l’apertura de Le ricordanze (prima strofa ed alcuni versi iniziali della terza strofa), la seconda e terza strofa del Canto notturno e la terza della “Quiete”. Ovviamente, se si volesse parlare di poesia appena sufficiente, occorrerebbe allora citare la canzone All’Italia con il piccolo idillio Alla luna e qualche parte almeno di altre composizioni, La ginestra non esclusa. Per non parlare delle Operette morali, che risultano una discreta, non trascurabile forma di arte letteraria (di poesia in prosa).[140]
E quali sono le tonalità liriche (od i toni emozionali) più tipiche del più grande Leopardi?. Non v’è dubbio che i canti migliori lascino un’impressione unitaria, coerente, costante, producendo una risonanza nell’animo del fruitore inconfondibile: nessun lettore udendo citare un verso del Leopardi è tentato di attribuirlo ad altro poeta. Interessandoci solo di tali, supreme composizioni, ci domandiamo: quale ne è la tonalità lirica, il registro emozionale?
Ci accosteremo alla risposta con approssimazioni successive.
Salvo poche eccezioni (la più clamorosa è data da alcuni versi di A se stesso), la drammaticità è da escludere da un’aura lirica che, nelle sue manifestazioni più alte, è coerentemente contemplativa. Lo si poteva sospettare conoscendo la personalità e osservando la vita del poeta. Vi è, in verità, un tentativo di fuga dalla casa paterna, ma fallisce in partenza, proprio per la inettitudine operativa, congenita nel suo temperamento nervoso vago(tonico)prevalente. Nel complesso, in seguito, egli si adatta alle circostanze, gregario nella sequela di amici (dal Giordani al Ranieri) o rassegnato alla reclusione nel natio borgo selvaggio, piangendo nel suo cuore ed affidando alla corrispondenza le sue proteste inconcludenti. Anche il “genere” delle sue opere lo dichiarano un poeta lirico puro, cioè limitato, quanto a grande poesia, al canto delle proprie vicende interiori: la espressione artistica assurge a valori eccezionali solo se egli esprime i sentimenti come propri, non riuscendo ad investirne altre persone.[141] Già queste osservazioni dovevano esorcizzare ogni idea di “poesia eroica” pel ciclo di Aspasia! [142].
Leopardi aveva una psicologia troppo mite, mansueta, dolce e, quindi, contemplativa, per riuscire a estrarre grande poesia da argomenti forti, per generare in sè e comunicare agli altri atteggiamenti di esultanza epica o di ribellione drammatica: quando tenta simili registri, diventa patetico, nel senso dell’enfasi, dell’oratoria (canzone All’Italia).
A questo punto, si può arguire che al motivo della memoria corrisponderanno tonalità idilliche, (di gioia tenue, contemplativa); il tema della riflessione, indurrà un registro elegiaco (tristezza pacata); il motivo del paesaggio, subordinato e funzionale ai due poli maggiori della ispirazione, parteciperà ora dell’uno ora dell’altro stato d’animo.
Ma la realtà del lirismo leopardiano è più complessa. In parallelismo con la complicazione dei motivi ispiratori, si ritrova fusione, sinergismo, sovrapposizioone e dissolvenza incrociata anche nei toni lirici. D’altronde, quale meraviglia? Non è forse Leopardi un poeta romantico? Questo significa, ci pare proprio, che è un un poeta in cui la spinta emozionale è superiore potenza della ragione. Ma significa anche avere la capacità di fondere le emozioni più diverse, generando tenerezza (elegia ed idillio), estasi (idillio ed epopea), commozione (elegia ed epopea), comicità. Ebbene, nei momenti migliori, il Leopardi approda, appunto, ad un registro lirico che nasce dal confluire di più commozioni estetiche.
Non sempre, ovviamente. Vi è un Leopardi puramente (o prevalentemente) idillico od elegiaco; e vi è un Leopardi minore che è drammatico. Ma la linea divisoria delle emozioni si confonde spesso, sino ad un loro sinergismo, alla loro fusione.
Prevalente idillio: Ultimo canto di Saffo, vv. 1-6 (“Placida notte, e verecondo raggio| della cadente luna; e tu che spunti| fra la tacita selva in su la rupe| nunzio del giorno; oh dilettose e care| mentre che ignote mi fur l’erinni e il fato| sembianze agli occhi miei...); vv. 19-20a (“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella| sei tu, rorida terra...).
Il Passero solitario, vv. 1-11: “D’in su la vetta della torre antica,| passero solitario, alla campagna| cantando vai finchè non muore il giorno:| ed erra l’armonia per questa valle. Primavera d’intorno| brilla nell’aria e per li campi esulta,| sì ch’a mirarla intenerisce il core.| Odi greggi belar, muggire armenti;| gli altri augelli contenti, a gara insieme| per lo libero ciel fan mille giri,| pur festeggiando il lor tempo migliore...|| Questo giorno ch’omai cede alla sera,| festeggiar si costuma al nostro borgo.| Odi per lo sereno un suon di squilla,| odi spesso un tonar di ferree canne,| che rimbomba lontan di villa in villa.| Tutta vestita a festa| la gioventù del loco| lascia le case, e per le vie si spande;| e mira ed è mirata, e in cor s’allegra”.[143]
La sera del dì di festa, vv. 1-4a: “Dolce e chiara è la notte e senza vento,| e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti| posa la luna, e di lontan rivela| serena ogni montagna...”.
Vi è anche, in tale registro ma di minor intensità, il canto Alla luna.
Prevalente elegia: Il Passero solitario, vv. 12-25; 37—60: “Tu pensoso in disparte il tutto miri;| non compagni, non voli,| non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;| canti, e così trapassi| dell’anno e della vita il più bel fiore.|| Oimè quanto somiglia| al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,| della novella età dolce famiglia,| e tu german di giovinezza, amore,| sospiro acerbo de’ provetti giorni,| non curo, io non so come; anzi da loro| quasi fuggo lontano;| quasi romito e strano| al mio loco natio,| passo del viver mio la primavera...| Io solitario in questa| rimota parte della campagna uscendo,| ogni diletto e gioco| indugio in altro tempo: e intanto il guardo| steso nell’aria aprica| mi fere il Sol che tra i lontani monti,| dopo il giorno sereno,| cadendo si dilegua, e par che dica| che la beata gioventù vien meno”.[144]
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi che fai,| silenziosa luna?| Sorgi la sera, e vai,| contemplando i deserti; indi ti posi.| Ancor non sei tu paga| di riandare i sempiterni calli?| Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga| di mirar queste valli?| Somiglia alla tua vita| la vita del pastore.| Sorge al primo albore;| move la greggia oltre pel campo, e vede| greggi, fontane ed erbe;| poi stanco si riposa in su la sera:| altro mai non ispera.| Dimmi, o luna: a che vale| al pastor la sua vita,| la vostra vita a voi? dimmi: ove tende| questo vagar mio breve,| il tuo corso immortale?||[145]...|| O greggia mia che posi, oh te beata| che la miseria tua, credo, non sai!| Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d’affanno| quasi libera vai;| ch’ogni stento, ogni danno,| ogni estremo timor subito scordi;| ma più perchè giammai tedio non provi.| Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,| tu se’ queta e contenta;| e gran parte dell’anno| senza noia consumi in quello stato.| Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,| e un fastidio m’ingombra| la mente, ed uno spron quasi mi punge| sì che, sedendo, più che mai son lunge| di trovar pace o loco.| E pur nulla non bramo,| e non ho fino a qui cagion di pianto.| Quel che tu goda o quanto,| non so già dir; ma fortunata sei.| Ed io godo ancor poco,| o greggia mia, nè di ciò mi lagno.| Se tu parlar sapessi, io chiederei:| dimmi: perchè giacendo| a bell’agio, ozioso,| s’appaga ogni animale;| me, se giaccio in riposo, il tedio assale?|| Forse s’avess’io l’ale| da volar su le nubi,| e noverar le stelle ad una ad una,| o come il tuono errar di giogo in giogo| più felice sarei, dolce mia greggia,| più felice sarei, candida luna.| O forse erra dal vero,| mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:| forse in qual forma, in quale| stato che sia, dentro covile o cuna,| è funesto a chi nasce il dì natale”.
A se stesso: leggendolo (lo abbiamo già riportato) si noterà facilmente l’intrecciarsi di elegia e di dramma. Anzi, quasi tutto il “canto” è liricamente equivoco, sopporta cioè una duplice interpretazione, potendo esser letto sia in chiave elegiaca sia in tono drammatico, con un mutamento adeguato di voce. Certo che alcuni sono più ovviamente elegiaci (“Or poserai per sempre,| stanco mio cor. Perì l’iganno estremo| ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento| in noi di cari inganni,| non che la speme, il desiderio è spento.| Posa per sempre. Assai| palpitasti...| T’acqueta omai...| Al gener nostro il fato non donò che il morire.”), mentre altri all’elegia sono più difficilmente riconducibili, segnati più profondamento dal risentimento del poeta (“Amaro e noia| la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo|.... Dispera l’ultima volta...| Ormai disprezza| te, la natura, il brutto| poter che, ascoso, a comun danno impera,| e l’infinita varietà del tutto”.)
Il registro drammatico è frequente, ma come in ogni poeta è spesso il tono caratteristico delle parti meno riuscite della versificazione; è la tonalità di fondo che non si è sublimata in epopea o tragedia e non si è ammansita in idillio od elegia. E’ come un magma generico che attendeva di essere raffinato ed elevato. Anche il solitamente contemplativo Petrarca (lo abbiam notato a suo luogo) cade in simile mediocrità, che pretende inutilmente alla grande poesia: è il caso del “quandoque et bonus dormìtat Homerus”.
Esempi di poesia riuscita, ne ritroveremo pochi, in versi
quasi isolati: la concentrazione maggiore si ha, come detto, in A se stesso, dove abbiam già segnalato
alcuni versi di ambiguo lirismo, fra dramma ed elegia. Solo gli ultimi quattro
versi sono univocamente drammatici e riusciti ad alta poesia. In verità quasi tutto il “canto” può essere
letto in due registri diversi, ricuperando con un adeguato tono di voce ad un
registro prescelto, anche i versi più facilmente appartenenti all’altro: “Non
val cosa nessuna| i moti tuoi, nè di sospiri è degna| la terra. Amaro e noia|
la vita, altro mai nulla; e fango il mondo.|... Dispera l’ultima
volta....| Ormai disprezza| te, la
natura, il brutto| poter che, ascoso, a comun danno impera,| e l’infinita
vanità del tutto”.
La sera del dì di festa: “...io questo ciel, che sì benigno| appare in vista, a salutar m’affaccio,| e l’antica natura onnipossente,| che mi fece all’affanno. A te la speme| nego, mi disse, anche la speme; e d’altro| non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”.
La quiete dopo la tempesta: i versi 31-41. “Quando de’ mali suoi men si ricorda?| Piacer figlio d’affanno;| gioia vana ch’è frutto| del passato timore, onde si scosse| e paventò la morte| chi la vita aborria;| onde in lungo tormento| fredde, tacite, smorte,| sudar le genti e palpitar, vedendo| mossi alle nostre offese| folgori, nembi e vento.
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, ha nelle strofe seconda e terza, quaranta versi (dal 21 al 60, citati poco sopra) di una vivacità risentita, di una protesta sofferta, di una drammaticità sincera, che rischia di convincerti sulla verità dei contenuti ideologici.[146] Non grandissima poesia, come quella delle altre strodfe, ma pur buona poesia.
Ed eccoci alla
mescolanza ed al sinergismo fra tonalità differenti.
Fra idillio e
dramma: esultanza. [147]
Il risorgimento: “Credei ch’al tutto fossero| in me
sul fior degli anni| mancati i dolci affanni| della mia prima età....|| Quante
querele e lacrime| sparsi nel novo stato,| quando al mio cor gelato| prima il
dolor mancò.|| Mancar gli usati palpiti,| l’amor mi venne meno,| e irrigidito
il seno| di sospirar cessò!|| Piansi spogliata, esanime| fatta per me la vita;|
la terra inaridita,| chiusa in eterno gel;|| deserto il dì; la tacita| notte
più sola e bruna;| spenta per me la luna,| spente le stelle in ciel||...La
rondinella vigile,| alle finestre intorno| cantando al novo giorno,| il cor non
mi ferì:|| non all’autunno pallido| in solitaria villa| la vespertina squilla,|
il fuggitivo Sol....||Chi della grave, immemore| quiete or mi ridesta?| Che
virtù nova è questa,| questa che sento in me?...|| Meco ritorna a vivere| la
piaggia, il bosco, il monte;| parla al mio core il fonte,| meco favella il
mar.| Chi mi ridona il piangere| dopo cotanto oblio?| E come al guardo mio|
cangiato il mondo appar?||... Pur sento in me rivivere| gl’inganni aperti e
noti;| e de’ suoi propri moti| si meraviglia il sen.| Da te, mio cor,
quest’ultimo| spirto e l’ardor natio,| ogni conforto mio| solo da te mi vien.||
Mancano, il sento, all’anima| alta, gentile e pura,| la sorte, la natura,| il
mondo e la beltà.| Ma se tu vivi, o misero,| se non concedi al fato,| non
chiamerò spietato| chi lo spirar mi dà”.
La quiete dopo la tempesta : “Passata è la tempesta:| odo augelli far festa, e la gallina,| tornata in su la via,| che ripete il suo verso. Ecco il sereno| rompe là da ponente, alla montagna;| sgombrasi la campagna,| e chiaro nella valle il fiume appare.| Ogni cor si rallegra, in ogni lato| risorge il romorio,| torna il lavoro usato.| L’artigiano a mirar l’umido cielo,| con l’opra in man, cantando,| fassi in su l’uscio: a prova| vien fuor la femminetta| a còr dell’acqua| della novella piova;| e l’erbaiuol rinnova| di sentiero in sentiero| il grido giornaliero.[148]| Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride| per li poggi e le ville. Apre i balconi,| apre terrazzi e logge la famiglia:| e dalla via corrente, odi lontano| tintinnio di sonagli; il carro stride| del passegger che il suo cammin ripiglia.|| Sì rallegra ogni core.| Sì dolce, sì gradita| quand’è, com’or, la vita?| Quando con tanto amore| l’uomo a’ suoi studi intende?| o torna all’opre? o cosa nova imprende?....”.
Il sabato del villaggio[149]: “La donzelletta vien dalla campagna,| in sul calar del sole,| col suo fascio dell’erba; e reca in mano| un mazzolin di rose e di viole,| onde, siccome suole,| ornare ella s’appresta dimani, al dì di festa, il petto e il crine.| Siede con le vicine| su la scala a filar la vecchierella,| incontro là dove si perde il giorno;| e novellando vien del suo bel tempo,| quando ai dì della festa ella si ornava,| ed ancor sana e snella| solea danzar la sera intra di quei| ch’ebbe compagni dell’età più bella.”
(Parte prevalentemente idilliaca): “Già tutta l’aria imbruna,| torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre| giù da’ colli e da’ tetti,|al biancheggiar della recente luna.| Or la squilla dà segno| della festa che viene,| ed a quel suon diresti| che il cor si riconforta.| I fanciulli gridando su la piazzetta in frotta,| e qua e là saltando,| fanno un lieto romore;| e intanto riede alla sua parca mensa,| fischiando il zappatore,| e seco pensa al dì del suo riposo.|| Poi quando intorno è spenta ogni altra face,| e tutto l’altro tace,| odi il martel picchiar, odi la sega| del legnaiuol, che veglia| nella chiusa bottega, alla lucerna,| e s’affretta, e s’adopra| di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba...”
Seguono le ultime due strofe (in tutto 14 versi) che riprendono il loro ritmo “vivace, ma non troppo”della prima strofa.
Il sentimento
complesso dell’estasi
E’ comunicato da L’infinito, dove sentiamo una pacata ma grandiosa elevazione epica, che sublima l’idillio prevalente: gli “interminati spazi, i sovrumani , infiniti silenzi”, la profondissima quiete, l’affacciarsi dell’eterno, le “morte stagioni” (cioè le epoche dilatate della storia), comunicano quella “immensità”, formano quel “mare”, che elevano la pace, dell’ermo colle e della siepe limitante, alla vastità e profondità dell’epopea. Lo si è già citato praticamente tutto.
Tenerezza. Più
solitamente, gli stati d’animo che confluiscono in simbiosi sublime sono l’idillio e la elegia, le due tonalità contemplative, ma opposte:
il loro risultato è la tenerezza.
Il capolavoro del genere è A Silvia: “Silvia, rimembri ancora| quel tempo della tua vita mortale,| quando beltà splendea| negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,| e tu, lieta e pensosa, il limitare| di gioventù salivi?|| Sonavan le quiete| stanze, e le vie dintorno,| al tuo perpetuo canto,| allor che all’opre femminili intenta| sedevi, assai contenta| di quel vago avvenir che in mente avevi.| Era il maggio odoroso: e tu solevi| così menare il giorno.|| Io gli studi leggiadri| talor lasciando e le sudate carte,| ove il tempo mio primo| e di me si spendea la miglior parte,| d’in su i veroni del paterno ostello| porgea gli orecchi al suon della tua voce| ed alla man veloce| che percorrea la faticosa tela.| Mirava il ciel sereno,| le vie dorate e gli orti,| e quinci il mare, e quindi il monte.| Lingua mortal non dice| quel ch’io sentiva in seno.|| Che pensieri soavi,| che speranze, che cori, o Silvia mia!| Quale allor ci apparia| la vita umana e il fato!| Quando sovviemmi di cotanta speme,| un affetto mi preme| acerbo e sconsolato,| e tornami a doler di mia sventura.| O natura, o natura,| perchè non rendi poi| quel che prometti allor? perchè di tanto| inganni i figli tuoi?|| Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,| da chiuso morbo combattuta e vinta,| perivi, o tenerella. E non vedevi| il fior degli anni tuoi;| non ti molceva il core| la dolce lode or delle negre chiome,| or degli sguardi innamorati e schivi;| nè teco le compagne ai dì festivi| ragionavan d’amore.|| Anche perìa fra poco| la speranza mia dolce: agli anni miei| anche negaro i fati| la giovanezza. Ahi come| passata sei,| cara compagna dell’età mia nova,| mia lacrimata speme!| Questo è quel mondo? questi| i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi| onde cotanto ragionammo insieme?| Questa la sorte dell’umane genti?| All’apparir del vero| tu, misera, cadesti: e con la mano| la fredda morte ed una tomba ignuda| mostravi di lontano”.
Il sorriso, il vagheggiamento sognatore dell’adolescente è offuscato dalla delusione, dalla nostalgia, dal rimpianto dell’adulto. Ne risultano lacrime desolate, uno sconforto senza scampo, come di un fanciullo che abbia subìto un torto a tradimento, di cui conosce che non avrà ormai più rimedio. Il lettore, anche se dissente dal pessimismo radicale dell’autore, non riesce a sottrarsi all’alone di tristezza che si diffonde dai canti leopardiani: dalla nostalgia per i tanti sogni svaniti, le tante speranze deluse, i tanti progetti infranti; dalla malinconia per i tanti desideri inappagati, per l’avvizzire dell’amore, il declino del vitalismo, il rallentare dell’attività, il fluire inesorabile del tempo, che affatica i pensieri e le opere della nostra giornata terrena a l’avvia al silenzio della morte, all’oscurità della tomba, alla vanità della gloria. E’ un senso di smarrimento: il fanciullo è stato derubato del suo bisogno insopprimibile di felicità. Eppure rimane nel lettore anche il ricordo ed il vagheggiamento degli ideali sognati; si desta in lui il senso della gioia limpida cui si sente radicalmente chiamato; rinasce il bisogno della felicità non effimera, della soddisfazione non precaria, dell’appagamento perfetto, della pace sicura. Il lettore sente, attraverso la tenerezza del Leopardi, quanto ha perduto, ma conservando il senso di quanto gli è stato donato; sente la tristezza del tesoro smarrito, ma anche la ricchezza cui era stato invitato. E’ insomma il senso dell’eterno e dell’infinito quello che apre il cielo dell’idillio e fa scendere la notte della elegia. Una coppia di valori di cui solo la fede religiosa può dar ragione e conciliare. [150]
Della comicità, Leoapardi conosce quasi solo il sarcasmo, ironia amara e ancora contagiata da passionalità pratico-operativa. Qui riportiamo solo l’ultima strofa de La quiete dopo la tempesta: “O natura cortese,| son questi i doni tuoi,| questi i diletti sono| che tu porgi ai mortali. Uscir di pena| è diletto fra noi.| Pene tu spargi a larga mano; il duolo| spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto| che per mostro e miracolo talvolta| nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana| prole cara agli eterni| Assai felice| se respirar ti lice| d’alcun dolor: beata| se te d’ogni dolor morte risana”. Si possono anche leggere I Nuovi credenti e la Palinodia al marchese Gino Capponi (questa, un po’ meno amara: ironia, non saracasmo).[151]
La tecnica stilistica
Esaminiamo anzitutto la metrica. Negli idilli, Leopardi usa solo tre schemi metrici: lasse di endecasillabi sciolti, quartine arcadiche di settenari, la canzone “libera”, cioè non più petrarchesca o classica. Questa aveva una complicata struttura di “fronte” e “sir(i)ma”, sottodivise in “piedi” e “volte” e legate dalla “chiave” che rimava l’ultimo verso della “fronte” ed il primo della “sir(i)ma”. Abbandonando lo schema, Leopardi libera la sua canzone anche dalle due leggi conseguenti: un ugual numero di versi per ogni strofa o stanza; identità nell’ordine di successione di endecaisllabi e settenari e rime nelle stanze successive, in conformità alle scelte della prima. Nella canzone “leopardiana” settenari ed endecasillabi e rime si succedono secondo pura spontaneità, in una libertà, governata unicamaente dall’estro emotivo.[152]
Liricità stilistica delle più alte poesie leopardiane. “Lirico” ha due sensi distinti. Uno, generale, coincide con “estetico, artistico, emotivogenetico”: è l’aggettivo di “lirismo” che è sinonimo di “arte”. L’altro senso è più ristretto o particolare: è l’arte letteraria in versi (poetica, non prosastica) che esprime gli stati d’animo dello scrittore come propri. Teoricamente, dovrebbe esprimerli in prima persona singolare, perchè la poesia lirica è quella in “io” (come quella drammatica è in “io-tu”, dialogata; e quella epica è in “egli-essi”, narrata): in pratica, può essere descrittiva di paesaggio (e quindi in “esso”) o di impressioni ricavate da altre persone (in “egli|essi”), ecc: l’importante è che i sentimenti siano espressi come affezioni del poeta, non attribuiti ad altri personaggi (come sulla scena teatrale o nel poema epico). Essendo Leopardi un introverso, non aveva attitudine al poema epico od alla forma drammatica: abbiam già ricordato che anche i dialoghi delle “Operette morali” sono in realtà monologhi del poeta che tende ad una tale ambiguità od incertezza di pensiero e di stati emozionali, sicchè egli può sdoppiarsi e dialogare con la potenziale doppia personalità che ospita in sè.
Quando egli ricorre a personaggi storici (Saffo, Bruto minore, Silvia, Nerina...) o fittizi (Consalvo, Elvira, pastore errante dell’Asia), li adegua tutti a se stesso: sono pure proiezioni autobiografiche, simboli del poeta pensoso od innamorato.
Lo stesso Leopardi, lo abbiamo visto, definisce le sue cose migliori (gli “idilli”, appunto) “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”, cioè composizioni soggettive, tecnicamente liriche.[153] In conclusione: Leopardi è essenzialmente un “poeta lirico”, cioè autobiografico: come e più del Petrarca.
Le note dello “stile contemplativo” del Leopardi. Segnaliamo quelli che ci sembrano gli indizi più rilevanti della “adrammaticità” della espressione leopardiana.
La musicalità è dolce, tenera, grazie soprattutto al consonantismo. Liquide e nasali, che sovrabbondano con le fruscianti (s dolce, v, f), emarginano i molto più rari suoni gutturali, dentali e (meno frequanti di tutti) labiali-esplosivi. Le vocali larghe “A|O” sono frequenti persino nel capolavoro A Silvia, ma sono più che equilibrate dalle insolitamente frequenti “I|U|E”. Si provi a rileggere tutto L’Infinito per il consonantismo che “ovatta” le vocali larghe, epicizzanti. Allo stesso risultato confluisce il musicalismo affine che apre, con versi idillici, La sera del dì di festa” (“Dolce e chiara è la notte e senza vento| e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti| posa la luna, e di lontan rivela| ogni montagna...”. In A Silvia il prevalere del vocalismo tenue, fuso con il consonantismo dolce, aiuta a creare la magia della tenerezza: idillio ed elegia si inseguono e armonizzano attraverso il sussurro dei suoni smorzati delle vocali strette e media .
La domesticità, la mitezza, l’umiltà della immaginazione leopardiana. Le sue descrizioni puntano su particolari della vita semplice, della povera gente: il canto della fanciulla al telaio (A Silvia); le ragazze adorne di fiori (Il sabato del villaggio); la vita umile del borgo che riprende dopo il temporale: la donna che esce a raccogliere la pioggia dal secchio, la gallina che riprende a canatare, l’artigiano che si fa sull’uscio a mirare il cielo tornato sereno, il fruttivendolo che riprende il suo grido ed il suo aggirarsi nel borgo... (La quiete dopo la tempesta); gli uccelli che si rincorrono nel vespro (Il passero solitario); il colle e la siepe (L’infinito); Il pastore errante e la sua greggia mansueta (Canto notturno...); la luna e la sua luce soffusa (passim: cfr. i rimandi nei “Motivi ispiratori”).
E, viceversa, nei versi del recanatese è sempre assente
la piena luce del sole, mentre sono frequenti i vespri e la notte; è sempre
assente l’aristocrazia, mentre è frequente il popolo minuto.
Tale mansuetudine si manifesta anche nel linguaggio. Sia che usi termini popolari o che ricuperi arcaismi colti o che introduca idiotismi propri, il risultato si conferma: il contesto, il suono stesso dei vocaboli suggeriti dalla “memoria spontanea” riconducono il vocabolario entro il tono dimesso, alla espressione tenera, intimistica, umile, confidenziale. Documentiamo senza pretese di completezza: L’infinito: ermo colle| il guardo|, il cor non si spaura| comparando (paragonando)| mi sovvien; ritorna sei volte l’aggettivo “questo” che avvicina l’oggetto, lo familiarizza.
Ultimo canto di Saffo: placida notte| verecondo raggio| spettacol molle| insueto gaudio| giova (piace)| rorida terra| il core| aprico margo (riva solatia), giovanezza...;
La quiete dopo la tempesta: augelli| cor| romorìo| a prova (a gara)| piova| li poggi| il duolo| ti lice...; Il sabato del villaggio: la donzelletta| dimani| il crine| la vecchierella| novellando| la squilla| il cor si riconforta| piazzuola| lieto romore| riede il zappator| seco pensa| fornir l’opra| travaglio usato| garzoncello...;
Il passero solitario: il core| lo libero cielo| non ti cal d’allegria| german di giovinezza, amore| romito| lo sereno| suon di squilla| indugio (rimando) in altro tempo| vaghezza| pentirommi| volgerommi...
Ci si sarà accorti che spie di questo animo candido e mite
del poeta sono, anche, i diminutivi.
Oltre i già ricordati (vecchierella| garzoncello| femminetta| donzelletta), vedi anche “tenerella” (A Silvia, v. 42).
Vi sono poi i termini popolani: oltre i citati “legnaiuol, romorio, a prova, piova, novellando, fornire l’opra, travaglio usato”, aggiungi “il limitare” (la soglia: A Silvia, v. 5), “ostello” (id., v. 19); le mutazioni tanto strane in sè quanto coerenti al contesto (li campi| lo libero ciel| german (fratello)| indugio (rimando)| il guardo| comparando (paragonando)| rimembrar| romito| menare (condurre, passare la giornata)| noverare (ricordare)| verone (balcone)| borgo| squilla| procacci); gli arcaismi così felicemente concordi (aprico margo| ermo| tedio| ostello|, non ti molceva il core| ti cale| riede| mi giova| speme...)
La confidenzialità romantica. La poesia si svolge spesso in forme colloquiali, con una intimità di dialogo, un tono fraterno e dimesso che disarmano ogni volontà di contestazione e quasi impediscono il razionale dissenso nel pensiero: “Silvia, rimembri ancora...”; “...Passero solitario, alla campagna| cantando vai finchè non muore il giorno”...”Oimè, quanto somiglia| al tuo costume il mio!..Tu, solingo augellin, venuto a sera| del viver che a te daran le stelle...”; “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai?... dimmi: ove tende| questo vagar mio breve,| il tuo corso immortale?... A che tante facelle?| che fa l’aria infinita, e quel profondo| infinito seren?che vuol dir questa| solitudine immensa?| ed io chi sono?....O greggia mia che posi, oh te beata| che la miseria tua, credo, non sai!...| Dimmi: perchè giacendo| a bell’agio, ozioso,| s’appaga ogni animale:| me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”. E si potrebbe continuare a citare da La sera del dì di festa (“Tu dormi, che t’accolse agevol sonno| nelle tue chete stanze...”); Alla luna (“O graziosa luna, io mi rammento| che or volge l’anno, sovra questo colle| io venia pien d’angoscia a rimirarti...”); Alla sua donna (“Cara beltà che amore| lunge m’inspiri o nascondendo il viso,|...| o ne’ campi ove splenda| più vago il giorno...”); Le ricordanze (“Vaghe stelle dell’Orsa...”); Consalvo, Al conte Carlo Pepoli, Il pensiero dominante, A se stesso, Aspasia, Il tramonto della luna, La ginestra...
Che il colloquio sia in realtà un soliloquio, cioè un domandare senza attender risposta, perchè sono interrogate cose (la luna) od animali (il passero, la greggia...) che non possono nè intendere nè parlare, lo dimostra esplicitamente Il Risorgimento, dove il colloquio del poeta avviene cogli affetti del suo cuore (“Moti soavi, immagini,| palpiti, error beato,| per sempre a voi negato| questo mio cuor non è?|| Siete pur voi quell’unica| luce de’ giorni miei?| Gli affetti ch’io perdei| nella novella età?”), col suo cuore stesso (“Forse la speme, o povero| mio cor ti volse un riso?...|| Ma se tu vivi, o misero,| se non concedi al fato,| non chiamerò spietato| chi lo spirar mi dà”). A meno che il poeta non dia lui la risposta sotto forma di domanda retorica, che diviene accusa e protesta: “O natura, natura| perchè non rendi poi| quel che prometti allor’| perchè di tanto| inganni i figli tuoi?” (A Silvia, vv. 36-9).
Prosecuzione di questo colloquio interiore o soliloquio fantastico sono i molti verbi riflessivi, talvolta preferiti al pur disponibile verbo intransitivo solitamente usato: si fuggia (All’Italia, v. 75), ti cal, ti dorrai, pentirommi, volgerommi” (Il passero solitario, vv. 15, 49, 59, 60); mi fingo, mi sovvien, m’è dolce (L’Infinito, vv. 7, 11, 15); ti rimembra (La sera del dì di festa, v. 18); mi rammento, mi giova (Alla luna, vv. 1, 10); sovviemmi (A Silvia, v. 32); si riconforta, seco pensa (Il sabato del villaggio, vv. 23, 30); dimmi, meco ragiono (Canto notturno, vv. 1, 16, 18...; 90), si scolora, si dilegua, s’appoggia, si sente, a sè l’umana sede, esso a lei veramente è fatto estrano (Il tramonto della luna, vv. 12, 20, 26, 29, 31, 32..).
La tecnica
particolare del lirismo della tenerezza
De Sanctis ha scritto: “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà e te la fa amare; chiama illusione l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. Il giudizio del grande critico ha qualcosa di vero: almeno a livello emozionale. Nei Canti infatti si trovano alleati idillio ed elegia, una componente cioè centripeta ai valori esistenziali, che la ragione esorcizza ma non sopprime. La negazione dei valori, la componente centrifuga, lascia sussistere o fonde in sè anche la dimensione positiva, la tensione insopprimile ad essi. Il risultato sul piano lirico è la tenerezza. Il loro significato sul piano culturale (dei motivi ispiratori) è la conferma dell’oscillazione del pensiero leopardiano, il convivere di due atteggiamenti contrastanti, la ambiguità del suo messaggio ideologico.
Seguendo un’analisi, già fatta con sensibilità suggestiva e con acume critico, sulla canzone A Silvia[154], potremo costatare la convivenza di due terminologie, una costruttrice ed una demolitrice. Ecco appaiati i due gruppi di singole parole o di giudizi:
beltà splendea inaridisse il verno
vago avvenir chiuso morbo
il limitar di gioventù salivi combattuta e vinta
maggio odoroso perivi
studi leggiadri fredda morte
che pensieri soavi tomba ignuda
che speranze, che cori un affetto acerbo e sconsolato
Ancor più sorprendente è la contemporanea coniugazione delle due terminologie a proposito di uno stesso atteggiamento di Silvia:
v. 4: occhi ridenti e fuggitivi; v. 46: sguardi innamorati e schivi;
v. 5: lieta e pensosa; v. 55: mia lacrimata speme.
A questo punto, si può quasi toccare con mano il segreto leopardiano della “tenerezza”, cioè l’affiancamento, attraverso un vocabolario contrastante ed alternante, di entrambe le atmosfere- quella elegiaca e quella idillica- nella stessa descrizione, nello stesso verso, nella stessa frase.
Sul piano puramente ideologico, noi potremmo avanzare una ulteriore scoperta: nella concreta psiche del poeta, il polo positivo del pensiero tende a prevalere. Se ci affidiamo ai numeri, le espressioni sono in favore dei valori, della felicità, della vita. Difatti il pessimismo del Leopardi si manifesta negando le realtà cui aspira con tutto il cuore. In questa sua spontanea tendenza a professare la sua miscredenza nell’ottimismo, si può sospettare un lapsus dell’istinto profondo con cui egli, inconsapevolmente, aderiva al significato positivo dell’uomo e della vita, della bontà dell’esistenza e delle opere umane. Abbiamo una quindicina di citazioni per realtà belle e liete (beltà splendea| occhi ridenti e fuggitivi| lieta e pensosa| al tuo perpetuo canto| assai contenta| era il maggio odoroso| studi leggiadri| Mirava il ciel sereno| le vie dorate e gli orti,| e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.| Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno.| Che pensieri soavi,| che speranze, che cori, o Silvia mia!), cui segue un’altra quindicina di espressioni, bensì pessimistiche, ma che sono costruite con la negazione dei valori positivi: “Quando sovviemmi di cotanta speme| il fior degli anni tuoi| la dolce lode or delle negre chiome| or degli sguardi innamorati e schivi| teco le compagne ai dì festivi| ragionavan d’amore.| la speranza mia dolce| cara compagna dell’età mia nova| i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi| onde cotanto ragionammo insieme?” Di fronte a questo quadro stanno solo una diecina di espressioni univocamente negative e pessimistiche: “un affetto acerbo e sconsolato| tornami a doler di mia sventura| O natura, natura... perchè di tanto inganni i figli tuoi?| Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,| perivi o tenerella| Anche peria fra poco| agli anni miei anche negaro i fati la giovanezza| mia lacrimata speme| All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano| la fredda morte ed una tomba ignuda| mostravi di lontano”.
LE OPERETTE MORALI
La definizioni che è disposto a tollerarne Leopardi (per bocca di Tristano: “libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci melanconici, ovvero... espressione dell’infelicità dell’autore”), risulta fuorviante, perchè per lui si trattava anzitutto di un libro di profonda riflessione antropologica e, praticamente, di filosofia. La prova più chiara ci viene dalla divergenza con l’editore Stella, che avrebbe voluto includere il volume nella collana “Biblioteca per dame”. Era il segno che anche lo Stella aveva del libro quel senso che Leopardi avrebbe accettato solo come definizione conciliante, per attutire le critiche che sarebbero nate dopo la prima edizione (1827)[155]. Pensava, cioè, lo Stella che si trattasse di divagazioni fantastiche, di ipotesi estreme, proprie di un sognatore, di un poeta: di uno di quegli uomini, che Manzoni fa definire dal volgo come “cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole”.[156] Ma Leopardi non accettò la collocazione e volle che il libro apparisse come cosa seria, da considerarsi una meditazione per la umanità. Ciò non toglie che le Operette non riescano a convincere il lettore comune delle loro tesi e si facciano leggere, invece, volentieri per la loro non eccelsa, ma autentica carica poetica. Anche l’uomo più ottimista legge pensieroso il lavoro, proprio perchè dotato di una patina lirica, di un velo di tristezza che lo raccomanda come opera artistica: il valore filosofico recede come forza di penetrazione e prevale lo spin emozionale. Potremmo dire che le Operette sono uno scritto di precario equilibrio comunicativo tra motivo ispiratore filosofico ed espressione di lirismo elegiaco, ma che la dimensione estetica alla fine predomina sul contenuto ideologico.
Il motivo ispiratore: non staremo a ripeterlo partitamente, perchè lo abbiamo già analizzato nello studio del pensiero del Leopardi. Si può riassumere nella formula di un pessimisno totale, che considera la vita un enigma (perchè viviamo?), anzi una sventura (“a me la vita è male”). Solo la superbia e la falsità degli uomini possono negare il male di vivere, inducendoli a ritenersi superiori ad ogni creatura e, anzi, il fine di tutto il creato, mentre solo la distrazione dell’amore e le dissipazioni del piacere ne fan superare per qualche istante il tedio, la noia, il dolore. Si evita il suicidio perchè (sino ad una certa data del suo pensiero) vi è il divieto religioso e perchè la natura vi è contraria; poi (caduta la fede in Dio e nella bontà della natura) soltanto perchè la compassione per quanti ci amano e le convenienze sociali fanno ostacolo.[157] E’ innegabile, però, che tale dimensione ideologica esige il pagamento di uno scotto che le Operette non riescono ad evitare: la dimensione artistica risulta minore, perchè la mente è ancora assorbita dal pensiero, che predomina nella loro elaborazione. Esse per lo più “sentono di lucerna” (Fr. De Sanctis), anche se non mancano cantucci di poesia sufficiente o discreta.
Le tonalità liriche. Prevalente è la elegia dimessa: si leggano il Dialogo di Malambruno e di Farfarello,... della natura e di un’anima,... di Torquato Tasso e del suo Genio familiare;... di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez,.... di Plotino e di Porfirio,....di un venditore di almanacchi e di un passeggere; e il Cantico del gallo silvestre.
Umorismo discreto è rintracciabile ne Il Copernico. –Dialogo; parti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie;
Umorismo farsesco (riso sarcastico, grezzo): Dialogo della Moda e della Morte; Dialogo: Galantuomo e mondo (non pubblicato);
Drammatico-polemico: Dialogo di Timandro ed Eleandro; ... di Tristano e di un amico.
I rimanenti ci sembrano più grigi esteticamente, cioè meno ravvivati da una partecipazione emozionale. Si pensi al Dialogo della Natura e di un Islandese: il dialogo è esemplare intellettualmente, in quanto espone all’evidenza la concezione che il Leopardi aveva della “natura” al tempo delle Operette (cioè non più benigna, come negli anni precedenti, ma non ancor malvagia come dopo il 1828-9); ma la impassibilità della “natura” come insieme di leggi immutabili, di cui essa è esecutrice imparziale ed insensibile, si trasmette anche alla espressione, che rimane poeticamente muta.
Note stilistiche.
Come si può facilmente sospettare a priori, conoscendo la personalità introversa dell’autore, i vari personaggi messi in scena nei dialoghi (che, in prevalenza, sono la forma delle Operette morali) sono proiezioni, gli uni della dominante concezione negativa e dello stato d’animo triste del Leopardi; gli altri delle obiezioni che a lui sono mosse per tali idee dal contesto sociale e letterario in cui vive, o meglio, dalla stessa sua coscienza, che ricorda il tempo precedente alla sua adesione al razionalismo illuministico, quando accettava la vita degli uomini come positività e bene, salvo a considerarsi una tragica eccezione. I “dialoghi” diventano, a questo modo, dei monologhi del poeta prima e dopo la scoperta dell’arido vero.
Non che l’animo del Leopardi gli abbia fornito tutto il materiale e le forme delle Operette.[158] Si possono citare vari autori antichi sia come modello (dai dialoghi di Platone a quelli di Cicerone e soprattutto a quelli di Luciano di Samosata) sia come fornitori del titolo (Plutarco, oltre le opere storiche, scrisse delle opere morali, che i Medioevali raccolsero col nome di “Moralia”). Seguendo per lo più lo studio di Emilio Bigi, notiamo:
-Non è possibile ridurre le scelte stilistiche ad un modello o progetto unitario perchè strettamente razionale. Pur nel proposito di scrivere con un linguaggio letterario coerente, complessivamente affine, tuttavia proprio le componenti emotive dell’opera insinuavano variazioni e “leghe” non prevedibili criticamente.
- In tale stile complesso, spiccano gli arcaismi (termini per lo più disusati): potestà, arbori, orare, appo (presso), nutricare....; oppure termini tuttora in uso, ma impiegati con significato non attuale, bensì “storico” (arcaismo ideale, non materiale): però (perciò), ferocia (fierezza), studio (zelo), vendicate (punite), divertire (distogliere), illustrare (illuminare), abiti (abitudini)....
- Gli arcaismi non escludono termini familiari, quanto mai alla mano, popolari fino ad essere irregolari, (ciondolone a un pelo di barba| smoccolare le stelle| a uso di lumacone| vocina di ragnatelo| Come si dice di Ermotino che l’anima gli usciva...| ci tira garbino| saria= sarebbe...)
- Ritornano, come negli Idilli, quelle parole “assolutamente poetiche perchè fanno errare l’animo in una deliziosa indeterminatezza” (Zib.) collegate coll’indefinito: infinito, incomprensibile, lontano, immenso, incognito, ignoto, innumerabile, vasto, indefinito....
In conclusione: si tratta di una prosa che programmaticamente tende alla poesia. Si veda il termine “passeggere” nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere”: la scelta della forma meno solita non ha una finalità razionale, ma è una scelta imposta dalla spontaneità che vuol creare un passante idealizzato, anonimo e senza tempo, che valga come teste dell’umanità intera; abbia un temperamento disponbile al dialogo e sia arrendevole alle motivazioni psicologiche del venditore che è un surrogato dell’autore. E si noti come fin dalle prime battute si incontrino forme elaborate sempre in una forma strana, ma coerente: “Bisognano, signore, almanacchi?”| “più, più assai”| Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi ultimi? signor no, non mi piacerebbe”. Il linguaggio sembra davvero coerente con la psicologia di un uomo di somma semplicità, accondiscendenza, sincerità ed ingenuità. Il “passeggere” è come quel personaggio di Manzoni, cui Renzo si decide a rivolgere la domanda per conoscere la strada onde portarsi da Milano a Bergamo (c. 16): immediato nelle parole e, invece, non estemporaneo nei giudizi; imprudente, quindi e disponibile a servire. E’ uno di quei genitluomini e galantuomini che Leopardi condanna al fallimento (cfr. il postumo Dialogo: Galantuomo e mondo), perchè dice la verità anche a sproposito ed ama la giustizia a costo di essere autolesionista.[159]
IL SIGNIFICATO DI LEOPARDI
Come poeta. Il Leopardi, come ogni sommo poeta, rappresenta solo se stesso: è’ testimone della prepotenza delle doti costituzionali, innate, neurobiologiche su ogni influsso ambientale, su ogni educazione scolastica, su ogni poeta preso a modello. I cromosomi condizionano radicalmente non le attività elementari dell’uomo in quanto essere spirituale, cioè la libertà delle idee dalle sensazioni (il pensiero astratto) e la libertà del volere dalle sollecitazioni di emozioni ed istinti; ma condizionano inevitabilmente quelle “superflue” o superogatorie, come la espressione artistica. Giacomo Leopardi ne è una prova insuperabile. Infatti, fu educato nel classicismo più coerente e si trovò a combattere le novità romantiche[160], per alcuni aspetti indubbiamente erronei, ma non accorgendosi che i veri princìpi di questo movimento erano altrove e precisamente là dove batteva il suo cuore, dove tendeva la sua fantasia, dove tutta la sua costituzione psicologica era rivolta inesorabilmente: il primato del sentimento sulla ragione nell’evento artistico.
Partecipe, dunque, del movimento romantico senza volerlo, anzi assegnato a quel genere di poesia senza che lo sapesse, egli ha una sua “poetica” che è la traduzione, in princìpi presuntivamente filosofici, della sua personale maniera di far poesia, che aveva come passaggi obbligati lo spunto paesaggistico, la rievocazione o ricordanza e la riflessione razionale (o razionalistica). In questo Il Leopardi conferma, come dice Croce, che gli artisti non discendono l’uno dall’altro, ma sono indipendenti e ciascuno figlio della propria genialità incomunicabile.
E del poeta “singolare” che fu Leopardi, bisogna dare un giudizio duplice: uno sommamente elogiativo per la qualità della sua poesia; l’altro più restrittivo, per la quantità dei versi intensi rispetto al numero di quanti ne scrisse.
Per l’altezza del suo canto, si pensi a L’Infinito, A Silvia, ma anche agli altri titoli segnalati (Il Risorgimento, Il passero solitario, Canto notturno, La quiete, Il sabato, A se stesso), con qualche breve brano di altre composizione (specie gli “incipit” dell’Ultimo canto di Saffo, de La sera del dì di festa, de Le ricordanze).
Per la limitatezza della sua produzione, poeticamente grande o sublime, si rifletta che in tutto si tratta sì e no di 600 versi (dalle poesie intere segnalate si raccolgono 562 versi).[161]
Il Leopardi pensatore. Egli costituisce l’unico romantico italiano di grande livello intellettuale e artistico, che partecipi alla ideologia prevalente nel movimento in tutta Europa. La più parte dei teorici e dei letterati romantici d’Europa, infatti, non riuscivano a credere, non aderivano alla fede cristiana, nonostante la stima, la rivalutazione del cristianesimo come cuore dell’Europa unita, come legame fra le tante patrie di etnie diverse. Diremo di più: vi era in qualcuno di loro una nostalgia per la capacità di credere dei Medioevali, cioè un implicita adesione ad uno dei cardini del pensiero leopardiano fino all’ultima svolta metafisica. Insomma, si trattava di atteggiamento sentimentale, non razionale: soffrivano di non riuscire a credere, ma non erano, per lo più, credenti.[162] Siccome il Foscolo (che era, almeno in parte, sintonizzato su tale lunghezza d’onda) è considerato neoclassico e non romantico, rimane solo il Leopardi a emergere fra i pur esistenti miscredenti che si preparavano a fondare la nuova Italia, perchè il Manzoni aveva occupato troppo spazio nel movimento italiano e molto, pur nella sua discrezione ed umiltà, impregnato l’atmosfera della scuola, da lui sostenuta, con la sua fede ragionata e praticata (ne son prova le conversione di Vincenzo Monti e di Carlo Porta, di Silvio Pellico e di Ermes Visconti). Gli scrittori neoghibellini (dal Berchet al Niccolini, dal Guerrazzi al De Sanctis, dal Mazzini al Settembrini) non erano in grado di figurare a livello dei grandi pensatori e scrittori europei e, di fronte alla statura di Manzoni, finivano per scomparire. Se non ci fosse il “caso” Leopardi, ci si potrebbe domandare non a torto “il romanticismo italiano è mai esistito, nello stesso senso di frustrazione e disorientamento, di tormento e insensatezza in cui fu vissuto nel resto d’Europa?”. Si trattava, infatti, di prender atto di due tesi fra loro ben contrastanti: da una parte il razionalismo era accettato come insupoerabile, fino al punto di disfarsi anche del deismo e pervenire definitivamente all’ateismo; dall’altra la catastrofe della rivoluzione francese, frutto troppo logico di quella cultura, li rendeva contestatori di molti degli atteggiamenti razionalistici (a cominciare proprio dal culto della ragione), desiderosi di affidarsi a molti valori del cristianesimo, ma straziati dal sentirsi falliti come uomini, perchè aspiranti radicalemente a quell’eternità che il sentimento additava come traguardo necessario alla felicità dell’uomo, al senso della vita, ma che la ragione illuministica negava loro di accettare e di credere. Erano “neopagani” che non riuscivano a non sentirsi dei “postcristiani”.
Ebbene, di tale situazione, Leopardi fu l’uomo che più risentì penosamente, fino alla tentazione del suicidio, sino a proclamare l’invidia per i morti (Dialogo di Tristano e di un amico). Anche il Foscolo aveva cantato ne I Sepolcri la angoscia per la dicotomia fra sentimento (generatore delle illusioni) e ragione (loro negatrice e dissolvitrice), ma egli aveva la forza bio-psicologica di distrarsi nelle avventure affettivo-erotiche, nelle lotte per l’ideale della patria libera e unificata ed in altri progetti concreti, sia pure spesso fuori misura (il tentativo di matrimonio, il lavoro critico di letterato, il digamma-cottage....). Ora tali atteggiamenti di compromesso rendevano ridicoli gli uomini agli occhi del Leopardi, e lo esasperavano, quasi si trovasse di fronte a gente ipocrita che vuole fingersi un senso della vita, mentre sanno benissimo che non ne esiste alcuno; che obliano la loro disperazione nella dissipazione del piacere o nelle pertinaci illusione degli ideali. Sono simulatori e dissimulatori che vivono in una perenne mascherata (Dialogo di Timandro ed Eleandro). Egli parla di superbia e di vigliaccheria, di puerilità, perchè la gran massa di uomini si ostinano a non riconoscere che non sanno nulla (delle cose necessarie alla vita: chi siamo, donde veniamo, per qual fine viviamo?...), non sono nulla e non hanno nulla da sperare (Dialogo di Triastano e di un amico). Egli non vuole fingere, non vuole dissiparsi, non vuoile negare la miseria dell’uomo e subisce dalla natura, ritenuta matrigna, il destino di infelicità coessenziale alla vita umana e, perciò, immedicabile. Egli dichiara, protestando, la noia, il tedio come condizione vera dell’uomo, cui il lavoro od il piacere sono palliativi indegni. E vuole che l’umanità, prendendo lealmente atto della propria miseria, si unisca amichevolmente a rendere meno penosa tale condizione, combattendo la natura tiranna indegna (La ginestra). Che cosa voglia dire questo è tutt’altro che facile ad intendersi: la natura si combatte, semmai, col progresso, cui il poeta non credeva e che annoverava tra le illusioni infantili (Palinodia al marchese Gino Capponi). D’altronde non è l’unico punto debole del suo pensiero: esso presenta tali dissonanze e debolezza di prove, un’evoluzione così continua e più settori così ambigui, che per ridurlo a sistema comprensibile e organico, si è dovuto aspettare il professor Romano Amerio. Il pensiero del Leopardi è coerente nel principio (negazione di Dio, della Provvidenza e, conseguentemente, di un senso della vita) e nella conclusione generale (nichilismo sul valore dell’uomo e pessimismo per la infelicità della vita): ma quando egli attenta una dinmostrazione di questi due estremi e la giustificazione di tutti i corollari che ne discendono, allora la sua mente rivela le crepe di una insufficienza di potere di analisi, di una superficialità nell’abborracciare le sintesi.[163]
Col candore della sua innocenza intellettuale giovanile, Leopardi manifesta in modo clamoroso, tragico la insensatezza della vita umana al di fuori della destinazione eterna: o la si interpreta come il tempo di prova, in cui trafficare i talenti che Dio dona a ciascuno, in vista del premio eterno, oppure la vita appare insensata e, perciò, invivibile. E’ quanto, più signorilmente ripete Manzoni nell’Appendice al c. III delle Osservazioni sulla Morale cattolica. Leopardi accusa di superbia gli uomini (Dialogo di Tistano e di un amico) e ne assolve se stesso (Dialogo di Timandro ed Eleandro: “Dell’ambizione non accade che io vi risponda...”). Ma egli è ben lontano da quel grado di umiltà necessario ad accettare la sventura, quale dà la fede, come è detto dal Manzoni per Ermengarda: “Te dalla ria progenie| degli oppressor discesa|, cui fu prodezza il numero|, cui fu ragion l’offesa| e dritto il sangue e gloria| il non aver pietà,|| te collocò la provvida| sventura infra gli oppressi:| muori compianta e placida|, scendi a dormir con essi:| alle incolpate ceneri nessuno insulterà”. Leopardi che dà un giudizio negativo sul romanzo manzoniano (edizione ventisettana), prima di averlo letto, ma poi lo elogia adeguatamente, avrà notato che ivi il Manzoni scrive, a proposito della forzata monacazione di Marianna de Leyva: “E’ una delle facoltà singolari ed incomunicabili della religione cristiana, questa: di poter dare indirizzo e quiete a chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa...”?
INDICE DI GIACOMO LEOPARDI
VITA pp. 1-3 Estasi (58)| Tenerzza (58)
OPERE: 4-7 Comicità (59)
INDIVIDUALITA’: 7-10 Stile degli Idilli
AMBIENTE: 11-12) Stile lirico (59)|
Musicalismo (60)|
IL
PENSIERO: 12-47 Domesticità (60-1)
LA POESIA: Idilli e canzoni: pp. 48-63 stile della Tenerezza (62-3)
Premessa: La dottrina poetica: 48 Operette morali : pp. 63-5 (Motivi
Motivi
isp.: paesaggio (48-9);
ispiratori|Toni lirici|Stile
ricordanze
autob. (49-51 IL
SIGNIFICATO DI LEOPARDI
riflessione
(51-2) come poeta (65-6)
Toni lirici: Idillio (54)| Elegia
(55-6 come pensatore (66-8
Dramma (56)| Esultanza ( 57-8)
[1]
Per farsi un’idea della vastità di tali studi, della padronanza delle lingue e
della conoscenza di autori ed opere che egli ne ricavò, segnaliamo alcuni
lavori come punti di riferimento. Tutti si possono trovare nell’Indice delle
opere, in Le poesie e le prose (due
volumi) 1940, II, pp. 1106-114. I due volumi sono parte dell’edizione
dell’Opera omnia, a cura di Francesco Flora, per I Classici Mondadori. Noi ci
riferiamo sempre a questa edizione, che comprende anche i due volumi dello
Zibaldone (1937: usiamo la seconda edizione del 1961) e quello di Lettere
(1949: usiamo la settima edizione del 1977). Citiamo succintamente: Mondadori (-ana), Poesie e prose (I o II), Zib. (I o II: le pagine sono però quelle
del manoscritto, inserite in ogni edizione critica), Lettere. Nelle
citazioni usiamo il corsivo solo là
dove esiste nel testo del Leopardi, ma sottolineiamo o grassettiamo dove a
noi pare opportuno dare importanza alle espressioni di lui o di R. Amerio o
nostre.
Più recenti edizioni sono quelle segnalate dallo studio di Gino Tellini, nel volume VII della STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA, ROMA, SALERNO EDITRICE 1998, vol. VII, p. 730, n. 3.
1811, a tredici anni, traduce l’Arte poetica di Orazio in ottave italiane; 1811: tragedia La virtù indiana; 1812: Pompeo in Egitto, tragedia in endecasillabi sciolti; 1813: mette insieme una Storia dell’Astronomia, cui segue nel 1814 una “dissertazione sopra l’origine e i primi progressi dell’astronomia”; 1814: annota in latino il testo greco (e la traduzione fatta in latino da Marsilio Ficino) del Commentario sulla vita e le opere di Plotino (tale lavoro sarà fondamento al corrispettivo dialogo nelle Operette morali): il manoscritto di quest’opera, visto dall’abate F. Cancellieri, gli meriterà la prima citazione ed elogio in opera stampata (1815); 1815: traduce la pseudoomerica Batracomiomachia (guerra delle rane e dei topi), che gli servirà per la composizione degli otto canti in ottave dei Paralipomeni alla Batracomiomachia; 1816: compone due odi anacreontiche in greco (All’amore, Alla luna); pubblica su “Lo spettatore” (periodico dell’editore Stella, in Milano) la traduzione del pirmo libro dell’Odissea e la traduzione delle poesie di Mosco. Traduce il secondo libro dell’Eneide (comparirà l’anno dopo a Milano, presso l’editore Pirotta); compone un saggio sopra il salterio ebraico; 1817: traduce i frammenti di Dionigi d’Alicarnasso. Pubblica (ne Lo spettatore) la traduzione della Titanomachia, tratta da “I giorni e le opere” di Esiodo.
Sempre più personalizzate sono le opere che escono dalla sua penna dopo il 1814: di quest’anno sono i Commentarii (in latino) sulla vita e le opere dei rètori del primo e secondo secolo d. C.; del 1814-15 sono i “Fragnenta Patrum graecorum saeculi secundi” e gli “Auctorum historiae ecclesiasticae graecorum deperditorum fragmenta (pubblicate da Le Monnier nel 1976): opere con notizie degli autori, scritte in latino; 1815: Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (in italiano); 1816: Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone; Della fama di Orazio presso gli antichi; Notizie istoriche e geografiche sulla città e chiesa arcivescovile di Damiata (primo scritto dato alle stampe); traduce dal greco in terzine dantesche le “Iscrizioni triopee” e dal latino il poemetto (pseudovirgiliano) “Moretum” (La torta) in sestine di endecasillabi; Inno a Nettuno e Odae adespotae (imitazioni di composizioni antiche); 1817: Sopra due voci italiane (ne Lo Spettatore: sono il part. p. “reso”; e il verbo “sortire” nel senso di “uscire”); 1822: traduce dal greco il “Martirio dei S. Padri nel monte Sinai”; 1823: volgarizzamento della satira di Simonide “Contro le donne”; 1823-4: versi morali tradotti dal greco, da Archiloco, Alessi(de) (di Turii: commediografo, zio e maestro di Menandro), di Anfide Ateniese, Ebulo Ateniese (sono tutti versi che sottolineano aspetti assurdi del vivere umano, tali che “il vivere sia tutto e in generale una scempiaggine”); 1824-5: volgarizzazione dal greco: Operette morali di Isocrate; Manuale di Epitteto; della favola di Prodico: Ercole; 1826: Versi di Eupoli sopra l’eloquenza di Pericle (commediogafo ateniese, contemporaneo di Aristofane: si posseggono solo 19 titoli e circa 400 frammenti); 1826-7: volgarizzazione dal greco dell’orazione di Gemisto Pletone (con discorso sulla medesima) “In morte dell’imperatrice Elena Paleologina”; 1827: traduzione dai versi di Simonide “Ogni mondano evento”, “Umana cosa picciol tempo dura” e volgarizzamento in strofa di canzone libera , di brani attribuiti a Simonide di Amorgo sulla infelcità dell’umana esistenza”.
[2] Lettera a Pietro Giordani del 30 maggio 1817.
[3] Col Giordani inizia uno scambio epistolare (dal 12 febbraio 1817) che inciderà sulla propria evoluzione culturale complessiva. Il Giordani divenne subito ammiratore e sostenitore del Leopardi, di cui diffuse la conoscenza presso i contemporanei. Si veda, per la conversione politica, la lettera al Giordani del 21 marzo 1817. Ma si ricordi anche che, come il Foscolo, Leopardi divenne sempre più pessimista anche circa l’effetto dei moti risorgimentali, che si andavano abbozzando a cominciare dal 1821. Giungerà al punto di irridere tanto i governi repressivi che le velleità patriottiche risorgimentali, nelle ottave satiriche dei Paralipomeni alla Batracomiomachia (scritte fra il 1830 ed il 1837).
[4] Aveva anche letto libri della Stael, del Di Breme, di Chateabriand e Berchet.
[5] Nel tardo 1819 il Leopardi progetta degli Inni cristiani che testimoniano, nelle tracce in prosa, una fede ancora salda. Alla fine del 1820 (9-15 dicembre: Zib. 393-401), egli difende il suo pessimismo contro un’eventuale interpretazione anticristiana perchè, nel peccato originale, vede la sorgente al disordine ed infelicità del mondo. L’abbandono della fede si lascia sospettare a partire dal 19 marzo 1821 (Zib., 814-8).
[6] Giacomo, da fanciullo, “era sommamente inclinato alle cose di religione; e, pochissimo dato ai sollazzi puerili, si divertiva solo molto impegnatamente con l’altarino. Voleva sempre ascoltare molte messe e chiamava felice quel giorno in cui aveva potuto udirne di più” (Monaldo Leopardi, lettera-memoriale ad Antonio Ranieri). Due discorsi sacri scrisse Giacomo nel 1813 (Crocifissione e morte di Cristo) e nel 1814 (La flagellazione). D’altronde, L’appressamento della morte è una cantica in terzine dantesche, pessimistica ma ancora cristiana: è del 1816 e Giacomo aveva 18 anni. Il tentativo di alleare la propria dottrina pessimistica colla fede cristiana durerà sino a tutto il 1821. Egli si era lasciato intestare ad un beneficio ecclesiastico ereditario in famiglia; aveva ricevuto la tonsura ed aveva portato l’abito di abate sino ai vent’anni, tenendo prediche per la Congregazione dei Nobili.
[7] Altra volta dirà: “Voglio essere infelice piuttosto che piccolo”.
[8] Lettera al Giordani del 21 marzo 1817.
[9] Diamo qui i titoli di tutte le canzoni: All’Italia (1818), Sopra il monumento di Dante (id.), Ad Angelo Mai (1820), Nelle nozze della sorella Paolina (1821), A un vincitore nel pallone (id.), Bruto minore (id.), Alla Primavera (1822), Inno ai Patriarchi (1822), Ultimo canto di Saffo (id.), Alla sua donna (1823), Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (1819: postuma), Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore (id.).
Approfittiamo di questa nota, per dare indicazioni sulle composizioni del Leopardi che non elenchianmo nel testo, perchè considerati minori o, comunque, meno significative.
In terzine dantesche: Appressamento della morte (1816), Il primo amore (1817-8: nell’edizione del 1826 era intitolata “Elegia I”); Elegia II (sempre di tema amoroso: 1818), I nuovi credenti (1835).
In versi di diverso schema: Inno a Nettuno (1816: endecasillabi sciolti); un Madrigale; un Epigramma (contro il Tommaseo: 1836); Le rimembranze (idillio in endecasillabi sciolti, dialogato tra padre e figlio: 1816); i cinque sonetti, intitolati “Ciarlata”, nei quali, in persona di ser Pecora Beccaio, sferza con ironia un letterato di Roma, di nome Manzila: 1817); un sonetto “Dopo letta la Vita di Alfieri”(1817); in forma epistolare, sul tema generale della infelicità umana, sono gli sciolti “Al conte Carlo Pepoli” (1826) e quelli della “Palinodia al marchese Gino Capponi” (1835: cfr. anche, ma in terzine, “I nuovi credenti”, sempre del 1835). Si noti: i versi al Pepoli, sono pacati e melanconici, risentendo molto del Canto notturno; sono ironici, se non sarcastici, quelli al Capponi ed ai “nuovi credenti” (dedicati ad A. Ranieri).
Sicuri come tecnica espressiva e, quindi, scorrevoli e limpidi, anche se non impregnati di sufficiente forza lirica, sono gli otto canti, in ottave, intitolati Paralipomeni alla Batracomiomachia, poemetto composto fra il 1830 circa e la morte: vi è allegorizzata la situazione politica europea, con l’intento di satireggiare sia le forze della restaurazione austriaca (i granchi) che quelle dei liberali risorgimentalisti (i topi). L’opera finisce con una scimmiottatura di visita all’oltretomba topesco e si dichiara impossibilitata ad essere proseguita, per la rovina del seguito del manoscritto, da cui il poeta finge di aver tratto la storia.
Nelle edizione dei CANTI anteriori al 1831 vi erano versi di traduzioni (da Simonide, già citato; dalla “Feuille” di G. V. Arnault, elegiaci come nell’originale) od altri non molto attinenti coi temi dei CANTI (ad esempio “Scherzo”. strofa di canzone libera sulla necessità della “lima” poetica, che è scomparsa dalla officina letteraria; “Odi, Melisso” –che aveva avuto dapprima il titolo “Spavento notturno”: narrazione a dialogo, in endecasillabi sciolti, di un sogno); oppure, anche analoghi ai temi leopardiani più tipici, ma poco riusciti e comunque non autobiografici: “Spento il diurno raggio”: terzine dantesche di genere romantico (la donna muore improvvisamente, in seguito allo scatenarsi di una bufera); “Sopra un bassorilievo antico sepolcrale”; “Sopra il ritratto di bella donna scolpita nel monumento sepolcrale della medesima: entrambe in strofe di canzone libera; “Consalvo”: lasse di endecasillabi sciolti: 1832-33 circa).
[10] Intanto si noti la contemporaneità con la prima edizione de I promessi sposi: due libri ideologicamente opposti e stridenti. Dopo il giugno 1827 (edizione milanese delle OPERETTE) furono composti i dialoghi “di Plotino e di Porfirio”; “di un venditore di alamanacchi e di un passeggere” (1832); “di Tristano e di un amico” (id.). Si deve porre attenzione che il “Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio”, presente nella prima edizione, fu sostituito dal “Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco”, composto nel 1825, non incluso nella prima pubblicazione. Tutto sommato, le operette pubblicate nelle varie edizioni o preparate per esserlo, risultano così ventiquattro. Ad esse si devono aggiungere degli abbozzi o redazioni provvisorie di altre operette, stesi tra il 1820 ed il 1822, meno perfette stilisticamente e poeticamente poco significative, ma più immediate e violente nella espressione polemica, risentita, del proprio pensiero. Sono questi: “Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, vicini alla morte”; “Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio”; “Novella: Senofonte e Niccolò Machiavello” (e, ancora: Per la novella Senofonte e Machiavello; e Alla novella Senofonte e Machiavello); “Dialogo:... filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati”; “Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro”; “Dialogo del cavallo e del bue”; “Dialogo: Galantuomo e Mondo”; “Frammento sul suicidio”.
Se nelle OPERETTE rifinite ed edite, il pessimismo leopardiano può essere confuso con un atteggiamento fantastico, ipotetico, proprio perchè contemplato in lontananza, ed esposto come una favola amara che attesti una interpretazione della vita seducente, ma tutt’altro che sicura od inconfutabile (tanto che la tesi pessimistica trova quasi sempre un contrapposto nel secondo dialogante), negli abbozzi scritti di getto la dimensione filosofica prevale a scapito di quella poetica, ma rivela brutalmente quanto radicale e sofferta fosse la concezione atea e disperata dell’umana esistenza; e quanto acrimonioso e ribelle fosse il suo atteggiamento morale di fronte ad essa. La differenza, fra le operette rifinite rispetto a queste “minute” o prove immediatamente dettate dalla urgenza pratica della sua sofferenza, può essere paragonata alla differenza fra gli “idilli” (piccoli o grandi, ma riusciti pienamente per la elevazione del sentimento ad emotività disinteressata ed universale) rispetto alle composizioni ultime, esteticamente aride perchè legate ai riflessi della sua situzione personale, alla passionalità pratica della sua delusione vitale, espresse nelle rozzezza della loro impulsività e risentimento, dettate dalla animosità ribelle della propria depressione, anzichè dalla contemplazione spassionata della emotività pura, riferibile, perciò, all’umanità tutta, divenuta atteggiamento idillico od elegiaco, commosso o tragico.
[11] Forse si può paragonare la funzione delle Operette morali del Leopardi a quella delle “Osservazioni sulla morale cattolica” del Manzoni ai fini della rispettiva produzione artistica che le avrebbe seguite. Entrambe le opere sono una pausa nell’esprimersi in versi, per dar occasione al proprio pensiero di sistemarsi ed espandersi, di arricchirsi ed ordinarsi. La mente, una volta liberata dallo sforzo di chiarirsi e organizzarsi, può attendere con più scioltezza all’attività propriamente inventiva, quella cioè di scovare le parole adatte a tradurre il pensiero nei termini della emotività che esso ridesta nel poeta. Una volta padrone dei dettagli della propria concezione di vita e del loro concorso coerente in essa, l’intelletto ha sotto mano, più disinvoltamente, i termini adeguati ad esprimere non solo la sua arida impalcatura, ma anche la varia emotività, che essa desta nei centri neurovegetativi del poeta. Dopo le “Osservazioni sulla morale cattolica” vennero I Promessi sposi; dopo le Operette morali, vennero i Grandi idilli.
[12] Il titolo “Zibaldone” gli deve essere stato suggerito dal canonico Antonio Vogel, prete nativo dell’Alsazia e venuto, per le vicende della rivoluzione, a rifugiarsi a Recanati fra il 1809 ed il 1814. Egli era un entusiasta propagandista di tale raccolta di pensieri, da servire come magazzino di idee, da essere utilizzate, poi, in opere organiche di prosa o poesia.
[13]
A. Ranieri, ripreso da Oliveri Sarasso, Antologia della letteratura italiana,
III, p. 325.
[14] Mario Pieri, ripreso da F. Flora, cronologia premessa all’edizione nei classici Mondadori delle Opere, I, p. LXXIX.
[15] August von Platen-Hallermuende (poeta tedesco, nato ad Ansbach in Baviera nel 1796, ma vissuto dal 1826 in Italia, morendo a Siracusa nel 1835): Diarii, 5 settembre 1834: riprendo sempre dal Flora, cit. pp. LXXXIV-LXXXV.
[16] Monaldo Leopardi, lettera-memoriale ad A. Ranieri ( ivi, citato a p. LXXIII).
[17] La instabilità nella vita pratica, la riconosce lui stesso nella “Enciclopedia delle cose inutili”: “Cangiando spesse volte il luogo di mia dimora...” (ed. Flora-Mondadori, p. LXXVIII. Si veda anche Zibaldone , stessa ediz., I, 963-4 (4, 08, 1821): “ i grandi ingegni sono mutabilissimi” “e irresoluti” (id. I, 417-8 e II, 234-5).
Per la distonia, in genere, vi è conferma nella variabilità della scrittura: le maiuscole si alternano alle minuscole per gli stessi casi o casi equivalenti (Zibaldone, I, pp 1555 e 1564, ove il Flora annota: petrarca, italia, grecia, roma, accanto a Dante, Omero, Ariosto, Epica e lirica. Scrive “in somma|insomma; imagini|immagini| principi| principii”, ecc.
Per la vagotonia prevalente,basterà notare quanto siano care al poeta le parole “vago, infinito, indefinito”: si veda Zibaldone, cit. I, 971, 1215-6, (1275); II, 1237-8; e si cerchi nell’Indice analitico del Flora, agli aggettivi citati. Ma si proceda, costatando la frequenza di paesaggi lunari, vaghi, dolci, con luci indefinite. I periodi ottimali di composizione poetica erano per lui la primavera e l’autunno (anzi l’aprile ed il settembre). Nel Discorso sulla poesia romantica, l’uso di “indeterminato, indistinto” (Flora, II, 479).
I termini “vago, vaghezza” ritornano nei Canti: Le ricordanze, I,1; Il passero, III, 5; Canto notturno, I, 7 e 19; Alla sua donna, V, 8; Al conte Carlo Pepoli, VI, 6.
Per l’alternarsi di momenti di ispirazione a periodi di aridità e per l’esaurirsi della vena, dopo un inizio felice, di estro quasi violento, si veda Zibaldone, 1.07.1820 e la lettera a Giuseppe Melchiorri del 5.03.1824 (Flora, p. LXXIV).
Le lettere del 1817, con le prime a personaggi importanti, come Angelo Mai, Vincenzo Monti, Pietro Giordani danno ulteriore testimonianza di psicastenia. Difatti sono eccessive in tutto: in una forma di umiltà aulesionista fino alla calunnia ai propri danni; nell’ossequio, fino all’adulazione involontaria; nell’uso eccessivo dei superlativi; nell’ipercompensazione in senso opposto col proseguire del rapporto epistolare (le lettere al Giordani ingigantiscono dalla lunghezza di una paginetta nella prima, del 21. 02. 1817: Mondadori, n. 25; alle quattro pagine della seconda del 21. 03. 1817: id. 26; alle tredici della terza, del 30. 04. 1817: ib. p. 32). Questa modestia patologica, gli è gentilmente rimproverata da Angelo Mai (lettera da Milano dell’8. 03.1817). Nella lettera al fratello Carlo, lasciata in occasione della tentata fuga, egli si definisce una nullità. Questo non toglie che egli confessi, come si è già detto, “Io ho un grandissimo, forse smodato ed insolente desiderio di gloria” (al Giordani, 21.03.1817)”; e “Io voglio piuttosto essere infelice che piccolo” (fine luglio 1819: lettera lasciata al padre, alla vigilia di tentare la fuga).
Indizi di un’anima agitata e poco padrona di sè possono essere questi fatti: stanchezza congenita di fronte agli sforzi più comuni e necessari (testimonianza del padre sul rifiuto all’uso del coltello a tavola); tendenza al tedio ed alla noia (propria degli esauriti vagotonicoprevalenti: cfr. Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare (Operette morali), Dialogo di un fisico e di un metafisico (id.). Si veda il dizionario analitico del Flora alle voci Noia|Tedio.
Ancora: inclinazione al dubbio (Zibaldone, 21), alla incoerenza (muta di opinione facilmente: Zib. pp. 1450-1).
Di fronte alla “natura” egli rivela, come si è già detto, una molteplicità di considerazione, che è testimone del guazzabuglio, delle incertezze della sua concezione di vita: è potenza materna e compassionevole, incolpevole della infelicità dell’uomo (che è causata dall’allontanarsi dalla natura attraverso le conquiste artificiali della scienza: Dialogo Della natura e di un’anima; “Dialogo tra due bestie”: indedito); è incosciente, insensibile, incolpevole (Dialogo della natura e di un islandese); è empia e persecutrice (La ginestra).
Testimonianza la più deprimente della oscillazione e cedevolezza interiore del Leopardi è il suo epistolario. Egli si adatta al pensiero del suo interlocutore, così che le lettere al fratello sono oscene, quelle al Giordani, immanentiste, quelle ai familiari rispettosissime e fingenti fede e pratica religiosa.. Esemplifichiamo. Nelle lettere in ocasione della tentata fuga, chiede perdono a tutti; ma altrove protesta di non pentirsi mai: si confronti la finale della lettera al fratello ed al padre (“m’inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice”); e la lettera a Saverio Broglio del 13. 08. 1819 (Mondadori, n. 123: “Io non mi pento della mia condotta passata). Altre situazioni di doppiezza patologica (non senza responsabilità morale, chè Leopardi non era psicotico, ma nevrosico): al Giordani che, forse per consolare il povero interlocutore, si lascia andare a narrare al Leopardi i propri guai, questi cerca di confortarlo, nella lettera del 30. 06. 1820 (Mondadori n. 156), appellandosi alle illusioni, alla maniera del Foscolo. Esse sono un privilegio delle anime nobili: “Io non tengo le illusioni per mera vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacchè non sono capricci particolari di questo o quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno... E per questo capo mi pare che la condizione dei buoni sia migliore di quella dei cattivi, perchè le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente”. Ma quasi nello stesso tempo (al più nel 1821, col Dialogo tra Galantuomo e mondo) il Leopardi scriveva bestemmiando contro i galantuomini, considerati ingenui e chiamati col termine triviale adeguato. Lo stesso avviene con PIetro Brighenti il 22. 06. 1821 (Mondadori, n. 200): lo consola con l’invitarlo (ed i termini giungono talora ad una volgarità inimmaginabile nell’autore degli “Idilli”) con gli argomenti che a lui sono di solito il motivo della infelicità irredemibile: il mondo è fatto a rovescio, perchè vi è strazio fra aspirazioni e realtà, fra bisogno di felicità ed espereinza di sofferenza: “E ben sarebbe ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo”. Che è quanto dire “Consolati della tua infelicità, perchè siamo tutti infelici”. Ma è argomento, questo, degno di una persona intelligente come Leopardi? .
Ma sono le lettere del periodo romano quelle che denunciano una specie di sdoppiamento morale della personalità, che finisce per rivelare quella dipendenza dall’interlocutore, quella assenza di posizioni ideologiche coerenti, quella mancanza di carattere e fermezza di volere, che desta nel lettore ragionevole altrettanta compassione per la povertà dell’uomo, quanta ammirazione per la grandezza del poeta. Scrive lettere riconoscenti, in cui portesta sottomissione, al padre; missive deferenti ed amorevoli per la madre; biglietti spirituali alla sorella Paolina, in cui alla tristezza per il mancato matrimonio, fa seguire una lezione filosofico-moralistica: “il piacere è un nome, non una cosa;.... la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono, non solamente le uniche consolazioni dei nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita...”: lettera del 28. 01. 1823, Mondadori n. 243). Viceversa, al fratello Carlo scrive lettere volgari, scapestrate, con un recapito presso una comune conoscenza –Sofia Ortis-, complice di Carlo nell’amore per la cugina Marietta Antici, che poi sposerà: lettere del 25. 11. 1822 (ib. n. 219); del 22. 01. 1823 (ib, n. 241); del 5. 02. 1823 (ib. n.248); del 22. 03. 1823 (ib. n. 260). Leopardi rischia di essere nella realtà, quello che don Abbondio è nel romanzo del Manzoni: un’anguilla, un gregario, un camaleonte che si adatta ad ogni interlocutore come un girella qualunque.
[18] Leopardi si attribuisce immaginazione vivissima in certe epoche e parla della sua scomparsa in certe altre (Zibaldone, 1. 07. 1820). Sembra che voglia riferirsi alla fantasia figurativa, perchè parla di immagini. Ma altro è “vedere” altro è riuscire a “far vedere”, al lettore-uditore, le immagini. E questa seconda è la potenza del letterato. In questo senso, Leopardi non è poeta visivamente significativo.
[19] Lo stile di questi “Dialoghetti” è imitato su quello delle Operette morali del figlio, sicchè questi dovette smentirne la paternità.
[20] Epistolario, 26. 05. 1820 (Mondadori, n. 152) a Pietro Brighenti.
[21] Id. id. , 28. 08. 1820 (Mondadori, n.. 164
[22] Mondadoriana, I, p. LXVI.
[23] Lettera al Giordani del 26.07.1819 (id. n. 118). La lettera a Giuseppe Montani del 21. 05. 1819 (ib. n. 113) fu intercettata dal padre Mondaldo.
[24] Lettera al Giordani del 5. 12. 1817 (ib. n. 56).
[25] Si veda lo Zibaldone al 2. 07. 1820 (p. 144): “Così si può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e non sono ora se non i fanciulli o giovinetti, e i moderni che hanno questo nome, non sono altro che filosofi.. Ed io infatti non divenni sentimentale, se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo”. Abbiamo qui un esempio di un’esperienza personale interiore (psicologica: oltre tutto transitoria e dovuta a fattori di età e di salute) che Leopardi estende arbitrariamente, ingenuamente a tutta l’umanità e considera prova oggettiva per una definizione della poesia e della filosofia. Dios nos valga! O meglio “Gott behuete!”
[26] Il termine “Ultrafilosofia” è tratto da Zibaldone, p. 115 (7 Giugno 1820) e (come spiega Amerio nel c. 3 a p. 11) consiste nel ritorno all’ignoranza prerazionale, alla ingenuità della credenza alle illusioni dei valori, uniche garanzie per vivere felici, che è il desiderio supremo dell’uomo; anzi per sopravvivere, difendendosi dai nemici (credenza nell’eroismo, nel patriottismo) e convivendo socialmente bene (virtù tutte, onestà, idealismo, compassione...).
Ecco l’indice dei 29 capitoletti (in tutto 38 pagine), che dà l’idea della integralità della trattazione e del suo organico sviluppo: 1. La controversia intorno alla filosofia leopardiana; 2. Filosofia e situazione personale; 3. Filosofia e poesia; 4. Filosofia e sistematicità; 5. L’ultrafilosofia come riduzione della ragione alla natura; 6. Lo sviluppo indebito della ragione come defezione dalla natura. Interpretazione leopardiana del peccato adamitico: il peccato è atto della ragione; 7. Idem: il peccato è accidente dell’ordine; 8. L’illusione come ordine del mondo; 9. Critica leopardiana al sistema della verità; 10. Attinenze storiche del sistema delle illusioni; 11. Degradazione della conoscenza a vitalità; 12. Degradazione dell’etica ad eudemonologia; 13. Il Cristianesimo come illusione filosofata. L’immortalità come principio fondamentale della religione; 14. Reiezione dell’immortalità: psicologia materialistica; 15.Reiezione dell’innortalità: il Cristianesimo come antivita; 16. Unilateralità della concezione leopardiana del Cristianesimo; 17. Filosofia della claustrazione. Attività e contemplazione; 18. Negazione della speranza e della grazia; 19 Felicità e infelicità. Teoria del piacere; 20. Desiderio infinito e facoltà finite. L’infinito leopardiano è un infinito in fieri; 21. Impossibilità dell’infinito pieno. Fuga infinita dei finiti; 23. Impossibilità del piacere; 24 La felicità è vita e non vita. Soluzione dell’antinomia; 25 L’oziosità dell’esistenza; 26 Profondità metafisica della noia. Passaggio al pessimismo metafisico; 27. Analisi del passaggio al pessimismo metafisico; 28. L’insostanzialità della vita e la negazione dell’idea; 29 La negazione del Platonismo come radice dell’ultrafilosofia. Conclusione.
[27] Zib. p. 1742: “Dedito tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava ed odiava la filosofia.....Io non mancava della capacità di riflettere, di attendere, di paragonare, di ragionare, di combinare, della profondità ec. ma non credetti di esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Madame di Stael”.
[28] Giulio Augusto Levi, torinese, (1879-1951) da giovane scrisse (1911) una “Storia del pensiero di Giacomo Leopardi”, pubblicando in seguito un commento ai Canti e uno studio ulteriore sul poeta (G.L. 1931). Si interessò anche di studi estetici (Breve storia dell’estetica e del gusto: 1924).
[29] Zib. 947: “Lo scopo della filosofia (in tutta l’estensione di questa parola) è il trovar le ragioni della verità. Queste ragioni non si trovano se non se nelle relazioni di esse verità, e col mezzo del generalizzare. Non è ella cosa notissima che la facoltà del generalizzare costituisce il pensatore? Non è confessato che la filosofia consiste nella speculazione dei rapporti? Ora chiunque dai particolari cerca di passare ai generali, chiunque cerca il legame delle verità (cosa inseparabile dalla facoltà del pensiero) e i rapporti delle cose, cerca un sistema; e chiunque è passato ai generali, ed ha trovato o creduto di trovare i detti rapporti, ha trovato o creduto di trovare un sistema, o la conferma e la prova, o la persuasione di un sistema già prima trovato o proposto; un sistema più o meno esteso, più o meno completo, più o meno legato, armonico e consentaneo nelle sue parti”.
[30] Zib. p. 3936: “La natura non è vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella. Perocchè ella è materia, non spirito, o la materia in essa prevale e dee prevalere allo spirito (e così accade infatti costantemente in tutte l’altre sue parti sì animate che inanimate, e (3937) vedesi che tale è la sua intenzione, e che le cose sono ordinate a questo risultato universalmente e particolarmente...al contrario di ciò che accade nell’individuo e nel genere umano civilizzato, per propria natura della civiltà – ec. ec. –Vedi il pensiero precedente.(28 Novembre 1823).
[31] Zib. p. 657: “In somma da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale e primitiva dell’uomo, considerando come sieno originalmente buone quelle qualità che si hanno per naturali ed innate, e sono, per l’altra si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa che la natura si creda viziosa e bisognosa della ragione. La qual ragione, anch’essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch’è un sommo vizio, e con tutto ciò ella è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì. (14 Febbraio 1821).... Effettivamente la curiosità naturale porta l’uomo, il fanciullo ec. a voler vedere, sentire ec. una cosa o bella, o straordinaria o notabile relativamente all’individuo. Ma non lo stimola mica e non lo tormenta, per sapere la cagione di quel tale effetto che gli è piaciuto di vedere, udire, ec. Anzi l’uomo naturale ordinariamente, si contiene alla maraviglia...”
[32] Zib. p. 447: “Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l’esperienza che n’è la madre. Perchè anche le operazioni e tutta la vita dell’uomo naturale e dgli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacchè deriva da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di suillogismo, da quei tali dati. L’esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica soverchiamente le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e quindi alterando dette conseguenze o credenze, fa che non sia più ragionevole il determinarsi a credere quelle tali cose naturalmente credibili, e quindi a fare o fuggire quelle tali cose naturalmente da farsi o da fuggirsi. Ma la ragione assolutamente in se stessa, è innocente...”. Id., p. 1825: “L’uomo, e l’animale proporzionatamente, sono ragionevoli per natura. Io dunque non condanno la ragione in quanto è qualità naturale ed essenziale nel vivente, ma in quanto (per sola forza d’indebite e non naturali assuefazioni) cresce e si modifica in modo che diviene il principale ostacolo alla nostra felicità...”.
[33] Zib. 305: “Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienze, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè la natura ci aveva già fastto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo, anzi tanto più, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se; noi operavamo per istinto e disposizione ch’era dentro di noi, e immedesimata colla nostra natura, e però più certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Così l’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato, s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci libera e disinganna dalla filosofia” (7 Novembre 1820); Zib. p. 1163: “Il miglior uso ed effetto della ragione e della riflessione, è distruggere o minorare nell’uomo la ragione e la riflessione, e l’uso e gli effetti loro” (13 Giugno 1821); Zib. p. 2668-9: “E sotto questo aspetto la filosofia è veramente e pienamente paragonabile alla scienza dell’economia pubblica. La perfezione della quale consiste nel conoscere che bisogna lasciar fare alla natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l’industria è più libera, e tanto meglio camminano gli affari della nazione; che quanto più è regolata tanto più decade e vien meno; che insomma essa scienza è inutile, poichè il suo meglio è fare che le cose vadano come s’ella non esistesse, e come andrebbero da per tutto dov’ella e i governi non s’intrigassero del commercio e dell’industria; e la sua perfezione è interdirsi ogni azione, conoscere il danno ch’essa medesima reca, e in somma non far nulla, al qual effetto gli uomini non avevano bisogno d’economia politica, ma s’ella non fosse stata, ciò si sarebbe necessariamente ottenuto allo stesso modo e meglio. Ora tale appunto si è la perfezione della filsofoia e della ragione e della riflessione ec...”
[34] Per la frase tratta dal Dialogo di Timandro e di Eleandro, cfr. Mondadoriana, Le poesie e le prose, I, p. 986. Completa, la sentenza di Eleandro è questa: “Il che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che l’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è che non bisogna filosofare”. Il pensiero 27 è questo: “ Nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e filosofica tutta la vita” (Mondadoriana, id., II, p. 11).
[35] Zib. p. 407: “Ed ecco che la Religione favorisce infinitamente (p. 408) la natura, come ho detto in parecchi altri luoghi, stabilisce moltissime di quelle qualità ch’eran proprie degli uomini antichi o più vicini alla natura, appaga la nostra immaginazione coll’idea dell’infinito, predica l’eroismo, dà vita, corpo, ragione e fondamento a mille di quelle illusioni che costituiscono lo stato di civiltà media, il più felice stato dell’uomo sociale e corrotto insanabilmente: stato dove si concede tanto alla natura, quanto è compatibile colla società. Osservate infatti che lo stato di un popolo Cristiano è precisamente lo stato di un popolo mezzanamente civile. Vita, attività, piaceri della vita domestica, eroismo, sacrifizi, amor pubblico, fedeltà privata e pubblica degl’individui e delel nazioni, virtù pubbliche e private, importanza data alle cose, compassione e carità ec. ec. Tutte le illusioni che sublimavano gli antichi popoli, e sublimano il fanciullo e il giovane, acquistano vita e forza nel Cristianesimo... Perchè il Cristianesimo puro conduce, anzi equivale, a una sufficiente e giusta civiltà, quanta nè più nè meno conviene all’uomo sociale. D’altra parte osservate che nessun popolo al di qua della civiltà media, nessun popolo al di là, è stato mai cristiano, e viceversa nessun popolo cristiano veramente, è stato mai al (p. 409) di qua nè al di là della civiltà media. Le società o barbare assolutamente o corrotte e barbare per corruzione, sono incivilite dal Cristianesimo e portate al detto stato di civiltà media. Esempio de’ popoli barbari convertiti dalla predicazione del Vangelo. All’opposto le società eccessivamente incivilite e strettamente ragionevoli (come anche gl’individui) non sono state mai cristiane. Esempio de’ nostri tempi. In luogo delle qualità dette di sopra, i distintivi di queste società, sono l’egoismo, la morte, il tedio, l’indifferenza, l’inazione, la mala fede pubblica e privata, l’assenza d’ogni eroismo, sacrifizio, virtù, di ogni illusione ispirata dalla natura nello stato primitivo, o sviluppatosi naturalmente nello stato sociale; di ogni illusione che forma la sostanza e la ragione della vita, e ch’essendo ispirata dalla natura è confermata dal Cristianesimo.” (fan parte di scritture tra il 9 ed il 15 Dicembre 1820).
[36] Zib. p. 867: “...Che vuol dire che i Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari? Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire che il fare non è proprio nè facoltà che della natura e non della ragione; e siccome quello che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano...”.Alla fine della notazione (del 24 Marzo 1821), vi è il giudizio sulla degradazione del mondo tutto, per la sua civlizzazione contro natura, ad opera della ragione; e sulla sua rigenerazione radicale, sentenza citata da Amerio e riportata nel nostro testo.
[37] Ci sono indizi, che possono essere intesi come espressione di un Leopardi che sia molto incerto sulla sua adesione alla fede, cioè non sappia se credere o no. A p. 393 sembra mettere le mani avanti e porre una distinzione fra il proprio pensiero e la fede; oppure sembra che stia lottando per non perdere la fede stessa, pur nei nuovi approdi del proprio filosofare.. Anzitutto nella forma negativa con cui dice possibile la coincidenza fra le due dottrine. “Il mio sistema intorno alle cose ed agli uomini.... non si oppone al Cristianesimo”. In secondo luogo, affermando “La natura è lo stesso che Dio”: che essere interpretato, pel contesto, come semplice premessa alla possibilità di accordo fra il modo di esprimersi della Bibbia ed il suo, anche se può venir inteso in senso materialistico. In terzo luogo (p. 416) egli afferma: “Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo; ma tolta questa supposizione, il mio sistema resta intatto”.
[38] L’aggettivo “sperimentale” è stato aggiunto di mano dall’Amerio, nel rileggere e migliorare il testo a stampa; il complemento è passato sulla fotocopia da me ricavata. Questa precisazione ci sembra importante. Non è l’unico miglioramento apportato, ma, per le altre, in genere si tratta di conferme da altri passi dello Zibaldone.
[39] Zib. p. 394: “Io ammetto anzi sostengo la corruzione dell’uomo, e il suo decadimento dallo stato primitivo, stato di felicità, come appunto fa il Cristianesimo..... p. 396: “Il serpente disse alla donna: Scit enim Deus quod in quocumque die comederetis ex eo, aperientur oculi vestri, et eritis sicut dii, scientes bonum et malum (Genesi, III, 5). In maniera che la sola prova a cui Dio volle esporre la prima delle sue creature terrestri, per donargli quella felicità che gli era destinata, fu appunto ed evidentemente il vedere s’egli avrebbe saputo contenere la sua ragione, ed astenersi da quella scienza, da quella cognizione, in cui pretendono che consista, e da cui vogliono che dipenda la felicità umana: fu appunto il vedere s’egli avrebbe saputo conservarsi quella felicità che gli era destinata e vincere il solo ostacolo o pericolo che allora se le opponesse, cioè quello della ragione e del sapere. Questa fu la prova a cui Dio volle assoggettar l’uomo, se bene lo fece in un modo o materiale o misterioso. Di che cosa poi si trattava? E’ egli assurdo o cattivo per sua natura il desiderio di conoscere e discernere il bene ed il male? (che insomma è quanto dire la cognizione). Secondo voi altri apologisti della Religione, non è. Ma all’autor della Religione parve che fosse, perchè l’uomo già sapeva abbastanza per natura, cioè per opera propria, immediata e primitiva di Dio, tutto quello che gli conveniva sapere. La colpa dell’uomo fu volerlo sapere per opera sua, cioè non (397) più per natura, ma per ragione, e conseguentemente saper più di quello che gli conveniva sapere.... Questo e non altro fu il peccato di superbia che gli scrittori sacri rimproverano ai nostri primi padri... peccato di superbia che a me pare che sia rinnuovato (sic) precisamente da chi sostiene la perfettibilità dell’uomo. I primi padri finalmente peccarono appunto per aver sognato questa perfettibilità, e cercato questa perfezione fattizia, ossia derivata da essi. Il loro peccato, la loro superbia, non consiste in altro che nella ragione: ragione assoluta... Dunque l’uomo restò veramente simile a Dio per la ragione, restò più sapiente assai di quando era stato creato. Dunque il decadimento dell’uomo non consiste nel decadimento della ragione, anzi nell’incremento.... E sebben l’uomo ottenesse precisamente quello che il serpente aveva proposto ad Eva, cioè la scienza del bene e del male, non però questa accrebbe la sua felicità, anzi la distrusse.” (Mondadori, Zib. I, pp. 397-9).
[40] Summa Theol. IIa IIae, q. 163, art. 2: “Primus homo peccavit principaliter appetendo similitudinem Dei quantum ad scientiam boni et mali sicut serpens ei suggessit, ut scilicet per virtutem propriae naturae determinaret quid esset bonum et quid malum ad agendum”. Amerio, interpreta questo passo di san Tommaso in modo troppo simile a quello di Leopardi, cioè come semplice pretesa di conoscere per riflessione propria il bene ed il male. Ma questo vedere (lo dice anche Leopardi) non era un peccato in sè. A noi pare che S. Tommaso voglia indicare, invece, la pretesa di determinare di suo arbitrio quale sia il bene ed il male, illudendosi, così, di agguagliare Dio. Tale interpretazione dimostrerebbe ragionevolmente perchè il gesto di Eva ed Adamo fosse peccato di superbia; e mostrerebbe meglio i limiti della interpretazione di Leopardi, davvero sorprendente ed irragionevole.
Nel contesto delle difficoltà ad accettare la interpretazione leopardiana della colpa originale, Amerio ha modo (p. 14) di ricordare oscurità e contraddizioni nel pensiero del recanatese: “Non è nell’intenzione della natura che l’uomo si opponga alla natura (Z. 1560), benchè sia mistero per quale ragione essa abbia creato una tale possibilità, non volendo che si sviluppasse (Z. 178). Anzi altrove il L. vuole addirittura che la natura neppure sapesse questa sviluppabilità dell’uomo in senso contrario a sè (Z. 1571), e contraddice ai luoghi in cui parla di infiniti e studiatissimi ostacoli frapposti dalla natura all’elazione della ragione (per es. Z. 1080).
Amerio, infine (pp. 14-15) mette in luce i due punti del pensiero di Leopardi sulla colpa dell’uomo in contrasto con la dottrina cattolica. Il primo, essendo di carattere strettamente religioso, lo citiamo qui in nota; il secondo, di natura filosofica, lo riportiamo nel testo: “Il L. oltre ad escludere il peccato da ogni finalità primitiva, lo esclude anche da ogni intenzione seconda, assolutizzandolo e manicheizzandolo, come se non potesse essere compreso in alcun superiore sistema e non soltanto cadesse fuori della divina volontà, ma anche fuori della divina prescienza. La natura ebbe un unico disegno e quando oltrepassa un tal disegno, cade nel disordine e non può più rientrare in un altro disegno di ordine. Questo disconoscimento della riparabilità dell’uomo, non dall’uomo, ma da Dio, e questo rifiuto della redenzione il L. ha confessato esplicitamente: “ad essi (gli enti altri dall’uomo) si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi, guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui” (Z. 2903: 6 Luglio 1823). ... La natura del L. nè corrompe nè corregge...”.
[41] Zib. p. 272: “E dall’altro lato, non c’è maggior illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal bello dal tenero dal grande dal sublime dall’onesto. Laonde quanto più queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l’uomo sarebbe infelice. (11 Ottobre 1820).”
[42] Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: GENIO “Che cosa è il piacere?... Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per speculazione: perchè il piacere è un subietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento...”
[43] Zib. p. 326 (non 327, come vuole Amerio): “Dicono che la felicità dell’uomo non può consistere fuorchè nella verità. Così parrebbe, perchè qual felicità in una cosa che sia falsa? E come, se il mondo è diretto alla felicità, il vero non deve render felice? Eppure io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero. E questo appunto perchè il mondo è diretto alla felicità, e perchè la natura ha fatto l’uomo felice. Ora essa l’ha fatto anche ignorante, come gli altri animali...”
[44] Zib. p. 332: “... laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall’errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall’errore, e distrutti dalla verità. La verità non è mai stata trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l’esperienza non sono mai stati distruttivi del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero...”
[45] Zib. p. 385: “...Tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di conoscere, quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è totalmente indifferente all’uomo anche per questo capo. Anzi il desiderio infinito di concepire può ben essere in qualche modo e spesso appagato dalla natura col mezzo della immaginazione e delle persuasioni false ossiano (sic) errori; ma non mai dalla ragione col mezzo della scienza, nè dai sensi col mezzo degli oggetti reali. Che se l’uomo avesse questa tendenza infinita non al concepire, ma precisamente al conoscere, cioè al vero, perchè la natura avrebbe posto tanti ostacoli a questa cognizione necessaria alla sua felicità? Perchè avrebbe radicate (sic) nella sua mente tante illusioni che appena il sommo incivilimento, e abito di ragionare, può estirpare, e non del tutto?...”.
Zib. p.414-5: “...queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religione vera, cioè universalmente e stabilmente credibile. Ecco dunque come la ragione non poteva condurre alla felicità senza la rivelazione. La verità non era necessaria all’uomo in quanto verità, ma in quanto stabile credibilità.Ora la verità sola è stabilmente credibile nello stato di ragione e di sapere. E l’uomo senza credenza stabile non ha stabile motivo di determinarsi, quindi di agire, quindi di vivere. Ma siccome la verità era necessaria all’uomo, soltanto come unico fondamento di quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è indifferente all’uomo, anzi nociva, anche nello stato presente di corruzione. Al contrario di quello che accadrebbe se la felicità dell’uomo o naturale o corrotto dovesse necessariamente consistere nella cognizione assoluta; il cui oggetto essendo la verità assolutamente, nessuna minima verità sarebbe indifferente all’uomo, e l’uomo sarebbe infelice finchè non avesse conosciuta tutta la generale e particolare estensione della verità, perch’egli prima di questo punto, non sarebbe arrivato alla (415) sua perfezione. Al qual punto però gli è formalmente impossibile di arrivare.... Dove la religione, avendo insegnato all’uomo quelle verità che realizzano le credenze necessarie alla sua felicità, non solo non insegna, o suppone altre verità, ma anzi, come ho detto di sopra, e come prova l’esperienza, non c’è maggior nemico della Religione che un secolo pieno di cognizioni. E la Religione cristiana si adatta e si deve adattare alla capacità dell’ignorante, e conviene, anzi trova il suo miglior posto nell’ignoranza delle altre verità. Le quali anche astraendo dalla religione, pregiudicano alla felicità dell’uomo, quantunque già ragionevole, perchè non sono altro che un’estensione di questa ragione e sapere che distruggono l’umana felicità, e un più vasto eccidio di quelle opinioni e illusioni parziali, che anche dopo prevaluta (sic) la ragione, possono essere credute stabilmente, se il sapere, l’esperienza ec. non si applicano parzialmente a sradicarle, cioè finchè dura l’ignoranza parziale...”
[46] Zib. p. 384: “E non è vero che l’uomo naturale sia tormentato da un desiderio infinito precisamente di conoscere. Neanche l’uomo corrotto e moderno si trova in questo caso. Egli è tormentato da un desiderio infinito del piacere. Il piacere non consiste se non che nelle sensazioni, perchè quando non si sente, non si prova nè piacere nè dispiacere. La sensazione non le prova il corpo, ma l’anima, qualunque cosa s’intenda per anima. La sensazione dell’intelligenza è il concepire (non il vero, come dirò poi). L’uomo desidera un piacere infinto in tutte le cose, ma non può provare una certa infinità, se non nella concezione, perchè tutto il materiale è limitato.... questo è indipendente dal vero. L’uomo non desidera di conoscere, ma di sentire infinitamente. Sentire infinitamente non può, se non colle facoltà mentali in qualche modo, ma principalmente con l’immaginazione, non colla scienza o cognizxione, la quale anzi circoscrive gli oggetti e quindi esclude l’infinito...”
[47] Zib. 381: “Bisogna che conosca bene per determinarsi bene. Dunque bisogna che conosca il vero, e l’errore toglie la sua felicità. Falsa conseguenza. Bisogna che conosca quello che fa per lui. La verità assoluta, e per così dire il tipo della verità, è indifferente per l’uomo. La sua felicità può consistere nella cognizione e giudizio vero o falso. Il necessario è che questo giudizio, convenga veramente alla sua natura. La facoltà di formare questo giudizio non manca all’uomo ignorante, perchè tutto quello ch’egli deve sapere gli è insegnato dalla natura... L’ignorante ignora il vero, ma non i motivi per determinarsi. Anzi l’ignorante naturale, come il fanciullo, si determina molto più presto, facilmente e vivamente, risolutamente e certamente dell’uomo istruito e saggio...”
[48] Zib. p. 413: “Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per l’uomo, non prova che la felicità dell’uomo consista nel conoscere. Col prevalere della ragione e del sapere l’uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch’egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva estinguere. La cognizione del vero gli era dunque necessaria, non come indirizzata al vero, ma come sola fonte di quella credenza che gli bisognava per riacquistare quella felicità che la stessa cognizione gli avea tolta. Verità o errore, bastava e inmportava solamente che l’uomo credesse quelle cose, senza le quali non poteva esser felice. Ma l’errore l’avrebbe potuto credere stabilmente nello stato naturale, nello stato di ragione, non poteva credere stabilmente altro che il vero. Bisognava dunque ch’egli trovasse verità reali in quelle opinioni e in (414) quei giudizi che formano e servono di base alla vita umana. Ma queste opinioni e giudizi, non poteva trovarli realmente veri, se non supposta una Religione, e una Religione vera, cioè universalmente e stabilmente credibile...”
[49] Zib. p. 4190: “...il progresso dello spirito umano consiste, o certo ha consistito finora, non nell’imparare ma nel disimparare principalmente, nel conoscere sempre di più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni, restringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal millesettecento in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna, 28 Luglio 1826).... Concordanze delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; per esempio della socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec. (Bologna, 31 Luglio 1826).” Ma che il “conoscere sempre più di non conoscere” sia sinonimo di “disimparare”, è falso; è un abbaglio del L.
[50] Zib. p. 385: “E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa”, e tanto è beato quant’ei si reputa. Così tanto è soddisfatto il desiderio di conoscere o concepire, dalla credenza di conoscere quanto dalla vera conoscenza, e la verità assoluta è totalmente indifferente all’uomo anche per questo capo”.
[51] Amerio fa inoltre osservare “il divario esistente tra il soggettivismo antico e il soggettivismo leopardiano. Quello fa consistere il bene in un’operazione continua dell’energia morale dell’individuo che mantiene l’illusione contro tutta la realtà, questa invece lo fa consistere in un’operazione continua della natura che mantiene, quanto a sè, l’individuo nell’illusione. Le illusioni che per il moderno ((Leopardi)) sono actus homins (Z. 181: già riportato; si noti che “actus hominis sono quelli n comune con gli animali), per l’antico sono actus humani , frutto proprissimo della ragione e della volontà dell’uomo sopra la natura. Perciò ancora una volta il moderno vede nascere il guasto, quando l’uomo, oltrepassando l’istinto della natura, vuole essere più che natura e farsi spirito: -la ragione, la quale si vuole avere per fonte della nostra grandezza e cagione della nostra superiorità sopra gli altri animali, qui non ha che far niente se non per distruggere- (Z. 180).
[52] Zib. p. 115: “E parimenti, negli anni che precedettero, i romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch’era nuova per loro. Dal che si deduce un altro corollario, che la salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia nè la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi. E un popolo di filosofia sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci avvicini alla natura. E questo dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo. (7 Giugno 1820).”
[53] “Cantico del gallo silvestre”: “Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. .. a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente conservasi intera e salva; ma in questa manca o declina.”
[54] La “eudemonolgia” è la dottrrina che ripone il bene (morale) nella la felicità: felicità e bene morale coincidono.
[55] La sintassi italiana esige l’inversione del soggetto rispetto al gerundio (“Non essendo il pensiero ordinato...”), nelle forme affini all’“ablativo assoluto” latino, cioè quando il soggetto non è lo stesso di quello della reggente. La forma di anticipazione del soggetto rispetto al gerundio, è un “idiotismo” proprio del Canton Ticino, ove Romano Amerio è nato (1905) ed ha insegnato per 42 anni,al liceo cantonale di Lugano. A noi suona come un anacoluto: un soggetto senza il seguito di una frase col verbo al modo finito. Purtroppo di simili casi ne dovremo leggere ancora.
[56] Zib. p. 1100: “L’uomo non può muovere neanche alla virtù, se non per solo e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna modificazione dell’amor proprio può condurre alla virtù. E così l’uomo non può esser virtuoso per natura. Ecco come l’egoismo universale, rendendo per ogni parte inutile, anzi dannoso ogni genere di virtù dell’individuo, e la mancanza delle illusioni, e di cose che le destino, le mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l’egoismo individuale, anche nell’uomo per indole più fortemente e veramente e vivamente virtuoso. Perchè l’uomo non può assolutamente scegliere quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all’amor proprio. E perciò gli resta solo l’egoismo, cioè la più brutta modificazione dell’amor proprio, e la più esclusiva d’ogni genere di virtù. (28 Maggio 1821)”. Si veda anche il Dialogo di Timandro ed Eleandro: ELEANDRO: “non mi vergogno di dire che non amo nessuno, fuorchè me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è possibile”
[57] Zib. 51: “Il più solido piacere di questa vita è il piacere vano delle illusioni. Io considero le illusioni come cosa in certo modo reale stante ch’elle sono ingredienti essenziali del sistema della natura umana, e date dalla natura a tutti quanti gli uomini, in maniera che non è lecito spregiarle come sogni di un solo, ma propri veramente dell’uomo e voluti dalla natura, e senza cui la vita nostra sarebbe la più misera e barbara cosa. Onde sono necessari ed entrano sostanzialmente nel composto ed ordine delle cose”. Zib. p. 99: “Pare un assurdo e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale nè altro di sostanza al mondo che le illusioni”.
[58] Zib. p. 4047: errore di citazione dell’Amerio? Non vi si trova nulla dell’argomento.
[59] Zib. p. 4175: “Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo.... Ciò è manifesto dal vedere che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non si dovrà dire che l’esistere è per sè un male? Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma la specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce.Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali...”
[60] Il Leopardi aggiunge che “è la sola società e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l’uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl’individui, così ne’ popoli, e come ne’ popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L’uomo isolato non le avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare, non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell’età, quanto dell’inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani...” (Zib. 2684).
[61] Zib. p. 335: “Quello che uccideva il mondo era la mancanza delle illusioni; il cristinaesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch’egli produsse: entusiasmo, fanatismo, sacrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso s’egli sia vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore. Ma come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni, contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che il fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto...”.
[62] Siamo nel dicembre 1820.
[63] Zib. p. 411 e 412: “A questo effetto contribuirono anche le Religioni antiche, il Maomettanesimo, le sette d’ogni genere, e tutte quelle opinioni che hanno dato vita a un popolo o ad una società, e indottala ad operare.... Giacchè la persuasione che tutto sia nullo, non conduce all’azione. E la persuasione che le cose sieno cose, non può aver fondamento nè ragione, se non nell’idea e persuasione di un’altra vita. Ma questa ci deve persuadere: dunque bisogna che la religione ci persuada, e non si pò essere indifferenti circa la sua qualità e verità....”
Zib. p. 416: “Il mio sistema non si fonda sul Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè il fin qui detto suppone essenzialmente la verità reale del Cristianesimo; ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto.”
[64] Zib. pp. 412-3: “Perchè l’uomo credendo (413) (non dico conoscendo ma credendo) diversamente, opera diversamente. Quindi resta giustificata anzi lodata la gelosia che gli antichi politici greci e romani manifestarono sempre per le loro antiche credenze, colle quali doveva mancare e mancò il loro stato.... Dal sopraddetto segue che il Cristianesimo non prova che la verità assoluta non sia indifferente per l’uomo, non prova che la felicità dell’uomo consista nel conoscere. Col prevalere della ragione e del sapere l’uomo non potendo più credere quello che credeva naturalmente, bisognava ch’egli tornasse a crederlo mediante questa medesima ragione e questo sapere che non si poteva più estinguere. La cognizione del vero gli era dunque necessaria, ma non come indirizzata al vero... ((come già citato nel testo))”
Amerio, preparando la trattazione sulla “Reiezione dell’immortalità” ed sulla “Psicologia materialistica” (cui è intitolato il § 14) pone già nel § 12 (pp. 20-21) questo discorso: “L’altra vita è necessaria a dare fondamento mediante l’ontologia ((scienza dell’essere)) all’assiologia ((dottrina dei valori, cioè dei beni come la verità, la moralità, la felicità)) della presente vita. Il prezzo infinito delle cose amate e sperate dall’uomo è contenuto in un reale infinito, anzi è soltanto la presenza di esso reale infinito alla nostra difettiva ontologia: onde se non fosse pareggiata l’ontologia all’assiologia e data effettivamente un’integrazione ontologica alla vita presente, facendola capace, e nella durata e nell’intensità, di tanto amare e godere, quanto il bene è amabile e godibile, non solo l’uomo resterebbe mutilo e tronco della sua realtà, ma persino il bene resterebbe in qualche modo privato della sua pienezza, esterna sì, ma pur pertinente all’ordine universale. Se insomma mancasse all’uomo la sua perfezione ontologica, quale è possibile soltanto nell’altra vita, anche l’infinità assiologica cadrebbe: il mondo sarebbe non soltanto finito, come è e rimane, ma tronco; sussisterebbe come cosa che è (ontologicamente), non essendo tutto quello che è (assiologicamente), e così, secondo il detto del L. , la vita sarebbe uno stato violento (Tasso p. 71)”.
[65] Ci permettiamo di obiettare a Romano Amerio: La verità primaria di ogni religone è la esistenza di Dio; la immortalità dell’anima è, in ogni religione, la verità seconda più importante, non la prima: neppure nel Cristianesimo.
[66] Zib. 601-603: “La mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia. Al di là, non possiamo con qualunque possibile sforzo, immaginarci una (602) maniera di essere, una cosa diversa dal nulla. Diciamo che l’anima nostra è spirito. La lingua pronunzia il nome di questa sostanza, ma la mente non ne concepisce altra idea se non questa, ch’ella ignora che cosa e quale e come sia....In così perfetta oscurità pertanto ed ignoranza su tutto quello che è, o si suppone fuor della materia, con che (603) fronte, o con qual menomo fondamento ci assicuriamo noi di dire che l’anima nostra è perfettamente semplice, e indivisibile, e perciò non può perire? Chi ce l’ha detto? Noi vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima. Sia. Ma qui finisce ogni nostro raziocinio; qui si spengono tutti i lumi. Che vogliamo noi andare oltre e analizzare la sostanza immateriale, che non possiamo concepir quale nè come sia, e, quasi che l’avessimo sottoposta ad esperimenti chimici, proclamare ch’ella è del tutto semplice ed indivisibile e senza parti? Le parti non possono essere immateriali? Le sostanze immateriali non possono essere di diversissimi generi? E quindi esservi gli elementi immateriali de’ quali sieno composte le dette sostanze, come la materia è composta di elementi materiali. Fuor della materia non possiamo concepir nulla, la negazione e l’affermazione sono egualmente assurde: ma domando io: come dunque sappiamo che l’immateriale è indivisibile? Forse l’immateriale e l’indivisibile nella nostra mente sono tutt’uno? sono gli attributi di una stessa idea? (604) Primieramente ho già dimostrato come l’idea delle parti non ripugni in nessun modo all’idea del’immaterialità. Secondariamente, se l’immateriale è indivisibile e uno per essenza, non è egli diviso, non ha egli parti, quando le sostanze immateriali, ancorchè tutte eguali sono pur molte e distinte? Dunque non vi sarà pluralità di spiriti, e tutte le anime saranno una sola? Dopo di ciò, come possiamo noi dire che l’anima, posto che sia immateriale, non può perire per essenza sua propria? Se lo spirito non può perire per ciò che non si può sciogliere, così anche perchè non si può comporre non potrà incominciare. Meglio quei filosofi antichi i quali negando che le anime fossero composte e potessero mai perire, negavano parimenti che avessero potuto nascere, e volevano che sempre fossero state. Il fatto sta che l’anima incomincia, e nasce evidentemente, e nasce appoco appoco, come tutte le cose composte di parti.”
[67] “Sillogismo psicologico” è la prova messa in forma precisa ed essenziale, cioè nella forma di un sillogismo, della immaterialità e conseguente immortalità dell’anima (in greco “psùche”). A dir il vero, occorrono più sillogismi in catena (polisillogismo) per la dimostrazione. I due principali potrebbero essere questi: 1) “Tutto ciò che è semplice, cioè non composto di parti, è incorruttibile; atqui ogni ente spirituale è semplice, cioè non è composto di parti; quindi ogni ente spirituale è incorruttibile. 2) Ogni essere incorruttibile è immortale; atqui l’anima umana è incorruttibile; quindi l’anima umana è immortale.” La spiritualità dell’anima è, ovviamente, una verità da dimostrarsi in antecedenza, come avviene nella filosofia scolastica (e come Leopardi dimostra di sapere, visto che dà per scontato che esistono operazioni dell’uomo che gli animali non hanno (si può supporre, il conoscere astratto e il volere libero: Zib. p. 603, testè citato).
[68] Zib. pp. 604-6: “ Oltracciò non osserviamo noi nell’anima (605) diversissime facoltà? la memoria, l’intelletto, la volontà, l’immaginazione? Delle quali l’una può scemare, o perire anche del tutto, restando le altre, restando la vita, e quindi l’anima. Delle quali altri son più, altri men forniti: come dunque la sostanza dell’anima è per natura, uguale tutta quanta? Ma queste sono facoltà, non parti dell’anima. Primo, l’anima stessa non ci è nota, se non come una facoltà; secondo, se l’anima è perfettamente semplice e, per maniera di dire, in ciascheduna parte uguale alle altre parti e a tutta se stessa, come può perdere una facoltà, una proprietà, conservando un’altra, e continuando ad essere? Come può accadere questo, se noi pretendiamo cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admixtum dispar sui, atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire? Cicerone, Cato maior de senectute, c. 21, fine, ex Platone). Vedi p. 629, capoverso 2. In somma fuori della espressa volontà e (606) forza di un Padrone dell’esistenza, non c’è ragione veruna perchè l’anima, o qualunque altra cosa, supposta anche e non ostante l’immaterialità, debba essere immortale; non potendo noi discorrere in nessun modo della natura di quegli esseri che non possiamo concepire; e non avendo nessun possibile fondamento per attribuire ad un essere posto fuori della materia, una proprietà piuttosto che un’altra, una maniera di esistere, la semplicità o la composizione, l’incorruttibilità o la corruttibilità. (4 Febbraio 1821).
[69] Sta qui uno dei ragionamenti più facilmente disputabili del Leopardi. In realtà l’anima è un ente spirituale semplice, che sembra scomporsi in differenti facoltà o parti, in quanto agisce attraverso le “parti o facoltà” del corpo. Tralasciando l’immaginazione (facoltà cara al romanticismo, ma tutt’altro che filosoficamente o scientificamente fondata) e la memoria (ingenua distinzione all’interno dell’intelletto, cara alla Scolastica medioevale), l’anima distingue il suo operare a seconda che essa agisca sulle sensazioni (messaggi sensoriali) per ricavarne le idee astratte, liberando gli “engrammi” dei sensi dai particolari concreti (razionalità conoscitiva), piuttosto che agire sulle spinte emotivo-istintive, per ricavarne una decisione libera od atto di volontà (astratto, questa volta, dagli impulsi irrazionali facilmente presenti nelle istigazioni animali). La semplicità cioè dell’anima non è certo messa in discussione dall’apparente molteplicità delle funzioni, che si moltiplicano solo per le parti diverse del corpo di cui l’anima si serve. Anche la scomparsa di alcune operazioni dell’anima dipende tutta e solo dalla scomparsa della cooperazione di determinate parti del corpo (solitamente, di settori del cervello: paresi, malattie o sfinimento di determinate fibre nervose, vuoti di cellule asportate dal sangue dopo la loro morte...).
[70] A questa tesi averroistica dell’anima unica perchè semplice, esiste una sola risposta: l’anima non può nascere nè essere trasmessa per generazione; l’anima esiste solo per creazione e solo per annichilazione può scomparire. Il Leopardi non esclude del tutto questa ipotesi, anche se sembra citarla (alla fine di queste riflessioni) senza più aderirvi. Come già detto, egli afferma: “...fuori della espressa volontà... di un Padrone dell’esistenza, non c’è ragione veruna...” neppure per l’esistenza delle singole anime. Con questo si è già risposto anche all’obiezione che Leopardi fa seguire.
[71] Zib. p. 629: “Ma quando anche si supponga lo spirito, assolutamente semplice e senza parti, non segue ch’egli non possa perire. Conosciamo noi la natura di un tal essere cosiffatto, per poter pronunziare s’egli è immortale o mortale? Non c’è che una maniera di perire, cioè il disciogliersi? Nella materia non ce n’è un altra, e però noi non conosciamo se non questa maniera; ma parimenti non conosciamo altra maniera d’essere che quella della materia. Se una cosa può essere in maniera a noi del tutto (630) ignota e inconcepibile, anche può perire in maniera del tutto ignota e inconcepibile all’uomo...”
[72] Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco: “Le cose materiali siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno cominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno”.
[73] Zib. pp.630-3: “Vo anche più avanti, e dico, che se la semplicità è principio necessario d’immortalità, neanche la materia può perire. Se la materia è conmposta, sarà composta di elementi che non sieno composti. Non cerco ora se questi elementi sieno quelli dei chimici, o altri più remoti e primitivi; ma andiamo pur oltre quanto vogliamo, dovremo sempre arrivare e fermarci in alcune sostanze veramente semplici, e che non abbiano in se quidquam admixtum dispar sui, atque dissimile. Queste sostanze dunque, se non c’è altra maniera di perire, fuorchè il risolversi, in che si risolveranno, o si possono risolvere? Dunque non potranno perire. Direte che anche queste, essendo pur sempre materia, hanno parti.... ancorchè ridotta a menomissime particelle, una di queste minime particelle, è si può dire tanto lontana dal nulla, quanto tutta la materia o qualunque altra cosa esistente, cioè tra essa e il nulla ci corre un divario, e uno spazio infinito: chè dall’esistenza nel nulla, come dal nulla nell’esistenza, non si può andar mica per gradi, ma solamente per salto, e salto infinito. (632) Dunque in un essere semplicissimo e senza parti, non c’è maggior principio nè ragione d’immortalità, di quello che sia nella materia, e nell’essere il più composto possibile... una sostanza supposta semplicissima e immateriale, non può contenere (633) maggior immortalità, cioè immutabilità e incorruttibilità, che i princìpi della materia, i quali non sono una supposizione, ma debbono necessariamente e realmente esistere. (9 Febbraio 1821).”
[74] Zib. pp. 4251-3: “perchè io conosco dei corpi elastici, elettrici ec. io dico, e nessuno me lo contrasta: la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere che siano altro che corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. –Signore, no; anzi voi direte: la materia non può in nessun modo mai, nè pensare nè sentire.- -Oh perchè?- -Perchè noi non intendiamo come lo faccia.- -Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell’elettricità, come l’aria faccia il suono? Anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della materia? E se non l’intendimo, nè potremmo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è?- -Provatemi che la materia possa pensare e sentire- -Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono: e voi che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. –Quei corpi non sono essi che pensano- -E che cos’è?- -E’ un’altra sostanza ch’è in loro.- -Chi ve lo dice?- -Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare.- -Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare.- -Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra da se (sic): la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più-. Infatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l’anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove”. Ci si permetta di fra notare che Leopardi si contraddice almeno in parte: egli stesso ha scritto a p. 603, il 4. 02. 1821: “Noi vogliamo l’anima immateriale, perchè la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima”. Questa sua accettazione delle osservazioni e riflessioni (non solo scolastiche) sul divario fra sensazioni e ideazione non poteva concludersi, onestamente, nella stentata affermazione che “la materia non ci par capaace di quegli effetti che vediamo e notiamo operati dall’anima” . In realtà la filosofia da Socrate a Cartesio (almeno) ha accumulato tali prove, per dimostrare che il pensiero è radicalmente diverso dalle sensazioni; e che l’appetito volitivo è radicalmente differente dall’appetito emotivo-istintivo, da non essere serio parlare di sola “apparenza” od impressione (“ci par”). La deduzione, poi, (troopo logica nella antropologia e psicologia materialistica) che anche gli animali pensino è un paralogismo (cioè una pazzia) così madornale, da mettere fuori causa tutte le elucubrazioni leopardiane sulla materia che sente e pensa. Se la concezione dell’uomo (antropologia) e delle sue attività (psicologia) conduce ad un simile corollario, si dimostra errata nei presupposti da se stessa. E si noti che la convinzione circa la nostra perpetua incapacità ad intendere fenomeni come l’elasticità, la forza di gravità, l’elettricità (“non l’intendiamo e non potremo intenderlo mai”), espressa nel citato pensiero 4252, era ingenua o temeraria al punto che si è rivelata in gran parte falsa. Decisamente la ragione sa “vedere al di là della materia” ben più di quanto ritenesse, dopo il 1820, Leopardi.
[75] Zib. p. 4289: “Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto, perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alla varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di sè, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso... forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono...”. Ma la nota critica circa la indistinzione tra “il corpo che pensa” e “il pensare del corpo” la si può rileggere nel testo, riportato poco sopra dalla p. 22 di Amerio.
[76] Zib. p. 4525: “Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli, bisognose di crederle fedeli, benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un paese ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco e tenero della sua moglie... Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte” (Firenze, 23 Maggio 1832”: sono il quintultimo ed il terzultimo pensiero dello Zibaldone, che termina colla data 4 Dicembre 1832). Il Dialogo di Tristano e di un amico esprime gli stessi concetti, ma con insulti verso la massa degli uomini, che Leopardi pretende vogliano consapevolmente ingannarsi (“Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini ((sic)), non crederà mai di non saper nulla, nè di non essere nulla, nè di non aver nulla a sperare... perchè le due prime offendono la superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e fortezza d’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto) e con sentimenti di orgoglio nei propri riguardi (“Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini e rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.”). Ma in che senso si può andar fieri del fallimento di tutta la vita? E’ razionale od insensata una simile disposizione d’animo? Si può ritenere coraggioso e razionale questo anticipo della “prosopopea di Giannettaccio” (in La cena delle beffe, di Sem Benelli) o non è espressione di pazzia lucida, dettata dalla disperazione?
[77] Ecco la sua concezione del Cristianesimo come “antivita” e le due motivazioni principali che la giustificherebbero: “Il L. credette infatti che la seconda vita, annunziata dal Cristianesimo proprio per restituire valore all’esistenza terrena e per rigenerare l’uomo, importasse invece la mortificazione completa della prima, e che, mentre è per essenza e per effetto una mediazione e riconciliazione della creatura (II Cor. 5, 17 segg.) e un compimento di tutto quanto era tronco e incompiuto (Ephes. 1, 10 nel greco), essa al contrario dogmatizzasse la divisione dei due mondi e li rendesse l’uno all’altro ostile e mortifero”. Ne consegue che il L. vede nella “claustrazione” il tipo di vita ideale cui tenderebbe coerentemente il Cristianesimo, con la conculcazione delle esigenze più ovvie della natura ed un rinnegamento di essa. (Z. 2381-4: contro tale interpretazione, fa notare Amerio, sta la storia tutta della Chiesa, che vede approvati e celebrati i santi di vita attiva, oltre alla vita comune dei fedeli sposati). La seconda prova che il Cristianesimo sarebbe un’antivita sta nel primato dell’amore di Dio, così esigente che siamo tenuti ad amare noi stessi ed il prossimo per amore di Dio e non del nostro valore: questo, secondo Leopardi, conduce necessariamente all’odio di sè “cosa precisamente impossibile e contradditoria al modo reale di essere delle cose” e distruttiva di esso essere reale (Zib. 2232). “Introducendo l’idea di un terzo ente, cioè di Dio, tra l’uomo e il mondo, esso corrompe la relazione tra la vita terrena e il suo fine (il piacere) e ritraendo l’uomo dall’esercitare la sua attività negli oggetti pericolosi del tempo, uomini o cose che siano, distrugge la società ed edifica l’egoismo (Z. 1686-7).” A tali accuse e fraintendimenti, Amerio risponde adeguatamente nei §§ 16 (Unilateralità della concezione leopardiana del Cristianesimo) e 17 (Filosofia della claustrazione. Attività e contemplazione). Si potrebbe aggiungere che l’accusa di generare egoismo è inconsistente nel sistema del Leopardi, che pone appunto l’egoismo come tendenza fondamentale, connaturata e perciò inevitabile di ogni vivente. A parte le già riportate espressioni dal Dialogo di Timandro ed Eleandro, si leggano ancora: “...della cosa più materiale che sia negli esseri viventi, cioè dell’amor proprio e della propria conservazione, di quella cosa che abbiamo affatto in comune coi bruti... Certamente non c’è vita senza amor di se stesso e amor della vita” (Zib. p. 180); ...l’uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l’amor proprio non ha limiti nè misura...” (Zib, p. 610); e “la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi... Un amor di se stesso che non può cessare e non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione"”(Zib. p. 4192). Nel § 18, Amerio ricorda che il Leopardi accusa il Cristianesimo di condannare l’umanità alla infelicità definitiva, in quanto proibisce il suicidio (Zib. 815-8), anche se deve riconoscere che non è solo quella la fonte di tale divieto: vi è anche la tendenza della natura primitiva, che vi ripugna istintivamente; e le esigenze dell’amicizia che vogliono risparmiato un simile dolore ai propri cari...( Dialogo di Plotino e di Porfirio: parlata finale di Plotino). Davvero l’assenza di “speranza” (attesa di una vita, con premio e castigo, oltre la tomba) conferma quanto abbiamo letto in Manzoni: “Levata dal conto –di questa vita- la vita futura, non c’è il verso di raccoglierlo” (Oss. sulla Mor. catt., Appendice al c. III); e, più diffusamente, : “Il voler vedere ognuno appagato in questo mondo connforme pare a noi che il suo merito porti, è impazienza, leggerezza, presunzione e peggio; è un supporre di aver noi più discernimento di chi ce l’ha dato; è un dimenticare che quaggiù le partite si piantano, ma si saldano altrove”.
[78] Zib. p. 4191: “Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole.”
[79] Zib. p. 40: “Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza de’ mali (che nelle bestie non è) le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti di infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra che lo porta, nè si può mutare. Cosa che dimostra che la nostra vita non è finita dentro questo spazio di tempo, come quella dei bruti...”
[80] Zib. p. 44: non ci pare molto pertinente. Più pertinente ci sembra Zib. p. 3824, che citeremo più avanti: in esso, nella considerazione dei piaceri umani, si astrae totalmente dalla loro finalizzazione e, quindi, adeguatezza o meno allo scopo per cui sono nella biologia umana od animale. Ci pare anche che qualcosa circa la mancanza di armonia teleologica possano dire i passi di Zib, p. 55: “Se tu domanderai piacere a uno che non possa fartelo senza ch’egli acquisti l’odio di un altro, difficilissimamente (in parità di condizioni) l’otterrai non ostante che ti sia amicissimo.... infatti pesa molto più l’odio che l’amore degli uomini, essendo quello più operoso... Giacchè chi segue il suo odio fa per se (sic); chi l’amore, per altrui, chi si vendica giova a se, chi benefica giova altrui, nè alcuno è mai tanto infiammato per giovare altrui quanto a se”; e p. 56: “ Com’è costantissimo e indivisibile istinto di tutti gli esseri la cura di conservare la propria esistenza, così non è dubbio che quasi il compimento di questa non sia l’esserne contento, e l’odiarla o non soddisfarsene non sia un principio contradditorio il quale non può stare in natura e molto meno in quell’essere il quale senza entrare nella teologia, è chiaro che essendo l’ordine animale il primo in questo globo e probabilmente in tutta la natura cioè in tutti i globi, ed egli essendo evidentemente il sommo grado di quest’ordine, viene ad essere il primo di tutti gli esseri del nostro globo. Ora vediamo che in questo è tanta scontenbtezza dell’esistenza, che non solo si oppone all’istinto della conservazione di lei, ma giunge a troncarla volontariamente, cosa diametralmente contraria al costume di tutti gli altri esseri e che non può stare in natura se non corrotta totalmente...” Abbiam sottolineato “ordine animale”. Leopardi voleva probabilmente scrivere “umano”, perchè fra gli animali la tentazione e capacità di suicidio non esiste.
[81] Zib. 51: “Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l’esistere? Ora così accadrebbe appunto all’uomo senza una vita futura.”
[82] Zib. pp. 78-9: “...lo sviluppo del sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal progresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, e della vanità delle cose, e della infelicità umana, (79) cognizione che produce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo mai conoscere... . ...dolcezze nostre, benchè naturali anch’esse, cioè l’ultima risorsa della natura per contrastare (com’è suo continuo scopo) alla infelicità prodotta dalla innaturale cognizione della nostra miseria.”
[83] Zib. pp. 76-7. “quella felicità che agli antichi non pareva un sogno come a noi pare (ed effettivamente non era tale per essi, certamente speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire)”. Zib. p. 485: “Gli antichi Celti e gli altri antichi si uccidevano per disperazioni (485) nate da passioni e sventure, non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente all’uomo, ma come proprie dell’individuo, perciò disgraziato e infelice, e disperantesi. La disperazione e scoraggiamento della vita in genere, l’odio della vita come vita umana (non come individualmente e accidentalmente infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra specie, la nullità e la noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma l’idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un male, non è mai entrata in intelletto umano avanti questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano appunto per l’opinione e la persuasione di non potere, a causa di sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch’essi stimavano ch’esistessero. (10 Gennaio 1821).” Zib. p. 504: “...gli antichi, sempre più grandi, magnanimi e forti di noi, nell’eccesso delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo nemici del cielo, impotenti bensì e incapaci di vittoria o vendetta, ma non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore......Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da rivolger l’odio e il furore... fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci compiaciamo dell’idea della morte volontaria... (15 Gennaio 1821)”. Si noti: abbiamo messo in grassetto quella che potrebbe essere una dichiarazione di ateismo, convolta ma non troppo, da parte del Leopardi.
[84]
Zib. 3823-4: “L’uomo non può molto godere, non solo perchè pochi e piccoli sono
i piaceri, (3824) ma anche rispetto a se stesso, perchè egli è molto
limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e
pochi, bastano a vincere di gran lunga la sua capacità. Bacco e Venere sono
piaceri, ma l’uomo dopo un quarto d’ora ec. diviene incapace di gustarli, e
soccombe alla loro forza niente meno che a quella de’ tormenti e de’ morbi. (3
Novembre 1823)”. Qui si rivela la “disarmonia
teleologica” della dottrina del Leopardi, incapace di vedere il rapporto fra
piacere e sua finalità biologica: alla luce del loro finalismo, la nostra
capacità di godere dei piaceri è sufficiente ed adeguata (anzi, il Manzoni di
Fermo e Lucia, dice seicento volte sproporzionata la spinta erotica rispetto
alla funzione della procreazione e conservazione della razza umana).
[85] Zib. pp. 179-180: “L’infinità della inclinazione dell’uomo al piacere è una infinità materiale, e non se ne può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima umana, più di quello che si possa in favore dei bruti nei quali è naturale ch’esista lo stesso amore e nello stesso grado, essendo conseguenza immediata e necessaria dell’amor proprio, come spiegherò più sotto. Quindi nulla si può dedurre in questo particolare dalla inclinazione dell’uomo all’infinito, e dal sentimento della nullità delle cose (sentimento non naturale nell’uomo, e che perciò non si trova nelle bestie, come neanche nell’uomo (180) primitivo ed è nato da circostanze accidentali che la natura non voleva)”. Solo che qui Leopardi afferma senza dimostrare; e gli errori paiono evidenti. Se gli animali tendessero ad un piacere in(de)finito, sarebbero anch’essi scontenti e ribelli come l’uomo. Che, poi, egli citando poco sotto la p. 107 dello Zinbaldone, riaffermi che “la ragione è la facoltà più materiale che sussista in noi”, questo è assurdo anche per i materialisti di buon senso; ed ha contro di sè le molte prove accumulate non solo da scolastici e razionalisti, ma da tutta la tradizione che fa capo a Socrate ed a Cicerone. Che gli animali condividano con l’uomo la immaginazione (“questa facoltà mi par ben verisimile che esista nelle bestie in un certo grado, e relativamente a certe idee, come son quelle dei fanciulli ec.”) è una impressione certamente errata: gli animali non si annoiano e non prendono iniziative se non lungo la sollecitazione degli istinti; non hanno la facoltà di usare dei dati depositati nella memoria per delle combinazioni “immaginarie”, fantastiche o comunque indipendenti da sollecitazioni emozionali od istintive. La pretesa che “il sentimento di nullità delle cose” sia non voluto dalla natura, ma un elaborato arbitrario dell’uomo, fa parte di quella doppiezza del senso ed impiego della “ragione”, per cui essa è conforme a natura oppure a lei inimicissima; rovina l’umanità ma fonda e dimostra vero il sistema filosofico del Leopardi (errore di Kant, denunciato già dal Manzoni)!
[86] Zib. p. 472: “Non solo la facoltà conoscitiva, o quella di amare, ma neanche l’immaginativa è capace dell’infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell’indefinito, e di concepire indefinitamente.. La qual cosa ci diletta perchè l’anima non vedendo i confini, riceve l’impressione di una specie di infinità, e confonde l’indefinito coll’infinito, non però comprende nè concepisce effettivamente nessuna infinità”; Zib. p. 610: “Neanche l’amor proprio è infinito, ma solamente indefinito. Non è infinito, dico io, non già secondo l’origine e il significato proprio di questa voce, ma secondo la forza che le sogliamo attribuire: come diciamo che Dio è infinito, perchè contiene perfettamente e realmente in se stesso tutta l’infinità. ... sebbene l’uomo, e qualunque vivente, si ama senza confine veruno, e l’amor proprio non ha limiti nè misura, nè per durata nè per estensione, contuttociò l’animo umano o di qualunque vivente non è capace di un sentimento il quale contenga la totalità dell’infinito...”. Ma, scolasticamente, l’infinità di Dio è esigita proprio dalla finitezza (definita od indefinita, non importa) dell’uomo e del mondo...
[87] “Cenodossia” è una opinione vuota, una vanità, una vanagloria. Qui credo sia meglio traducibile come “illusione”.
[88] “Lipetica” è neologismo ameriano (dal greco “lu’pe”, dolore; non da “lìpos” grasso, adipe, onde “lipidi” ecc.) e significa “dottrina del dolore, filosofia dell’infelicità” (opposto ad “edonistica”, dottrina del piacere). Esisteva di già “lipemania”, stato di angoscia patologica, (depressione?): v. Grande diz. della lingua it., Torino, UTET, IX, p. 121.
[89] E si veda, in proposito, Il sabato del villaggio: “Questo di sette è il più gradito giorno,| pien di speme e di gioia:| diman tristezza e noia| recheran l’ore, ed al travaglio usato| ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
[90] Zib. p. 612: “Così anche il piacere della speranza, non è mai piacere presente, almeno in quanto speranza; cioè l’atto del piacere della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell’altro del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere passato (5 Febbraio 1821).”
[91] Zib. 531-5: “Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa sperare qualche godimento più o meno grande.... Io provo un piacere: come? ciascun individuale istante dell’atto del piacere è relativo agli istanti successivi; e non è piacevole se non relativamente agli istanti che seguono... Andiamo più avanti: ancora non provo vero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo è il discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione e la sensazione dell’animo nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimo istante e terminato l’atto del piacere, l’uomo non ha provato ancora il piacere” . Mi permetto di osservare: Leopardi si contraddice vistosamente. Due volte dice “Io ho provato piacere, ho avuto una buona ventura”; ed ancora” Terminato l’atto del piacere”: E due volte nega l’affermato: “L’atto proprio del piacere non si dà”; e “l’uomo non ha provato ancora il piacere”. Val la pena di continuare a citare simili contraddizioni? Pure, seguiamo l’analisi dell’Amerio: “Così il piacere non è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è che non può esserci piacer vero per un essere vivente, se non è infinito, (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente) e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda che può essere, e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi, e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere; è tutto il piacere possibile. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro. (20 Gennaio 1821).”
[92] Zib. 3876-8: “Dico che l’uomo è sempre in stato di pena, perchè sempre desidera invano ec. ... Sovente essa pena, che non vien d’altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore e più sensibile quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente dico, ella è maggiore nell’atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo (3877) della indifferenza e quindi quiete e ozio dell’animo, e mancanza di sensazioni o concezioni ec. passioni ec. determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore perchè più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch’è punto e infiammato dalla presenza e attuale apparenza del piacere, a cui l’uomo continuamente sospira; dalla vicina, anzi presente, straordinaria e fortissima e fermissima e vivissima, anzi si può dir certa speranza; e quasi dal vedersi vicinissima e sotto mano la felicità, ch’è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla mai afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all’ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell’ordinario, più vivo che nel tempo d’indifferenza. Non si può meglio definire l’atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L’uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d’indifferenza ec. e con assolutamente eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall’altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e quindi di piacere, dev’esser maggiore e più sensibile nell’atto del piacere (così detto) che all’ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l’immaginazione (3878) piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere serve e debb’esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell’animo, dell’amor proprio, della vita e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l’animo, e, non soddisfare il desiderio ch’è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempirgli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l’uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell’atto del piacere se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l’osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l’attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi nè in quel punto, nè mai, o ch’ei rifletta sul suo stato d’allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec. rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle universali e grandi verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute (sic) ec.(13 Novembre 1823).”
[93] Zib. p. 3814: “Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’esser, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può essere cosa nè fine più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l’esistenza e la vita, la quale è quasi tutt’uno colla stessa natura, nè amore più naturale nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione, il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne’ diversi generi di cose esistenti. Quindi ell’è in certo modo la vita o l’esistenza stessa, siccome l’infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura ch’è vita, è anche felicità). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva.... L’essere esistente non può amar la morte.... non può tendervi, non può proccurarla (sic), non può non odiarla il più ch’ei possa, in veruno istante dell’esser suo...”. Elogio degli uccelli: “Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo... Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell’aspetto lietissimi; e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia: la quale apparenza non è da riputare vana e ingannevole... si potrebbe dire in qualche modo che gli uccelli partecipano al privilegio che ha l’uomo di ridere... E che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri animali, non è senza ragione. Perchè veramente...sono di natura meglio accomodati a godere e ad essere felici. Primieramente non par che sieno sottoposti alla noia Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall’infima alla somma parte dell’aria, in poco spazio di tempo e con facilità mirabile; veggono e provano nella vita loro cose infinite e diversissime; esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della vita estrinseca...”
[94] Zib. p. 4063: “Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività.... Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di quelli che vivono ne’ paesi caldi è preferibile quanto alla felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente maggiore di quella degli altri, presa l’una e l’altra nel totale. Secondariamente..... la vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva....”
[95] Z. “4601” è errore o di scrittura o di tipografia: la pagina non esiste nello Zibaldone, che finisce a p. 4526; la citazione, infatti, la si trova a p. 4061. Nonostante questa svista tecnica, si noti che R. Amerio, oltre ad aver ordinato in un sistema filosofico comprensibile e coerente il pensiero sparso nelle opere tutte del Leopardi, intuendo dal contesto la presenza di errori di lettura sfuggiti alla pur diligentissima opera filologica di A. Parente per la edizione dello Zibaldone, ne “I classici Mondadori”, si è fatto mandare riproduzione fotografica di passi del testo manoscritto giacente presso la biblioteca della Università di Napoli, riuscendo a correggere una dozzina di punti, ove la stampa è sostanzialmente risultata erronea. Nel caso della pagina 4061, il testo della Mondadori è questo: “Una sensazione (interna od esterna) è necessariamente per sè e in quanto sensazione, o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione senz’altro, è necessariamente e insitamente ed essenzialmente piacere”. Punteggiatura importante!
[96] “Dialogo di un fisico e di un metafisico”: METAFISICO: “Dunque, presupponendo per vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini delle quali regolarmente non passino i quarant’anni di vita; e ciò sia per natura....; domando se in rispetto a questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri o più felici degli altri?”. FISICO: “Più miseri senza fallo, venendo a morte più presto”. METAFISICO: “Io credo il contrario anche per codesta ragione ((la morte precoce, a quaranta anni)). Ma qui non consiste il punto.... quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perchè qualunque azione o passione viva e forte, purchè non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole. Ora in quella specie d’uomini, la vita dei quali si consumasse naturalmente in ispazio di quarant’anni, cioè nella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uomini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più viva il doppio di questa nostra: perchè, dovendo coloro crescere, e giungere a perfezione, e similmente appassire e mancare, nella metà del tempo; le operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente a questa celerità, sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto a quello che accade negli altri; ed anche le azioni volontarie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca, corrisponderebbero a questa maggior efficacia. Di modo che essi avrebbero in minor spazio di tempo la stessa quantità di vita che abbiamo noi. La quale distribuendosi in minor numero d’anni basterebbe a riempirli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non basta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto, sarebbero quasi bastanti a occupare e vivificare tutta la loro età; dove che nella nostra, molto più lunga, restano spessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affezione viva. E poichè non il semplice essere, ma il solo essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia non si misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la vita di quelle nazioni, che quanto più breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o quello che è chiamato con questo nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, e anche a quella dei primi re dell’Assiria, dell’Egitto, della Cina, dell’India, e d’altri paesi...”
[97] Dialogo della Natura e di un’Anima: “...l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione della loro vita: la qual cosa importa maggior sentimento dell’infelicità propria; che è come se io dicessi infelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiude maggior efficacia di amor proprio, dovunque esso s’inclini, e sotto qualunque volto si manifesti: la qual maggioranza di amor proprio importa maggior desiderio di beatitudine, e però maggior scontento e affanno di esserne privi, e maggior dolore delle avversità che sopravvengono...”
[98] Zib. pp. 3847-8: “Sempre e in ciascun istante che egli ((il vivente)) ama attualmente se stesso, egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente... Il vivente non può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb’essere infinita, come s’è spiegato altrove, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l’oggetto del suo desiderio. Sempre pertanto ch’ei desidera, egli è necessariamente infelice, perciò appunto ch’ei desidera inutilmente... E tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente.... sempre ch’ei si ama, ei la desidera ((la felicità)); e mentre ch’ei sente di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch’ei sente di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, e a questa conclusione. Una specie di (3848) viventi rispetto all’altra o all’altre generalmente ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più si accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). Così un individuo rispetto all’altro o agli altri. (Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de’ lapponi la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso...”
[99] Zib. p. 3381: “..il vivente è meno dell’altre cose tutte composto di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra’ viventi l’uomo in massimo grado. Nel quale è maggior la vita che negli altri viventi; e la vita si può, secondo le fin qui dette considerazioni, definire una maggiore o minore conformabilità, un numero e valore di disposizioni naturali prevalente in certo modo (più o meno) a quello delle ingenite qualità. Massime rispetto allo spirituale, all’intrinseco, a quello che, propriamente parlando vive; a quello in che sta propriamente e si esercita la vita, in che siede il principio vitale, e la facoltà dell’azione, sia interna sia esterna, cioè la facoltà del pensiero e della sensibile operazione. Ec. Nella quale facoltà consiste propriamente la vita ec. (6-7 Settembre 1823). Per lo contrario le cose che meno partecipano della vita sono quelle che per natura hanno più di qualità e meno di disposizione, cioè le meno conformabili naturalmente”.
[100] Zib. pp. 3895- e 3848: “ Il sonno e tutto quello che induce il sonno, ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec. Non c’è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che il non sentirla. (20 Novembre 1823).” (3848): già riportata in nota 97.
[101] Zib. pp. 3905-6 e 3835: “E’ da notare... che l’ubbriachezza (sic) ec., per sua proprietà trae l’uomo più o meno, ed in uno o in altro modo, fuor di se stesso... Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocchè sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita, sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto, l’efficacia, (3906) le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio vano della felicità ec., secondo il detto nella mia teoria del piacere sopra l’essenziale piacevolezza di qualunque assopimento, in quanto sospensivo del sentimento della vita, e quindi del sentimento, anzi dell’attuale esistenza dell’amor proprio, e del desiderio della felicità. L’ubbriachezza e tutto ciò che le si assomiglia o le appartiene ec. è piacevole per sua natura, principalmente in quanto ell’è (per sua natura) assopimento. Massime che questo nasce allora dall’eccesso medesimo della vita e del sentimento di lei, il qual eccesso è nella ubbriachezza quello che scema e mortifica più o meno esso sentimento (secondo che il troppo è padre del nulla, come altrove) e quasi estingue l’animo.” Zib. p. 3835 (non interamente coerente): “L’esaltamento di forze proveniente da’ liquori o da’ cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto essenziale di essa, ch’è il desiderio del piacere, perocchè coll’intensità della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere. Quindi l’uomo in quello stato è oltre modo, e più ch’ei non suole, avido e famelico di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della vita e del suo essere e di se stesso, ch’è il piacere, poco, o men del suo solito, curando le altre cose, che spesso sono fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondari...”
[102] Zib. pp. 646-50: “Dunque nessun piacere possibile è proporzionato ed uguale alla (647) misura dell’amore che il vivente porta a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo può soddisfare, nessun piacere, ancorchè reale astrattamente e assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perchè questi desidera sempre di più, giacchè per essenza si ama, e quindi senza limiti. Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta... Quindi il piacere che deriva dall’indefinito, ma non pieno, perchè l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perchè l’animale fosse pago, cioè felice, cioè l’amor proprio suo non ha limiti, fosse definitivamente soddisfatto: cosa (648) contradditoria e impossibile. Dunque la felicità è impossibile a chi la desidera, perchè il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariaamente, perchè la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti. Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter esser soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non esistendo nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue.... (649).... Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l’uomo in natura. Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desideri di questa o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall’azione continua, da presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di rendere il vivente infelice. Quindi l’attività massimamente, è il maggior mezzo di felicità possibile. Oltre l’attività, altri mezzi meno universali o durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria del piacere, per esempio (ed è uno de’ principali) lo stupore: 1. di carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini incapaci di questa qualità sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di D’Alembert, Eloges de L’Académie françcoise (così, françoise), dice la natura agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del desiderio di felicità li tormenta; questo desiderio (650) bisogna sentirlo il meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente; 2. derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell’oppio, o proveniente da lassezza ec. ec.; 3. derivato da impressioni straordinarie, dalla meraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute, udite ec., insomma da sensazioni straordinarie di qualsiasi genere; 4. dalla immaginazione, dall’estasi che deriva dalla fantasia, da un sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e vedi la teoria del piacere. Notate che l’immaginazione, la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell’attività. E perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorchè spesso doloroso), di quello che un danno; perchè effettivamente l’attività è il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita (11 Febbraio 1821).”
[103] Zib. 3714: “Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt’una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l’una senza l’altra (mentre ch’ei sente di vivere) non può assolutamente stare. La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi.... Or che vuol dire che il vivente sempre che non gode nè soffre, non può far a meno che non s’annoi? Vuol dire ch’e’ non può fare ch’e’ non deisderi la felicità, cioè il piacere e il godimento”
[104] Zib. p. 3879: “Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell’è noia più intensa, sensibile e viva, qualità che l’avvicinano all’infelicità...”
[105] Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare: TASSO: “Per tanto, poichè gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, coverrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre.” GENIO: “... Che cosa è il piacere?”. TASSO: “ Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia” GENIO: “Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perchè il piacere è un subbietto speculativo e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto e non un sentimento...”. TASSO: “Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta; e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento”... GENIO: “E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dai piaceri e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova...” . TASSO: “Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?” GENIO: “Il sonno, l’oppio e il dolore...”.
[106] Zib. 4043: “Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna.... Il sentir meno la vita e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore) ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere o il viver meno, sì per estensione che per intensione, è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se assolutamente alla vita ec. (8 marzo 1824).”
[107] La voce latina “Me taedet”, mi annoio, significa in realtà “Taedium tenet me”, cioè la noia mi tiene prigioniero: la noia non è qualcosa che nasca da qualche meccanismo emotivo-intellettivo dell’uomo, ma una potenza oggettiva esteriore, che aggredisce l’uomo e lo tormenta: la noia è ipostatizzata.
[108] Non in Zib. p. 28, ma alla pagina seguente 29, il giovane Leopardi afferma: “Tutto è o può esser contento di se stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose”. Zib. p. 40: “Una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici, quando la previdenza de’ mali (che nelle bestie non è), le passioni, la scontentezza del presente, l’impossibilità di appagare i propri desideri e tutte le altre sorgenti d’infelicità ci fanno miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra...”.
[109] Pensieri, n. 68: “La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Non che io creda che dall’esame di tale sentimento nascano quelle conseguenze che molti filosofi hanno stimato di raccorne, ma nondimeno il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, nè, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali”.
[110] Zib. p. (140) 141: “Il dolore o la disperazione che nasce dalle grandi passioni e illusioni o da qualunque sventura della vita, non è paragonabile all’affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dell’immensità del vuoto che si sente nell’anima. Le sventure o d’immaginazione o reali, potranno anche indurre il desiderio della morte, o anche far morire, ma quel dolore ha più della vita, anzi, massimamente se proviene da immaginazione e passione, è pieno di vita, e quest’altro dolore ch’io dico è tutto morte; e quella (141) medesima morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, laddove quest’altra è più sepolcrale, senz’azione senza movimento senza calore, e quasi senza dolore, ma piuttosto con un’oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza, o dal pensiero dell’inferno. Questa condizione dell’anima è l’effetto di somme sventure reali, e di una grand’anima piena una volta d’immaginazione e poi spogliatane affatto, e anche di una vita così evidentemente nulla e monotona, che renda sensibile e palpabile la vanità delle cose, perchè senza ciò la gran varietà delle illusioni che la misericordiosa natura ci mette innanzi tuttogiorno, impedisce questa fatale e sensibile evidenza. E perciò non ostante che questa condizione dell’anima sia ragionevolissima anzi la sola ragionevole, con tutto ciò essendo contrarissima anzi la più direttaamente contraria alla natura, non si sa se non di pochi che l’abbiano provata, come del Tasso”.
[111] Riportiamo in nota il resto del paragrafo ameriano, perchè di valore puramente storico-critico. “Altri riferiscono questa trapasso a fonti letterarie e così lo descrivono storicamente, ma non lo risolvono (per es. Giusso, L. e le sue ideologie –Firenze, 1935- pp. 62 e 220-2: la prima metafisica procede dal Rousseau, la seconda dal D’Holbach e dal La Mettrie). Altri lo interpretano psicologicamente come un epifenomeno della vicenda personale dell’uomo traboccato in una sofferenza più profonda, e così gli levano significato teoretico (per es. Porena, Il pessimismo di G. L. –Genova, 1923- p. 46 segg.). Altri infine lo riguardano come un vero cangiamento teoretico, ma lo derivano dall’astratto assioma: causa causae est causa causati, applicando il quale il L. si sarebbe accorto che se l’uomo, che da sè stesso si infelicita, è fatto dalla natura, la natura è in ultima analisi la causa della sua infelicità. Ma così ascrivono il trapasso a una ragione che gli è del tutto estranea, poichè, prescindendo dalla sua debolezza intrinseca, quell’assioma è conosciuto dal Leopardi, ma viene sempre rigettato, anche quando già professa per intero la seconda metafisica (vedi il passo del 16 febbraio 1829 in Z. 4461-2, in cui gli interpreti ravvisano una contraddizione e un’anacronia). E’ dunque necessario indagare nuovamente il trapasso dal pessimismo storico al pessimismo metafisico, poichè se esso non annunzia soltanto una metanoia psicologica o la resipiscenza da un lapsus logico, deve metter radice in ragioni parimenti metafisiche.”
[112] Zib. p. 2492: “Intorno al suicidio. E’ cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba vivere contro natura (anzi non sia lecito vivere secondo natura) e non si possa morir contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente. (23 Giugno 1822)”
[113] Dialogo di Plotino e di Porfirio: PORFIRIO: “ La natura vieta l’uccidersi. Strano mi riuscirebbe che, non avendo ella o volontà o potere di farmi nè felice nè libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. .... se è lecito all’uomo incivilito, e vivere contro natura, e contro natura essere così misero; perchè non gli sarà lecito morire contro natura?”... PLOTINO: “ Così è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia che io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno ((del suicidio)) piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale, se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno nemica e malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio...”
[114] Il pensiero cui Amerio si riferisce, citando a Zib. p. 1434, rimanda subito “Alla p. 1421, fine”, dove si afferma: “L’attendere e il riflettere non è altro che il fissare la mente o il pensiero, il fermarlo ec. Abito che produce la scienza, l’invenzione, l’uomo riflessivo ec.”. Riprendendo tale pensiero alla pagina 1434, lo continua così: “Quest’abito è la principal fonte della miseria sì del mondo, per le verità ch’esso scuopre, sì dell’individuo. Ma la natura, la quale ha dato a tutti più o meno la possibilità di contrarlo ((acquisire tale abitudine alla riflessione)), mediante uno sviluppo e modificazione non naturale, delle facoltà e qualità naturali, ha pur dato a tutti i mezzi più che sufficienti per non contrarlo; mezzi che però oggi son veramente inutili e insufficienti per molti. (1 Agosto 1821).”
Zib. p. 1453: “Da tali osservazioni segue che la natura ha lasciato più da fare per la loro vita a quegli esseri ai quali ha dato maggior conformabilità, cioè qualità e facoltà più modificabili, diversificabili, e variamente sviluppabili, e capaci di produrre più diversi e molteplici effetti, quantunque lasciate quali sono naturalmente, non li producano. Tale è soprattutto l’uomo”
[115] Zib. p. 3349: “Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale non esiste o non nasce per se nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può fare che un’azione o un’omissione sia giusta nè ingiusta, buona nè cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto nè ingiusto, buono nè cattivo, l’ubbidire a qualsivoglia legge; e niun principio (2350) vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia, se l’idea del giusto, del dovere e del diritto, non è innata o ispirata (come vuole Voltaire, cioè naturalmente e per innata disposizione nascente nelle menti degli uomini, com’ei son giunti all’età di ragione) negl’intelletti umani. (4 Settembre 1823).
[116] Zib. p. 154: “Era un sogno di Platone che le idee delle cose esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non potessero esistere altrimenti (vedi Montesquieu, ivi, c. 1, p. 366) quando la loro maniera di esistere è affatto arbitraria e dipendente dal creatore, come dice Montesquieu, e non ha nessuna ragione per esser piuttosto così che in altro modo, se non la volontà di chi le ha fatte. E chi sa che non esista un altro o più, o infiniti altri sistemi di cose così diversi dal nostro che noi non possiamo neppure concepire?”
[117] Zib. p. 1622: “Questo non solo non guasta nè muta l’idea che noi abbiamo di Dio, ma anzi ella, se la considerassimo bene, comprende questa nozione necessariamente. Come può egli essere infinito se non racchiude tutte le possibilità? Come può egli essere infinitamente perfetto anzi pure perfetto, s’egli non lo è se non in quel modo che per noi è perfezione? sono o no possibili altri ordini infiniti di cose, e altri modi di esistere? Dunque, s’egli è infinito, esiste in tutti i modi possibili. Dipendeva o no dalla sua volontà il farci affatto diversi? e l’averci fatto quali siamo? Dunque egli ha potuto e può fare altri ordini diversissimi di cose, e aver con loro que’ rapporti di quella natura che vuole. Altrimenti egli non sarà l’autor della natura, e torneremo per forza al sogno di Platone, che suppone le idee e gli archetipi delle cose, fuori di Dio e indipendenti da esso. S’elle esistono in Dio, come dice S. Agostino (vedi p. 1616) e se Dio le ha fatte, non abbraccia egli dunque quelle sole forme secondo cui ha fatto le cose che noi conosciamo, ma tutte le forme possibili, e racchiude tutte le possibilità, e può far cose (1623) di qualunque natura gli piaccia, ed aver con loro qualunque rapporto gli piaccia, anche nessuno, ec. L’infinita possibilità che costituisce l’essenza di Dio è necessità. Da che le cose esistono, elle sono necessariamente possibili. (Una sola e menoma cosa che oggi esistesse basterebbe a dimostrare che la possibilità è necessaria ed eterna). Se nessuna affermazione o negazione è assolutamente vera, dunque tutte le cose e le affermazioni ec. sono assolutamente possibili. Dunque l’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta. Ell’è necessaria, e preesiste alle cose. Quest’esistenza non l’ha che in Dio. Quest’ultimo pensiero merita sviluppo. Vedi p. 1645, capoverso 1. (3 Settembre 1821).
[118] Zib. p. 1613: “Le cose non sono quali sono, se non perch’elle son tali. Ragione preesistente, o dell’esistenza o del suo modo, ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo di essere delle cose, questa ragione non v’è, nè si può immaginare. Quindi nessuna necessità nè di veruna esistenza, nè di tale o tale, e così o così fatta esistenza. Come dunque immaginiamo noi un Essere necessario? Che ragone v’è fuori di lui e prima di lui perch’egli esista, ed esista in quel modo, ed esista ab aetreno? La ragione (1614) è in Lui stesso, cioè l’infinita sua perfezione. Che ragione assoluta vi è perchè quel modo di essere che gli ascriviamo, sia perfezione? perchè sia più perfetto degli altri possibili? più perfetto delle stesse altre cose esistenti e degli altri modi di essere? Questa ragione dev’essere assoluta e indipendente dal modo in cui le cose sono, altrimenti il detto Ente non sarà assolutamente necessario. Or nessuna se ne può trovare. Il suo modo di essere è perfezione perch’egli esiste così”.
[119]
Zib. p. 1616. Oltre il passo citato da Amerio (il corsivo l’abbiamo introdotto
noi, visto che esiste nel testo dello Zibaldone), la pagina continua con queste
riflessioni: “Intorno a quello che ho detto altrove, che tolte le idee innate, è tolto Iddio, tolta ogni verità ogni buono ogni
cattivo assoluto, tolta ogni disuguaglianza di perfezione ec. tra gli
esseri, e necessario il sistema ch’io chiamo dell’Ottimismo, vedi un bel passo
di S. Agostino che, ammettendo le idee innate, riconosce questa verità ch’io
dico... (9 Settembre 1821). Infatti noi
non abbiamo altra ragione di credere assolutamente vero quello ch’è tale per
noi, e che a noi par tale, di credere assolutamente buono o cattivo quello ch’è
tale per noi, ed in quest’ordine di cose; se non il credere che le nostre
idee abbiano una ragione, un fondamento, un tipo fuori dello stesso ordine di
cose, universale, eterno, immutabile, indipendente da ogni cosa di fatto; che
sieno impresse nella mente nostra per essenza tanto loro, quanto di essa mente,
e della natura intera delle cose; che sieno soprannaturali, cioè (1617)
indipendenti da questa tal natura qual ella è, e dal modo in cui le cose sono,
e che per conseguenza le dette idee e le nozioni della ragione non potessero
esser diverse in qualsivoglia altra natura di cose, purchè l’intelletto fosse
stato ugualmente in grado di concepirle.” (3 Settebre 1821).
[120] Zib. p. 949: “Dalla sciocca idea che si ha del bello assoluto deriva quella sciocchissima opinione che le cose utili non debbano esser belle, o possano non esser belle. Poniamo per esempio un’opera scientifica. Se non è bella, la scusano perciò ch’è utile, anzi dicono che la bellezza non le conviene. E io dico che se non è bella, e quindi è brutta, è dunque cattiva per questo verso, quando anche pregevolissima in tutto il resto. Per qual ragione è bello il Trattato di Celso, ch’è un trattato di medicina? Forse perchè ha ornamenti poetici o retorici? Anzi prima di tutto perchè ne manca onninamente, e perchè ha quel nudo candore e semplicità che conviene a siffatte opere. Poi perchè è chiaro, preciso, perchè ha una lingua ed uno stile puro. Questi pregi o bellezze convengono a qualunque libro. Ogni libro ha obbligo di essere intieramente buono. Se non è bello, per questo lato è cattivo e non v’è cosa di mezzo tra il non esser bello, e il non essere perfettamente buono, e l’esser quindi per questa parte cattivo. E ciò che dico dei libri, si deve estendere a tutti (950) gli altri generi di cose chiamate utili, e generalmente a tutto. (16 Aprile 1821)”.
Zib. p. 1090: “Sarà falso quel sistema, non però l’idea ch’esso include, che la natura e le cose siano regolate e ordinate in sistema. Chi sbandisce affatto l’idea del sistema, si oppone all’evidenza del modo di esistere delle cose. Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura, e però si contenta di considerare le cose staccatamente (se pur v’ha nessun pensatore che, non dico si contenga, ma si possa contenere in questo modo), sarà compatibil, ed anche lodevole. Ma oltre ch’egli ponendo per base la disperazione di conoscere il vero sistema, ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose, si ponga mente al pensiero seguente, che farà vedere un altro capitalissimo inconveniente del rinunziare alla ricerca del sistema naturale e vero delle cose. (26 Maggio 1821).
Non si conoscono mai perfettamente le ragioni, nè tutte le ragioni di nessuna verità, anzi nesuuna verità si conosce mai perfettamente, se non si conoscono perfettamente tutti i rapporti che ha essa colle altre. E siccome tutte le verità e tutte le cose esistenti, sono legate fra loro assai più strettamente ed intimamente ed essenzialmente, di quello che creda o possa credere (1091) e concepire il comune degli stessi filosofi; così possiamo dire che non si può conoscere perfettamente nessuna verità, per piccola, isolata, particolare che paia, se non si conoscono perfettamente i suoi rapporti con tutte le verità sussistenti. Che è come dire, che nessuna (ancorchè menoma, ancorchè evidentissima e chiarissima e facilissima) verità, è stata mai nè sarà mai pefettamente ed interamente e da ogni parte conosciuta. (26 Maggio 1821).
[121] Zib. pp. 4142-3: “Deducendo dalla esistenza del mondo la infinità e quindi la divinità del suo creatore, voi mostrate supporre che il mondo sia infinito, e d’infinita perfezione, e che manifesti un’arte infinita, il che è falso, e se ciò è falso, niente d’infinito si dee attribuire all’autore della natura. Vedi p. 4177. Lascio anche stare le innumerevoli imperfezioni che si ravvisano, non pur fisicamente, ma metafisicamente e logicamente parlando, nell’universo. Del resto quello che nella struttura ec. del mondo e delle sua parti, per esempio di un animale, a noi pare ammirabile, e di estrema difficoltà ad essere immaginato, non fu infatti niente difficile. ” ((Ci si permetta di osservare due cose: a) Se il mondo fosse infinito ed infinitamente perfetto, sarebbe esso Dio. La prova dell’esistenza di Dio non nasce dal bisogno di un Infinito (Dio) a spiegare la creazione di un infinito (mondo), ma viceversa dalla necessità di Dio infinito a spiegare la finitezza delle cose tutte, che, essendo mobili per natura, mostrano la loro imperfezione e, quindi, la necessità di un “Motore immobile” che dia ragione della loro esistenza. b) che la esistenza di un animale o comunque della vita sia cosa difficilissima è dimostrato dal fatto che buona parte delle persone esistenti anche nel secolo ventunesimo, non ammette un’evoluzione senza un’Intelligenza infinita programmatrice e provvidente: una evoluzione puramente casuale è ancora oggetto di disputa e di contesa fra le due metà dell’umanità colta)).
Zib. p. 1413: “Le cose sono come sono perchè così debbono essere, stante la natura loro assoluta, o quella delle forze e dei principii (qualunque essi sieno) che le hanno prodotte. Se questa natura fosse stata diversa, se le cose dovessero essere altrimenti, altrimenti sarebbero, nè però sarebbero men buone e men bene andrebbero (o vogliamo dire più cattive e camminerebbero peggio) di quel che fanno ora che son così come noi le veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e che ci pare artifizio mirabile, sarebbe (e se noi lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine e inartifizio totale ed estremo. Niuno artifizio insomma è nella natura, perchè la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in un tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente all’andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec. (Bologna, 8 Ottobre 1825).
[122]
Zib. pp. 1616-8. Noi si è già citato la prima parte della p. 1617, come
continuazone del ragionamento di 1616: se si prescinde da Dio e dall’ordine di
fede (soprannaturale, lo dice Leopardi), non c’è motivo di credere nella
assolutezza di qualsiasi ordine di cose (del vero e del buono, per esempio). Ora
tale pensiero si ribadisce e specifica: “ Fuori di questo, e tolto questo, non
resta alcun’altra ragione per credere assolutamente buona, cattiva, insomma
vera qualsivoglia cosa. Ma, veduto che
le nostre idee non dipendono da altro che dal modo in cui le cose realmente
sono, che non hanno alcuna ragione indipendente nè fuori di esso, e quindi
potevano esser tutt’altre, e contrarie; ch’elle derivano in tutto e per tutto
dalle nostre sensazioni, dalle assuefazioni ec.; che i nostri giudizi non hanno
quindi verun fondamento universale ed eterno e immutabile ec. per essenza; è
forza che, riconoscendo tutto per relativo, e relativamente vero, rinunziamo a
quell’immenso numero di opinioni che si fondano sulla falsa, benchè naturale,
idea dell’assoluto, la quale, come ho detto, non ha più ragione (1618) alcuna
possibile da che non è innata, nè indipendente
dalle cose quali elle sono, e dall’esistenza. (3 Settembre 1821). La
distruzione delle idee innate distrugge altresì l’idea della perfettibilità
dell’uomo. Pare tutto l’opposto, perchè se tutte le sue idee sono acquisite,
dunque egli è meno debitore e dipendente della natura, e quindi si può e deve
perfezionar da se(sic). Ma anche le idee degli animali sono acquisite, nè essi
sono perfettibili. Distrutta colle idee innate l’idea della perfezione
assoluta, e sostituitale la relativa, cioè quello stato ch’è perfettamente
conforme alla natura di ciascun genere di esseri, si viene a rinunziare alle
pazze idee d’incremento, di perfezione, di acquisto di nuove buone qualità (che
non son più buone per se stesse come si credevano), di perfezionamento
modellato sopra le false idee del bene e del male assoluto ed assolutamente
maggiore o minore; e si conclude che l’uomo è perfetto qual egli è in natura,
appena le sue facoltà hanno conseguito quel tanto sviluppo che la natura gli ha
primitivamente e decretato, e indicato.
Si noti per altro che L. parla della non perfettibilità della specie umana: a
p. 1619 dice infatti: “Nè la perfezione sua (dell’uomo come genere), o quella di
verun altro genere, può mai crescere: bensì quello dell’individuo ec. (3
Settembre 1821)” Come si accordano le due cose?
[123] Zib. p. 1772: “Senza questi sillogismi intermedi nessun sillogismo vale, e siccome questi ordinariamente si omettono, o non son giusti, però infiniti sillogismi son falsi, perchè non è vero il rapporto che noi, o non sillogizzando punto, o falsamente sillogizzando, supponiamo fra la maggiore e la minore, fra queste e la conseguenza. Qui potrei dimostrare che ogni sillogismo, cioè ogni atto ed ogni nozione della nostra ragione, avendo bisogno di più altri sillogismi, e questi di più altri in infinito, si arriva al non poter trovare verun principio nè fondamento assoluto alla nostra ragione, non potendo arrivare a un primo sillogismo che non abbia bisogno di più altri. Così è infatti, e questa è la sostanza, la ragione, la spiegazione e il risultato del mio sistema, e qui (benchè non sembri) consiste il metodo che io tengo per dimostrarlo.” Ci si permetta di osservare che il ragionamento umano non abbisogna di una infinità inconcludente di sillogismi, per il fatto che ad un certo punto si perviene a dei princìpi evidenti od assiomatici che fanno da fondamento definitivo ai sillogismi successivi. Dirò che questo abbaglio del Leopardi è frutto della notevole parte di autodidattismo su cui era basata la sua cultura: se avesse avuto un maestro di scienza logica appena appena competente, un’obiezione del genere non gli sarebbe mai passata per la mente. Ma tant’è, il Leopardi troppo s’è fidato del suo isolato ragionare e sarebbe stato un miracolo il non cadere in insufficienza di osservazioni (defectus elenchi) o in sofismi di passaggi incongrui e arbitrari (inconsequentia).
[124] Zib. p. 2232; “La legge Cristiana essenzialmente e capitalmente e in modo che senza ciò ella non sussiste, prescrive di amar Dio sopra tutte le cose, i prossimi come se stesso per amor suo, e se stesso non per se stesso, ma per amor di Dio; ond’è ch’ella comanda ancora l’odio di se stesso ec. Ora torcete la cosa quanto volete, siccome per una parte non potrete mai negare che la legge Cristiana non obblighi assolutamente l’uomo a porre un altro essere al di sopra di se stesso nel suo amore per ogni verso, così nell’ultima e più sicura ed infallibile analisi della natura (non solo umana, ma vivente, anzi di quella natura che sente in qualunque modo la propria esistenza) troverete che questo è dirittamente e precisamente impossibile, e contradditorio al modo reale di essere delle cose” (7 Dicembre 1821).” No, quando si è scoperto che il mezzo necessario a volere il proprio bene è quello di stimare-amare gli esseri secondo la loro preminenza ontologica: mettere Dio come primo amore è la via più sicura per potenziare la propria personalità ed incrementare il proprio essere.
Zib. p. 391: “Il bene non è assoluto ma relativo. Non è assoluto nè primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente. Non assolutamente perchè la natura delle cose poteva esser tutt’altra da quella che è; non relativamente, perchè in questa medesima natura tal qual esiste, quello ch’è bene per questa cosa non è bene per quella, quello che è male per questa è bene per quell’altra, cioè gli conviene. La convenienza è quello che costituisce il bene. L’idea astratta della convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose in qualunque ordine e natura. Ma l’idea concreta di essa convenienza è relativa. Non si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro, cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene, perchè il bene non è bene se non in quanto conviene alla natura degli esseri rispettivi. Solamente, questo si può dire degl’individui rispetto ad altri individui della stessa specie. Ogni specie dunque ed ogni individuo in quanto è conforme alla natura della sua specie, è perfetto, e possiede la perfezione: (perfezione relativa, ma non essendoci perfezione assoluta, cioè tipo di perfezione, nessun essere o specie è più perfetta di un’altra) possiede tutto il bene che è bene per (392) lui, perchè il resto non sarebbe bene...”
[125] Zib. 1643-6: “ Ma se Dio è superiore alla morale, se il buono o cattivo non esiste assolutamente ec. Dio non può egli ingannarsi in ciò che ci ha rivelato, promesso, minacciato ec.? No, perch’egli ci vieta d’ingannare. La legge ch’egli ci ha data, quel modo del suo essere ch’egli ci ha (1644) manifestato, la maniera in cui l’ha fatto, i rapporti che ha preso con noi, i doveri che ci ha prescritti verso lui, verso i nostri simili, verso noi stessi, ciò che ci ha proibito, gl’insegnamenti che ci ha dato, la verità che ci ha fatto amare, la natura in cui ci ha formati, l’ordine di cose che ha stabilito, ec. decidono del modo in cui egli deve portarsi verso di noi, cioè ha voluto e vorrà portarsi, si è portato e si porterà. Altrimenti non sarebbero buoni i suoi rapporti verso noi, e quindi egli non sarebbe buono o perfetto, cioè conveniente ed in intera armonia rispetto a noi, ed a quest’ordine di cose, che egli poteva bene tutt’altrimenti costituire, ma ha costituito in questo tal modo in cui l’ingannare è male. Il nostro modo, la nostra facoltà di ragionare è giusta e capace del vero, quando si restringe all’ordine di cose che noi conosciamo o possiamo conoscere, e che in qualche maniera ci appartiene, ed alle cose che vi hanno rapporto, in quanto ve lo hanno. Io non distruggo verun principio della ragione umana (nè in quanto alla morale, nè a tutto il resto): (1645) solamente li converto di assoluti in relativi al nostro ordine di cose ec. La Religione Cristiana, come ho già detto, resta tutta quanta in piedi (restano quindi i suoi effetti, le sue promesse ec.), non come assolutamente vera e necessaria indipendentemente dalle cose quali sono, e dal modo in cui sono ec. ma relativamente e dipendentemente in origine dall’arbitrio di chi potendo stabilire e ordinar la natura ben altrimenti, o non stabilirla ec. la stabilì però, ed in questa tal guisa ec. Sicchè quanto a noi, quanto agli effetti ec. la cosa è tutt’una. (5-7 Settembre 1821). Da che l.e cose sono, la possibilità è primordialmente necessaria, e indipendente da checchè si voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione è assoluta, com’io dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed è quindi necessaria e preesistente al tutto l’infinita possibilità. Ma questa non può esistere senza un potere il quale possa fare che le cose sieno, e sieno in qualsivoglia modo possibile. Se esiste l’infinita possibilità esiste l’infinita onnipotenza, perchè se questa non esiste, quella non (1646) è vera. Viceversa non può stare l’infinita onnipotenza senza l’infinita possibilità. L’una e l’altra sono, possiamo dire, la stessa cosa. Se dunque è necessaria l’infinita possibilità, preesistente al tutto, indipendente da ogni cosa, da ogni idea ec. (ed infatti se non v’è ragione possibile perchè una cosa sia impossibile, ed impossibile in tal modo ec., la infinita possibilità è assolutamente necessaria); lo è dunque ancora l’onnipotenza. Ecco Dio: e la sua necessità dedotta dall’esistenza, e la sua essenza riposta nell’infinita possibilità, e quindi formata di tutte le possibili nature. Ec. questa idea non è che abbozzata. Vedi la p. 1623. (7 Settembre 1821).
[126] Zib. p. 1341-2: “In somma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaraia, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere, o non essere in quel modo ec. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque, non possa non essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili. Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, nè mai fu, o, se esiste o esistè non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi nè potendo avere il menomo (1342) dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscendo al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo assolutamente perfettissimo. Ma queste perfezioni, sono tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in un solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in altri luoghi: e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente: nè sono perfezioni in se stesse, e separatamente considerate, ma negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ec., nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ec. e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto, e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili; ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ec. Anche la necessità di essere, o di essere in tal modo, e di essere indipendentemente da ogni cagione, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio. (18 Luglio 1821).
[127] Zib. p. 1341: già citato alla nota precedente (la nota 125) il brano cui si riferisce Amerio. Però interessa tutta la pagina ed anzi tutto il ragionamento, che inizia addirittura a p. 1339. Eccolo: “”Insomma questa idea benchè entri subito nel bello ideale, è figlia della madre comune di tutte le ide, cioè dell’esperienza che deriva dalle nostre sensazioni e non già di un insegnamento e di una forma ispirataci ed impressaci dalla natura nella mente avanti l’esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello che mi tocca provare si è, che queste sensazioni, sole nostre maestre, c’insegnano che le cose stanno così, perchè così stanno, e (1340) non perchè così debbano assolutamente stare, cioè perch’esista un bello e un buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni, (e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perchè tutto ci è insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di essere ec. e perchè nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec., la quale abbia un fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendentemente da loro. Or dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci deriva dalle sensazioni relative ai soli soggetti esistenti? supporre il bello e il buono assoluto, è tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate, dopo averle distrutte, giacchè tolte queste, non v’è altra possibile (1341) ragione per cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariaamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire, assolutamente. (17 Luglio 1821).” Ma, se le nostre cognizioni derivano tutte e solo dalle sensazioni; se queste (attraverso la ragione) ispirano in tutti e necessariamente i prinìpi universali di identità, non contraddizione, reciprocità, transizione ecc., allora in base a quale principio (fuori da ogni esperienza) si può affermare come possibile un ordine di cose basato su princìpi diversi e contradditori, quando uno dei princìpi dell’esperienza (ripetiamolo: unica sorgente di cognizioni per Leopardi) è proprio quello di “non contraddzione”? Leopardi “incidit in foveam quam fecit” e non se ne accorse.
[128] Zib. pp. 4168-9: “L’uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d’opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria alla natura dell’uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità unicamente, dall’uomo, cercata e procacciata continuamente dall’uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non v’è setta, non v’è filosofia, nè tra gli antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta concordia nel rimanente? Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch’è un ente di ragione? Il fine dell’uomo, il sommo suo bene, la sua felicità non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono, benchè per natura dell’uomo sieno, il necessario fine dell’uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente, dall’uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono prova); e ciò perchè il sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato (4169) dalla natura dell’uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11 Marzo, Vigilia della Domenica di Passione, 1826, Bologna).
L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla agli altri che gli succedano per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. –Spaventevole ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente; se anche egli prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistenza è per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gli individui nè per le specie. Da ciò necessaraiamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna, 11 Marzo 1826).
[129] Zib. p. 1792: “Si può dire (ma è quistione di nomi) che il mio sistema non distrugge l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e rende assoluto ciò che si chiama relativo. Distrugge l’idea astratta ed antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto (1792) e imperfetto indipendentemente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così e sono così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità estrinseca e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire si moltiplicano, e in modo ch’essi ponno essere e diversi e contrari fra loro; laddove finora si è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente buono o cattivo; restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a’ soli relativi, e loro idee. (25 Settembre 1821).
[130] Zib. pp. 4133-4: “ Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi solo sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che l’essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l’ordine eterno del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poichè essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione della natura essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d’una menoma parte della (4134) natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all’andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, e tanto più sempre, quanto più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose (9 Aprile, Sabato in Albis, 1825). Vedi p. 1437. Eppure in Zib. p. 603, il 4 Febbraio 1821, egli doveva affermare “la materia non ci par capace di quegli effetti che notiamo e vediamo operati dall’anima”, che era quanto riconoscere che la ideazione astratta (dalle sensazioni) e la volontà libera (dalle spinte istintive) facevano dell’uomo il “re dell’universo” non per opinione gratuita, ma per dimostrazione fondata...
Zib. p. 4171: “La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell’antica, come un progresso della medesima. Questo è il punto di vista sotto cui gli scrittori e gli uomini generalmente la sogliono riguardare; e da ciò segue che si considera la civiltà degli ateniesi e dei romani nei loro più floridi tempi, come incompleta, e per ogni parte inferiore alla nostra....E veramente l’uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie, di civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse specie di civiltà, distinte non solo per semplici nuances.... ma per caratteri speciali, essenziali, determinati dalle circostanze, e spesso e in gran parte dal caso...” (Bologna, Martedì santo, 1826, 21 Marzo).
[131] Amerio cita da “Scritti vari inediti”. Nella Mondadori, il progettato inno ad Arimane, è in Le poesie e le prose, I, p. 434.
[132] Tra gli stessi “Idilli”, le poesie migliori ci sembrano L’Infinito, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta (prime due parti), Il sabato del villaggio, Il passero solitario. Molto suggestiva anche l’apertura de La sera del dì di festa. Buono, ma non perseverante nella sublimità, il canto Le ricordanze. Fuori degli Idilli, va tenuto presente l’inizio dell’Ultimo canto di Saffo; la buona carica lirica de Il risorgimento; la intensità suprema dei versi A se stesso. E neppure sono da spregiarsi alcuni brani della canzone All’Italia, intensi liricamente, per nella sfasatura patetica di tutta la composizione.
[133] Riporteremo tutti i nove endecasillabi in nota a p. 85.
[134] L’accostamento al Petrarca è ovvio. Come Laura è deuteragonista rispetto alla varia storia sentimentale del poeta, così Silvia ed Aspasia, la luna o la ginestra, la siepe o il passero solitario... sono solo funzioni dell’unico problema del poeta, quello della propria infelicità, cui tutto è subordinato.
Soccorre qui la teoria proustiana delle “memorie spontanee”: un particolare dell’ambiente suscita un sussulto del cuore ed il regresso a persone e vicende collegate con il problema centrale dello scrittore. Per Leopardi, questo è il problema della felicità e, quindi, del senso e valore dell’umana esistenza. Il fenomeno è proprio di tutti i poeti lirici: si pensi al valore mitico del colore del vestito in Beatrice, per il Dante de La vita nova; od all’istintivo collegamento della notte col pensiero della pace e del riposo, dagli affanni della vita, nel Tasso anche epico. E si noti: il passaggio da spunti esterni a descrizioni di psicologia propria diventerà aridamente ossessivo in Cesare Pavese, nel suo diario “Il mestiere di vivere”.
[135] Ci si accorgerà facilmente della differenza fra le “illusioni attive, conquistate dall’uomo” nel Foscolo e quelle “passive, unicamente date e tolte dal destino”, in Leopardi. Per il Foscolo, le illusioni sono creature di una volontà reattiva al destino, che in circostanze, casuali ma pur non impossibili, possono rimediare almeno momentaneamente alla tragedia della vita, con folgorazioni di apparentamento, sia pur precario e magari effimero, fra genio e gloria, fra giustizia e premio, tra bellezza e bontà. Per il Leopardi, esse sono un dato di natura, che non si possono nè raccomandare nè esaltare, ma solo sperimentare ingenuamente avanti di scoprirle, sgomenti, come puri sogni di un’età fanciulla, miti di una conoscenza inesperta. Le illusioni di Foscolo sono costruzione umana e frutto di un animo combattivo e fattivo, tutto sommato fiducioso, alla radice, nella capacità dell’uomo a contrastare il destino; quelle di Leopardi sono (forse più coerentemente, certo più disperatamente) un puro dato fisiologico, su cui l’uomo non ha poteri di modificazione o di reazione. Il pessimismo di Foscolo ha un punto di speranza su cui far leva per cooperare a mutare in meglio il mondo; quello di Leopardi è resa incondizionata alla onnipotenza di qualcosa (la sorte? la fortuna? il destino?...) cui è inutile tentare di resistere. Al più, colla solidarietà fra gli umani, come auspicato ne La ginestra, l’unione rassegnata e non renitente degli uomini potrà limitare i danni e consolare i soggetti alla schiavitù della natura matrigna e maligna.
[136] Si può vedere anche l’Indice analitico allestito dal Flora per i due volumi dello Zibaldone mondadoriano, alle voci “Memoria” e “Rimembranza”. Si noterà, per le citazioni da noi estratte, come il Leopardi continui ad estrapolare, dal proprio modo di sentire e vedere un paesaggio, ad una legge universale di poetica: l’uomo, in materia, anche ormai trentenne (la nota è de114 Dicembre 1828), mancava di senso critico. Egli ritiene che vi siano cose e luoghi non resi lirici dal poeta, ma tali in sè o solo per la memoria che richiamano!
[137] “Tu” è riferito alla “speranza”, con cui si apre l’ultima strofa. (“Anche peria fra poco| la speranza mia dolce...”)
[138] Manzoni, I promessi sposi, c. X.
[139] Nei versi degli Idilli si trovano singoli versi sorprendenti, quasi pepìte d’oro in un contesto appena sufficiente (Alla luna: “nel tempo giovanil, quando ancor lunga| la speme e breve ha la memoria il corso”; La vita solitaria: “O cara luna, al cui tranquillo raggio| danzan le lepri nelle selve”| Al conte Carlo Pepoli: “Io tutti| della prima stagione i dolci inganni| mancar già sento, e dileguar dagli occhi| le dilettose immagini, che| tanto amai...”; Il tramonto della luna: “...e vede| che a sè l’umana sede,| esso a lei veramente è fatto estrano”:::). Anzi se ne trovano anche nelle prime canzoni (“Vissero i fiori e l’erbe,| vissero i boschi un dì”: primi due versi nella terza strofa di Alla primavera o delle favole antiche).
[140] Affinchè non si creino gli equivoci, generati dalla distinzione imperfetta fra “arte (letteraria)” e “poesia” nella Storia della Letteratura italiana Francesco De Sanctis, dichiariamo (a costo di ripeterci) che arte letteraria è sinonimo, per noi, di poesia; e che consideriamo le Operette morali una sufficiente o discreta poesia in prosa, come- ad un livello troppo più alto- I promessi sposi del Manzoni.
[141] Il poemetto (che è per natura poesia epica) Paralipomeni alla Batracomiomachia, fa bensì intervenire, sotto forma di granchi e di topi, i conservatori ed i rivoluzionari, ma non riesce a generare emozioni di caratura significativa: non supera il valore de “Gli animali parlanti” del Casti, cioè non giunge a scintille di poesia vera, rimanendo confinato nel limbro della dignitosa versificazione. Quanto alle Operette morali, in cui il dialogo è la forma più solita, non deve illudere su eventuali doti “drammatico-teatrali” del Leopardi: il dialogo degli attori esprime l’animo di un unico personaggio, il Leopardi stesso, che attribuisce a due persone diverse i dubbi e le sentenze contrastanti del proprio animo.
[142] Resta, dunque, nostra convinzione che pel ciclo di Aspasia non si può parlare di grande poesia, eccetto che per A se stesso (siamo confortati, in questo, dal parere di Natalino Sapegno: Garzantiana 1976, L’Ottocento, p. 852: “Solo nel breve canto A se stesso i risultati positivi dell’esperienza sentimentale sono riassunti nel loro significato universale e distaccato da ogni contingenza immediatamente biografica”). La “eroicità” che vi si vuol vedere (Walter Binni, ad esempio) è nel motivo ispiratore, ma non nella espressione emotiva: il lettore si sente piuttosto respinto dal tono iracondo della disperazione (Il pensiero dominante, Aspasia, terza strofa di Amore e morte) o amaramente ironico (Palinodia), quando non addirittura sarcastico (I nuovi credenti); o dalla dissolvenza incrociata fra dramma ed idillio (Amore e morte: prime due strofe). Senza dire che, badando solo ai motivi ispiratori, anche le parti meno riuscite dell’Ultinmo canto di Saffo e tutto il Bruto minore sarebbero da cosiderare canzoni eroiche. Che è davvero troppo e da nessuno sostenuto. Di più: se si confrontano le Operette morali pubblicate con gli abbozzi editi postumi (Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio|... di un filosofo greco, Murco, senatore romano, popolo romano, congiurati|... tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro|... del cavallo e del bue|... Galantuomo e Mondo), ci si accorge che il tono di questi ultimi è vicino alla “immediatezza” complessiva delle cosiddette composizioni seguenti al Canto notturno (ciclo di Aspasia sino a La Ginestra): manca il lavoro di lima o manca l’estro della improvvisazione dei momenti più felici. Si tratta di pesantezza espressiva non di forza emozionale. D’altronde, lo stesso canto A se stesso è elegiaco per gran parte: solo la finale è drammatica.
[143] I concetti di questi versi (dal 28 al 36) come il musicalismo del vocabolario suonano epicizzanti. Eppure, a nostra impressione, il tono non si solleva sopra l’idillio: pensiamo che dipenda dalla nube di tristezza che si prolunga dai versi che precedono e che si sospetta (come di fatto accadrà) continui poi.
[144] La terza e ultima strofa (vv. 46-60) è meno alta come
intensità. La riportiamo qui, in nota: “
Tu, solingo augellin, venuto a sera| del viver che daranno a te le stelle,|
certo del tuo costume| non ti dorrai; che di natura è frutto| ogni vostra
vaghezza.| A me, se di vecchiezza| la detestata soglia| evitar non impetro,|
quando muti questi occhi all’altrui core,| e lor fia voto il mondo, e il dì
futuro| del dì presente più noioso e tetro,| che parrà di tal voglia?| Che di
quest’anni miei? che di me stesso?| Ahi pentirommi e spesso,| ma sconsolato, volgerommi
indietro”.
[144] “Fra idillio ed epicità”. Si tratta, a nostra
impressione, di una gioia mossa, drammatica e non semplicemente contemplativa.
Pure, il tono emotivo non è abbastanza grandioso per essere definit “epopea”.
Come per Il Risorgimento parlerei di
“esultanza”.
[144] “La quiete dopo la tempesta” nei primi trenta versi (una stanza e mezza o poco meno, delle tre di cui consta) esprime quella gioia lievemente epicizzante, di esultanza appunto: e ne stiamo citando le espressioni poetiche più importanti. Il resto è di tono drammatico contestatorio che non convince del tutto: il dramma del rimprovero diventa anche sarcasmo (“O natura cortese| son questi i doni tuoi,| questi i diletti sono| che tu porgi ai mortali. Uscir di pena| è diletto fra noi...”), ma non va al di là di un lirismo appena sufficiente.
[145] Citiamo in nota le tre strofe centrali, meno sublimi, tranne qualche verso che sottolineeremo: “Vecchierel bianco, infermo,| mezzo vestito e scalzo,| con gravissimo fascio in su le spalle,| per montagna e per valle,| per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,| al vento, alla tempesta, e quando avvampa| l’ora, e quando poi gela,| corre via, corre, anela,| varca torrenti e stagni,| cade risorge, e più e più s’affretta,| senza posa o ristoro,| lacero, sanguinoso; infin ch’arriva| colà dove la via| e dove il tanto affaticar fu volto:| abisso orrido, immenso,| ov’ei precipitando, il tutto oblia.| Vergine luna, tale| è la vita mortale.|| Nasce l’uomo a fatica,| ed è rischio di morte il nascimento.| Prova pena e tormento| per prima cosa; e in sul principio stesso| la madre e il genitore| il prende a consolar dell’esser nato.| Poi che crescendo viene,| l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre| con atti e con parole| studiasi fargli core,| e consolarlo dell’umano stato:| altro ufficio più grato|| non si fa da parenti alla lor prole.| Ma perchè dare al sole| perchè reggere in vita| chi poi di quella consolar convenga?| Se la vita è sventura,| perchè da noi si dura?| Intatta luna, tale| è lo stato mortale.| Ma tu mortal non sei, e forse del mio dir poco ti cale.|| Pur tu, solinga, eterna peregrina,| che sì pensosa sei, tu forse intendi,| questo viver terreno,| il patir nostro, il sospirar, che sia;| che sia questo morir, questo supremo| scolorar del sembiante,| e perir dalla terra, e venir meno| ad ogni usata, amante compagnia.| E tu certo comprendi| il perchè delle cose, e vedi il frutto| del mattin, della sera,| del tacito, infinito andar del tempo.| Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore| rida la primavera,| a chi giovi l’ardore, e che procacci| il verno co’ suoi ghiacci.| Mille cose sai tu, mille discopri,| che son celate al semplice pastore.| Spesso quand’io ti miro| star così muta in sul deserto piano,| che, in suo giro lontano, al ciel confina;| ovver con la mia greggia| seguirmi viaggiando a mano a mano;| e quando miro in cielo arder le stelle;| dico fra me pensando:| A che tante facelle?| Che fa l’aria infinita, e quel profondo| infinito seren?| che vuol dir questa| solitudine immensa? ed io chi sono?| Così meco ragiono: e della stanza| smisurata e superba,| e dell’innumerabile famiglia;| poi di tanto adoprar, di tanti moti| d’ogni celeste, ogni terrena cosa,| girando senza posa,| per tornar sempre là donde si mosse;| uso alcuno, alcun frutto| indovinar non so. Ma tu per certo,| giovinetta immortal, conosci il tutto.| Questo io conosco e sento,| che degli eterni giri,| che dell’esser mio frale,| qualche bene o contento| avrà fors’altri: a me la vita è male.”
[146] La distinzione fra sincerità (del poeta) e verità (della condizione umana) si impone: i motivi per cui la vita dell’uomo dovrebbe essere una sventura totale, assomigliano a quelli di papa Innocenzo III nel De miseria humanae conditionis (o De contemptu mundi): sono verità parziali che non riescono a demolire la sostanziale positività e bontà dell’uomo, cioè di un essere, la cui nobiltà e grandezza consiste nel fatto di riuscire a porre dei pensieri astratti e degli atti liberi, qualunque siano, poi, le doti fisiche ed i successi terreni che gli toccano in sorte. Successi che l’umanità nel suo complesso ha poi attuato in misura imponente, almeno sul piano scientifico-tecnologico.
[147] Questa sinergia fra idillio e dramma, la trovo per la prima volta in Leopardi. Nasce (mi pare) da un inaspettata liberazione dalla sventura, per cui sulla gioia della salvezza (idillio) incombe ancora il ricordo e il freno dello spavento e del timore (dramma): è per questo (crediamo) che la gioia “mossa o drammatica” non dà il senso dell’epopea, ma solo di una sua tonalità affine: cioè di un idillio mosso, vivace, eppure ancora turbato da sofferenze residue. L’abbiamo chiamato “ESULTANZA”
[148] Abbiamo messo in corsivo questi versi che ci sembrano puramente idillici.
[149] Il Sabato del villaggio potrebbe esser diviso in tre parti: i vv. 1-15 sono dell’idillio mosso, esultante, come ritornano ad esserlo i versi delle ultime due strofette (vv. 38-51). La parte centrale (vv. 16-37) è molto più vicina all’idillio puro, ma senza sbalzi clamorosi: abbiamo preferito riportarla tutta assieme.
[150] Sugli aspetti positivi del pessimismo leopardiano, insistono sia Francesco De sanctis (lo citiamo parlando dello stile peculiare all’espressione della tenerezza), sia don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione.
[151] Lirismo delle opere minori. Nelle canzoni prime, vi è enfasi, cioè un conato di epicità patetica. L’enfasi nasce da sproporzione, come il comico, cui si avvicina. Ad esempio, ne All’Italia si esprime una epicità retorica, in cui la volontà battagliera del poeta per liberare la patria è solo fantasia: tutti sentono che quel “io solo| combatterò, procomberò sol io” (vv. 37b-38) è un proposito “come da copione”, sicchè nessuno pensa che il poeta voglia seriamente quel che dice di volere. Nessuno, infatti, pensa che il Leopardi sia ingenuo fino al punto dal porre azioni che non servirebbero a nulla: se lo dicesse sul serio, in tal caso la espressione risulterebbe non retorica, ma ridicola. L’enfasi patetica è confermata dalle troppe domande retoriche (strofa seconda, vv. 25- 36) ed esclamazioni (“..Oh viva, oh viva:| beatissimi voi| mentre nel mondo si favelli o scriva”: vv. 118-20). Così in Ad Angelo Mai è eccessivo il giudizio negativo sulla società del tempo (“Italo ardito, a che giammai non posi| di svegliar dalle tombe| i nostri padri?”) e, fra domande retoriche (sei nella prima stanza) ed esclamazioni focose (vv. 72-3: “Oh te beato,| a cui fu vita il pianto!”| vv. 111-112: “O torri, o celle,| o donne, o cavalieri,| o giardino, o palagi!”| v. 121: “O Torquato, o Torquato...”) conduce avanti una condanna del tempo suo, che vuol esser drammatica, un’esaltazione del tempo antico (Torquato Tasso) ed una esortazione ai tempi avvenire. Tutte intenzioni epiche, ma falsate dalla impostazione irragionevole della visione della sua età. Pretese epiche hanno anche A un vincitore nel pallone, Sopra il monumento di Dante, Nelle nozze della sorella Paolina, ma rimangono inattuate. Collera meschina, personale che non sa elevarsi a generosa ira universale è presente nelle parti difettose dell’Ultimo canto di Saffo ed in Bruto minore, mentre nelle ultime composizioni (Aspasia, Amotre e morte, Il pensiero dominante) la velleità esaltatrice (domande ed esclamazioni retoriche) si mescola a scatti iracondi. Nei Paralipomeni, si ha chiarezza nella esposizione razionale, ma aridità nella espressione risultante.
[152] Diamo la metrica di tutte le composizioni pubblicate vivente il poeta. Endecasillabi sciolti: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, Consalvo, Le ricordanze, Aspasia, Al conte Carlo Pepoli, Palinodia al marchese Gino Capponi, Inno ai Patriarchi.. Canzone libera leopardiana: Il passero solitario, Alla sua donna, A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Il tramonto della luna, La ginestra, Sopra un bassorilievo sepolcrale, Sopra il ritratto di bella donna. Altri metri: Canzone (quasi regolare): tutte le prime composizioni: All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla primavera o delle favole antiche, Ultimo canto di Saffo. Abbiamo detto “quasi regolare” la struttura di queste composizioni giovanili: fin dalla prima canzone (All’Italia), le stanze non sono tutti uguali fra loro, ma vi sono due schemi, diversi per l’alternarsi di endecasillabi e settenari: uno per le strofe dispari ed uno per quelle pari. Terzine dantesche: Il primo amore (era intitolata: “Elegia prima”; una Elegia seconda, sempre in terzine dantesche, rimase fra gli inediti sino alla morte del poeta).
Quartine doppie metastasiane: Il Risorgimento.
[153] Si notino questi particolari sulla provenienza di spunti per alcune poesie. Per il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il Leopardi tenne presente due composizioni del veneziano Celio Magno (1536-1602), del quale egli aveva posto delle liriche nell sue Crestomazie per l’editore Stella (“Vago augellin gradito” e “Deus”): “Deh l’ali avessi anch’io...”; “Apre nascendo l’uom pria quasi al pianto...”: cfr. Garzantiana 1976, Il Cinquecento, p. 452-4). In A Silvia vi possono essere echi da Gerolamo Fracastoro (poemetto Syphilis): “Paullatim ver id nitidum flos illa iuventae” (id. ib., p. 453). Per la Palinodia a Gino Capponi, si può vedere Gabriello Chiabrera, Sermone XVII (cfr. Carmine Jannaco, Il Seicento, Milano F. Vallardi, 19 p. 266).
[154] Da chi? e dove?????????????????????????????
[155] Il Dialogo di Tristano e di un amico, composto nel 1832, fu inserito solo nella edizione fiorentina del 1834.
[156] Della “serietà del pessimismo estremo dell’opera”, che implicava sfiducia nella Provvidenza, anzi il suo rifiuto, si accorse tardi e imperfettamente anche la congregazione romana “dell’Indice”, che solo nel 1850 lo mise nel catalogo dei libri proibiti, per di più con la formula benigna “donec corrigatur” (cioè, finchè non si correggano alcuni particolari: l’opera, nel suo complesso, non era giudicata contro la fede!).
[157] Le Operette stanno ai “grandi idilli” come le Osservazioni sulla morale cattolica stanno ai Promessi sposi. Entrambe le opere son servite a precisare, definire, approfondire, organizzare il pensiero antropologico dei loro autori, facendone un possesso così definitivo e sicuro, da permettere, per ciò stesso, alla loro mente di sfruttarne con duttilità idee e termini al servizio della loro espressione lirica, della loro spontanea incarnazione nel mondo delle più diverse vicende e personaggi da loro creati. Dopo la meditazione diuturna del proprio pensiero attraverso le opere in prosa, nello svolgimento di quelle, nel linguaggio di questi, esso poteva insinuarsi, ormai, con quella naturalezza e delicatezza, che lo rendeva portavoce dei sentimenti profondi che erano ormai la sostanza, la vita dei due scrittori, senza il bisogno di forzature come la retorica o l’enfasi oratoria.
[158] Si veda Mario Fubini, Introduzione alla edizione de I canti, Torino, Utet, 1930 (Loescher, 1964); ed Emilio Bigi, Lingua e stile delle Operette morali, in “Dal Petrarca a Leopardi: studi di stilistica storica”, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954.
[159] Questo Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere è stato imitato da Ennio Flaiano ne L’ombre bianche (L’invasione, pp. 123-9), una raccolta di più che discrete canzonature, edito a Milano, Rizzoli, 1972.
Per lo Zibaldone, le 931 Lettere ed i 111 pensieri non crediamo il caso di concedere un posto particolare in una storia della letteratura, se non in quanto documentazione dei “motivi ispiratori”, come si è già fatto. Diamo qui alcune citazioni fra i brani più segnalati, per dare un’idea della loro pochezza poetica. Cominciamo dalla dedica “agli amici suoi di Toscana” per la edizione fiorentina dei Canti, presso Piatti, 1831 (Mondadori, Poesie e Prose, I, LXXXII): vi è una tristezza effusiva, che ritroveremo nelle dediche di Pascoli (quella di Myricae, ad esempio). Dallo Zibaldone riportiamo alcune impressioni, che fanno pensare a certi meravigliosi versi degli idilli:. Ecco l’inizio dell’opera: “Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passare del viandante: -Era la luna nel cortile, un lato| tutto ne illuminava, e discendea| sopra il contiguo lato obliquo un raggio...| Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro| del passegger, che stritolando i sassi| mandava un suon, cui porecedea da lungi| il tintinnio de’ mobili sonagli”-. Si noti che le espressioni, in corsivo già nel testo, sono versi ed accennano a più di un passo “lunare” e paesaggistico degli idilli: ma qui è poco più che prosa. Del 1820 è quest’altro pensiero: “Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente il giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando a’ Romani così caduti dopo tanto rumore e ai tanti avvenimenti ora passati, ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco”. Qui echeggiano addirittura concetti de L’Infinito, ma in arida prosa. Dello stesso anno: “Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive, nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. O pure situazione trasportata alla profondità della notte o al mattino ancor silenzioso e all’età consistente”.
I Pensieri hanno più facilmente una intonazione epigrammatica, di stile guicciardiniano (vedi ad esempio il pensiero 51 per conoscere la stima del recanatese verso l’autore dei “Ricordi”). Ma alla sostenutezza epicizzante dello storico e politico toscano, si sostituisce nel Leopardi una perentorietà acre, una animosità impaziente, una latente aggressività, una protesta corrucciata. Si tratta di un tono cupo e drammatico. Si leggano i pensieri I (“Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi”; II (“la potestà paterna appresso tutte le nazioni che hanno leggi, porta seco una specie di schiavitù dei figliuoli”); III (“L’usanza del secolo è che si stampi molto e che nulla si legga”); VI (“La morte non è male: perchè libera l’uomo da tutti i mali e insieme coi beni gli toglie i desideri”); XXIII (“Quello che si dice comunemente che la vita è una rappresentazione scenica, si verifica soprattutto in questo, che il mondo parla costantissimamente in una maniera, ed opera costantissimamente in un’altra”); XXVIII (“Il genere umano... si divide in due parti: gli uni usano prepotenza, e gli altri la soffrono”)... La loro osticità emotiva fa da parallelo alla unilateralità e persino manipolazione delle pur acute notazioni psicologiche, in cui i sofismi come “ab uno disce omnes” e “ ab aegrotis disce bene valentes”, “ab insanis disce homines mentis suae compotes”, “a me aegroto et misero disce hominum omnium, vel felicissimorum, sortem, ”, generano quelle sentenze. Leopardi non conosce l’equilibrio della via media nè il grigio della mediocrità: per lui esistono solo il nero od il bianco, i buoni invidiati ed insidiati ed i malvagi promossi e fortunati. Con questi criteri, le sue sentenze rischiano di risultare una fonte ricchissima di documentazione in favore della concupiscenza e del peccato originale che ne è la sorgente, ma dimostrano anche malauguratemente che egli non incontrò mai, nella sua vita, un cristiano coerente e santo. O non riuscì ad accorgersene, visto che Alessandro Manzoni e Gino Capponi li ha pur conosciuti e frequentati. Che rano dei galantuomini meritevoli della fama e fortuna di cui godevano.
[160] Nel già ricordato Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818).
[161]
Non si critichi il fatto che Foscolo è
considerato supremo con un minor numero di versi: quelli dei Sepolcri
costituiscono un caso a sè, non solo nella produzione poetica italiana, che
neppure L’Infinito ed A Silvia (come neppure i versi di Manzoni, Carducci, Pascoli) possono
uguagliare. Un corollario didattico se ne dovrebbe ricavare è quello di non
superare gli 8-10 canti da assegnare come obbligatori al programma d’italiano
per l’esame di maturità. La difficoltà a scegliere gli altri cinque esigiti dai
criteri tradizionali è documentata dalla noia degli studenti e dalla protesta
dei più intelligenti fra loro. Esperienza vissuta da chi scrive.
[162] Si può vedere in proposito il bel manuale di Mario Puppo –Il romanticismo- edito a Roma da Ave???????
[163] Che egli si prospetti come renitente al fato (Amore e Morte) e non renitente ala morte (La ginestra) non pare avere senso e, perciò, neppure esprimere una contraddizione: che sono mai il fato|destino|sorte|natura se si riducono a leggi inconsapevoli, se non sono persone ma puri avvenimenti casuali (Dialogo della Natura e di un Islandese)? Che vuol dire “non renitente alla morte” (La ginestra), se la morte è un ente di ragione, cessazione di vivere cosciente sulal terra?.
Ma ne abbiamo già parlato.
Qui potrebbe anche accennare al tentativo di iscrivere il dramma del poeta in una genesi socio-politica, anzichè religioso-filosofica, messo assieme da qualche critico marxista come C. Luporini. La proposta è risultata così fuori luogo che nel campo stesso marxista si è trovato che l’ha esorcizzata (S: Timpanaro).