GIOSUÉ
CARDUCCI (1835-1907)
27
luglio 1835: nasce a Valdicastello (Versilia, Lucca) da Michele (medico) e da
Ildegonda Celli.
1838-1849: cresce in Maremma, tra Cecina e San
Vincenzo, al seguito del padre, meidco condotto in vari paesi della regione
(fra cui Bolgheri e Castagneto Carducci (Livorno). [1]
1849-1856: trasferitasi la famiglia a Firenze, può
frequentare per la prima volta scuole regolari: dapprima, presso i padri
Scolopi del San Giovannino (1850-’52), dove ebbe maestri validi, come, in
lettere, Geremia Barsottini, manzoniano e patriota; e alla Scuola Normale di Pisa, poi (1853-56). Carducci è dottore in
filosofia e filologia.
1856-1860: insegna un anno nel ginnasio di San Miniato (due scolari in tutto)[2]:
la sua condotta ancora goliardica, i debiti lasciati e le voci circa le sue
opinioni irriverenti in fatto di religione e di autorità, lo mettono in cattiva
luce, sì che non vi ritorna[3].
Egli vive dando lezioni private e collaborando all’edizione di classici
italiani presso l’editore Barbéra di Firenze. Intanto il fratello Dante si
uccide nel novembre 1857. A dir il vero ci sono voci autorevoli (però non di
testimoni oculari) per le quali Dante sarebbe stato ucciso (involontariamente)
dal padre Michele: e qui la storia è costretta ad indovinare.
Il padre muore l’anno successivo; egli sposa Elvira
Menicucci nel 1859 (dopo 10 anni di fidanzamento: figlia della prima moglie di
Francesco Menicucci, che, in seconde nozze, sposerà la sorella della madre di
Giosué), che gli darà la figlia Beatrice nel dicembre. Con questi impegni di
famiglia (ha a suo carico la madre e il fratello ultimo, Valfredo), egli
giustificherà la mancata partecipazione, come volontario, alla guerra
risorgimentale del 1859.
Il nuovo governo, intanto, lo chiama ad insegnare nel liceo di Pistoia (1855-1860), ma già
nel settembre del 1860 il ministro Terenzio Mamiani gli offre la cattedra di
eloquenza all’Università di Bologna: Carducci la terrà fino al 1904, quando gli
succederà il Pascoli, il più grande dei suoi alunni.
1860-1907: la vita di Carducci non ha più grandi
vicende esterne, ma presenta un dinamismo irrequieto nel campo del pensiero,
della collocazione politica, degli indirizzi letterari.
Iscrittosi ben presto alla massoneria, col suo
magistero a Bologna, sia come cattedratico che (più ancora) come poeta,
acquista notevole influsso sulla vita pubblica. Egli diventa il maestro più
ascoltato della nuova Italia e contribuisce in maniera unica a formare la
mentalità dell’universitario “medio” dell’Italia post-unitaria: con un approfondimento
dello spirito anticlericale, massonico ed anzi immanentistico in sede
religiosa; con un accostamento al positivismo in sede filosofica, con una
rianimazione degli spiriti e criteri classici nella dottrina e nella prassi
poetica, con una metodologia prevalentemente storico-filologica nel campo della
critica letteraria. Quello che il Manzoni (pur senza cattedra universitaria)
era stato per la società letteraria italiana nel trentennio fra il 1820 e il
1850, lo fu, in dimensioni molto dilatate, il Carducci per la seconda metà del
secolo.
In campo letterario, egli, polemista focoso,
interviene dapprima contro i tardoromantici pratiani (e contro lo stesso
Manzoni); in seguito si scaglierà contro i “panciuti zoliani”, e contro il
verismo alla francese, pervaso da un’insolente volgarità. In campo politico,
egli si schiera contro la Destra moderata che governa fino al 1876: è
mazziniano, repubblicano (Carlo Salinari, Storia della letteratura, Milano,
Garzanti 1976, VIII, pp. 536-43), per qualche tempo filosocialista (l’acme di
questa mentalità giacobina si avrà nel 1871); col 1878 (Ode alla Regina) egli ripiegherà sempre più verso l’appoggio alla
classe al potere, specialmente da quando la guiderà F. Crispi, di cui appoggia
la poliica di forza e grandezza anche colonialista, in nome della
tradizione di Roma antica. Nel 1890
sarà eletto senatore a vita e diverrà anche Cavaliere di Gran Croce.
Accanto ai riconoscimenti ed al successo che
culmineranno col premio Nobel nel 1906, ci sono però sventure pesanti e pesanti
sbandamenti morali.
Nel 1870 perde la madre e il figlioletto Dante di
tre anni [4];
nel 1871 inizia la relazione sua più famosa, con Carolina Cristofori Piva,
moglie di un colonnello garibaldino dei Mille[5];
nel 1885 (a 50 anni) ha il primo attacco di paresi, da cui si rimette. Ma la
vecchiaia fu triste, per la progressiva decadenza fisica: persa quasi del tutto
la parola, dovette abbandonare la cattedra col 1904. Morì il 16 febbraio 1907.
ELENCO DELLE
OPERE PRINCIPALI[6]
Poesie:
Juvenilia [7],
Levia Gravia[8],
Giambi ed Epodi, Rime nuove, Odi barbare, Rime e ritmi, Canzone di Legnano
Prose [9]:
1.
Scritti
autobiografici: A proposito di alcuni
giudizi su Alessandro Manzoni (interssa la prima parte: 1873); Le risorse di San Miniato (1883); Ça ira
(interssa il IV paragrafo: 1884).
2.
Discorsi:
Per la morte di Garibaldi (1882); Discorsi di Lecco (1891); La libertà perpetua di San Marino
(1894).
3.
Scritti
polemici (e giornalistici): Il secondo
centenario di L.A. Muratori (1872); Critica
e Arte (1874); Moderatucoli (1879);
Ça ira (1884); Sfogo (1887).
4.
Scritti
di critica letteraria: Dello svolgimento
della letteratura nazionale (1868-1871); Dante e l’età che fu sua (1866-67), Saggi su Dante in genere, come Delle rime di Dante (1865) L’opera di Dante (1888)…; Pietro Metastasio (1882); Il libro delle prefazioni (1888: sono
prefazioni all’edizione di opere presso l’editore Barbéra); Commenti alle Rime: di Dante, di
Petrarca e del Poliziano; Studi su Ariosto, Tasso, Parini, Leopardi, Manzoni.
5.
Lettere: alcune vive e sentite (quella
autobiografica ad Angelo De Gubermantis del
?????? ; quella del 10 luglio
’77 a Carolina Cristofori Piva (XI, p. 90).
Note alle
raccolte delle poesie:
1.
Juvenilia: sono 100 poesie composte
fra il 1850 e il 1860 (il Prologo in
doppi quinari, di cui il primo sdrucciolo,
è del 1865-67). Sono divise in 6 libri. Di essi, il primo si ispira a
temi personali di amore, di nostalgie, di luoghi e paesaggi toscani; il secondo
comprende celebrazioni di amici, di divinità, di ideali e di santi. La forma è
quella del sonetto, imitato dal due-trecento mentre si tenta già l’ode saffica.
Il terzo celebra la rievocazione di poeti della nostra letteratura. Il quarto
presenta temi vari; il quinto, polemiche; il sesto (Estate 1859-60), motivi patriottici. Del volume (che rifondeva
alcune delle rime di San Miniato, prima edizione di sue poesie, stampate nel
1857) Carducci affermerà: “Mossi, e me ne onoro, dall’Alfieri, dal Parini, dal
Monti, dal Foscolo e dal Leopardi; per essi e con essi risalii agli antichi, mi
intrattenni con Dante e Petrarca”. (Raccoglimenti,
1871: in Prose, Zanichelli, p. 418).
2.
Levia Gravia: sono 30 poesie, comprese
il Congedo (iniziale) e l’Inno a Satana (finale: 1863) composte
fra il 1861 e il 1871. Dei due libri in cui sono divise, il primo tratta motivi
occasionali; il secondo, temi patriottici e politici. Egli ne parla così:
“….fantasie di gioventù e dolori ed esperimenti della vita; cose leggere per
sentimento e per stile, mescolate ad altre gravi per le stesse ragioni…”.
3.
Giambi ed epodi: 30 poesie (precedute dal Prologo iniziale e seguite dall’Intermezzo che, iniziato nel 1874, è
però stato finito solo nel 1886) composte tra il 1867 e il 1879: hanno in
comune il contenuto polemico, aggressivo, satirico, imitando i Giambi di Archiloco (e del poeta
francese Augusto Barbier, 1805-82, autore di Jambes) e gli Epodi di
Orazio. Il primo libro: polemica politica (contro i Moderati) e religiosa
(contro la Chiesa); il secondo agggiunge quella sociale e storica. Di essi così
dirà: “Nei Juvenilia sono lo scudiero
dei classici, nei Levia Gravia faccio la mia veglia d’armi; nel Decennalia (il primo titolo di Giambi ed epodi), dopo i primi
colpi di lancia un po’ incerti e consuetudinari, corro le avventure a tutto mio
rischio e pericolo” (Raccoglimenti: Prose, p. 7-8). In altre parole:
Carducci esce dalla concezione della poesia come rifugio di arcadici
vagheggiamenti e consolazioni o come ricerca di raffinatezze espressive ed
eleganze stilistiche (l’arte per sé solo; l’arte per l’arte); e si tuffa invece
nella realtà più scottante delle vicende contemporanee per denunciare e
condannare, per mutare e migliorare (l’arte per la vita, l’arte impegnata: il
poeta diventa “vate”, cioè profeta o araldo dei suoi tempi). Giambi e epodi rappresentano quasi un
secondo noviziato poetico del Carducci e lo preparano alla grande poesia delle Rime Nuove, alle prospettive, cioè,
della produzione successiva, che allarga l’orizzonte della ispirazione alla
storia, alla società, alla problematica esistenziale, oltre che alla natura, all’amore,
all’autobiografismo. Il risultato immediato, però, è mediocre. Giambi ed epodi manifestano più buona
volontà ed impegno, che intensità poetica (lirismo ed emotività pura ed
assoluta): sono appassionati, ma troppo immediati; rabbiosi, proprio perché non
decantati; sono espressione più istintiva che razionale dei sentimenti.
4.
Rime nuove: 105 poesie (comprese il Congedo finale e 11 traduzioni) composte
tra il 1861 e il 1887: contengono la poesia più alta del Carducci con i più
tipici suoi motivi ispiratori (non polemici, però): i primi due libri
riprendono temi letterari (Alla rima,
Il sonetto, Omero, ecc…); il
terzo è paesaggistico (con problematica esistenziale implicata, però); il
quarto tratta di amicizie ed amori; il quinto è autobiografico; il sesto
presenta temi storici (ballate storiche); il settimo è formato dai dodici
sonetti di Ça ira (rivoluzione
francese); l’ottavo consta di traduzione da Herder, Von Platen, dallo spagnolo
e dal portoghese, dall’antico francese, da Heine e da Hölderlin, da Goethe e da
Uhland.
5.
Odi Barbare: 57 poesie, comprendenti un
Preludio, un Congedo e cinque traduzioni (da Klopstock e da von Platen), scritte
tra il 1877 e il 1889 (salvo alcune prodotte fin dal 1873). “Queste odi io le
intitolai “barbare”, perché tali sembrerebbero agli orecchi e giudizio dei
greci e dei romani”. Difatti si tratta di composizioni scritte secondi i
“metri” (schemi poetici) classici di Grecia e di Roma, ma senza tener conto
della “quantità” (durata
musicale) delle sillabe, fattore
fondamentale in quelle lingue: al suo posto il Carducci calcola il numero delle sillabe e la posizione degli accenti come nella
comune poesia neolatina, ottenendo risultati musicali solitamente diversi dalle
lingue classiche, eccetto che per la strofa alcaica e per quella saffica, dove
i “metri” coincidono perché anche Greci e Latini finirono per fissare il numero
delle sillabe (oltre che la loro quantità
e gli accenti, in questi schemi elaboratissimi). Ad esempio l’esametro
latino è ottenuto con l’accoppiamento di un settenario e di un novenario (ma
anche di un quinario o senario con un novenario). Mancano le rime, ignote
all’antica metrica. Pur non essendo una novità assoluta (già tentati da Leon B.
Alberti nel ‘400 sino a Giovanni Fantoni nel ‘700), le “Barbare” di Carducci
rappresentano il tentativo più riuscito di trasferire in italiano i metri
classici. Occorre dire però che le Odi
Barbare sono meno intense di quelle
che seguiranno col titolo di “Ritmi” nell’ultima collezione di poesie
carducciane (Rime e Ritmi). In realtà
questi due libri di “Barbare” (il primo di rievocazioni storiche, il secondo
autobiografico, paesaggistico, occasionale, di riflessioni esistenziali) sono
quasi il terzo noviziato poetico del Carducci: egli deve imparare ad usare una
lingua (metrica) nuova: la disinvoltura e padronanza del metro verrà in
seguito; e, allora solo, potranno esserci anche le espressioni più intense.
6.
Rime e ritmi: 29 poesie composte dal
1887 al 1898: le “rime” sono composizioni in metrica tradizionale italiana; i
“ritmi”, in metrica greco-latina (come le “Barbare”). I motivi ispiratori
dell’unico libro sono vari, come per le “barbare”: autobiografia, storia,
paesaggi, tema esistenziale od occasionale.
7.
Il parlamento (parte prima -e unica
realizzata- della progettata “Canzone di Legnano”: lasse di endecasillabi
sciolti).
N.B. Le
poesie più riuscite del Carducci (a nostro parere)
1.
Juvenilia: Prologo; Alla croce di Savoia.
2.
Levia Gravia: Poeti di parte bianca; A Satana.
3.
Giambi ed epodi: La sacra di Enrico V; Il
canto dell’amore; Intermezzo.
4.
Rime Nuove: Il sonetto; Il bove; Virgilio; Funere mersit
acerbo; Santa Maria degli
Angeli; Traversando la Maremma
Toscana; Pianto antico; San Martino; Idillio
maremmano; Davanti San Guido; Notte di maggio; La leggenda
di Teodorico; Comune rustico; Sui
campi di Marengo; Faida di comune;
Ninna nanna a Carlo V; Ça ira (12 sonetti); I tre canti; La tomba nel Busento; L’imperatore
della Cina.
5.
Odi Barbare: Nell’annuale della fondazione di Roma; Dinanzi alle terme di Caracalla; Alle fonti del Clitunno; Per
la morte di Napoleone Eugenio; Miramar;
Nella piazza di San Pertronio; Alla stazione in un mattino d’autunno; Mors; Canto di marzo; Sogno
d’estate.
6.
Rime e ritmi: Piemonte; Jaufré Rudel;
Bicocca di San Giacomo; La chiesa di Polenta; Presso una certosa; Mezzogiorno alpino.
7.
Il Parlamento
Delle prose, le più riuscite sono quelle
autobiografiche; seguono da presso gli scritti polemici, giornalistici e i discorsi
segnalati.
Fisicamente picnico: piccolo, ma
robusto nel tronco, su gambe esili, con viso colorito (tipico “habitus
apoplepticus”, cioè candidato alle paresi per disturbi di circolazione da
ipertensione arteriosa).
Temperamento: emotivo (capace di
trasmettere emozioni), attivo (capacei di trascinare all’azione), primario (od instabile). Tipico temperamento
collerico. Gli manca la passionalità stabile del secondario, perché la sua
emotività ed attivismo sono incrinati da una componente nervosa ricorrente, che
lo porta ad alternanze di momenti euforici e depressi, di impulsività grandiose
e di tetraggini disperate.
Cicloide, con tendenze maniaco-depressive: il padre
era stato prono alla collera ed all’instabilità di luogo e di rapporti con le
persone, peggiorando con l’età; irrequieto e violento, era stato accusato di
aver lui ucciso il figlio Dante, sia pure involontariamente; in ogni caso, il
suicidio del fratello, come di altri parenti (cfr. Lettere: 10 maggio 1877,
volume XI, p. 90, ove insinua egli stesso tali disposizioni psicologiche),
confermano purtroppo la diagnosi. G.B. Salinari (cit., p. 544) afferma: “Gli
mancava l’eguaglianza del carattere, che era soggetto a mutamenti improvvisi ed
era facile agli scoppi di collera” .
È proprio a carico di questa “ideografia
temperamentale” (tetanoide prevalente) che i suoi scritti autobiografici
risultano una continua conferma: “Invasato così di ardore epico e di furore
repubblicano e rivoluzionario, io sentivo il bisogno di traboccare il mio
idealismo nell’azione; e per ciò in brigata co’ i miei fratelli e con altri
ragazzi del vicinato organizzavo sempre repubbliche, e repubbliche sempre nuove[10],
ora rette ad arconti ora a consoli ora a tribuni, pur che la rivoluzione fosse
la condizione normale dell’essere, e cosa di tutti i giorni l’urto tra i
partiti e la guerra civile”. E ancora: “Tutte le mattine io mi sveglio con un
maledetta voglia di fare ai pugni: il mio primo saluto al sole è uno sbadiglio
che par quello del Gonnella quando diventava lupo, quaerens quem devoret
(cercando chi divorare): il primo sentimento onde mi si annunzi la vita sana è
il bisogno della lotta per l’esistenza: “Quindi serpe in noi miseri un natio /
delirar di battaglie…”. Lettori miei maligni, per mortificare questa parte
ferina della mia natura, che dal fondo delle viscere ulula e bramisce verso l’alto,
contro gli uccelletti e le farfalle svolazzanti tra i merli della torre
dell’intelletto, io faccio, come i contadini, l’impossibile: tutte le mattine
butto addosso al corpo quanto più acqua fredda posso. All’anima un’ora o una
mezz’ora di lettura di testi di lingua, massime ascetici…
Nel medio evo di tanti e sì pazienti sforzi per
domare la parte ribelle e inferiore avrei potuto raccogliere di gran bei premi.
Mi sarei fatto monaco: chi sa non mi avessero fatto papa? E allora, giù colli
d’imperatori! Super aspidem et basiliscum. Oggi non c’è che da essere
commendatori; e tutti i fastidievoli smorfiosi e i mariuoli
procaccianti…possono impunemente scrivermi delle lettere che incominciano così:
Ella - o, per farmi più ira,
manzonianamente, Lei, - che è tanto buono e
tanto gentile… - Ma chi ve l’ha detto? No, io non sono buono: non sono
un corrotto. No, io non sono gentile: non mento…”[11]
Fantasia: potremmo definirla “solare
e apollinea”, altrettanto (e forse più) sensibile alla visività cromatica e
plastica, coloristica ed alla dimensione cinetica del reale (senso del moto)
quanto alla musicalità ed alla dimensione astratta, filosofica della parola.
Ciò significa che Carducci fu un poeta figurativo, cromatico, tridimensionale,
mosso almeno quanto musicale; e forse più che propriamente intellettuale,
ragionatore, filosofo.
Intelligenza: parallelamente alla
fantasia, era più concretizzante che astraente, più particolare che universale,
più esistenziale che essenziale, più storica che filosofica, più intuizionistica
che sistematica, più felicemente sintetica che tormentosamente analitica.
Una simile individualità, fin quando è sana e forte,
possiede certo il fascino di una vitalità e di un vigore sconvolgenti; una
vastità e varietà di orizzonti culturali sorprendenti: ma le manca la
profondità e la passione per i problemi filosofici, la coerenza delle
soluzioni; gli mancano l’organicità e la profondità del pensiero, che sublimano
Dante e Manzoni.
Gli stessi Leopardi e Foscolo, pur solamente
intuitivi o almeno poco ragionativi, sono comunque più appassionatamente
interessati ai problemi filosofici che non il Carducci, più acuti ed essenziali
negli interessi intellettuali.[12].
Ne dovremo constatare le incertezze culturali e l’instabilità di pensiero.
Questo non toglie, neppure a distanza di decenni, la verità di quanto ne
scriveva il Momigliano: (Carducci) “è l’ultima tempra d’uomo che abbia avuto la
nostra poesia, l’ultimo poeta che nel mondo non abbia veduto soltanto sé
stesso…È un uomo più quadrato, più ricco di fantasia che Pascoli e D’Annunzio,
e più complesso di entrambi nel suo svolgimento poetico”. Benedetto Croce lo ha
definito un Omerida: che è anche il nocciolo del giudizio di Giovanni Papini
nel suo studio appassionato “L’uomo Carducci”. Ma questi ultimi due considerano
solo i vantaggi di un tale personalità (sanità, forza, concretezza, solidità),
ignorando il rovescio della medaglia (superficialità, incoerenza,
particolarismi, arbìtri) che tale giudizio comporta[13].
L’AMBIENTE [14]
Distinguiamolo in tre dimensioni: militare e
politico-sociale; culturale e morale-religioso; letterario.
1.
Militare e politico sociale: è teso e incoerente,
complesso e dinamico per tutta la vita del poeta. Nella puerizia-adolescenza e
primissima giovinezza, prevale la componente austriaca del Congresso di Vienna
(Metternich fino al 1848; il Granduca di Toscana, che sempre più appoggia
Vienna, fino al 1859): ma in famiglia
il padre è già scopertamente[15],
impazientemente liberale e, imprigionato per i moti del 831, guiderà i
contadini, partecipando anche a tentativi di moderate riforme, richieste
sociali (revisione dei patti agrari) in quelli del 1848, durante i quali Giosuè
(con altri ragazzi) pianta a Castagneto l’albero della libertà. A intridere in
tale liberalismo punti di socialismo o almeno forti istanze sociali, era la
situazione economica della zona di Bòlgheri, dove c’era un solo proprietario:
il conte della Gherardesca. Dopo il 1849, Carducci, tra gli influssi vari di
una situazione complessa e dinamica, opta sempre più coscientemente per quelli
liberali: in tal senso agiscono ancora il padre e anche l’ambiente degli
Scolopi, dove Geremia Barsottini è liberaleggiante. Ma è invece il pregiudizio
letterario che lo induce ad accusare come “germanico e antinazionale” il
romanticismo e a fondare gli “Amici Pedanti”, con volontà di restaurare la
purezza linguistica e la tradizione stilistica in letteratura, quasi che
classicismo fosse sinonimo di nazionalismo. Colla seconda guerra del
risorgimento, il suo fiero repubblicanesimo cede all’ondata di simpatia
generale per i Savoia: ma è per poco tempo, ché le difficoltà della destra al
potere durante gli anni 1861-76 sia sul piano politico (Venezia e Roma) che su
quello sociale (deficit della bilancia commerciale e sviluppo caotico del paese)
danno voce formidabile (nella Emilia Romagna almeno, dove ormai il Carducci
vive) al repubblicanesimo, alle ideologie socialistiche ed anzi anarchiche. Il
giacobinismo si rivela contestatario della tradizione tutta, religiosa e
politica e sociale: antitemporalismo e anticlericalismo, anticristianesimo e
massoneria, immanentismo e antireligioneria non hanno confini ben definiti e si
trovano rimescolati e prendono il sopravvento nella mente (più calda, vasta e
varia che logica, coerente e sistematica) del poeta. Egli reagisce anche
all’ambiguo comportamento di Napoleone III, che si appoggiava ai moderati ed ai
cattolici; risente dell’affossamento nel sangue della Comune di Parigi
(1870-71) ed al periodo di governo borghese e di repubblica senza repubblicani
che vi fa seguito in Francia; subisce il fascino della bellicosità prepotente
di Bismarck, che si rivela ben presto il soffocatore della voce popolare e il
sostegno delle monarchie, dell’ordine tradizionale, nobiliare e borghese, degli
imperi centrali contro le aspirazioni all’indipendenza delle nazioni, dalle
Venezie per l’Italia a tutta la penisola balcanica. E infine egli recalcitra
impaziente contro il governo incerto e faticoso della destra storica che in
modo inglorioso riceve il Veneto da Napoleone; che con la “Convenzione di
settembre” sembra rinunciare a Roma; che reprime duramente le mosse di
Garibaldi ad Aspromonte e gli procura la sconfitta di Mentana. Alla fine, però,
l’esempio di amici garibaldini allineatisi con il governo (Benedetto Cairoli, Giuseppe
Zanardelli, Francesco Crispi) dovette pesare sul suo atteggiamento. Le idealità
romano-classiche di Carducci ammettevano una componente imperiale. Sicché –
alla distanza – una simile politica trovava in lui il fondamento per una intesa. E siccome nel fenomeno bismarchiano vi è una componente molto
importante, la durata e la vittoriosità irrefrenabile e travolgente, a un certo
anche l’Italia entra nel gioco di Bismarck e la trascina verso la corsa al
potere coloniale, al seguito delle grandi potenze europee. Nel frattempo i
problemi sociali si fanno bensì più aspri, ma assumono anche sempre più il
carattere di lotte per un benessere maggiore e non solo per il necessario
nutrimento puro e semplice: l’Italia è un paese povero che lotta per la ricchezza,
non un popolo in misera che annaspi per la sopravvivenza[16].
L’Italia si avvia alla bell’époque col resto dell’Europa e con la moneta
cartacea che fa aggio sull’oro, per le rimesse degli emigranti. Carducci
cammina verso i sessant’anni, ma risente di tale atmosfera.
Dapprima è complessivamente cristiano ma non senza
tensioni incipienti: il padre, politicamente liberale, è cattolico convinto e
manzoniano. Come si legge nella prima parte di “A proposito…”, Giosué dovette
sorbirsi, da ragazzo, le “Osservazioni sulla morale cattolica” e l’Adelchi (del
Manzoni), i “Doveri dell’uomo” (del
Pellico) e la Vita di S. G. Calasanzio, come letture-punizioni per le sue violente scapataggini. Questa
prospettiva “penale” (e la sproporzione della età con i contenuti delle opere)
si assommarono poi alla obbligatorietà dello studio degli Inni Sacri presso gli
Scolopi, controbilanciando il fascino dei “Promessi Sposi” che egli – ragazzo
poco più che decenne – aveva letto e riletto con “molta curiosità”. D’altronde,
già prima dei 14 anni (quando entra in collegio) aveva letto (di nascosto dal
padre) anche la storia della Rivoluzione francese del Thiers, nonché opere del
Sismondi, del Guerrazzi e del Niccolini che comunicavano ben altri tipi di
messaggi. Al momento questi poterono non essere compresi nella loro
contraddizione con la concezione cristiana della vita: ma coi fatti del ’48 e
’49, “Il cardinale Borromeo scappò per sempre nella carrozza dell’ambasciatore
di Baviera con Pio IX, che aveva benedetto l’Italia; padre Cristoforo si fece
un po’ monatto, morì bene: morì con Ugo Bassi. In quella vece, Arnaldo da
Brescia ebbe ragione, le strofe del Berchet rivissero tutte negli avvenimenti,
l’assedio di Firenze divenne un fatto vivo a Venezia e a Roma….” (“A
proposito…”).[17]
Il collegio e l’università approfondiscono il
distacco dalla Chiesa, se non ancora dal Cristianesimo: l’antigermanesimo
diviene antiromanticismo e questo diviene antimanzonismo e antiguelfismo, visto
che in Toscana Gino Capponi era intimo del Manzoni e neoguelfo.[18]
Il groviglio del potere temporale con le guerre di unità d’Italia premono nello stesso senso di distacco e di ostilità fra cattolicesimo e pensiero nazionale. Tanto più che, dopo il ’60, la Massoneria inizia la sua diffusione esplosiva, monopolizzando il merito del risorgimento: Carducci vi si iscrive ben presto dopo l’arrivo a Bologna e l’epistolario documenta l’influsso del sodalizio sull’uomo. C. Salinari dice che fino al 1860-61, egli è ancora credente, alla maniera massonica (deismo improvvido: o. c. pp. 538-539).
Carducci vi si ascrive ben presto dopo l’arivo a
Bologna e l’epistolario documenta gli influssi del sodalizio sull’uomo[19].
Grazie anche ai ricordi amari per lo stato di
feudalesimo latifondista trovato a Castagneto, il Carducci risentirà della
tendenza “gracchiana” che è una delle anime delle dottrine socialistiche e
anarchiche, fermentanti nella società dell’Italia unita, presenti nei moti dopo
il Settanta: tendenze che verranno chiarite in lui anzitutto da letture di
autori francesi. Se, nella prima giovinezza, Thiers, Mazzini, Garibaldi,
Berchet, Guerrazzi, Niccolini erano stati maestri vittoriosi di pensiero,
appena arrivato a Bologna egli si procura altri mentori: Jules Michelet, Louis
Blanc, Pierre-Joseph Proudhon, Ippolito Taine, Voltaire e Edward Gibbon, Victor
Hugo, Heinrich Heine e Wolfgang Goethe (questi ultimi li consideriamo qui non
come letterati, ma come portainsegna di libero pensiero).
La conoscenza della letteratura tedesca con
l’apertura al pensiero e alla letteratura europea, compresi scrittori romantici
come Hugo, sono dovuti all’influsso di Emilio Teza, docente di lingue classiche
comparate a Bologna. Dagli uni riceve messaggi (o solo o più propriamente)
filosofico-religiosi; da altri, anche politici e sociali.
Queste letture avvengono durante gli anni della
delusione liberale-cavurrina (la “destra storica” al potere): tutte questi
componenti spingono Carducci sempre più a sinistra.
Attorno al 1878 avvenimenti socio-culturali che
riescano ad incidere [20]
sul suo pensiero non è facile registrarne. Accadono invece vicende personali o
famigliari decisive. Del 1870 sono alcuni fatti che lasciano un influsso
durevole su di lui: la morte della madre e soprattutto del figlioletto Dante (ucciso involontariamente dallo stesso poeta
e padre, con un calamaio scagliatogli in un momento di collera? ritorna lo
spettro del rapporto fra Michele ed il maggior Dante, fratello di Giosuè?)
Il dolore che ne consegue lo lascia aperto ad ogni
novità o ritorno. La delusione a livello familiare si traduce nell’accoglienza
(“lo sventurato rispose”) delle proposte di conoscenza e d’amore della
Cristofori Piva. In realtà non fu senza rimorsi questo primo tradimento
dell’amore coniugale, anche se ad esso seguono (e con tale amore convivono)
altri legami, mentre il giudizio sulla prima amante muta grottescamente,
passando dall’entusiasmo e dalle illusioni (le aveva attribuito 7 anni di meno
e l’aveva giudicata “schietta seppur maliziosa come tutte le donne”), al rimprovero
che le scriverà “per quanto tu abbi freddo il cuore e forse falsa l’agil
mente”.[21]
La Cristofori-Piva morirà di tisi nel 1882: ma nel
1877 troviamo già Una rama d’alloro
per Dafne Gargiolli Nazari…
Quando verrà
il primo attacco di paresi (1885), il disorientamento diventerà definitivo,
sino al telegramma di rifiuto alla continuazione delel visite del cardinal
Stampa al suo capezzale: egli vuol restare il cantore di Satana, della
negazione di Dio e dell’odio alla Chiesa.
Inizia con suggestioni manzoniane, di provenienza
paterna (“Leggete qui e persuadetevi che il taratantara classico non è più per
questi tempi”: A proposito di alcuni giudizi…: si noti il padre che da del “voi”
al figlio ancor ragazzo…).
Dall’elenco (che ci ha lasciato) dei libri letti
nella biblioteca paterna, i messaggi sono ambivalenti: il Monti e Omero (da
quello tradotto), Virgilio, Tasso e (a suo modo) G.B. Niccolini, ci riconducono
ad un classicismo sicuro: così come con Manzoni, Silvio Pellico, Francesco Domenico
Guerrrazzi e G. Giusti[22]
siamo sul binario sicuramente opposto del romanticismo. Dante e Petrarca fan da mediatori. Ma pel
momento Carducci entra in risonanza coi “Promessi Sposi”, con l’“Iliade”,
l’“Eneide” (meno) e “La Gerusalemme Liberata”: gli altri autori rimangono degli
indovinelli o lo annoiano (per la sproporzione tra la maturità ed esperienza
del lettore, da una parte e la non facile problematica dei testi, dal’altra).
Viene poi anche in contatto con altri scrittori romantici: Giovanni Prati, Luigi
Carrer, Tommaso Grossi, padre Geremia Barsottini (questo maestro scolopio, per
altro, lo avviò anche all’amore di Orazio). L’università completa il suo
bagaglio letterario, che viene approfondito negli studi connessi con la
pubblicazione dei classici per l’editore Barbéra, negli anni senza cattedra tra il 1857 e il 1859 (l’Alfieri,
Alessandro Tassoni, il Monti, Lorenzo de Medici, il Giusti, Salvator Rosa).
All’università di Bologna la sua visuale letteraria
si amplia e spazia anche colla mediazione linguistica di Emilio Teza, che gli
insegna il tedesco.
Si mette in contatto ed assimila (quando non anche
traduce) poeti dalle tendenze le più disparate, che presentino però alcune
delle costanti proprie del Carducci: o forza emotiva (grandiosità evocativa o
polemica); o interessi politico-umanistici in senso immanentistico; o eleganza
formale e cura dello stile: V. Hugo [23];
Honoré de Balzac, Gustav Fluabert, Theophile Gautier, Pierrre Jean Béranger,
Auguste Barbier, W. Goethe, Friedrich Hölderlin, Heindrich Heine, Friedrich
Gottlieb Klopstock, August von Platen, Ludwig Uhland e Percy Bysshe Shelley.
Allo Shelley è dedicata la 48.ma delle Odi
Barbare (Presso l’urna).
Col 1872 siamo certi che all’attenzione di Carducci
è presente anche Charles Baudelaire: Vendette
della luna (Rime Nuove, 70.ma) si
rifà al 37.mo dei “Petits poèmes” del poeta francese.
Tra i critici di letteratura, che lo interessarono
più degli altri, stanno Charles Augustin de Sainte-Beuve, Francesco De Sanctis,
Ippolito Taine[24].
Convergono così in lui componenti romantiche e
realistiche, classiche e decadentistiche: Carducci non è un poeta monolitico,
come sembra, a prima lettura, grazie alla coerenza lirica della tonalità
nettamente prevalente, quella della epopea.
IL PENSIERO
RELIGIOSO, ANTROPOLGICO, MORALE E POLITICO[25]
Concezione
religiosa: il paganesimo di Carducci.
Fu educato cristianamente dal padre,
cattolico-liberale (anche se alla madre si dichiarerà riconoscente….per non
averlo educato). Assimilò però, proprio nella casa paterna, suggestioni
diverse, perché il ragazzo Giosué leggeva di nascosto anche le opere non
raccomandate dal padre, fra cui Guerrazzi e Niccolini,. Venne poi la grande
confusione del 1848 che, dando il tracollo alle illusioni neoguelfe e agli
(ingiustificati, d’altronde) entusiasmi per Pio IX, condussero Carducci verso
il Mazzini (anche il liberalismo filomonarchico e filopiemontese era difatti
uscito sconfitto da Custoza e Novara).
Le incertezze e i dubbi si trascinano forse senza esiti
precisi - in sede religiosa – fino agli
anni universitari di Pisa (Scuola Normale: dottorato nel 1855, magistero nel
1856). Ne esce infatti con spiriti volterriani. Al primo esperimento didattico
a San Miniato al Tedesco (1856-57) egli lascia trapelare attorno a sé la fama
di empio: addirittura si sussurra che il venerdì santo sia entrato in trattoria
ordinando un pranzo di grasso in termini sacrileghi. Sebbene la cosa sia
smentita da lui nella magnifica prosa Le
risorse di San Minato al Tedesco, tuttavia egli deve ammettere che partecipando
solo “qualche volta” alla Messa domenicale, teneva poi un comportamento con gli
amici d’insegnamento, ancor imbevuti di spirito goliardico, da destare scandalo
fra le persone cristiane ( che erano praticamente quasi tutta la popolazione).
Del 1855-56, d’altronde, è l’inno, parodisticamente
sacro, Al beato Giovanni della Pace (Juvenilia, 81.mo): l’anticlericalismo si
rivela rifiuto del cristianesimo; l’antimanzonismo finisce in irreligiosità,
con espressioni blasfeme: la caricatura della scoperta di nuovi santi, con la
satira dei miscredenti praticanti e delle devote prostitute, fan sospettare la
perdita di ogni fede religiosa. Certamente l’anticristianesimo è scoperto: nei
versi 67-68 si dice “Il Cristianesimo/è
un romanzo che fa chiasso”.
Una lettera al Chiarini
(gennaio 1861: epistolario, II, 186) afferma: “Credi che co’ primi cristiani e
co’ critici cattolici mi son divertito. Del cattolicesimo già ne tratto come di
una cosa estranea come se non fossi cattolico, come infatti non sono. Del
cristianesimo parlo con grande indifferenza, ma con più equità, dicendo anche
del bene che ha pur fatto alle lettere.”
Queste dichiarazioni sono coerenti colla iscrizione
alla massoneria di quei primi anni di magistero bolognese. La negazione della
divinità di Cristo e la ostilità alla Chiesa[26]
rimangono imperterrite sino alla fine della vita. Si leggano queste famose
dichiarazioni alla contessa Pasolini: “Resta che ogni qualvolta fui tratto a
declamare contro Cristo, fu per odio ai preti; ogni volta che di Cristo pensai
libero e sciolto, fu un sentimento intimo. Ciò non vuol dire che io rinneghi
quel che ho fatto: quel che scrissi, scrissi; e la divinità di Cristo non
ammetto. Ma certo alcune espressioni sono troppe; ed io senza adorare la
divinità di Cristo, mi inchino al gran martire umano” (Epistolario
?????????????????’
Altri passi anticristiani
famosi sono in Alle fonti del Clitunno
(1876: Odi Barbare vv. 155-156); In una chiesa gotica (1876: Odi
Barbare, 9) Moderatucoli (prosa
del 1879).
d) Ma ecco l’Inno a Satana (1863)e
le Polemiche sataniche che ne
seguirono, raccolte nel 1869: siamo già al di là del pensiero della setta
massonica, che a quei tempi era schierata ancora col teismo (o deismo) delle
origini. In realtà rivelano un ateo. E la negazione di Dio (e della connessa
fede nell’immortalità dell’anima) si ripete spesso:
Dante
(Rime Nuove, n. 16 del 1867); “Muor Giove e l’inno del poeta
resta”); Versaglia (Giambi ed Epodi, n. 21 del 1871: “E il giorno venne: e ignoti, in un
desio| di veritade, con opposta fé| decapitaro, Emmanuel Kant, Iddio,|
Massimiliano Robespierre, il re”: a questi versi – 49-52 – ne seguono altri – 57-60 – che sono bestemmie;
Carlo I (Rime Nuove, n. 101 del
1872: “il dì lungi non è| che diverremo favola alle genti,| Dio nel ciel, ninna
nanna, e in terra il re”: sono imitazione-traduzione dal Romancero di Heinrich
Heine);
I tessitori (Rime Nuove, n. 104 ed ultima, del 1872, da Zeitgedichte di Heine):
bestemmie in cui si maledicono i valori più tradizionali, a cominciare da Dio,
per continuare col re e la patria);
Primavere Elleniche (la II, dorica, del 1872, sempre in Rime Nuove, n. 63:
“Muoion gli altri dei: di Grecia i numi| non sanno occaso…” vv 49-52);
I due Titani (Rime Nuove, n. 75, del
1873: Prometeo ed Atlante, ancor ribelli, bestemmiano Dio – Giove – come
tiranno);
Per le nozze di mia figlia (la n. 47 delle Odi
Barbare, scritta nel 1880: “nessuna| me Beatrice nei cieli attende”).
Ed egli rimase impenetrabile ai tentativi di
accostamento operati dal cardinal Svampa di Bologna, sul letto di morte,
facendo pubblicare il telegramma reciso “Né preci di cardinali né comizi di
popolo. Io sono qual fui nel 1867; e tale aspetto immutato e imperturbato la
grande ora. Salute.”. Il 1867 era stato l’anno della edizione di Giambi ed Epodi, cioè delle poesie più
violente contro la Chiesa, come Agli
amici della valle tiberina, Versaglia,
Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti,
Via Ugo Bassi, ecc…: con
negazioni e toni violenti che ritornano più tardi solo in Alla città di Ferrara (1895: terza parte delle Odi Barbare).
Eppure questa posizione non è così definitiva. Ancora nel 1896 (Rime e ritmi, n. 20: Per il monumento di Dante a Trento) si
può trovar una testimonianza di fede “Dal
profondo universo unico regna| e solitario sopra i fati, Dio” (vv. 17-18)[27].
Vi sono inoltre versi In un libro di preghiere per giovinetta accedente alla Prima Comunione:
“A te innanzi il giovin cuore| spiega candido il suo fiore,| nella prima luce
pia,| o Regina dell’amore,|o Sovrana nel dolore,| Santa Vergine Maria”. E vi
sono versi commossi Per un crocefisso
(contro quelli, blasfemi, della ode barbara In
una chiesa gotica).
Soprattutto, però, stanno i famosi versi delle
strofe 4° e 5° de La Chiesa di Polenta
(1897, Rime e Ritmi, n. 22), versi
che val la pena di riportare perché sono il motivo di fondo della composizione
tutta: “Ombra d’un fiore è la beltà su cui| bianca farfalla, poesia volteggia:|
eco di tromba che si perde a valle| è la potenza.| Fuga di tempi e barbari
silenzi| vince e dal flutto delle cose emerge|
– sola – di luce a’ secoli
affluenti| faro, l’idea.”
In apparenza si può credere che l’intento di
Carducci sia quello di esaltare il (libero) pensiero umano nei confronti di
altri valori della persona e della storia (bellezza e potenza). Ma il contesto
di tutta la poesia impedisce una simile interpretazione. La bellezza è caduca
come è effimera Francesca da Rimini, che nel castello dei Da Polenta ha abitato
signora, amante, vittima; la potenza è transitoria, come è stata appunto quella
dei Polentani, che vivono solo nei versi di Dante e non più nella realtà dei
discendenti, che, anche se ne conservano il nome, ne hanno perso però anche il
castello, simbolo della loro padronanza politica. La “idea” infine è quella
simboleggiata dalla chiesa che, pur privata del campanile, è però rimasta in
piedi, sola reliquia di tempi ormai antichi come i secoli del Medio Evo. In
definitiva, Carducci è qui trascinato a cantare il valore eterno della
religione come verità intramontabile e civilizzatrice: difatti nei versi seguenti,
è la Chiesa che sta al centro di una tragedia storica in cui la civiltà è
aggredita dai barbari e trova unico rifugio in Essa. E’ la Chiesa che riesce a
trasformare, anzi, in epopea il corso degli avvenimenti, perché pacifica gli
aggressori, fonde perseguitati e persecutori, ricavando da varie razze, culture
e nazioni l’unico popolo cristiano in un’Europa, ormai aperta alla civiltà
dell’idea, della verità che fonda i comuni (eredità romana) e le università (innovazione cristiana).
Pur prescindendo quindi dalla splendida finale,
che commuove nella contemplazione del
paesaggio, sorpreso nell’incanto dell’Ave Maria, che anuncia il tramonto del
sole, (si veda il precedente del canto ottavo del Purgatorio nella Commedia)[28],
rimane il fatto che senza la collocazione della “idea” nella verità (l’errore,
se perdurasse e sussistesse, non sarebbe motivo di canto epico ma di
indignazione fremente) e della verità nella “Chiesa”, l’ode barbara non avrebbe
senso. Questo riconoscimento della coincidenza della Chiesa con la idea-verità
è solo iperbole e retorica? Od è intuizione assentita, pur fugace e momentanea,
nel susseguirsi disordinato e disorganico di ipotesi di lavoro nella mente
filosoficamente mediocre del poeta maremmano?
Noi siamo del parere che si sia trattato di un
momento isolato ed “altalenante”, ma autentico, cioè sentito sinceraemnte: Si
tratterebbe di una di quelle impressioni di cui è ricco tutto il suo lavoro di
scrittore, per cui egli ondeggia ed oscilla fra opposte interpretazioni del
reale. Lo confessa egli stesso in Davanti
San Guido: “Ben lo sappiam: un pover uom tu se’.| Ben lo sappiamo e il
vento ce lo disse,| che rapisce degli uomini i sospir,| come dentro al tuo
cuore eterne risse| ardon, che tu né sai né puoi lenir”[29]: senza sapere che risposta dare agli eterni
problemi esistenziali, la vita diventa un mistero e l’uomo un enigma [30].
Ebbene, la Chiesa di Polenta (come,
in forma meno sicura) i versi or ora citati o quelli de In santa Maria degli Angeli, de Alla
Messa cantata rappresentano “il polo asseverativo” in sede religiosa
cristiana e cattolica . Ad essi si possono opporre le bestemmie, In una chiesa gotica, e il disprezzo
furente contro ogni forma di ascetismo (Alle
fonti del Clitunno).
È la stessa confusione che gli permetterà di scrivere:
“E muor per sempre (l’anima)…Ecco, io sono un materialista a mio modo, un po’
incoerente…Che muoia tutto intero e per sempre lo Sciah di Persia, per esempio,
o un critico milanese, nulla di più certo e nulla di meglio. Ma che sia morto
Giuseppe Mazzini, ma che tutto morisse Dante Alighieri, io non ne sono mica in
fondo persuaso. Troppo sento la religione degli eroi”.
In consonanza con queste incertezze, anzi,
contraddizioni, sono i vv. 33-48 di Levia
Gravia, n. 29 (Per il trasporto delle
reliquie di Ugo Foscolo in Santa Croce”: 1871).[31]
Né le citazioni da Heine (nella edizione Barbéra
delle Poesie, 1871) secondo cui egli non sarebbe materialista nel senso che
abbassa lo spirito alla materia, ma nell’opposto senso che spiritualizzerebbe
la materia, elevando questa a quello (“ich gebe vielmeher den Körpern ihren
Geist zurüch; ich durchgeistige sie wieder”) non cambia la posizione mentale
del poeta e ne denuncia i limiti
razionali o filosofici. L’idealismo, che fa della materia una emanazione, un
sottoprodotto dello spirito; ed il materialista, che fa dello spirito un
epifenomeno della materia, coincidono sostanzialmente: Ludovico Feuerbach, Karl
Marx e Friedrich Engels sono discepoli coerenti di Hegel, che li contiene e
porta in seno naturalmente. Aveva più acume Goëthe quando a Margrete – ancora
saggia perché pulita – mette in bocca le parole “Du bist ein Atheist”, dopo
aver sentito Faust arzigogolare intorno al proprio immanentismo più o meno
spiritualistico.
Concezione
antropologica: il povero superman prometeico
Materialista dunque il Carducci, pur con esitazioni
e incoerenze.[32] Tale
“opzione metafisica” semplifica il senso della vita, la disinibisce a livello
istintivo, comunicandole autonomia da Dio e dagli “impacci” della Sua legge (in particolare, libertà di
comportamento sessuale), sicurezza di sé, ottimismo rispetto all’umanità ed al
suo futuro, senso del dominio sulla natura e sul processo della storia, fede
nel progresso illimitato dell’uomo, entusiasmo per le grandezze del passato,
ricerca della gloria personale e della potenza del proprio popolo, senza troppe
ubbie moraleggianti, scrupoli di comportamento, doveri di carità o complessi di
inferiorità. E Carducci sentì e celebrò questi aspetti della sua concezione
dell’uomo, che fa parte anzi del suo classicismo, in quanto esso non è solo
scelta di stile letterario ma anche concezione di vita,[33]
concezione coincidente in gran parte col paganesimo. Tale classicismo infatti
nega l’ascetica cristiana, il cauto realismo dettato dalla coscienza del peccato
originale e delle sue conseguenze; esalta invece la sanità senza limiti delle
passioni, inculca la partecipazione piena e festosa alla vita tutta , compresi
gli istinti cui non presiede una chiara visione finalistica, che ne governi la
soddisfazione affettiva ed il piacere fisico; e permette di gridare (“L’Italia avanti tutto! L’Italia
sopra tutto!”), la cui grandezza giustifica anche le guerre coloniali.
(Discorso a Reggio Per il tricolore,
7 gennaio 1897).
Passiamo in rassegna qualche componimento: la
documentazione non è difficile. L’Inno a
Satana precede per i concetti decisi e recisi: vino, sensualità, libertà di
pensiero, progresso tecnico (col dominio conseguente sul mondo), incarnati in
satana, vincono “il Geova dei sacerdoti” il “barbaro Nazareno” che a suo tempo
ha distrutto i templi, la civiltà, il vitalismo classico dei greci e romani, ma
che non ha mai potuto strappare dagli spiriti il predominio delle passioni, dei
sensi, della materia., della vita sensibile ed animale, insomma. Neppure in uomini
religiosi come Lutero: “Gittò la tonaca| Martin Lutero:| gitta i tuoi
vincoli,|uman pensiero;| e splendi e folgora,| di fiamme cinto;| Materia
innalzati;| Satana ha vinto”). Una
delle espressioni più seducenti dell’umanesimo pagano del Carducci è rintracciabile
nei vv. 141-156 in Alle fonti del
Clitunno: “Salve, o serena de l’Illisso in riva,| o intera e dritta a i
lidi almi del Tebro| anima umana; i foschi dì passaro,| risorgi e regna….”[34]
Altri testi favorevoli ad una interpretazione
ottimistica ed entusiastica della vita (non sempre, ma spesso in polemica
contro il Cristianesimo mortificante) sono da rintracciarsi in Avanti! Avanti! (Giambi ed Epodi, n. 15: 1872); Il
canto dell’amore[35].
(id., n. 30: 1877); In una Chiesa Gotica
(Odi Barbare, n. 9: 1876); Sole e Amore (Rime Nuove, n. 21: 1872); Momento
epico (Rime Nuove, n. 30: 1878); Brindisi
(Levia Gravia, n. 25: 1862); Brindisi d’aprile (Rime Nuove, n. 38: 1869) Brindisi
1° e 2° (Juvenilia, n. 29: 1854 e
n. 94: 1859).
Una messe più abbondante di euforia vitalistica, di
esultanza panica si trova nel campo specifico del motivo amoroso (o, per dire
meglio, dell’arbitrario esercizio della sessualità, anche adespota e
scioperata). Si vedano Primavere
Elleniche (Eolia: Rime Nuove, n.
62, Dorica: ib. n. 63; Alessandrina, ib. n. 64: tutte del 1872); Panteismo (ib. n. 47: 1872); Primavera classica (ib. n. 39: 1873) Qui
regna amore (ib. n. 23: 1872); Visione
(ob. N. 24: 1872); Una rama d’alloro
(ib. n. 65: 1877); Sole d’inverno (Odi Barbare, n. 36: 1882); Egle
(ib. n. 37: 1889) Vere novo (ib. n. 30: 1884); Canto di marzo (ib. n. 40: 1884); Saluto d’autunno (ib. n. 41: 1881); Ad Annie (Rime e ritmi, n. 6: 1890)……
E si potrebbe certamente continuare nei rimandi e
citazioni. Ma, ma, ma….. Intanto le quattro Primavere
(classica ed elleniche) sono tutte incrinate da qualche verso che invita alla
fuga, all’oblio, alla dimenticanza del dolore, della morte e della fugacità di
vita, dello stesso piacere ed amore[36].
Le ultime Barbare cantano all’amore
con una certa fatica; subentra il pensiero del sepolcro (Saluto d’Autunno), che vien deprecato alla maniera del Foscolo
nella ode All’amica risanata.( “Meste
le Grazie mirino| chi la beltà fugace| ti membra e il giorno| dell’eterna pace”
dice il Foscolo; e il Carducci, “Delia, a voi tutto è una festa| di primavera:
lungi le tombe!” e, quasi la deprecazione non basti, egli la ripete “….Lungi le
tombe! Lontana favola| per voi la morte….”), mentre Primo vere (ib. 38: 1889) non riesce a superare il senso della
tristezza (“A tua bellezza candida perché mesta sorride tra le lacrime| la
primavera, o Lalage?”). E se scherzo è presente nei titoli opposti delle due Rime Nuove contigue Primavera classica| Autunno
romantico (rispettivamente n. 29 e n.30, del 1873 e 1872), l’amore che domina
la prima non è senza il senso della morte nell’ultimo verso (“tu non ritorni
più”); né, tanto meno, il secondo (“amiam l’ultima volta”). E se negli anni
giovanili, il poeta contrasta l’istinto al piacere sessuale con i residui di
coscienza cristiana; se la coscienza lo punge nei primi tempi dell’amore
adultero con la Cristofori, cioè
nell’affrontare il nuovo passo sulla via dell’immoralità; se il disgusto lo riprende di fronte alla volgarità dei naturalisti francesi
(Carducci era un “peccator novizio”, un libertino impacciato, perchè
appartenente alla prima generazione post-cristiana) [37],
sempre, ma specialmente col decadere della vigoria fisiologica, contrasta la
concezione gioiosa ed esaltante del libero amore una insopprimibile
consapevolezza della sua insufficienza alla felicità umana, non foss’altro per
la sua fugacità.
Ecco un elenco di testimonianze, sia pur incompleto:
Alla stazione
in un mattino d’autunno (Odi Barbare, n. 29 del 1875)
Dipartita (Rime Nuove, n. 53 del 1878)
Serenata (Rime Nuove, n. 51 del 1882)
Mattinata (Rime Nuove, n. 52, del 1882)
Ballata
dolorosa (Rime Nuove, n. 55 del 1886)
Mito e verità (Rime Nuove, n. 25 del 1872)
Idillio
maremmano (Rime Nuove, n. 68 del 1867-72)
Brindisi
funebre (Rime Nuove, n. 57 del 1874)
Idillio di maggio (Rime Nuove, n. 67 del 1869)
Notte di
maggio (Rime Nuove, n. 73 del 1885)
Fuori dalla
certosa di Bologna (Odi Barbare, n. 12 del
1878)
Ruit hora (Odi Barbare, n. 28 del 1875)
Congedo (Odi Barbare, n. ???? del 1882)
Jaufré Rudel (Rimi e Ritmi, n. 3 del 1888)
La moglie del
gigante (Rime e Ritmi, n. 19 del 1896)
Sono poesie, queste, che aprono il varco alla
delusione ribelle ma inesorabile che al senso della caducità della vita umana,
al decadere delle sue forze, all’insensatezza stessa (non lontana da quella del
Leopardi nel concetto, anche se emotivamente molto più sana e tuttora vitale)
della umana esistenza. Se caduco è l’amore, che della vita è la componente più
esaltante, quali mai appariranno gli altri valori, quale sarà il significato
dell’essere e del divenire, dell’agire e dell’agitarsi dell’uomo? La risposta
non è univoca: il polo positivo della oscillazione ideologica del Carducci lo
si è documentato; più vistosa risulta la rassegna delle testimonianze di carica
negativa. La vita è un mistero; la storia è un’incognita con poche luci; la
morte è sconfitta irriscattabile. “Meglio oprando obliar senza indagarlo|
questo enorme mister dell’universo”: e siamo in Idillio maremmano (Rime Nuove, n. 68 tra il 1867 e il
1872), un canto di gioia, di rievocazione dei tempi belli della giovinezza…
“Ben lo sappiamo, un pover’uom tu se’...” (citato
poco sopra: Rime Nuove, n. 72: 1874).
E siamo ancora al di qua del preannuncio di morte,
della momentanea paresi del 1885, donde nascerà Traversando la maremma toscana: “Oh, quel che amai, quel che
sognai, fu in vano;/ e dimani cadrò…(Rime
Nuove, n. 34 del 1885, appunto).
“L’ora presente è in vano; non fa che percotere e
fugge;| sol nel passato è il bello, sol ne la morte il vero”: in questa
sentenza (Jaufré Rudel) è tutta la filosofia del Carducci, che affida alla
morte la soluzione dell’indovinello della vita. Nei 14 anni trascorsi
dall’epoca di Davanti San Guido, nulla è nuovo: “E quello che
cercai mattino e sera| tanti e tanti anni in vano, è forse qui,| sotto questi
cipressi, ove non spero,| ove non penso di posarmi più:| forse, nonna, è nel
vostro cimitero| tra quegli altri cipressi, ermo, lassù”[38]
E nel 1888 “Contessa, che è mai la vita? E’ l’ombra d’un sogno fuggente| la
favola breve è finita.| Il vero immortale è l’amor”, (Jaufré Rudel: Rime e Ritmi, n. 3: 1888).
Certo la immersione nella natura insensata può
essere una forma di oblio, ma è evasione, non soluzione: il caso più
sconcertante di tale “fuga dai problemi” è in una rielaborazione da Heine che
sogna un vagabondaggio verso la culla del mondo”, l’India, ove il fior di loto
immerge nella ébete dimenticanza, nella obliterazione di ogni dovere e dolore
(“Lungi, Lungi: Rime Nuove, n. 46: 1872): “Là nei campi
fioriti del santo| Gange, un luogo bellissimo io so| Ivi rosso un giardino
risplende| de la luna nel mite chiaror:| ivi il fiore del loto ci attende, | o
soave sorella dei fior…| Oh che sensi d’amore e di calma| beveremo ne l’aura
colà!| Sogneremo, seduti a una palma, lunghi sogni di felicità”). Gli è che noi
oggi pensiamo agli hippies ed alla droga: paragone che non fa onore alla
filosofia ed alla vita del poeta maremmano....
Ma proprio perchè non è con i “viaggi” nel regno dell’incoscienza, che
si risolvono i problemi della vita, ecco il ritorno frequente del dolore e del
tormento di fronte alla fine di questa, di fronte alla morte:
Funere mersit
acerbo
(Rime Nuove, n. 11: 1870);
Pianto antico (id., 42: 1871);
Mors (Odi barbare, n. 30: 1875);
Per la morte
di Napoleone Eugenio (id., n. 17: 1879);
Tedio
invernale
(Rime nuove, n. 44: 1875);
Per le nozze di mia figlia (id., n. 47:
1880);
Traversando la
maremma toscana (Rime nuove, n. 34: 1885);
Saluto
d’autunno
(Odi barbare, n. 41: 1881);
Presso l’urna
di P.B. Shelley (id, n. 48 del 1884)
Alla stazione
in un mattino d’autunno (id, n. 29 del 1875)
Ruit hora (id., n. 28 del 1875)
Jaufré Rudel (Rime e Ritmi, n. 3 del 1888)
Ave (Odi Barbare, n. 49 del 1880)
Sul Monte
Mario (id., n. 42 del 1882: “Diman morremo,
come ier moriro| quelli che amammo: via dalle memorie| via dagli affetti, tenui
ombre lievi,| dilegueremo.…”)
Congedo (id., del 1882)
Passa la nave
mia (Rime Nuove, n. 48 del 1882, da Heine)
Tombe precoci (Traduzioni poste dopo le Odi Barbare: I, da
Friedrich Gottlieb Klopstock, del 1881)
Brindisi funebre (Rime Nuove, n. 57 del 1874)
San Martino (Rime Nuove, n. 58 del 1883)
In Carnia (Rime Nuove, n. 59 del 1885)
In riva al
mare (Rime Nuove, n. 26 del 1884)
Nostalgia (Rime Nuove, n. 43 del 1871-74)
Sant’Abbondio (Rime e Ritmi, n. 26 del 1898)
Presso una certosa (Rime e Ritmi, n. 28 del 1895)
La moglie del
gigante (Rime e Ritmi, n. 19 del 1896)
Nel chiostro
del santo (Rime e Ritmi, n. 2 del 1887)
In maggio (Rime Nuove, n. 41 del 1871, da Heine: “Oh come orribil sei, modo
gentil!...O mondo bello, tu sei pien d’orror!)
Nevicata (Odi Barbare, n. 50 del 1881)
Intermezzo (brano finale, tra il 1874
e il 1886)
E si potrebbero moltiplicare gli esempi, ricorrendo
alle lettere. Eccone una esemplarmente
disorientata, se non disperata. La finale è degna di Leopardi. Il 10 maggio 1877 scrive, dunque, a Lidia:
“Io non so che cosa di triste a questi giorni si
agitasse nel mio animo, né perché; ma l’animo mio ha il dono fatale dei
presentimenti funebri. Un altro quasi mio fratello, cugino da parte di madre,
si uccise, or saran dieci giorni, in Firenze, a pié del Ponte vecchio, con un
colpo di rivoltella nella testa. Giovine di ventiquattro anni, forte, fiero, di
poche parole: l’ho veduto venir su e lo prediligevo fra’ miei cugini: egli
amava per istinto profondo di buon cuore, senza frasi: cara e buona imagine
della famiglia di mia madre, imagine giovanile e triste di famiglia antica.
Quando mi pervenne la notizia, non piansi. Oggi, percorrendo un albo di
ritratti, l’ho visto in una fotografia di sei anni, un’altra di quindici,
un’altra di venti e mi è prorotto il pianto, piansi solo, in silenzio, a lungo:
e piango ancora. Povero il mio Enrico! che mi amava tanto, quando egli era
piccino e io giovinetto: e quando mi rivedeva egli giovine me uomo fatto, mi
abbracciava tanto superbamente: io era per lui l’ideale: veniva, ragazzino, a
spasso, con me.
Nello spazio di venti anni son tre i giovani della
mia famiglia, belli fiorenti, ingegnosi, che io ho dovuto sentire da lontano
essersi uccisi. Primo, nel ’57, il mio fratello, a ventun’anni; che giovine!
alto, superbo, bello come un bel dio, con la sua chioma castagna inanellata.
Poi, nel ’71 un altro mio cugino materno lungo, pallido, gentile, che sapeva
Virgilio benché impiegato alla posta, si uccise, dopo morta di tifo la sorella,
stupenda giovine; e io gli avevo insegnato a legger Virgilio e ne lo avevo
innamorato.
Ora anche questo, io, io solo, il vecchio cuculo, il
vecchio gufo, vedo morire tutti i giovini: e non muoio mai, io. Poveri i miei
giovani, i miei belli, i miei cari morti! Il mio cuore è con i morti. Ma io
sono il vecchio gufo che tutti scherniscono, e che nessuno ama: perché amare un
gufo? Del resto, cara amica, comincio ad amare io i cimiteri: nei cimiteri
oramai è la migliore parte di me. Nel cimitero ci andrà fra poco anche il padre
di mia moglie, il vecchio buon uomo che mi ha tenuto in casa sua quando io non
avea di che vivere: povero vecchio, è in fine, e muore misero.
Addio. Tutto è nulla, e nulla è tutto.”[39]
Una sezione dell’Antropologia può essere considerata la Filosofia della Storia: essa non è che una proiezione su scala
generazionale della visione psicologico-etica che si ha dell’uomo. È una
Weltanschauung a dimensioni socio-politico-generazionale (diacronica). In
pratica le problematiche della “storiologia” (filosofia della storia) si
possono ridurre a due:
1)
Esistono
delle leggi (statistiche) che operano nelle vicende umane per cui, poste certe
premesse, si avranno – pur nella credenza al libero arbitrio – effetti costanti
o almeno sostanzialmente simili?
2)
Tali
leggi o legami sono garantite da una Provvidenza che inserisce – a distanza tattica o almeno strategica – il
nesso di VIRTU’-PREMIO (trionfo della giustizia) e di DELITTO-CASTIGO nei
rapporti socio-politico-generazionali; oppure la storia procede “foscolianamente”
sul filo della pura casualità? Si noti che la “Provvidenzialità” può essere,
almeno fino ad un certo livello di riflessione, ridotta a forza immanente, in
senso hegeliano o idealistico, cioè ad una forma di panteismo
panspiritualistico. Ad ogni modo, bisogna dire anzitutto che Carducci fa fatica
a porsi il problema: Carducci a stento perviene a questo livello
(psicologico-umanistico: non ancora ontologico e metafisico!) di
questioni. Nel complesso è foscolianamente
“casualista; difatti, senza una fede nella Provvidenza personale ed amorevole,
intelligente ed onnipotente, è difficile stabilire un collegamento tra
avvenimenti storici e un disegno qualsiasi di giustizia: onestà e successo,
punizione e colpa si possono incontrare, ma per puro caso, irrazionalmente.
Carducci rimane ambiguo, oscillante, incerto circa la esistenza di una legge
storica, che affermi il diritto dell’innocente e premi l’opera dei buoni (e,
viceversa, pei malvagi). Pure talora gli parve di intuire, nel trascorrere dei
secoli, la presenza di una legge di rivalsa e punizione dei misfatti: la
chiamò, con termine classico-pagano, NEMESI. Tale essere misterioso o legge
storico-psicologica si può vederla cantata già in Levia Gravia, n. 15; a P.E., n. 186; forse in Versaglia, n. 21 del 1871; in Giambi
ed Epodi,; n. 28: La Sacra di Enrico
V, 1874); Odi Barbare (Miramar, n. 22 del 1878; Per la morte di Napoleone Eugenio, n.
17: del 1879); Rime Nuove (Carlo I, n. 102, traduzione dal Romancero di Heindrich Heine: del 1872; La
leggenda di Teodorico, n. 76: del 1884; Ninna
Nanna a Carlo V, n. 80: del 1885-1887). Si tratta solo di “nemesi
punitrici”: rispettivamente dei delitti dei Borboni di Francia, degli Asburgo
di Austria e di Spagna, degli Stuart di Inghilterra, del re Goto persecutore
dei latini, dei Napoleonidi, oppressori della libertà[40].
Ma, a parte questa unilateralità “vendicativa” e non anche premiatrice; a
parte, anzi, che si cantino solo punizioni di colpe attribuite a dinastie o
personaggi invisi a Carducci, resta il fatto che altrove il poeta si esprime
molto più scetticamente sul senso del corso e dei ricorsi storici.. La storia
come caso e ripetizione insensata o almeno misteriosa all’uomo è cantata varie
volte. In “Rime e Ritmi”: Bicocca di San
Giacomo (n. 8 del 1891): “Passa la storia, operatrice eterna| tela tessendo
di sventure e glorie:|uman pensiero a’ nuovi casi audace| romperla crede.” In
“Odi Barbare”: Sul Monte Mario (n. 42
del 1882): “Addio, tu madre del pensier mio breve,| terra, e dell’alma
fuggitiva! Quanta| d’intorno al sole aggirerai perenne| gloria e dolore!” e Canto di marzo (n. 40, del 1884):
“Chinatevi al lavoro, o validi omeri;| schiudetevi all’amore, o cuori giovani;|
impennatevi a i sogni, ali d’anime;| irrompete alla guerra, o desii torbidi:|
ciò che fu, torna e tornerà nei secoli”. Fino agli anni più tardi, egli rimane
fedele alla intuizione generosa ma generica, grandiosa e magnanima ma poco
significativa del Canto dell’Amore:
“Salute, o genti umane affaticate!/Tutto trapassa e nulla può morir…” (vv. 93-94,
Giambi ed Epodi, n. 30, del 1877).
Gli è che l’uomo (anche Carducci) esige
un significato personale della vita, cioè un risultato eterno al proprio
operare. Gli eventuali esiti sociali,
generazionali sono un effetto desiderato al proprio vivere ed agire, ma sono
consolazioni marginali, superflue: egli
aspira ad un senso e premio che non vengano meno mai. Ci vuol altro che
l’invito finale dello stesso canto: “Cittadino Mastai, bevi un bicchier!”.
Questa incapacità a distinguere l’Ergebnis dall’Erlebnis, una “vicenda di
cronaca” da un “avvenimento storico”, un “evento” da un “happening”, “was
irgendwie gewesen ist” da “was eigentlich gewesen ist” (Leopold Ranke) è certo
una delle deficienze più clamorose del pensiero carducciano. Ma non è la più la
grave. La incapacità a dare
pronunciamenti di valore sulla storia, limitanmdosi a soli giudizi
politici sulla cronaca, è un epifenomeno, un corollario del vuoto metafisico,
religioso e morale che gli sta alle spalle: è troppo naturale che chi non sa
quale giudizio dare sull’uomo e sulla vita, sull’amore e sulla morte, neppure
sappia formarsi ed esprimere un giudizio sulla storia tutta. Tale aporia, tale deficienza metafisica
viene superata una sola volta, nella Chiesa di Polenta, ove la idea-verità (=
lo Spirito) pare essere un valore eterno, intramontabile, superiore a bellezza
e potenza, valori effimeri travolti dal tempo. Ma l’ode è calunniata come
politicamente impegnata a procurar
simpatie cattoliche ai liberali contro i socialisti irrompenti nella vita
sociale in Italia (G. B. Salinari,
Garzanti 1976, pag. 596). Da Piero Bargellini sappiamo l’occasione che ha
condotto il poeta alla festa attorno alla chiesetta (l’amicizia e l’invito dei
conti Pasolini), al di fuori di ogni circostanza politica: i Pasolini, semmai,
cercavano di immettere il Carducci in occasioni che lo riavvicinassero alla
fede. Ma ammessa anche un’intenzione politica, resta il fatto che lo stesso
Carducci solo nel contatto con i valori
cattolici vedeva la via per ritrovare
valori universali, eterni, umani.
Si é già detto come, in sede di eticità, Carducci
predichi bene……e razzoli male. Basterebbe confrontare anzi Giambi ed Epodi con le poesie contemporanee (anche se collezionate
altrove),[41] con la
“personale collezione di amori (spuri e troppi) e di vino (sincero stavolta, ma
spesso eccessivo) per accorgersi che il moralismo del Carducci consiste nel
condannare i costumi altrui, non nel migliorare i propri. Egli fa parte cioè di
quegli esemplari della razza umana che fanno dire al Manzoni, in relazione ad
un oste che elogiava i galantuomini per principio e li tradiva ai malviventi
per interesse: “che carattere
singolare! Eh?” (Promessi Sposi, c. VII). Con questo non si vuol negare né la generosità
con cui egli si dedicò a curare i colpiti da colera nel 1855 a Pian Castagnaio,
assieme al padre ed al fratello Dante; né la validità del suo parteggiare e scalpitare in favore dei meno
abbienti,[42] contro i
ricchi latifondisti. Si vuol però dire che Carducci, con tali atteggiamenti e
canti sociali, pauperistici e fustigatori di vizi, condanna anzitutto sé
stesso, perché – non appena gli si offrirono i mezzi – si mise diritto diritto
sulla stessa via di egoismo e di neghittosità, di divertimento e di disimpegno
morale dei tanto detestati latifondisti. Ecco come ricorda l’anno scolastico a
San Miniato al Tedesco nel 1856-1857: “Ci accontammo presto con una brigata di
giovanotti (come troppe di simili ce n’era e ce n’è forse ancora per le città
minori e le grasse terre di Toscana), piccoli possidenti e dottori novelli che,
vivendo del loro poco…passavano tutte le sante giornate a non far nulla, o
meglio, a far di quelle cose che forse sono le più degne e proprie dell’homo
sapiens (almeno gli animali non le fanno) come mangiare e bere il meno male e
il più spesso possibile, giocare, amare, dir male del prossimo e del governo…”.
Dove è da notarsi il contrasto fra il “troppe di simili” che suona condanna; e
lo “almeno gli animali non le fanno” che suona approvazione[43]:
contrasto e contraddizione che si accumula, poi, nella sorniona affermazione
che pretende essere la condotta viziosa e neghittosa di quei giovinastri
propria dell’uomo (“quelle cose che forse sono le più degne e più proprie
dell’homo sapiens”). Insomma, Carducci assume, di fronte alla sua scapigliatura
giovanile tutte le posizioni possibili e contraddittorie: disapprovazione,
approvazione, sorriso, che non sai se sia complice o autoironico…
Lui, ad ogni modo, si era
aggregato a simile gentaglia e, a distanza di 26-27 anni ammette – da una parte
– che “purtroppo per i molti strepiti” e feste bibule (ed era spesso: “di notte
e di giorno”) “facevamo semplicemente un casa del diavolo”. Dove, di nuovo, le
parole singole suonano disapprovazione, mentre il loro connettersi in allegra
descrizione e il contesto di rievocazione, nostalgica assieme ed esultante,
suonano piena approvazione. È’ questa, purtroppo, “la coscienza e la vita
morale di Carducci”; coscienza e vita contemporaneamente allegra ed insensata,
gaudente e irrazionale. Tanto che egli confesserà, dopo la morte del figlioletto Dante: “La vita è un male, un
patimento, uno scherno. Io voglio distrarmene e trovarmi in seno alla morte
senza avvedermene: a ciò ho eletto la via degli studi, come altri eleggerebbe
la dissipazione e la crapula” (Lettere: al Chiarini, VI, pag. 262). Sentenza
degna di Leopardi. E certi momenti della sua concezione dell’amore, la
traduzione approvatrice del Lungi, lungi
(Rime Nuove, n. 46 del 1872) che cosa
predicano se non disperazione e regressione al sogno irreale nella incoscienza
del fior di loto? Lo si metta a confronto con Feste ed oblii (Giambi ed Epodi, n. 19 del 1871) e si vedrà che
Carducci, nello stesso torno di tempo (a distanza di un anno) insultava chi si
divertiva alla maniera occidentale (“Urlate, saltate, menate gazzarra…”) e
sospirava allo smarrimento peggiore, nell’incoscienza e nell’oblio (nella
droga?) del mondo indiano ed orientale.
Per quel che attiene in
particolare la “moralità sessuale”, si confrontino le deprecazioni contro il
libertinaggio (si è detto del primitivo piglio oratorio e predicatorio del
poeta) colla “latitanza” succeduta ai suoi peccati dopo il 1874, quando scende
il silenzio su tale argomento. L’eccezione è quella per processo Fadda nel
1879: ma si è visto la deformazione del giudizio di condanna, che non nasce
dalla sensualità del comportamento, ma dal fariseismo di gente borghese che
vuol apparire indignata ed in realtà è solo morbosamente incuriosita e
frequenta le sedute del processo per prurito complice.
L’indagine dell’ambiente ci ha già lasciato
intravedere la metamorfosi politica del poeta maremmano. Il padre è un liberale
sul tipo dell’intellettualità toscana contemporanea a Gino Capponi: è per
l’indipendenza dallo straniero e per la democratizzazione della vita del paese,
ma nella cornice della tradizione cattolica delle istituzioni. Il figlio,
partendo da tali posizioni, prosegue con coerenza precipite (come troppo spesso
avviene in simili casi)[44]
e va accostandosi alle ideologie repubblicane e giacobine, sospinto
dall’esperienza di Bolgheri, ove l’ingiustizia sociale, come si è detto, era
più sfacciata e pesante.
Entra così nell’area socialistica e addirittura
anarchica, fino al 1871: anzi, ancora nel 1872, in occasione del secondo
centenario della nascita di L. A. Muratori, facendo da reporter per il
giornale????????’, nella seconda giornata dei festeggiamenti, trova il modo di
esaltare la Rivoluzione francese ed i suoi ideologi. Dopo questo tempo, inizia
il “riflusso”, che lo porta dapprima ad inneggiare alla regina (1878); poi ad
appoggiare il governo Crispi e l’intervento in Africa (1887); infine ad
accettare il titolo di senatore del regno, divenendo sostenitore della politica
ufficiale (si veda, osannante all’impresa africana, nel 1896, Per la croce rossa), banditore ed aedo
della classe dominante. Proprio lui che era stato perseguitato nel 1867 e 1868,
subendo sospensioni dalla cattedra, per le idee radicali di cui faceva
indebitamente propaganda! Giunge così a deprecare il partito socialista, lui
che di quelle idee era stato precursore fino all’anarchia.[45]
E riceve la croce di gran cavaliere, lui che, contro i titoli nobiliari, aveva
scritto La Consulta Araldica (Giambi ed
Epodi, n. 11, del 1869).
In verità, nella sua mente la questione sociale era
stata sempre subordinata a quella politica; e questa, naturalmente, dipendeva
dalle premesse esistenziali e religiose. Quando era tentato di estremismo
sinistrorso, al potere c’era la destra storica, ancora legata ad alcune
tradizioni prerisorgimentali in campo etico-religioso: erano i “moderatucoli”
di Cavour; ed egli era rattazziano, demolitore ed antitradizionalista... Una
volta impostasi la “sinistra” al potere, dopo i barcollamenti di Agostino De
Pretis, che si “destreggiava col trasformismo”, eccitando la bile nel collerico
Carducci (che lo chiamava “il vinattiere di Stradella”), fu imboccata la strada
del garibaldismo aggiornato e dell’affermazione della nazione in Europa e nel
mondo. Così egli poté illudere la propria coscienza che era il “suo” pensiero
che trionfava, mentre fra le sue originarie aspirazioni di uguaglianza e di
repubblica (come democrazia radicale) e gli obiettivi bismarckiani di Crispi
(governo forte, industrializzazione ad ogni costo, espansione coloniale, al
prezzo di entrare nell’innaturale “triplice alleanza” con l’Austria e la
Germania e tacitare la voce popolare in favore di Trento e Trieste), vi era
l’abisso della contraddizione.[46]
L’arroccamento alla monarchia ed al crispismo
bismarckiano segna anche un ridimensionamento delle ideologie della stessa
rivoluzione francese, cioè del giacobinismo. [47]
Pure (secondo noi) la motivazione delle sue alchimie
politiche che finiscono per approdare a due voltafaccia, trovano bensì
un’aliquale spiegazione nelle pressioni dell’ambiente politico, ma scaturiscono
ancor più propriamente dalla individuale psicologia del poeta; e finiscono per
mettere in causa l’assenza di una ideologia chiara e coerente, di un sistema dimostrato
o almeno articolato che riesca una Weltanschauung o concezione esistenziale.
Quali basi teoretiche aveva mai il Carduccci per difendersi dagli altri
(ambiente trionfante attorno a lui) e da sé stesso, soprattutto? Come ogni
artista, egli era dotato di spinte emotive eccezionalmente irruenti: senza la
forza equilibratruice della fede religiosa, come poteva aderire ad un complesso
di dottrine controllate sulla realtà od almeno ad un sistema di idee coerente
in se stesso?
Egli aveva di che giustificarsi. In definitiva il
titolo di gran cavaliere è personale e non ereditario: egli può dirsi coerente
con la Consulta Araldica. La
distruzione della tradizione religiosa ed etica di marca cattolica, quale lui
predicava, è portata avanti dalla nuova classe dirigente. Crispi, infatti,
appesantisce la mano contro gli istituti morali di beneficenza con la legge
sulle Opere Pie (che incamerava 20.000 fondazioni religiose nel 1889) e, mentre
si erige a Giordano Bruno un monumento sul Granicolo, si aboliscono le decime
sacramentali e si prevedono pene, nel nuovo codice, contro gli abusi dei
ministri di culto; la Massoneria prende sempre più piede e finirà – nel 1907,
l’anno della morte di Carducci – a portare in Campidoglio, come sindaco di
Roma, Ernesto Nathan, massone, ebreo ed inglese di nascita (ed era stato
proprio Crispi a naturalizzarlo italiano nel 1887). E l’antiromanticismo non
era un ritorno alla romanità classica e combattiva? non era un ritorno
all’impero di Roma? Ecco allora Per il
Tricolore (1897: L’Italia| avanti tutto! L’Italia, sopra tutto!); ed ecco
il Brindisi di Juvenilia (n. 29, del
1854) che oppone la serenità del vino romano alla tetraggine dei romantici
astemi, dei tedeschi dominatori e del cristianesimo oscurantista.
Si può forse obiettare che la questione sociale,
però, non era stata risolta e che proprio l’oblio di questa tragica situazione
dei poveri è ciò che si vuol rimproverare a Carducci. Ma come? Lui,
personalmente, non era uscito dalla miseria e dal bisogno? Non si era fatto un
nome e una fortuna? Ma che? Pretendete
da un non-cristiano che si interessi del prossimo? Che paghi di persona? Che
predichi la carità e la condivisione del superfluo, cominciandone la pratica da
se stesso?[48] Achi
rimproverava a Bertrand Russel di essere ricco, egli non esitava a rispondere:
“Attenzione, noi non siamo cristiani, ma socialisti!”
Carducci poeta, apparteneva alla prima generazione
postcristiana. Solo per poco si trovò
a predicare perché si togliesse agli
altri non ciò che possedevano ingiustamente, ma ciò che possedevano in ogni
caso. Egli, nel complesso, si accontentò di emarginare dalla sua
poesia-coscienza il problema sociale. Fu un errore ed una colpa, ma meno gravi
di quanti si illusero di risolvere la
questione sociale con la rivoluzione, il furto legale e la colpevolizzazione
sistematica dei ricchi, anche onesti.
Era, quest’ultimo, un atteggiamento simile a quello dei milanesi in
rivolta l’undici novembre 1628: bruciare i forni per avere il pane a buon
mercato. Quesi che il benessere possa venire da altri fattori che dalle
invenzioni tecnologiche ed dal lavoro per tradurle in prodotti utili all’uomo,
per alleggerirne la fatica ed acrescerne i comodi ed il tempo libero.
Carducci fu un egoista benestante: d’accordo.
Sarebbe stato peggio se avesse continuato ad essere socialista barricadero ed
eccitante alla ribellione, alla rivoluzione, al furto di stato, all’assurdo di
“inventare l’economia” al di fuori delle leggi di mercato, con il risultato di
rendere universale la miseria, di togliere ogni stimolo al lavoro, salvo la
forza sistematica di uno stato dittatore: persecutore non solo più dei più
ricchi e dei più religiosi, ma di ogni cittadino.
IL PENSIERO IN
MATERIA ESTETICA, CRITICO-LETTERARIA E LINGUISTICA:
L’estetica
(poetica) di Carducci
Pur senza precise riflessioni o giustificazioni
filosofiche, esistono dei parametri che Carducci sentì e praticò come suoi
propri, calò in principi che intuiva fossero validi universalmente, variò,
mescolò, lasciò nel confuso. Il tutto, sempre a voce spiegata, polemizzando
contro qualcuno (o molti), ma da tutti imparando, assorbendo, riciclando, da
maestro che non copia ma trasforma, migliora, perfeziona. Alla fine, la sua
pratica letteraria può essere definita col nome di Classicismo.
Dopo le prime poesie[49]
intonate alla moda romantica pratiana, egli prende coscienza e privilegia la
grandezza della tradizione classica e disdegna la miseria di (molte) composizioni correnti sotto la
copertura della scuola opposta. E scelse la restaurazione del classicismo come
forma di sanità fisiologica (egli era tentato di chiamarla “sanità morale”, a
dir il vero); di orgoglio nazionale (egli tendeva a dire di “patriottismo e
coerenza con la propria storia politica e gloria letteraria”). Con Giuseppe
Chiarini, con Giuseppe Torquato Gargani e con Ottaviano Targioni Tozzetti,
fonda nel 1856 gli “Amici pedanti” che si propongono di combattere il
“maledetto, l’infamissimo secolo….intedescato, infranciosato, inglesante,
biblico, orientale, tutto fuorché italiano”. Non si tratta di pedissequa
imitazione: il motto “Memore innovo” (che egli afferma del suo modo di poetare
in sonetti) può considerarsi programma di tutta la sua produzione poetica.[50]
Si ha, dunque, riaffermazione della
cura per la forma, dignità di linguaggio, concretezza di idee e splendore
figurativo (contro spontaneità, popolarità, incertezza fantastica dei contenuti
ed eccessivo musicalismo, propri dei romantici in genere). La sua “Ars poetica”
è Congedo (Rime Nuove, n. 105 del
1873). È ispirata dal parnassianesimo[51]
di Théophile Gautier, e in particolare
alla poesia “L’Art” con cui si chiudono i suoi “Emaux et Camées”. Tra le
espressioni più significative: “Il poeta è un grande artiere,| che al mestiere|
fece i muscoli d’acciaio:| capo ha fier, collo robusto,| nudo il busto,| duro
il braccio, l’occhio gaio”. Altre affermazioni famose sono le seguenti: “Se la
poesia ha da essere arte, ciò che dicesi forma è o ha da essere almeno tre
quarti”; “La poesia...io credo non abbia ragione di esistere se non con
l’intonazione montata almeno di un grado sopra la prosa” (1886: a proposito di
un poemetto di Guido Mazzoni: vedi in
A. Momigliano – Storia della letteratura italiana, ?????????, p. 525)[52]
L’analisi dello stile carducciano ci dirà qualcosa
di più preciso su tale programma. Per intanto occorre aggiungere che il classicismo del Carducci non è solo
antiromantico, ma anche antinaturalista ed antidecadentista.
Nei suo anni più maturi, il poeta si trovò di fronte
al realismo di marca francese ed all’astro ascendente del D’Annunzio, che
seguiva il movimento decadente, di cui Carducci aveva pur imitato, in Vendetta della luna, Charles Baudelaire,
letto nel 1872. Accomunati dalla stessa “tigna” impudentemente sensuale, erano
divisi da principi estetici e stilistici opposti. Contro di loro muove il
Carducci con lo sdegno della (residua) moralità offesa e in nome dei propri
criteri di classicismo letterario. Nella Prefazione
al Prometeo liberato (di P.B.
Shelley, tradotto da E. Sanfelice) egli imbranca naturalismo e decadentismo,
romanticismo e altro in una condanna globale: “La scettica immoralità del
Rinascimento, la stupida mughetteria dell’Arcadia, la morbosa individualità del
romanticismo che spampanando ammiccano alla fornicazione forestiera. Di
letterature straniere, l’Italia non legge che i francesi di questi ultimi anni:
in letteratura ella è già un dipartimento della Francia. La pleiade nuova,
inquartata di rosso, impronta gli intelletti, gli spiriti, i sensi. Nostra
critica è la mobile nomenclatura di quel nuovo paese di effimeri parnassiani,
realisti, veristi, decadenti, raffinati, simbolici, mistici. Un giovane
fiorentino mi domandò se non mi pareva che Dante fosse un decadente. A me voi
parete tutti degenerati…”.
Ma proprio perché Carducci era un poeta autentico
(così come era un insufficiente filosofo di estetica) egli poteva scomunicare a
livello cosciente sistemi stilistici e scuole poetiche di cui sentiva spontaneo
aborrimento per la parte (la maggiore, per avventura) di errore: ma altrettanto
spontaneamente ed inconsapevolmente finiva per appropriarsi dei valori genuini
che tali movimenti agitavano e per sintonizzarsi più o meno consapevolmente con
essi: col risultato di esprimerli magari più efficacemente degli stessi maestri
e teorizzatori.
Ecco allora Carducci far pace con la malinconia e
con la luna, cose del romanticismo[53];
fondere melanconia romantica e disorientamento decadente negli ultimi anni di
operosità poetica, quando il pessimismo e la tristezza prevalgono anche in lui[54];
rievocare poeticamente vicende storiche e cronachistiche della vita medioevale,
sfociando in ballate autentiche, così intense liricamente da farne sfigurare
ogni poeta romantico (italiano e non); e immettere una forza tale in queste
composizioni da affiancarsi al patos drammatico e tragico o alla epopea
popolare e corale delle migliori poesie del Manzoni (primo coro dell’Adelchi –
Coro del Carmagnola), di V. Hugo (Châtiments – La légende des siècles), di Von
Platen e di Uhland, poesie che finiscono per presagire lo spirito austero ed
essenziale, oggettivo, virile e grandioso del miglior verismo o realismo. Nella
dignità dei brani epici, nella laconicità di quelli tragici, nella definitezza
delle immagini, nella tridimensionalità delle figure statuarie, nel fervore
operoso od impeto reattivo di certi personaggi, neppure Giovanni Verga può
tenere il confronto con le creazioni solari o sataniche del poeta maremmano:
dalla possanza cordiale di Alberto da Giussano (Parlamento) alla magia tragica de La Leggenda di Teodorico,
dalla autorevole sobrietà del console nel Comune
rustico al violento sadismo di Tigrin de la Sassetta in Faida di Comune.
In Giambi ed
Epodi si può inoltre ritrovare un altro fattore del realismo: un linguaggio
disinibito e giornalistico, spregiudicato e insolente, immediato e persino
plebeo, ma alla maniera dei personaggi (minori fino a un certo punto) dei
drammi di Shakespeare.
Per la porta di servizio di una fantasia duttile e
plasmatrice, si insinuavano e filtravano gli echi delle mode letterarie più
diverse, che il poeta aveva scomunicato ed espulso dalla soglia della sua
solida (ma ahimè tanto elementare) coscienza estetica[55].
Il pensiero di
Carducci sul problema linguistico
Avversò la teoria manzoniana: volle che la lingua si
rifacesse bensì all’uso toscano per la necessità di attingere di continuo alla
freschezza corrente della parlata, ma sostenne che doveva nascere da tutta una
tradizione letteraria nazionale, per non perdere quel patrimonio di
espressività, che hanno accumulato i migliori prosatori nostri nel corso dei secoli.
Il pensiero
critico-letterario del Carducci
Egli fu uno dei maestri della scuola
critico-letteraria che viene detta filologica, positivista o storico-erudita.
In questa attività egli si trova sul versante opposto a quello di Francesco de
Sanctis, il maggior rappresentante della scuola critica romantica o psicologica
o storico-filosofica[56].
La scuola filologico-erudita si preoccupa:
a.
di
ricostruire il testo esatto dello scritto letterario da pubblicare (edizione
critica)[57]
b.
di
ambientare il testo stesso e le vicende dello scrittore nella storia (o
cronaca) della sua città e del suo tempo, così che le ricerche d’archivio e le
notizie scovate spieghino le espressioni e servano a far comprendere il senso
della poesia (critica “erudita” che accumula dati biografici e cronachistici in
funzione del testo letterario): la storia serve alla poesia.
c.
di
studiare il linguaggio dell’autore, cioè analizzarne lo stile (vocabolario,
metrica, musicalismo, figure retoriche, ecc…)
Ma accanto a questo “magistero tecnico-erudito”, di
cui è traccia in ogni lezione e scrittura critica del nostro, la scuola viva
(parlata dalla cattedra) del “professore-poeta” aveva altre dimensioni che
purtroppo si sono perse perché improvvisate spesso o comunque non annotate dal
Carducci, essendo in lui spontanee e ovvie.
Una di queste era la carica poetica per cui lo
scrittore riviveva l’oggetto di studio, in un commento non solo splendido per
forma, ma affascinante per analogia di sentimenti e di riverberi poetici.
L’altra era la ricchezza di osservazioni singole,
minute, di stile e di forma che dovevano sorprendere per acutezza d’intuito e
profondità di sintonizzazione, di “radarizzazione” del rapporto tra sentimento
interiore e mezzi espressivi stilistici. Era anche per queste doti della sua
scuola che le sue lezioni erano seguite
appassionatamente. Il Carducci diventava “maestro della letteratura italiana” (
e non solo), dopo la fiammata romantica del Manzoni. Ecco come ne parla G. B.
Salinari (Garzantiana, 1976, VIII, p. 543): “Non è da passare sotto silenzio
l’attività che in questi anni il Carducci dette all’insegnamento universitario.
Il numero di studenti che frequentavano le sue lezioni andò via via aumentando
ed anch’egli diventò sempre più franco e spigliato come professore. Le
testimonianze che per questa parte abbiamo su lui sono numerose, tanto più che
alcuni dei suoi discepoli sono vissuti addentro al secolo ventesimo. Esse vanno
integrate con gli accenni, che a volte possono essere considerati vere e
proprie confessioni, che si possono spigolare nelle sue lettere e specialmente
in quelle degli anni più fervidi di vita intellettuale e di vita affettiva.
Tanto più che le sue affermazioni possono essere in qualche modo controllate da
ciò che di quelle lezioni ci è giunto o trasfuso nei suo scritti critici ed
eruditi o trasmesso dalle dispense universitarie o da appunti manoscritti.
Frequenti richiami alla sua attività d’insegnante si hanno nelle lettere del
1874. Senza preoccupazioni di modestia, scrive: “Ieri illustrai, come dicesi
con superbissima pedanteria, il sonetto del Petrarca “Levommi il pensiero” e
sbalordii veramente i miei uditori”. Richiesto, espone succintamente in una
lettera successiva quello che disse nella lezione sul sonetto e ciò che
comunica all’amica è criticamente vivo e penetrante; aggiunge poi anche alcune
notizie particolari sui criteri seguiti, che danno un’idea molto chiara di
quello che dovevano essere le sue lezioni: “Delle mie lezioni sui classici non
scrivo che la sola parte filologica, i raffronti, le citazioni, le opinioni dei
vari commentatori, le interpretazioni nuove, le nuove e varie lezioni, ecc,:
per la parte estetica e per la critica superiore, mi lascio andar a dire
improvviso. Io credo che le mie lezioni su i testi del Petrarca o di Dante,
sarebbero, se raccolte, le cose mie migliori; e pure son tutti pensieri che
vanno perduti o sono soltanto raccolti negli appunti degli studenti e
scheletrati nei temi d’esame. Le lezioni
che ho fatto su “La canzone alla Vergine” o su quel sonetto mi spiace
proprio che non siano state raccolte.” (Lettere IX, pag 37).
Ecco: la lezione del Carducci, a contato vivo con
la l’uditorio, si avvicinava a quella
del De Sanctis, pur avendo tante differenze teoriche e concrete di separazione[58]:
entrambi, infatti, riuscivano a trasmettere – da poetae additi poetis, da
artifices additi artificibus – l’atmosfera lirica del brano commentato.
I MOTIVI
ISPIRATORI
Tanto vasto nell’analisi e nella memoria erudita
quanto incerto nella sintesi e nella intelligenza filosofica, Carducci non
presenta una struttura unitaria e coerente, un organismo logico di motivi
ispiratori, come Foscolo, Manzoni, Leopardi: i diversi motivi hanno certamente
dei punti di collegamento e di convergenza, ma anche di diversità e di
opposizione, di inconciliabilità o almeno di estraneità.[59]
Non vi è un unico motivo di fondo, ma molti temi, paralleli o precariamente intrecciati.
Un ambiente o spunto generico, comune agli altri
motivi, è il paesaggio e la natura; vi sono poi dei motivi prevalenti, ma sono
proprio quello storico e sociale, cioè motivi particolari, del divenire dell’
“homo faber et politicus”, non motivi universali, dell’essere o del non essere
“dell’homo sapiens”.
Il paesaggio e
la natura
Estroverso e visivo, Carducci sente quanto mai vivamente
la natura e il paesaggio che non mancano in nessuna delle sue poesie: uno
scorcio panoramico fa capolino nel mezzo della composizione, anche quando (ed è
più solitamente) non ne costituisce lo spunto iniziale o il punto di
riferimento continuo[60].
Tale la prima caratteristica di questo motivo: la sua ubiquità.
Ma ve ne è un altro, quasi opposto: esso è solitamente
un motivo secondario, di spunto ed innesco (come in tutti i poeti maturi,
al di là dell’adolescenza psicologica). Per questo, mentre sarebbe necessario
citare tutti i titoli della produzione carducciana, per documentare la presenza
di paesaggio e natura, così non è facile trovare una poesia che si limiti alla
descrizione di tali elementi senza procedere ad altri temi e problemi
ispiratori. Le composizioni citate per gli altri motivi ispiratori potranno,
perciò, servire anche per documentare la passione paesaggistica e naturalistica
del Carducci: Davanti San Guido; Traversando la maremma toscana; Comune
rustico; Alle fonti del Clitunno;
Notte di maggio…. possono essere
esempi notevoli. Il paesaggio innesca, qui, motivi autobiografici, esistenziali
e storici.
Poesie di puro paesaggio, non ne esistono proprio?
Sì, ma di poco valore, se si eccettua San
Martino. Cominciamo col dire che la problematica esistenziale, che si
vorrebbe vedere in questa acquaforte autunnale (armonia tra evasioni
nell’infinito e impegno nel concreto: cfr. G. B. Salinari, Garzanti, 1976, p.
591 del vol. VIII), mi sembra un processo alle intenzioni, un’indagine che
confina con la fantascienza psicoanalitica. Lo stesso ammonimento contro le
interpretazioni psicoanalitico-marxiste (marcusiane) va fatto per Sogno d’estate, poesia di
autobiografismo e di paesaggio, senza le complicazioni ideologiche che il
solito Salinari vorrebbe vedervi. Piuttosto andrà osservato che nella misura in
cui il Carducci si appoggia troppo al motivo paesaggistico, senza sollecitarlo
verso tematiche più profonde, egli perde di forza: San Martino è un’eccezione; ma lo stesso Sogno d’estate, pur con l’aggiunta dell’autobiografismo, è appena
tiepida versificazione e scontenta proprio pel vuoto di significato ideale. In Fiesole (Rime Nuove, n. 13, del 1886); Una
sera di San Pietro; (Odi Barbare, n. 31, del 1880) ma
soprattutto All’autore del Mago (Severino Ferrari: Rime Nuove n. 74, del 1884), Carducci
pare mancare di impeto lirico, proprio perché si è limitato a descrivere e
vagheggiare l’ambiente (della Romagna nel caso del Ferrari). Se la poesia può
sfuggire al sospetto di essere incompiuta e di avere un senso, è per la
comparsa di Biancofiore, la donna-poesia, idealizzata come simbolo
dell’ispirazione artistica. Ma, nonostante questa integrazione, convince fino a
un certo punto: l’impressione del “non senso” resta. Così il poco interesse per
la ode barbara Da Desenzano (Odi Barbare,
n. 14 del 1183) nasce dall’unicità o quasi del paesaggismo. Viceversa, quanto
più il paesaggio confluisce nella tematica ulteriore ed umanistica, tanto più
diventa affascinante, perché il plusvalore razionale innesca emozioni più
profonde. Davanti San Guido è esemplare in questo: la
natura diventa anzi l’ambiente in cui l’uomo, indiandosi, si ricongiunge
panteisticamente con le forze primigenie dello spirito, paganamente inteso come
stato oblioso e quindi condizione di felicità.
Della natura, Carducci ama soprattutto il sole: Classicismo e romanticismo è solo
l’espressone più clamorosa di tale preferenza; si veda anche la finale di Esequie della guida Emilio Rey: “A un
tratto la caligine ravvolta / intorno al Montebianco ecco si squaglia / e purga
nel sereno aere disciolta: / via tra lo sdrucio della nuvolaglia / erto,
aguzzo, feroce si protende / e, mentre il ciel di sua minaccia taglia, / il
dente del gigante al sol risplende”. Né migliore paragone che il sole aveva
trovato per immortalare Omero (“eterno splenderà col sole Omero”: Omero, II: Rime Nuove, n. 5, del 1861). Si è già detto, per altro, come il
tempo renderà giustizia alla disprezzata luna (Notte di Maggio; Tombe
precoci; Notti d’estate: da
Klopstock, appendice alle Barbare).
Dopo il sole, la selvaggia natura della sua maremma:
Davanti San Guido; Idillio maremmano; Traversando la maremma toscana (nonostante il momentaneo spregio
polemico, antiromantico di Intermezzo).
La storia
È’ il tema più tipico e, sotto diverse forme, il più
diffuso nella poesia carducciana. Quanto meno disponibile alle sintesi
universali-filosofiche, tanto più felice nelle analisi
particolari-storiografiche.
Egli celebra le vicende dell’antica Roma, il comune
medioevale, la Rivoluzione francese, il risorgimento italiano: con una forza
epica eccezionale.
Esempi fra i più caratteristici:
Il parlamento
Il comune
rustico
Sui campi di
Marengo…
Faida di
comune
Ça ira
Piemonte
La chiesa di
Polenta
Alle fonti del
Clitunno
Bicocca di San
Giacomo
La tomba nel
Busento
La leggenda di
Teodorico
Poeti di parte
bianca
La sacra di
Enrico V
La morte di
Napoleone Eugenio
Motivo
autobiografico, amoroso ed esistenziale
Per sé, si tratta di tre motivi distinti.
L’autobiografismo non è sempre amoroso: può
rievocare persone, ambienti, vicende della vita passata o presente, senza
necessariamente approdare alla problematica sul significato o finalismo della
vita futura; l’amore è poi, di solito, così assorbente che difficilmente apre
l’adito a pensieri filosofico-religiosi.
E difatti in
Carducci vi sono poesie puramente personali, della memoria, del rimpianto, della
nostalgia e della rievocazione gioiosa. Ma sono rare[61]:
Funere mersit acerbo
Pianto antico
Passa la nave mia
Sogno d’estate
Nostalgia (Rime Nuove,
n. 43, del 1871-4)
Rare anche (relativamente al numero di
poesie d’amore ed alla normalità della tradizione poetica di ogni paese) le composizioni d’amore che escludono
totalmente il richiamo struggente al senso ultimo della umana esistenza. È’
come se le gioie e l’estasi d’amore provochino, più acutamente delle altre
minori soddisfazioni psicologiche, la Strebung, l’aspirazione o tensione
all’eternità della gioia; e, per contrasto, l’amarezza della brevità effimera
del piacere e della vita terrena.
Ecco comunque dei titoli, ove l’amore è tema
assorbente ed unico[62]:
Una rama d’alloro (Rime
Nuove, n. 65 del 1877)
Panteismo (Rime Nuove,
n. 47 del 1872)
Qui regna amore (Rime
Nuove n. 23 del 1872)
Visione (Rime Nuove
, n. 24 del 1872)
Vere novo (Odi Barbare,
n. 29 del 1884)
Miti e verità (Rime Nuove
, n. 25 del 1872)
Ecco invece
come l’autobiografismo richiama insistentemente (si veda Leopardi) il tema esistenziale; e il canto
dell’amore urta frontalmente o, tangenzialmente almeno, tocca il problema della
vita, il tormento della verità o le tenebre della morte:
Poesie
autobiografiche:
Davanti San Guido[63]
Traversando la maremma toscana
Brindisi funebre (Rime
Nuove, n. 57, del 1874)
Il canto dell’amore (Giambi ed Epodi, n. 30, del 1887)
Rimembranze di scuola (Rime Nuove, n. 66, del 1871)
Per le nozze di mia figlia (Odi Barbare, n. 47, del 1880)
Colli toscani (Odi Barbare,
n. 46, del 1880)
Poesie Amorose:
Alla stazione in una mattina d’autunno (Odi Barbare, n. 29, del 1875)
Dipartita (Rime Nuove, n. 53 del 1878)
Disperata (Rime Nuove,
n. 54 del 1883)
Serenata (Rime Nuove,
n. 51 del 1882)
Ballata dolorosa (Rime Nuove, n. 55 del 1886)
Idillio maremmano (Rime
Nuove, n. 68 del 1867-72)
Saluto d’autunno (Odi
Barbare, n. 41 del 1881)
Idillio di Maggio (Rime
Nuove, n. 67 del 1869)
Fuori della certosa di Bologna (Odi Barbare, n. 12 del 1879)
Ruit hora (Odi Barbare,
n. 28 del 1875)
Jaufré Rudel (Rime e Ritmi,
n. 3 del 1888)
La moglie del gigante (Rime e Ritmi, n. 19 del 1896)
Lungi lungi (Rime Nuove,
n. 46 del 1872)
Su Monte Mario (Odi
Barbare, n. 42 del 1882)
Sole d’inverno (Odi
Barbare, n. 36 del 1882)
Egle (Odi Barbare,
n. 37 del 1889)
Primo vere (Odi Barbare,
n. 38 del 1889)
Ma anche al di fuori di rievocazioni autobiografiche
o di tematiche amorose, il pensiero del perché della vita e della morte si
insinua. Nella contemplazione di
paesaggi, ad esempio:
Notte di maggio (Rime Nuove, n. 73 del 1885)
Tedio invernale (Rime Nuove, n. 44 del 1875)
Presso una certosa (Odi Barbare, n. 28 del 1895)
Nevicata (Odi Barbare,
n. 50 del 1881)
Canto di marzo (Odi
Barbare, n. 40 del 1884)
Nel chiostro del Santo (Rime e Ritmi, n. 2 del 1887)
In Carnia (Rime Nuove,
n. 59 del 1885)
San Martino (Rime Nuove,
n. 58 del 1883)
In riva al mare (Rime
Nuove, n. 26 del 1884)
In maggio (Rime Nuove,
n. 41 del 1871)
Notte d’estate (traduzione da F. G. Klopstock del 1881)
In riva al Lys (Rime
e Ritmi, n. 24 del 1898)
O nella rievocazione di personaggi:
Presso l’urna di P. B. Shelley (Odi Barbare, n. 48 del 1884)
Sant’Abbondio (Rime e Ritmi,
n. 26 del 1898)
Per la morte di Napoleone Eugenio (Odi Barbare, n. 17 del 1879)
O ancora in altri contesti e circostanze:
Congedo (Odi Barbare,
del 1882)
Ave (Odi Barbare,
n. 49 del 1880)
Tombe precoci (Traduzione da Klopstock, in appendice alla Odi Barbare del 1881)
Intermezzo (brano finale, tra il 1874 e il 1886)
Mors (Odi Barbare,
n. 30 del 1875)
In questo tema esistenziale rientra quello della
morte e quello della storia: il primo puntualmente affiorante ovunque si ponga
il problema del senso della vita; il secondo limitato alle poesie già citate (Bicocca di San Giacomo; Canto di marzo; Su Monte Mario; Il canto
dell’amore; La chiesa di Polenta…).
Motivo
politico
Ne comprendiamo il senso e la portata studiandolo
nelle sue varie applicazioni. Ricordiamo, innanzitutto, che tale tema di
attualità patriottica e governativa occupa tutto l’ultimo libro (VI) di Juvenilia, tutto il secondo di Levia Gravia e gran parte di Giambi ed Epodi. Davvero in tali poesie
sembra di risentire echeggiare il motto generico ma prepotente “L’Italia avanti
tutto! L’Italia sopra tutto!” (Per il
tricolore: 1897, 7|I)
Amore alla
libertà politica, vagheggiata nel comune medioevale (Comune rustico; Faida di
comune; Sui campi di Marengo; Il Parlamento); e nella Rivoluzione
Francese (Ça ira; Per il 78° anniversario delle proclamazione
della repubblica francese; Versaglia
– ossia per il 79° anniversario - …).
Polemica
antitirannica conseguente
Miramar
Per la morte di Napoleone Eugenio
Ninna nanna a Carlo V
Il cesarismo
Versaglia
Carlo I
L’imperatore della Cina
La leggenda di Teodorico
Celebrazione
del Risorgimento Italiano, battaglie ed eroi (in genere Juvenilia IV, Levia Gravia II):
A Vittorio Emanuele
Alla croce di
Savoia
Piemonte
Giuseppe
Garibaldi
Scoglio di Quarto
Giuseppe Mazzini
Alla morte di Giuseppe Mazzini
Ora e sempre
In santa croce (4 volte in Juvenilia: n. 49-83-84-99)
Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in
Santa Croce
Roma o morte
Dopo Aspromonte
Curtatone e Montanara
Celebrazione
di Roma, simbolo della grandezza passata dell’Italia (oltre che del classicismo
pagano):
Roma
Agli amici della valle tiberina
Nell’annuale della fondazione di Roma
Alle fonti del Clitunno
Dinanzi alle terme di Caracalla
Repubblicanesimo:
Per il 78° anniversario della proclamazione della repubblica francese
Versaglia
Ça ira
Giuseppe Mazzini
Alla morte di Giusepe Mazzini
Polemica
contro la destra storica, debole e incerta al governo: (buona parte di Giambi ed Epodi)
Meminisse horret
Nel vigesimo anniversario dell’VIII agosto del 1848
Heu pudor! (“Questa terra di Fucci e di Bonturi” è la società
italiana del tempo)
Le nozze del mare
Canto dell’Italia che va in Campidoglio
Per il quinto anniversario della battaglia di
Mentana
Anticlericalismo,
antitemporalismo, antipapalismo:
Per Giusepe Monti e Gaetano Tognetti
Via Ugo Bassi
Agli amici
della valle tiberina
Onomastico
Nostri santi
e nostri morti
La sacra di
Enrico V
Il canto
dell’amore
(in tono ottimistico e conciliante)
Martin Lutero
Alla città di
Ferrara
Inno a Satana
N.B.: Favorevole all’opera della Chiesa è gran parte
de La chiesa di Polenta, come già
detto[64].
Motivo
etico-sociale
Parallelo, legato solitamente alla polemica
politica, è il motivo moraleggiante contro gli abusi o le viltà del potere,
contro i ricchi egoisti, i profittatori e il servilismo, in favore dei miseri e
degli emarginati.
Ma soffre il Carducci degli stessi limiti teoretici
e poetici di quella unilaterale e generica (quando non esagerata) descrizione,
condanna e detestazione del male. Infine è troppo viscerale, passionata e
insolente il tono della condanna. Son versi che han fatto cronaca
socio-politica al loro tempo; stentano a far storia letteraria oggigiorno e per
sempre. Ecco alcuni titoli (che vengono dal decennio 1860-70, nel complesso:
dagli anni di Giambi ed Epodi,
soprattutto):
Agl’Italiani (Juvenilia, n. 62, del 1853)
In morte di ricca e bella signora (Levia Gravia, n. 78, del 1862)
Carnevale
Meminisse Horret
Feste ed oblii
A proposito del processo Fadda
Heu pudor!
Consulta araldica
Giustizia di poeta (Rime Nuove, n. 17, del 1871)
Ho il consiglio a dispetto (Rime Nuove, n. 19, del 1870)
Il motivo
letterario, artistico, agiografico
Carducci, poeta e critico di letteratura, canta la
poesia e i poeti che egli commentava in classe: Inneggia alla Rima (Rime Nuove, n. 1, del 1877)[65];
canta Al sonetto (Rime Nuove, n. 2, del 1865) ed Il sonetto (Rime Nuove, n. 3 del 1870); rievoca Omero Virgilio, Dante,
Petrarca, Ariosto, Metastasio, Goldoni, Parini, Alfieri, Monti, Foscolo. G. B.
Piccolini, Severino Ferrari (All’autore
del Mago, Rime Nuove, n. 74, del 1884), J. Rudel, Victor Hugo. Anche un
paio di artisti dello scalpello lo indussero a celebrazioni entusiastiche in
versi: Donatello, Nicola Pisano.
L’interesse per Cristo e per i Santi può essere
ortodosso, equivoco, deformato[66]:
Lauda Spirituale (Juvenilia, n. 64 del 1857)
Santa Maria degli Angeli (per San
Francesco: Rime Nuove, n. 15 del
1886)
Alla B. Diana Giuntini (Juvenilia, n. 33 del 1857)
Sant’Abbondio (Rime e Ritmi,
n. 2 del 1887);
o addirittura polemico e blasfemo: Al Beato Giovanni della Pace (Juvenilia, n. 81 del 1856)
Tutto sommato, l’argomento storico rimane quello più
frequente e sviluppato; quello puramente paesaggistico, il più raro; quello
esistenziale (senso della vita, ecc. ), forse il più facilmente suggeritore di
grande poesia (anche se Il Parlamento,
a tema puramente storico, è forse il suo capolavoro) [67].
TONALITÀ
LIRICHE
Carducci è un poeta ad emotività completa, che dispone
della capacità espressiva nei quattro registri fondamentali (idillio, elegia,
epopea e dramma|tragedia) con la potenzialità di qualche complicazione
nell’umorismo, esplicata però solo nella prosa. Questo non toglie che egli sia caratterizzato da un suo particolare tono
lirico, quello epico, che si insinua, o resta sottinteso, anche alle pagine
più delicate dell’idillio e dell’elegia. Il suo timbro peculiare inconfondibile
è solare, omerico, magnanimo, possente, virile, caldo, tenorile; la sua poesia
regge il confronto con la scultura di Michelangelo e la musica di Verdi: una
melodia in tonalità maggiore; una maestà da fiume regale. Esaminiamo le singole
voci, nel tentativo di distinguerle e classificarne le poesie in funzione del
registro emotivo, musicale, piuttosto che dell’argomento ispiratore:
1. Epicità
pura o prevalente:
Il canto
dell’amore
Comune Rustico
Bicocca di San Giacomo
Santa Maria degli Angeli
La chiesa di Polenta
Alle fonti del Clitunno
La tomba di Busento
Sui campi di Marengo
Nell’annuale della fondazione di Roma
Sono, in genere, come si vede, le poesie di
ispirazione storica.
Ma non manca l’epopea d’amore, di sole e di
ideologia:
A Satana (1863)
Panteismo (Rime Nuove, n. 47 del 1872)
Maggio (Rime Nuove, n. 50 del 1871)
Mattinata (Rime Nuove, n. 52 del 1882)
Nostalgia (parte finale, almeno: Rime Nuove, n. 43 del 1874)
Brindisi d’aprile (Rime Nuove, n. 38 del 1869: ultima parte)
Momento epico (Rima Nuove, n. 30 del 1878)
Dietro un ritratto dell’Ariosto (Rime Nuove, n. 20 del 1874)
San Giorgio di Donatello (Rime Nuove, n. 14 del 1886)
Il sonetto (Rime Nuove, n. 3 del 1870)
Alla Rima (Rime Nuove, n. 1 del 1877)
Il canto dell’amore (Giambi ed Epodi, n. 30 del 1877)
Intermezzo (+dramma: 1874-86)
Voce di Dio (Juvenilia, n. 100 del 1860)
Brindisi (Juvenilia, n. 94 del 1859)
Alla croce di Savoia (Juvenilia, n. 93 del 1859)
San Martino (Juvenilia, n. 91 del 1859)
Magenta (Juvenilia,
n. 89 del 1859)
A Vittorio Emanuele (Juvenilia, n. 82 del 1859:bella la parte finale, a
cominciare dal v. 122)
Prometeo (Juvenilia, n. 58 del 1854)
Nel sesto centenario di Dante (Levia Gravia, n. 26: tre sonetti del 1865)
Epopea in Odi
Barbare:
Nell’annuale della fondazione di Roma
(n. 3 del 1877)
A una bottiglia di Valtellina del 1848
(n. 21 del 1888)
Miramar (prima parte: n. 22 del 78)
Vere novo (n. 39 del 1884: può essere
letta anche in chiave idillica: equivoca,
dunque)
Canto di marzo (n. 40 del 1884)
Saluto d’autunno (n. 41 del 1881:
equivoca, per note di drammaticità)
Presso l’urna di P. B. Shelley (n. 48
del 1884: mista a dramma)
Congedo (1882: nota elegiaca nell’ultima
strofa)
Epopea in Rime
e Ritmi:
A Carlo Chiarini mandandogli i poemi di
Byron (n. 7 del 1891: ultima strofa
drammatico-elegiaca[68])
Nicola Pisano ( n. 10: quattro sonetti
del 1893)
Cadore (n. 11 del 1892: drammatico qua e là)
2. Elegia
pura o prevalente:
Si è già detto del sottofondo epicizzante (o
drammatico, quando l’epicità è solo di conato) che caratterizza l’elegia del Carducci.
Esempi:
Pianto antico (Rime Nuove, n. 42 del 1871)
Funere mersit acerbo (Rime Nuove, n. 11 del 1870: con note drammatiche)
Presso una Certosa (Rime
e Ritmi, n. 28 del 1895)
Congedo (Rime e Ritmi,
n. 29 del 1895)
Poeti di parte bianca (Levia Gravia, n. 14 del 1867: parte iniziale
e penultima, cioè la prima
ballata di Senuccio)
Per Val d’Arno (Levia Gravia, n. 4 del 1866)
Licenza (Juvenilia)
Per i funerali di un giovane (Juvenilia, n. 52 del 1857)
Juvenilia libro 1: sonetti n. 3, del
1866 – 4, del 1850 – 8, del 1852 – 21, del
1857 – 22, del 1858
Alla signorina Maria A. (Rime e Ritmi, n. 1 del 1887)
Nevicata (Odi Barbare, n. 50 del 1881)
Ave (Odi
Barbare, n. 49 del 1880)
Mors (Odi Barbare,
n. 49 del 1880)
Alla stazione in un mattina d’autunno (Odi
Barbare, n. 29 del 1875)
+dramma
Jaufré Rudel (Rime e Ritmi, n. 3 del
1888) +dramma
Per le nozze di mia figlia (Odi Barbare,
n. 47 del 1880: ultimi sei versi)
Congedo (Odi Barbare, del 1882: con
epopea prevalente)
N.B. Spesso unita, o meglio alternata, all’idillio,
nasce più facilmente da motivi autobiografici
3.Tenerezza e
Commozione
Pur nella rarità della simbiosi fra stati d’animo diversi nei poeti classici,
tuttavia anche in Carducci vi è qualche momento di riuscito apparentamento fra idillio ed elegia
(tenerezza), come ad esempio in Pianto
antico (Rime nuove, 42): “L’albero a cui tendevi| la pargoletta mano,| il
verde melograno da’ bei vermigli fior,|| nel muto orto solingo| rinverdì tutto
or ora| e giugno lo ristora| di luce e di calor.|| Tu fior de la mia pianta|
percossa e inaridita,| tu de l’inutil vita| etsremo unico fior,| sei ne la
terra fredda,| sei ne la terra negra;| nè il sol più ti rallegra| nè ti
risveglia amor.”; e fra epopea ed elegia
(commozione), come in Funere mersi acerbo (id., 11): “Ah
no! giocava per le pinte aiole,| e arriso pur di visioni leggiadre| l’ombra
l’avvolse, ed a le fredde e sole|| vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre|
sedi accoglilo tu, chè al dolce sole| ei volge il viso ed a chiamar la madre”;
ed in Davanti San Guido (ib., 72), a cominciare dalla favola “Sette
paia di scarpe ho consumate...” sino alla confessione esplicita: “Deh come
bella, o nonna, e come vera| è la novella ancor! Proprio così.| E forse quello
che cercai mattino e sera| tanti e tanti anni in vano, è forse qui,|| sotto
questi cipressi, ove non spero,| ove non penso di posarmi più:| forse, nonna, è
nel vostro cimitero| tra quegli altri cipressi, ermo, la sù.|| Ansimando fuggia
la vaporiera| mentr’io così piangeva entro il mio cuore;| e di polledri una
leggiadra schiera| annitrendo accorrea lieta al rumore...”;
4. Idillio prevalente o alternato all’elegia:
Primavere elleniche (Rime Nuove, n. 62 – 3 – 4 del 1872)
Notte di mggio
Davanti San Guido
Traversando la maremma toscana
Idillio maremmano
Era un giorno di festa e luglio ardea (Rime Nuove, n. 71 del 1881)
Una rama d’alloro (Rime
Nuove, n. 65 del 1887)
Visione (Rime Nuove, n. 60 del 1883)
Serenata (Rime Nuove,
n. 51 del 1882)
Lungi Lungi (Rime Nuove,
n. 46 del 1872)
Vignetta (Rime Nuove,
n. 45 del 1884)
Autunno invernale (Rime
Nuove, n. 40 del 1872)
Primavera classica (Rime
Nuove, n. 39 del 1873)
Brindisi d’aprile (prima parte: Rime Nuove, n. 38 del 1869)
Mattino alpestre (Rime
Nuove, n. 36 del 1886)
A madamigella Maria L. (Rime Nuove, n. 39 del 1885)
Ad una bambina (Rime
Nuove, n. 28 del 1883)
Nella piazza di San Petronio (Odi Barbare, n., 10 del 1877)
Egle (Odi Barbare,
n. 37 del 1889)
Primo vere (Odi Barbare,
n. 38 del 1889)
Vere novo (Odi Barbare,
n. 39 del 1880: equivoca, anche epica)
Sogno d’estate (Odi
Barbare, n. 45 del 1880)
Colli toscani (Odi
Barbare, n. 46 del 1880)
Traduzioni:
Tombe precoci (da Klopstock, 1881)
Notte d’estate (id., 1881)
Rimi e Ritmi:
Nel chiostro del Santo (n. 2 del 1887)
Sant’Abbondio (n. 26 del 1898)
Sole e amore (Rime Nuove,
n. 21 del 1872)
Mattutino e notturno (Rime Nuove, n. 22 del 1883)
Qui regna amore (Rime
Nuove, n. 23 del 1872)
Visione (Rime Nuove,
n. 24 del 1872)
Commentando il Petrarca (Rime Nuove, n. 18 del 1868)
Virgilio (Rime Nuove,
n. 10 del 1862)
Il bove (Rime Nuove,
n. 9 del 1872)
Di notte (Rime Nuove,
n.7 del 1851-74)
Al sonetto (Rime Nuove,
n. 2 del 1865)
Poeti di parte bianca (Levia Gravia, n. 14 del 1867: 2° ballata di Gualfredo,
parte finale)
Le nozze (Levia Gravia,
n. 13 del 1864)
F. Petrarca (Levia Gravia, b. 5 del 1867)
In un albo (Levia Gravia,
n. 2 del 1861)
Lauda spirituale (Juvenilia,
n. 64 del 1857)
Alla beata Diana Giuntini (Juvenilia, n. 33 del 1857)
Primavera cinese (Juvenilia,
n. 32 del 1853)
Sonetti IX e X
degli Juvenilia (1852-53 e VI (1851)
4. Dramma e
tragedia:
Nasce dai motivi polemici, specie socio-politici,
del Carducci: è il tono tipico del primo volume di Juvenilia (polemica, per lo più, da motivi letterari o per motivi
personali e religiosi); quello caratterizzante il 5° libro di Juvenilia e tutti i Giambi ed Epodi; ma anche in Rime
Nuove vi sono delle poesie in tale tonalità. Vediamo i più significativi
casi di dramma e tragedia.:
Passa la nave mia (Juvenilia, n. 36 del 1851)
Ça ira (mescolati a epopea: rime
Nuove n. 82-93 del 1883
Prologo (Juvenilia, n. 1 del 1866: ironico)
Intermezzo (1874-1866)
Juvenilia I (n. 5-11-12-13-14-17-18-19-20: sonetti dal 1851
al
1858: imitazioni da
Alfieri a Foscolo)
Alla libertà (Juvenilia, n. 35 del 1858)
A F. (elice) T. (ribolati) (Juvenilia, n. 38 del 1857)
Juvenilia, sonetto n. 39
del 1855
Giuseppe Parini (n. 40 del 1853)
Pietro Metastasio (n. 41 del 1853)
Carlo Goldoni (n. 43 del 1853)
Vittorio Alfieri (n. 43 del 1853)
Juvenilia, sonetto n. 51 del 1856
Juvenilia, sonetto n. 53 del 1856
Agl’italiani (Juvenilia, n. 62 del 1853)
A G. B. Niccolini (Juvenilia,
n. 66 del 1858)
I voti (Juvenilia,
n. 58 del 1858)
Tutto il libro IV di Juvenilia (eccetto A Vittorio Emanuele – Alla
croce di
Savoia – Il plebiscito – Sicilia e la
rivoluzione: epici) è drammatico
con forti
venature di epopea
Poeti di parte bianca (Levia Gravia,
n. 14 del 1867 – parole del Marchese:
vv. 65-90)
Per la spedizione in Messico (Levia Gravia, n. 19 del 1862)
Anche per la stessa (n. 20 del 1862)
Dopo Aspromonte (n. 22 del 1862)
Carnevale (Levia Gravia, n. 23 del
1863)
Curtatone e Montanara (Levia Gravia, n. 28 del 1867)
Per il trasporto delle reliquie di Ugo Foscolo in
Santa Croce
(Levia Gravia,
n. 29 del
1871)
Giambi ed Epodi e Intermezzo: complessivamente sono 32 composizioni
drammatico-polemiche
(comprendendo anche il Prologo e l’Intermezzo).
Rime Nuove: non così rare le poesie drammatiche
Omero (n. 4-5-6: del 1861-62: fra epico,
drammatico ed elegiaco)
Colloqui con gli alberi (n. 8 del 1873)
Funere mersit acerbo (n. 11 del 1870:
con elegia)
Giustizia di poeta (n. 71 del 1871)
Ho
il consiglio o dispetto (n. 19 del 1870)
In riva al mare (n. 26 del 1884)
Martin Lutero (n. 31 del 1886)
La stampa e la Riforma (n. 32 del 1869)
Dietro ad un ritratto (n. 35 del 1881)
In maggio (n. 41 del 1871)
Tedio invernale (n. 44 del 1875)
Anacreontica romantica (n. 49 del 1873)
Disperata (n. 54 del 1883)
In Carnia (n. 59 del 1885)
Idillio maremmano (n. 68 del 1867-72: parte finale)
I due titani (n. 75 del 1885)
Ninna nanna a Carlo V (n. 80 del 1885)
Ça ira (n. 82-93
del 1883: 12 sonetti in cui epopea e dramma si mescolano
inestricabilmente)
Il libro VIII (traduzioni) è
per lo più drammatico: vi fanno eccezione Gherardo
e Gaietta; La lavandaia di San
Giovanni.
Odi Barbare e Rime e Ritmi:
Dinanzi alle Terme di Caracolla (Odi Barbare, n. 4 del 1877)
Le due torri (n. 11 del 1889)
Per la morte di Napoleone Eugenio (n. 17
del 1879)
Miramar: 2° parte (n. 22 del 1878)
Saluto d’autunno (Odi
Barbare, n. 41 del 1881: equivoca, prevale epopea)
Su Monte Mario (Odi
Barbare, n. 42 del 1882)
Per le nozze di mia figlia (Odi Barbare, n.- 47 del 1880)
Presso l’urna di P. B. Shelley (Odi Barbare, n. 48 del 1884: misto ad epopea)
Alla stazione… (n. 29 del 1875)
Mors (n. 30 del 1875: fra elegiaca e dramma)
Figurine vecchie (n. 35 del 1881)
Carlo Goldoni (Rime e Ritmi,
n. 12 del 1893)
Alla città di Ferrara (Rime e Ritmi, n. 15 del 1895)
Esequie alla guida E.R. (Rime e Ritmi, n. 18 del 1896)
La mietitura del turco (Rime e Ritmi, n. 21 del 1897
Jaufré. Rudel (n. 3 del 1898)
Cadore (passim: n. 11 del 1892)
Alla figlia di F. Crispi (Rime e Ritmi, n. 14 del 1895)
Per il monumento di Dante (Rime e Ritmi, n. 20 del 1896)
La moglie del Gigante (Rime e Ritmi, n. 19 del 1896)
SCRITTI
IN PROSA
Carducci rimane uno dei nostri prosatori migliori e,
certo, fra i critici di letteratura, è lo scrittore che più volentieri fa
leggere i suoi lavori, per il plus-valore lirico, anche se, per valore
specifico critico, non sono all’altezza di quelli di De Sanctis.
Continua il tono epico, onnipresente, anche se
quantitativamente il tono prevalente è quello polemico-drammatico (Critica ed arte, 1874 / Sfogo, 1887 / Moderatucoli, 1879). Il tono epico, però, domina incontrastato (Discorso
per la morte di Giuseppe Garibaldi – il migliore tra i discorsi – è del
1882). Continua l’idillio (Ça ira:
parte quarta). Interviene un tono lirico nuovo: l’umorismo (ironia ed auto-ironia: Le risorse di San Miniato (che è il capolavoro della prosa). E si
legga anche la parte iniziale di A
proposito di alcuni giudizio su A. Manzoni e della prosa Ça ira (spiegazione-commento
al significato dei sonetti di quel titolo).
ELEMENTI DI
TECNICA STILISTICA
Ci limitiamo alle poesie.
Complessivamente il Carducci usa uno stile classico: lo usa d’istinto,
nonostante le condanne del padre e gli esempi del romanticismo imperante (cfr. A proposito di alcuni giudizio su Alessandro
Manzoni); e lo usa di proposito, con voluto impegno.
Classicità
dello stile
significa (contro la spontaneità del Romanticismo) cura assidua della forma.
Ecco com’è vissuto e oltrepassato l’oraziano “nonum prematur in annum” (si
stampi dopo otto anni): “Per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù
gittare a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia
della lingua e nei canali del verso, formarle in abbozzo e poi prendermelo su
di quando in quando, e darvi della lima e della stecca dentro e addosso
rabbiosamente…e io vi tornavo addosso a sbalzi come un orsacchiotto rabbonito e
mi v’indugiavo sopra, brontolando e non mi risolvevo mai a finire (Le risorse…, ultimo paragrafo).[69]
E si veda anche in Congedo (Rime Nuove) “il poeta è un grande
artiere| che al mestiere| fece i muscoli d’acciaio…”; “La forma ha da essere
almeno tre quarti della poesia” perché questa sia arte; ecc.
Scendendo ai segni più specifici, troviamo anzitutto i metri barbari, cioè la trasposizione dei versi latino-greci alla poesia italiana,
pur trascurando la quantità delle sillabe[1].
Si è già detto dei limiti in proposito: la trasposizione, solo nel caso delle
strofe saffica e alcaica avviene in modo accettabile, liricamente facilitante e
musicalmente arricchente, perché anche in latino il numero delle sillabe e
degli accenti sono fissati, sicché la “quantità” delle sillabe stesse perde
importanza nelel lingue romanze e questi due schemi si trasformano praticamente
in metri sillabici.
Ma per gli altri metri, numerosissimi, che il
Carducci traspose dall’antichità, il risultato è discutibile e in genere
deludente.
Proprio per questa raffinatezza della forma
elaborata, quando il Carducci manca d’ispirazione, non cade nella banalità
prosaica, ma evade nella fredda e composta eleganza dei parnassiani o si agita
nella retorica enfatica dei classicisti. Il peggior Carducci presagisce se non
il migliore, certo il più solito D’Annunzio. Naturalmente questo Carducci
“afono” o “soprattono”, lo si trova nelle Odi
barbare e nei Rime e Ritmi, fra
le composizioni non ricordate da noi nella analisi dei TONI LIRICI; ed anche in certe parti di quelle ricordate.
Per i “presentimenti” di D’Annunzio in particolare,
cfr. Ruit hora (Odi Barbare, n. 28 , vv. 21-24: cfr. Siera fiesolana) e Nella
piazza di San Petronio (Odi Barbare,
v. 16: aggettivo “aulenti”).
Usò in tutto dieci metri antichi: esametro (serie
continuate)| esametro+pentametro (distico elegiaco)| l’alcaico| il saffico|
l’asclepiadeo (in cinque diversi tipi)| il giambico| l’archilocheo| l’alcmanio|
il pitiambico primo| il pitiambico secondo.[70]
Manara Valgimigli ha osservato come Nevicata sia l’unico caso di distici
latini in cui – nello schema dei settenari e novenari neolatini – viene però
rispettato la (possibile) lettura ritmica, a scansione cioè di dattili (o
spondei) come in latino (riprendiamo da G.B. Salinari, Carducci, in Storia
della Letteratura Italiana, Garzanti / VIII / 1976, pp 554-555).
Il tentativo dovrebbe essere nato dalle osservazioni
del discepolo Giovanni Pascoli, che – in garbata polemica col maestro – aveva
presentato al Carducci un lavoro universitario nell’anno 1880-1, esigente che
settenari e novenari avessero accenti come dattili o spondei (trochei) anziché
accenti più liberi, come di solito in italiano. E Carducci compose Nevicata nei primi mesi del 1881: e qui
troviamo gli unici pentametri composti da due emistichi, tronchi entrambi, ad
imitare il dattilo catalettico latino. Va notato però che Nevicata, pur letta con scansione latina dattilico-spondaica, non
trasmette lirismo: può esser dipeso dalla mancanza di estro artistico nel
Carducci in quel momento; o dalla difficoltà della nuova attenzione alla
tecnica che assorbiva la tensione della mente, impedendole di sorvegliare
invece il trasferimento della vis emotiva nelle parole; o, almeno in parte,
dalla mancanza del senso della quantità delle nostre sillabe. Lo stesso Pascoli, che tradusse squarci
dall’Iliade e dall’Odissea con tali criteri, non fece grande poesia: esemplare
l’applicazione, ma non efficace l’effetto. D’altronde, anche molti versaioli
latini (Ovidio è il caso più clamoroso), avevano il senso della metrica e
quantità delle sillabe nel sangue, eppure non riuscivano ad esprimere vera poesia.
Tra l’alcaica
e la saffica
– che ripetono facilmente in italiano l’accentuazione già introdottasi accanto
alla scelta quantitativa in greco e latino
-le migliori risultanze le dà la
seconda, che è anche lo schema più facile: con una innata tendenza al volo
epico sottolineato dalla “acclamazione” del quinario (gliconio) che conclude i
tre endecasillabi.
Vocabolario
Eletto, aulico, latineggiante[71]
(si ricordi: la poesia è montata di un tono almeno sopra la prosa) Esempi:
Davanti
San Guido: occaso = tramonto / erme = solitario / cure =
preoccupazioni / diva = divina / lasciatem’ire = lasciatemi andare.
Dinanzi alle
terme di Caracalla: crocidanti = gracchianti / ardua sfida = ostacolo difficile da
superarsi / augure stormo = stormo da cui i romani solevano trarre auspici /
nume = divinità / deprecanti = scongiuranti / Palazzo = Palatino / eccelso =
altissimo / ara vetusta = altare antico / quirite = romano / saturnio carme =
canto dei romani primitivi.
Esempio notevole le due strofe della Chiesa di Polenta: “Ombra d’un fiore è la beltà, su cui / bianca
farfalla poesia volteggia; / eco di tromba che si perde a valle / è la potenza.
/ Fuga di tempo e barbari silenzi / vince; e dal flutto de le cose emerge /
sola di luce a’ secoli affluenti / faro, l’idea.
Esempio da Per la
morte di Napoleone Eugenio: “Questo la inconscia zagaglia barbara /
prostrò, spegnendo gli echi di fulgida / vita, sorrisi da i fantasmi / fluttuanti ne l’azzurro immenso.
Mitologia
ritornata in onore come mezzo per dilatare verso l’infinito e l’eterno i valori cantati
dal poeta; e per celebrare l’ideologia pagana e anticristiana del poeta: Primavere elleniche: dorica / Alle fonti del Clitunno.
Bastano talora i titoli: A Febo Apolline / A Diana
Trivia (entrambi Juvenilia).
In Davanti San Guido: “E Pan l’eterno, che
su l’erme alture / a quell’ora e nei
pian solingo va / il dissidio, o mortal, de le tue cure ne la diva armonia
sommergerà”.
Alle fonti del
Clitunno (nume
Clitunno)
Dinanzi alle
terme di Caracalla (divinità indigete di Roma: la dea febbre / la dea Roma)
Primavere
elleniche:
(Apolline / Giove / Afrodite / Driadi / Oreadi / Naiadi)
Con la mitologia, tutto il corteggio dei personaggi,
poeti, ecc. dell’antichità (Omero, Alceo, Saffo…Annibale, Scipione, Virgilio….)
Icasticità,
visività della fantasia carducciana
Balza immediata la chiarezza figurativa, evidenza
visiva anzi tridimensionalità plastica dei paesaggi descritti, delle vicende
narrate, dei personaggi fotografati dal Carducci. Immaginativa prevalentemente
visiva: contorni netti e precisi, personaggi oggettivati, cioè non calchi della
psicologia personale del poeta (vedi Petrarca nel poema “Africa”), non pure
proiezioni autobiografiche, arbitrariamente ridotte e forzate entro pochi
modelli analoghi alle poche note sensibilizzate della psiche del poeta.
Diversamente da Petrarca, Tasso e Alfieri che sono racchiusi in un numero
limitato di schemi; e come Dante e Manzoni, Carducci ha una scacchiera infinita
di tipologie caratteriali. Il suo classicismo confina qui col realismo. Egli
però è ottimista nel complesso; il realismo è tetro, anche se gigantesco.
Carducci è solare, apollineo come temperamento, al di là addirittura della
misura equilibrata o, almeno, media: pur con declini nel corso degli anni e con
alternanze nel corso dei giorni (collerico, cicloide). Ecco la celebrazione del
Sole (Classicismo e romanticismo / Vendette della luna: anche se la luna si
riprenderà in Notte di maggio / Tombe precoci / ecc.
Casi particolarmente vividi di descrizioni:
di paesaggi: Sogno
d’estate / Davanti a San Guido / Comune Rustico
di personaggi: Parlamento
/ Faida di comune
di vicende movimentate: Faida / Alle fonti del
Clitunno
La musicalità
E’ noto che Carducci aveva in odio il pianoforte. Né
aveva particolare sensibilità alla musica. Nelle poesie tale carenza si sente;
ne segna un limite rispetto al romanticismo in genere (si ricordi Manzoni, che
compone il “5 Maggio” mentre Enrichetta suona brani guerrieri al pianoforte).
Pure una musicalità ben precisa c’è in Carducci:
quella attinente la potenza, la forza , la grandiosità. Solo che è a un senso
unico: manca – in genere – di dolcezza, di tonalità minori.
Come si costruisce la musica “epica” del Carducci? Con
vocali larghe (in posizione ictata specialmente: cfr Parlamento) e con consonanti forti prevalenti (palatali, gutturali,
labiali: ridotto il numero di fruscianti ecc.). Ma là, dove Carducci è più
dolce, allora si ha questa combinazione (spontanea naturalmente): le vocali
tendono a mantenersi prevalentemente larghe; sono le consonanti (liquide,
nasali, fruscianti...) che segnalano maggiormente la “novità stilistica” della
tonalità contemplativa, mentre si
moltiplicano le parole sdrucciole: naturalmente la fondante latitudine delle
vocali, comunica quel sapore di permanente epopea anche ai brani idillici ed
elegiaci, quel timbro di magnanimità e di magnificenza che è propria degli
stessi brani drammatici e tragici del migliore Carducci (quello fuori di Giambi ed Epodi, vogliamo dire: questi
meritano anche stilisticamente uno studio a sé stante).
Prendiamo quattro esempi di poesia dolce:
Pur nella presenza di vocali “offuscate” (u) o
“tenui” (i) e di vocali “medie (e),
l’ordito vocalico resta sostanzialmente potente: a|o, dittongo “au” (che addolcisce nella tenue “u” la
forza della “a”). Invece la trama consonantica sposta lo spettro verso liquide,
nasali, fruscianti, palatali dolci con una intensità tale da imporsi
all’orecchio – fantasia – emotività: è il modo non così peregrino (da Parini a
Foscolo, il fenomeno può essere osservato in vari poeti), è il “compromesso” di Carducci per esprimere
dolcezza, tenerezza, contemplazione.
Voli pindarici
Intendiamo con questo termine il passaggio senza
collegamento (espresso verbalmente) da un “fatto” (oggetto/ personaggio/
vicenda storica) ad un’idea, di cui la realtà fattuale diventa simbolo.
Naturalmente vi deve essere un aggancio, un minimo di fondamento, in qualche
particolare del “fatto”, perché esso possa divenire icona del messaggio
spirituale che gli impone il poeta. Non si tratta di allegoria, perché il poeta
spiega (anzi “svolge” lungamente) il significato filosofico-morale della
vicenda presa come spunto. Anzi la differenza tra allegoria-parabola e il
volo pindarico sta proprio in questo: nell’allegoria si descrive la “realtà
materiale” lasciando intuire o accennando solo il senso spirituale; nel volo
pindarico, il fatto esterno è accennato sommariamente, per permettere il “decollo”
verso la interpretazione e “sublimazione” ideale.
Caso clamoroso
di tale tecnica nel Carducci è quello presente in Alle fonti del Clitunno. La contemplazione delle
pure acque dello stagno-sorgente del fiume; e - per contrasto – la visione
deprimente dei salici piangenti che circondano tale polla (la quale si fa
laghetto e poi rivo), desta nel Carducci – per memoria spontanea – il ricordo
di due vicende storico-morali: quella della politica pagana dei secoli
anteriori a Cristo, vicende ricche di guerre e lotte, di costruzioni e
capolavori; e quella della condizione dei secoli cristiani, di silenzio e
preghiera, di penitenze e umiltà, e (secondo l’opinione del Carducci) di
inettitudine e di rinnegamento della natura. Questi ultimi sono, secondo il
poeta, atteggiamenti che negano la
natura e portano ad una specie di autolesionismo: di qui il volo finale di canto alla vita, intesa paganamente come
serenità gaudente senza preoccupazioni ascetico-morali; canto che vuol essere
anche presagio per un ritorno a tale cultura o mentalità.
Altro casi di
volo pindarico, di significato però opposto, è costituito dalla Chiesa di Polenta. Ivi l’incontro con le
rovine del castello dei Da Polenta; col cipresso che una tradizione popolare
afferma essere ancora quello sotto cui Paolo e Francesca si ritrovarono per i
loro convegni di amore, motivo della loro tragica morte; con la chiesetta,
infine, rimasta eretta (pur se priva di campanile) – sola – dopo la caduta o la
morte dei protagonisti di quei luoghi e di quelle vicende di dantesca
ispirazione, spinge il poeta a meditare sul diverso valore e persistenza dei
beni ideali della umana esistenza.
Il poeta, meditando con meno parzialità e
passionalità l’opera di pacificazione della Chiesa tra barbari e romani nei
secoli medievali, giunge a intuire l’importanza della carità e della
spiritualità cristiana anche per l’umano consorzio civile e fa della chiesa il
rifugio di “vincitori e vinti” e il simbolo della idea-verità che sola rimane
eterna nel succedersi e morire di altri pur appariscenti ed affascinanti valori
terrestri, quali la bellezza e la potenza. Essa sola sfugge a quella forza
operosa che, foscolianamente, affatica
le cose tutte, di moto in moto, fino alla tomba.
Il passaggio dalla descrizione degli “oggetti” alla
celebrazione del loro simbolismo è improvviso e inaspettato. I versi 1-12, da
una parte, e quelli 13-20, dall’altra, non sono collegati da alcun filo logico
espresso verbalmente: l’autore ed i lettore devo affidarsi a tutto un abito
culturale di erudizione e di meditazione che permette loro di “trasvolare” da
una cosa alla sua transignificazione, mediante una duttilità mentale che può
tornare difficile le prime volte, ma alla fine sorprende per il suo ardimento,
affascina, entusiasma, eleva.
Meno violento, ma pur sempre ardito, il passaggio tra i vv. 21-40 da una parte
(Dante nella chiesa dei Da Polenta, presso cui trascorse gli ultimi anni di
vita) e i versi seguenti, in cui Carducci passa a celebrare le vicende del popolo
italico in rapporto appunto alla Chiesa, che ha rimescolato le razze e i popoli
durante i secoli – bui e duri – delle invasioni fino al mille, preparando la
civiltà dei liberi comuni che vi succedette.
Ed alla fine un altro volo pindarico. Potrebbe
sembrare che si tratti, a dir il vero, vuoi di un “atterraggio” umile e
pedestre oppure di una discesa precipitosa e meschina: Carducci si fa
promotore,quasi conclusione di tutto questo impegno storico-culturale, della
ricostruzione del campanile che, caduto, non permette più il suono della campana.
Ma ancora una volta l’emotività gigantesca salva il candore, la semplicità
disarmata del poeta: il colpo d’ala nella chiusa (sul tema dell’Ave Maria: da
noi riportata poco sopra) è di un tale livello lirico, da squalificare ogni
obiezione logica e pratica: il “volo” non è razionale, è ideale; è emotivo. C’è
da chiedersi se mai uno delle miriadi di predicatori (cristiani e no)
elemosinanti per un fine, nobile e urgente fin che si vuole, abbian mai trovato
tanta eloquenza e poesia, tanta partecipazione lirica, tale forza di
sublimazione ideale per la loro richiesta di sussidio ad opera religiosa.
Carducci, poeta pagano, vi è riuscito. Riparazione voluta o nemesi storica?
Provvidenzialmente, tale poesia gigantesca fu castigo (per la forzata stima ed
esaltazione di un istituto sempre aggredito ed insultato) o misericordia
(preparazione ad una resipiscenza che gli abbia valso il perdono divino)?
Ignoriamo: ma la commozione pei valori religiosi, cristiani e “mariani” è
innegabile.
Benché meno riusciti poeticamente, tuttavia la
tecnica dei “voli pindarici” è continua in Bicocca
di San Giacomo , che pure resta una composizione dalle ali tarpate. Essa
tenta continuamente di spiccare il volo e rimane a mezz’aria: non perché
“celebrativa” (cfr. Salinari, cit 559-62) ma perché la materia è cosi varia ed
estesa nel tempo (tutta la storia della Casa Savoia!), così diversa e difficile
da riunire sotto il comune denominatore della “fatalità del trionfo” (di quel
casato: in vista del risorgimento italiano), che il poeta avrebbe avuto bisogno
di tempo e ispirazione straordinaria per proiettare tanti temi diversi sotto
una prospettiva unificatrice e convincente. Questi limiti non tolgono il valore
che affiora e si impone dai versi della Bicocca,
se riletti adeguatamente ed illustrati
nelle loro implicanze storiografiche: c’è dell’impeto, anche se non
potente come in Alle fonti del Clitunno,
ne La Chiesa di Polenta o come in Piemonte, che analizzeremo ora.
Poesia
riuscita e potente quella del Piemonte: inferiore certo a Parlamento e Davanti a San Guido, ma a non molte altre di Carducci e della
lirica italiana. Anche questa rievocazione di Carlo Alberto, Garibaldi e della
prima guerra del Risorgimento ha un inizio descrittivo-geografico (vv. 1-8), da
cui esplode, si stacca sublime il “nero volo solenne” (vv. 7-8), davvero
paragonabile a quello dell’aquila di tra le vette verso la regione subalpina
del Piemonte abitato. Dalla geografia alla storia: i vv. 9-52 accennano
luminosamente, in potenti sintesi, le vicende delle città piemontesi
vagheggiate dal poeta dall’alto delle Alpi. Dalla storia remota (suggerita
delle alte roccaforti) prendendo spunto dall’ultima citata, Asti e
dall’astigiano Vittorio Alfieri, con un nuovo mirabile volo pindarico, Carducci
celebra la storia recente, dai fermenti del 1848 alla fatal Novara, dalla
resistenza in Roma di Garibaldi contro l’assalto dell’esercito francese alla
repubblica del 1848-1849, alla morte di Carlo Alberto ad Oporto. Il terzo volo
pindarico ci trasferisce alla gloriosa riabilitazione, dal pur eroico teatro
delle vicende terrene, al cosmico infinito scenario del giudizio di Dio in
Cielo (v. 110: “venne dall’alto un vol di spirti…”).
A noi può interessare o meno la riabilitazione di
Carlo Alberto da parte degli stessi passati oppositori e perseguitati, che ne
spiegano e difendono ora l’operato al cospetto “di Dio vendicatore”; a noi può
tornare simpatica o antipatica la indecisa figura dell’Italo Amleto: certo che
i versi del Carducci sono di un calore incandescente, di un’altezza da brividi.
Voler vedere nel Piemonte un’ode celebrativa di retorica fattura, significa
essere prevenuti o non averla letta sufficienti volte per superarne gli sbalzi
logici e assimilarne i riferimenti storici frequenti, onde aver la mente
sgombra per attendere al solo plus valore lirico dell’ode sublime.
Noi vogliamo sottolineare questo fatto che ci sembra
significativo: inconsapevolmente, spontaneamente il Carducci parla quattro
volte di “volo” (oltre i vv 7-8 e il 111 già citati, cfr. vv. 43-49): per noi
sono questi dei veri “lapsus” del subconscio carducciano; spie acute
dell’operazione che stava eseguendo la sua mente, degli sbalzi e delle
impennate della sua fantasia che poggiava magnifica e sicura – pindaricamente –
dallo spazio al tempo, dal passato al presente, dalla terra al Cielo.
Lo stile della
prosa carducciana
1. Rifiuta la prosa parlata come metro per la prosa
scritta: la lingua che egli auspica per quest’ultima (solo prosa artistica) è
opera di impegno, studiata sui classici antichi e non solo sul fiorentino
contemporaneo.
2.
In
concreto: sul ceppo della lingua parlata del fiorentino, appreso in casa dalla
nonna (“la signora Lucia, dalla cui bocca, / tra l’ondeggiar dei candidi
capelli, / la favella toscana, ch’è si sciocca / nel manzonismo degli stenterelli,
/ canora discendea, col mesto accento / della Versilia che nel cor mi sta,/
come da un sirventese del Trecento, / piena di forza e di soavità”) egli
inserisce senza tema, latinismi, locuzioni del Tre e Cinquecento, parole
coniate sul momento, persino dialettismi e francesismi: in funzione poetica.
Mentre il Manzoni, colla proposta del “fiorentino ad ogni costo”, aveva di mira
più lo scopo pratico di far parlare un linguaggio comune a tutti gli Italianai,
per fini di vita vissuta, il Carducci ha la mira di esprimere lui sentimenti
eccezionali per la gioia estetica dei letterati e dei loro lettori. Ecco come
la definisce Antonio Baldini “Prosa sovrana, sostenuta da un magnanimo respiro
anelante ad una severa ed insieme affabile compostezza”.
Significato
del Carducci
1. Come poeta
egli è certamente uno dei più grandi nostri, inferiore solo a Dante, Foscolo e
Manzoni (le tre corone). Egli frequenta tutti i toni lirici, predilige fra
questi quello più virile e potente –
l’epopea – e, se anche non sa creare sinergismi o contesti di commozione e di
accoramento, è però aperto all’umorismo, che è pure una forma di espressone
emotiva polivalente. Egli si è trovato a dar voce a molte istanze (popolari,
storiche, medioevali) sentite e sofferte, ma raramente espresse dal
Romanticismo con tale forza lirica; egli riassorbe in sé non poche componenti
del movimento che egli aveva combattuto e snobbato, per l’errore di prospettiva
uguale e contrario a quello dei sui oppositori manzoniani o meglio
berchettiani.[72]
2. Ancora, Carducci
ha elevato a forme classiche originali, sempre degne e spesso sublimi o
sorprendenti, le aspirazioni realistiche della sua generazione, riciclando così
nello stesso stile raffinato ed elegante due correnti (romanticismo e verismo)
di pensiero e di poetica opposte alla sua: anch’egli, in questo, “fe’ silenzio
ed arbitro / si assise in mezzo a lor”.
3.
Egli
che, come vedremo, in sede culturale non seppe mediare le due tendenze
opposte di razionalismo ed irrazionalismo, di sentimentalismo sognatore e
di scetticismo sofista, di materialismo ed idealismo, di ottimismo leibniziano
e di pessimismo leopardiano, egli in
sede di emotività e di stile (i due
campi in cui era geniale) seppe conciliare o superare (o frequentare almeno separatamente) tanto
la spontaneità romantica quando la lima classica, tanto le tonalità depresse
che quelle esultanti, tanto il realismo di uno stile rubesto e di sentimenti
virili quanto l’aura sognatrice di rievocazioni storico-fabulose e di tristezza
sconfortante.
4.
Come teorizzatore ed
operatore di estetica e di critica letteraria
(come “maestro e professore di letteratura”), Carducci non fu un genio nella
filosofia (neppure nella sezione “estetica”), come lo fu nell’espressione
dell’emotività: creatore in poesia, visse di intuizioni disorganiche, parte
proprie, parte ereditate dalla tradizione (da Orazio – Ars poetica – al Monti),
senza riuscire ad attingere né un sistema unitario né una prassi magisteriale
per i posteri.
Carducci critico, si legge volentieri, ma dai suoi scritti si ricava poco per la comprensione e degustazione del testo poetico. Come ci dicono le sue lettere alla Cristofori-Piva, il meglio (desanctisiano) delle sue analisi se ne andava con le sue spiegazioni orali, ritenute inutili o troppo soggettive, forse, per essere scritte. Non pensava che il bagaglio di notizie, che accumulava, poteva trovarle qualunque ricercatore o filologo diligente, mentre certe osservazioni di Foscolo e De Sanctis si inventano solo per una aliquale congenialità col poeta. La sua concezione della poesia tocca idee, ideali, sentimenti (amore, patriottismo), stile: la forma soprattutto, come se questa non fosse una funzione ed una dipendenza del fattore emozionale. Che l’emotività sia il proprium della poesia; che il problema della forma consista nel tradurre “adeguatamente” (in termini razionali comunicativi) le emozioni, così da creare un organismo espressivo a sua volta “emotivo-genetico”, non lo sospetta minimamente. Di qui l’essersi “accasato” in una scuola, averne difeso verità ed errori, unilateralità ed esagerazioni; l’essersi contraddetto poi coi fatti, rappacificandosi con tutta la materia del romanticismo migliore e della sfera emotiva “minore” (della melanconia) nelle ultime collezioni e negli ultimi decenni di attività poetica. Non sapeva che egli – credendo di teorizzare la realtà oggettiva dell’arte in poesia, in realtà esprimeva, senza coordinarle o subordinarle, impressioni che – di tempo in tempo – la sua mente citava come componenti del fenomeno artistico. Egli aveva una carica di emotività che non permetteva alla mente di elevarsi ai concetti limpidi della filosofia: egli non riusciva a decantare, in pensiero oggettivo, l’emotività prepotente che, mentre lo rendeva poeta geniale, tiranneggiava però la sua intelligenza, fino a confonderla: Carducci non era un filosofo, neppure a livello di poetica, estetica e teoria della critica letteraria.
5. Come uomo
di cultura e pensatore politico. Anche in questo campo, Carducci non fu
geniale: fu un onesto sensale, recettore prima e trasmettitore poi, della media
degli ideali “vaganti” tra gli intellettuali, seguaci delle forze
politico-sociali dominanti ai suoi tempi. Carducci non fu l’unico disorientato
messo in circolazione dall’università di Pisa, se Gino Capponi poteva [73]
vedervi “il principio di una letteratura empia e beffarda che avrebbe fatto
tabula rasa d’ogni credenza e sovvertita la morale”. Carducci non fu l’unico
intellettuale sradicato dalla fede cattolica, prima, per gli avvenimenti che
misero in contrasto papato e unità d’Italia; non fu l’unico che, dissipato il
patrimonio di fede cattolica, scese poi, di grado in grado, le tappe della
perdita di ogni fede, da quella in Cristo come Dio e Salvatore, a quella nella
esistenza stessa di una Divinità personale (materialismo). La passione per
l’Italia lo portò tra le braccia di Mazzini e Garibaldi, prima; della
Massoneria, poi; del positivismo immanentista ed ateo di Proudhon e del
socialismo utopistico e anarchico infine. Egli fu discepolo dapprima di quella
cultura francese di cui quella italiana era un’appendice, come si lamenterà
Carducci, come già riferito, nella Prefazione al Prometeo liberato: “Di letterature straniere l’Italia non legge che i francesi di
questi ultimi anni: in letteratura ella è già un dipartimento della Francia”.
Sul piano politico-pratico, ebbe modo di riprendersi, di accostarsi al buon senso della verità effettuabile. Così, come comprese che il giacobinismo e l’anarchia a nulla giovavano; che il benessere economico è valore inferiore alla sicurezza politica e all’ordine sociale; che certe prospettive sociologiche sono utopistiche, perché presuppongono la disponibilità di un’inesauribile ricchezza economica. Difatti, senza lo stimolo del guadagno o della proprietà privata (essendo minoranza ancora infima la parte di umanità disposta a lavorare per puro ideale religioso od umanistico) non si vede donde possa venire la ricchezza da distribuire a tutti. Di qui le sue contraddizioni e ribaltamenti o, meglio, passi a ritroso, nella sua linea politica. Egli fu incoerente tra gli inizi ribelli alla classe politica al governo e la maturità acquiescente alla prassi dominante; ma fu anche un realista, per il riconquistato senso delle leggi dell’economia, il buon senso della misura e della gradualità nelle riforme, della possibilità concreta del paese, del fattore “tempo” ineludibile. A parte i contenuti particolari che stiamo per esaminare, egli fu un attore politico normale, secondo la regola tratta dall’adattamento di una sentenza scritta da Ignanzio Silone: “se non si è un po’ a sinistra a vent’anni, si è senza cuore; ma se si è ancora a sinistra a quarant’anni, si è senza testa”.
Che se si volesse giudicare il “colonialismo” di
Carducci e di Crispi, certo occorrerebbe dire che fu un delitto: ma questo errore
era troppo consono col materialismo di ogni colore (destro o sinistro che
fosse, radicale o socialista) che dominava l’opinione intellettuale del tempo!
Purtroppo, in questo, i socialisti tedeschi si
avviavano a non smentire la politica di Guglielmo II. Né si dica che i soldi
delle imprese africane potevano servire a risolvere i problemi economici
dell’Italia: ci voleva ben altro! Ci vuole il progresso tecnico che “metta a
disposizione tempo libero”, permettendone una maggior produzione in minor tempo,
così da abbassare il prezzo unitario e offrirne il godimento ad un sempre
maggior numero di persone. Senza il progresso tecnico, non c’è sistema politico
o dottrina sociale che possa rimediare ai mali della povertà o disuguaglianza
economica. Senza dire che, con il colonialismo, si finiva per fare noi Italiani
quello che era stato il motivo morale (sufficiente?) per giustificare la guerra
all’Austria: assoggettare popoli per sfruttarli.
Ma se i suoi ripensamenti o ribaltamenti politici
sono, per lo più, “ricuperanti” (del buon senso), altrettanto non si può dire delle sue posizioni filosofico religiose,
le quali mantenne (per quanto se ne conosce ufficialmente) fino in punto di
morte. Nonostante tutti i suggerimenti in contrario che gli venivano dalla
sua stessa tristezza e dal circolo vizioso in cui l’assenza di fede lo veniva a
porre, se egli poté (in un “brusco scatto” e “in polemica” dice Salinari: noi
diremmo “in un momento di sincerità”) separare le sue responsabilità letterarie
da quelle del Leopardi (Lettere, XI, p. 28: a Domenico Gnoli, febbraio 1887),
non riuscì a diversificarsi da lui a livello ideologico e psicologico.
A livello ideologico egli poté bensì esaltare la
vita, ma finché questa lo favorì e lo portò in alto. Quando la morte del
figlioletto Dante, prima; il declino della salute, poi, gli segnalarono che
l’uomo non è il signore della propria esistenza, la quale ci promette una
felicità che non trova qui in terra il suo esaudimento, allora egli assunse la
stessa terminologia di Leopardi. La lettera a Lidia (C.C.Piva) del 10.07.77, già citata, finisce troppo
leopardianamaente: “Tutto è nulla e nulla è tutto”...
A livello psicologico (della concreta condotta
umana, risultante dal confluire di stimolo emozionale e di intenzione
razionale), due atteggiamenti sono notabili. Da una parte, egli non sa
soffocare l’urgenza della problematica esistenziale e fra i suoi versi migliori
ci sono quelli dedicati alla istanza suprema della conoscenza, cioè al mistero
della vita. In certi componimenti, sono addirittura gli unici versi davvero
altissimi: pare proprio che -accanto a quello storico – questo della
problematica esistenziale fosse il tasto più responsivo e dolente dell’anima
carducciana.[74]
Dall’altra parte, egli non sa piangere, cioè è
portato e si lascia trascinare piuttosto ad obliare l’angoscia che attenta ad
affermarsi nel suo spirito di fronte a tale penosa condizione: è soloquesta la
differenza fra l’ingenuo abbandono al pianto del poeta recanatese e
l’arbitraria sua inibizione nel vate maremmano.
A noi pare utile
citare, qui, una nota delle “Osservazioni sulla morale cattolica” del
Manzoni (parte I, c. 3) che fa comprendere l’irrazionalità delle posizioni
negatrici dell’immortalità dell’anima:
“La contraddizione c’è bensì in quest’accusa
medesima, poiché è fondata su due supposizioni opposte tra di loro, e insieme
necessarie all’assunto: cioè che l’ordine
morale, relativamente all’uomo, si deva compire in questa vita, e che
tutto per l’uomo finisca con la morte. Dico necessarie all’assunto; giacché, se
s’ammette che l’ordine morale non si compisca che al di là di questa vita, e
che, per conseguenza tutto non finisca con la morte, l’accusa cade da sé. Dico
poi, supposizioni che oltre all’essere totalmente arbitrarie, si contraddicono.
Infatti, il supporre un ordine compito in questa vita, e supporre che l’uomo la
passi tutta, non solo nell’integrità dell’innocenza, ma nel perfetto esercizio
della virtù; e d’altra parte il supporre che per l’uomo tutto finisca con la
morte, è supporre che quest’uomo, dotato com’è di mente e volontà e per una
conseguenza necessaria, d’un amore intelligente e illimitato del proprio
essere, ne sia spogliato in un dato momento: cioè riceva la più ineffabile
pena, in uno stato d’innocenza e di virtù. Non si può negare più apertamente di
quello che faccia questa seconda supposizione, l’ordine che è l’oggetto della
prima. E poi nello stesso tempo, la più dimessa confessione d’ignoranza,m e la
più altera pretensione di sapienza, il dire che non s’intende punto come l’ordine
ci sia e che s’intende benissimo come ci potrebb’essere.”
Carducci,
come Leopardi., seppe essere coerente fino a questo segno: come Foscolo,
d’altronde. E che uomini di così diversa complessione psicologica, di così
specificamente orientata intelligenza e di ambiente così differente, tutti
inesorabilmente cadano nello stesso stato di inquietudine cosmica,
esistenziale, non appena negano la soluzione religiosa, non significa poco
contro di loro. Vi è, dunque, la mancanza di un fattore intellettuale necessario all’equilibrio del pensiero,
all’arnmonia della prassi, alla sanità psicologica dell’uomo: “il senso o
sentimento religioso” ne è una componente non auroralmente, ma sommamente
razionale, così elementare e radicale, così esigente e spazzante, che precipita
le persone ad eccezionale attività emotiva come gli artisti, ma non compensate
da una fede religiosa e da vita morale integra, a soffrire per non riuscire più
(o a non volere più?) credere, con manifestazioni ora di candido pianto (come
il Leopardi e, fra non molto, il fanciullino di Giovanni Pascoli), ora con
azioni rischiose, avventuriere ed alla fine autolesioniste (come il Foscolo),
ora con alienazioni più comuni, ma sempre
dissipatrici, come gli amori e le “risorse” del Carducci. Post-cristiani
della prima generazione, incapaci di dimenticare i veri problemi umani o
eluderli, con una evasione di feste ed oblii o di altri stordimenti più
intellettualistici o più sofisticati, essi sono testimoni del fallimento della
ideologia illuministica: impossibilità per l’uomo a surrogare i valori della
religione e della moralità socratico-cristiana; disperazione per l’uomo che non vi si attiene, come ad unica
interpretazione a misura della sua psicologia, cioè della sua più alta
razionalità, così impegnata in tali problemi da coinvolgere profondamente anche
la sfera emozionale.
APPENDICE: AMICI E DISCEPOLI
DEL CARDUCCI
Amici Pedanti
(circolo fiorentino attorno al Carducci)
Giuseppe
Torquato Gargani (vedilo in Le Risorse di San
Miniato).
Fu l’autore, a nome degli “Amici Pedanti”, dello
scritto “Di Braccio Bracci e degli altri poeti nostri odiernissimi” (1856:
contro i poeti romantici); gli fece seguito “Giunta alla derrata. Ai poeti
nostri odiernissimi e lor difensori, gli amici pedanti” (1857).
Ottavio
Targioni Tozzetti (vedilo, ne Le Risorse di San
Miniato, col soprannome di Trombino,: Mercatale di Vernio (PT) 1833 – Livorno 1889)
Amico pedante, compilò due antologie di prose e poesie italiane; curò la edizione di classici italiani. Nel 1872 curò (col Chiarini) il giornale “Il mare” (a Livorno), pubblicando poesie del Carducci, testi antichi, versi del Chiarini, traduzioni da von Platen, Goethe, Heine….
Giuseppe
Chiarini
(Arezzo 1833 – Roma 1908). Amico pedante, condivise di Carducci gusti estetici e
indirizzi critici. Tradusse dall’inglese e dal tedesco. Compose poesie (tre
volumi editi). Seguendo il metodo storico filologico, compose studi critici,
fra cui si segnalano la Vita di G. Leopardi (1905); e la Vita di U. Foscolo
(1910). Elogiò D’Annunzio alla pubblicazione di “Primo vere”, ma dovette
condannarlo, poi, per l’oscenità delle opere seguenti. Coprì incarichi e uffici
ministeriali
Giovanni
Pascoli
Ferdinando
Martini (ne
parleremo a aprte:1841-1928)
Enrico
Nencioni (Firenze
1837-1896)
Ebbe la cattedra di letteratura italiana a Firenze.
Partecipe delle idee degli Amici pedanti solo in parte: non fu così
rigorosamente e combattivamente
antiromantico. Redattore del “Fanfulla della domenica”, poeta con caratteristiche
personali, non sib legò alla metrica tradizionale. Diffuse la conoscenza delle
letterature straniere (inglese specialmente) per contrastare i limiti della
tradizione classica italiana.
Olindo
Guerrini (Forlì
1845 – Bologna 1916), Enrico Panzacchi
(m. 1904), Severino Ferrari (m.
1905), Giovanni Marrani (m 1922), Guido Mazzoni (m. 1943), Alfredo Panzini (1963 – 1939), Giovanni Papini (1881 – 1956), Luigi Federzoni, Manara Valgimigli (1876-1965),
Goffredo Bellonci (1882-1964),
[1] La metrica greco-latina nella storia della poesia italiana. Primo fu il domenicano Leonardo Dati (fiorentino: 1408-1472), morto vescovo di Massa e autore di egloghe ed epistolae latine, di un poemetto (Tropaeum Anglaricum (Battaglia d’Anghiari), della tragedia Hiempsal e di un Commento alla Città di vita (di Matteo Palmieri). Concorrendo al “Certame coronario” sull’amicizia, egli presentò una scena in cui veniva personificata l’amicizia e si usavano esametri e strofe saffiche in lingua italiana (1441). Lo seguì Leon Battista Alberti, che allo stesso certame partecipò con sedici versi ricalcati sull’esametro latino. Leonardo Bruni (aretino: 1370 ca- 1444) fece uso del metro saffico. Claudio Tolomei (senese: 1492-1556), autore del poema “Laude delle donne bolognesi” (1514), di dialoghi in latino (De corruptis verbis iuris civilis) e volgari (“Il Polito”: 1525, contro le proposte del Trissino sulla ortografia italiana; “Il Cesano”: 1555, per la toscanità e non solo fiorentinità della lingua italiana, che era quanto dire tener conto del linguaggio senese), scrisse anche Versi e regole della nuova poesia toscana (1539), in cui proponeva una metrica fondata sulla quantità delel sillabe, come quella latina e greca: lo riescheggiano il Minturno, il Fracastoro, Annibal Caro, Dionigi Atanagi. Gabriello Chiabrera inizia ad imitare i versi classici che hanno numero fisso di sillabe e posizione di accenti (saffico, alcaico). Anche Ottavio Rinuccini seguì questo indirizzo, che in nessuno dei due diede però esiti degni di nota. Nel Milleseicento, Tommaso Campanella tenta l’esperimento con i distici elegiaci. Col secolo XVIII abbiamo esempi finalmente di successo: Paolo Rolli poetizza con l’endecasillabo catulliano (o falecio); Giovanni Fantoni imita Orazio, facendo coincidere numero di sillabe e accenti, con risultati superiori a quelli infelici di Carducci, ma senza le punte di genialità presenti qua e là nel poeta maremmano. In Germania, tale lavoro di far coincidere le sillabe accentate con le “arsi” e quelle atone con le “tesi” dei latini era condotto avanti da Johann Christoph Gottsched (1700-1766), Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803), Heinrich von Kleist (1777-1801), Johann Heinrich Voss (1759-1805), Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), Friedrich Schiller (1759-1805) e August von Hallermuende Platen: 1796-1835). Benchè Carducci avesse pubblicato un intero volume su La lirica classica nella seconda metà del secolo XVIII, tuttavia per le “Barbare” dipende più facilmente dal Platen.
Dal Fantoni, Carducci riecheggia genialmente il brio epicizzante, riempendo però i versi di motivi ispiratori storici, patriottici, socio-politici, di polemica ecc. e superando, così, il modello per la intelligenza dei motivi ispiratori. Anzi, almeno nei “Ri tmi”, egli uguaglia anche l’effetto grandioso del Fantoni, riuscendo grandissimo poeta coi due tipi di versi che coincidono per numero di sillabe e posizione di accenti con la metrica accentuativa italiana: il saffico minore (3 endecasillabi ed un adonio, che è un doppio dattilo, di cui il secondo catalettico) e l’alcaico (due endecasillabi, un enneasillabo ed un decasillabo). Per le saffiche riuscite, noi ci riferiamo ad alcune “Barbare”, più vicine alla sufficienza, in genere, che alla grandezza poetica: la 4 (Dinanzi alle terme di Caracalla), la 6 (Alle fonti del Clitunno), la 8 (Alessandria), la 22 (Miramar), la 42 (Su monte Mario) e Congedo. Per i “Ritmi”, abbiamo dei capolavori come Piemonte (5), Bicocca di San Giacomo (8), Alla città di Ferrara (15, II parte), La Chiesa di Polenta (22) e La lirica (la quinta delle traduzioni: da von Platen). Per il metro alcaico, abbiamo delle composzioni più o meno riuscite: per le “Barbare”, 1 (Ideale), 3 (Nell’annuale della fondazione di Roma), 17 (Per la morte di Napoleone Eugenio), 21 (A una bottiglia della Valtellina del 1848), 29 (Alla stazione in una mattina d’autunno), 35 (Figurine vecchie), 41 (Saluto d’autunno), 47 (Per le nozze di mia figlia); per i “Ritmi”, 2 (Nel chiostro del santo).
Ma, talora, non sono infelici neppure le trasposizioni da altri metri classici, senza corrispondenza di numero di sillabe e di posizione degli accenti. Nelle “Barbare”, la 9 (In una chiesa gotica) rende l’asclepiadeo secondo (3 asclepiadei minori o dodecasillabi resi con due quinari sdruccioli+ un gliconeo secondo, reso con un settenario sdrucciolo), la 10 (Nella piazza di San Petronio) rende l’esametro del distico elegiaco con un settenario+novenario; ed il pentametro con un quinario+ settenario); la 11 (Le due torri) rendono il pitiambico primo (esametro+dimetro giambico: quest’ultimo reso con endecasillabo sdrucciolo); la 30 (Mors) in distici elegiaci; la 31 (Una sera di San Pietro) rende gli esametri continuati con settenari+ novenari; la 36 (Sole d’inverno) rende l’asclepiadeo terzo invertendo gli l’ordine degli asclepiadei minori (al primo e al terzo posto, anzichè al secondo ed al quarto) e dei gliconei (2 e 4 posto, anzichè 1 e 3); la 37 (Egle) in distici elegiaci, la 38 (Primo vere) in strofe asclepiadee del seocndo tipo (3 asclepiadei minori+ gliconeo); la 40 (Canto di marzo) rende il verso giambico puro con endecasillabi sdruccioli; la 45 (Sogno d’estate) rende gli esametri con settenario+ novenario; la 46 (Colli toscani) in distici elegiaci+distico pitiambico (cfr., per quest’ultimo, Le due torri); la 48 (Ave) rende la strofa del sistema asclepiadeo terzo regolarmente (il 1 e 3 verso sono gliconei secondi, resi con settenario sdrucciolo; il 2 e 4 verso sono asclepiadei minori, resi con due quinari sdruccioli);la 50 (Nevicata) in distici elegiaci..
Nei “Ritmi”, la 15 (Alla città di Ferrara) è un’ode a tre tempi, di cui il primo ed il terzo sono in distici elegiaci (per la II parte, si è già detto).
In particolare è degna di nota la imitazione, da Giovanni Fantoni, dell’ode “A Odoardo Fantoni” (“Vuotami, Fantoni, nove tazze al nome...”).
Infine, due notazioni ulteriori: per il Carducci satirico (giambico) oltre ad Orazio, sarà bene tener presente l’esempio ancor caldo di Giuseppe Giusti; per lo stile ironico e canzonatorio di certe prose (contro i critici, ad esempio) si possono tener presenti gli “anticipi” di Alfieri (nota alla Teleutodia).
[1] Per gli anni fino al 1849 c’è una lettera ad Angelo De Gubernatis in Lettere IX, prime pagine (cfr Giambattista Salinari, Giosuè Carducci, in St. d. lett. it., Milano, Garzanti, 1976, vol. VIII, pp. 527-31: d’ora innanzi, citeremo solo “Garzantiana 1976”, pp.... ); c’è inoltre la prima parte dello scritto A proposito di alcuni giudizi su A. Manzoni.
[2] Cfr. lo scritto Le risorse di San Miniato: 1883
[3] Ci fu un tentativo di rimozione nel 1867 (destinato a Napoli alla cattedra di latino, perché mazziniano); e ci fu un’effettiva sospensione dalla cattedra e dallo stipendio per oltre due mesi, nel 1868.
[4] Anche pel figlioletto Dante corre voce che l’abbia ucciso il padre, Giosué, scagliandogli contro un calamaio, perché disturbava giocando e strillando.
[5]
Altre donne: Adele Bergamini; Dafne Nazari Gargiolli; Annie Vivanti; la
Contessa Silvia Pasolini. In giovinezza aveva amato, inutilmente, la “bionda
Maria” che in realtà si chiamava Emilia Orabona (cfr. Idillio maremmano e Le
risorse di san Miniato).
[6] Inutile tentare, come per Leopardi e Manzoni, un elenco quasi completo delle opere. Esse sono raccolte nell’edizione nazionale Zanichelli in 30 volumi (Bologna 1935-40), cui si debbono aggiungere i 21 volumi di Lettere (ivi, 1938-60).
[7] Juvenilia (sottinteso: carmina) = poesie giovanili o poesie di cose giovanili.
[8] Levia Gravia: poesie di cose leggere e importanti, lieve o gravi
[9] Le prose migliori sono state raccolte in un volume (edito nel 1904) a cura del poeta stesso: volume che è ristampato tuttora. L’ordine del volume è strettamente cronologico: noi abbiamo scelto un ordine più didattico.
[10] Ecco un segno di instabilità inconscia, spontanea: novità, mutamento, contrasto come perenne forma e condizione dell’agire: anzi “dell’essere” dice lui. Il brano è all’inizio di A proposito di alcuni giudizi su Alessandro Manzoni
[11] Inizio del paragrafo IV di Ça ira (Rime Nuove). Per altre affermazioni lungo queste due diverse direttrici, di impeto entusiastico di vita e di squallidi momenti di angoscia, cfr. Garzantiana 1976, pp. 523-545 e 559 le opposte affermazioni di Alberto Mario e di G. B. Salinari. Anche l’affermazione del Croce, che citeremo alla conclusione della personalità, si limita a sottolineare i momenti “solari”, ma ne dimentica i limiti nel tempo e nella stabilità: a Catone il vecchio, sanamente romanoe pieno di vitalità, subentrava ciclicamente Bruto minore (tentato di suicidio); all’Omero rupestre, subentrava ciclicamente un Leopardi depresso (tentato di suicidio).
Cfr. la Lettera del 10.05.1877 a Lidia: XI, p. 90
Cfr. Lettera ad Angelo de Gubernatis (XI, p. 13).
Ecco
l’ambiente naturale ed umano in cui visse: “Quel tratto della Maremma che va da
Cecina a San Vincenzo è il cerchio della mia fanciullezza e della mia prima
adolescenza. Ivi vissi, o, per meglio dire errai, dal 1838 all’aprile del
1849”. “Errai”, dice il poeta, e non è una metafora, come si può constatare
da ciò che si dice dopo: “T’avverto che io era fieramente repubblicano;
e la Repubblica pensavo che dovesse essere con la legge agraria dei Gracchi:
naturalmente, vivevo in un paese che era tutto d’un solo. A quei tempi il mio
genio di indipendenza s’era molto, come direbbe un giornalista, pronunziato,
anzi accentuato. Quando mio padre mi sgridava un po’ troppo, io fuggivo di
casa e andava errando per le brughiere presso il mare e sulle colline cretacee,
e facevo lunghe meditazioni su le lucertole, i biacchi e i falchetti: quel
silenzio mi piaceva. Un’altra mia gran contentezza era d’alzarmi la mattina
avanti al sole per menare a bere i cavalli. Che felicità a trovarmi in
quell’ora fra i robusti villanzoni e butteri. E quando spuntava il sole, io
solevo salutarlo coi versi del Berchet: “Ecco il sol che fra i bellici stenti /
Rallegrava agli Elleni il coraggio / Quando in petto alle libere genti / Della
Patria ferveva l’amor…”. Devi anche sapere che allora io possedeva un
falchetto; e che mio padre un giorno tornando dai monti portò un
lupacchiottino, del quale subito io mi presi cura. Ma una mattina trovai il
falco strozzato. Era stato mio padre che aveva punito nel povero animale i mie
svaghi dal latino. Quanto patii! Il lupo fu dato ad un che faceva incetta di
selvaggina per Livorno. Io lo menavo fuori meco come fosse un cane; e le
galline scappavano; e le donne urlavano e mio padre mi tolse anche quello”.
[12] Cfr. Natalino Spegno, Lineamenti di storia della letteratura italiana; Firenze, La Nuova Italia III p. 312: “…e rimase sempre un letterato, l’ultimo grande esemplare del letterato italiano, con la sua raffinata educazione retorica e il suo incerto e misero e generico gruzzolo di idee, con la sua superba facoltà di oggettivazione plastica e immaginosa e la sua povertà di vita intima.”.
[13] In Traversando la Maremma toscana (Rime Nuove, n. 34) egli afferma: “Dolce paese, onde portai conforme / l’abito fiero e lo sdegnoso canto / e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme, / pur ti riveggo, e il cuor mi balza in tanto”. Egli dunque si attribuisce caratteristiche psicologiche assimilabili a quelle paesaggistiche della maremma: in particolare egli sottolinea l’alternarsi (o l’urtarsi?) di due gruppi di qualità: dolcezza-amore (cfr. nella seconda terzina: “pace dicono al / cuor le tue colline / con le nebbie sfumanti e il verde piano / ridente ne le piogge mattutine”) da una parte: e, dall’altra, altero, indomabile; “l’abito fiero” (incapace di doppiezza e di compromesso, ma anche violento) e “lo sdegnoso canto” (polemico e drammatico), per cui si deve intuire nel paesaggio qualcosa di selvaggio, primitivo, eppure grandioso ed affascinante: sono i luoghi descritti da Dante nel canto XIII dell’Inferno per dare un’idea della selva orrenda dei suicidi (“Non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che in odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi colti”). Cfr, anche Nostalgia (Rime Nuove, n. 43 del 1871-74); Idillio maremmano (Rime Nuove, n. 68 del 1867-72). La forza di base e le alternanze cicliche del collerico Giosué rendono così ragione a tale analogia. Ma tanto è ovvia la qualità dell’influsso sul poeta dell’ambiente maremmano (conferma del temperamento congenito in lui), quanto è improbabile ogni tentativo di “quantificare” la portata di tale influenza. Si tratta comunque di un approfondimento ed intensificazione della collericità ambivalente, ricorrente e incoerente nelle antinomie tenerezza-irascibilità. È per questo che abbiam preferito parlare qui, alla fine dell’analisi idiografica, di tale componente piuttosto che a livello dell’ambiente che vedremo ora.
[14] L’ambiente politico e militare, economico e sociale, culturale e religioso, morale e letterario dell’adolescenza e giovinezza del Carducci (1848-1860) è sottoposto ad una ristrutturazione violenta che ne scompagina il rapporto delle forze, accelerando e rafforzando quelle ereditate dalla rivoluzione francese e ridimensionando quelle della tradizione cristiana occidentale. Quest’ultima, per altro, rimane ancora quantitativamente quella di gran lunga predominante nella società italiana, ma in regresso sensibile e progressivo e, soprattutto, priva di quell’appoggio del potere politico-sociale che, nelle cose umane, ha tanta parte per l’affermazione e diffusione di una cultura anche religiosa. Si è già spiegato in proposito la nostra ipotesi di lavoro. Occorre distinguere tra la posizione di diritto e quella di fatto, la posizione filosofica e quella storica delle persone di fronte alle scelte di cultura; all’interno di queste, occorre distinguere tra quelle marginali (scuole letterarie o mode pratiche) e le scelte culturali fondamentali riguardanti le materie morali e religiose. Rimanendo, di diritto, la libertà di accettare o rifiutare le proposte dell’ambiente militare-sociale, rimane il fatto che la massa si adatta in genere alle proposte dei dominatori per quanto riguarda mode pratiche e letterarie. Viceversa, storicamente risulta che, per le scelte culturali di fondo, la forza di inerzia e di reazione è molto più alta (soprattutto nelle masse cristiane) e che di fato una percentuale formidabile e sorprendente rimane ferma ai valori di cui è convinta: a costo del martirio. È per altro vero anche l’opposto (per una percentuale più o meno grande secondo i casi) che la “viscosità” del passaggio alla mentalità del più forte è minore o comunque tende a diminuire col tempo, specie se il dominio si prolunga e la persecuzione si fa violenta o, insistente, la pressione morale e i condizionamenti psicologici. Libertà di diritto, condizionamento di fatto... Ma, in quale misura, non è prevedibile. In pratica a metà secolo XIX si ebbe una situazione “culturale” mista e complessa. Fino al 1859 la ideologia cristiana o comunque tradizionale era liberamente “vocale” ed aveva l’appoggio ufficiale dell’autorità militare-politica; la seconda era clandestina e si propagava di contrabbando, anche se favorita da infiltrazioni di forze “pratiche” esterne, come le organizzazioni mazziniane (prima) e sabaude (poi). Dopo il 1859, l’ideologia “liberale” (più o meno pagana) si trova al potere e, se non soffoca con censura politico-militare la voce cristiana, però ne limita talmente le possibilità di espressione, per vie non solo indirette (incameramenti di beni che minano le capacità di organizzazione anche culturali dei cattolici; esilio imposto ai vescovi dalle loro sedi e impedimento a nuovi eletti di prenderne possesso; manifestazioni di intimidimento da parte di elementi massoni, repubblicanti, garibaldini e socialisti, che culminano la notte del 13 luglio 1881 col turbamento del trasporto della salma di Pio IX dal Vaticano al Verano; scelta dei professori universitari; programmi scolastici; orchestrazione e organizazione stampa; minor severità nell’urgere la moralità sessuale), che questa si trova emarginata e ridicolizzata, umiliata e offesa, così da risultare – agli occhi della pubblica opinione – sconfitta e retriva; e da venire moralmente scoraggiata, relegata al confino, mentre l’ideologia contraria viene appoggiata sostanzialmente e vistosamente. La stessa elezione di Carducci – 25enne – alla cattedra di eloquenza a Bologna è un segno di tale “parzialità” di trattamento che rovescia le posizioni. Ormai è l’ideologia cristiana che viene rigettata alla macchia e deve agire quasi di contrabbando, mentre il pensiero che va dal semplice antitemporalismo all’anticlericalismo, dalla massoneria anticristiana ma non antireligiosa alla irreligiosità di movimenti anarchici e socialistici, dal giacobinismo attivo di un’antireligioneria atea che organizza un anticoncilio a Napoli lo stesso giorno dell’apertira del Concilio ecumenico vaticano primo (in esso si giunse a votare un ordine del giorno contro Dio: “Considerato che l’idea di Dio è fonte di ogni dispotismo e di ogni iniquità; considerato che la religione cattolica è la più terribile personificazione di questa idea; considerato che il complesso dei dogmi è la negazione stessa della società, si propone di lavorare per la pronta e radicale abolizione del cattolicesimo, per il suo annientamento con tutti i mezzi compreso quello della forza rivoluzionaria”) prende il sopravvento. Questa mentalità variamente irreligiosa diventa non la opinione della più parte degli italiani, ma piuttosto la forma di pensiero delle élites dominanti nella politica, sulle cattedre universitarie, dalle testate dei giornali, ai comizi sulle piazze.
[15] Nel 1831 il padre era stato processato e imprigionato per un mese, per una lettera imprudente scitta a un amico, in relazione ai moti del 1831 a Modena, Parma e stati pontifici. Si noti che il nonno paterno, Francesco Giuseppe Carducci, era invece legittimista; e, perciò, in contrasto col figlio.
[16] D’altronde la storia sta a dimostrarlo: le ribellioni socio-politiche sono possibili quando vi è una riserva di energie minima da cui partire: se il bisogno raggiunge il livello della fame, il popolo non ha né la forza né l’immaginazione sufficiente per manifestazioni e tumulti. Le analisi di Manzoni nei cc. 12-13 e 28 dei Promessi Sposi dovrebbero aver reso ognuno cosciente di ciò.
[17] In parallelo a questo scritto, si veda la lettera a A. De Gubernatis in cui il Carducci parla della libreria paterna (Lettere, XI, pp. 11-13).
[18] “Buttavo fuor di finestra gli Inni Sacri di Manzoni” Le risorse di San Miniato, 2° paragrafo.
[19] ????????Cercare di documentare con qualche esempio.
[20] Avvenimenti socio-culturali contro cui reagisce non mancano invece: la destra moderata in Italia, il liberalismo indeciso fra monarchia e repubblica in Francia; il trionfo di Bismarck in Germania….
[21] Lettere rispettivamente al Chiarini del 06/7/1872 e alla stessa Carolina: Lettere IX, p. 224.
[22] Dal Giusti, Carducci satirico prende espressioni intere. Ad esempio “atei salmisti” (Prologo ai Levia Gravia nell’edizione 1868, v.50) viene dall’ “Arruffapopoli” del Gisuti (che lo usava contro il Guerrazzi, ma al singolare (ateo salmista).
[23] Victor Hugo (1802-1885): delle opere poetiche interessano soprattutto Les Châtiments (1853), Les Contemplations (1856); della produzione in prosa, Les misérables (1862) e la Légende des siècles. All’Hugo, Carducci dedica l’81esima delle Rime Nuove.
[24] Sainte-Beuve (Charles Augustin de:1804-1869), come critico di letteratura pubblicò: Quadro storico e critico della poesia francese e del teatro francese nel XVI secolo (1828); Ritratti letterari (1844) Ritratti contemporanei (1846).
Francesco De Sanctis pubblica nel 1866 Saggi critici; nel 1869 Saggio sul Petrarca; nel 1870 Storia della Letteratura italiana. Di Ippolito Taine interessano soprattutto Storia della Letteratura inglese, 1863; e Les origines de la France contemporaine, che iniziò ad uscire nel 1876.
[25] Si può intuire anche a priori (dall’esame cioè della personalità del poeta maremmano e dall’ambiente con cui entrò in relazione e reazione) che il Carducci non ebbe pensiero né organico né filosoficamente giustificato. Ebbe convinzioni allo stato forte, ma isolate e disperse, non sempre concordi e non mai ragionate in sistema. Il loro ingresso nella poesia ne rafforza le tinte emotive, ma ne impoverisce ulteriormente lo spessore logico. Il dinamismo, la variabilità e la evoluzione sono una delle caratteristiche della individualità tutta – anche intellettuale – del Carducci.. Spesso vi è di peggio. Alla radice del “divenire” frequente nel pensiero carducciano sta la mancanza di chiarezza nei singoli momenti di troppi particolari importanti, che “ruotano” poi di significato col mutare di umore interno o di situazione esterna. Nel complesso si ritrova per altro l’immanentismo come posizione religiosa (anzi a-religiosa); la volontà di fustigare impetuosamente ed impietosamente i costumi (altrui!) in materia morale; una velleità progressista tutt’altro che univoca in sede politica; la predilezione complessiva per la tradizione classica nella teoria e prassi letteraria. Ma le incertezze, le contraddizioni, la instabilità della forma, progetti od attuazioni concrete di una tale mentalità fan pensare più ad in vagabondaggio da dilettante che ad una ricerca responsabile. Carducci può risultare rispettabile nel pensiero solo per le “buone” intenzioni e nonostante i cattivi risultati; può destare attenzione per la pena soggettiva di capire e ordinare il senso del reale, non per le conclusioni oggettive raggiunte. Cioè, può essere assolto per insufficienza ad intendere e a volere….
[26] Per ostilità alla Chiesa (anticattolicesimo o anticlericalismo) sarebbe troppo lungo documentare esaurientemente. Basti accennare al 1ibro 6° degli Juvenilia, ai Levia Gravia nel loro complesso, fino ai distici del 1895 (distici elegiaci della parte terza della 15° composizione – polimetrica – di Rime e Ritmi, vv. 141-172). Per le prose, basti accennare allo scritto dello stesso anno “20 Settembre”.
[27] Pietro Bargellini – “Carducci” – Brescia, Morcelliana, 4° ed. 1945; e “Carducci riconciliato con Dio”, in “Ecclesia”, marzo 1957, pp. 123-127. Come diremo commentando la finale de La Chiesa di Polenta, tale atteggiamento poteva nascere dalla ammirazione di Carducci per la figura della Madonna come simbolo delle virtù più alte della femminilità e della maternità. Così, come puro valore di lealismo professionale, possono ben essere interpretate l’ammirazione per Alfonso Capecelatro (storico di Santa Caterina, San Pier Damiani, San Filippo Neri) e per le poesie di Giulio Salvatori (Canzoniere civile).
[28] Ecco i versi della finale de La Chiesa di Polenta “Salve, affacciata al tuo balcon di poggi / tra Bertinoro alto ridente e il dolce / pian cui sovrasta fino al mar Cesena / donna di prodi, // Salve, chiesetta del mio canto! A questa / madre vegliarda, o tu rinnovellata / itala gente da le molte vite / rendi la voce // de la preghiera: la campana squilli ammonitrice: il campanil risorto / canti di clivo in clivo alla campagna / Ave Maria. // Ave Maria! Quando su l’aure corre / l’umil saluto, i piccoli mortali / scovrono il capo, curvano la fronte / Dante ed Aroldo. / Una di flauti lenta melodia / passa invisibil fra la terra e il cielo: spiriti forse che furon, che sono / e che saranno? // Un oblio lene de la faticosa / vita, un pensoso sospirar quiete, / una soave volontà di pianto / l’anime invade. // Taccion le fiere, gli uomini e le cose, / roseo il tramonto ne l’azzurro sfuma, / mormoran gli alti vertici ondeggianti / Ave Maria.”
E si è anticipato il lume acceso davanti all’immagine della Madonna, voluto dal Carducci nella sua ultima casa. La risonanza dantesca in questa finale si riferisce ai versi 1-12 del canto 8 nel Purgatorio: “Era già l’ora che volge il desio / ai navicanti e intenerisce il core / lo di’ c’ha detto ai dolci amici – addio! - / e che lo novo peregrin d’amore / punge, se ode squilla di lontano, / che paia il giorno pianger che si more; / quand’io cominciai a render vano / l’udire ed a mirare una delle alme / surta, che d’ascoltar chiedea con mano. / Ella giunse e levò le palme / ficcando gli occhi verso l’oriente, / quasi dicesse a Dio – d’altro non calme”.
[29] Davanti San Guido, vv. 36-40. Questo brano continua: “A le querce ed a noi qui puoi contare / l’umana tua tristezza e il vostro duol. / Vedi come pacato e azzurro è il mare, / come ridente al lui discende il sol!” // E come questo occaso è pien di voli, / come è allegro de’ passeri il garrire! / A notte canteranno i rosignoli: / rimanti e i rei fantasmi oh non seguire; // i rei fantasmi che da’ fondi neri / de i cuor vostri battuti dal pensier / guizzano come da i vostri cimiteri / putride fiamme innanzi al passegger. // Rimanti; e noi dimani, a mezzo il giorno / che de le grandi querce a l’ombra stan / ammusando i cavalli e intorno intorno / tutto è silenzio ne l’ardente pian, / Ti canteremo noi cipressi i cori / che vanno eterni fra la terra ed il cielo;| da quegli olmi le ninfe usciran fuori / te ventilando col lor bianco velo; // E Pan l’eterno che su l’erme alture / a quell’ora e nei pian solingo va / il dissidio, o mortal, de le tue cure / ne la diva armonia sommergerà.” (vv. 41-64).
[30] Ricordiamo quanto Manzoni affermava:???????????????
[31] “Vivi tu, conscio spirito ,/ forse, e da i verdi elisi, ove te Dante / per mano addusse al gran veglio smirnèo/ E tra l’ombroso mirto / Saffo ti ride e in gioventù raggiante / teco d’armi e d’amor favella Alceo, / rivòli, ombra placata, e de’ i nipoti / Ascolti il lacrimoso innno ed i voti? / O ver nudo pensiero / Vivi ne l’universa alma che solve, Rinnovellando ognor, le forme antiche? / E noi, te di severo / culto onorando ne la muta polve, / questa diva onoriamo umana Psiche / che i secoli, varcando, adempie e schiara? / Pietra a i servi le tombe, a noi son ara”.
[32] Le incertezze e le contradizioni si moltiplicano e diventano cosa normale circa il problema del senso della vita, dell’amore, della storia: i passaggi dall’ottimismo al pessimismo sono così frequenti, che il poeta oppone lui stesso oesia a poesia, titolo a titolo (Primavera classica, Rime Nuove n. 39; Autunno Romantico, Rime Nuove n. 40; Maggiolata, Rime Nuove n. 50).
[33] Di colorazione umanistica, oltre che di viraggio immanentistico, si rivela allora anche l’antiromanticismo del poeta. Benedetto Croce lo intuiva giustamente nel fatto che Carducci vedeva nel fenomeno romantico “i nervi che prevalgono sui muscoli, la femminilità che si sostituisce alla virilità, la vaga fantasticheria che infiacchisce e svoglia dal lavoro”. Si vedano in proposito le ultime tre strofe di Vendette della luna (Rime Nuove, n. 70 del 1881). Per questo egli non risparmia il suo pur “dolce” Edmondo De Amicis, sia nell’Intermezzo (vv. 241-244) sia nel Cantitco dell’Italia che va in Campidoglio (Giambi ed Epodi, n. 22 del 1871: al v. 15 è detto: “Edmondo da i languori”; ed al verso seguente “il capitan cortese”). Bando dunque ad ogni sentimentalismo, languori, piagnistei. Poesie esplicitamente antiromantiche e filoclassiche sono ad esempio in Juvenilia, A Ottavio Targioni Tozzetti (n. 25, del 1851); A Febo Apolline e A Diana Trivia (ib. n. 27 e 28, del 1851); Brindisi (ib. n. 29, del 1854) e Brindisi (un secondo col medesimo titolo: n. 94, del 1859). Così, nell’Intermezzo, il romanticismo è impersonato nel cuore (“a la grand’arte pura / vil muscolo nocivo”, vv. 117-118); il classicismo, dalla ragione: esaltata questa seconda, quanto è disprezzato e deprecato il primo. Proseguendo su questa linea, il sole è preso a simbolo del classicismo e la luna del romanticismo: naturalmente il poeta celebra il primo e denigra la seconda, con frequenza persino allegra: oltre ai già citati componimenti, si veda Classicismo e romanticismo (Rime Nuove, n. 69 del 1869). Finché la luna non si prenderà le sue vendette (ivi n. 70: Vendette della luna, del 1881) e molta melanconia romantica si insinuerà (al suo seguito o meno) nella poesia del corruccioso e omerico, del raggiante e procelloso Carducci.
[34] Alle fonti del Clitumno è in Odi barbare, n. 6: del 1876. La pubblicazione in chiave ideologico-immanentistica che il Carducci ebbe ad elogiare, nella lettera che citeremo, come esatta lettura del proprio pensiero o Weltanschauung. Il suo classicismo sin dal primo apparire delle Odi barbare fu ritenuto non tanto un orientamento letterario e un indirizzo culturale quanto visione di vita armonica, serena e severa. Un giudizio in tal senso, espresso da Alberto Mario, fu condiviso dal poeta e si trasmise ai suoi discepoli e ad alcuni dei suoi critici. Le Odi barbare erano appena uscite nel luglio del 1877, che il 2 settembre successivo l’autore scrisse alla sua amica Carolina Cristofori Piva: “Ti trascrivo quello che delle Odi barbare scrisse Alberto Mario alla contessa Gozzadini e che la contessa mi mandò trascritto: te lo trascrivo, perché Mario ha colto l’intimo sentimento di quelle poesie: ‘Le Odi barbare sono un capolavoro; sono la prima poesia secondo il mio cuore; sono non solo l’abolizione di tutta la tetraggine medioevale del cristianesimo – inveterata malattia di fegato del mondo civile –, ma il sereno e pieno e soddisfatto possesso della chiave de’ suoi secreti e delle sue leggi. E, a cagione di questa chiave, c’è nelle Odi Barbare la lietezza greca senza le annesse fisime soprannaturali. E in tale lietezza scientifica vivrà l’umanità nuova..”. L’implicito positivismo del giudizio di Alberto Mario non impedì che esso fosse accolto e adottato dagli idealisti che seguirono, come anche gli atteggiamenti politici vari: a seconda dei tempi furono presto interpretati unitariamente e armonizzati da uno specialista di studi politici, Domenico Zanichelli, in modo che lo stesso Carducci ne sembrò convinto e alcuni dei maggiori studiosi che seguirono ne accettarono le conclusioni.
[35] Famosi i versi (Salute, o genti umane affaticate! / Tutto trapassa e nulla può morir. / Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate. / Il mondo è bello e santo è l’avvenir”: vv.93-96).
[36] Ecco in Primavera classica: “M’asconda ella (la chioma) gl’inanimo?????????? (senza vita, in paragone alla creatura viva della donna) / fiori del giovin anno: / essi ritorneranno; / tu non ritorni più” (vv. 20-24, finali). Primavera Eolia: “fuggiam le occidue macchiate rive, / dimentichiamo” (vv. 39-40, finali) Primavera dorica: “Ahi, da che tramontò la vostra etade (quella pagana di Grecia e Roma) / vola il dolor su le terrene culle. / Questo raggio d’amor no’l m’invidiate, / greche fanciulle” (vv. 101-104).
[37] Le proteste contro l’amore libertino non insorgono – spontaneamente – oltre il 1871: anno degli inizi dei suoi amori adùlteri. Prima di tale data, si vedano invece Juvenilia, n. 62 (Agli Italiani, 1853); Levia Gravia, n. 23 (Carnevale, 1863); n. 13 (Le Nozze, 1864 , contro l’amore coniugale volutamente infecondo); Giambi ed Epodi, n. 19 (Feste ed oblii, 1871. Dopo il 1871 vi è, provocato da uno scandalo nazionale, Il processo Fadda (Giambi ed epodi, n. 29 del 1879): ma il poeta protesta non più contro la licenza sensuale in sé, ma contro il fariseismo di signore e signorine della società “bene”, che pretendono di essere considerate caste, quando amano assistere al processo di un amante che uccide il rivale su istigazione della moglie infedele. Non si accorgono che vi è un fondo di libidine in tale comportamento e curiosità....
Per quanto riguarda le prose, Carducci è pronto a difendere il Boccaccio e la sua artisticità “quando rappresenta il sensuale – il sensuale, dico – nel migliore e peggiore significato”. Probabilmente il motivo di tale esaltazione sta nel fatto che il “Decameron” fu opera di opposizione popolare e romana contro il principio cavalleresco ed ecclesiastico, che prevale nella scuola poetica delle origini, in Italia. E questi sono criteri che dovrebbero far grande le notecarducciane raccolte nello “Svolgimento della letteratura nazionale”, contro la “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis! La citazione viene dal paragrafo 7 di tale tentativo di “storia letteraria” carducciana... Ne Il discorso ai parentali di G. Boccaccio (1875), è un po’ più cauto, ma cerca di difendere ancora la moralità dell’oscena opera del Certaldese, appellandosi alla lealtà della sua licenziosità contro il fariseismo di altre opere, che circolavano ai suoi tempi. In seguito però lo sdegno prevale contro l’allettamento, la coscienza contro l’istinto. Ed eccolo protestare contro “Le bruttezze di una commedia volgarmente sconcia e noiosa qual è il Candelaio, sia pure di Giordano Bruno”: Sfogo, 1887. Probabilmente tale risveglio di moralismo gli veniva dalla nausea della nuova scuola francese del naturalismo. Difatti contro tali scrittori egli – di solito caldo sostenitore della vicina repubblica…rivoluzionaria, esclama: “O panciuti zoliani…Mandate attorno gli spazzaturai a raccogliere di sul lastrico le vostre descrizioni, che non ne vorranno più né men le femmine de’ porci” (Ça ira, 2° paragrafo, 1883). Il rinnovato impegno morale spazza via anche le simpatie (pregiudiziali) in favore di Orazio e della produzione vuoi classico-romana, vuoi rinascimentale: “E Cesare e Cicerone e Livio e Tacito e Virgilio e Orazio dove non è porco, ma romano, vorrei fossero lettura continua nelle scuole…” (Prefazione al Prometeo liberato, 1894). Nello stesso scritto si trovano sentenze contro la “Ignorante licenza di questo dilettantismo di spostati”; e contro la “Scettica immoralità del Rinascimento”.
[38] Cfr. anche Jaufré Rudel (Rime e ritmi, n. 3 del 1888): “Contessa che è mai la vita? E’ l’ombra d’un sogno fuggente| la favola breve è finita.| Il vero immortale è l’amor”.
[39] G. B. Salinari, introducendo questa sua opinione nelle pagine del commento trasforma in panphlet socialisteggiante l’analisi della poesia carducciana, che vede affiancato come egualmente poetiche il capolavoro Davanti San Guido con la mediocrità di Sogno d’estate; vede valorizzati Giambi ed epodi al di là del loro merito poetico, in base alla loro carica giacobina; sopravvaluta Faida di Comune, Davanti alle terme di Caracalla, Nella piazza di San Petronio; non lascia capire perché, se è capolavoro Alle fonti del Clitunno, non lo sia alla pari (e più per la finale sublime) La chiesa di Polenta. Lo stesso grande Piemonte calunniato dal Salinari come ode celebratoria e adulatoria.... E perché chiami “bellissime” le Barbare All’aurora, Canto di Marzo, La madre, o nel Chiostro del Santo (Rime e ritmi) , ecc. lo sa solo lui. Come lui solo sa perché metta alla pari la povertà di In riva al Lys, l’insignificanza della Elegia del Monte Spluga, la tarda vivacità (nell’ultima terzina) del sonetto Sant’Abbondio con la viva se pur faticosa emotività di Jaufré Rudel e quella più che discreta de La moglie del gigante.
Come possa poi chiamare “motivi dell’arte carducciana” i toni lirici che elenca sotto tal nome (eroico, drammatico, elegiaco, p. 577); e come possa poi svolgere questa tonalità emotiva quasi fossero temi razionali (storia e paesaggio, autobiografismo, ecc.) solo un disorientamento in materia di filosofia dell’arte possono spiegarlo.
Ma la cosa che ora ci interessa è un’altra. Salinari propone la seguente interpretazione della tematica esistenziale presente in Davanti San Guido: se il poeta cerca la felicità personale, approda alla tristezza ed al desiderio di morte; se invece si abbandona nelle piccole occupazioni sociali (studio, insegnamento), nel “vivere per qualcosa e per qualcuno”, allora si rappacifica e ritrova la serenità. Ed allora (per un’arbitraria sovrapposizione, chè di un simile parallelo non esistono appigli nei due componimenti) Sogno d’estate viene avvicinato a tale tematica: il “sogno” gli richiama i morti (madre e fratello Dante) in un’atmosfera di paradiso perduto nell’infanzia; il risvegliarsi gli riporta la realtà: la figlia Beatrice che lavora e Lauretta che canta. Ecco, queste sono l’avvenire: il lavoro, le occupazioni della esistenza concreta e la serenità; nel “sogno irreale”, c’è una felicità irreale. Salinari scambia i libri di poesia per testi filosofici; e, per di più, li interpreta con significati allegorici socio-filosofici a lui cari, ma del tutto gratuitamente.
[40] Difatti va innanzitutto osservato che in Sogno d’estate, il Carducci non si preoccupa per nulla di felicità od infelicità, di problemi esistenziali: rievoca, da pittore felicissimo qual è, una scena duplice, del passato e del presente, senza immettervi problemi: occorre una forzatura “marcusiana” (si tratta di processi alle intenzioni fatti ai sogni, in nome della sociologia) per introdurre in Sogno d’estate la problematica propria di Davanti San Guido. E proprio per la insignificanza esistenziale, Sogno è rimasto un gran bel quadro “montiano”, di natura “morta”: vi manca il pensiero. “Ebbene?”, si domanda alla fine il lettore candido e non provveduto di freudismo, marxismo e marcusianesimo: “Che vuol dire?”. Nulla vuol dire: è una felice descrizione di un sogno, con la sua bellezza di scene paesaggistiche, di rievocazioni: ma fermi lì, alle ombre vane di un sogno. Imporre ai versi carducciani un valore filosofico? Ma Carducci era troppo realistico e concreto per affidarsi a simili “sospetti temerari” alla “astrologia dei tempi ultimi” quale è la psicanalisi, che tutto riduce a pressioni dall’ambiente esteriore, deresponsabilizzando il soggetto, rendendolo deterministicamente condizionato dall’ambiente. Nel Medio Evo, l’ambiente condizionante era di tipo surrealistico (astrologico) data la familiarità col soprannaturale; ora l’ambiente condizionante e determinante è di tipo materialistico, data l’opposta opinione pubblica imperante: ma sempre si tratta di render schiavo l’uomo di qualcosa fuori di lui, di fattori che in ogni caso lo assolvono da colpa e peccato e lo liberano da rimorsi e coscienza. L’uomo della strada non cerca altro e torna allegramente alla barbarie ed allo stato selvaggio: questa è la disinibizione marx-freudiana.
No, signori marxisti (Carducci direbbe: “Nòe, nòe”: Per il 12° centenario di L.. A. Muratori, 2° giornata).); no, caro Salinari. Carducci sa benissimo come “distrarsi ed evadere”: lo scriveva, dopo la morte del figlioletto, che voleva buttarsi nello studio per obliare; e Salinari riporta il brano e lo sottolinea. Che cosa gli viene in mente allora di suggerire Carducci che se si dà agli “impegni sociali” della famiglia e dell’insegnamento” non avrà più tempo da “perdersi” dietro la ricerca della felicità universale ed eterna? “Zi! Zi! Ahi che voglia di starnutire!” direbbe Carducci (sempre ne Per il 12° centenario di L. A. Muratori, ultime pagine). Il problema del Carducci resta: si può dimenticarlo con le orge o la fatica, con il vino o l’impegno nel lavoro, ma resta: perché l’uomo, tutti gli uomini hanno sete di un risultato eterno e infinito al proprio sforzo interiore di educazione; hanno tendenza ad una felicità che non sia oblio di mali temporanei, ma hanno esigenza di una bontà e giustizia che sia gioia di beni eterni.
[47] da G. B. Salinari, Garzantiana, 1976, p. 542.
[50] Ne Il sonetto (Rime Nuove, n. 3 del 1870)
[51] Parnassiani sono i poeti che pubblicarono le loro composizioni nei tre volumi del “Parnasse contemporaine” (1866/1871/1876): fra essi vi sono Charles Marie Leconte de L’Isle; José Marie Heredia (origine cubana); François Coppée: loro ideale è lo stile raffinato e freddo di T. Gautier in “Èmaux et camées”, 1852.
[52] Naturalmente esiste un pericolo in questo concetto artigianale ed elaborativo della poesia: ed è quello di ridurla a raffinatezza tecnica, a potenza sonora o figurativa, eventualmente a servizio di un’idea socio-politica (nelle strofe precedenti il Carducci ha rifiutato la concezione del poeta come languido cantore dei propri sentimenti od occasionale segretario di signori mecenati o fantastico inventore di fole e di arabeschi; nelle strofe seguenti additerà poi i valori di cui deve farsi araldo e profeta: vate al servizio della libertà e patria, dell’amore e vita, dalla storia e civiltà, ecc.: cose buone ma solo se poste al servizio, in funzione dell’unum necessarium, l’emotività, la cui espressione è il proprium della poesia. Come diremo a suo luogo, il Carducci dei versi stanchi, faticosi, non ispirati abbastanza, rivela proprio l’elaborazione raffinata e classicistica, prodotta più dall’intelletto che non dalla ispirazione e dall’impeto lirico. Questo Carducci parnassiano è specialmente rivelabile in molte Odi Barbare, perché l’insufficiente padronanza dei nuovi metri trattiene il compositore al di qua della vetta poetica. Nonostante l’opinione diffusa, la poesia più alta in metri classici si lascia trovare nei Ritmi tardivi più che nelle Barbare, che costituiscono il suo ultimo noviziato poetico
[53] Rime e ritmi, n. 1, del 1887, Alla signorina Maria A.:“Esce la poesia / o piccola Maria, / quando malinconia / batte del cuor la porta…” (riabilita cuore e malinconia).
Rime Nuove (riabilita la rima dopo l’inizio delle odi barbare, classiche). N. 1, del 1877, Alla Rima: “Ave o bella imperatrice, / o felice / del latin metro reina! / Un ribelle ti saluta, / combattuta, / e a te libero s’inchina….”. Ivi, n. 73, del 1885, Notte di maggio (sestina meravigliosa: la più bella della nostra letteratura; riabilita la luna): “Candida, vereconda, austera luna…Quando la notte è fitta più di stelle, / a me giova appo l’onde entro il bel verde / mirar su i colli la sedente luna”. Ed anche Notte d’estate, seconda traduzione dopo Odi Barbare, da Klopstock, 1881 e Serenata, Rime Nuove n. 57, del 1882.
[54]Sulla natura decadentistica di molte, fra le poesie degli ultimi anni, sono parecchi i critici (Domenico Petrini, G. Getto, F. Portinari, G. B. Salinari, W. Binni) che richiamano l’attenzione: a parte l’imitazione dei “Les bienfaits de la lune” (Charles Baudelaire) nelle Vendette delle luna (1873), si possono ricordare La moglie del gigante (Rime e ritmi, n. 19, del 1896); Mezzogiorno alpino (Rime e ritmi n. 16, del 1895); In riva al Lys (Rime e ritmi., n. 24, del 1898); Sant’Abbondio (Rime e ritmi, n. 26, del 1898; Alla stazione in un mattino d’autunno (Odi Barbare, n. 29, del 1875); Nevicata (Odi Barbare, n. 50, del 1881); Elegia del Monte Spluga (Rime ritmi, n. 252, de 1898)
[55] Ed ecco allora A. Momigliano affermare che “Carducci visto sullo sfondo del secondo ottocento, appare come colui che ha sollevato in una sfera epica l’aspirazione realistica dei suoi tempi” ; e che egli della verità “sente la potenza, la forza morale e risanatrice, come non la sentono i contemporanei” (eccetto il Verga de “I Malavoglia”, forse).
E ecco allora che si è giustamente affermato che il Carducci si ricordò di scrivere parecchie rievocazioni storiche, che per avventura i romantici avevano dimenticato di fare, nonostante avessero predicato tanto in questo senso.
[56] Altri rappresentanti della scuola filologica sono, ad esempio, Alessandro D’Ancona, Adolfo Bartoli, Graziadio Ascoli, Domenico Comparetti, Pio Rajna, G. Carducci, Isidoro del Lungo, Fr. D’Ovidio, Ernesto Monaci, Bonaventuara Zumbini, F. Torraca, Rodolfo Renier, Arturo Farinelli, Francesco Novati, Cesare De Lollis, Luiigi Rossi, Vincenzo Crescini, Vittorio Cian, Arturo Graf, Francesco Flamini, Nicola Zingarelli.
[57] Carducci curò direttamente l’edizione critica di molti testi classici, per l’editore Barbera: G. B. Salinari (Garzantiana 1976, p. 599) elenca questi autori: V. Monti, V. Alfieri, A. Tassoni, G. Giusti, Lorenzo de’ Medici, S. Rosa, Gabriele (padre) e Dante Gabr (figlio: +1882) Rossetti, Cino da Pistoia (ed altri del secolo XIV), Angelo Poliziano, poeti erotici e lirici del secolo XVIII. Le prefazioni furono poi raccolte ne Il libro delle prefazioni, Città di Castello, 1888
[58] Come vedremo a suo luogo, le caratteristiche del metodo critico romantico-psicologico-storico-filosofico, sono profondamente diverse da quelle della scuola carducciana. Ma “diversi” non opposti: si completano; non si escludono: in realtà entrambi i sistemi critici sono parziali e unilaterali, sicchè la loro fusione rischia di offrire il metodo critico-letterario perfetto. La scuola desanctisiana infatti preferiva queste direttive:
a) analisi della personalità dello scrittore (psicologia, non filologia: lo spirito del poeta, non la lettera della poesia);
b) analisi dei sentimenti, delle emozioni, dei toni lirici della poesia; meno, dello stile, delle tecniche espressive: il cuore che sente, non l’intelligenzxa che l’interpreta;
c) analisi del rapporto poesia-storia, ponendo la poesia in funzione della storia: la sua interpretazione culturale a servizio della comprensione e della ricostruzione dell’ambiente culturale, cioè dello “spirito” dell’età in cui il poeta ha operato e che egli ha interpretato. A questo modo non studia tanto – il critico romantico – la cronaca dei documenti per capire la poesia, ma studia una specie di “filosofia della storia” nelle opere poetiche, dando una panoramica del succedersi di mentalità, gusti, costumi (valori razionali, affettivi, morali) attraverso l’indagine dei testi poetici o letterari. Possiamo ora definire anche con un altro termine le due scuole: l’una è ambientalista (quella carducciana) perché sottolinea le componenti dell’ambiente nella poesia; l’altra (quella de santictisiana) è “personalista” (perchè sottolinea l’influsso della poesia sull’ambiente). Pure, come si dice nel testo, quando si trovano critici geniali di entrambe le scuole, essi tendono inconsapevolmente ad integrarsi nel concreto esercizio della loro attività: il filologo diviene acuto psicologo e moralista, scovando sentimenti e indizi di cultura nelle opere letterarie; lo psicologo, accumula notazioni storiche e stilistiche per il bisogno prepotente che i documenti esteriori comprovino la sua intuizione psicologica (che può ben essere geniale, ma rischia di rimanere impressione personale e ipotesi di lavoro, se non è appoggiata da indizi esteriori ed oggettivi). Il fenomeno accadeva già (ci informa De Sanctis ne La giovinezza) alla suola del Puoti (Basilio) maestro del De Sanctis stesso. Era un filologo accanito, legato alla distinzioni di vocaboli puri o meno, ma quando commentava un testo, otteneva un’adesione della scolaresca intensissima, perché abbandonava senza accorgersi tutte queste grucce e puntelli, eruditi e mnemonici, per immergersi nella degustazione lirica o psicologico-emotiva del testo poetico. Ripetiamo: all’atto pratico, i critici commentatori si distinguono per la “scuola” cui appartengono in due categorie: geniali ed intelligenti o solo diligenti e, magari, ottusi. Certo che, come dice lo stesso Carducci, la scuola filologica, disprezzando teoricamente l’indagine (esegesi) emotiva, non ne lasciava traccia negli scritti anche quando la eseguiva: perciò i loto studi critici sono interessanti per le notizie filologiche e storico-documentarie che forniscono, ma rimangono testi (noiosi) di consultazione. Invece i commenti della scuola romantica (Foscolo, De Sanctis, specialmente) rimangono scritti di lettura interessanti e di aiuto immediato a comprendere maggiormente la bellezza estetica di un testo letterario.
[59] Mancano spesso numerazioni delle varie raccolte poetiche e datazione, manca anche l’ordine (che deve essere, però, cronologico).
N.B. Delle poesie carducciane si sono scelte quelle che sono sembrate le più valide o in qualche modo significative: le migliori in assoluto sono elencate subito dopo l’esposizione delle raccolte di opere: qui se ne sono aggiunte moltissime di valore medio o non sempre sublime. La discutibilità di alcune esclusioni era inevitabile. Altri ci aiuterà a far meglio.
[60] Si veda ad esempio Faida di comune: la descrizione di Avana e di Buti è un respiro di pace in mezzo al dramma della guerra tra Pisani e Lucchesi. Si vedano i 12 soggetti di Ça ira: come abbia fatto Carducci a immetterci brani di paesaggio, è sorprendente; ma ci sono: nel 1°, 8°, 11° sonetto. Si confrontino, a paragone, le poesie tradotte dal Carducci, poste alla fine delle Rime Nuove: sono 11 e a stento si trova qualche accenno geografico, introdotto per pura necessità di racconto; mai vagheggiato per se steso: ci si accorge, così, che non è farina originaria della fantasia carducciana.
[61] Si veda come Pianto antico si avvicini al tema esistenziale, quando parla di “inutil vita” e quando, nell’ultima strofa, il dolore sgorga proprio dall’implicito rifiuto di una vita olre la tomba: il che vale aanche per Funere mersit acerbo, in quanto l’immaginato incontro del fratello e del figlioletto nell’ “adre sedi” è un modo per indicare che la vita è solo su questa terra; l’altra è fantasticha, cioè nulla
[62] L’elenco differisce da quello già altrove offerto, proprio perché là si badava al prevalere dell’ottimismo vitale in occasione del tema amoroso; qui, all’unicità del tema amoroso senza alcun riferimento ai temi esistenziali.
[63] È certo la poesia ove il problema del senso della vità è esaminato più lungamente, anzi diviene il tema principe della poesia tutta, cui autobiografismo e paesaggismo sono pure occasioni e funzioni (come in Leopardi, dunque). E la conclusione è ben triste. E’ quella stessa leopardiana: dopo l’illusione dei giochi infantili, non esiste per l’adulto che l’evasione di fronte al problema vero (scoprire il significato della morte: sorella o nemica?), nella distrazione degli impegni quotidiani; ovvero la morte stessa, come rifugio ultimo e definitivo, contro l’avvoltoio delle “curae”, delle “Sorgen” delle “risse” interiori, delle domande angosciate sul senso della vita. Ma, allora, le negazioni di Leopardi non sono frutto di malattia fisica, cioè di attitudine contro natura dell’organismo corporeo, ma di malattia spirituale, cioè di atteggiamento contro natura dell’organismo psichico, dello spirito, nel pensiero ribelle alle certezze religiose e nella volontà schiava delle passioni, che tali ribellioni razionalistiche innescano e mantengono.
[64] Se si confrontano i titoli di queste composizioni con quelli delle migliori poesie, citate nelle prime pagine, ci si accorgerà quanto poche sono quelle politiche riuscite: anzi, si deve dire che se qualcuna riuscita v’è, essa è fra le meno politicizzate e, invece, più storiche, come Ça ira, Piemonte, La sacra di Enrico V, Alle fonti del Critunno, la Leggenda di Teodorico). Di veramente grandi, tra questi “versi politici” ci sembrano L’imperatore della Cina, Carlo I (che sono traduzioni); Ninna nanna a Carlo V e Alla croce dei Savoia (che sono proprie del Carducci). Il canto dell’amore, ultimo di Giambi ed epodi, segna il superamento dello spirito “giambico, insolente, aggressivo”, per abbracciare tutti gli uomini in un senso di ottimismo e fratellanza, che è motivo più tipco delle Rime nuove. In realtà Carducci risente, in queste poesie politicizzate, della “passionalità, immediatezza, irruenza e foga” propria delle emozioni non decantate, cioè più proiettate all’azione, alla prassi che non “oggettivate” nella contemplazione, nel vagheggiamento del loro valore universale, indipendentemente dagli egoismi personali. Si tratta cioè di “letteratura engagé”, impegnata, destinata a fini pratici, non a godimenti teoretici. Che cosa significi precisamente tale differenza in termini scientifici, non sappiamo ancora, perché la differenza “fisiologica” tra passione, istinto ed emozione non è ffacilee: ma arriveremo un giorno a sapere quali specifici enzimi e biochimismi presiedono all’emozione pura dell’arte nei confronti dell’emozione passionale della vita pratica. Una cosa è certa: né il moralismo di predicatori in versi, né il patriottismo di politicanti in rima, né il sentimentalismo degli innamorati effusivi fanno poesia (almeno quella grande e gustata da tutti, anche da generazioni successive, non più interessate a problemi pratici eventualmente cantati dall’aspirante poeta).
[65] Già intitolata “Per la processione del Corpus domini”: presenta Cristo come un eroe benefico e salvatore, ma con puntigliosa attenzione ad evitare di riconoscerne la divinità.
[66] Se alle poesie propriamente storiche si aggiungono quelle a tematica autobiografica (motivo ispiratore n. 3), politica (motivo ispiratore n. 4) e celebrativa (motivo ispiratore n. 6), allora ci si accorgerà come quantitativamente prevalga “l’avvenimento storiografico del passato o l’evento cronachistico del momento”. Da questo punto di vista ha dunque ragione la tesi crociana che vede nel Carducci appunto il poeta della storia. Che è però un’interpretazione unilaterale, decapitata. Infatti, nella stessa rievocazione del passato si insinua spesso il tormento o l’estasi della problematica esistenziale (oltre a quelle autobiografiche – a cominciare con Davanti San Guido; ed in quelle politiche si deborda volentieri nella polemica anticristiana o almeno antiecclesiale. In proposito è degno di nota il sorprendente insorgere di meditazione filoreligiosa dei vv. 13-20 e 105-128 con il rigurgito anticristiano dei vv. 41-60, ne La Chiesa di Polenta; o la intuita legge storico-morale del realizzarsi nel corso delle generazioni di una “nemesi” o legge di castigo sul delitto (in Per la morte di Napoleone Eugenio o ne La sacra di Enrico V). Tenendo presenti questi parametri, si dovrà riconoscere uno spunto di verità nella pretesa di Walter Binni di monopolizzare nella ispirazione esistenziale la sorgente della commozione poetica del Carducci. Ecco la sua espressione: “radicale incontro e contrasto di un sentimento della vita nella sua pienezza; e di un ugualmente energico sentimento della morte come totale e fisica privazione della vita” (“Carducci e altri saggi”, Einaudi, Torino, 1967; In Giudice-Bruni,?????????????? III/I/p.638). Ecco come la tesi del Binni viene spiegata e volgarizzata da M. Pazzaglia – Antologia della letteratura Italiana, Zanichelli, Bologna, ??????????ANNO!, III, 634: “La critica recente ha individuato il nucleo centrale della poesia carducciana in un nostalgico amore della vita nella sua luminosa pienezza, intimamente unito a un sentimento della morte come totale e fisica privazione della vita; in un contrasto fra sole ed ombra. La compresenza dei due motivi, vissuti dal poeta non nella forma di una meditazione filosofica, ma come intuizione primordiale e germinale del contrasto dell’esistenza terrena, rende più energica l’aspirazione agli ideali più alti. Divengono essi un modo di aderire alla vita luminosa, obliando la desolazione del dover morire, che il poeta accetta virilmente, e tuttavia con una tristezza in cui riecheggia il pianto antico degli uomini sulla caducità della vita dolce e luminosa. Questa fondamentale intuizione anima le più grandi e belle poesie di rievocazione storica, nelle quali le grandi civiltà sepolte sono vagheggiate come un balenare luminoso di passioni e di ideali dinanzi al silenzio greve della morte; palpita nelle bellissime poesie di ricordi d’infanzia dove il paesaggio maremmano, scabro e nudo, teso in un’ansia di sole e in una meditazione assorta delle rovine di popoli spenti, diviene simbolo della condizione umana; è soprattutto evidente in alcune poesie tarde delle Odi Barbare e di Rime e Ritmi, nitide, pensose meditazioni sulla morte e sul destino”.
Carducci rimane però, a nostro parere, un poeta “disiectus”, cioè dispersivo in quanto a motivi ispiratori: la storia e la patria lo esaltano al di fuori anche della prospettiva ideologico-religiosa; l’eroismo e il genio lo accendono per se stessi, come la bellezza del paesaggio o di una donna. Pure non si può negare come lo stesso poeta, che in Idillio maremmano ha affermato “meglio oprando obliar, senza indagarlo / questo enorme mister dell’universo”, in realtà proprio dal tentativo (fallito) di scoprire un senso alla vita ricavi momenti di poesia tra i più alti. Carducci non è un filosofo, proprio perhchè, se si eccettua il tentativo di scoprire una nemesi (e solo negativa, tutto sommato: manca in Carducci il canto dell’eventuale provvidenza – sia pur immanetistica – che leghi “virtù e premio”) nelle vicende storiche, non è capace altro che di demolire e rinnegare le verità etico-religiose del Cristianesimo, senza sostituirvi nulla di coerente o convincente. Ma questo non lo privò del tormettto tutto umano della tensione verso tale problematica e della ricerca di una soluzione pacificatrice. L’essenza di esiti positivi, in tale rigurgito di esigenze e aspirazioni, costituiranno un impulso tra i più potenti e tra i più frequenti della musa carducciana. Croce o Binni? Entrambi, complementari o contemperati!
[68] Carlo Chiarini è il figlio di Giuseppe, l’amico di Carducci.
[70]esametro: settenario + novenario (anche senario o quinario + novenario);
pentametro: quinario + settenario (settenario + settenario);
metro alcaico: strofe tetrastiche: primi due versi (uguali): versi di undici sillabe risultanti dall’accoppiamento di un
quinario piano + un quinario sdrucciolo; terzo verso: novenario| quarto verso: decasillabo;
metro saffico: strofe tetrastiche: tre endecasillabi + un quinario sdrucciolo;
metro asclepiadeo: strofe tetrastiche: dalle diverse forme (5 tipi), la più solita è quella ottenuta con un quinario
sdrucciolo + un quinario sdrucciolo (endecasillabi sdruccioli) nei tre primi versi + settenario sdrucciolo = gliconeo;
pitiambico secondo: distici formati da un esametro + trimetro giambico (=endecasillabo sdrucciolo);
pitiambico primo: distici formati da un esametro + diametro giambico (=settenario sdrucciolo);
archilocheo: (terzo) distico formato da trimetro giambico (=endecasillabo sdrucciolo) + elegiambo (= doppio
settenario, piano il primo, sdrucciolo il secondo);
alcmanio: distici formati da un esametro e da un tetrametro dattilico (= un novenario con accenti 2°-5°-8°)
giambico: strofe varie di trimetri e di distici giambici (=due endecasillabi sdruccioli + due settenari sdruccioli).
Esempi:
esametri: Una sera di San Pietro / Sogno d’estate
distici elegiaci: Nella piazza. di San Petronio / Mors / Egle / Vere novo / Presso l’urna di P. B. Shelley / Nevicata
alcaico:
Nell’annuale della fondazione di Roma
/ Per la morte di Napoleone Eugenio /
Alla stazione… / A una
bottiglia di Valtellina del 1848 / Figurine vecchie / Saluto d’autunno / Per le
nozze di mia figlia / Nel chiostro….
saffico: Dinanzi alle terme di Caracalla / Alle fonti del Clitunno / Miramar / Sum. M. ????????/ Congedo (Odi Barbare) /
Piemonte / Bicocca / La chiesa di Polenta
asclepiadeo: In una chiesa gotica / Sole d’inverno / Primo vere / Ave
pitiambico secondo: Le due torri
pitiambico
Primo: Sirmione
archillocheo: Saluto Italico
alcmanio: Courmayeur
Giambico:
Ruit hora / Canto di marzo
[71] Anche in prosa: ad esempio Carducci non scrive mai “istituzione” ma “instituzione.” Si veda anche il titolo (cfr. distici elegiaci Odi Barbare, n. 44: Per un instituto di ciechi). Aborre l’uso del “lei” manzoniano; ed usa il “voi”
[72] In realtà l’errore romantico fu in sede estetica prima che poetica: filosofi mediocri, essi fecero, dei motivi ispiratori popolari e dello stile storico-realistico, altrettanti assoluti, quando erano semplicemente accidentalità del fenomeno artistico-letterario, altrettanto validi (di diritto) quanto gli opposti fattori aristocratici e raffinati, mitologici e antichi, rinascimentali o studiati, che i classicisti volevano imporre come uniche od ottimali forme del poetare.
[73] Ce lo riferisce lo stesso Carducci: Opere, XXIV, p. 66 (Garzantiana 1976, p.535)
[74] Per le nozze di mia figlia / Presso l’urna di G. B. Shelley / Canto di marzo / Bicocca di San Giacomo / Jaufré Rudel, ad esempio vivono specialmente per gli inserti improvvisi di tali tematiche: o almeno in essi raggiungono lo zenit lirico. In altre (Davanti San Guido / Traversando la maremma toscana) tale tema non è solo fonte di poesia altissima, ma il motivo ispiratore centrale.