Dopo il Monti e Foscolo, rimane una scia di classicisti poco noti, ma che van tenuti presenti almeno come movimento, per non ritenere improvviso e impreparato lo sbocciare del Carducci a metà secolo.
A Roma, intanto,
(lo vedremo col Belli) il romanticismo non riesce a penetrare.
Nei seminari di tutta Italia si continua un insegnamento
tradizionale che è basato sull’accostasmento dei classici: ne uscirà Zanella.
Ma, oltre al Foscolo, anche Tommaseo, Porta e Grossi ne hanno approfittato
nella adolescenza - giovinezza, anche se poi aderiranno ad orientamenti più
liberi e moderni. Manzoni stesso, prima della conversione, non poeterà sulla
scia del Monti? E Leopardi non continuerà a mirare ad una poesia classica come
alla forma suprema del bello?
Vi sono, fra questi classicisti perseveranti, dei nomi per sé insignificanti. Però, il loro più o meno casuale legame con poeti o scrittori di grido, li segnalano: ci si accorge, allora, che scuole e difensori della classicità continuarono ad esistere anche dopo il 1816, in Italia.
Così, Leopardi ci rileva lo scrittore Pietro
Giordani (Piacenza 1774-1848) troppo ricercato, pedante e freddo (il Porta
lo castigherà a dovere): eppure godeva di fama, ai suoi tempi. E Basilio Puoti, non distingueva ancora
tra parole “auree” del ‘300 e “argentee” del ‘500, dissuadendo i giovani dal
leggere le opere della letteratura francese contemporanea? Altro maestro di
classicismo, dunque. E, sebbene il maggior discepolo, Francesco De Sanctis, emarginerà il pedantismo di simile
magistero, per altro esso equilibrò in lui altre spinte, facendone un critico,
bensì, di scuola romantica, ma di un romanticismo ricco, equilibrato appunto
dai molti residui di sapienza classica.
Verso la metà del secolo, si costituì a Roma ( tra il Caffè Nuovo e il Caffè Greco) una specie di letterario “concilio di Trento”, cioè della restaurazione classica. Il suo miglior rappresentante, Domenico Gnoli, ce ne ha lasciato la storia e un’antologia ne “I poeti della suola romana” (1850-70), edito da Laterza.
Molti di essi non interessano più. Rimane, però, in
noi l’eco di due fratelli romani (Giambattista. e Giuseppe Maccari) che, nella
breve e dolorosa esistenza, lasciarono versi melanconici (così da apparire,
emotivamente, romantici più che classici); di Pietro Cosssa, di Ettore Novelli
e, appunto, di Domenico Gnoli. Di altri nomi (Luigi Lézzani, Luigi Celli,
Achille Monti, Ignazio Ciampi, Paolo Emilio Castagnola) basta il ricordo.
Si noti come in più d’uno ci sia il sapore del
Dolcestilnovo, del Petrarca e del Poliziano.
Altri rinnovano Esiodo e Anacreonte e, in qualcuno,
appare un riflesso del Leopardi, nella chiarezza rappresentativa e nella
tenerezza della interpretazione del paesaggio.
Giambattista
Maccari
(Roma, 1832-1868): nato in una famiglia sventurata e malaticcia (tisi:
premuoiono al poeta 2 dei 5 fratelli, in età giovanissima), non reggerà oltre i
36 anni e muore un anno dopo l’altro fratello poeta, Giuseppe. Avevano perso
prestissimo il padre.
Delle “Poesie” (1856) e “Nuove Poesie” (1869),
ricordiamo il sonetto Alla sua donna
(di stile dolcestilnovistico: le chiede licenza di andare a far visita alla madre
per pochi giorni); La mia valle
(altro sonetto, con la descrizionedei luoghi dove ha passato l’infanzia: vorrebbe
esser lieta, ma la nostalgia prevale;
ormai sono ricordi elegiaci.). Così, S’io
ti rassembro, o Gnoli, un rozzon lento (altro sonetto che lamenta le sventure
e fatiche della vita); Silenzio e pace (sestine di settenari, che descrivono un
paesaggio vagheggiato, ma con tutto il senso della stanchezza e della brevità
dei giorni rimasti); tanto più tristi i settenari a rima baciata su La morte del fratello Leopoldo.
Giuseppe
Maccari
(Roma, 1840-1867). Meno intenso del fratello, sa essere più idillico, talora (Il giardino), pur con una patina di
sottile mestizia. Inconfondibilmente leopardiano in Amore (ritorna la luna, l’infinito , “da lungo il colle”, “ mi
risovvien”: da “La sera del dì di festa”).
Pietro Cossa (Roma, 1830-1881). Veramente
è più noto come drammaturgo di cose storiche
in versi: Nerone ne è il capolavoro;
ma si ricordano anche Messalina, Plauto,
Mario e i Cimbri, Giuliano l’Apostata, Cleopatra, Cola di Rienzo, Borgia,
Ariosto. Fra gli argomenti contemporanei, scrisse Beethoven
e I Napoletani del 1799.
Molto minore come lirico, anche egli segue Leopardi
(Sabato del Villaggio) ne La festa del
villaggio; patriota e anticlericale , ha però versi sufficienti e leggibili
A Nostra Signora del buon Consiglio.
Discreti sono pure il sonetto Patria;
e un’altra strofa, di settenari ed endecasillabi liberamente mescolati, sulle
illusioni, realtà, delusioni del poeta (Fuoco
Fatuo).
Ettore Novelli (Velletri, 1822-1900):
intitolò le due principali raccolte dei suoi versi Mnasylus e Cromi (due
pastorelli della sesta egloga di Virgilio); tradusse anche dal greco di Museo (Ero e Leandro); ma cantò argomenti
moderni con spirito celebratorio (patriottismo) o satirico (anticlericalismo, antiborghesismo).
Sono migliori le composizioni satiriche. Anche il tono generale d’altronde
risente molto delle libertà romantiche, a meno che non si proponga di imitare
il modo di poetare del trecento. In quest’ultimo stile, ricordiamo il sonetto Dispetto; le ottave sui generis, fra
scherzose e satiriche, Il pensiero
dominante del prete Pasquale (rivuole il potere temporale); l’imitazione
del Giusti (La chiocciola) Ad ermafrodito - in lode del ranocchio; e
la canzonatura amara su La filantropia,
che lascia morir di fame i poveri.
Giovanni
Marradi
(Livorno. 1852-1922): discepolo del Carducci, fu uno dei “Goliardi” fiorentini
(successori degli “Amici pedanti” del Gargani e dello stesso Carducci). Insegnò
in molte scuole d’Italia, finendo Provveditore agli studi nella città natale, a
lui tanto cara. Riempì molti libri di versi, che vendettero e piacquero, anche
se nessuna composizione esce dalla mediocrità: sono versi facili, scorrevoli
che mancano, però, di grandi ideali e di orizzonti vasti e profondi. Si leggono
volentieri, ma non affascinano, sicché difficilmente si rileggono. Iniziò coi
festosi paesaggi della sua terra livornese; si accostò poi alla tematica
carducciana, specialmente risorgimentale (Rapsodie
garibaldine; il poemetto Tito Speri);
ed anche alla moda scapigliata. I suoi versi si ritrovano raccolti assieme
nelle Poesie, edite più volte dal
Barbéra (Firenze), dal 1902 al 1923. Fra i titoli di poesie discrete,
ricordiamo la Serenata nuziale (per
le nozze di Severino Ferrari); la ballata a Guido
Cavalcanti (anche lui è un cultore del Dolcestilnovo); i versi Davanti alla Maiella e le ottave su Lucrezia Borgia.
E, nonostante la velleità di mutare tutto,
contestando o innovando estetica, metrica e morale dei padri, la poesia Apriamo i vetri termina con “la fatalità
del mistero”, sicché molto più coerente a quella intitolata: Perché svegliarmi (visto che il sogno è
meglio della vita!); o l’altra Ego te
absolvo (che non chiede vendetta per la donna infedele: tutto è destino di
natura!); o ancora la conclusione delle terzine Galeria (un castello fra Roma e Bracciano) che dopo aver descritto
il presente e rievocato il passato glorioso, non ha il coraggio (come, invece, “la Chiesa di Polenta” del Carducci) di
auspicare un futuro splendido, in nome di ideali e di valori autentici. Si
ripiega nella melanconia della constatazione che tutto cammina verso la rovina
e la fine. E coerente è anche nelle quartine (tre endecasillabi più un
settenario). A Giosué Carducci: morto,
il poeta è passato; e hanno avuto il sopravvento quelle tenebre e silenzi dei
chiostri, contro cui il poeta maremmano si era difeso abbracciandosi ai canti
di Omero (La certosa di Bologna).
Domenico Gnoli segna così il passaggio dal Carducci
ai Crepuscolari, specie al Panzini. È
facile costatare che, comunque
inizi lo stato d’animo della poesia (idillio di paesaggio/arguzia maliziosa
degli imbrogli nella vita, ecc.), esso si avvia sempre verso la melanconia; o
alla drammaticità (In gondola).
Tra i numerosi amici, imitatori, scolari, seguaci del Carducci, molti scrissero versi. In genere sono toscani o romagnoli, dove nacque e insegnò il Carducci. Ne ricordiamo solo i nomi e il titolo di opere, salvo casi notevoli, degni di maggior attenzione.
Francesco Donati fu padre scolopio, antiromantico, amico degli “Amici pedanti” (Giusepe Gargani, Targioni Tozzetti, l’inventore del termine “Amici pedanti”, e Giuseppe Chiarini). Di “frate Cecco” (così lo chiamavono gli amici pedanti) ricordiamo “Ballata d’amore”.
Narciso Feliciano Pelosini (Calci-Pisa, 1820-1896): compagno all’università di Pisa (finanziò col Carducci la satira “diceria contro i poeti odiernissimi”; poi gli fu avversario politico nel collegio di Pisa , ove naufragò la seconda candidatura politica del Carducci). Liriche (Firenze, 1860): A Giosué Carducci (sonetto).
Giovanni Procacci (Pistoia, 1836-1887): avvocato, passato alla direzione di scuole a Pistoia, scrisse apprezzate “Novelle toscane”; lo studio: Niccolò Forteguerri e la satira toscana; e la raccolta di poesie Vecchiume (piccolo canzoniere). Ricordiamo le poesie: La mia casina, Per un nuovo ritratto di Dante, Predicatori.
Enrico Nencioni (Firenze, 1837-1896): amico del Carducci fin da giovane universitario, si tenne lontano dalla foga polemica degli scatenati “Amici Pedanti”. Si dedicò a lavori di critica sulla letteratura italiana ed inglese (Saggi critici di letteratura inglese ed italiana) e pubblicò un solo libretto di poesie nel 1880. Timido nella vita, è anche discreto nella poesia che varia da meno frequenti pause idilliche (A un rosignolo, Dopo una sinfonia di Beethoven) a note di tristezza pensosa (Il giardino della morte, Note funebri…).
Giuseppe Chiarini (Arezzo, 1833-1908): uno degli “Amici Pedanti”, divenuto direttore generale nel Ministero della Pubblica Istruzione, lanciò il giovanissimo D’Annunzio, dopo la pubblicazione di Primo vere; ma poi lo castigò (assieme al Nencioni) pel libriccino edito dal Sommaruga, per l’oscenità dell’Intermezzo.
Sentì profondamente la famiglia
ed ebbe molti figli: due, Dante e Beatrice, morirono precocemente ed egli li
pianse con note dolenti in La morte della
figlia, Lacrymae, Il figliuol morto. Sentì anche il problema
esistenziale dell’Aldilà proprio in presenza delle care spoglie famigliari: ma
non riusciva a credere. Nasce così la poesia in terzine Perché non voglio…
Giacinto Ricci Signorini (Massa Lombarda-Ravenna1861-1893): suicida quando scoperse di esser tisico. Rime (1888); egli canta d’amore spesso e non male; ricordiamo il Contrasto vicino, come argomento, a quello di Cielo D’Alcamo, ma terminato molto più discretamente e pudicamente.
Severino Ferrari (Molinella-Bologna, 1856-1905): ammiratore del Carducci (non ne fu però discepolo né imitatore in senso stretto). A lui il Carducci dedica una composizione rimasta incompiuta. Amico del Pascoli, ne ebbe la dedica di “Romagna”, scritta in forma di lettera o discorso indirizzato a lui, in nome di quella terra romagnola, che fu uno dei centri della ispirazione del Ferrari (l’altro – e prevalente – fu l’amore).
Egli personalmente collaborò col Carducci al commento del Canzoniere petrarchesco; pubblicò il poemetto Il Mago (canzonatura dei letterati del tempo, romantico-manzoniani: parallelo al “Giobbe” dello Stecchetti – Guerrini – e Ricci contro Rapisardi); e poi due raccolte di Bordatini/Nuovi Bordatini (versi dimessi come un vestito di “rigatino o bordatino”, cioè di lino o di cotone a righe piccole, solitamente bianche e turchine); e Primavera Fiorentina. I “Versi”, raccolti e ordinati nel 1892, sono stati riediti ancora da Sonzogno nel 1928.
Le composizioni migliori ritornano tutte sull’amore nelle terre di Romagna: Caccia del dio Pan alla ninfa Siringa lungo le prode del Ladone (fiume dell’Ellade, ma su cui gareggiano di canti gli usignoli e le risaiole, che intonano le “romanelle” locali). Nidi, che descrive l’amore negli uccelli; Sorella, che compassiona la ragazza rimasta giovane in casa ad allevare i figli dei parenti, incapace di giustificare il sorriso che accompagna una simile missione; Ore notturne, che immagina dialoghi tra piante e animali dei campi, finalmente padroni, mentre gli umani dormono, di accordarsi fra loro in canti sottovoce (non impostata sull’amore, ne serba però tracce in paragoni e di nidi in amore e di inviti a ballo).
Il tono lirico è idilliaco in genere: da sognatore di un mondo magico, di natura buona. Eppure morì a 49 anni, demente per paralisi progressiva.
Adolfo Borgognoni (Corropoli-Teramo, 1840-1893): di genitori romagnoli, insegnante di lettere fino alla cattedra di Pavia, pubblicò, validi, Rime e versi dopo altri tentativi infelici. Carducciano fervente, scrisse La poesia del Carducci per celebrarne l’effetto esaltante e beatificante; pose il nome Carduccio al proprio figlio. Sarcastico, satireggiò ne Il canto del pellegrinaggio le nuove ondate di viaggiatori romani organizzate (a contrasto dei pellegrini cattolici), a base di consumazioni pantagrueliche, in cui il vantaggio era solo dei ristoranti e delle bettole.
Vicino al Carducci sono Alma poesis, Meriggio a mare (idilliache) e Al sonetto (epicizzante).
Alberto Rondani (Parma 1846-1911): ammiratore del Manzoni, ma classicheggiante nella forma. E’ autore di varie raccolte di poesie, di cui la migliore è Voci dell’anima (ma fuori di essa sono i bei sonetti Savoia, Caprera).
Si ispirò al patriottismo (Savoia/Per la mancata cremazione di Giuseppe Garibaldi), ai problemi del tempo (La plebe) e dell’eternità (Chiostro/ Tedio autunnale/ Non ci voglio pensar), all’amore (Credetelo, Signora/Donde venite?), al paesaggio (sonetto omonimo, Paesaggio).
Toni lirici: corrispondenti, adeguati: idillio nel paesaggio, elegia nella meditazione religiosa, idillio, d’amore non senza note ironiche; ed epicità, nelle poesie risorgimentali. La composizione metrica preferita è il sonetto.
Giuseppe Picciola (Parenzo-Istria 1859-1912): venne a studiare ed insegnare in Italia, stabilendosi a Firenze: carducciano, ebbe i Versi stampati da Zanichelli nel 1890. Ma il suo carduccianesimo tende già alla meditazione e tristezza: i Ricordi istriani/Allora ed ora/A un fiume alpino (di impianto pascoliano) pongono tutti irrisolto il problema religioso-esistenziale e non sanno risolverlo se non in una tristezza, che evade nel sogno o pensa al tramonto ed al camposanto, incoraggiandosi ciononostante ad essere sereno…..
Luigi Pinelli (Treviso, 1840-1913): carducciano, insegnante nei licei, autore di Poesie varie (edizione Zanichelli). Malinconico in Refrigerio (ricordando la sorella morta), Novembre (pascoliano), Farfalle (effimere come gli uomini), La mia villeggiatura (vagheggiamento di bimbi, rumorosi ma vivi, per sè, poeta celibe e senza figliolanza).
Edoardo Scarfoglio (Paganica-L’Aquila, 1860-1917): giornalista, marito della Serao (da cui si separò poi), amico del D’Annunzio, fondatore del quotidiano Il Mattino, collaboratore al Convivio (di De Bosis) ed alla Cronaca Bizantina (del Sommaruga), pubblicò libri di critica letteraria. (Il libro di don Chisciotte) e di viaggi (Il cristiano errante), di novelle (Il processo di Frine) e di poesie (I papaveri: in metri barbari carducciani).
Le cose migliori sono i 4 sonetti Da parte degli amici a Gabriele D’Annunzio, che ne critica la vita borghese ed edonistica, sensuale a Roma (in realtà, nonostante il serio tono di rimprovero, si trattava forse di puro scherzo ed esercitazione letteraria, come proclamava l’autore, a dispetto del direttore del Corriere della Sera, che aveva affermato che lo Scarfoglio non sapeva far versi).
Giacomo Zanella (Chiampo, provincia di Vicenza 1820-1888)
Vita: sacerdote, formatosi in seminario sui classici; laureatosi in filosofia a Padova, vi ottenne l’abilitazione all’insegnamento delle lettere; dovette rinunciare all’insegnamento per il suo liberalismo (espresso anche in prediche): cfr. lettera al Professor Mugno, deprecazione per certe prese di posizione di Roma, vere o temute (“Anche a Roma le esorbitanze crescono. Mi dicono che vogliono canonizzare un celebre inquisitore. Ma si può far peggio? Perché dare questa ceffata all’odierna società che si fonda sulla tolleranza? E questa tolleranza non è fondata forse sul Vangelo? O io ho perduto la testa o sono un grande empio, ma confido in Dio di non essere né nell’un caso né nell’altro”). Scriveva queste cose, ma anche altre: deprecava i torbidi politici (scrivendo per questo l’ode A Camillo Cavour, segno di moderazione) e soprattutto la negligenza ed emarginazione della legge di Dio “Non l’ignoranza è il peggiore dei mali, ma la larva della scienza che si beffa di Dio, della famiglia, dell’autorità”; e lamentava che “si cerca in tutto la scienza e non la virtù”. (Osservatore Romano, 26 aprile 1868). E deprecava l’abolizione del crocefisso nelle scuole (cfr. Vive il grande Proscritto). Insegnante in vari licei del Veneto, fu nominato professore all’Università di Padova, di cui divenne anche Rettore magnifico (1867). Dal 1878 si ritirò ad Astichello, dove visse gli ultimi dieci anni.
Ambiente di formazione: quello classico dei Seminari: autori latini e greci.
“L’abate Zanella – scrive il Carducci – aveva cominciato esercitandosi cogli altri chierici in gara di traduzioni da Ovidio e da Orazio; ha poi tradotto anche Shelley e mostra di saperlo apprezzar con larghezza e forza di giudizio, tutt’altro che da Seminario. Rifiorivano nei suoi versi le belle tradizioni della scuola classica: il Mascheroni, didascalico, vi s’era fatto lirico: il Parini lirico vi appariva ammorbidito e più ortodosso: l’elegiaco e moralista Pindemonte, smessa la cipria con la quale era solito ballare in gara al celebre Picche, pareva aver curato con un trattamento scientifico certa debolezza di nervi…Quando mai da molti anni la breve, snella, arguta strofa saffica era stata carezzata e liberata al volo con tanta abilità, facilità e grazia? Dei detrattori dell’abate Zanella chi ha trovato o chi troverà altrove, nelle rime d’oggi, lo spirito lirico che ondeggia circonvolgendosi con mite rumore di marina lontana nelle volute meravigliosamente delineate, marcate e colorite della Conchiglia fossile?”.
Naturalmente, anche Manzoni; ma anche autori esteri (come Shelley): da quasi tutte le letterature europee, egli tradusse (cfr. Varie versione poetiche, edite da Le Monnier).
Scolari: Antonio Fogazzaro e Fedele Lampertico.
Opere: versi: Astichello (100 sonetti) ed altre poesie. Fra le opere più belle o note:
Odi: Sopra una conchiglia fossile1 (1864); A Camillo Cavour (1867); Per la morte di Daniele Manin; Milton e Galileo; Microscopio e telescopio; Il taglio del canale di Suez; Vive il grande Proscritto; La veglia; Le palme fossili.
Astichello: O Virgilio, O Teocrito; Anche l’inverno ha le sue dolcezze; Temporale d’estate; L’alloro e la vite (egoismo e carità); Il buon vecchio; Ospizi marini; Piccolo calabrese.
Motivi ispiratori: 1. Paesaggio e natura (cfr., in genere, la raccolta “Astichello”).
2. Liberalismo cattolico e patriottismo: A Camillo Cavour.
3. Problemi sociali: Ospizi marini, Piccolo calabrese.
4. Interesse per il progresso: Il taglio del canale di Suez.
5. Religione e, in particolare, il rapporto tra scienza e fede: Sopra una conchiglia fossile; La veglia; Vive il grande Proscritto; Milton e Galileo; Microscopio e telescopio.
L’ultimo tema è il più tipico e indicativo: a parte che ha dettato il capolavoro (Sopra una conchiglia fossile), esso ritorna in altre composizioni con un’insistenza che non può essere puramente “voluta e calcolata”: è sincera e spontanea, come doveva imporsi ad un uomo di fede (fino all’eccesso di rifiutare l’evoluzionismo!), che seguiva con simpatia il progresso culturale e ne sentiva i problemi a fondo.
Toni lirici: vibrano in lui le due tonalità più tipicamente classiche: idillio (“Astichello”) ed epopea (odi: particolarmente alta la meta attinta nella “Conchiglia”). Diremo però che, piacevole spesso nei quadretti idillici dei sonetti, convincente nell’entusiasmo per le grandi opere o personalità celebrate, una sola volta trascina a fondo: sono le strofe 11-14 (parte finale) dell’ode Sopra una conchiglia fossile (che Manzoni ripeteva a memoria tutta).
Meno felice nel dramma (Vive il grande Prescritto). Assente, o quasi, l’elegia (cfr. però Piccolo calabrese)
Note stilistiche: classico per formazione e per indole. L’assenza dei toni drammatici e tragici, elegiaci e patetici lo rendevano un candidato dalla nascita alla classicità di tipo rinascimentale. Odi (saffiche) e sonetti; metri minori del classicismo settecentesco (senari: Conchiglia; Ospizi…). Rare le “intuizioni folgoranti” in Zanella: lenta e graduale è la gestazione delle strofe fulgide, che arrivano al fondo della composizione. Comincia cioè la poesia in tono minore; poi sale: guadagna lungo il cammino in scioltezza e impeto. Anche le famose strofe della Conchiglia fossile conservano un residuo di “affanno”: che – lapsus significativo – si esprime esplicitamente nelle parole (strofa 12, 4: “de’ nobili affanniLa musicalità è discretamente complessa, completa: predominio delle vocali larghe sulle deboli o tenui; le consonanti dolci hanno una lieve prevalenza: una poeticità ovattata ma anche impacciata: limpida e levigata, ma anche cordiale. Zanella ha lo svantaggio del paragone col Carducci: paragone fatale a lui Preso, invece, a sè stante, è un buon poeta: superiore ai fratelli Giambattista e Giuseppe Maccari (romani: classicisti legati alla suola tradizionale). Zanella, inoltre, previene e risente le vicende culturali e sociali del suo tempo: la problematica scientifico-religiosa e quella sociale sono “segni dei tempi”, compartecipazione a motivi ispiratori che in altre correnti diverranno centrali: il Verismo prima, il Decadentismo (e A. Fogazzaro in particolare) poi.
Note:
1. G. Carducci oppone Satana (1865) alla Conchiglia fossile? E’ una ipotesi possibile.