IL PENSIERO DEL MANZONI

  Premesse. Alcuni aspetti (la linguistica, ad esempio) sono già stati presi in esame. Quanto al problema centrale della religione, si è parlato solo delel ragioni probabili della sua conversione al cattolicesimo, ma evitando le molte questioni annesse,  dal giansenismo iniziale alle incoerenze, rispetto al magistero della Chiesa, mai smesse. Di altre importanti dottrine   si è a stento accennato.

Eppure il Manzoni ha elaborato un pensiero filosofico che, pur trascurando la metafisica e la cosmologia, offre invece sulla religione e sull’uomo, sulla morale, sulla estetica e sulla politica,   riflessioni di tutto rispetto, perchè giustificate con osservazioni nuove e convincenti[1]. Talvolta ha lasciato trattatazioni in libri (Osservazioni sulla morale cattolica, specie l’Appendice al c. 3, sull’Utilitarismo); tal altra solo lettere che, però, equivalgono a trattatelli (come quella abbozzata nel 1829-31 per Victor Cousin); altra volta ancora ha accennato alle sue dottrine in passi di libri od in conversazioni raccolte da amici, che Romano Amerio ha avuto la pazienza di comporre in sintesi nel terzo volume (“Studio delle dottrine”) della sua edizione commentata delle “Osservazioni”[2]. A quest’opera dell’Amerio ci atterremo  nel complesso. In particolare,  le citazioni “Amerio, I, II, III” si riferiscono ai tre  volumi di tale opera. Non sarà però una sequela servile: cominceremo con l’unificare, per brevità, i cc. I e III su Religione, Teodicea, morale; altre divergenze le segnaleremo di volta in volta..

 

I) La verità come esigenza prima ed irrinunciabile.

Più volte il Manzoni esprime esplicitamente questa premessa ad ogni pronunciamento nonchè ragionamento. Se la prima dichiarazione in proposito è quella presente nella Lettre à M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (pubblicata nel 1823, ma scritta nel 1819)[3], tuttavia la più chiara è quella presente nella nota sui meriti e demeriti del Locke, inserita nella edizione del 1855 delle Osservazioni sula morale cattolica: “...l’unica cosa che si deve cercare ne’ fatti è la verità: chi ha paura d’esaminarli dà un gran segno di non esser certo de’ suoi princìpi” (c. III); e  più forte è la enunciazione del principio contenuta nella lunga nota alla “Appendice A sui Traslati”, che conclude quanto Manzoni ha scritto della progettata opera Della lingua italiana[4] : “Ogni comprensione più vasta è come un maggior avvicinamento all’unità della cognizione, unità alla quale l’intelletto tende naturalmente come al possesso pieno e per ogni parte della verità, che è il suo termine... L’idea d’un pieno possesso della verità, per il quale l’uomo è stato creato e del quale, per conseguenza, è capace...”. Altre testimonianze le rimandiamo in nota.[5]

 

 II) IL PENSIERO RELIGIOSO

 

La fede come risultato di un processo adeguatamente razionale. [6]

Prendendo le mosse più in basso ancora del deismo illuministico, dall’ateismo[7] cioè, Manzoni risalì la china con la conversione nel 1810 e con un approfondimento nella conoscenza della teologia cattolica che lo portò, da un’iniziale mentalità più o meno consapevolmente giansenistica, ad una adesione sempre più coerente alla fede ortodossa, grazie alla lettura sistematica dei grandi apologisti e teologi francesi dei secoli XVII e XVIII ed all’influsso di Antonio Rosmini Serbàti, che conobbe nel 1826. Ma, aiutato nel suo cammino da maestri giansenisti o cattolici, egli volle sempre controllare con la propria intelligenza le motivazioni delle proprie credenze, con quel puntiglio per la verità di cui si parlava testè.

Proprio perchè convinto che l’approdo alla fede avviene per via logica e soltanto per essa (come insinuato da san Paolo, quando parla di una “loghiché latréia”, cioè di una religione o culto razionale a Dio: Rom. 8, 1) il Manzoni, da una parte, può confutare la “teoria del rispetto” di Cousin (come si è accennato), il pessimismo giansenistico, il “latitudinarismo” liberale ed il sentimentalismo romantico; dall’altra, può dimostrare la moralità della virtù di fede (contro Voltaire), il dovere di tolleranza  (liberalismo pratico) nei confronti di ogni credente, la ragionevolezza dell’apertura dell’intelligenza alla rivelazione ed ai misteri (non dimostrabili razionalmente, ma neppure dalla ragione confutabili come irrazionali), l’armonia tra fede e ragione, il cristianesimo come sintesi di verità... Ne discende anche  la confutazione di alcune tesi giansenistiche, ma questo lo vedremo nell’apposita, prossima sezione.

E ne dipende anche la “intolleranza logica e non teologica” del Manzoni,  il suo “illiberalismo teoretico”. In proposito vi è una lettera del 27 settembre 1829 al pastore ginevrino Jean-Jacques Chenevière, che in una visita a Brusuglio aveva sostenuto una “maniera larga” (accomodante) di interpretare il cristianesimo e l’insegnamento di Calvino. Sintetizza Amerio: “l’assurdità della maniera larga consiste nella impossibilità di costituirsi davvero come dottrina della maniera larga. Se invero tale dottrina abbraccia un insieme coerente di cose vedute come una unità, essa deve necessariamente escludere ogni altro insieme che sia in contraddizione con esse: in questo caso potrà chiamarsi larghezza, ma sarà tuttavia la larghezza di un certo ambito e di un dato contenuto. Se invece tale dottrina abbraccia un insieme incoerente di cose, cioè una pluralità di vedute discordi circa il medesimo oggetto, allora non è più essa medesima nè dottrina nè una dottrina, ma contraddizione abbaracciante il vero e il falso insieme, o indifferenza al vero e al falso”. Manzoni si esprime così: “si elle (la maniera larga o accomodante)  n’est pas si large au point d’embrasser aussi ma manière de voir, à quoi me sert sa latitude, sa tolérance, qui n’arrive pas jusqu’à moi? Or elle ne peut pas embrasser ma manière de voir  sans se détruire elle-meme, puisque le caractère de ma manière de voir (et ce caractère est non certes la marque, mai la condition essentielle de la vérité) est d’exclure tout ce qui est en opposition avec elle”. E ancora: “è la transazione della falsa madre del giudizio di Salomone: non sia nè tuo nè mio, ma si divida. Ma non ci sono mezze fedi vere, più di quello che vi siano mezzi bambini vivi”. [8]

Ed è proprio in virtù di tale “illiberalismo ed intolleranza logica” che il Manzoni professa razionalmente la sua tolleranza e liberalismo pratico, cioè il diritto di ogni uomo alla libertà di ricerca e di conclusioni circa la fede religiosa: “Certo non bisogna sacrificare la verità a nessuna cosa, nemmeno alla concordia, ma qui non si tratta di sacrificare che l’odio, che la temerità, che la leggerezza”[9]. Amerio riassume così le motivazioni del Manzoni: “... quando pur potessero giudicarsi odiose le credenze di un uomo (ma in realtà le idee possono essere soltanto vere o false, non odiose o amabili), non però l’odiosità di quelle potrebbe comunicarsi all’uomo che le tiene. E’ infatti una verità assoluta che il precetto della carità non soffre eccezioni e che è giusto amare gli erranti per la ragione stessa per cui è giusto amare tutti gli uomini, la qual ragione si è che Dio li ama, e non può essere odibile all’uomo quel che è amabile a Dio”. Di qui la differenza fra la “tolleranza” cristiana e quella di Voltaire: “La tolleranza non è una transazione, ma proprio un principio. Non si tollerano le opinioni contrarie al vero, perchè sia impossibile discernere il vero, o perchè, conosciutolo, sia indifferente alla volontà pregiarlo o spregiarlo, o ancora perchè la persuasione della verità (oltre che la verità) non abbia diritti superiori alla persuasione dell’errore (oltrechè all’errore), ma puramente perchè l’atto con cui l’uomo si unisce alla verità non può generarsi o impedirsi fuorchè in maniera logica, e perchè alla verità non si arriva che per le vie della verità”.[10]

La logicità del procedimento mentale che conduce alla fede non elimina però la moralità dell’atto conclusivo, come invece pretendeva Voltaire nel suo famoso ma semplicistico, sorprendente ma sofistico dilemma: o c’è la evidenza per l’assenso e, allora, l’atto di fede non è virtuoso più del consenso ad un assioma evidente  o ad una dimostrazione scientifica; o non c’è tale evidenza e, allora, non devi dare il tuo assenso.[11] Manzoni oppone due motivazioni ben ragionevoli. Anzitutto va tenuta presente la implicazione di altre componenti psicologiche, oltre quelle logiche, nel decidere all’assenso a quelle verità religiose raggiungibili attraverso la sola ragione, perchè esso implica tali corollari etici, da scatenare le passioni più diverse, che bisogna controllare con la volontà, affinchè non deraglino la ragione, dalla pura ricerca della verità pro e contro l’assenso stesso, al fine più o meno consapevole di assecondare le passioni stesse . In secondo luogo, la fede esige   l’assenso a delle verità di cui solo indirettamente la intelligenza riesce a dimostrare la razionalità: la ragione, cioè, prova la loro provenienza da Dio, non riesce, poi, sempre, a dimostarre la loro trasparenza logica, sicchè talora essi risultano dei “misteri”, che si accettano sulla fiducia nella infinita perfezione di Dio, fiducia che coinvolge necessariamente la volontà e, quindi, la moralità e meritorietà dell’atto di fede.[12]

Una volta spiegata questa complessa relazione tra ragione e fede, si può arguire l’armonia fra le due attività della intelligenza nel credente; ed anzi intuire “il dogma come ampliamento di conoscenza” e  “Il Cristianesimo come sintesi di verità”.[13]

Ma sul pensiero e la prassi religiosa del Manzoni grava un’ombra sconcertante, quella dell’eresia  giansenistica.

 

La questione del Giansenismo

 

Le tesi giansenistiche e l’anticipo delle nostre conclusioni circa il giansenismo del Manzoni

Il giansenismo è arroccato alle cinque proposizioni (condannate da papa Innocenzo X,con la Costituzione “Cum occasione” del 31 maggio 1653), proposizioni tratte dal già citato “Augustinus”, opera (postuma: 1640) del vescovo di Ypres, Nicolis Jansen. Le traduciamo con quelle specificazioni che le rendano comprensibili anche al di fuori della problematica, piuttosto sofisticata, del tempo: a) alcuni precetti rimangono impossibili agli uomini pur giustificati dalla redenzione di Cristo: la grazia per osservarli, infatti, non è concessa da Dio a tutti; b) viceversa, se la grazia è concessa, essa diventa irresistibile e l’uomo non può sottrarvisi, cioè non può più peccare;[14] c) la libertà interiore (dalla prepotenza delle passioni) non è più presente nell’uomo decaduto per il peccato originale: per stabilire la sua responsabilità (il suo merito o la sua colpevolezza), basta sia assente la costrizione fisica, esteriore; d) è eretico chi afferma che la grazia è concessa, in quanto necessaria,  a tutti gli uomini, anche per giungere alla fede; e) è pure eretico affermare che Cristo è morto per tutti gli uomini.[15]

Si noti: tali errori riecheggiano, in forme meno drastiche[16], la dottrina protestantica (calvinista, in particolare) della predestinazione di alcuni uomini alla salvezza e di altri alla dannazione, essendo l’umanità tutta, per sè, destinata all’inferno, dopo il peccato originale (rimarrebbe, quindi, non contrario alla bontà di Dio il condannare una parte di tali uomini alla perdizione); ribadiscono la totale mancanza di libertà interiore nei discendenti di Adamo; la necessità della Grazia redentrice di Cristo per ogni atto buono, Grazia che non è però concessa a tutti. Era un rifarsi agli aspetti peggiori della dottrina sulla Grazia di sant’Agostino (onde il titolo dell’opera), al di fuori del contesto delle altre sue opere e al di fuori soprattutto della comprensione che ne ha ricavato la Chiesa (si usa dire che la dottrina sulla “Grazia” di Agostino va  intesa “Thoma interprete”, cioè nella interpretazione di san Tommaso).

Ebbene,  noi non vogliamo essere i difensori d’ufficio del cattolicesimo manzoniano.[17] Proprio sul suo esempio, andremo alla ricerca della verità, anzitutto e soprattutto: amicus Alexander, sed magis amica veritas. Diciamo, proprio a testimoniare la nostra neutralità in proposito, che tre affermazioni scritte nelle Osservazioni sulla morale cattolica o per (la seconda parte delle) “Osservazioni” stesse ci lasciano perplessi e le condanneremmo come giansenistiche, se non ci fossero altre e più forti testimonianze in contrario. E, anticipando le conclusioni sul pensiero religioso-cattolico del Manzoni, diremo non è il caso di preoccuparsi eccessivamente di togliere ogni sospetto circa il suo aderire a qualche tesi giansenistica, visto che in ogni caso egli si allontanò dalla piena ortodossia cattolica anche in altri punti: l’adesione al tradizionalismo, almeno fino al 1852; la strana tesi che il papa non necessariamente dovesse essere vescovo di Roma; il cattolicesimo liberale, per cui egli finì per sostenere la separazione tra Chiesa e Stato e la legittimità della occupazione di Roma con la forza. Ne riparleremo, solo ricordando fin d’ora che si trattò di ingenuità, dovute a minor chiarezza intellettuale su questi punti particolari, che lo condussero a giudizi erronei, ma irresponsabili, visto che, nella lettera dell’8 settembre  1828 a padre Antonio Cesari, egli dichiara fra l’altro “Colla Chiesa dunque sono e voglio essere in questo come in ogni altro oggetto di fede; colla Chiesa vogflio sentire, esplicitamente, dove conosco le sue decisioni; implicitamente, dove non le conosco; sono e voglio essere colla Chiesa, fin dove lo so, fin dove veggo, e oltre.”

 

Gli indizi di tale eresia in Manzoni

Esponiamo anzitutto tutte le prove, vere od apparenti, a favore del giansenismo nel Manzoni; poi le discuteremo. 

Manzoni, dunque, seguì le lezioni date dal giansenista abate Eustachio Dégola alla moglie Enrichetta e questa fece dei sunti delle lezioni, riviste dal Manzoni pur nelle parti esplicitamente gianseniste: “Negli appunti autografi del Degola, che servirono alla catechesi di Enrichetta, e nei “transunti” fatti dalla stessa Enrichetta colla revisione del M. troviamo infatti questa proposizione: -Les protestants nous chargent beaucoup pour l’article du Pape, qu’ils regardent comme un despote, tandis que la doctrine cathlique ne propose d’autre dogme que la primauté. Quant à ses décisions, elles peuvent etre très respectables, mais le Pape n’étant pas infallible, on n’est obligé de les recevoir, si toute l’Eglise ne les a pas examinées et reçues-”[18].

Dopo questa negazione della infallibilità del papa,  aggiungiamo le affermazioni delle Osservazioni sulla morale cattolica che  suonano all’orecchio piuttosto come gianseniste che come cattoliche.[19]

 L’affermazione, nel c. III delle “Osservazioni”, edizione 1855: “Ai precetti poi che essa sola poteva promulgare, e ai motivi che essa sola poteva rivelare, la religione aggiunge (ciò che ugualmente poteva essa sola) la cognizione di ciò che può darci la forza d’adempire i primi, e d’adempirli per riguardo e secondo lo spirito de’ secondi: cioè quella grazia che non è mai dovuta, ma che non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio, e con umile fiducia.”[20]

“Ora questa ragione perpetua, e senza eccezione, d’esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data (sic) di noi stessi, e sulla quale è fondato il precetto dell’umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sè stesso (sic). E questa idea è, che l’uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio: dimanieraché ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sè Stesso: Che hai tu, che non abbia ricevuto? e se l’hai ricevuto, perchè [21]te ne glorii, come se non l’avessi ricevuto?”;[22]  “tutti i suoi pregi (dell’uomo) sono doni che può perdere per la sua debolezza, e per la sua corruttela”;[23] “L’uomo modesto... vede che le lodi lo trasportano facilmente ad  attribuire a sè ciò che è dono di Dio, a supporre in sè un’eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolmente”[24]; “... come mai questo sentimento (il disprezzo verso gli altri) potrà prender radice nel core (sic) educato a considerare e a deplorare le proprie miserie, a riconoscere a Dio ogni suo merito, a riconoscere che potrà trascorrere a ogni male, se Dio non lo trattiene?”;[25] “Il punto cardinale del Cristianesimo: andare a Dio per mezzo dell’Umanità di Gesù Cristo;.... che non possiamo fare alcun bene senza la sua grazia”.[26]

Altri testi sospetti, dalle lettere o dalle liriche. 

 La lettera a mons. Luigi Tosi, dell’estate 1811:”E ringrazio pure per la carità di Lei, del cui santo ministero Dio si vale per tutto quel bene ch’io posso fare. Dico senza esitare questa parola, perchè malgrado la mia indegnità, sento quanto in me possa operare la Onnipotenza della Divina Grazia”.[27]

“La Pentecoste”, prima stesura (solo 10 strofe, non finita: siamo nel 1817 o poco dopo) contiene questi versi sulla “virtù dello Spirito Santo”: “Ma questa eterna in Dio|, pietosa aura ineffabile,| di cui giammai desio| indarno un cor non ha,| questa d’Adamo al misero| germe il cammino addita,| e nel cammin di vita| correr volente il fa[28].

 

La lettere a mons. L. Tosi da Parigi, del 1 dicembre 1819, in cui troviamo l’ammirazione per mons. Henry Grégoire, il lamento che i gesuiti, dopo che il congresso di Vienna ne aveva permesso la restaurazione, avessero già aperto in Francia ben ottanta case, la stima per i “solitari di Port Royal, cioè del gruppo più radicale dei Giansenisti.[29] E’, questa lettera, forse il documento più esplicitamente giansenista del Manzoni; eppure non è difficile notarne i limiti, come vedremo.

Al di là di questi documenti più sospetti, esistono altri indizi meno significativi.

 Vi è la apertura dell’inno sacro Il Natale (“Qual masso che dal vertice...”: già riportata) che, fra l’altro contiene anche il tremendo giudizio sugli uomini tutti come “nati all’odio” (di Dio: alla inimicizia con Lui, al castigo eterno).

La lettera a mons. Luigi Tosi da Parigi, del 7 aprile 1820, in cui si ribadisce la opposizione all’unione fra trono e altare, quale si era ripetuta con la restaurazione dei Borboni in Francia (“Quando un esercito nemico e vincitore entra in un paese, ha Ella mai veduto che i cappellani di quell’esercito facciano conversioni nel paese dove giungono?”); si cita come giudice attendibile della situazione religiosa francese il giansenista abate Barry; si raccomanda la lettura del volume “Les quatre concordats suivis des considérations sur le gouvernement de l’Eglise en général et sur l’église de France en particulier” di Dominique Dufour, abbé de Pradt, libro che, edito nel 1818, sarebbe stato messo all’indice nel novembre del 1820, cioè pochi mesi dopo che il Manzoni lo consigliava al Tosi.

L’ultima lettera ad Eustachio Degola (del 15 maggio 1825: l’abate, nato il 20 settembre 1761, morirà il 17 gennaio 1826, non riuscendo, quindi, a leggere l’edizione ventisettana dei “Promessi” che il Manzoni gli promette in omaggio nella lettera) contiene  l’espressione “il vostro e mio Nicole”, in riferimento al noto teologo giansenista Pierre Nicole (1625-95), collaboratore per varie opere con Antonio Arnauld, a Port Royal.[30]

Le opere giansenistiche presenti in biblioteca, sia  a Milano  (“Le noveau Testament en français” di Pasquier Quesnel, proibito fin dal 1679, del quale abbiamo ricordato, in una nota, le 101 proposizioni condannate da papa Clemente XI nel 1713); sia a Brusuglio (i 18 volumi della “Collezione di scritture di regia giurisdizione”; “Instructions générales” del vescovo giansenista Colbert de Croissy: condannate nel 1721). Ma altre vanno aggiunte, che servivano alla preghiera e letture spirituali di Giulia e di Enrichetta e quasi tutte di ispirazione giansenistica.[31]

Gli amici giansenistici, frequentati abitualmente dal Manzoni. A parte l’abate Degola e monsignor Tosi, i Manzoni furono amici di Gaetano Giudici, giansenista e massone, legato ai primi due, consigliere del governo austriaco per il culto e la censura; gli facevano visita ogni domenica e fors’anche il venerdì. Il Giudici era stato alunno del seminario teologico di Pavia, infarcito di insegnanti giansenisti [32]sin dal tempo di Giuseppe II, per il loro favore al giurisdizionalismo e vi aveva poi insegnato anche storia ecclesiastica e diritto canonico. Sostenitore della tolleranza religiosa e della comciliabilità fra religione e democrazia, era spiaciuto ed era stato messo da parte dai giacobini, ma fu valorizzato da Napoleone e dal governo di Vienna, per questo suo senso di moderazione, per la intelligenza notevole ed integrità morale, nella fedeltà ai governi che serviva prima che alla Chiesa.

Accanto a queste “liaisons suspectes”, va ricordato che a Parigi i Manzoni frequentavano la parrocchia di Saint-Sévérin, retta da Paolo Balliet, dove Enrichetta aveva fatto l’abiura al calvinismo: il paroco era molto simpatizzante col giansenismo, tanto che ne sarà allontanato dall’arcivescovo di Parigi dopo la restaurazione borbonica.

Alcuni atteggiamenti di personaggi manzoniani rivelano uno spirito pessimista o scrupoloso, tipici della mentalità rigorista del giansenismo.  Irrimediabilmente pessimistico è il giudizio sull’umanità nelle parole di Adelchi morente al padre Desiderio (V, 7): “Godi che re non sei, godi che chiusa| all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,| ad innocente opra non v’è: non resta| che far torto o patirlo. Una feroce| forza il mondo possiede, e fa nomarsi| dritto: la man degli avi insanguinata| seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno| coltivata nel sangue; e omai la terra| altra messe non dà...”. Inoltre, troppo scrupolosa risulta in qualche caso la morale di suoi personaggio o il commento del loro autore: il servitore onesto in casa di don Rodrigo, per esser stato ad origliare dietro la porta  durante il tempestoso colloquio fra il padrone e padre Cristoforo (c. 6); Lucia, che si rifiuta al matrimonio di sorpresa (c. 7) ed ha titubanze a mentire alla portinaia del convento di Monza[33], onde uscire per andare al convento dei cappuccini, secondo le direttive traditrici di suor Geltrude (c. 20); Ferrer in “Fermo e Lucia” (tomo III, c. 7), giudicato negativamente, per la promessa di portare in giudizio il vicario di provvisione  a causa del rincaro del pane, fatta alla folla con la intenzione di non mantenerla.  

 Anche le risposte riferite sia dalla figlia Vittoria che dal figliastro Stefano Stampa circa i motivi della sua conversione sembrano rifarsi ad una esclusività della Grazia, tipica del Giansenismo, che non prevede collaborazione umana[34]  e giudica, perciò, “miracolo” la conversione di un’anima. Alla figlia Vittoria che gli chiedeva “Ma perchè, papà, non mi hai raccontato mai come andò che divenisti credente?” ripose. “Figliuola mia, ringrazia Iddio che ebbe pietà di me: quel Dio che si rivelò a San Paolo sulla via di Damasco”. Al secondo disse. “E’ stata la grazia di Dio, è stata la grazia di Dio, mio caro!”

 

 

 

L’esame critico di tali indizi

         Principio generale.  Ci accorgeremo, analizzando i passi sospetti del Manzoni, che la più solita fonte di eresia giansenistica è il considerare (in negativo) l’uomo incapace di qualunque opera buona senza la grazia redentrice di Cristo, a causa della sua totale corruzione seguìta al peccato originale. Parrebbe, allora, che l’attribuire a Dio ogni nostra buona azione, ogni nostro merito e tutto il processo della salvezza dell’uomo sia automaticamente giansenistico ed eretico. Ma queste affermazioni “in positivo” della totalità dell’opera redentrice non coincide con la negazione di capacità operativa nel bene dell’uomo, perchè vi sono due altre cause che, anche a prescindere dal peccato originale e dalla corruzione trasmessa all’uomo dal capostipite Adamo, rendono legittimo dire che tutta l’opera di santificazione e salvezza eterna dell’uomo è opera di Dio. La prima è il fatto della creazione, per cui tutto il bene[35] che facciamo è, in ultima analisi, attribuibile a Dio, che ci ha dato la volontà e, quindi, anche le opere buone da essa compiute. La seconda sorgente della attribuzione a Dio di tutto il processo e merito della santificazione-salvezza dell’uomo sta nel fatto che tale duplice opera non consiste solo o principalmente nella riconsegna, attraverso la grazia meritata da Gesù morto e risorto per noi, della facoltà a vivere secondo tutta moralità (onestà) e ad   evitare, quindi, ogni colpa grave, ma consiste soprattutto nella elevazione a figli (adottivi) di Dio, ad un processo, cioè, di trasformazione interiore che la Chiesa non esita a definire come “deificazione (marginale, ma vera, accidentale, ma reale), la cui conclusione non è il premio, dovuto secondo giustizia all’uomo, innocente o pentito, di una felicità relativa (perchè finita), imperfetta (perchè non adeguata al bisogno di infinità pur presente nell’uomo), ma la felicità piena e in qualche modo infinita del godimento di Dio stesso. E’ evidente che un tale salto di qualità, nella natura della perfezione spirituale e nella ricompensa conseguente, non è per nulla conquista o merito dell’uomo, ma è operazione totalmente gratuita da parte di Dio: è “pura grazia”, in cui l’uomo ha soltanto una parte preparatoria, come cooperatore “parziale e precario” nel porre la moralità (o nel non impedire la moralità)[36] dell’azione buona.

 Come esempio del triplice punto di vista sotto cui può essere analizzata una sentenza riguardante la (relativa) potenza riservata all’uomo nell’agire, rispetto alla parte che vi ha la onnipotenza di Dio, prendiamo  la espressione di Gv. 15, 5 “Senza di me non potete far nulla”. La frase è vera in senso stretto, perchè Cristo Gesù è Dio e, come creatore, è originalmente autore di quanto di positivo fa l’uomo. E’ vera, ancora in senso stretto, in quanto Gesù si riferisce al valore soprannaturale dell’agire umanao, dimensione che Egli solo, in quanto redentore, elargisce all’umano operare, premio del Paradiso compreso. E’ vera, ma solo in senso accomodato, se specificamente riferita alla residua capacità di cooperazione dell’uomo nella costruzione| responsabilità| merito del bene morale nell’azione, dopo il peccato originale e la debilitazione conseguente nella volontà umana. In che senso? Dal momento che l’uomo, così mal ridotto e abbandonato alle sole sue forze, cade inevitabilmente in qualche colpa grave, finendo per perdere, immediatamente tutta la sua dignità morale; e si espone, alla distanza, a cadere in qualunque depravazione, fino a deformare o cancellare la coscienza stessa del peccato[37], dimostrando che davvero senza la grazia di Cristo, l’uomo può essere definito a livello di libertà e potenza operativa morale (approssimativamente, sia pure)  una nullità. 

Avremo modo di usare tali distinzioni nel giudicare il pensiero di Manzoni, pensiero che oscilla fra giansenismo e cattolicesimo anche perchè egli non teneva presente queste tre dimensioni diverse della parte di Dio nell’agire umano, finendo per rimanere disorientato e scendere ad espressioni che si contraddicono fra loro.  Veniamo, ora, all’esame dei testi sospettabili di giansenismo in Manzoni.

         Le scritte di Alessandro sui “transunti” di Enrichetta. Abbiamo citato il caso più sconcertante, quello della non infallibilità del papa. Due le risposte possibili. Al momento (le lezioni ebbero luogo fra l’aprile ed il maggio 1810 ed Alessandro presenziò ad esse)[38] Manzoni può aver ritenuto anch’egli la “fallibilità del papa” nella “infallibilità” della Chiesa, cioè aver aderito alle tesi giansenistiche che egli andava precisando sull’autofìgrafo della moglie. Non si può per altro escludere che, almeno per certe parti, egli abbia riprodotto al meglio il pensiero del Degola unicamente per lealtà al dettato di quello, senza impegnarvisi col suo pensiero.

Ma, qualunque interpretazione si preferisca, si deve costatare la fede del Manzoni nella infallibilità del papa, ben prima della definizione del 1870. Ecco le testimonianze.

Fin dal dicembre 1810 chiedeva al papa il permesso di tenere e leggere libri proibiti: la prima di tale richieste, attraverso il parroco di S. Giorgio al Palazzo, don Gerolamo Mascherana, fu indirizzata a Pio VII, che si trovava a Savona, prigioniero di Napoleone. Di altre di tali richieste si hanno documenti  (vedi in Lettere a cura di Cesare Arieti: aprile 1823; 19 luglio 1839).

Nel 1830 scrive a Johann Friedrich-Heinrich Schlosser: “Possano gli eminenti ingegni meditare con predilezione i documenti de’ Santi Padri, duce omnium Petro”[39], dove la frase latina è forte, perchè significa “con a capo di tutti Pietro”.

Uno dei dodici Inni sacri progettati era “La Cattedra di Pietro”.

Nel 1870 si dibattè al Concilio ecumenico Vaticano I la definizione della infallibilità pontificia. In materia,  non ha importanza la testimonianza del Cantù, perchè da tempo egli non frequentava più il Manzoni, che lo aveva escluso da casa sua per aver egli sfruttato le sue idee sul processo agli untori, prevenendo il Manzoni nel pubblicarne la storia. E’ da tutti accettato, invece, quanto scrive il figliastro Stefano, di cui riportiamo in nota tutta la testimonianza, che qui documentiamo solo con le prime battute: “Devo dunque ripetere (per ben intendere ciò che sto per dire) che Manzoni credeva nell’infallibilità delpapa, e la sosteneva con dotte e sottili discussioni, molti e molti anni prima che essa fosse decisa”.[40] 

Passiamo alle espressioni che, nelle “Osservazioni”, introducono in un’aura decisamente giansenistica.

La frase delle “Osservazioni” nel c. III (“quella grazia che non è mai dovuta, ma non è mai negata a chi la chiede con sincero desiderio e con umile fiducia”) è  per un terzo anticattolica e per due terzi antigiansenista. Spieghiamoci. Che la grazia non sia mai dovuta è eretico (vedi proposizione condananta (e), se si tien presente che nessuno può salvarsi senza la grazia ottenuta con la redenzione di Cristo, mentre san Paolo afferma “Dio vuole che tutti gli uomini si salvino” (1^ lettera a Timoteo, c. 2, v. 4) e “per tutti è morto Cristo” (2 Cor. 5, 14-15). Viceversa, che la grazia non sia mai negata a chi la chiede va contro le tesi giansenistiche due volte. Anzitutto  pare proprio ammettere che l’uomo possa chiedere la grazia senza che l’iniziativa parta necessariamente e sempre da Dio: l’uomo, dunque, può fare qualcosa di bene anche con le sole sue forze; se non altro, può chiedere la grazia di fare il bene. In secondo luogo, Giansenio è condannato proprio perchè nega che la grazia sia concessa a tutti (vedi proposizioni (a) (d) ).

Altre due delle proposizioni riportate sono ostiche ad essere ricondotte ad un senso ortodosso: la prima (tratta dalle “Osservazioni”, c. XVII) e l’ultima (tratta dal materiale per la progettata seconda parte delle “Osservazioni”). Se non ci fossero altre testimonianze, la frase “l’uomo è corrotto e inclinato al male, e... tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio” dovrebbe essere intesa giansenisticamente, in base ai principi (c) e (d) condannati nel libro di Jansen (come pure la simmetrica sentenza negativa “non possiamo fare alcun bene senza la sua grazia”, perchè l’abituale pensiero del Manzoni collega la “grazia” al problema della liberazione dalla debolezza e corruzione conseguìte al peccato originale). Pure, quanto alla prima affermazione almeno, un’apertura verso un senso cattolico ce la offre Manzoni stesso, perchè egli si appella al testo paolino di 1 Cor. 4, 7 (Che hai tu, che non abbia ricevuto? e se l’hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l’avessi ricevuto?”) per dimostrare il proprio assunto (“dimanierachè ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sé stesso: Che hai tu ...). Ebbene, ivi san Paolo parla al di fuori della questione delle conseguenze del peccato originale e si riferisce semplicemente alla verità ovvia della creazione, per la quale ogni pretesa di vanto personale viene azzerata dal fatto che, per la creazione, ogni abilità (tecnica o morale non importa) viene da Dio ed è da considerarsi Suo dono. Ne consegue questo dilemma: o Manzoni non ha trovato la prova scritturistica che credeva avere a disposizione, perchè ne ha deformato inconsciamente il significato,  riferendola alla impotenza dell’uomo come conseguenza della “corruttela ed inclinazione al male” dovuta alla colpa di Adamo; oppure, tutto sommato, egli in tanto dava un giudizio così radicalmente negativo sulle capacità morali dell’uomo, in quanto assommava l’indebolimento conseguente al peccato originale col fatto che l’uomo è creatura di Dio.   Comunque, lasciamo in sospeso la interpretazione di questen prime tre sentenze manzoniane. 

Tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza, e per la sua corruttela”: dopo le distinzioni avanzate nell’esame della precedente sentenza, questa seconda può rientrare nell’ortodossia cattolica, perchè è ovvio per tutti i credenti che la pur parziale corruttela e la debolezza dell’uomo decaduto possono far perdere i doni di Dio e il suo pregio morale.

La quarta, che parla della facilità (“Le lodi lo trasportano facilmente”) per l’uomo a “supporre in sè un’eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolmente”, non solo ammette la interpretazione cattolica, ma la esige: l’uomo non è detto cadere inevitabilmente (senza una predestinazionistica “Grazia” divina) nel peccato di orgoglio, ma solo “abbandonarvisi  facilmente”, dimenticando che , come creatura, deve a Dio ogni sua dote e, come creatura decaduta e redenta, solo in parte (anzi, ben poco) può fare di bene con le sole sue forze naturali.

La quinta espressione che parla di “riconoscere a Dio ogni suo merito” “resipit Jansenium” (risente di Giansenio), ma può avere anche non una, ma due interpretazioni cattoliche. Intanto è dottrina cattolica che l’uomo senza la Grazia cade inevitabilmente in qualche colpa grave[41], pur impegnadosi con tutte le forze a vivere onestamente: ora, il merito lo si acquista solo agendo in Grazia di Dio, cioè al di fuori di ogni peccato mortale; risulta, quindi, impossibile acquistare meriti senza quell’aiuto soprannaturale, che supplisca alla debolezza (parziale) dei discendenti di Adamo. In secondo luogo, il merito di cui si parla nella dottrina cattolica è sempre un merito non puramente morale, per un premio adeguato alla natura umana[42], ma è merito alla visione ed al godimento di Dio, come figli ed eredi della Sua felicità: ora un simile “merito” non è frutto di una sia pur immacolata onestà e rettitudine; è puro dono di Dio, per i meriti di Cristo Redentore. Che, poi, l’uomo possa trascorrere ad ogni male, se Dio non lo trattiene, è dottrina ovvia anche nel cattolicesimo: difatti, una volta persa la Grazia con il primo peccato personale, per sè è aperta la via ad ogni corruzione.

 

         Gli  altri testi, fuori delle Osservazioni sulla morale cattolica.

“Sento quanto in me possa operare la Onnipotenza della Divina Grazia” (dalla lettera a mons. Tosi dell’estate 1811): è espressione che, se non si conoscessero le teorie dei “riformatori” (Lutero, Zuinglio, Calvino) e dei loro discepoli giansenisti, non farebbe difficoltà teologica alcuna, ma solo suonerebbe retorica e sentimentale, per un eccesso di devozione ed umiltà.  In altre parole: solo se esistono altre prove precise sul giansenismo del Manzoni, in questi anni immediatamente attorno alla sua conversione, si potrebbe dare anche a simili frasi un valore specificamente giansenistico; altrimenti sono epsressioni teologicamente insignificanti.

Lo Spirito santo, “di cui giammai desio| indarno un cor non ha” al misero discendente di Adamo addita il cammino e “correr volente il fa”. Questi versi contengono due affermazioni, di cui la seconda è ambivalente: i sensi da giudicare (come giansenistici piuttosto che cattolici) risultano quindi tre: (a) “ogni cuore che aspira a ricevere la Grazia dello Spirito santo, la riceve sicuramente”: questo è pensiero cattolico ed antigiansenista; implica, infatti, la volontà divina della salvezza universale e la disponibilità di Dio a concedere lo Spirito e la Sua Grazia per la salvezza ad ogni uomo di buona volontà (contro le proposizioni da noi segnalate come a| d| e della condanna di Giansenio); (b) intendendo “correr volente il fa”= lo fa correre, se vuole; fa correre chi vuole (lo Spirito santo concede all’uomo la Grazia di correre sul cammino della salvezza a chi la desidera, la vuole”), si ha una interpretazione “umanisticamente ovvero molinisticamente” cattolica; (c) intendendo, invece, “ lo rende volente di correre; gli dà la volontà di correre” (lo Spirito santo concede la Grazia di volere correre sul cammino della salvezza),  siccome Manzoni connette la mozione del volere ad operare il bene con la colpa di Adamo (“d’Adamo al misero| germe il cammino addita”), il senso della frase  fa difficoltà vera e deve essere accostata alle due precedenti, di cui sospendiamo la interpretazione, perchè suppone una corruzione totale dell’umano volere, che solo la Grazia di Dio (dono dello Spirito) può risvegliare al desiderio ed all’attuazione del bene.[43]

Per quanto riguarda la lettera a Mons. Tosi del 1 dic. 1819, si è già detto che la stima e frequentazione del Grégoire sono legate a fattori che ben poco hanno a che fare col giansenismo,ma piuttosto con la concezione liberale dei rapporti fra Chiesa e Stato. La disistima e il rammarico per il ritorno trionfale dei Gesuiti in così pochi anni, è dovuto con ogni probabilità a due cause, di cui la prima è l’altra faccia della medaglia di quella che dettava la stima per il Grégoire (cioè la tendenza dei Gesuiti ad appoggiare l’alleanza fra trono ed altare); e la seconda è il pregiudizio nato dal fatto che il sistema morale del “lassismo” è legato più ad alcuni figli di S. Ignazio che ad altri, tanto che le condanne di papa Alessandro VII (1665) e di Innocenzo XI (1679) si riferiscono più facilmente ad opere di gesuiti. Siccome l’ordine dei gesuiti difendeva non certo il lassismo, ma il “probabilismo” come sistema per cerziorare la coscienza (in caso di urgenza all’agire ed in mancanza di prove sicure sulla moralità delle due o più scelte disponibili all’azione); ed essendo invece i giansenisti schierati nella difesa del “rigorismo”[44], si può comprendere come i giansenisti detestassero i gesuiti in genere, come corruttori del costume cristiano.

Vi è infine l’elogio ai solitari di Port-Royal, il centro intellettuale ed ascetico dei Giansenisti. Ma è un elogio che riguarda sempre la loro capacità a distinguere fra potere politico ed autorità religiosa, a detestarne la loro alleanza: l’elogio non riguarda gli elementi propriamente dogmatici della loro fede, sicchè, come è stato sottolineato, l’approvazione va ad alcuni giansenisti, non al giansenismo. Manzoni ha tra i suoi amici dei personaggi sicuramente giansenisti (il Degola, mons. Tosi, Gaetano Giudici), ma   non si può stabilire con certezza se egli abbia mai tenuto dogmi giansenistici nella sua mente.

 

Gli indizi meno significativi

L’immagine d’apertura all’inno sacro Il Natale (le prime tre strofe, che iniziano con “Qual masso che dal vertice”) deriva molto probabilmente dall’Arnauld, che a sua volta la sviluppò da quella che trovava nell’Augustinus di Jansen[45]. Ma intanto vi è una differenza: i testi giansenistici parlano di un uomo (Adamo) che di sua volontà si getta in un precipizio, sicchè Dio non ha il dovere di trarlo fuori e riportarlo alla vetta del monte; Manzoni, invece, prende le mosse dai discendenti di Adamo, che in tale condizione si trovano senza loro colpa personale. Ad ogni buon conto, l’immagine non suona eretica all’orecchio cattolico, per il fatto che, da una parte, essa non esclude che Dio concedesse la grazia sufficiente a tutti gli uomini, pur decaduti, per una salvezza eterna di grado naturale (come detto, noi parleremmo con Dante di “Limbo”: Inf. 4, 45), come era tenuto per giustizia verso se stesso; dall’altra, essa proclama una verità ovvia a livello soprannaturale: la impossibilità per l’uomo a ritornare all’antico stato di amicizia con Dio (ed anzi “oltre l’antico onor”) ed alla vocazione al Paradiso come premio. Se la fonte dell’immagine era inquinata, Manzoni l’ha purificata, interpretandola cattolicamente.

Anche la citazione di san Paolo (“Qual mai tra i nati all’odio” traduce Efesi, 2, 3: “eramus natura filii irae, sicut et caeteri”) non conduce necessariamente a concludere che Dio non fosse tenuto ad offrire a tutti gli uomini, anche prima della redenzione di Cristo, l’aiuto per vivere “secondo coscienza” (cioè, soggettivamente non responsabili del male oggettivo –ad esempio il divorzio- in cui pure cadevano). Semplicemente significa che l’uomo,deragliato dal piano primitivo di Dio, non Gli è più gradito come persona innocente (e tanto meno come figlio adottivo), sicchè è destinato, se vive con la coscienza morale che gli riesce di raggiungere, anche se oggettivamente imperfetta, non al premio soprannaturale che i cristiani chiamano Paradiso, ma solo alla felicità imperfetta dello “sheòl” o del limbo.

La lettera  a mons. Tosi del 7 aprile 1820 cita favorevolmente il giansenista Barry e consiglia di leggere un libro del Dufour, che sarebbe stato indicizzato dalla Chiesa pochi mesi dopo. Ma si tratta di personaggi ed opere che si interessavano ai rapporti Chiesa-Stato in senso liberale, con favore per la indipendenza delle chiese nazionali da Roma (le dottrine del giurisdizionalismo gallicano, in particolare) e perciò i due riferimenti testimoniano bensì in favore del “liberalismo politico” el Manzoni, ma non precisamente in favore di un’eventuale sua adesione alla dogmatica giansenista.

L’ultima lettera all’abate Degola, del maggio 1825, contiene l’espressione “il vostro e mio Nicole”. Di nuovo, questi dati rischiano di confermare che Manzoni era amico di personaggi di spicco nel mondo giansnista, ma senza che per questo ne condividesse le idee ereticali. Pierre Nicole (1625-1695)[46] fu un grande teologo, appartenente al movimento giansenista, ma la sua dottrina era così poco eretica, che la Chiesa non condannò (nè, quindi, mise all’indice dei libri proibiti) alcuna sua opera. Inventore della distinzione fra “diritto” e “fatto”, affermò la ereticità delle cinque proposizioni di Giansenio, così come suonavano nella condanna di papa Innocenzo VII; ma negò che, di fatto, esse esistessero in quel senso nell’Augustinus di Giansenio: una ipotesi che, dapprima rifiutata da papa Alessandro VII, alla fine, per pacificare la Chiesa in Francia (quattro vescovi si rifiutavano di firmare in assoluto), fu accettata nella prassi da papa Clemente XI (1668). A lui si deve anche la  distinzione fra “Gratia sufficiens” e “Gratia efficax”, con cui si concilia la “giustizia di Dio” verso l’uomo decaduto e il fatto che non tutti giungano alla salvezza: Dio dona la grazia sufficiente ad ogni uomo per salvarsi  (se vuole collaborare), mentre ad alcuni soltanto dona una  grazia infallibile (“efficace”) di salvezza o di santità straordinaria, per cui non mancherà di collaborare (si pensi a Maria SS.). La simpatia del Manzoni per il Nicole, dunque, non può destare alcun sospetto di eresia. Ma c’è di più: perchè Manzoni  sdoppia “Il vostro e mio Nicole” anzichè usare il più ovvio “il nostro” Nicole? E’ lecito sospettare, almeno, una volontà  di distinzione fra la adesione del Degola a tutta l’opera del grande teologo giansenista (che aveva tradotto anche le “Lettere provinciali”, messe all’indice, di Pascal) dal proprio modo di aderirvi, che aveva i suoi “se” ed i suoi “ma”. Questa frase potrebbe, almeno ipoteticamente, essere citata, quindi, tra gli argomenti contro l’assenso del Manzoni al Giansenismo.

Quanto alle opere giansenistiche, presenti nella biblioteca sia di Milano sia di Brusuglio (sono già state citate alcune importanti, sulla scorta di Amerio), va detto che alcune sono intonse (quelle di Pascasio Quesnel, in particolare, che erano divenute il testo classico del giansenismo, non essendo mai stati di larga lettura i tre volumi originari dello Jansen; e i 18 volumi della “Collezione di scritture di regia giurisdizione”, pure giansenistici); altre sono di dubbia origine. Infatti, nel patrimonio librario di Brusuglio sono confluite opere di Carlo Imbonati, il proprietario della tenuta lasciata in eredità all’amante Giulia Beccaria-Manzoni; e finora non è stata tentata una distinzione plausibile perchè ragionata.[47] Vedremo che il Manzoni chiedeva il permesso di tenere e di leggere opere censurate dalla Chiesa, per cui anche se risultasse con sicurezza che egli leggeva –come si è certi che facevano regolarmente Giulia ed Enrichetta- Le nouveau Testament en français del Quesnel e  le Instructions générales  del vescovo Colbert de Croissy, rimarrebbe sempre da dimostrare che egli ne condivideva anche gli errori.[48] In conclusione, questo fatto non è decisivo e “in dubiis libertas”: non è lecito trarne prova nè in un senso nè nell’altro.

Gli amici giansenistici frequentati dal Manzoni.  In proposito dobbiamo dire che il Manzoni sapeva mantenere indipendenza di opinioni e credenze, pur conservando amicizie anche molto strette con pesonaggi di idee diverse dalle sue. Il caso di Claudio Fauriel è tipico: egli mantenne l’amicizia con lui, sebbene ormai le concezioni fondamentali della vita divergevano sostanzialmente (il Fauriel fu ospite a Brusuglio per tutto l’state del 1824). Ma, ospite con la moglie alla Maisonnette di Meulan (dove la vedova Condorcet aveva come amante il Fauriel) durante i soggiorni di Parigi, i Manzoni osservavano il magro, pur  sapendo di imporre agli ospitanti un impegno che quelli non condividevano.[49] L’amicizia con G. Giudici poteva dipendere unicamente dalla comune mentalità liberale, che tendeva a separare totalmente l’attività della Chiesa da quella dello Stato, a costo di vedere la libertà di quella soffocata dal giurisdizionalismo di questo. Della amicizia col Degola abbiamo troppo poche testimonianze per Alessandro (più numerose quelle per Enrichetta: abbiamo accennato, poco sopra e al seguito dell’Amerio, ai libri giansenistici usati dalle donne per le pratiche di devozione, ma ne vedremo fra non molto anche la parte di vicinanza al cattolicesimo): la lettera sopra esaminata rischia però di  rivelare l’equivocità della pretesa convergenza intellettuale. E avremo modo di documentare, nel Manzoni, dissensi con  mons. Tosi. di carattere teologico, pel giudizio su libri ed uomini. Ripetiamo quello che abbiamo letto: Manzoni aveva ricavato e mantenuto, dal contatto col giansenismo attraverso il Degola, più amici che idee.

Da aggiungersi alle tre scritture tratte dalle Osservazioni sulla morale cattolica o dagli appunti per la progettata seconda parte, il cui giudizio abbiamo lasciato in sospeso, la frequenza della chiesa giansenistica di Saint Sévérin da parte dei Manzoni, quando erano a Parigi: che essa denunci una vicinanza almeno generica non si può negare. Ancora nel 1820 essi assistevano la Messa presso il parroco don Balliet, il quale ne fu scacciatio dall’arcivescovo di Parigi qualche mese dopo, perchè incorreggibilmente giansenista.

E anche il giudizio su alcuni comportamenti di personaggi nel romanzo può ben essere in sintonia collo spirito rigorista e scrupoloso, proprio della morale giansenistica, ma solo “in sintonia”, non di derivazione. Difatti, il mezzo rimprovero fatto al “servo” che orecchia fuori della sala ove padre Cristoforo e don Rodrigo stanno scontrandosi, è avanzato dal Manzoni, in base alle “regole comuni e men contraddette”della coscienza morale comune. Anzichè alla dottrina giansenistica, lo scrupolo del Manzoni risaliva alla opinione vulgata, ma non ragionata, di una società in cui il rapporto padroni-servitù era intricato e offriva facilmente adito a comportamenti di quel genere,  abitualmente colpevole, ma ben scusato in circostanze come quelle del capitolo sesto dei “Promessi”.[50] Anche la problematica avanazata in “Fermo e Lucia”, circa il dovere di Ferrer di sottoporre a processo Melzi d’Eril (il vicario di provvisione), derivante dal solo fatto dei disordini di san Martino a Milano, nel 1628; o almeno nascente dalla promessa fatta al popolo di sottoporvelo, noi propendiamo ad attribuirla piuttosto alla coscienza scrupolosa, facile in un temperamento nervoso quale era quello di Manzoni, che non ad un indottrinamento giansenista, che non sarebbe mai giunto ad immaginare una situazione del genere, nella casistica morale proposta e risolta secondo princìpi rigoristi. Ed anche la riluttanza di Lucia a partecipare al matrimonio di sorpresa ha in sè tante motivazioni verosimili, da sconcertare la coscienza di qualsiasi ragazza pulita ma inesperta, sicchè non necessita proprio di una mentalità rigorista per sentirsene sconcertata ed esigere il consigliodi padre Cristoforo per tranquillizzarsene. Era una condotta normalmente illecita e proibita ma, di nuovo, solo “funzionalmente”, cioè in vista degli abusi gravi che ne potevano derivare, non nel caso di  riuscire a sfuggire agli abusi od inadempienze altrui (di don Abbondio) nei confronti di fidanzati regolarmente abilitati alle nozze. Quanto agli scrupoli di Lucia per le bugie da dire alla portinaia del convento, ove era ospite della “signora” in Monza, onde andare liberamente a portare il presunto messaggio al superiore dei cappuccini, qui direi che la mentalità rigorista era tanto nei giansenisti che nei cattolici. Innocenzo XI, infatti, condanna anche questa opinione del gesuita Tommaso Sanchez: “E’causa giusta per usare frasi ambigue, così che la occoltamento della verità sia ritenuta utile e zelante (expediens et studiosa), tutte le volte che ciò torni utile alla salvezza del corpo, dell’onore, delle sostanze familiario o per qualunque altro atto virtuoso”. [51] In realtà tra le 65 proposizioni condannate, alcune sono semplicemente probabiliste, mentre il papa era tendenzialmente un “tuziorista o rigorista”: ma non è in base alle dottrine di morale che si definisce il giansenismo nè, quindi, farebbe necessariamente giansenismo la severità fino allo scrupolo della morale del Manzoni (e di Innocenzo XI).

Ci rimangono le risposte del Manzoni circa la sua conversione: possono, bensì, essere dettate dal “loglio” della eresia giansenistica, ma possono essere altrettanto puro frumento cattolico. Che la grazia di Dio sia all’origine di una (ri)conversione dall’ateismo alla fede cristiana, è certo opera di Dio provvidente, almeno a due titoli: di Dio come creatore e, perciò, autore ultimo di ogni nostro bene; di Dio come redentore, in quanto, anche a prescindere dalla colpa originale, è Suo dono gratuito il pervenire alla fede non genericamente religiosa, ma specificamente cattolica. D’altronde, abbiamo visto che molto verosimilmente la persuasione di fede del Manzoni nasce da motivi etici: la spontaneità innata della coscienza morale e la razionalità totale della morale cattolica. Rimane da spiegare perchè Manzoni rifuggisse dal riferire tali motivazioni persino alla figlia. Era forse perchè gli pareva che una tale via per giungere a Dio fosse tanto persuasiva per lui quanto difficile da far condividere a chi non la intuisse da sè? E’ un segreto che si è portato nella tomba.

Il che spiace tanto maggiormente, in quanto “Il Manzoni stesso, d’altronde, dichiarava che l’evidenza della verità religiosa cattolica era nel suo intelletto così grande, che gli pareva quasi di perdere il merito della fede” [52].

 

Gli indizi e le prove contro il giansenismo.

Anzitutto sta la lettera di risposta a padre Antonio  Cesari che, con tutta amorevolezza e riconoscendo una certa indiscrezione nella propria iniziativa, lo accusava di giansenismo come di cosa certa (“Io so oggimai certamente,... Lei essere di buona fede legata alle moderne opinioni, contro le quali Pio VII pubblicò la Bolla sua Auctorem fidei; cioè all’opinioni di Quesnel e de’ suoi partigiani...”), ammonendolo, per dovere di cristiana carità, a staccarsene. Dopo aver riconosciuto la propria inadeguatezza a discutere la dottrina con ragione filosofico-teologiche[53], adduce, a tal fine, una sola ragione: nessun santo ha mai aderito alle proposizioni giansenistiche; tutti i santi sono stati fedeli alla teologia cattolica.[54]  La risposta del Manzoni, si attiene alla proposta del Cesari, ma è davvero completa.[55] Riportiamo i tre brani fondamentali della non breve lettera, nella cui apertura Manzoni ringrazia anzitutto il religioso per la carità squisita espressa con la sua preoccupazione; e poi dichiara di aver la coscienza che, per corrispondere a tale carità egli doveva, prima di prendere scrivere, “ponderar bene le parole che essa Le ha dettate ed esaminar  se stesso, per vedere quanto esse potessero  convenire al  suo stato, e  dargli avviso e lume a mutar ciò che ne’ suoi sentimenti avesse bisogno d’esser mutato”: “Le è stato detto ch’io son legato alle opinioni del Quesnel e de’ suoi partigani. Se per rispondere a codesto, io mi stendessi prima a dimostrare in genere, che non mi lego ad opinioni ch’io non abbia bene o male esaminate, o almeno riconosciute, mi parrebbe di far cosa soverchia: Le dirò dunque, venendo alla specie addirittura, ch’io non ho   letto mai, nè il famoso libro del Quesnel, al quale suppongo ch’Ella voglia alludere, nè alcun altro suo scritto in difesa di quello, nè alcun altro chicchessia, composto a tale intento. Ella vede da ciò quanto stranamente Le sia stata posta la questione sul conto mio: e crederei qui pure far cosa sosverchia, se prendessi a dimostrare che non sono, nè posso esser legato ad opinioni di cui non conosco le formole, non che gli argomenti.... E Le confesso egualmente che non capisco come Ella possa dubitare s’io riconosca nel Sommo Pontefice la qualità di vero Capo della Chiesa, la instituzione divina, l’autorità e la potestà in tuttte le Chiese particolari, tutto ciò insomma che la Chiesa, da Pietro fino ad ora, e da ora fino alla consumazione de’ secoli, riconosce nei successori di Pietro. Che vi sia nella Chiesa diverse opinioni sull’applicazione di queste, come d’altre verità, è cosa tanto nota, che bisogna saperla, anche chi non si occupi di tali opinioni....: dei Santi ne hanno disputato fra loro. Se ne è disputato ne’ Concili, senza che sempre, nè sur ogni punto, intervenisse deffinizione; Dottori, Santi, Papi hanno dichiarato potersi su tale e su tal altro punto tenere opinione diverse.... qui c’è il mezzo di non errare in ciò che è necessario sapere: credere cioè in quello che la Chiesa insegna; qui so che ho ragione di soscrivere in bianco, qui credo a chi ha un carattere unico di certezza nel conoscere e di veracità nell’insegnare, una promessa d’infallibilità data da Chi è solo infallibile per Sè. Colla Chiesa dunque sono e voglio essere, in questo come in ogni altro oggetto di Fede; colla Chiesa voglio sentire, esplicitamente, dove conosco le sue decisioni; implicitamente, dove non le conosco; sono e voglio essere colla Chiesa, fin dove lo so, fin dove veggo, e oltre.”

Una prova grandiosa della adesione del Manzoni all’insegnamento della Chiesa fu la rinuncia a scrivere la seconda parte delle Osservazioni sulla morale cattolca: come dice Amerio nel paragrafo intitolato “Seconda ragione dell’abbandono” (Introduzione alla sua edizione commentata dell’opera, vol. I, pp. XXVIII-XXXI: “L’abbandono della Seconda parte copre... una delle situazioni più spinose delllcoscienza cattolica del Manzoni. Da una parte 1) egli reputava conforme al dovere del cattolico avente responsabilità intellettuali intraprendere l’esame dello spirito del secolo, 2) aveva stabilito un sistema di regole per condurre tale esame; 3) pur non avendo applicato quel sistema, era persuaso che lo spirito del secolo non fosse semplice, ma composito, e contenesse idee utili e vere, avendo la loro origine e la loro sede logica nella religione. Dall’altra parte però egli vedeva il corpo gerarchico della Chiesa incerto sull’opportunità di quell’esame; lo scorgeva spesso incline a rifiutare lo spirito del secolo in monte, rigettando insieme col falso il vero mescolato ad esso; ravvisava in questo atteggiamento del clero un’applicazione mal fatta della regola di prescrizione–che è di poca importanza nei privati che tacciono, non in coloro che possono influire sulle idee o sulla manifestazione delle idee- Tra le sue persuasioni in questo punto e l’atteggiamento del corpo gerarchico, che per oracolo di Pio IX doveva poi insegnare non potersi la religione riconoscere nello spirito del secolo il Manzoni avvertì un dissidio. Sebbene dal timore di offendere la religione, introducendola nei suoi lavori, lo rassicurasse la coscienza intima non pure del suo rispetto per essa, ma dell’unica fiducia che egli riponeva in essa e nella Chiesa che l’insegna, egli dovette riguardare come inopportuna ormai la pubblicazione di quel saggio. Benchè infatti il concetto che l’informava persistesse nella sua mente e molto avanzasse nell’opinione del mondo cattolico, lo scritto andava a ritroso del moto che il corpo docente della Chiesa sembrava dare alle cose”. [56]

In secondo luogo sta il fatto che Manzoni, pur scrivendo ancora nella edizione 1855 delle “Osservazioni” le frasi da noi ritenute sospette di giansenismo, non fu mai condannato nè l’opera fu posta all’Indice dei libri proibiti. Pretendere di ascriverlo ai giansenisti è voler essere più cattolico del papa...

Ancora: se il Giansenismo è vicino al Calvinismo, e nella forma delle proposizioni condannate non si può negarlo, allora possono servire a farci capire quanto ne fosse lontano il Manzoni, le osservazioni che egli scrisse al Rosmini sulla lettura delle opere del riformatore di Ginevra: “Ho dovunto fare una gran conoscenza  principalmente con Calvino, il quale m’è parso bensì quel sofista, ma non quel sofista così sottile che si dice comunemente. I suoi errori, almeno quelli che ho dovuto esaminare  più di proposito, non mi paion distanti dall’assurdo manifesto, che per l’intermezzo di leggieri equivoci e cavillazioni” (lettera del 18 Febbraio 1854).

Aggiungiamo: il giansenismo al tempo del Degola e del Tosi doveva ben essersi attenuato, se il “decalogo” consegnato ad Enrichetta prima che partissero per Brusglio il 2 giugno 1810, conteneva anche questi due raccomandazioni: “Je vous recommande la Communion fréquente, comme le moyen le plus propre à se soutenir et à avancer dans la pratique de la vertu. Je vous recommande aussi la dévotionm aux coeurs de Jésus et de Marie dont je vous offre les images”.[57] Ora, la comunione frequente era stata introdotta nella Chiesa proprio in opposizione all’eccesso di timore presente nel giansenismo, che teneva lontani i cristiani dall’accostarsi all’Eucaristia; e la devozione al sacro Cuore di Gesù (con la pratica della comunione ad ogni primo venerdì del mese) era stata introdotta in seguito alle apparizioni a santa Margherita Maria Alacoque (27 dicembre 1673), proprio perchè l’amore e la confidenza superassero il rigore e le paure gianseniste.  La sapienza della fede cattolica aveva dunque contagiato anche i maestri giansenisti, che sempre avevano preteso di essere cattolici e vivevano in un ambiente prevalentemente cattolico. E’ così che Enrichetta si comunicava ogni quindici giorni (R. Amerio, Brusuglio, cit. p. 58), frequenza notevole per i tempi. Difatti a Saint-Séverin ci si comunicava solo alle grandi festività e non comparivano alla Messa ed ai Vespri della festa del Sacro Cuore (non è mai stata di precetto, ma era la festa istituita dopo le apparizioni a S. M. M. Alacoque).[58] Ripetiamo, il Giansenismo aveva annacquato molti atteggiamenti pratici, che finivano, però, per indebolire le stesse premesse teoretiche.

Su questa linea, sta un fatto che sconcerta lo stesso Ruffini, costretto a citarlo come inspiegabile.[59] Nel 1830 il Manzoni inviava in omaggio a mons. Tosi il volume di Olimpio Philippe Gerbet “Considérations sur le Dogme générateur de la piété chrétienne”, una copia della cui seconda edizione lo scrittore omaggerà, con dedica del 23 aprile 1836, a Federico Confalonieri (in attesa, a Gradisca d’Isonzo, di partire esule per  l’America, dopo undici anni di  prigionia allo Spielberg). Il Tosi aveva manifestato scontento per quel libro insistentemene e fortemente antigiansenista, esplicitamente polemico contro la mentalità rigorista e terrificante del giansenismo.[60]

Si è detto più volte che Manzoni fu amico di molti giansenisti, ma non giansenista. Una prova è questa: egli cita libri di giansenisti come fonti del suo pensiero, ma non quelli condannati all’Indice, bensì solo quelli ammessi liberamente come conformi alla fede cattolica. Casi notevoli sono nella nota Al lettore, premessa alla prima edizione delle “Osservazioni”, dove accanto ai cattolici Massillon (Jean Baptiste: 1663-1742, grande oratore sacro, di grande spessore intellettuale e poetico), al Bourdalou (Louis, gesuita,di cui si deve fare lo stesso elogio: 1632-1704) ed al Bossuet (Jacques- Bénigne, vescovo di Meaux e oratore, apologista e filosofo della storia: 1627-1704), si cita bensì anche il giansenista Biagio Pascal, ma solo per  i Pensieri, non per le Lettere provinciali (queste, “indicizzate”); e si cita Pierre Nicole, di cui nessun libro era condannato.

Nel c. 24 de I Promessi Sposi, Manzoni fa parlare il troppo candido sarto sul salvamento insperato di Lucia e la conversione dell’Innominato: egli non esita a definire tutta la vicenda un miracolo. Ma lo scrittore commenta scettico: “Nè si creda  che fosse  lui solo a qualificare così quell’avvenimento perchè aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ne rimase memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attccarono, non gli poteva convenire altro nome”. Se si pensa che i giansenisti consideravano un miracolo in senso stretto una conversione, qui Manzoni, col suo dissentire, si chiama fuori da tale mentalità e terminologia, cioè da uno dei cardini dell’eresia, per cui l’opera di conversione è tutta e solo opera di Dio, essendo l’uomo escluso da ogni capacità di cooperazione con la grazia Sua.

Vi è ancora una lettera a Marco Coen, il figlio del banchiere israelita di Venezia, che Manzoni aveva incoraggiato nell’accettare la volontà paterna della carriera nel commercio, nonostante le sue velleità di letterato (lettera del 2 giugno 1832). A dieci anni di distanza, Marco desidera farsi cattolico e chiede consiglio al Manzoni. Il nucleo della risposta è questo: “Il Dio de’ suoi padri Le ha concesso il dono ineffabile di conoscere il senso e l’adempimento della promessa fatta a loro: Lei sente il dovere di corrispondere a un tal dono; vede benissimo che le difficoltà, le quali potrebbero in qualunque caso esser preponderanti, in questo non son nulla: non Le mancherà che la risoluzione. Questa, Uno solo la può dare; e la dà infallibilmente a chi desidera e prega; e insiema fa dal canto suo quello che può. Veda adunque (Le parlo con quella libertà che m’è non solo concessa, ma imposta dalla sua confidenza), veda di non continuare a combattere, quando il Signore Le abbia già dati aiuti sufficienti per vincere.Quelli che Le potrebbero ancora essere necessarii, son forse preparati in ricompensa al primo sforzo generoso che Lei sia per fare...”. I sottintesi di questo modo di parlare sembrano tanto ovviamente cattolici, quanto ovviamente antigiansenisti: si parla del primato della Grazia preveniente di Dio, ma anche della cooperazione ad essa da parte dell’uomo (“e fa quello dal canto suo che può”); di aiuti sufficienti che possono divenire efficaci solo con la risposta, la collaborazione umana, che merita ricompensa  (“Quelli che Le potrebbero ancora essere necessarii...”). Questa testimonianza e la seguente (sulla chiamata di tutti gli uomini alla salvezza) possono darci la chiave per intendere cattolicamente anche le tre frasi lasciate in sospeso  nell’esame critico degli indizi sul giansenismo manzoniano: “l’uomo è corrotto e inclinato al male e tutto ciò che ha egli di bene in sè è un dono di Dio” e “non possiamo fare alcun bene senza la Sua Grazia”.

Un altro errore giansenista, fondamentale, è quella della predestinazione alla salvezza non estesa a tutti gli uomini (i punti a), d) ed  e) condannati da Innocenzo X nel 1653). Manzoni vi contrasta numerose volte, esplicitamente esponendo la dottrina cattolica sulla volontà divina di salvare tutti gli uomini.  Nell’inno sacro La Passione: “Egli è il Giusto; e di tutti il delitto| il Signor sul Suo capo versò” (vv. 27-8); nella Pentecoste: “ Perchè, baciando i pargoli,|la schiava ancor sospira?| E il sen che nutre i liberi| invidiando mira?| Non sa ch’al Regno i miseri| seco il Signor solleva?| che a tutti i figli d’Eva| in Suo dolor pensò?” (vv.65-82); nel Marzo 1821: “Quei ch’è Padre di tutte le genti” (v. 69).[61]

 Tra gli amici che han toccato la questione, il Tommaseo afferma che “in gioventù lo dicevano giansenista”, ma sono echi di testimonianze altrui, chè il Tommaseo entrò nella cerchia del Manzoni solo nel 1821, quando lo scrittore aveva 36 anni, ormai. Il figliastro Stefano Stampa, nega tale appartenenza. Il Bonghi, nelle Stresiane, riporta un colloquio a quattro, fra Rosmini, Manzoni, Gustavo Cavour e lo stesso Ruggero Bonghi, da cui non esce una visione definitiva sul problema della predestinazione, centrale per capire l’eventuale appartenenza al giansenismo o meno. Il Ruffini, che ne riproduce i brani salienti, si permette di togliere un punto di domanda ad un intervento del Manzoni, il che lo renderebbero aggregato alla prospettiva giansenista di tale mistero, mentre egli voleva solo domandarsi se il passo di san Paolo di Romani, 8, 29 facesse al caso in discussione (“Quos praedestinavit?” riferisce Bonghi; “Quos praedestinavit” trascrive il Ruffini, dando, in nota a p. 367, vol. II dell’opera citata, una giustificazione arbitraria alla soppressione del punto interrogativo).

Da questi dati di fatto vengono rafforzate  le posizioni dottrinali raggiunte dal Manzoni, che sono incompatibili con  le parallele dottrine giansenistiche. Del rifiuto dei giansenisti ad accettare la infallibilità del papa, difesa invece dal Manzoni, si è già detto: l’Amerio ne parla alle pagine 354-7 del terzo volume, nella edizione solita delle “Osservazioni” manzoniane. Ma il punto forse più scottante è quello che riguarda la acquisizione della fede. L’opera “Augustinus” del vescovo Cornelis Jansen (1585-1638) “nel liber proemialis del secondo tomo.... insegna che l’intelletto è la facoltà filosofica e la memoria la facoltà teologica dell’uomo, poichè la fede non è in ciascun credente che reminiscenza di una rivelazione preterita, un atto di memoria soprannaturale...”[62] Ma “se il Giansenismo proscrive l’esercizio della ragione nelle cose di fede, come proveniente dal peccato e conducente all’errore, il M(anzoni) rigetta al contrario la proscrizione della ragione e impugna la sentenza, comune agli increduli e ad alcuni pensatori cattolici,che i lumi conducano alla incredulità: -questa proposizione –dice- ove sia presa nel senso stretto,viene a negare la fede-”. Questa nasce dalla “efficacia inerente alla cosa assentita e comunicata alla persona che assente”: con le parole proprie di Manzoni, la fede nasce dalla “necessità della cosa stessa” che impone “gli argomenti, veri, razionali, immediati”.[63]

Di qui il carattere “logico” e non teologico (come in qualche giansenista) della “intolleranza teoretica” circa i contenuti della fede. “L’intolleranza del M. non si deve dunque chiamare intolleranza teologica, come fa il Ruffini, nè assomiglia all’intolleranza teologica dei Giansenisti, sostenuta per es. nel De tolerantia ecclesiastica et civili del tamburiniano  Tautmansdorf. Essa è invece un’intolleranza logica. L’esclusività non vi è dedotta, come in questi altri, direttamente dalla condizione dell’intelletto umano che la riceve: non sta al livello teologico, ma al livello logico, radicata in quel fundamentum primoprimum su cui poggia ogni discorso dell’uomo, tanto sui soggetti logici, quanto sui soggetti di fede, in tutto il ventaglio di idee”.[64]

Seppur imperfetta, tuttavia sopravvive nell’uomo indebolito dalla colpa originale non solo una capacità nei confronti dell’acquisto della fede, ma altresì nell’accertamento dei comandi morali: “Il M. riprova espressamente la dottrina giansenistica che fa dipendere dalla grazia ogni lume morale...e perciò asserisce alla religione non già un dominio esclusivo sulla morale, giusta l’accusa del Sismondi, sibbene un dominio totale, che su una parte si esercita in condominio con la ragione, ma oltre a ciò abbraccia la totalità del sistema. E siccome la cognizione di ciascun vero è perfetta nella cognizione di tutti i veri, così la religione certifica, consolida e assicura all’uomo, nell’atto in cui gliela amplia, la cognizione stessa della naturale moralità. Separata dalla teologia, la morale è vera insieme e imperfetta. E’ vera, perchè coi soli elementi somministrati dalla ragione è possibile formare una scienza incompiuta, ma immune da errori. E’ imperfetta, perchè le sue nozioni non pareggiano nè potrebbero pareggiare l’idea del bene morale, come è contenuto in una sapienza intera, la quale annuncia una ragione assoluta, una regola fermissima e una sanzione prevalente dell’attività deontologica”. Ogni morale puramente filosofica ignora parzialmente, sia la vera estensione dei doveri, sia l’origine della repugnanza che l’uomo prova nell’osservarli, sia gli aiuti necessari per adempierli interamente...”[65]

        Abbiamo fornito tutti i dati a nostra conoscenza: il lettore concluda da sè. A noi non pare che il Manzoni possa essere accusato di giansenismo; è vero, piuttosto, che egli seguiva la scuola teologica detta “tomista o bagneziana” nella problematica sul rapporto fra Grazia di Dio e cooperazione umana, in rapporto alla vita morale ed alla salvezza eterna. Ma la preferenza per tale interpretazione (sostenuta dai Domenicani) piuttosto che per quella difesa dalla scuola “molinista” (più gradita ai gesuiti) è stata dichiarata legittima dal documento “De libertate docendi in quaestione  “De Auxiliis”, di papa Paolo V, nel 1607.[66]

 

 

        Punti di distacco del Manzoni dalla dottrrina cattolica

 

Li abbiamo già elencati e ne tratteremo brevemente.

Per il tradizionalismo rimandiamo al prossimo paragrafo, sulla dottrina della conoscenza, dove si troverà più a proposito.

Per il Manzoni “non è detto nè nei Vangeli nè nelle costituzioni apostoliche, nè nella storia ecclesiastica di tanti secoli nè manco da que’ che combattono per la Corte in onor della Sede, che il Vescovo di Roma abbia ad essere il Papa, o che il Papa abbia ad essere Vescovo di Roma”. [67] Tale idea fu condannata da Pio IX nel Sillabo del 1864 (Denz. Schoenmetzer, n. 2935). Questo errore dovette discendere da un concetto della Chiesa troppo spiritualizzato, per cui il prescindere da tempi e luoghi le si addicesse di più. O dipendeva, fors’anche, dal giudizio estremamente negativo sul paganesimo, particolarmente romano, la cui corruzione potè rendere agli occhi di Manzoni meno degna la città di Roma quale sede dell’autorità suprema della Chiesa. Per questo giudizio radicalmente negativo di Manzoni sulla romanità pagana, si veda il terzo volume di Romano Amerio, pp. 346- 54, ove viene delineata anche la parte di errore del Manzoni in proposito: egli non riuscì a vedere nel paganesimo quella evoluzione culturale, che finì per predisporre gli animi alla verità cristiana, ciò che, invece, anche Dante, nonchè molti padri della Chiesa seppero intuire (c. V: La politica; § 27: Difetto di veduta storica nel M.).

Il Manzoni fu un cattolico liberale. Egli ebbe contatti e scambi epistolari con Cavour; Garibaldi lo venne a trovare  in via del Morone nel marzo 1862; col Verdi ci fu uno scambio di fotografie prima di incontrarsi il 30 giugno 1868 (egli scriverà la Messa da requiem per il primo anniversario della morte, nel 874); da Vittorio Emanuele II ebbe il titolo di senatore (29 febbraio 1860) e il gran cordone di san Maurizio (con 12.000 lire di pensione annua). Si recò a Torino per il giuramento di fedeltà allo Stato (giugno 1861) e per proclamare Vittorio Emanuele re d’Italia (febbraio 1862). Dall’Amerio ricaviamo i tre princìpi fondamentali condivisi da tutti i cattolici liberali: “1) che le società moderne  richiedessero libertà più ampie che le antiche; 2)che la libertà dei culti ormai instaurata (per il raffreddamento della fede, per la mitigata ostilità tra le confessioni, per la mutazione avvenuta negli ordini politici) fosse moralmente impossibile a revocare; 3) che la separazione tra la Chiesa e lo stato costituisse  un modo nuovo di esistere della Chiesa, che non ripugna alla natura della Chiesa e porta seco i suoi vantaggi”.[68] Le ragioni che inducono il Manzoni ad accettare una simile forma di liberalismo sono, però, ben diverse da quelle che tentano di fondare (o, comunque, caratterizzano) il liberalismo classico, filosoficamente illuminista od hegeliano: “Ma se si ricerca di questo liberalismo del M. la radice dottrinale, non la si troverà nel principio di indipendenza della ragione umana o, che è il medesimo, nel diritto rivendicato all’uomo di darsi in modo autonomo il proprio valore mediante l’elezione dei fini, col solo riguardo e limite dell’altrui diritto, ma nel principio eminentemente religioso della signoria assoluta di Dio, cui corrisponde un assoluto servizio dal canto dell’uomo, ma anche, e proprio in forza di quell’assoluto servizio, un’assoluta esenzione dell’uomo da ogni non divino servizio. La libertà celebrata dal M. è la libertà di una natura soggetta a Dio, ma soltanto a Dio, la quale si conforma a ragioni di valore già esistenti. La libertà celebrata dal liberalismo eterodosso è invece la libertà di una natura che produce da sè ragioni di valore, colloca nel diveniente spirito umano, cioè nella storia (e non nell’ordine divino), il principio dell’obbligazione e ravvisa nell’opinione soggettiva (e non nel vero indipendente) il principio della certezza.”[69]

Due i corollari politici che il magistero della Chiesa non accettò. Anzitutto “egli tenne la sentenza per la quale tenevano i cattolici liberali e che Pio IX proscrisse come errore nell’appendice della celebre enciclica “Quanta cura”, che cioè la compatibilità tra il regno temporale e quello spirituale è una materia disputata tra i cattolici, e che l’abrogazione del principato civile del Romano pontefice immensamente avrebbe giovato alla libertà e prosperità della Chiesa”.[70] Si noti che non univoco fu il giudizio del Manzoni sul modo concreto con cui si realizzò la soppressione del potere temporale (l’uso della forza, in pratica). Dice bene l’Amerio: “Ora distacchiamo le posizioni dottrinali dalle varie contingenti opinioni che il M. potè formulare sul maturare dell’evento nello sviluppo della nazione italiana e nel conflitto delle nazioni (e consumato il fatto egli ne parlò una volta come di un latrocinio)”.[71]

Vedremo che il Manzoni ritirò la adesione alla dottrina del “Tradizionalismo”; per il resto,  si tratta di opinioni non contrarie a definizioni dogmatiche;  valutate bensì negativamente in documenti come il Sillabo, che è però tra i più spinosi e difficili da interpretare nella estensione e definitezza delle sue condanne; si rivelarono  in parte rivelatesi vincenti[72]. E, in ogni caso, furono nel Manzoni  frutto di ingenuità e disinformazione, non certo di malvolere o spirito di ribellione. Lo si può dedurre sia dalla riportata lettera a padre Cesari, sia da questa alla Diodata Roero di Saluzzo, che citeremo come conclusione.

  

Conclusione. Che Manzoni, uscito dalla scuola del Degola, sia rimasto impregnato di qualche motivo giansenista,  lo testimoniano correzioni intervenute fra la prima edizione (1819 ) delle “Osservazioni” e la defintiva del 1855. Ad esempio il c. III (Sulla distinzione di filosofia morale e di teolgia), anche per l’influsso del Rosmini, muta radicalmente la parte che nella scoperta della legge morale resta affidata alla ragione umana, al di fuori della rivelazione divina. Riportiamo le parole di Amerio, che dedica ben nove pagine al capitolo ed alle sue vicende nel passaggio dalla prima alla edizione definitiva.[73] “Ora questo soverchio ribasso della ragion naturale appare corretto in E|2... Prima il Manzoni metteva nell’uomo niente più che l’attitudine a ricevere la legge e gli riconosceva –delle idee intorno al giusto ed all’ingiusto-, qualunque esse siano, ma non già l’idea del giusto e dell’ingiusto: il principio della moralità viene solamente dalla legge divina, e questa è necessaria, e questa è la sola. Ora al contrario (certo per l’influsso della dottrina rosminiana, ma senza adozione di punti specifici di essa) egli mette nell’uomo elementi di cognizione con cui gli è possibile formare una scienza morale –immune da errori-. Tale capacità non l’ha la ragione naturale solo in quanto sia congiunta colla religione.., ma proprio in quanto si riferisce da se stessa a un lume (che è già più che soggettivo), il quale le rischiara il giusto e l’ingiusto. Perciò, come dice espresso nella nota tutta nuova al § 94 e che non avrebbe potuto scrivere anteriormente a tale sviluppo, -la Chiesa non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale: ha anzi riprovato quest’opinione più di una volta-”.[74]

Eppure, egli non doveva sapere che la precedente posizione fosse giansenista: la nostra ipotesi è non solo possibile, ma verosimile, se si pensa che egli, tutto sommato, non ha seguito un corso teologico sistematico, ma è rimasto un dilettante di genio, che man mano si è sintonizzato al meglio sulla dottrina della Chiesa (e il Rosmini fu il rifinitore di tale aggiustamento), mentre apportava motivazioni nuove alle verità di fede, motivazioni cui i teologi di professione non arrivavano.

E la ipotesi dovrebbe diventare certezza, alla luce della riportata lettera al padre Cesari.

Per questo consideriamo (per conto nostro) chiusa la questione in favore della buona fede del Manzoni, che se fu liberalcattolico per convinzione, fu giansenista solo per ignoranza e disinformazione.

Concludiamo, perciò, questo studio sulla religione del Manzoni, riportando parte della lettera dell’undici gennaio 1828 a Diodata Saluzzo Roéro (la quale gli aveva trasmesso, probabilmente, copia della missiva dell’abate Félicité de Lamennais, in cui, letta l’edizione ventisettana dei Promessi sposi, egli giudicava  il Manzoni superiore allo Scott, pur prevedendo una minor diffusione del romanzo, per il fatto della radicale religiosità, specificamente cattolica, del Manzoni. E’ questo elogio che lo sgomenta tanto : “... vi è in quell’articolo una lode magnifica, che mi confonde e mi spaventa, il est religieux, et catholique jusqu’au fond de l’ame. Egli è vero che l’evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto dove è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento dee trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro perciocchè, scrivendo, si vorrebbe esser forti e una tal forza non si trova che nella propria persuasione. Ma l’espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un’idea pur troppo falsa, l’idea di una fede custodita sempre con amore, e in cui l’aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre invece questa fede io l’ho altre volte ripudiata e contraddetta col pensiero, coi discorsi, colla condotta; e dappoichè, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non sentirla mai così vivamente, come quando si tratta di cavarne delle frasi, ma almeno non ho il proposito d’ingannare: e col dubbio d’aver potuto anche involontariamente dar di me un concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano di essere un ipocrita, e un timore mondano di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio. Dal timore d’offendere (almeno colpevolmente) la religione, introducendola ne’ miei poveri lavori, mi rassicura la coscienza intima, non dico del mio rispetto per essa, ma dell’unica fiducia che ripongo in essa, e nella Chiesa che l’insegna. Ma in ogni testimonianza che appunto mi si renda di ciò, sento, insieme colla lode, un rimprovero, e in un colla voce benevola mi par d’intenderne una severa che mi dica: A che tu vai ragionando delle mie giustizie?”[75] E si veda anche quanto egli afferma nella prefazione “Al lettore” delle Osservazioni sulla morale cattolica, ai numeri 19-22 della edizione 1855, pp.11-14, nel vol. II dell’edizione curata da Amerio per Ricciardi.[76]

 

        III) DOTTRINA DELLA CONOSCENZA (GNOSEOLOGIA)

 

Pars destruens: Critica di Condillac, Kant e Cartesio.

Si tratta, anzitutto, di spiegare la nascita delle idee, il passaggio dalle sensazioni al pensiero. La critica del Manzoni intacca il sensismo di Condillac, con un cumulo di argomenti, tutti interessantissimi: “Ma l’errore principale del sensismo rimane per il M. il misconoscere che ogni giudizio, che si porti sopra il particolare, suppone e impiega qualche universale. Nel giudizio più ovvio e indeterminato, come quello con cui si pronunzia l’esistenza di qualche cosa, il concepimento stesso di queste due parole “esistenza particolare” importa l’applicazione dell’idea generale di esistenza a qualche cosa di particolare. E non si sfugge a una tale necessità dicendo che occorre aver avuto il particolare per avere l’universale, giacchè avere nel pensiero significa conoscere e non si può conoscere il concreto, senza conoscere l’universale”. “E’ la storia della statua di Condillac: un immaginato inconcepibile, cioè uno spirito avente facoltà di un solo genere di sensazioni, che vien fatto svolgersi giusta i modi dell’uomo intero avente tutti i sensi e l’intelletto e la parola.....nel’atto stesso che crede sè esser odor di rosa, crede già oltre quel che sente, poichè per credere sè essere qualche cosa, bisogna distinguere la notizia di sè da ogni altra cosa, e cioè avere previamente la notizia di sè come altro dalla cosa, a meno di sostenere che la notizia di sè si identifichi con la notizia dell’altro e nasca da essa...”. [77]

Si tratta, in secondo luogo,, di spiegare l’universalità del pensiero, cioè il carattere delle conoscenze tipicamente umane, che risultano  (realtà) “predicabili di più”rispetto alle esperienze dei sensi.   A questo livello, il tentativo più nuovo rispetto alla tradizione aristotelica è stato condotto dal criticismo di Kant. Manzoni intuisce subito l’obiezione di fondo: “Se concludeste che i valori della vostra razionalità non hanno valore, come, con un ragionamento che non avrebbe più valore degli altri, riuscireste a sapere che gli altri non valgono?”[78]

Si tratta, in terzo lugo, di spiegare il ragionamento, il passaggio da una idea ad un’altra, come nel “cogito; ergo sum” di Renato Cartesio: “L’inizio, che il francese colloca nel cogito, suppone in realtà una logica intera, sicchè la deduzione che si esibisce come incondizionata e senza presupposti, ha in realtà il suo avvio in princìpi anteriori, che egli ha disavvertiti. Cartesio infatti trae dal suo pseudoprincipio “avec une distraction admirable” una, due, tre conseguenze, senza accorgersi ch’egli trae da altre verità, non espresse, le ragioni di quelle conseguenze. Il M. si sente fermato già alle prime parole di “verità” e “dubbio”, sfuggite al filosofo: -quoi? qu’est-ce? il y a des bonnes et des mauvaises conclusions? Voilà bien de nouveau: ou, pour mieux dire, voilà bien du vieux, qui n’a  que faire dans cette argumentation, justement par ce que c’est vieux et que tout le vieux en est exclu-....E l’obiezione che rovescia il sensismo è quella stessa che rovescia la filosofia del cogito e consiste nel rilevare l’anteriorità della Ragione (facoltà di pensare il vero) alla ragione (ragionamento singolo), la fallacia del dubbio come inizio assoluto, l’illusione del credersi dubitante, quando si è già affermato, quando si è già accettato una ragione, la ragione appunto del dubitare. E’ impossibile comunciare dall’esame, perchè -non si può esaminare una cosa, se non si crede prima a qualche altra- o, come dice con forza ancor più grande, -il filosofo che fa a se stesso questa prima domanda, crede già di sapere che c’è un sapere, e s’interroga sulla sua capacità di sapere, di aver cognizioni reali-”.[79]

 

Pars construens: il tradizionalismo professato, difeso, ripudiato.

Il Manzoni ritenne a lungo valido il ragionamento che “senza i segni, cioè (senza) la parola, l’uomo non poteva neppur concepire gli astratti; che tali segni egli non poteva darseli da se stesso, giacchè per inventarli occorrerebbero quelle astrazioni stesse che egli non può, senza i vocaboli, possedere; e che perciò Dio donò all’uomo il linguaggio”. In altre parole, il Manzoni riteneva con Louis-Gabriel-Ambroise visconte de Bonald (1754-1840)  che l’idea non si può avere senza la parola; ma la parola non si può formare senza avere prima la idea, sicchè solo un Maestro può aver insegnato ai primi uomini le parole, onde egli potesse formarsi le idee. Questa fuorvianza gnoseologica serviva ai tradizionalisti per dimonstrare, con un motivo in apparenza insuperabile, la esistenza di Dio e il primato della religione sopra ogni scienza, anche se di tale argomento il Manzoni non si servì mai a scopi apologetici. Ma l’argomento era specioso: l’uomo può avere un concetto chiarissimo e abituale, di cui al momento, per un motivo qualsiasi, ha dimenticato il termine proprio e va cercandolo, tormentato, nella memoria; viceversa, si può sentire una parola e pronunciarla, senza conoscerne il significato.[80]

Nel 1850, il Manzoni pubblicava nelle “Opere varie” il dialogo Dell’Invenzione che può essere  l’espressione suprema, ma anche ultima, della adesione del Manzoni alle dottrine vicine al tradizionalismo. Amerio, usando anche parole del Manzoni,  sintetizza così questa concezione “tutte le idee convengono in un’idea unica e la nostra mente  -vede come tante verità nella verità che è una-”.[81] Amerio, che giudica il dialogo piuttosto un trattato di metafisica che di gnoseologia (“Il suo problema infatti non è l’origine delle idee, ma la natura del pensiero, se cioè l’umano pensiero sia produttivo o rivelativo”) afferma che il significato primario dell’opera è questo: “negare che l’attività mentale sia produzione e che l’idea sia effetto di tale attività... La verità che il M. mira a stabilire è l’indipendenza del mondo delle idee rispetto all’operazione dell’intelletto dell’uomo”. Pure, lo stesso Amerio ammette che può essere considerata incerto il pensiero del Manzoni circa il modo di presenza delle idee nell’intelletto umano: “se cioè nel lume  di una forma innata o nel lume di una specie astratta”.[82]

Poco tempo dopo, nel 1852, Manzoni riprendeva in mano il “Saggio sull’intelletto umano” di John Locke (1693) per preparare la edizione definitiva delle “Osservazioni sulla morale cattolica” (1855). Ne segue l’abbandono di ogni forma di innatismo, delle opinioni. cioè, che le idee vengano a trovarsi nella mente umana prima del contatto con la realtà sensibile: non solo le idee immesse da Dio col linguaggio, secondo la gnoseologica teologica del tradizionalismo, ma anche  la loro visione  in Dio[83] o nell’idea dell’essere, presente nella mente umana al di fuori di ogni percezione precedente (rosminianesimo). Nella lunga nota dedicata al Locke nella edizione del 1855, Manzoni proclama anzitutto la già riportata protesta del primato della verità (“ciò che si deve cercare ne’ fatti è la verità...”); precisa, poi, che gli studi del Locke “significano che non c’è alcuna  nozione di morale[84], innata nella mente umana; e contribuiscono a provare che non c’è in essa, nozione innata di sorte veruna. E se il Locke si fosse ristretto a combattere la supposizione contraria, avrebbe reso un servizio, non definitivo, di certo, ma inportante, giacchè non ci sono errori innocui in filosofia e in morale specialmente”. Ma sostiene anche che la mente umana riesce  pur sempre a ricavare idee morali dalla esperienza sensibile, attraverso l’attività universalizzante della ragione: “La Chiesa non dice che la morale appartenga puramente (nel senso di esclusivamente) a lei; ma che appartiene a lei totalmente. Non ha mai preteso che, fuori del suo grembo, e senza il suo insegnamento, l’uomo non possa conoscere alcuna verità morale: ha anzi riprovata quest’opinione più di una volta, perchè è comparsa in più di una forma”.[85] Così, in questa discussione sul “Saggio sull’intelletto umano” del Locke, Manzoni si rivela, da una parte, tutt’altro che pedissequo e passivo seguace del Rosmini (di cui rifiuta qui la tesi più originale e contrastata); dall’altra accumula un’ulteriore prova di distacco dal giansenismo. Insomma, Manzoni pensava con la sua testa e, se le sue idee confluivano nelle tesi di questo o quell’autore o sistema di pensiero, era per pura coincidenza coll’esito delle sue ricerche e riflessioni, non per docilità di discepolo o  devozione al personaggio.

 

L’origine dell’errore

Prescindendo dalla limitatezza creaturale dell’uomo e dall’indebolimento della sua anima, in conseguenza della colpa originale, le cause immediate dell’errore sono per il Manzoni di carattere morale: l’interferenza delle passioni (della sfera emotivo-istintiva, diremmo oggi) sospende la ragione dal processo conoscitivo e induce la volontà ad affermazioni non approvate dalla intelligenza. E’ una concezione di tipo socratico, che Manzoni difenderà nella Storia della colonna infame che pubblicò al seguito dell’edizione 1840 del capolavoro:  se le leggi permettevano la tortura, era in forza dell’imputato il resistervi o almeno il ritrattare fuori della stessa, le menzogne dette per liberarsene; se i giudici avevano questo strumento barbarico per strappare confessioni al reo, dovevano però condannare solo dopo che egli avesse confermato fuori di essa le sue confessioni. Insomma e Giacomo Morra e i giudici suoi furono colpevoli nel processo; e la misera vicenda è più penosa per la rivelazione della debolezza umana che della disumanità delle leggi esistenti.[86] Amerio vi dedica i paragrafi 15-18 del capitolo secondo, a pp. 123-131 del suo III volume. Spigolando in queste pagine, troveremo che fra i princìpi immediati (che incarnano qualche passione –orgoglio, pigrizia-) dell’errore stanno l’abuso della parola (uso di parole imprecise: “trovare parole di senso indeterminato e largo, arrendevoli e cangianti”, come fa Montesquieu quando tra verità secondo religione e sua contradditoria introduce una maniera di pensare e di dire “umana”, in base alla quale la sua affermazione starebbe accanto al giudizio religioso, cui pure si oppone); la celerità dell’operare o, in altre parole, la fretta di concludere, che va contro il “pensarci su” sino in fondo: si vedano le parole che concludono il c. 31 de I promessi sposi); la sistematicità, intesa non come “la tendenza oggettiva delle idee a sistemarsi”, ma come l’atteggiamento   dell’uomo che “tiene al complesso delle sue opinioni  più che alla verità particolare di ciascuna di esse”. Mentre la sequela passiva della “moda” era una sorgente di errori (e di peccati) già denunciata dal Parini, che “Alla Moda” dedica il suo poemetto, invece l’acutezza del Manzoni risalta di nuovo nella denuncia di un’ulteriore causa di errore, “ L’uso del comico e della beffa”, dove l’uomo (sono parole di Amerio) “frivolizza i problemi dell’intelletto ed erige sopra il disprezzo della dottrina il vano compiacimento dell’amor proprio”, giacchè (sono parole di Manzoni): “nulla serve di più a far ridere gli uomini di una cosa, che il ricordar loro, che per altri uomini quella cosa è seria ed importante: poichè ad ognuno pare un segno evidente della propria superiorità l’essere divertito da ciò che occupa e domina le menti altrui”.[87]

A noi, questa unificazione dell’errore nella mancanza di volontà sufficiente, che ceda alle passioni, piuttosto che vederla anche (se non prima ancora) nella insufficienza intellettiva, che prende abbagli del tutto involontari (si pensi al sistema tolemaico tenuto dalla povera mente umana per millenni), sembra eccessiva. Se volessimo usare i criteri di giudizio del Manzoni, diremmo che ci sembra il frutto di una “sistematicità” fuori luogo: duplice è la radice degli umani errori, una puramente intellettiva ed una (anche e spesso principalmente) volitivo-passionale. Se il far risalire l’errore sempre ad una colpa è imputato a Socrate come errore, non vediamo perchè non lo debba essere anche per il Manzoni.

 

IV)       LA DOTTRINA MORALE

Le Osservazioni sulla morale cattolica offrono una panoramica di morale generale e qualche svolgimento di morale speciale (cioè su singole virtù o peccati) che sorprendono, se si pensa che    furono l’opera di un laico e che vennero stese in otto mesi o poco più, nella prima edizione del 1819. Manzoni, ad istanza di mons. Tosi, la iniziò nell’estate del 1818, appena uscito l’ultimo volume, il sedicesimo, dell’opera di Sismondo de’ Sismondi “Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo”, opera già posta all’Indice nel 1817, perchè già tutta inficiata dallo spirito del c. 127 (ed ultimo) del volume sedicesimo: essere stata la religione cattolica la causa della corruzione del popolo italiano. Le “Osservazioni” furono la risposta e confutazione di tale tesi nelle varie sue specificazioni, come erano avanzate nel capitolo citato.  A metà aprile del 1819 il manoscritto veniva consegnato al tipografo, che rese disponibile lo stampato per il luglio: il Manzoni interruppe altre opere, fra cui la tragedia Il conte di Carmagnola, per portare a termine le “Osservazioni”.

L’Amerio dedica il capitolo terzo, con ottantasette pagine (138-224), del suo “Studio delle dottrine”,  alla concezione della morale nel Manzoni, unendovi notazioni di Teodicea, in quanto, dopo la colpa originale la religione non rappresenta più solo il culmine o il frutto più ricco della vita morale, ma ne costituisce anche le radici, il principio e la condizione, per svolgersi nell’uomo fino alla perfezione della sua conoscenza e pratica. Noi, questa seconda dimensione, l’abbiamo già toccata trattando sia della questione giansenistica, sia della sorgente del conoscere (anche morale) nell’uomo. Riportiamo ancora e in forma più completa, alcune sentenze riassuntive dell’Amerio: “Il M. riprova espressamente la dottrina giansenistica che fa dipendere dalla grazia ogni lume morale (prop. 41-48 di Quesnel e 36-37 di Baio)[88], e perciò asserisce alla religione non già un dominio esclusivo sulla morale, giusta l’accusa del Sismondi, sibbene un dominio totale, che su una parte si esercita in condominio con la ragione, ma oltre a ciò abbraccia la totalità del sistema.... Separata dalla teologia, la morale è vera insieme e imperfetta. E’ vera, perchè coi soli elementi somministrati dalla ragione è possibile formare una scienza incompiuta, ma immune da errori. E’ imperfetta, perchè le sue nozioni non pareggiano nè potrebbero pareggiare l’idea del bene morale, come è contenuto in una sapienza intera, la quale annuncia una ragione assoluta, una regola fermissima e uan sanzione prevalente dell’attività deontologica. Ogni morale puramente filosofica ignora parzialmente, sia la vera estensione dei doveri, sia l’origine della repugnanza che l’uomo prova nell’osservarli, sia gli aiuti necessari per adempierli interamente.... Tutte le morali filosofiche patiscono due vizi innati e irrimediabili. Se esse esaltano la bellezza delle azioni, non possono assegnare loro un motivo proporzionato, e offendono la tendenza eudemonologica dell’uomo: l’elevazione e la squisitezza  morale delle azioni sono in esse tanto maggiori, quanto meno certo e sufficiente è il motivo capace di determinare l’uomo a volerle, sicchè il loro pregio viene a dipendere dal carattere gratuito[89] dell’elezione.... Se, al contrario, per evitare di dar precetti senza poter proporre motivi proporzionati, esse si limitano a prescrivere le azioni suscettibili di quella motivazione, lasciando fuori le altre, allora humi repunt[90] e offendono la tendenza etica dell’uomo, che non vuol rinunziare alla stima di quanto è bello senza essere utile temporalmente” (pp. 138-40).

Ecco qualcuna delle altre intuizioni acute, sorprendenti e convincenti del Manzoni. “L’idea di immortalità come principio dell’integrità morale” (p. 140). Per amore di completezza, riassumiamo   qui una parte di concetti già esposti.

Due grandi sottolineature. Anzitutto  il premio è dovuto al bene, fa parte della giustizia; l’agire per il premio eterno è consono alla morale, perchè semplicemente chiede che la giustizia sia giusta sino in fondo, cioè sino alla ricompensa per il giusto ed alla pena pel malvagio (“virtù e premio| delitto e castigo” sono esigenze insopprimibili, perchè i due termini sono l’uno il perfezionamento, il compimento dell’altro). Nessun egoismo fuori posto, (come accusa il sofisma kantiano) è nella tendenza spontanea di attendere un premio nell’Altra vita, perchè tale attesa non è che la volontà di giustizia, estesa anche a se stessi. In secondo luogo, la mirabile dimostrazione della esistenza del premio|castigo eterni, in base alla analisi psicologica più radicale della sua negazione: “La contraddizione[91] c’è bensì in quest’accusa medesima, poichè è fondata su due supposizioni opposte tra di loro, e insieme necessarie all’assunto: cioè che l’ordine morale, relativamente all’uomo, si deva compire in questa vita, e che tutto per l’uomo finisca con la morte. Dico necessarie all’assunto; giacchè, se s’ammette che l’ordine morale non si compisca che al di là di questa vita, e che, per conseguenza, tutto non finisca con la morte, l’accusa cade da sè. Dico poi, supposizioni che, oltre all’essere totalmente arbitrarie, si contraddicono. Infatti, il supporre un ordine compiuto in questa vita è supporre che l’uomo la passi tutta, non solo nell’integrità dell’innocenza, ma nel perfetto esercizio della virtù; e d’altra parte, il supporre che per l’uomo tutto finisce con la morte, è supporre che quest’uomo, dotato com’è di mente e di volontà e, per una conseguenza necessaria, d’un amore intelligente e illimitato del proprio essere, ne sia spogliato in un dato momento; cioè riceva la più ineffabile pena, in uno stato d‘innocenza e di virtù. Non si può negare più apertamente di quello che faccia questa seconda supposizione, l’ordine che è l’oggetto della prima. E poi, nello stesso tempo, la più dimessa confessione d’ignoranza, e la più altera pretensione di sapienza, il dire che non s’intende punto come l’ordine ci sia, e che s’intende benissimo come ci potrebb’essere”.[92]

 Fondata, dunque, la morale nella ragione e nella Rivelazione (la cui scienza è la teologia),ecco il Manzoni a combattere i seducenti, ma falsi, surrogati del fondamento. A cominciare dalla coscienza. Questa, infatti,  genera la responsabilità soggettiva, non la moralità oggettiva. Per dirla con l’Amerio: “la coscienza individuale, separata dal lume della religione, non può essere mai autorità circa il dovere, che deve invece essere giudicato secondo un ordine totale conoscibile mediante un lume totale”.[93]   Poi vengono i sistemi fondati sull’entusiasmo e sulla autorità. Il primo, nato con l’emprismo inglese, trafuso nell’idealismo tedesco, fu poi messo in voga dalla Stael. L’entusiasmo sopprimerebbe l’egoismo, facendo agire disinteressatamente. In verità, l’entusiasmo sublima bensì le intenzioni, ma non garantisce la bontà dei contenuti. Si pensi ai terroristi di tutti i colori ed estrazioni: hanno una finalità liberatoria e, in genere, un grande sprezzo della vita: ma i loro atti sono sani mentalmente e retti moralmente? E vi sono obiezioni ancor più radicali, così riassunte dall’Amerio: “E il dire con la de Stael che il fanatismo è passione esclusiva per un’opinione e l’entusiasmo invece è amore della bellezza  ed elevazione del sentimento, è un addurre cosa del tutto inidonea a metter contrarietà tra quelle due cose, che hanno la stessissima essenza, di essere cioè forza, e che non possono distinguersi se non quantitativamente, cioè per gradi di forza. Certo differiranno per l’oggetto, cui si applicano, ma questi oggetti è la ragione logica  che li discerne, applicando la norma del giusto. Allora l’entusiasmo è giudicato e diviene servo della giustizia”.[94] Che, infine, l’autorità non possa essere principio di moralità, è dimostrato dal fatto che “l’obbligazione (morale) è, nel suo fondo, niente più che una verità”, mentre l’autorità è un fatto,  che può attestare non la verità, ma la proposizione di essa; può imporre un concetto, ma non darne le ragioni.[95]

Ancora: Manzoni difende la “puntualità della vita morale” e cioè il valore definitivo di ogni scelta in se stessa, indipendentemente dalle scelte precedenti. Questo importa che il valore della persona dipende dallo stato di innocenza o pentimento dell’ultimo istante di vita e non dalla “bilancia” del bene e del male, operato nel corso di essa: “L’uomo non vien giudicato da Dio dal complesso della sua vita, non dunque dalla continuità storica, ma dalla puntualità morale in cui la morte lo coglie”.  Questo  perchè, da una parte, “l’uomo è sempre in posizione completa verso la legge” (cioè è sempre in grado, nonostante le circostanze storiche, di osservare l’obbligazione morale);dall’altra, “se la giustizia e l’ingiustizia non si trovasse in ciascun momento della vita, dove si troverebbe? come si raccoglierebbe e in qual durata minima consisterebbe’?”; infine “poichè l’uomo è da ogni punto del tempo in relazione con l’ordine intero e definitivo, da ogni punto gli corre un obbligo totale... Perciò non esiste in tutta la vita neppure un momento per il peccato”; l’uomo non è mai “in riposo morale”.[96]

Dedotto dalle stesse premesse di assolutezza della obbligazione morale, perchè espressione della natura umana che si riceve alla nascita e non si può cambiare (“natura discende appunto da “nascere”), è la critica dell’utilitarismo, il sistema venuto di moda con Geremia Benthan (1748-1832).[97] Primo argomento: moralità ed utilità “come son due vocaboli, così son due concetti: -uno è quello di una legge de’ voleri e dell’azioni, fondata sulla natura degli esseri; l’altro è il concetto d’un’attitudine delle diverse cose a produrre stati piacevoli-”.[98] Secondo argomento: “mancanza d’imperatività”, perchè l’utilità “offrendo una ragione di eleggere, non contiene nulla affatto che mi ingiunga l’elezione: sono spinto dall’inclinazione al piacere, ma non ho il dovere di volerlo”. Terzo argomento (comune col Rosmini, ma molto più ragionato e provato): “impossibilità della norma”: “La regola dell’azione non può togliersi dall’utile, perchè l’utile non è mai una presenza, come il dovere, ma un futuro, circa il quale non può la coscienza formare un giudizio, ma soltanto la topica congetturare una probabilità”.[99] “Il Benthan confonde la prudenza che, tra partiti ugualmente leciti e liberi, sceglie il più vantaggioso, e la giustizia che comanda di scegliere in conformità della legge secondo l’essenza delle cose”.... Mentre per la sua essenziale mondanità l’utilitarismo non fa conto che del tempo, e stralcia dalla somma la vita eterna, lo si vede tagliarsi da se stesso, poichè...nemmeno la vita futura mondana l’homo bulla riesce a mettere nel conto”.[100]

Corollari dell’utilitarismo. Il Machiavellismo, come caso particolare dell’utilitarismo: “A tal pensiero torna la volontà condizionale, che il M. dipinge sotto il carattere di don Abbondio: volontà che si conformerebbe alla legge, se la disposizione dei fatti del mondo fosse già conforme alla legge e favorisse la legge. A questo torna anche il carattere di quegli uomini di partito che -vorrebbero che la causa fosse netta di ogni eccesso, ma vogliono che trionfi-, laddove l’uomo ha il dovere di operare per la giustizia, ma non mai quella di farla trionfare. A questo torna anche il Machiavellismo... –e se gli uomini fossero tutti buoni questo consiglio non sarebbe buono (di violar la parola data), ma perchè sono tristi, e non l’osserverebbero a te, tu ancora non l’hai da osservare loro-. In generale quando l’uomo crede che la volontà buona debba nella presente vita non soltanto portarsi verso la legge, ma anche riuscire al fatto, cioè essere felice, e che mancando un tal risultato la virtù diventi vano nome, secondo il celebre motto di Catone, allora la virtù diviene impossibile, essendo impossibile che si verifichino le condizioni della virtù, quando queste cose son cercate nei fatti del mondo anzichè nella legge”.[101] Quanto al tentativo di nobilitare l’utilitarismo, riducendo ad un suo caso particolare anche l’altruismo (“utilitarismo altruistico”), esso, da una parte risulta insensato  (“di quanti uomini dovrò io riguardare il vantaggio, perchè la mia azione divenga morale?”), ma addirittura imparentato e riducibile al machiavellismo (“Di qui la sua connessione col Machiavellismo: invece di rispettare l’uomo subito, lo si offende coll’intento di rispettarlo nella pluralità e nel futuro. Invece di riverire la legge eterna, si mira a sviluppare l’utilità nel corso del mondo”).  Ed all’utilitarismo si riconnette anche la ideologia socialistica, come un ulteriore suo deterioramento: “Il problema non è più di procurare ad opera dell’individuo la somma maggiore di utilità date certe istituzioni, sibbene di procurare le istituzioni adatte a procurare la maggior utilità per tutti. Prima l’utilità individuale rifluiva in utilità sociale, perchè si considerava ancora la persona come il primum.Ora invece l’utilità sociale rifluisce in utilità individuale, perchè se il fine è l’utilità dei più, la pluralità usurpa il luogo della persona e la collezione morale, mutatasi in ipostasi, prevarrà sulla persona”. A questo punto, il cerchio si chiude: “Siccome il sistema (dell’utilitarismo) non riconosce il primum autentico (Dio), la persona non può essere nemmeno quel primum, secondario a Dio, ma primario nel mondo, che essa è quando, col Cristianesimo, si considera nell’ordine intero. Disconosciuta la verità dell’altra vita, non si può nemmeno più mantenere che l’uomo sia il fine del mondo: egli diventa il mezzo del mondo. L’utilità che cagionò il primo peccato, e poi il più spaventoso di quanti ne vennero di conseguenza,[102] presa la forma di giustizia mondana, può offendere e conculcare l’uomo nel presente per inalzarlo nel futuro”. Critica che vale, però, anche per gli altri sistemi mondani: “Di qui nasce l’immoralità del sistema (utilitaristico), che essendo incapace di un criterio deontologico categorico (non potendosi trarre alcunchè di categorico dal futuro, che non è determinato e può determinarsi in ogni maniera) rimette in ultimo all’apprezzamento libero dell’utile: di qui l’individualismo e il liberalismo come filosofie congeneri all’utilitarismo. Di qui parimenti l’affinità col Machiavellismo e la filosofia dell’evento: poichè quel che si deve fare risulta dal futuro, il quale viceversa risulterà da quel che sarà stato fatto, tutta l’etica utilitaria rimane sospesa al futuro...”.[103]

 Con il problema del rapporto utilità-moralità delle azioni sembra collegarsi quello dell’economia, cioè della scienza sulla natura, produzione e distribuzione della ricchezza pubblica. La natura o valore “economico” di una cosa dipenderebbe secondo il Manzoni dal lavoro, anche se deve poi riconoscere che il metro con cui si misura tale valore è la utilità.[104] La sua distribuzione avviene, al meglio, attraverso il gioco della domanda ed offerta, cioè secondo le regole del liberismo economico, divulgato da Adamo Smith coll’opera del 1776 “Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle nazioni”. Punti di riferimento, per documentare la adesione (sia pure con qualche limitazione) del Manzoni al liberismo, sono alcuni giudizi sui problemi economici che portarono alla ribellione milanese di San Martino nel 1628; e una lettera del 1848. Ecco le frasi nell’inizio del c. 12 de I Promessi Sposi: “ Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla nè affamata, ma certo affatto sprovveduta, alla messe del 1628... Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente....la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro”.[105] La lettera del 13 settembre 1848, inviata da Lesa al giornale moderato di Torino “La Concordia”, spiega (ai commercianti di Praga, che avevano dichiarata l’appartenenza di Lombardia e Veneto all’impero austriaco importante al loro commercio) che non l’appartenenza politica, ma la libertà di circolazione delle merci darebbe ai prodotti austriaci la condizione migliore per la vendita anche in Italia: “O i legislatori italiani avranno il buon senso di non proteggere l’industria nazionale con proibizioni e con dazi spropositati (che vuol dire assassinare il commercio nazionale, e danneggiare non poco l’industria nazionale medesima): e le merci dell’Impero entreranno col favore delle leggi, a bandiere spiegate, alla luce del sole. Se poi cinquattott’anni dopo la morte di Smith, e non so quanti dopo la morte di Say, e viventi, parlanti e scriventi Cobden e Bastiat.... se, dico i nostri legislatori staranno fissi in quello sventurato proteggere: allora le merci dell’impero entreranno malgrado le leggi, col favore del contrabbando, a lume di luna...E guardando la cosa più in generale, c’è egli bisogno di dire che il commercio e l’idustria inglese ricevettero un aumento straordinario dall’essere le colonie inglesi dell’America settentrionale diventate gli Stati Uniti d’America?.” Per altro “nelle postille al Gioia (Melchiorre) e al Say si trovan sparse dichiarazioni in cui il Manzoni professa di non voler sostenere la massima della libertà assoluta “... Per dar corso al liberismo occorrerebbe cioè che tutta la società del genere umano fosse presa ed operasse come un unico sistema di governo”. Ed anche allora “Per lui non esiste per principio la libertà illimitata di commerciare, la quale l’interesse comune sopraggiunga poi a limitare, ma esiste soltanto la libertà che è per principio limitata dalla relazione che essa ha coll’interesse comune: la limitazione è a priori e non si presenta come un’eccezione al principio”.  “...il Manzoni non poteva pensare che, lasciando svilupparsi l’elemento economico della società secondo la propria meccanica, si ottenesse l’ordine morale, che cioè l’ordine economico fosse di per sè morale e che per riuscir morale non avesse a ricever forma, prescrizione ed emenda dalla giustizia e dalla religione.” [106]

Quanto alle preferenze tra l’agricoltura e l’industria, Manzoni vede bene i limiti (anzi la insignificanza) delle gran discussione tra mercantilisti e fisiocratici nel secolo precedente al suo: “a sentire i pro e i contro per l’agricoltura e per l’industria, era come se si fossero incontrate due accademie del secolo passato. E per lui (Renzo) l’impiccio era ben più reale, perchè, essendo un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c’è di scegliere? l’uno e l’altro, alla buon’ora; chè i mezzi in sostanza sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio di una sola” (c. 38).

Interessanti le osservazioni del Manzoni su aspetti della vita in qualche modo collegati con la economia. Il lusso è visto col Rosmini come un momento antieconomico “giacchè è produzione e consumazione di cose di scarsa utilità reale”. La moda come “mutazione continua” del vestire, egli la vede quasi un effetto del peccato originale, che ha tolto alla nudità la sua innocenza: l’effetto sarebbe stata la fissità presso i pagani (che ne facevano una espressione religiosa: imitazione delle fogge di vestito attribuite agli dei dell’Olimpo?) e la vorticosa mutevolezza presso i cristiani.

Sul rapporto fra popolazione ed economia, il Manzoni si interessò in relazione alle idee del Malthus,[107] di cui condivise, col Rosmini, i timori della sovrappopolazione, soddisfatto che, contro altri economisti del Millesettecento, rivalutasse il celibato e la continenza come rimedi per farvi fronte.

In una nota che si ritrova nell’edizione Sansoni delle Opere a cura di Barbi-Ghisalberti, per la Casa del Manzoni (III, 658,12), lo scrittore segna questi appunti: “Elemosina vero aumento di valori, quando è ben fatta, prestito senza interesse parte di elemosina, vero aumento di valori”. Ma è aumento dei valori morali, non economici. Comunque, ritornando sul prestito ad interesse anche equo, Manzoni, non si occupa della condanna che in materia era stata in vigore ben oltre il Medioevo e  raccomanda il prestituo gratuito in nome della carità, non della giustizia. A proposito dell’elemosina, che viene in aiuto alla persona (“prossimo”, in linguaggio cristiano) che ha bisogno in concreto al momento e non può aspettare che l’effetto sociale delle leggi economiche ridondino anche a suo beneficio, Manzoni ha accenni discreti ma commoventi in vari punti delle sue opere letterarie. Ne La Pentecoste: “Cui fu donato in copia,| doni con volto amico,| con quel tacer pudicoi| che accetto il don ti fa” (vv. 125-8). Nel romanzo, c. 24,il sarto sta ripetendo i concetti della predica di Federigo: “E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non sono signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce. Qui interruppe il discorso da sè, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiunse un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: -piglia qui-. Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: -va qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare  un po allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina. E non dir niente se incontri qualcheduno...”.

Se nella tragedia progettata “Spartaco”, Manzoni non esitava a porsi dalla parte degli insorti,[108] ne La Pentecoste, egli ripone solo in Dio il riscatto della schiavitù: “Perchè, baciando i pargoli| la schiava ancor sospira?| E il sen che nutre i liberi| invidiando mira?| Non sa che al regno i miseri| seco il Sigor solleva?| che a tutti i figli d’Eva| nel suo dolor pensò?|| Nova franchigia annunziano| i cilei, e genti nove;| nove conquiste e gloria| vinta in più belle prove;| nova, ai terrori immobile| e alle lusinghe infide,| pace che il mondo irride,| ma che rapir non può”.

Sul lavoro Manzoni ha ammirazione ed esortazioni: lui stesso, d’altronde, cercò di praticarlo nel tentativo di rendere economicamente redditizio la tenuta di Brusuglio (600 pertiche milanesi, cioè quasi quaranta ettari di terreno coltivabile); lo abbiamo visto diffondere coltivazioni recenti in Lombardia, come la robinia (acacia). A Marco Coen, che si era rivolto a lui per ottenere aiuto presso il padre a farlo proseguire negli studi letterari piuttosto che impiegarlo nel commercio, in lettera del 2 giugno 1832, rispondeva di proseguire nel commercio, anche con questa osservazione acuta e convincente. “E pensi di che sarebbe più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti”. La battuta fa da conferma alle osservazioni ironiche del romanzo alle spalle del padre di Ludovico, ritiratosi a fare il signore, dopo il lavoro appunto del commercio: “Nel suo nuovo ozio cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa a questo mondo” (c. IV).

Che l’Amerio possa dichiarare “L’umiltà come carattere del Cristianesimo e colofone   dell’integralismo logico” e rischiare di riuscire a dimostrarlo,[109] ha per noi un duplice significato, che nasce dalla sostanziale erroneità di una simile prospettiva morale. Premesso che colofone, (coronamento, perfezione suprema) di ogni virtù, nel Cristianesimo,  è la carità, non l’umiltà, si possono dedurre alcune ipotesi di carattere psicologico. Anzitutto, una conferma della costituzione  psico-fisica del sommo scrittore:  egli  tendeva alla fuga dalla folla, dagli incarichi ed oneri-onori sociali ed era quindi portato a sottolineare più l’umiltà ed il nascondimento che la carità e l’impegno societario. Manzoni è un leptosomatico, con un temperamento nervoso subpatologico: l’umiltà gli era innata fino all’autolesionismo ed alla sottovalutazione di se stesso (che non sono virtù, ma attitudini psicologiche, ove una certa emotività- ad eccessiva prevalenza vagotonica- influenza l’agire e persino la colorazione –platonizzante piuttosto che aristiotelico-tomista- del pensiero). Il secondo corollario da dedurne è che  il giansenismo doveva avere nei fondatori e nei più convinti seguaci una simile disposizione psicologica, in cui il pessimismo sull’umanità peccatirce e sulla sua capacità di corrispondere all’opera salvifica di Cristo sfociava in una dottrina del privilegio e dei piccoli numeri, con il disdegno della massa irredimibile, la dottrina della predestinazione per pochi eletti, il prevalere del timore (per la inaffidabilità dell’uomo) e della adorazione smarrita (di fronte alla infinita perfezione di Dio) piuttosto che della fiducia nella Sua sisericordia e dell’apertura alla virtù di carità (sia strettamente religiosa che generalmente sociale). Giansenismo, insomma, come frutto (anche) di psicastenia? [110]

V)            LA DOTTRINA POLITICA

Seguendo il solito “Studio delle dottrine”, volume terzo nella edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica di Manzoni,curata da Amerio per Ricciardi nel 1966 (pp. 290-370), avremo modo di aggiungere qualche notazione e di dare un giudizio che tenga conto anche del pensiero concreto nei confronti delle vicende politiche del suo tempo, atteggiamento che Amerio pare voler trascurare se, subito all’inizio del suo capitolo (il quinto) dedicato appunto alla “Politica” del Manzoni, dichiara “le teoriche del M. noi ci siamo prefissi di riguardare sempre con astrazione dai sentimenti suoi”. In nota, poi, citiamo altre fonti per questo settore del pensiero manzoniano, perchè ci sembra importante avere tutte le testimonianze per un giudizio che non sarà sempre favorevole allo scrittore.[111] Ecco, comunque, i suoi princìpi in materia.

Concetto complesso e contradditorio della società, considerata nella sua concretezza di espressione storica: comprensibile solo se vista come luogo di prova per il premio|castigo eterni.. Nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, si trova questo giudizio sulla società: essa è “quello stato così naturale all’uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolore, che crea tanti scopi dei quali rende impossibile l’adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi, piuttosto che cessare un momento; ...è un mistero di contraddizioni in cui la mente si perde, se non lo si consodera come uno stato di prova e di preparazione a un’altra esistenza” (c. II, § IV).

La politica come attività morale: “Fine morale della politica: esclusione del realismo politico” è il titolo del secondo paragrafo di Amerio sul pensiero politico del Manzoni. Egli scrive, riferendo puntualmente le opere da cui trae la documentazione:[112] “il Manzoni insegna che il fine della politica, e più precisamente di quei beni sociali che meritano un tal nome, non consiste nei vantaggi podotti nel tempo, ma nel rendere a ognuno meno difficile l’esser buono”; il M. si distacca  interamente da tutte le filosofie del secolo che fanno della società civile o un assoluto o un non assoluto sì, ma a servizio dell’assoluto della libertà, come le dottrine della Rivoluzione francese. Così egli rifiuta tanto quelli che confondono l’ordine politico coll’ordine etico o addirittura religioso, quanto quei che, distinguendoli, vogliono alla politica far celebrare o almeno proteggere il valore etico, ma questo identificano  nella libertà versatile[113], anzichè nell’ordine a cui la libertà è fatta  per portarsi.”

Demitizzazione della attività politica e dello stesso sistema democratico. Nei paragrafi dal terzo al settimo di Amerio, vien documentato un Manzoni che ridmensiona la importanza del potere politico e della sua varia attuazione. Anzitutto egli dichiara che il potere viene da Dio, come da Lui vengono gli uomini. Il potere consiste nella potestà di servizio; l’autorità ha valore nella misura in cui è efficace nel suo servizio (che, ricordiamo, è indirizzato soprattutto a rendere più facile il vivere onestamente, l’essere buoni).[114]

Egli riconosce, perciò, la caducità di ogni governo e la preminenza del diritto dei sudditi (ad esser serviti per il bene comune). Non esiste un diritto divino dei re, che è invenzione protestantica, calunniosamente attribuita ai cattolici, solo perchè Bossuet la fece propria. (Amerio, III, 294).

Non va confusa la efficienza nel procurare il bene con la bontà od onestà dei governanti: fu questo l’errore tipico del Savonarola, condiviso da troppa parte della gente. “Non ci essendo, nè ci potendo essere alcun governo che abbia un diritto assoluto e imperscrittibile ad esistere, il diritto, sempre relativo, di un governo qualsiasi si spegne, quando questo, anche senza sua colpa, non possa più essere un mezzo a quel fine, da cui ha l’unica sorgente di essere”.[115] Manzoni “riconosce quindi il diritto di sottrarre l’obbedienza, ove venga meno il servizio, e purchè ciò si faccia senza ingiustizia.”

Non v’è posto neppure per le “patrie” a conservarsi eternamente.

Amerio chiama roussoianamente “sistema della volontà generale” il governo democratico. Neppure a livello di pensiero politico, Manzoni non può esser detto liberale (lo fu nel sentimento e in alcune prese di posizione pratiche, ma non nel giudizio riflesso)[116]. “Più censure infligge infatti il M. al sistema che, detraendo all’autorità di carattere divino, asserisce di poi ricavarla dalla volontà degli uomini associati. In primo luogo la nozione, teorizzata dal Rousseau, di volontà generale, mal dissimula il sofisma piantato nel mezzo dell’ideologia sesnistica e di qui fluente su ogni parte della filosofia, che cioè l’universale possa constare della collezione dei particolari e che dunque, alcuni sia uguale a tutti...”  In secondo luogo “la maggioranza non può essere un principio. Essa infatti non ha significato se non aritmetico e quantitativo: cento opinanti non valgono, come opinanti, più di un solo opinante.... una maggiorità... assiologica e morale... sorgerebbe soltanto dala relazione colla verità e la giustizia... Il sistema della maggioranza, che scambia la specie politica della democrazia con il genere stesso della politica.... germoglia dal liberalismo filosofico che il M. rigetta... Il giusto è altro dal voluto del popolo.... Non si dà volontà umana legislatrice senza dipendenza dalla legge morale, e niun popolo in nessun momento ha l’autorità di rendere giusto un fatto ingiusto.”[117]

La legittimità del governo dipende, quindi, dalla giustizia efficace di bene (morale e materiale) del suo agire, non necessariamente dal diritto di voto e dal risultato di una votazione popolare. Il regime democratico è psicologicamente più conveniente, non un diritto preciso del cittadino.

Manzoni, difatti, rivaluta  il sistema di maggioranza, per la sua maggior probabilità di giustizia, ma soltanto nelle scelte fra due beni (forse, più esattamente, si dovrebbe dire “fra bene e meglio”): “una volta riconosciuta la generale soggezione di tutto l’agibile alla morale e alla religione, restano però suscettive di più determinazioni e ammettono il giuoco della libera estimazione degli uomini associati”. E questo, per tre motivi. Anzitutto: “vi è una più grande probabilità di giustizia o di sapienza nella persuasione del maggior numero”[118];  vi è “una minor ingiustizia, nel caso che l’assoluta giustizia non si ottenga, nel minor numero dei danneggiati, giacchè si eseguisce la volontà dei più”; e vi è, infine, una maggior probabilità di vita pacifica nella società, anche nel caso che la  opinione ridotta a legge risulti controproducente, proprio perchè la maggioranza tiene in rispetto la minoranza contestatrice.[119]

Per queste convinzioni generali, il Manzoni non ha preferenze per un ordine costituzionale piuttosto che per l’altro (monarchia, repubblica e, al limite, neppure per la democrazia piuttosto che per un governo assoluto): “il principio della legittimità del potere” sta “nella soggezione alla giustizia e non distingue le specie di costituzione politica che per l’efficacia storica e la congruenza pratica ai vari stadi delle umane società”.[120] Commenta l’Amerio: “L’esatta significazione del sistema di maggioranza non sta dunque pel Manzoni nell’orbita dei diritti umani, come se niuno avesse a riconoscere altra sovranità da quella della persona.... ma nell’orbita delle convenienze morali e psicologiche.... la efficacia del sistema (di maggioranza) risulta maggiore quanto all’obbedienza ed esecuzione da parte dei soci”.[121]

Manzoni non ha fiducia nei partiti politici e ne critica il sistema: “i partiti vogliono una deferenza illimitata e uomini sicuri, che sono poi quelli che li mandano in rovina, come è giusto” mentre “la coscienza (è) indipendente di sua natura dall’arbitrio altrui”[122]

Conseguenze di tali princìpi nei giudizi storiografici del Manzoni. Illegittimità dell Rivoluzione farncese del 1789[123]; legittimità di quella americana del 1776-83 e di quella italiana del 1859.[124] Egli sembra convinto che lo “spirito del secolo XVIII” sia sostanzialmente cristiano e da rivendicare al vangelo nella sua parte positiva (la divisione dei tre poteri proposta dal Montesqieu; alcune idee del Voltaire sulla amministrazione dello Stato; alcune critiche del Rousseau ai sistemi educativi in atto, coercitivi anzichè paterni...); in ogni caso egli è contrario ad una condanna in blocco e chiede la distinzione fra proposte e realizzazioni positive, da far risalire al Vangelo; e opinioni od operazioni negative, da dimostrare come errate perchè incompatibili con Vangelo stesso.[125]

Egli, già contrario col nonno alla pena di morte, mutò, poi, parere. La  testimonianza viene  dalla soppressione di una affermazione, implicitamente critica della pena capitale, nel passaggio dall’edizione 1819 a quella del 1855 delle “Osservazioni”. Eccola: (il ministro della Chiesa, accanto al condannato a morte) “vi si pone e vi si porrà dovunque e finchè dureranno quelle leggi che suppongono, che certi delitti non si possano diminuire senza uccidere il reo”. Ma è aoprattutto la testimonianza dello Stampa e di Cesare Cantù che accertano il mutamento di giudizio.

Reiezione del politicismo nella Chiesa. Manzoni è di questo parere: “niente gioverebbe di più alla religione che se le si lasciasse maggior elibertà... “se i governi stessi si mostrassero più religiosi e favorissero la diffusione della religione tra le masse unicamente col non incepparla nel suo regolare andamento”.[126]

Dopo aver sottolineato l’influsso benefico della religione sopra l’ordine internazionale, Manzoni condanna  ogni guerra per motivi religiosi, anche di legittima difesa: “la violenza esercitata in difesa di questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito”.[127] E qui, ci pare, il Manzoni confonda il meglio (l’ottimo, anzi) col bene, la ascetica con la morale. La legittima difesa rimane lecita anche per i cristiani come singoli e come gruppo, proprio anche quando vengono perseguitati in nome della loro fede. Che poi l’esempio di S. Massimiliano Kolbe sia atteggiamento ottimale, non lo si può negare; ma neppure imporre.

 

VI)       IL PENSIERO ESTETICO-LETTERARIO

 

Veramente Amerio intitola il capitolo quarto del suo “Studio delle dottrine” (pp. 225-89) con un plurale: “Le dottrine estetiche”. E non ha torto: per il Manzoni, si possono segnalare varie prese di posizione in materia di poetica ed estetica.[128] Meno attinente ci sembra invece, stavolta, l’impostazione dell’Amerio in proposito: ne prescinderemo, perciò, quasi del tutto.

Poco importante è la estetica neoclassica della poesia giovanile, prima della conversione: essa fu, infatti, ripudiata. E non si tratta di una estetica coniata, ma solo recepita dal Manzoni. Ad essa corrisponde una produzione tanto coerente quanto fallimentare, salvo l’autobiografico sonetto “Capel bruno, alta fronte, occhio loquace” e i vv. 202-15 del carme In morte di Carlo Imbonati, che  però ignorano le regole del Winckelmann o gli esempi del Monti, per esplodere in espressioni appassionate, magari stilisticamente meno raffinate: ma, certo, emotivogenetiche entrambi e, i versi sublimi “Sentir –riprese- e meditar..”, addirittura estasianti.

 In che consistesse tale poetica si può riassumere così. In nome della “serenità” pseudoclassica, predicata da quell’omosessuale (che, come tale, non poteva non avere una sensibilità almeno in parte disorientata), si finiva per approdare ad una versificazione impassibile, cioè arida o almeno poco curante di emozioni, commozione, compassione. In compenso, l’esigenza di nobiltà, dignità, armonia ecc. conduceva ad una cura eccessiva ed unilaterale della forma, cioè ad un musicalismo  connotato, negativamente, da assenza di espressioni forti ed urtanti, realistiche e drammatiche; e, positivamente, da una simbiosi fra dignità ed eleganza, fra dolcezza  e levigatezza. Il risultato era il moltiplicarsi di composizioni stilisticamente ineccepibili, ma liricamaente insignificanti. Il Trionfo della libertà (1801) i Sermoni (a Giuseppe Pagani: 1803-5?), l’idillio Adda (A Vincenzo Monti: 1803), L’ode (1801: per Luigina Visconti), soprattutto Urania (1809) ed A Parteneide (1809-10) furono il risultato inutilmente perfetto, sterilmente ammirabile della prima estetica manzoniana, quella neoclassica del Winckelmann e del Monti. Tali versi, egli, con le lettere al Fauriel del 10 agosto e del 6 settembre 1809 ebbe a deprecare come “odiosi”, dichiarando infine: “je suis très mécontent de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’intéret; ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-etre de pires, mais je n’en ferai plus comme cela”.

Una seconda posizione esteica è quella che si può ricacavare dalla lettera a Claudio Fauriel del 20 aprile 1812. Ivi il Manzoni  esprime nella forma più candida, ma anche più spontanea, la propria prospettiva, che egli dichiara giustamente approssimativa nelle parole, ma che è la meno lontana dal vero nei concetti. Eccola: “Je suis plus que jamais de votre avis sur la poésie; il faut qu’elle soit tirée du fond du coeur; il faut sentir, et savoir exprimer se sentiments avec sincérité; (je ne sarais pas comment le dire autrement).... quant au style et à la versification après m’e^tre un peu tourmenté là-dessus j’ai trouvé la manière la plus facile, c’est de ne pas y pensé du tout.... Je me suis souvenu alors du Verbaque provvisam rem non invita sequentur; que je trouve e^tre la seul règle pour le style...”. Ciò che è esatto in tale intuizione giovanile è il primato del sentimento (o del cuore); ciò che è approssimativo è la dizione “sentimento-cuore” anzichè emozioni, stati d’animo, lirismo”; ciò che è mancante è la parte della ragione e, ovviamente, della armonizzazione fra le due facoltà-attività della mente umana nell’operazione e nel prodotto artistico. Inutile dire quanta parte abbia avuto la mentalità romantica, che si andava diffondendo dalla Germania, in questa intuizione improvvisata, ma non lontana dal vero, del Manzoni.

Vi è una  terza tappa estetica del Manzoni? A noi pare di sì, con una complessità maggiore ma senza approdi definitivi. In tutti i successivi documenti, infatti, egli tende a dare il primato alla “verità”, ricuperando la parte del “cuore” e  dei “sentimenti” in posizione subordinata, senza riuscire a chiarificare la loro conessione in maniera convincente. Tale terza “estetica” è  esposta in molti documenti che si aggirano attorno agli anni 1820, cominciando da L’ira di Apollo del 1817 fino alle lettere allo Chauvet (1820) ed al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio (settembre 1823). Ci soffermeremo su questi due documenti più estesi, rimandando in nota i contributi degli altri.

La lettre à M(onsieur) C(hauvet, Joseph-Joachim-Victor) sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, scritta a Parigi,  era già finita nel 1820, al momento del rientro dei Manzoni in Italia, anche se fu edita solo nel 1823.[129] Essa ha una “pars destruens” ed una “pars construens”.

La parte critico-demolitrice delle unità di tempo e luogo per la “classicità” delle tragedie è acuta e convincente: ben poco vi potrà aggiungere V. Hugo nel suo famoso “Préface” alla tragedia Cromwell del 1827. Ecco le quattro obiezioni fondamentali: 1) le unità   di luogo e di tempo costringono ad una selezione tra i fatti da rappresentare in scena e quelli da far raccontare da messaggeri, che è dettata non dalla importanza dei medesimi, ma dalla arbitrarietà delle regole; 2) il rinchiudere nelle 24 ore i fatti della vicenda è contro la verosmiglianza; 3) si è costretti ad omettere molti particolari o storicamente importanti o poeticamente suggestivi; 4) si è costretti a sostituire alle cause vere della vicenda storica, cause fittizie che aiutino a rinserrare la vicenda nei termini delle due unità.  Si aggiunga: “Arostote... n’a jamais songé à préscrire à la tragédie les règles qui lui ont été imposées en son nome”.

Esistono, poi, una serie di fatti concreti che testimoniano come l’arte drammatica non dipenda da tali due unità.  Ad esempio si concede ai grandi poeti (Manzoni cita qui Jean Racine) di violare le regole di unità di tempo e luogo, perchè le bellezze della loro poesia “transportent (les hommes) hors d’eux-memes, ... jettent dans un état de charme et d’illusion où ils oublient et la critique et la poésie elle-meme, pleinement, uniquement dominés par la puissance de ses effets”. E, viceversa, anche il sistema delle due unità domanda agli spettatori concessioni inverosimili, “puisqu’il veut qu’elle donne à trois heures le cours fictif de vingt-quatre”. Inoltre, tutta l’opera teatrale  presuppone l’accettazione di un cumulo di arbitrarietà che per altro la mente assorbe senza difficoltà: “Pensez-vous  qu’il soi venu au théatre pour voir des événements reels? Et me suis-je jamais mis dans la tete de lui faire un pareille illusion? de lui faire croire que ce qu’il sait etre déjà arrivé  il y a quelques centaines d’années arrive aujourd’hui de nouveau? que ces acteurs sont des hommes réellement occupés des passione et des affaires dont ils parlent, et dont il parlent en vers?”

Ed eccoci alla prospettiva estetica positiva del Manzoni (Pars construens).

Anzitutto, Manzoni proclama necessaria la unità d’azione, perchè essa è esigita dalla natura umana e dalla legge della verità.[130]  E la verità-verosimiglianza è al centro di questa sua estetica: “La vraisemblence et l’intéret dans les caractères dramatiques, comme dans toutes les parties de la poésie dérivent de la vérité”. In che rapporti precisi stia la verità con sentimenti-emozioni-passioni non  sarà mai chiaro in tutto l’arco della riflessione manzoniana, sebbene un dato già ora presente non solo persisterà, ma andrà sempre più definendosi come il fattore decisivo: è il predominio della parte razionale, cioè della verità. Ecco un’espressione significativa nella “Lettre”: “il y a dans la vérité un intéret si puissant, qu’il peut nous attacher à la considérer malgré une douleur véritable, malgré une certaine horreur voisine du dégout”. E, più avanti, troveremo la frase riportata come fondamento delle riflessioni filosofiche dello scrittore e che ora citeremo nel suo contesto. Dopo aver azzerato il valore delle argomentazione dello Chauvet sulla necessità delle regole classistiche, egli pone la questione positiva: “Mais, dira-t-on peut-e^tre, si l’on enlève au poète ce qui le distingue de l’historien, le droit d’inventer les faits, que lui reste-t-il? Ce qui lui reste? la poésie; oui, la poésie.” Ed ecco allora la riaffermazione della verità come sorgente prima dell’interesse artistico: “Les faits, par cela me^me qu’ils son conformes à la vérité pour ainsi dire matérielle, ont au plus haut degré le caractère de vérité poétique que l’ont cherche dans la tragédie:... le besoin de la vérité est l’unique chose qui puisse nous faire donner de l’importance à tout ce que nous apprenons”.

A questo punto si impone, però, la distinzione fra la verità dello storico e quella del poeta: “Car, enfin que nous donne l’Histoire? des événements qui ne sont, pour ainsi dire connus que par leur dehors; ce que les hommes ont exécuté: mais ce qu’ils ont pensè, les sentiments qui ont accompagnè leurs délibérations et leurs projets, leurs succès et leurs infortunes; les discours par lesquels ils ont fait ou essayé de faire prévaloir leurs passions et leurs volontés, par lesquels ils ont exprimé leur colère, épanché leur tristesse, par lesquels, en un mot, ils ont révélé leur individualité: tout cela, à peut de chose près, est passé sous silence par l’histoire; et tout cela est le domaine de la poésie... Tout secret de l’a^me humaine se dévoile, tout ce qui fait les grandes événements, tout ce qui caractérise les grandes déstinées, se découvre aux imaginations douées d’une force de sympathie suffisante. Tout ce que la volonté humaine a de fort ou de mystérieux, le malheur de religieux et de profond, le poète peut le diviner; ou, pour mieux dire, l’apercevoir, le saisir et le rendre”.

In conclusione, credo che tutti si sia d’accordo nel dire che Manzoni ha scambiato il proprium della poesia con la psicologia: il poeta è un indagatore del mondo interiore dei personaggi e delle spinte  razional-emotivo-volitive che danno origine alle loro deliberazioni, dalle quali nasceranno, poi, le vicende storiche. E non si può dargli ragione: anche qui, amicus Plato, sed magis amica veritas.

Ma se Manzoni si illude di aver risolto il problema estetico, con l’appello alla verità psicologica, come a riserva di caccia dell’arte (specie drammatica), spuntano già sotto la sua penna le altre componenti che, come hanno caratterizzato l’irrisolto dualismo nelle riflessione estetica, a cominciare almeno dali commenti alla Poetica di Aristotele nel Millecinquecento,[131] così prenderanno un ruolo sempre più concorrente a quello della ragione, come avremo modo di vedere. Intanto è già stato pronunciato più volte il termine “interesse”: è solo quello della curiosità per il vero? No, perchè, parlando del suo Carmagnola, egli è costretto a chiamare in causa anche le emozioni. Perchè i motivi per cui il senato veneziano chiama a rapporto il conte di Carmagnola sono d’un grande interesse drammatico? Ecco le sue parole: “parce qu’il est très intéressant de voir les véritables pensées par lesquelles les hommes arrivent a commettre une grande injustice: c’est de cette vue que peuvent nai^tre de profondes émotions de terreur et de pitié, si l’on veut caractériser la tragédie par la proprieté de produire ces émotions. Or ces motifs où puis-je les trouver? nulle autre part que dans l’histoire me^me...”.  Qui Manzoni usa un argomento “ad hominem”: parlando con un classicista, egli si adatta (si potrebbe pensare) a riferirsi alle due “passioni” che sono citate nella Poetica di Aristotele: ma chi prima del Manzoni ha tradotto il termine “pathèmata”, colà impiegato, con la parola esteticamente tecnica “emozioni” anzichè con quella, tecnicamente morale,  “passioni”? Non ci consta di alcuno, almeno in Italia... Ma, andando più avanti nella spiegazione dell’oggetto prorpio della tragedia, quello che suscita interesse, egli ribadisce non più “ad personam”, ma a nome proprio: “Expliquer ce que les hommes ont senti, voulu et souffert, par ce qu’il ont fait, voilà la poésie dramatique, créer des faits pour y adapter de sentiments, c’est la grande ta^che des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours”. Ancora un termine molto vicino al bagaglio verbale estetico: i sentimenti. Ma non ci si deve illudere: ben presto, Manzoni ridona lo scettro alla ragione ed alla verità: “La pensée des hommes se manifeste plus ou moins clairement par leurs actions et par leurs discours; mais, alors me^me que l’on part de cette large et solide base, il est encore bien rare d’atteindre à la vérité dans l’expression des sentiments humains. A coté d’un idée claire simple et vraie, il s’en présente cente qui sont obscures, forçées ou fausses; et c’est là difficulté de dégager nettement la première de celles-ci qui rend si petit le nombre des bons poètes”.

Manzoni ritorna sulla componente  non razionale della poesia, quando deve dimostrare, con argomenti di sottile, acuta psicologia, che la stortura delle ventiquattro ore (unità di tempo), costringe lo scrittore ad essere falso, a mettere in scena dei personaggi così straordinariamente appassionati, da precipitare verosimilmente all’azione violenta nel breve tempo di una gionata: costretto a mantenere la verosimiglianza nel passaggio dall’agitazione passionale interiore alla immediatezza della sua esecuzione, deve cadere nella inverosimiglianza di rendere normali situazioni psicologiche (passionali) che sono rarissime, del tutto eccezionali. E, dei sentimenti costruttivi, che solitamente si svolgono con forza ragionevole ma, per ciò stesso, in tempi “a misura di uomo reale”, nel teatro legato alle ventiquattro ore non v’è posto, non si dà possibilità. E, ne deduce, il cristiano Manzoni: forse è per questo che il teatro è diseducativo (al punto che il grande Bossuet lo ha condannato in blocco, come il Nicole ha chiamato “avvelenatori pubblici” i romanzieri, egli dirà altra volta[132]). Esso trascura il grado della passionalità equilibrata ed educativa, per rappresentare solo quelle esasperate e corruttrici, onde rendere accettabile le loro conseguenze tragiche. Si prenda il complesso delle passioni che conducono al suicidio: per farvi giungere un personaggio in 24 ore, occorre presentarlo in una disperazione senza via d’uscita , al punto da far sembrare legittimo l’atto insano, come si dice in due versi famosi: “Quand on a tout perdu, quand on n’a plus d’espoir,| la vie est un opprobre, et la mort un dévoir”! Il che induce Manzoni a commentare, non senza ironia, che anche presso gli antichi pagani, vi erano molti più suicidi sulla scena che nella vita reale! Ma per giungere a questa conclusione, Manzoni ha posto in poco più di una pagina a stampa (dal capoverso “Nous avons vu Corneille demander la permission...” fino alla sua chiusura “et sur des opinions qui n’ont jamais passé par la te^te a personne”) otto volte il termine “passioni”, una volta “appassionato”, una volta “sentimenti”. Eppure, la questione è lungi dall’essere conclusa: passioni ed idee, sentimenti e verità si alternano, talvolta quasi come sinonimi, nelle ultime pagine della lettera: “comment la curiosité ne se porte pas pluto^t  à déméler, dans le coeur et dans l’esprit des ces etonnans (sic) personnages offerts à sa contemplation, les sentiments et les idées qui en ont fait des exceptions à la nature humaine?” Ed anche la finale della lettera, che Manzoni conduce a difendere i sentimenti buoni, ad esigere che il teatro sia educativo e non corruttore, la via è quella di farlo giocare su passioni secondo natura, cioè su idee vere: Ne lui (allo scrittore di tragedie) domandons que d’e^tre vrai, et de savoir que ce n’est pas en se communiquant à nous que les passions peuvent nous émouvoir d’une manière qui nous attache et nous plaise, mais en favorisant en nous le développement de la force morale à l’aide de laquelle on les domine et les juge. C’est de l’histoire que le poète tragique peut ressortir, sans contrainte, des sentimens (sic) humains; ce sont toujours les plus nobles, et nous en avons tant besoin! C’est à la vue des passions qui ont tourmenté les hommes, qu’il peut nous faire sentir ce fond commun de misère et de faiblesse qui dispose à une indulgence, non de lassitude ou de mépris, mais de raison e d’amour. En nous faisant assister à des événemens (sic) qui ne nous intéressent pas comme acteurs, où nous ne sommes que témoins, il peut nous aider à prendre l’habitude de fixer notre pensée sur ces idèes calmes e grandes qui s’effacent et s’évanouissent par le choc des réalitées journalières...”.

Siamo alla incertezza dell’oraziano “Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci”[133] o del pariniano: “Va per negletta via|ognor l’util cercando| la calda fantasia,| che sol felice è quando| l’util unir può al vanto| di lusinghevol canto” (dove??????). Siamo alle felicissime, ma ugualmente zoppicanti, espressioni nate contemporaneamente alla composizione del Carmagnola e pubblicate dal Bonghi coi titoli poi rimasti di Materiali estetici e Della moralità delle opere tragiche. Il primo dei “Materiali” termina così: “Senza avanzare la nota questione se il fine della poesia sia di commuovere o di istruire, io partirò da un principio  nel quale tutti convengono, che il diletto e la commozione devono essere subordinati allo scopo morale, o almeno non contraddirgli”. Il settimo pensiero recita: “A chi dicesse che la poesia è fondata sulla immaginazione e sul sentimento e che la riflessione la raffredda, si può rispondere che più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell’uomo, più si trova poesia vera”.  E nel secondo, afferma: “La rappresentazione delle passioni che non eccitano simpatia, ma riflessione sentita è più poetica d’ogni altra”.   Diletto e istruzione, commozione e utilità  educativa (fine morale), sentimento e riflessione, il vero ed il cuore; riflessione sentita: dualismo di facoltà umane, bipolarismo di loro attività, che non riescono a trovare la via di una simbiosi convincente, di un sinergismo persuasivo. E sarà il limite anche delle altre “estetiche manzoniane”. Finchè non si arriverà a capire che la componente formale della espressione artistica è la emotività pura da componenti istintuali e libera da finalità pratiche, non si riuscirà ad uscire dall’equivoco.

Manzoni ha creduto di concentrare nell’introspezione psicologica l’essenza dell’arte,  ma (naturam expellas furca, tamen usque recurret!) il binomio emozioni-razionalità, estromesso dalla porta, rientra per tutte le fessure del ragionamento e non solo per la finestra. Ma veniamo al secondo grande documento: Sul Romanticismo: Lettera al marchese Cesare d’Azeglio[134], del 22 settembre 1823. Esso offre una estetica che è più ampia nella specificazioni delle parti positive e che completa anche lo smantellamento delle formule classsicistiche.  Riconoscendo la difficoltà di definire un fenomeno come il romanticismo (che ha “anche significati espressamente distinti, e in alcune parti opposti, in Francia, in Germania, in Inghilterra”) e pur ammettendo che “in Milano....la parola romanticismo... è stata adoperata a rappresentare un complesso d’idee più ragionevole, più ordinato, più generale che nessun altro al quale sia stata applicata la stessa denominazione”, egli rivela al D’Azeglio l’intenzione di “esporle o a dir meglio di sottoporle il suo modo particolare di vedere in quella quistione”.

E’ lui stesso che distingue una parte negativa ed una positiva, riassumendo la prima nelle seguenti esclusioni: “la mitologia; l’imitazione dei classici, propriamente detta; le regole fondate su fatti speciali e non su princìpi generali, su l’autorità dei retori e non sul ragionamento; e specialmente quelle delle due unità drammatiche”. Le ragioni? Per la mitologia: “...l’uso della favola è vera idolatria”. L’imitazione dei classici:  sostenitore del loro studio come ricerca in essi di “una norma, un esercizio, un addestramento allo scrivere”, egli esorcizza il principio classicistico  “che consiste nel ritenere in ciascun genere d’invenzione il modulo che essi hanno adoperato, i caratteri che essi v’hanno posti, la disposizione e il rapporto delle diverse parti, l’ordine e il progresso dei fatti, ecc.” Egli conclude la sua argomentazione riducendo ironicamente alla contraddizione il principio fondamentale del classicismo: “prendete a modello quegli scrittori che furono sommi, perchè non presero alcun modello”. Per la critica alle unità di tempo e di luogo, Manzoni si rifà alle motivazioni addotte nella lettera allo Chauvet.

Quanto alla parte positiva, Manzoni confessa: “Il positivo non è di lunga mano nè così preciso, nè così diritto, nè sopra tutto così esteso”. Egli lo vede riassunto nel famoso principio: “la poesia e la letteratura in genere deve proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”.  Lui stesso sente, dapprima la necessità, di spiegare il significato delle tre parole-chiave, così felicemnte accostate, ma quanto mai incerte nel significato e nella loro concorrenza: “Il diletto mentale non è prodotto che dall’assentimento ad una idea; l’interesse, dalla speranza di trovare in quella idea, contemplandola, altri punti di assentimento e di riposo... il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere”. Ma alla fine deve gettare la spugna: “Non dissimulo, nè a Lei che sarebbe un povero ed inutile artificio, nè a me stesso, perchè non desidero ingannarmi, quanto indeetrminao, incerto e vacillante nell’applicazione sia il senso dei vocaboli: utile, vero, interessante. E per non parlare che d’uno di essi, Ella sa meglio di me che il vero tanto lodato e tanto raccomandato nelle opere di immaginazione, non ha mai avuto un significato preciso...il vero che debbe trovarvisi dappertutto, et me^me dans la fable, è dunque qualcsa di diverso da ciò che si vuole esprimere ordinariamente con quella parola, o per dir meglio, è qualche cosa di non ancor definitio...”.

Molto deciso invece è il Manzoni nell’escludere dal “suo” romanticismo “un non so che guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, uan ricerca dello stravagante, una abiura in termini del senso comune...”.

Tutto sommato, il Manzoni marcia sul posto: ritornano, come ombra di Banco, alcune parole che egli sente necessarie come artista (sentimento, interessante, diletto, commozione poetica); ma insorgono, come concorrenti, le altre, che egli sente necessarie come moralista (il vero –morale, storico, religioso- l’utile...). Si potrebbe osservare che la cosa doveva rimanere così, data la pratica contemporaneità dei due documenti: la lettera allo Chauvet fu stesa nel 1820; quella al D’Azeglio nel 1823, cioè lo stesso anno che la prima veniva edita in Francia. Ma non è così:  nella edizione del 1870, è stata bensì soppressa, nella lettera al D’Azeglio, la frase sintetica e suggestiva (“l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”), ma non i concetti nè i termini: vi si usa il verbo “interessare”, vi si elencano “il vero, l’utile, il bono (sic), il ragionevole”: Manzoni non è riuscito a districarsi dal labiritno della dicotomia  ragione-emotività perchè, da una parte, la scienza neurologica non aiutava nè lui nè alcun altro pensatore a distinguere nettamente tra istinti|passioni|sentimenti|emozioni e tale mancanza gli impediva  (lo vedremo subito)  di liberare la componente emotiva in arte dalla connotazione negativa propria della passionalità; dall’altra, egli ignorava che nell’attività umana, il fine da ottenere fa da elemento formale, anche se la facoltà che è chiamata a realizzarlo è superiore ontologicamente al prodotto da otteenere. Quest’ultimo dato della filosofia scolastica (da lui troppo poco stimata) gli avrebbe tranquillizzato la coscienza circa la piena umanità e razionalità dell’arte tutta, nonostante il prevalere in essa della componente emozionale, che è lo scopo inteso dalla intelligenza nell’operare estetico e che diviene quindi la componente formale del risultato .[135]

Uno sforzo per una chiarificazione in uno dei due grupi di concetti, quelli dell’interesse, diletto, sentimento, è stato compiuto dal Manzoni nell’abbozzo del dialogo preparato per il Rosmini, datato 12 gennaio 1851 e pubblicato col titolo Del piacere, ma senza conclusioni sicure: Manzoni stesso finisce auspicando: “Così fossero i bei giorni di Lesa, che le rettificazioni verrebbero pronte” (da parte del Rosmini). E il discorso coll’amico abate dovette continuare, perchè Ruggero Bonghi, che partecipò a lungo ai colloqui tra lo scrittore ed il filosofo nelle passeggiate estive tra Lesa e Stresa, riferisce  parecchi pensieri in materia del Manzoni, nel terzo volume delle “Opere inedite o rare” (Milano, 1887). Amerio, che offre una sintesi organica dei concetti espressi dal Manzoni su questo argomento in tali conversazioni, riprenderà ad essere la nostra guida, con le pagine 229-253 del suo III volume, pur ricordando noi l’oraziano “nullius addictus iurare in verba magistri” (senza impegnarci a giurare sulla parola di nessun maestro, nè Manzoni nè Amerio).

Si tratta, dunque, di conciliare nell’arte la passione o concitazione dell’animo con la verità o riflessione della ragione. Amerio afferma che “la relazione tra poesia e passione è nulla nel sistema del M.” (III, p.229). L’espressione va però interpretata alla luce delle spiegazioni e precedenti (“Da che cosa infatti vien l’artista portato sull’-orlo del concetto-, se non –dalla concitazione dell’animo e dell’intenta contemplazione delle cose?-” (p. 228)[136] e seguenti: “Gli affetti entrano certamente nella sfera della poesia, ma non perchè la poesia dipinga la passione in guisa da  muovere la passione, ma perchè rappresenta la passione in guisa da eccitare sopra di essa  la riflessione sentita del lettore” (pp. 230); e “l’arte non muove dalla passione per terminare alla comunicazione della passione, ma è un intuito del vero che produce un assenso, un acquisto di idee e un riposo della mente” (p. 236). E cita Manzoni: “Opinione ricantata e falsa: che il poeta per interessare deve muovere le passioni. Se fosse così, sarebbe da proscrivere la poesia. Ma non è così: la rappresentazione delle passioni che non eccita simpata, ma una sentita riflessione è più poetica di ogni altra”.[137] Amerio conclude: “Il teatro invero produce una simpatia, di ordine più elevato, colla verità che giudica e signoreggia le passioni. Allora fin le –turpi ed atroci avventure- della sciagurata Gertrude possono diventare soggetto della narrazione”, perchè “anche nella turpitudine, nell’orrore e nel disgusto è l’interesse potente della verità quello che avvince e impegna lo spirito” (p. 232).[138] Noi ci permettiamo di fare una eccezione per l’erotismo, perchè è un istinto così suscettibile di eccitazione non solo in seguito  a designazione figurativa, ma anche a descrizione verbale, che la ragione non riesce a dominarne  l’immaginazione che stimola. Di conseguenza, neppure può essere captata, isolata ed espressa la tempesta emozionale che pur accompagna l’insorgere della eccitazione venerea. Tanto meno, quindi, l’artista può tradurle in espressione estetica e comunicarle come tali al fruitore: l’erotismo si esclude, così, automaticamente dalla produzione artistica. E’ solo in questo senso specifico che si può acconsentire col Manzoni “la distinzione di bello poetico e di bello morale è assurda”.[139] Sì, perchè purtroppo si può esprimere artisticamente ogni altra forma di passione, anche in  circostanze delittuose, diseducando il fruitore, se non vengano inserite in un contesto di condanna almeno indiretta, secondo l’esigenza espressa esplicitamente dal Manzoni filosofo (“il diletto e la commozione artistica devono essere subordinati allo scopo morale o almeno non contraddirgli”) ed attuata egregiamente dal Manzoni romanziere.  Senza tali accorgimenti, temiamo che Manzoni sia troppo ottimista quando afferma che le passioni “possono essere redente se se ne faccia una rappresentazione conforme al vero, cioè secondo quella totale visione che è la moralità”.[140] La forza usata per legittima difesa (quindi, moralmente ineccepibile), se non commentata adeguatamente negli scritti e non limitata prudentemente nelle raffigurazioni cinematiche, rischia di rendere i fruitori così abituati allo spargimento di sangue da risultare una eccitazione involontaria alla violenza, specie se l’impiego della forza è accompagnata da stratagemmi che rivelano intelligenza sorprendente ed invitano alla imitazione, quindi, anche per l’istinto dell’uomo ad emulare quanto riveli acutezza di mente, nel bene come nel male. 

Dobbiamo concludere che il Manzoni, neppure nei colloqui “stresiani” col Rosmini riuscì a stabilire la differenza ultima fra emozioni-sentimento-passione-istinto-diletto-piacere. Di conseguenza, non giunse a distinguere il rapporto esatto fra ciascuna di queste attività e quella estetica e neppure ad acquisire ed offrire una visione completa della concordabilità o meno dell’arte con la moralità  esigita dalle azioni umane. Ancora dobbiamo imputargli l’errore dell’asserito, assorbente primato in arte della ragione, errore che dobbiamo imputare alla sua poca familiarità colla filosofia scolastica. Amerio riassume quella che egli chiama la “seconda estetica del M.” in questi tre punti: “1) il fine dell’arte è la cognizione del vero; 2)non è la cognizione del vero positivo e storico; 3)è la cognizione del vero morale”.[141]

 E, secondo noi, il discorso “Del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di storia e d’invenzione” (1850) giunge alla conclusione errata di dichiarare incompatibili la unione dell’aggettivo “storico” al sostantivo “romanzo”, per la pretesa impossibilità di riunire, in maniera accettabile alla ragione, vicende che siano in parte vere (cioè redazioni fedeli delle vicende reali) e in parte solo verosimili (cioè solo contestualmente possibili, ma di fatto inventate dall’autore) proprio per quest’ultimo abbaglio: aver riposto nella razionalità e non nell’emotività l’essenza dell’operazione e del prodotto artistico.[142]  Difatti il Manzoni si pone davanti a due obiezioni che, nella loro contradditorietà, convengono in una conclusione: “Alcuni si lamentano che in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d’un romanzo storico, il vero positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a mancare uno degli effetti principalissimi d’un tal componimento, come è quello di dare una rappresentazione vera della storia”; “Ci sono però... degli altri, che vorrebbero tutt’il contrario. Si lamentano... che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d’un romanzo storico, l’autore distingua espressamente il vero positivo dal’invenzione: la qual cosa, dicono, distrugge quell’unità che è la condizione vitale di questo, come di ogni altro lavoro dell’arte”.  La conclusione è questa: “hanno ragione e gli uni nel volere che la realtà storica sia sempre rappresentata come tale, e gli altri, nel volere che un racconto produca assentimenti omogenei; ma... hanno torto e gli uni e gli altri, nel volere e questo e quel’effetto dal romanzo storico, mentre il primo è l’incompatibile con la sua forma, che è la narrativa; il secondo co’ suoi materiali, che sono eterogenei. Chiedono cose giuste, cose indispensabili; ma le chiedono a chi non le può dare. Ma se fosse così, ci si dirà, sarebbe in ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso. Questa è appunto la nostra tesi.”

La nostra risposta al Manzoni è duplice. Anzitutto, il suo rifiuto della possibilità di scrivere un ronanzo storico sarebbe dimostrato, solo se il fruitore di arte cercasse la verità nelle opere letterarie. Come si è già detto, la verità dell’arte letteraria, in versi o in prosa, è quella stessa dell’arte musicale e figurativa o teatrale: è essenzialmente la capacità, solo razionale, di vedere il collegamento della emozione con un mezzo espressivo che, a sua volta, può essere  intrinsecamente spirituale (umano: la parola, il giudizio,  il ragionamento, il verso, la figura, la melodia o successione piacevole di suoni) o può essere una forma manifestativa condivisa con gli animali (non spirituale, non umana, ma semplicemnete “anche dell’uomo”: mimica, singoli suoni nel grido).  Quando egli perciò si domanda: “Come farà un uomo a rappresentare bene un grand’avvenimento, travisandolo?”, noi gli rispondiamo: -come han fatto Dante e Manzoni, per tacere di altri grandi scrittori che, avendo più o meno consapevolmente cercato di esprimere, attraverso la verità o la invenzione, lo stato emotivo del loro animo, hanno messo al centro della attenzione del lettore-spettatore non la ricerca della verità, ma la fruizione o godimento dellla commozione, cioè la mozione degli affetti. Se l’opera letteraria è riuscita, la verità del contenuto viene emarginata istintivamente dal fruitore, non solo nelle opere dove la fantasia inventiva prevale, giungendo addirittura a prescindere dalla regola della verosimiglianza, ma anche nei poemi, tragedie, commedie, drammi, romanzi ove storia e invenzione si mescolano arbitrariamente.

La seconda risposta sta nella mancanza di validità delle prove addotte dal Manzoni per provare la incompatibilità, in un’unica opera letteraria, fra vero storiografico e invenzione gratuita. La prima prova a mancare di verità (a nostro parere) è la pretesa incredibile che l’autore della Iliade e dell’Odissea  (riferendosi soprattutto, ma non unicamente, alla mitologia ed all’intervento degli dei nelle vicende di Troia e di Itaca) non fosse cosciente di inventare una favola, ma ritenesse di scrivere la storia secondo verità: “L’epopea primitiva e, dirò così, spontanea, non fu altro che storia”.

La seconda prova che fa evidente cilecca, è la chiamata in causa del poeta che egli ritiene il maggiore di tutti: Virgilio. Manzoni lo esalta talmente, che dimentica come la chiamata in causa del poeta mantovano dovrebbe servire a dimostrare la via per cui egli, nell’Eneide, riesce a metter d’accordo dati fantastici (nei quali Virgilio non credeva più: la vicenda di Troia quale egli supponeva o continuava da Omeroe i dati storici delal storia di Roma, previsti nelle maledizioni di Didone (c. IV), nelle predizioni di Anchise (c. VI) e nelle raffigurazioni sullo scudo vulcanico (c. VIII). La risposta è una sola: “Invenzioni nove (sic!) o vecchie, poco importa, quando sono passate per le mani di Virgilio. Perchè quale virtù di stile poetico si può immaginare maggiore della sua?[143] Chi più di lui trovò in una contemplazione animata e serena, nell’intuito ora rapido, ora paziente (appunto perchè vivo) delle cose da descriversi, nel sentimento effettivo degli affetti ideati, il bisogno e il mezzo di nove e vere e pellegrine espressioni?”. Tutti elogi condivisibili e acutamente ragionati, ma “quid ad rem?”. Noi stiamo aspettando che Manzoni ci fornisca il segreto del successo del “romanzo in versi”[144] che è l’Eneide, nonostante che mescoli fatti veri e miti inventati; e, invece, Manzoni ci offre un elogio delle doti sublimi del suo autore. Anzi, ne ricava una definizione della poesia che, finalmente, puntando più sulla componente emozionale che su quella razionale, inconsapevolmente lo rivela persuaso che lì, nella genialità dell’artista[145] e nel primato del “sentimento effettivo degli affetti ideati” sta il segreto per obliare ogni distinzione tra accaduto ed inventato, fra storiografico e fantastico e per sublimarli entrambi nell’ “happening” di quell’avvenimento universale ed eterno  che è l’espressione razionale dell’emotività, cui entrambi quei dati sono subordinati come mezzi espressivi e, per ciò stesso, secondari e disattesi dal fruitore nella loro formalità (realtà storica| invenzione fabulosa). [146]

Nelle pagine 251-55, Amerio costruisce poi gli agganci fra la dottrina estetica del Manzoni e la sua dottrina religiosa. In entrambe  sorprende il manzoni che cerca la verità anzitutto e soprattutto, che  vede, dunque, signoreggiare la verità anche nel fenomeno artistico, dove sarebbe regina non la verità del reale storico, ma quella dell’ideale morale, poichè questa sola può condurre l’artista alla perfezione nell’esprimere una idea (o serie di idee) che soddisfacendo pienamente la natura umana, solo possono dare quel riposo o quel diletto che l’uomo ricerca alal espressione artistica.[147] Egli vede allora la necessità della visione cristiana della vita e del cosmo perchè solo nella rivelazione cristiana l’uomo trova una interpretaziolne delle vicende personali e storiche che permettono all’uomo di ritrovarsi di fronte a qualunque avvenimento nella disposizione morale della serenità e della soddisfazione, che sono le radici di ogni espressione artistica definitiva, perfetta. Il lume della religione permette ed accresce il senso morale della vita e della storia; questo permette ed accresce la interpretazione artistica delle vicende dei singoli e dell’umanità tutta. Anche chi, però, ha una gran voglia di aderire alla ipotesi manzoniana-ameriana, deve tener conto di una legge psicologica che san Bernardo ha espresso acutamente nell’effato “Nemo rpente fit pessimus”. Siccome nessuno diventa pessimo di colpo, capita che rimangano (e non solo nella prima generazione postcristiana, ormai lontana dal credo e dal decalogo) tante scintille di verità e di bene, che si riflettono anche nella capacità di produrre una quantità di sufficiente o discreta, di buona o distinta e persino di sublime letteratura E così “I Sepolcri”del Foscolo rischiano di tener testa a I promessi sposi di Manzoni, mentre i versi malinconici del Leopardi, quelli esultanti del Carducci e quelli delusi del Pascoli superano la pur buona poesia del Petrarca, del Parini e del Tasso: credenti, questi ultimi; miscredenti, i primi. Vogliamo dire che il Manzoni può sedurre, alla sua concezione estetica ultima, il filosofo professor Romano Amerio e gli animi di quei credenti, che sono più attenti alla filosofia delle cose che alla psicologia degli umani, ma non può pretendere di persuadere i non credenti o quei credenti (e fra questi ci siamo anche noi) che ripongono l’elemento distintivo dell’arte nel sentimento e non nella ragione e che, per conseguenza, vedono possibilità di poesia anche per i gli atei, gli immorali e gli amorali. Almeno  a breve termine.[148]

        CONCLUSIONE.

Per confutare amichevolmente le idee di Victor Cousin sulla evoluzione dello spirito umano,[149] Manzoni scrisse una lettera-trattato, nel cui inizio si scusa dell’essere lui un dilettante, e non più, di filosofia: “vous savez que je suis un élève de rhétorique qui ai écouté, quelque fois et en passant, à la porte de la salle de philosophie”.

Ne avesse avuto l’umanità di simili dilettanti della riflessione e della ricerca filosofica!

E’ vero: egli possedeva una potenza emotiva lievemente, ma pur superiore alla sua facoltà intellettuale, per cui la “riserva di caccia” a misura della sua intelligenza era quella antropologica, umanistica, psicologica e morale, mentre l’indagine sull’essere universale (metafisica od ontologia), sulla cosmologia (natura dell’essere esteriore, materiale) e sul loro legame con Dio (teodicea) erano meno accessibili alla sua ricerca.

 Dotato di una maggiore capacità analitica che sintetica, avrebbe rischiato di rimanere il critico acuto di errori altrui e lo scopritore di nuovi argomenti, soprattutto su base psicologica, in favore di singole dottrine prese in esame, piuttosto che il costruttore di una spazzante interpretazione della realtà tutta: egli era nato per essere lo  scopritore di prove geniali per la soluzione di singoli problemi, più che per riuscire il costruttore  di un sistema organico per la interpretazione della realtà tutta.

E lo stesso sopravvento dell’analisi sulla sintesi, avrebbe potuto portarlo  ad altri delitti intellettuali, come la l’esilio decretato al “romanzo storico”, conclusione impensabile per un genio che aveva scritto il romanzo non solo più sublime del suo secolo e della letteratura italiana, ma probabilmente di tutta la storia e l’attività prosastica dell’umanità.

Altra questione, che si riflette sulla potenza della mente a scorgere tutte le applicazioni dei propri princìpi, rimane quella della coerenza pratica. Di qui l’appoggio (a costo di approvare la violenza risorgimentale, altrimenti esorcizzata anche in caso di legittima difesa!) alla lotta per la libertà dallo straniero (che pur meglio favoriva la vita morale dei cittadini, anche con la censura) e per quella democrazia “piemontese”, che egli aveva esperienza essere dissacratrice dei valori evangelici. Probabilmente, il Manzoni pensava alla devianza dalla fede e dalla vita morale nei termini “moderati”, da gentiluomini, quali aveva sperimentato fra gli ideologi e sotto la dittatura napoleonica, quando erano impensabili una pratica divorzistica di proporzioni tali da scardinare la famiglia a livello nazionale; una impudenza dell’erotismo, tale da scardinare ogni altra virtù con quella della castità; una aggressività antireligiosa, che sarebbe sfociata nei provvedimenti persecutori dei due “Jules” (Ferry e Grévy) in Francia, nella persecuzione cruenta nel Messico e, soprattutto, nell’ateismo militante nei paesi sotto i regimi sovietici. Ma quell’uomo così imprudente nella propria vita pratica, da rimetterci la propria indipendenza economica e cadere nelle mani degli usurai per la stampa di un libro, da cui altri avrebbe ricavato guadagni sicuri per generazioni a venire, che garanzia poteva offrire per una attitudine di fronte a questioni pratiche così complesse come quelle della vita associata, della vita politica? Egli era, nella vita pratica personale o nazionale, il tipico cattedratico di economia che, messo a dirigere un’azienda, la conduce al fallimento. Per eccesso di calcoli e previsioni: puntualmente fallimentari.

D’accordo. Ma vi è pur il superamento praticamente completo dei germi giansenistici inseriti in lui dal Degola, che danno la misura di una intelligenza non solo acuta, ma profonda, cioè capace (sia pure con qualche lentezza e ritardo) di abbracciare tutte le componenti di una questione (interpretazione del Nuovo Testamento sui rapporti fra l’uomo e Dio) e condurle ad una soluzione armoniosa e coerente, quale è quella cattolica. Gli errori in materia estetica dipendono  certo anche dall’insufficiente sviluppo delle scienze neurologiche; là dove il campo era libero alla introspezione psicologica, come appunto nel problema dei rapporti fra onnipotenza di Dio e libertà umana, ha saputo assurgere dalle degoliane deviazioni nel giansenismo ad una chiarificazione intellettuale sempre più  coerente, praticamente del tutto cattolica.

Vi è ancora la sua dottrina sulla vita politica, così ragionata e realistica, da sembrano davvero definitivamente esatta nelle idee, tranne che in un particolare:  come imporre ad un regime democratico il limite delle proprie competenze ed autorità alle sole questioni che riguardanno la scelta fra bene e meglio (fra due beni) e costringerlo alla sola scelta del bene, quando viene in discussione una legge che  è invece una scelta del  male, voluta da una maggioranza intellettualmente corrotta?

Vi sono le critiche al razionalismo di Montesqiueu e Descartes, di Voltaire e Condillac, di  Locke e Kant, del Benthan e del Cousin: critiche acute ed insuperabili. 

Vi sono, nelle Osservazioni sulla morale cattolica,  le risposte così adeguate alle accuse del Sismondi, da costringere il loro autore a ridurle dal livello teoretico a quello pratico,  colla arguta ma sofistica immagine dei due spadaccini che combattono nell’oscurità, sicchè Manzoni avrebbe medicato dove lui, Sismondi, non aveva ferito:  “miserabile transazione”, accorgimento  arzigogolato per illudersi di aver ragione, anche quando il critico ti ha mostrato l’errore in modo trasparente.

Vi è infine la critica dell’utilitarismo, così ampia ed esauriente, da risultare la conferma delle esigenze e dei valori morali dell’umanità.

Se si pensa ai sistemi filosofici nati e diffusi nel suo secolo e puntualmente smantellati e derisi nel secolo successivo, ci si domanda quanti uomini della acutezza di pensiero abbia avuto l’umanità nel milleottocento paragonabili al Manzoni. Penso proprio nessuno, neppure l’amico Rosmini . Se, poi, si pensa che egli mancava di vere basi filosofiche  sistematiche e che dovette farsi da sè,  l’ammirazione cresce ulteriormente. Ma riteniamo che simili doti davvero “mostruose” siano state meglio impiegate nelle opere d’arte: una espressione per sè destinata a diffondere emozioni, ma che finisce, attraverso lo strumento delle idee, per comunicare anche persuasioni. E di persuasioni conformi alla filosofia cristiana della vita, I promessi sposi  e le altre opere poetiche sue ne hanno diffuse molto più di quanto il loro autore avrebbe mai potuto fare con opere apologetiche, teologiche o filosofiche. In questo Manzoni è stato decisamente più prudente di mons. Tosi che si lamentava che Alessandro stesse scrivendo un romanzo, dopo aver dato così buiona prova nelle “Osservazioni”. Quando si trattava di scelte fra lavori intellettuali, Manzoni era come don Abbondio quando si trattava di “assicurare la pelle”: non la cedeva a nessuno, sentendo che quella era la missione da cui dipendeva il successo della propria vita qui in terra, la realizzazione della propria personalità, dello scopo per cui Dio lo aveva fatto nascere e dotato di carismi eccezionali, da mettere al servizio dell’umanità .

.

 

 



[1] Va respinta dunque l’accusa di B. Croce sulla mancanza di intelligenza filosofica in Manzoni. Amerio (alle pp. 49-5 del libro che citeremo alla nota 3), dopo aver esposto i quattro motivi per cui il Croce, nel suo volumetto “Alessandro Manzoni” (Bari, Laterza, 1946, pp. 57-70) respingeva il carattere filosofico del ragionare manzoniano, vi risponde con l’Apologia della filosoficità del pensiero manzoniano.” A noi interessano, qui, le ultime due obiezioni crociane, le uniche che abbiano almeno una certa parvenza di fondatezza. Quanto alla prima delle due (l’aver scritto le “Osservazioni” dietro comando del confessore, mons. L. Tosi), Amerio fa notare che il suggerimento del Tosi ci fu sicuramente; che il Manzoni non lo subì, però, passivamente, ma si trovò già predisposto all’opera dalle molte letture apologetiche seguìte alla conversione; che in ogni caso, la mancata iniziativa personale dell’opera non ne mina i risultati personalissimi , come l’ubbidienza di Michelangelo nel dipingere la Sistina (“io non posso negare niente a papa Pagolo: io dipignerò malcontento e farò cose malcontente”) non soffocò per nulla la sua personalità e genialità. Quanto alla seconda (l’aver sottomesso il suo pensiero alla rivelazione, cioè all’autorità, apriori inconfutabile, di Dio), Manzoni dimostra come la logica razionale stessa conduce a provare la esistenza di Dio che si rivela ed al Quale non si può negare l’assenso (L’unione tra fede e ragione è conosciuta dalla ragione”; “La sommissione della ragione è voluta dalla ragione...”: pp. 66-72, nel III volume della edizione delle “Osservazioni”, curate da Romano Amerio, citata in esteso nella nota seguente). Il primato della verità e della logicità nella mente del Manzoni, che documenteremo subito nel testo, sono, d’altronde, già una risposta alla obiezione avventata del Croce, che non aveva mai accostato la parte introduttiva agli studi di dogmatica, quali si svolgevano e si svolgono nei seminari; ed ignorava, perciò, quanta filosofia e razionalità vi era nelle prove per l’accettazione della rivelazione evangelica come divina.

 

[2] A. Manzoni –Osservazioni sulla morale cattolica,  testo critico con introduzione, apparato, commento, appendice di frammenti e indici, accompagnato da uno studio sulle dottrine, a cura di Romano Amerio, Milano-Napoli, Ricciardo Ricciardi editore, 1966. Ecco i titoli dei cinque capitoli dello “Studio delle dottrine”, nel terzo volume di tale opera: c. I: Ragione e religione; c. II: Cognizione e linguaggio; c. III: Teodicea e morale; c. IV: Le dottrine estetiche; c. V: La politica (segue la “Conclusione”).

[3] Vi si esprime la tendenza a far coincidere la verità (storica, nel caso) con quella poetica, per concludere ad una legge universale della psicologia umana: “Quand on raconte une histoire à un enfant, il ne manque jamais de faire cette question: - Cela est-il vrai?- Et ce n’est pas là un gout particulier de l’enfance; le besoin de la vérité est l’unique chose qui puisse nous faire donner de l’importance à tout ce que nous apprenons”.

[4] L’opera non finita Della lingua italiana era quasi pronta per esser edita all’inizio del 1824; venne sintetizzata, poi, nell’incompiuto Sentir Messa (1835-7) e fu  interrotta definitivamente nel 1852, quando  Il Manzoni rifece il primo dei quattro capitoli stesi. Essa comprende varie Appendici, di cui quella sui Traslati (Appendice A) chiude il materiale e, in una lunga nota, introduce l’osservazione riportata nel testo.

[5] Nell’abbozzo della seconda parte alle Osservazioni sulla morale cattolica, edito postumo, è affermato che “Un sentimento non ragionato piacerà per la sua bellezza, ma non resisterà agli argomeni contrari, desunti dal raziocinio,  perchè vi è nell’uomo una forza che lo costringe a discredere ed abbandonare tutto ciò che è falso” (c. III). Nell’abbozzo della lettera al Cousin, si costringe l’amico (che sosteneva essere la religione la intuizione ingenua della verità, di cui la filosofia era la forma riflessa, che alla religione doveva conservare, però, sommo rispetto, essendo uguali i loro contenuti, pur differendo le “forme”) a riconoscersi nella contraddizione: “Ou la réflexion peut trouver ce qu’elle cherche, c’est-à-dire quelque chose qui ne vienne pas de nous, des vérités, et alors on doit pouvoir se croire, à l’égard de ce résultat tout ce qu’on peut se croire à l’égard des vérités que la raison nous découvre dans l’intuition spontanée. Ou la réflexion, parce qu’elle est toute personnelle, ne peut rien obténir d’impersonnel, c’est-à-dire, ne peut découvrir aucune vérité; et alors, que devient la philosophie, qui est la réflexion?”. Nella lettera a Claude Pierre Chalammel (22 ottobre 1834), che intendeva tradurre in francese le “Osservazioni” ma segnalava un errore in un piccolo particolare storico, incerto se correggerlo o tralasciare il passo, Manzoni rispondeva non solo scegliendo di farsi correggere, ma  pregando l’abate di segnalargli eventualmente altri errori. Manzoni non esitava a “perdere la faccia”, pur di salvare la verità.

[6]  Non ci impegniamo in una distinzione delle tre componenti fondamentali della fede religiosa (religione naturale| cristiana| cattolica), perchè dimostrando, contro il sospetto di permanente giansenismo, la sostanziale cattolicità del pensiero manzoniano (accettazione della socialità della vita religiosa, con l’autorità ed infalliiblità del papa e dei vescovi uniti a lui, con i sacranenti ed il sacerdozio voluto da Cristo, con il potere-dovere dei redenti a collaborare alla conversione e salvezza dei non credenti e dei pagani), restano automaticamente confermate le dimensioni pregresse della fede in Dio e nella immortalità dell’anima (religione naturale), nel peccato originale e redenzione di Cristo (religione cristiana).

[7] Cfr. le lettere del 14 settembre 1806; del 17 gennaio 1828; del 4 febbraio 1828.

[8] Ib. pp. 57-8 e p. 65. Una maniera simile di interpretare il cristianesimo è tipica del liberalismo e l’Amerio ricorda che tale interpretazione accomodante era già presente in scrittori (pre)romantici, come il Rousseau e Madame de Stael (p. 85); e sarà, poi, propria di B. Croce, che  vi darà espressione nel suo famoso articolo “Perchè non possiamo non dirci cristiani” (1943), la cui dottrina l’Amerio critica in nota nella stessa pagina.

[9] Ib. p. 65.

[10] Ib. pp. 63; 65-6

[11] Nelle parole di Voltaire, Dictionnaire philosophique, art. Vertu: “Ou ce que tu crois te semble vrai, et en ce cas il n’y a du mérite à le croire; ou il te semble faux, et alors il est impossible que tu croyes”.

[12] Abbiamo riassunto le pp. 72-75 del solito volume di Amerio, “Lo studio delle dottrine” del Manzoni.

[13] Ib. pp. 75-83; nel vol. I, Introduzione, p. LXVI; vol. II, p.272, § 21.

[13] Queste due prime proposizioni equivalgono al pensiero di Lutero: l’uomo storico, segnato cioè dal peccato originale, o è schiavo della concupiscenza o è schiavo della Grazia. Non è libero interiormente

[13] Vedi in Denzinger-Schoenmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum  de rebus fidei et moribus, Barcellona, Herder, 1973, nn. 2001-7. Altre  32 proposizioni vennero cesurate da papa Alessandro VIII, nel 1690, attraverso un decreto del S. Ufficio (Denz. Sch., cit., nn. 2301-2332); infine altre 101 proposizioni vennero condannate da papa Clemente XI, nella Costituzione “Unigenitus Dei Filius”, del’8 settembre 1713: si trattava di affermazioni prese dall’opera di Pascasio Quesnel (1634-1719) “Le nouveau Testament en français  avec des réflections morales sur chaque verset” (1692). Il Quesnel era succeduto a Antonio Arnauld come capo riconosciuto dei Gianenisti ed il suo libro divenne la nuova bibbia della eresia. Il libro, come vedremo, era nela libreria del Manzoni a Milano, in via del Morone. Dalle dottrine di Giansenio vengono dedotti dei corollari nuovi: il timore deve prevalere sull’amore, che è dono raro e riservato a pochi; occorre accostarsi di rado ai Sacramenti, per il timore di sciuparne la Grazia; nell’incertezza della legge morale, essendo costretti ad agire senza potersi altrimenti chiarire la coscienza, occorre scegliere il comportamento più probabilmente conforme alla morale (“probabiliorismo o rigorismo”); si irnnova l’eresia millenarista, secondo cui vi sarà un periodo di un millennio di santità prima della fine del mondo, col centro del cristianesimo non più situato a Roma, ma a Gerusalemme (interpretazione letterale di Apocalisse 20, 4, che non ha mai trovato accoglienza nella Chiesa: cfr. Denz. Sch. 3839: tale sogno millenario nasce presuntivamente dal pessimismo radicale di questi cristiani, nauseati dalla corruzione della società cristiana al loro tempo).

[13] Si legga questa proposizione di Pascasio Quesnel, condannata con la citata Costituzione “Unigeniti Dei Filius”: “Quid aliud remanet animae, quae Deum atque ipsius gratiam amisit, nisi peccatum et peccati consecutiones, superba paupertas et segnis indigentia, hoc est generalis impotentia ad laborem, ad orationem et ad omne opus bonum?” Si veda Denz. Schoenmetzer, n. 2041. Una domanda compassionevole è la forma; la impotenza radicale dell’uomo senza la grazia a qualunque opera di bene è la cruda dottrina, contraria alla esperienza (anche i peccatori compiono opere buone), alla stessa sacra Scrittura (dal primo annuncio di Gesù: “Convertitevi e credete al Vangelo”  nel primo capitolo di san Marco, all’ammonimento di Pietro ai neoconvertiti dopo la Pentecoste: “Pentitevi” (Atti, 2,38),ai due elenchi di peccatori esclusi dalla salvezza in san Paolo (Romani, 12; 1 Corinzi, 12).

 

 

 

 

[17] Il Ruffini, nel § VIII della Conclusione della sua opera, descrive l’atteggiamento dei cattolici come prevenuto in materia: “Io ho sempre compreso, e tuttavia comprendo, la trepida cura di tanti zelanti Cattolici, ecclesiastici e laici, e il loro sforzo affannoso per guadagnare ed assicurare il Manzoni una volta per sempre e tutto intiero alla loro fede, quasi che ne andasse della salute eterna di quella grande anima, o magari della salute eterna di chi ora si occupa di lui”. Una scrittura che rivela atteggiamento da gentiluomo (“Cattolici” con la maiuscola!), ma non da galantuomo.

[18] Amerio, vol.  III, 356. 

[19] Vedine raccolte la più parte dallo stesso Amerio nel III volume, p. 148. Vi premettiamo quella del c. III nelle stesse “Osservazioni” (edizione Amerio, p. 75).

[20] Amerio, II, p. 75.

[21] La frase in corsivo è di S. Paolo, nella prima lettera ai Corizi, c. 4, versetto 7.

[22] Amerio, II, p. 299 (“Osservazioni”, ediz. 1855, c. XVII: “Sulla modestia e sull’umiltà”).

[23] Amerio, ibidem.

[24] Amerio, II, pp. 301-2 (stesso capitolo). 

[25] Amerio, II, p. 309 (stesso capitolo).

[26] Amerio, II, p. 484 (“Osservazioni”, seconda parte, progettata e in parte scritta, ma non pubblicata dal Manzoni, c. III). Il mutamento di stile, che passa dalla forma implicita infinitiva  (“andare a Dio...”) alla forma esplicita della frase soggettiva (“che la sola cosa necessaria è di salvare l’anima sua, che  dobbiamo renderci conformi alla immagine di Gesù Cristo; che non possiamo fare alcun bene...”) è nel testo stesso di Manzoni, un testo non rivisto per la stampa e, quindi, lasciato  sintatticamente scorretto.

[27] A. M. “Lettere”, ne “I classici Mondadori”, Milano, 1970, vol. I, p. 120.

[28] Amerio, III, pp. 148-9, nota 8.

[29] A dir il vero, l’ammirazione per il Grégoire solo indirettamente ha da vedere col Giansenismo; pure, anch’egli sosteneva la disarticolazioen fra potere civile e missione ecclesiastica, sicchè in questo conveniva con le idee del movimento. Ecco i passi che nella lettera sono consecutivi l’uno all’altro: “Dopo la prima lettera di Enrichetta non abbiamo più visto Grégoire; siamo stati qualche volta a casa sua senza trovarlo; e in questo momento non ci sembra bene di disturbarlo, occupato, com’egli dev’essere, dei suoi doveri di deputato e della scandalosa persecuzione che le voci dei suoi nemici fanno alla sua reputazione, ed alla sua quiete. Non so s’Ella sappia che i Gesuiti hanno ottanta case in Francia. Il dolore che un cattolico prova a vedere che il rispetto alla Religione diminuisce di giorno in giorno in una parte così gloriosa ed importante della Chiesa, è tanto più amaro, in quanto molte circostanze potevano fare sperare che la Religione dovesse qui godere non solo di una profonda pace, ma anche aumentare le sue conquiste. Lo spirito feroce o schernevole d’irreligione era se non del tutto svanito almeno ridotto a quasi nulla; una gran parte di quelli che non hanno la felicità della Fede erano disposti non solo a tollerarla, ma a rispettarla come una opinione fondata su un diritto, innocua, utile, bella. Ma a malgrado degli sforzi di alcuni buoni ed illuminati cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la Religione almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno aggiunti (sic) al Simbolo. Quando la fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sperare che egli si dia la pena di distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è l’immaginazione degli uomini? I solitarj di Porto Reale l’hanno fatto, ma erano pochi, erano dotti, erano separati dal mondo, assistiti da quella grazia che non cessavano d’implorare”.

[30] Ecco il brano intero della lettera: “Come mai avete la bontà d’interessarvi alle bazzecole che escono dal mio calamaio? Sapete voi di che genere sia quella intorno a cui sto faticando, come se fosse un affare d’importanza? E’ di quel genere di composizioni, agli autori delle quali, il vostro e mio Nicole regalava, senza cerimonie, il titolo di empoisonneuers publics. Certo io ho posto ogni studio a non meritarlo...” (Le lettere, Mondadori , 1970, a cura di Cesare Arieti, I, n. 218, p.377).

[31] Queste notizie le prendiamo da R.Amerio, Brusuglio, Milano, Centro nazionale di studi manzoniani, s. d. pp. 55-58. Ivi si legge pure che Enrichetta riceveva la S. Comunione solo ogni quindici giorni: “Le pareva orgoglio desiderare, come desiderava, di riceverla più sovente” (pp. 58-9).

[32] Il cervello e l’anima del giansenismo italiano fu Pietro Tamburini (bresciano: 1739-1827): professore alla facoltà teologica di Pavia, promotore del sinodo di Pistoia (1786) tenuto dal vescovo Scipione de’Ricci, sostenne sempre le tesi giansenistiche ed  il giurisdizionalismo  di tipo gallicano. Suo collaboratore fu Giuseppe Zola (1739-1806) bresciano e coetaneo, pure docente all’Ateneo di Pavia. Naturalmente Giuseppe II, Napoleone e il governo austriaco sostennero sempre tali docenti che, pur privi di genialità dimostrativa ed innovativa, finivano per sottoporre l’esercizio dell’autorità di papi e vescovi a quella politica e civile.

[33] La verità, da non negarsi mai interiormente (il “negarela verità conosciuta” fa parte dei peccati controlo Spirito santo, per i quali non esiste remissione...), va detta a coloro che han diritto di saperla: non necessariamemnte a tutti, anche se normalmente è da  supporsi che il prossimo abbia il diritto di conoscerla. Se la monaca di Monza avesse davvero avuto bisogno di Lucia per una missione segreta ed importante presso i frati cappuccini (e Lucia era convinta di ciò), la loquace portinaia poteva essere ingannata, perchè non aveva diritto a curiosare in quella faccenda..

[34] Per la salvezza è necessario  che gli uomini non battezzati credano nella esistenza di Dio e nella vita eterna differenziata in premio e castigo (il che implica anche di credere nella immortalità dell’anima). Questa verità di fede è contenuta nella lettera agli Ebrei, c. 11, v. 6 (“chi infatti s’accosta a Dio deve credere che Egli esiste e che Egli ricompensa coloro che Lo cercano”).

Che gli uomini possano giungere, a tale credenza religiosa minima, anche  solo con la loro intelligenza, è proclamato da san Paolo in Rom. 1, 18-20:  “In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nella ingiustizia, poichè ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute, come la sua eterna potenza  e divinità; essi, dunque, sono inescusabili...” .

Che l’uomo sia rimasto incapace di salvezza senza la Grazia redentiva di Cristo, ma non a tal punto da non potere e dovere cooperare alla propria salvezza (salvezza che da Dio ha inizio ed è condotta a termine, purchè l’uomo non si rifiuti all’azione di Dio in lui, che può e deve corrispondervi volonterosamente), è affermato dal concilio di Trento nei capitoli 5-16 del “Decreto sulla giustificazione”ed è stato definito nei canoni di scomunica annessi, dal numero 4 al n. 9 (Denz. Schoenm., cit., nn. 1525-50; e 1554-59).

Per i battezzati cattolici (almeno per loro), la perdita della fede non può che essere frutto di una colpa grave personale, perchè “Dio non abbandona se non è abbandonato”, lo afferma il Concilio ecumenico Vaticano I (1870) nella Costituzione dogmatica “Dei filius”, c. 3 (Denz.- Schoenm., cit. n. 3014).

[35] “Tutto il bene” e “solo il bene” compiuto dall’uomo può e deve essere attribuito, come Causa ultima al Creatore: il male, infatti, è solamente la sottrazione all’opera umana di un certo grado di essere, è solo opera negativa o sospensione di valore  nell’operare stesso: questo impoverimento dell’opera la può fare l’uomo e non la può produrre Dio, che altrimenti sarebbe complice o causa del male morale, cioè del peccato.

 

[36] In tale distinzione tra la capacità dell’uomo a cooperare positivamente alla onestà delle sue azioni e la semplice facoltà di non opporsi alla azione di Dio che opera in lui il bene (non solo “morale”, ma anche culturale, cioè filosofico, scientifico, artistico, tecnico...) sta la distinzione di pensiero teologico tra le due scuole dette “molinista” (più favorevole all’uomo, più ottimistica ed umanistica: sostenuta soprattutto dai gesuiti, al seguito dell’opera  del loro confratello Ludovico Molina, “Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis”, del 1588) e quella “tomistica o bagneziana” (difesa soprattutto dai domenicani). Si noti che i sostenitori della seconda tesi si chiamano “tomisti” essi stessi, perchè ritengono che la loro posizione sia quella di san Tommaso d’Aquino (il quale, però, non si pose la questione con chiarezza specifica); sono, invece, chiamati “bagneziani” dai molinisti, perchè fu il teologo domenicano Domenico Bagnez a dare una interpretazione così specifica al pensiero di Tommaso, sulla cooperazione fra onnipotenza di Dio e libertà umana, anzitutto nell’agire in quanto morale, ma poi anche alle attività umane tutte (anche tecniche, culturali...).

[37] La cosa parrebbe campata per aria, frutto di mentalità avulsa dalla vita concreta, se non avessimo davanti agli occhi la condizione della società occidentale dopo l’avvento della televisione e le varie vicende di immoralità radicale, a partire almeno dalle manifestazioni violente studentesche del 1968 a Parigi, dall’incontro di Woodstock  negli Stati Uniti del 1969 e della introduzione della libertà di aborto negli stati non musulmani, a partire dagli Stati Uniti nel 1972 (tra quelli cristiani, solo la Irlanda ha perseverato nel rispetto minimo della vita innocente fino ad oggi, 27 aprile 2003).

[38] Il Degola  fu scelto dal conte Giovan Battista Somis, cui Enrichetta si era rivolta perchè nel circolo di Meulan, egli rappresentava l’elemento di fede ferma e dichiarata. Il Degola iniziò le lezioni il 9 aprile e il 22 maggio Enrichetta faceva atto di abiura nella chiesa di Saint-Sévérin, presenti due vescovi, una ventina di altri testimoni, fra cui Giulia ed Alessandro ovviamente (Marino Parenti, Immagini Manzoniane, Firenze, Sansoni, 1973, pp.76-7).

[39] A. M. Lettere, Milano, Mondadori, 1970, III, pp. 565 e 911-2.

[40] Stefano Stampa, A. M. , la sua famiglia, i suoi amici, Milano, Hoepli, 1885, pp. 170-3: “Non si preoccupò null’affatto che si volesse o si potesse cangiare in dogmatica la questione del Potere temporale, perchè la creedeva un’impossibilità teologica. Ma quando si raccolse il Concilio  Vaticano e si mise sul tappeto la questione di render dogmatica la credenza nell’infallibilità del Papa, dapprincipio non era persuaso che vi si potesse riuscire, perchè vi si era rifiutato il Concilio di Trento; e perchè quella sfida, gettata in fronte all’incredulità moderna, coll’aggiungere un Dogma (che richiede una maggior abnegazione della ragione per sottomettervisi) a quella fede già tanto scossa da ogni sorta di assalti, gli pareva gravida di sinistre conseguenze. E quando gli fu riferito che Pio IX aveva detto che questa decisione era inopportuna, ma che era necessaria, fece questa profonda riflessione: “Si discute se è opportuna, se è necessaria, e non si discute prima se è vera. Povero Pio IX! E con ciò non poneva un dubbio sulla verità di questa infallibilità a cui credeva, e che sosteneva. Ma voleva dire che l’ordine della discussione non mostrava quella serena imparzialità, e piena libertà di discussione, tanto necessaria in una decisione di tal natura, e di tanta importanza!... Quando poi la infallibilità fu dichiarata e riconosciuta Dogma, malgrado un certo numero di vescovi dissidenti (e forse i più colti e previdenti) concluse con una straordinaria finezza: -Io credo che da questa decisione, invece di esserne accresciuta l’onnipotenza del Papa, gliene verrà in cambio una giovevole limitazione. Perchè il partito clericale l’aveva portata al punto di esser maggiore di quella di Cristo medesimo: il quale dà dei precetti e dei consigli. Invece il Papa qualunque desiderio avesse mostrato, doveva essere accettato come un precetto; e guai a chi dissentiva da questo desiderio, espresso anche in modo dubitativo... era dichiarato giansenista, scismatico, eretico, e via via. Ora nelle materie non di fede, e che non toccano i costumi, si potrà dissentire liberamente e legalmente anche da una opinione papale, senza esser tacciato d’eresia. – E il suo figliastro scherzando gli diceva: -Caro papà, credo proprio che quella decisione sia stata ispirata da Dio; perchè dopo che il Papa fu dichiarato infallibile, tutte le potenze s’ingelosirono per tanta influenza, e abbandonarono la causa del Potere Temporale, fonte della maggior parte dei mali della Chiesa”.

Anche in Ruggero Bonghi, Opere inedite o rare di A. M., Milano, 1887 è dato trovare testimonianze della fede di M. nella infallibilità del papa. E si veda anche Vittoria Manzoni, Memorie di famiglia, 1910 (riedito in Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, Milano, 1923, vol. I).

[41] Non è detto che tali inevitabili “colpe gravi” siano imputate ad ogni uomo: al di fuori, infatti, della Chiesa cattolica non si ha garantita la “Grazia” sufficiente nè a conoscere tutti i comandamenti  nè ad  evitare ogni colpa grave; non si ha neppure, quindi, la responsabilità|imputabilità di quelle colpe che inconsapevolmente|irresponsabilmente si fanno.  

[42] Si veda il “Limbo” nella “Commedia” di Dante, al c. 4 dell’Inferno.

[43] La frase del Manzoni ricalca quella di sasn Paolo nella lettera ai Filippesi, c. 2, v. 13 (“E’ Dio infatti che genera in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni”). In san Paolo, però, la interpretazione è piana: i cattolici la intendono nel senso di una predestinazione al bene ed alla salvezza, nel senso che Dio vuole tutti salvi, anche se vuole alcuni più santi degli altri. Una lettura non prevenuta non può  rifiutare questa interpretazione, che non esclude nessuno da quella “Grazia sufficiente  (a superare le tentazioni e ad operare il minimo del bene per la salvezza), anche se prevede la concessione ad alcuni di una “Grazia efficace”, che non solo rende possibile, ma garantisce infallibilmente la salvezza e il raggiungimento di quel grado privilegiato di santità, che serve allo stabilirsi e dilatarsi del Regno di Dio sulla terra.In proposito si noti, come diremo più avanti, che è su queste distinzioni che il giansenista Pierre Nicole non ebbe proibito nè posto all’Indice alcun libro, dei molti che scrisse di teologia (e finirà per ricredersi e riconvertirsi al cattolicesimo).

[44] Per il lassismo, in caso di urgenza ad agire ed in mancanza di certezze oggettive circa la legge morale da applicare nella scelta della propria condotta, poteva bastare un motivo  anche di poco peso in favore della scelta più comoda, per ritenersi tranquilli in coscienza. Viceversa, il rigorismo (o probabiliorismo o tuziorismo) esigeva la scelta dell’opera che avesse per sè le maggiori probabilità e, quindi, i maggiori indizi di liceità, anche se la scelta opposta o diversa aveva per sè buoni, fondati, probabili indizi di liceità (probabilismo: difeso dai gesuiti).

[45] Cornelio Giansenio, Augustinus, l.. 1, c. 3); Antoine Arnauld, Première apologie pour Mr. Jansenius, in Oevres complètes, tome XVI, pp. 112-3: noi, però, ricitiamo da Francesco Ruffini, La vita religiosa di A.M., Bari, Laterza, 1931, v.II, p. 349, dove riporta i testi dei due capiscuola.

[46] Le opere del Nicole furono spesso scritte in collaborazione (con l’Arnauld scrisse la “Logique ou art de penser”, più nota come la  “Logica di Port- Royal”;  con C. Lancelot scrisse  la “Grammatica generale e ragionata”, trattato di linguistica di ispirazione cartesiana; a Biagio Pascal fornì documenti fondamentali per le sue “Lettres provinciales”); o furono edite in difesa di opere altrui (delle stesse “Provinciales” del Pascal, che egli tradusse, poi, in latino; delle religiose di Port-Royal; dei  quattro vescovi che accettavano bensì di firmare la condanna di Giansenio, ma solo  se si permetteva loro di distinguere il diritto dal fatto: è notevole il titolo di questa difesa: “Lettres sur l’hérésie imaginaire”); o furono fatte circolare con pseudonimi (compresa l’opera che si ritiene essere la più notevole: “Essai de morale”, in sei volumi, di cui gli ultimi quattro editi postumi). Dopo la pratica accettazione della sua distinzione tra “eresia di diritto” ed “eresia di fatto”, egli si staccò poco a poco dai Giansenisti, rifiutandosi di seguire l’Arnauld in Olanda, quando fu cacciato anche dal Belgio; scrisse opere anticalviniste (in difesa della continuità della fede cattolica sulla Eucaristia) e quel “Systéme de la Grace générale” che, distinguendo fra “grazia sufficiente” (dovuta e concessa a tutti) e grazia “efficace” (non concessa a tutti) apportò un contributo decisivo per eliminare l’eresia della predestinazione al male ed all’inferno (predestinazione negativa), pur salvando la dottrina cattolica della positiva  predestinazione al bene ed al Paradiso. E si riconciliò con la Chiesa (1783) dopo aver inviato all’arcivescovo di Parigi una lettera di completa sottomissione. Egli aveva rinunciato a diventare sacerdote ed a laurearsi in sacra teologia, proprio per la condanna delle cinque proposizioni di Giansenio: rimase un semplice tonsurato (iscritto al clero), a servizio della scienza teologica, all’ombra di Port-Royal fin quando non trovò lui le vie per conciliarsi col pensiero cattolico.

[47] Ecco le parole di Romano Amerio, nell’operetta Busuglio, cit. p. 56: “L’interesse maggiore per lo studioso consisterebbe nello stabilire quale sia l’entità della presenza giansenistica per rispetto alle opere ortodosse; se i libri giansenistici non apaprtengano per caso a un fondo premanzoniano della biblioteca; se siano stati letti dal Manzoni (94) e infine quale efficacia abbia esercitata tale lettura sulla sua formazione dottrinale”. Nella nota (94) si citano le due opere giansenistiche, presenti ma intonse, riportate sopra  nel testo.

[48] Al seguito di R. Amerio, Brusuglio, cit. ,  § 23 (La pratica religiosa), pp. 23-5.

[49] R. Amerio, Brusuglio, cit., pp. 55 e 59, nota (97)

[50] Manzoni non si è accorto che il carpire i segreti dei padroni da parte della servitù era gravemente colpevole in un contesto di malizia aggressiva; era colpevole, ma forse soltanto venialmente, in un contesto di pura curiosità; era addirittura doveroso in un contesto di prudenza difensiva. Il bene assoluto, da non offendere in nessun caso, era la incolumità della legittima fama e patrimonio del prossimo; un bene solo relativo o strumentale era il conoscere delle notizie che potevano condurre a ledere quei beni. Automaticamente, quando quei “beni” erano illegittimi, perchè posseduti od usati contro la legge morale, allora cadeva ogni proibizione di indagarne la consistenza per mettersi in grado di ostacolarne l’abuso .   

 

[51] Il decreto del S. Ufficio del 2 marzo 1679, emanato sotto Innocenzo XI, condanna 65 proposizioni di dottrina morale morale “lassista”; la proposizione che abbiamo cercato di tradurre è leggibile in Denz. Schoen. cit. n.2127.

[52] R. Amerio in A. M. Osservazioni sulla morale cattolica, cit., II, p.  26, nota (1) da p. 24.

[53] Padre Cesari si dimostra poco informato anche su molti aspetti della questione: egli cita il Quesnel e non Jansen; egli cita la recente condanna di Pio VII (Auctorem fidei) e non quelle ben più decisive preecedenti da noi addotte; egli, anzi, non usa mai  il termine giansenismo nella lettera, che è sostituito dall’ “opinione di Quesnel ed dei suoi partigiani”. Per di più, p. Cesari non s’accorge che la prova da lui addotta, decisiva in linea di diritto, in linea di fatto è una tautologia, una petitio principii, un addurre come prova quello che si deve dimostrare. Difatti, siccome la canonizzazione dei santi la fa solo la Chiesa cattolica, l’addurre i santi canonizzati come prova della verità divina che è in lei, è un appellarsi alla fede (da provarsi) della sua istituzione da parte di Dio come prova (razionalmente probante) della sua istituzione da parte di Dio! 

[54] Padre Cesari, veronese, padre della congregazione di S. Filippo Neri (“Oratoriani”), vissuto fra il 1760 ed il 1828, fu  il noto purista di cui si è parlato a proposito del Neoclassicismo. Egli aveva già fatto visita al Manzoni e gli aveva  già scritto nel novembre 1827 (su questioni i lingua) e, poi, ancora, nel febbraio 1828, per congatularsi del primo tomo de   I Promessi Sposi (edizione ventisettana). La indiscrezione, di cui il Cesari si accusa presso il Manzoni, nasce dalla coscienza che sta prendendosi una confidenza, che sarebbe pienamente giustificata solo se egli fosse pervenuto ad un grado di amicizia più piena nei suoi rapporti con lo scrittore. La risposta del Manzoni alla sua lettera della fine di agosto 1828 (data più probabile), sappiamo dai confratelli che era molto attesa da padre Cesari, ma arrivò a Verona poche ore dopo che egli era partito per un viaggio che doveva portarlo sino a Ravenna, dove si ammalò e morì il primo ottobre dello stesso 1828. Egli, dunque, non potè leggerla: per un minimo disguido nel tempo. E’ lecito vedere in questo contrattempo un lavoro sottile e quasi divertito della Provvidenza, che, da una parte, diede a p. Cesari il coraggio e l’ultimo scorcio di vita, onde porre la domanda fatidica al Manzoni; e, dall’altra, gli negò la gioia di leggerne la risposta consolante, perchè egli era stato solo strumento di un gioco ben più importante e universale che l’appagamento del suo scrupolo di provvedere alla salvezza di un’anima già al sicuro, aver cioè procurato la certezza dell’estraneità del Manzoni alle dottrine del giansenismo?  Nè si adduca che il Manzoni si rifiutò di partecipare ad uno scritto commemorativo ed elogiativo del Cesari: le parole che egli adduce (scrivendo al Rosmini nell’aprile del 1830) per giustificarsi sono troppo sagge perchè non siano sincere: “Io penso certo un gran bene di questo illustre ed utilissimo Scrittore; ma questo bene non lo potrei spiegare, non lo potrei pure accennare, se non dicendo tutto ciò che penso di lui, cioè mischiando ad alte e sincere lodi, critiche essenziali. Parlare del P(adre) Cesari senza parlare della lingua, sarebbe cosa troppo strana: e, in punto di lingua, a me pare ch’egli... combatta sistemi falsi e pratiche in gran parte e nel principio viziose, fondandosi però anch’egli su un sistema arbitrario...”

[55] Che F. Ruffini si appigli al fatto che Manzoni non nega esplicitamente di essere giansenista, fa, dunque, stupore: p. Cesari non aveva posto una simile questione. Ma che il giansenismo affermato ancora nei primi decenni del secolo XIX fosse legato più dirattamente ai libri del Quesnel che all’opera originaria dello Jansen, è cosa scontata: negando tale riferimento, Manzoni nega ogni legame con l’unica forma di  giansenismo ancora in questione.

[56] Pur scontando la espressione per le preoccupazioe dettate dagli eccessi di umiltà, così soliti in Manzoni, resta significativa, nello stesso senso delle proteste fatte al Cesari sulla propria fede nella Chiesa e timore di non esservi sintonizzato adeguatamente, questa espressione di una lettera al Rosmini dell’aprile 1854 “Quante volte mi sono rammaricato di non aver potuto fare quest’aggiunte a Lesa, in vicinanza di così utili consigli (del Rosmini stesso). Privato di questi, non mi rimane che la speranza di non ci aver messi de’ spropositi contro il catechismo”. Si trattava delle “Osservazioni” nella edizione 1855, che uscì in realtà in fascicoli nella collana “Opere varie”: il settimo, inviato al Rosmini con questa lettera, giungeva sino a metà del c. XI; l’ottavo  delle “Opere varie”,  ultimava l’opera, comprendendo anche la appendica al c. III sull’Utilitarismo.

[57] Il piccolo “decalogo” era lo stesso che il Degola aveva preparato nel 1805 a Magonza per Anna de Kalb Geymueller, la convertita che fu presente alla abiura di Enrichetta. Le notizie le troviamo in Marino Parenti, Immagini manzoniane, Firenze, Sansoni, 1973, p. 80.

[58] Francesco Ruffini, La vira religiosa di A. M., Bari, 1931, I, Introduzione.

[59]  Id., II, pp. 201-10.

[60] Nel c. IV, trattando della casistica, cioè della parte della scienza morale che cerca di trovare la legge risultante dall’incontro fra varie ed eventualmente costrastanti leggi, Manzoni scrive molto cautamente, distinguendo fra le soluzioni di singoli casisti –eventualmente lassisti- dalla dottrina morale della Chiesa.

[61]  Nelle Osservazioni sulla morale cattolica, c. VII “Degli odii religiosi” si legge, a proposito della universalità della predestinazione degli uomini alla salvezza:  “E’ cosa giusta il detestar l’errore? Sì, certo: e non c’era nemmeno bisogno di prove. E’ cosa giusta l’amare gli erranti? Sì, ancora; e per le ragioni stesse per cui è giusto d’amar tutti gli uomini: per cui Dio, da cui teniamo tutto, da cui speriamo tutto, Dio a cui dobbiamo tutto dirigere, gli ha amati fino a dare per essi il suo Unigenito; perchè è cosa orribile il non amare quelli che Dio ha predestinati alla sua gloria; e è un giudizio della più rea e stolta temerità l’affermare d’alcun uomo vivente, che non lo sia, l’escluderne uno solo dalla speranza nelle ricchezze della misericordia di Dio...”. Questa parola “temerità” (e non “errore”) non fa di Manzoni un giansenista, ma un “tomista-bagneziano”, piuttosto che un “molinista”. La differenza tra le due scuole cattoliche di interpretazione dell’azione (onnipotente) di Dio e della collaborazione (necessaria) umana per l’azione morale e la salvezza eterna è spiegata da R. Amerio nella sua lunga nota a questo passo, in Osservazioni sulla morale cattolica, cit. II, pp. 120-1, nota (5).

[62] Amerio, III, p. 59.

[63] Id. pp. 59-61. Nella nota 4 di p. 61, Amerio nota come, dalla necessaria partecipazione della ragione all’approdo alla fede, nasce il rifiuto del Manzoni alla posizione di “quei pensatori cattolici suoi contemporanei che, credendo di trasportare i princìpi della certezza in una sfera esente da controvertibilità e così espugnare ogni pirronismo, la facevano tutta dipendere dall’autorità del genere umano, fondata sopra uan rivelazione primitiva. Tali sono il Lamennais e il Bautain”.

[64] Amerio, III, p 61.

[65] Ib., pp. 138-9. Qui ci siamo affidati alla panoramica dell’Amerio; più avanti, a proposito della gnoseologia manzoniana, citeremo il testo manzoniano delle “Osservazioni” da cui Amerio trae la sua sintesi. Su altri due contrasti fra pensiero manzoniano e pensiero giansenistico, bastino delle citazioni qui, in nota. A p. 173 del solito III volume, egli inizia il paragrafo intitolato L’aporia del giusto sofferente risolta dal Cristianesimo: “ E qui conviene osservare che, seguendo anche nel presente punto l’esatto sentimento cattolico, il M. si trova in posizione antigiansenistica, giacchè è proposizione condannata nel Quesnel che “numquam Deus affligit innocentes” e condannata in Baio che “omnes omnino iustorum afflictiones sunt ultiones peccatorum ipsorum”..... la teodicea ortodossa... non ha mai ravvisato nel dolore inflitto alla creatura un effetto di inflessibile giustizia, ma un arcano più sublime e delicato, onde scaturisce per la creatura una squisita eccellenza morale ed eudemonologica”.

E nel magnifico paragrafo 37 (ed ultimo) del capitolo “Teodicea e  morale” (cccupa le pagine 217-24), Amerio rivela come il Manzoni davvero raggiunge il Superamento dell’utilitarismo nella morale religiosa, in quanto mostra come il premio è nient’altro che il completamento e la conseguenza intrinseca della vita giusta; non un coronamento dal di fuori e una mercede d’altro genere, ma semplicemente lo sbocciare della moralità nella sua integralità, che comprende anche la felicità: “Il M. ha superato tale distinzione (fra innocenza di vita terrena e premio di gloria paradisiaca)  e il superamento, sotto la specie eudemonologica, proviene ancora dall’integralismo morale, poichè tanto in via quanto in patria il compito dell’uomo è la moralità e il godimento non è una ridondanza di questa, ma la moralità stessa nello stato glorioso. La beatitudine è saturazione di giustizia: beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perchè saranno satollati, che è quanto dire: perchè saranno eternamente giustissimi” . E nella nota 3, a p.221, Amerio osserva: “La dottrina del M. svolta in questo paragrafo... è apertamente antigiansenistica. Tra le proposizioni dannate il 7 dicembre 1660 come Errores Jansenistarum, la decimaterza è di questo tenore: “Quisquis etiam aeternae mercede intuitu Deo famulatur, caritate si caruerit,. vitio non caret, quoties intuitu licet beatitudinis operatur” (Denzinger, 1302). Contro tal proposizione che ritiene viziata di utilitarismo la mira dell’amor di Dio se le si accompagna la mira dell’eterna mercede, il M. mostra al contrario che quella viziatura non si verifica, perchè amar Dio come betaitudine è amarlo come identicamente perfezione, è aver piacere della perfezione”.

[66] La lettera a Edmond de Cazalès (29 febbraio 1832), congratulandosi con i redattori della Revue Européenne per la intelligente e positiva presentazione della verità religiosa, usava queste espressioni che sono ovviamente cattoliche, in quanto esprimonmo riconoscenza soprattutto a Dio che ha suscitato uomini di quel livello di fede e di sapienza, ma anche a questi stessi uomini che vi hanno corrisposto: “Grace à eux, grace surtout a Celui qui les a suscités, et qui voudra bien, je l’espère, les soutenir et multiplier...”. Manzoni accetta d’istinto la collaboirazione fra le residue potenze dell’uomo, ricevute per la sola creazione, e il supplemento di aiuto (“Grazia”) che deve giungere a lui dalla Redenzione, in seguito alla colpa originale, per capire-esprimere adeguatamente le cose di religione e morale.

[67] Vedi in A. M. Opere, edizione nazionale Brabi-Ghisalberti, Milano, Casa del Manzoni, III, 675, 2. Ricitiamo, però, da  Amerio, III, pp. 343-4, da dove veniamo a sapere anche che “Qui il M. dissente dal Rosmini”. 

[68] Amerio, III, pp. 334-5.

[69] Id. p.336.

[70] Ib. pp. 340-1. L’appendice all’enciclica “Quanta cura” è il Sillabo (8 dicembre 1864). Manzoni ed i liberali cattolici non tennero conto della funzione fondamentale del potere temporale lungo i secoli: aver garantito la indipendenza del magistero e dell’autorità pastorale della Chiesa. Difatti là dove tale potere era mancato, sia la Chiesa ortodossa che l’Anglicanesimo e le comunità luterane caddero sotto il dominio del potere civile, perdendo libertà nella elezione di vescovi, nel determinare i testi di preghiera (nel 1927 il parlamento inglese bocciava la proposta dei vescovi anglicani di aggiornare la lingua del Prayer book o messale anglicano), nel controllo dello stesso insegnamento teologico dalle cattedre universitarie (quando, con Napoleone, gli Hohenzollern abbandonarono al loro destino l’insegnamento della teologia dalle cattedre protestantiche, si giunse ad abbandonare l’insegnamento della divinità di Cristo e del dogma trinitario: specializzata in tali negazioni fu l’università di Tubinga, dove qualche docente giunse a negare persino la esistenza di Cristo!  

La perdita del potere temporale fu compensata, con tempestività sorprendente, dal dogma della infallibilità pontificia: un fattore di unità fra i cattolici e di autorità per il papa per sè superiore allo stesso potere temporale, ma non realizzabile (per motivi più facilmente intuibili che razionalizzabili) prima del Conmcilio vaticano I, nel 1870. In quello stesso Concilio, alcuni particolari risultarono umanamente paradossali  ed imprevedibili, anzi pressochè inspiegabili senza un intervento soprannaturale (“La c’è la Provvidenza!”): il concilio si radunò in un momento teoricamente “pacifico” per l’Europa; ebbe a stento il tempo di definire due verità (la conciliabilità fra scienza e fede; la infallibilità del papa), per poi essere disperso dalla malignità di Bismarck e dall’orgoglio del parlamento francese: quello aveva trovato nella deformazione del telegramma di Ems un pungolo, adeguato  alla stolida permalosità francese, per farsi dichiarare guerra, rendendo impossibile la permanenza a Roma del presidio che Napoleone III aveva inviato a difesa di quanto rimaneva dello stato pontificio.

[71] La condanna del Manzoni contro il  “latrocinio” dello Stato italiano ai danni del potere temporale del papa, Amerio lo riprende dalla più volte citata opera del Ruffini, che a sua volta la segnala come ripresa dal Dossi (del quale non vien segnalato il nome proprio). 

 

[72] Vincente è stata la ipotesi che una rispettosa separazione tra Chiesa e Stato potesse rivelarsi un modo non contrario all’opera di evangelizzazione della Chiesa stessa (anche se meno agevole): si veda negli Stati Uniti.

Ancora: non pochi sono stati i frutti di purificazione del mondo ecclesiastico conseguìti alla perdita del potere temporale, anche se si deve dire che i corollari negativi di quello istituto (stile mondanamente principesco cui era tentato l’alto clero) non fossero necessariamente legati ad esso, visto che erano pur sempre un abuso degli utenti, abuso che, oltre tutto, non sempre si verificò.

Ingenuità di un cristiano troppo lontano dalle concrete condizioni della Chiesa nel mondo intero è invece il ritenere decisamente superiore la separzione piuttosto che la collaborazione fra Stato e Chiesa (concordati);  il pensare che il papa potesse essere un vescovo con sede fuori Roma (visto che i vescovi sono successori degli apostoli e la sede ultima di Pietro, il capo degli apostoli, fu Roma appunto); l’appoggio dato al Risorgimento rivoltoso e militarmente aggressore in genere, compresa la occupazione dei territori dello stato pontificio, come mezzo per fare l’unità d’Italia (quest’ultimo punto è particolarmente incongruo nel Manzoni, che aborrisce dal paganesimo proprio anche per la sua bellicosità e violenza.: vedi, per la documentazione, in Amerio, III, le voci “Paganesimo” e “Odii  nazionali, ” nell’ Indice delle materie).

[73] A.M. Osservazioni sulla morale cattolica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, I, pp. XLII-L.

[74] Amerio, I, pp. XLV-XLVI.

[75] E’ citazione dal salmo 49 (50), 16.

[76] “Ivi l’intelletto passa di verità in verità: l’unità della rivelazione è tale che ogni piccola parte diventa una nuova conferma del tutto, per la meravigliosa subordinazione che ci si scopre; le cose difficili si spiegano a vicenda, e da molti paradossi resulta un sistema evidente. Ciò che è, e ciò che dovrebb’essere; la miseria e la concupiscenza, e l’idea sempre viva di perfezione e d’ordine che troviamo ugualmente in noi; il bene e il male; le parole della sapienza divina, e i vani discorsi degli uomini; la gioia vigilante del giusto, i dolori e le consolazioni del pentito, e lo spavento o l’imperturbabilità del malvagio; i disegni degli uomini condotti a termine tra mille ostacoli, o fatti andare a vòto da un ostacolo impreveduto; la fede che aspetta la promessa, e che sente la vanità di ciò che passa; tutto ciò si spiega col Vangelo, tutto conferma il Vangelo. La rivelazione d’un passato, di cui l’uomo porta in sè le tristi testimonianze, senza averne da sè la tradizione e il segreto, e d’un avvenire, di cui ci restavano solo idee confuse di terrore e di desiderio, è quella che ci rende chiaro il presente che abbiamo sotto gli occhi; i misteri conciliano le contraddizioni, e le cose visibili s’intendono per le notizie delle cose invisibili. E più s’esamina questa religione, più si vede che essa ha rivelato l’uomo all’uomo, che essa suppone nel suo fondatore la cognizione la più universale, la più intima, la più profetica d’ogni nostro sentimento”.

[77] Amerio, III, pp. 98-102. Amerio cita Bonghi, II: si tratta  del secondo dei tre volumi di “Opere ideditre o rare” edite dal Bonghi nel 1887.

[78] Amerio, III, p. 94. Amerio riporta dalle “Stresiane”, i colloqui tra Rosmini, Manzoni, Gustavo Cavour e Ruggero Bonghi, tenuti a stresa o nelle passeggiate fra Lesa e Stresa. Ancora più acuta è la formulazione della stessa obiezione che il Manzoni rivolge al sistema di Kant: “l’assurdo di prendere due volte il medesimo come altro, quasi che avesse in questa critica una forza privilegiata rispetto al rimanente: - y-aurait-il deux capacités dans l’homme, l’une qui a bésoin d’etre examiné et l’autre qui a de quoi examiner?-” . Manzoni previene di oltre mezzo secolo la stessa obiezione del filosofo Piero Martinetti (1872- 1943): Introduzione alla metafisica, Torinio, 1903, p. 237.

[79] Amerio, III, pp. 94 e 97.

[80] La Chiesa condannò anche la forma mitigata del “tradizionalismo”, che non giungeva a simili assurdità, ma sosteneva essere inaccessibili all’uomo le idee più alte, quelle della morale e della religione, senza una rivelazione divina: lo fece Pio IX contro le idee di Agostino Bonnetty con un decreto del santo Ufficio, nel 1855, che ristabiliva le verità da credersi e compromesse nel sistema tradizionalista (Denzinger-Schoenmetzer, nn. 2811-4). Anche il Rosmini, che in un primo tempo aveva aderito al seducente sistema debonaldiano, ritrattò nel  trattato di Psicologia tale errore: cfr. Amerio, III, p. 105.

[80] Amerio, II, p. 12, nota (1); ma vedi A. M., Opere, Milano, Casa del Manzoni, (e presso Sansoni,  Firenze), a cura di Michele Barbi e Fausto Ghisalberti, II, 690, 70.

[80] Amerio, III, 118

[80] L’intuizione diretta dell’ “essere reale”, cioè di Dio è la dottrina di Gioberti (ontologismo): in tale visione immediata ma inconscia sta ils egreto della sublimazione del particolare ad universale, delel sensazioni ad idee. Rosmini ritiene infusa da Dio nell’intelletto umano, anzi scintilla della Sua presenza nell’anima, solo l’idea generalissima dell’essere, che forma quasi una “sintesi a priori” con le sensazioni, esaltandole ad idee universali

[81] La questione che sta a cuore al Manzoni nelle “Osservazioni”  è quella delle idee religiose e morali; la origine delle idee in generale, centrale nel dialogo Dell’invenzione, è qui marginale. Ma, visto che l’accettare la assenza di idee innate sul bene e sul male può indure a quello scetticismo e relativismo morale cui, logicamente seguendo il Locke, Claude-Adrien Helvetius (1715-1771) approda nella sua opera “De l’Esprit” (1758): “la probità non può essere altro che l’abitudine dell’azioni utili alla propria nazione”, riassumiamo con le parole di Amerio la risposta del Manzoni: “vi sono principii morali, ossia regole di azione, conoscibili dalla ragione naturale e aventi universalità e necessità”

[81] Sono parole della nota al § 94 del c. III delle “Osservazioni”, edizione 1855: a p. 90 del  vol. II, nell’edizione curata dall’Amerio.       

 

 

 

 

[86] Amerio, III, 187-92. “Per il M.... la situazione storica sarà per avventura l’occasione all’ingiustizia, ma la vera ed efficiente cagione è unicamente l’iniquità personale e volontaria degli uomini”.

[87] Le parole di Amerio sono nella p. 130 del III volume; quelle di Manzoni sono nelle “Osservzioni”, c. III dell’edizione 1855, nella nota al capoverso 24 (nell’edizione curata da Amerio, per Ricciardi, vol. II, pp. 59-60).

[88] I numeri dell’Amerio si riferiscono alle proposizioni come sono elencate nelle condanne del magistero cattolico. Vedile nell’Enchiridion symbolorum messo assieme dai teologi Denzinger e Schoenmetzer, nn. 1935-6; e 2441, 2442, 2448.

[89] “Gratuito” vale qui “immotivato, irrazionale, arbitrario”. Senza il riferimento alla vita eterna quale è promessa dalla Rivelazione cristiana (non una specie di “Sheòl o di Limbo”, ma il godimento stesso di Dio), le azioni moralmente eroiche o la sofferenza del giusto non trovano motivazione sufficiente nella ragione umana.

[90] “Humi repunt”: strisciano per  terra, cioè rimangono nella mediocrità dei comandamenti meno costosi.

[91] La “contraddizione”  cui si oppone il Manzoni sta nel dilemma posto dai non-credenti alla esistenza di Dio: o Egli è giusto, ma allora non ci dovrebbero essere ingiustizie a questo mondo; o Egli è ingiusto e, allora, non può esistere. E’ noto che Diderot si rifiutò di credere in Dio riflettendo sulla sorte dei bimbi (innocenti per definizione) nati ciechi.

[92] Nota al § 88  del c. III,  edizione 1855 delle “Osservazioni”; nella edizione curata da R. Amerio, è nel  vol. II, p. 87.

[93] Amerio, III, p. 152. La “religione”, cioè la rivelazione cristiana, offre canoni oggettivi di moralità per il credente (in pratica: il decalogo e il precetto della carità); il non credente, trova nella natura umana integrale e nelle sue tendenze (intese radicalemente, cioè comprendendo anche il loro fine), il fondamento oggettivo di moralità.

[94] Id. p. 156.

[95] Ib. ib. Meno ci interessano, qui, il breve c. IV delle “Osservazioni” intitolato “ Sui decreti della Chiesa sulle decisioni dei Padri e sui casisti”. Le poco più che due pagine nell’edizione 1819 (ediz. Ricciardi, curata da Amerio, I, pp.40-2) e le poco più che quattro, con i commenti dell’Amerio, nella edizione 1855 (id, II, pp. 95-99) dimostrano che Manzoni non prese in considerazione il vero significato della “casistica”, che solo la lettura dell’opera del Rosmini “Trattato della coscienza morale” (1839) gli avrebbe spiegato. Per lui il sistema della “probabilità” non era (come era) l’ultimo mezzo (per mancanza di altre fonti di accertamento) per rassicurare una coscienza dubitosa circa la moralità di un’azione (e tormentata dall’urgenza di dover prendere una decisione);  era invece una via normale per scegliere fra giusto ed ingiusto, sulla base di motivazioni tratti dalla ragione o dalla sapienza di scrittori anche profani e pagani. 

[96] Per la dottrina del Manzoni, cfr. Amerio, II, 191, 34; 195, 47. Per la ricostruzione fatta dallo stesso Amerio, cfr. III, pp. 195-200. Si leggano anche le notevoli pagine sulla teoria del perdono da parte di Dio al peccatore e da parte dell’uomo all’uomo, in Amerio III, pp. 200-203: esse traggono origine dalle “Osservazioni” del Manzoni, che si rifanno ovviamente alla dottrina perenne della Chiesa (per cui cfr. Amerio, II, 147, 2; 155 segg.; 167, 51;  168-9, 52-4; 222, 12).  La dimostrazione filosofica che la verità di fede per cui il perdono non può venire se non da Dio e che la conversione non può effettuarsi senza l’iniziativa di Dio, è condotta sul filo della distinzione tra “fatto” ed “atto”, fra “tempo” ed “eternità” (“ucronia” la chiama Amerio, coniando una parola nuova, sulla falsariga di “utopia” inventata da Tommaso Moro), con un ragionamento affascinante e convincente.

[97] L’appendice sull’utilitarismo è stata aggiunta nella edizione 1855 ed occupa, nell’edizione Amerio-Ricciardi,  le pp. 323-410 del vol. II.

[98] Amerio, III, p. 205, che rimanda alle “Osservazioni”, cioè al vol. II, p. 340, 45.

[99] Id. id. La “topica” è quella parte della retorica che insegnava a trovare gli argomenti opportuni per un discorso”.

[100] Id, pp. 206-7. “Homo bulla” significa “uomo-bolla di sapone”, effimero, destinato a morire del tutto (come pensavano gli utilitaristi).

[101] Amerio, III, pp.170-1. Vi si trovano i rimandi alle pagine del secondo volume della edizione Amerio-Ricciardi.

[102] Amerio, III, 208. In Amerio, II, p. 400 si trovano le parole del Manzoni: “Sarete come Dei, è il primo consiglio d’utilità che sia stato opposto ad una reagola, e regola suprema, di giustizia, qual è l’ubbidienza della creatura al Creatore; come il più spaventoso di quanti ne vennero in conseguenza, fu quell’altro: Torna conto a voi che un uomo moia per il popolo”. Quest’ultima è la frase di Caifa per far condannare Gesù a morte (vangelo di Giovanni, 11, 49-50).

[103] Amerio, III, 207, che rimanda a II, 356, 89: “Ha levato dal conto la cifra della vita futura; e il conto non torna più, o, per dir meglio, non c’è più il verso di raccoglierlo”.

[104] Amerio, III, pp. 212-3: vi si cita come fonte  Ruggero Bonghi, cioè la sau edizione delle “Opere inedite o rare del Manzoni”, Milano, 1887.

[105] Nei passi tralasciati, Manzoni evidenzia anche la parte di “colpa degli uomini” per la sottrazione alla fame pubblica del poco grano, disponibile pur in simili anni avari di frutti. Più avanti nel capitolo, Manzoni metterà la pretesa di far vendere il pane “al prezzo che sarebbe stato il giutso, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva sino a ottanta” fra gli “ordini ...insensati e... iniqui”.

[106] Amerio, III, pp. 215-7. La attività economica ha le sue regole innate, come la fame|sete, la sessualità e la collera, la paura e la emulazione: se queste regole vengono seguite fino in fondo, l’attività è morale per il semplice fatto che è umana, interamente umana; se si deraglia da tali regole, si giunge a morire di indigestione per ingordigia o di etilismo per  ubriachezza; a cadere in ogni forma di libidine extragenerativa ed extramatrimoniale (extraeducativa, quindi), alla viltà di don Abbondio od all’invidia. Si noti, in particolare, che il danaro metallico è esso stesso un bene economico, oltre che un simbolo di tutti essi: se viene distrutto, ricade in un danno economico alla società; tutti gli altri suoi simboli cartacei, invece (dalla cartamoneta all’assegno, alle azioni od altri titoli di investimento) neanche colla distruzione danneggiano la società (aumenta, infatti in proporzione, il valore dei “simboli rimasti in circolazione”), ma solo l’individuo che se ne priva volontariamente od inconsapevolmente.

[107] Thoma Robert Malthus, economista (1766-1834): l’opera fondamentale al nostro argomento è quella del 1798: “Saggio sul principio della popolazione”. E’ il “neomaltusianesimo”, non Malthus, che punta sul distacco artificioso fra erotismo e generazione per rimediare alla sovrappopolazione.

[108] Ed era atteggiamento ingenuo, ci pare,  chè per fare lecitamente una guerra non basta un motivo giusto (questo,  per la ribellione degli schiavi, c’era, in nome di Dio!), ma occorre la ragionevole probabilità che i danni del conflitto non siano superiori alla situazione che si vuol correggere (e questa probabilità, ahimè! non c’era per nulla!).

[109] Amerio III, pp. 222-4. “Rischia di riuscire a dimostrarlo” lo diciamo, perchè le citazioni dell’Amerio sottolineano le premesse  (le citiamo subito dopo) per una tale virtù, ma non danno testi del Manzoni che ne proclamino il primato esplicitamente.

[110] Un  terzo significato riguarda la posizione teologica dello studioso Romano Amerio: “haud spernedus auctor” ci si permetta di puntualizzare qui con le parole di Tito Livio a proposito di Polibio. La sua affrettata conclusione sulla spiritualità manzoniana ci conferma nell’impressione che egli fosse –da convinto bagneziano (o tomista, come ovviamente si definiva lui)-   non solo grande conoscitore ed estimatore del pensiero manzoniano, ma  anche tentato di simpatizzare per quegli eredi contemporanei del giansenismo che sono gli Econiani o Lefrèviani. Ma perchè il suo studio sul pensiero del Manzoni, come tanti altri suoi studi singolari, è rimasto senza echi? Vale qui la sentenza manzoniana: “Da tante cose dipende la celebrità de’ libri!” (I promessi sposi, c. 33). E, certo, una personalità introversa e psicastenica non è condizione favorevole ad avere successo nella vita, neppure come scrittore. Non ci si dimentichi che Manzoni un tale successo lo ebbe, ma con perdite finabziarie da fallimento totale. L’assoluta straordonarietà delle opere lo salvò dall’oblio, ma non dalla incapacità di vivere del frutto di esse.

 

[111] Osservazioni sulla morale cattolica (anche la edizione 1819, per il problema della pena di morte); Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia  (1847); La rivoluzione farncese del 1789 e quella italiana del 1859; Stefano Stampa, A. M. Appunti e memorie, Milano, 1885 (nel  vol. III delle Opere del M. edite a cura di M. Barbi e F. Ghiaslberti); Ruggero Bonghi: Opere inedite o rare di A. M., Milano, 1887; Manzoni Intimo, a cura di Sergio Solmi, Milano, 1923. ?????????????

[112]  Amerio, III, 291-3, ove si citano una postilla a Madame de Stael, fatta conoscere da G. Lesca sulla Nuova Antologia, vol. CCLXXVI, op. 93; e   un passo del “Discorso su alcuni punti....”, pel quale  Amerio rimanda alla edizione curata da F. Ghisalberti, vol. II, p. 594,  55.

[113]  “Versatile” vale “mutevole”: è la libertà esterna o comune agli animali, che può svincolarsi dalle obbligazioni morali e, quindi, può variare la propria condotta in dipendenza soltanto dalla assenza di ostacioli|condizionamente fisici.

[114] Che ogni potere venga da Dio, Manzoni lo ripete da san Paolo, lettera ai Romani, c. 13, v. 1. Ma ne vedremo tra poco la singolare interpretazione. Vorremmo ricordare qui come il termine “ministro” è un segno sicuro dell’influsso evangelico sulla politica: la parola significa difatti “servo”. In proposito, si ricordi ciò che il Manzoni, afferma del cardinal Federigo: “egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità...”: è la esplicitazione della verità contenuta nella parola “ministro”  trasferita dal cristianesimo alla politica.

[115] Amerio, III, p. 296: rimanda al vol. III, 345, 260 delle Opere edite da Barbi e Ghisalberti per la Casa Manzoni.

[116] Amerio, III, pp. 57-9; e p. 290.

[117] Id., 301; rimandi alle Opere edite dalla casa del M.:  III, 345, 259.

[118] Manzoni nega che vi sia una perfetta identità di condizioni tra le tecniche delle attività scientifiche o artigianali e quelle della politica: in quelle, la perizia specifica artigianale esclude dall’attività gli incompetenti, sicchè vale il monopolio esigito dal detto antico. “tractent fabrilia fabri”, cioè: “le opere della tecnica le trattino i tecnici”); nella politica, invece,  le decisioni più importanti sono così legate alla vita morale, che è aperta alla saggezza dei singoli la discussione e la deliberazione su di esse. Amerio, III, pp. 302-4 (§ 7).

[119] Forse si otterrebbe una presentazione più coerente filosoficamente, se si distinguessero vari gradi di giustizia (di diritto naturale)  nella vita politica. La  giustizia di primo grado (diritto naturale primario) della attività politica è quella che indica il Manzoni, al séguito di tutto il pensiero cattolico: che il governo miri efficacemente al bene spirituale (moralità e cultura) ed al benessere fisico dei cittadini. La giustizia di secondo grado (diritto naturale secondario) è che il cittadino, salvi i valori primari, possa partecipare sia nella designazione dei governanti, sia nella possibilità di essere lui stesso scelto per il governo. Ma se un re (ereditario e governante in maniera assoluta) facilita maggiormente la giustizia nei cittadini, è da preferirsi ad una democrazia elettorale che non riesca di fatto ad operare altrettanto efficientemente per le due serie di valori ricordate.

[120] Amerio, II, p. 305-6:

[121] Amerio, III, p. 305.

[122] Id. p. 306-7, che rimanda alle “Opere” edite da Ghisalberti, III, 321, nota; ed a a p. 357, ove vi sono conferme di Stefano Stampa (“ il M. accusa i partiti di non ascoltare la ragione e di non riverire per autorità che il proprio interesse”.

[123] Amerio, III, pp. 308-23

[124] Amerio, III, pp. 321-2. Il motivo della giustizia nella rivoluzione italiana del Risorgimento sta nel fatto che si trattava di scacciare uno straniero ingiustamente dominatore dell’Italia: cfr. Marzo 1821: “O stranieri, sui vostri stendardi| sta l’obbrobrio di un giuro tradito;| un giudizio da voi proferito| v’accompagna all’iniqua tenzon;| Voi che a stormo gridaste in quei giorni:| Dio rigetta la forza straniera,| ogni gente sia libera e pèra| della spada l’inique ragion.|| Se la terra ove opprerssi gemeste| preme i corpi dei vostri oppressori,| se la faccia d’estranei signori| tanto amara vi parve in quei dì;| chi v’ha detto che sterile, eterno| saria il lutto dell’itale genti?| chi v’ha detto che ai nostri lamenti| saria sordo quel Dio che v’udì?|| Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia| chiuse il rio che inseguiva Israele,| quel che in pugno alla maschia Giaéle| pose il maglio ed il colpo guidò|; quel che è Padre di tutte le genti,| che non disse al Germano giammai:| Va’, raccogli ove arato non hai;| spiega l’ugne, l’Italia ti do.” Si potrebbe però chiedere al Manzoni: come sta questa sentenza con la dottrina che un governo è giusto se aiuta i cittadini a praticare la giustizia? In concreto, da un punto di vista cristiano, era più favorevole alla onestà (secondo il Vangelo) dei cittadini il governo di Vienna o quello di Torino?

[125] Amerio, III, pp. 323-9

[126] Amerio, III, pp. 339-40. Manzoni non sospettava quello chepure avrebbe potutto e dovuto: che cioè la Chiesa è costretta a trattare coi governi, ad entrare in politca colla diplomazia ed i concordati, per evitare le sorprese di governi come quelli di Jules Grévy e Jules Ferry (alla fine del secolo XIX) o di quelli del Messico degli anni Venti e Trenta del secolo XX. E neppure sospettava che ci sarebbero stati governi favorevoli al divorzio, aborto, droga ed omosessualità, cioè ad un libertinaggio tale che avrebbe impedito di fatto alla Chiesa di lavvorare per la onestà integrale dei suoi fedeli; e avrebbe di fatto impedito ogni conversione ulteriore alla fede cristiana.

[127] Amerio III, p. 365, che cita dalle “Osservazioni” (vol. II, 144-6).

[128] Parleremo, più solitamente, di “estetica” anche se abitualmente il Manzoni si riferisca, nelle sue riflessioni, all’arte letteraria. Ma le motivazioni addotte sono così generali, che non si può parlare di semplice “poetica”: non espongono il concetto di poesia-letteratura da un punto di vista personale ed intuitivo, ma universale e ragionato, con dimostrazioni che trasgrediscono anche nella concezione delle altre espressioni artistiche tutte. Se adeguatamente, è un altro problema.

[129] Gliela pubblicò Claudio Fauriel, assieme alla traduzione delle due tragedie, Il conte di Carmagnola e l’Adelchi, ad opera dello stesso Fauriel, che vi premise una Introduzione e vi aggiunse  il “Dialogo sulle unità di tempo e di luogo di Ermers Visconti” e, in più,  la recensione del Goethe al Carmagnola.

[130] Le parole del Manzoni nella lettera: “Or cette liaisons entre plusieurs événements, qui les fait considérer comme une action unique, est-elle arbitraire? Non, certes; autrement l’art n’aurait plus de fondement dans la nature et dans la vérité”. La motivazione decisiva addotta è fondata sull’effato scolastico: Verum, unum et bonum convertuntur, che Manzoni aveva letto in G.B. Vico (“Il vero, il bene e l’unità” si implicano e richiamano a vicenda). 

[131] Ci riferiamo, quali testi che già presentono il problema, non solo alla “càtarsis tòn pathemàton” della Poetica di Aristotele, ma altresì al Dialogus de oratoribus attribuito tentativamente a Tacito.

[132] Si leggano i pensieri appuntati per un lavoro dal titolo   “Della moralità delle opere tragiche”.

[133] Orazio, Epistola ad Pisones od Ars poetica, v. 343.

[134] La lettera fu inviata a Cesare D’Azeglio in risposta al giudizio negativo sul romanticismo, espresso dal padre di Massimo in occasione dell’invio al Manzoni di alcune copie a stampa de La Pentecoste, che il marchese aveva fatto pubblicare sul giornale “L’amico d’Italia”, perchè era entusiasta di quella come delle altre opere di lui. La lettera era poi circolata manoscritta per la imprudenza di mons Tosi, che aveva prestato a terzi (senza riaverla mai più di ritorno) il manoscritto a lui omaggiato dal Manzoni. Nel 1846, contro il volere del Manzoni (che aveva già  rifiutato il permesso di stamparla,  richiesto dallo stesso marchese D’Azeglio nel 1827), la principessa Cristina di Belgioioso Trivulzio la stampò abusivamente sul mensile “L’Ausonio”. Manzoni si decise a pubblicare lui stesso la lettera nel 1870, per rimediare ad un abbaglio tipografico, che aveva visto stampata due volte la Lettera a Giacinto Carena nelle Opere varie: la inserzione dello scritto avvenne però  decurtata e rielaborata rispetto alla redazione originaria.

[135] Sempre su questo doppio binario è anche l’estetica implicita  nella lettera del 1 febbraio 1805 ad Andrea Mustoxidi: “l’uno (dei fini dei letterati meritevoli) è il diffondere delll utili verità, purgare le passioni, e muoverle al bene, ingentilire i costumi e dilettare onestamente” e nei versi quasi contemporanei del Carme in morte di Carlo Imbonati (“Senitr –riprese- e meditar...”); e l’estetica esplicita nell’ode  parodistica L’ira di Apollo, composta nel 1817, quasi corollario alla “Lettera semiseria di Crisostomo” del Berchet, uscita nel 1816. A parte il divieto, ai poeti romantici, di frequentare i “sacri spazi” (i poggi aonij, il monte Pindo, la fonte Castalia) della classicità pagana ed i suoi personaggi divini (le “nove suore”, cioè le Muse,  lo stesso Apollo chiamato in causa dalla pianta di alloro, il cavallo alato Pegaso, l’ingorda Libitina, cioè la morte e il veglio edace, cioè il tempo fuggente), la parte positiva della “condanna proferita da Apollo sta nell’intreccio dei due  soliti valori: “tutto ei deggia da l’intimo| suo petto trarre, e dal pensier profondo”: il cuore e la ragione, in sinergismo non chiarito. Anche nella sentenza volante che egli lascia cadere nella lettera a Marco Coen, egli definisce la letteratura “l’arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio ciò che è di più vero, di più efficace, di più aggradevole in ogni soggetto” non riesce ad unificare la parte (preponderante) da lui riservata al “vero” colla invitabilmente presente componente “gradevole” e, quindi collegata al diletto, sentimento, commozione.... (la lettera è del 2 giugno 1832, la 395^ nella collezione mondadoriana 1970, vol. I, pp. 664-71).

[136] Questa sentenza del Manzoni si trova nel discorso Del romanzo storico, parte seconda, là dove parla di Virgilio.

[137] Amerio rimanda a Bonghi, Opere inedite o rare, III, 212. Amerio ne deduce: “Sarà dunque l’arte non intuizione di una commozione, ma intuizione di un vero, e soltanto secondariamente commozione e, s’intende, commozione per quel vero”. Non riusciamo a concordare con lui nè, eventualmente, col Manzoni. Che l’arte sia espressione razionale della emotività è innegabile: essa si differenzia così dalla mimica e dal grido, che possono essere in noi manifestazioni inconsapevoli, atti primi-primi al di qua della apprensione della coscienza e dal dominio della volontà, dettati da stati d’animo impellenti come negli animali. Ma la razionalità dell’arte non è necessariamente nelle idee-giudizi- ragionamento, cioè nelle forme della intelligenza verbale; non lo è nella letteratura, come non lo è nella musica o nelle arti figurative. La razionalità dell’arte sta nella intuizione dell’adeguatezza della espressione (verbale, mimica cosciente, musicale, disegnativa, cromatica, plastica...) e le emozioni che si vogliono esprimere: è un rapporto che solo la intelligenza, la facoltà razionale può vedere, stabilire, esprimere: ed è questa la invenzione (detta, impropriamente, creazione) artistica.

Automaticamente, la razionalità è abbassata a strumento dello stato emozionale da esprimere e questo diventa il proprium, l’elemento quasi-formale del prodotto artistico, perchè in ogni attività (accidente del supposito razionale o persona, in questo caso) il suo fine intrinseco diventa la quasi forma del risultato.

 

[138] Amerio cita conferme del Manzoni, ricavandole dal secondo volume dell’edizione Ghisalberti, 237, 68. 

[139] Amerio, III, 234 rimanda a Bonghi, III, 214.  Manzoni  preferisce un ragionamento  troppo più obliquo ed inefficace: il poeta che rappresenta la sensualità provoca bensì piacere e consenso, ma superifciale, insufficiente all’esigenze  dello uomo intero: egli “è corrotto, irriflessivo ed ignorante... giacchè piglia gli errori per verità, perchè non ha preveduto che al di là delle sue idee, contro le sue idee ve ne ha altre in cui l’intelletto ama di riposare ultimamente,.... malaccorto perchè non ha saputo giungere a quell’ultimo posto dal quale nessuna meditazione, nessuna scoperta, nessun perfezionamento potrebbe mai farlo uscire”. Amerio, 240, che rimanda a Bonghi, II, 491-2.

[140] Amerio, III, p. 234, che rimanda a Bonghi, III, 158.

[141] Amerio, III, pp. 247-255 e, in particolare, p.249.

[142] Posto che tale sia davvero il significato dello studio manzoniano. Stefano Stampa, infatti, afferma che lo scrittore “ in questa unione della storai con l’invenzione, scoperse, non  il difetto, ma il germe di morte, di quella specie di componimenti; e la colpa della loro morte, non la diede nè al germe nè al genere del componimento, ma la diede alla passione sempre crescente nell’uomo di conoscere solo la verità, tutta la verità, null’altro che la verità”.

Qualunque debba essere il senso ultimo del “discorso”, la sua origine pare questa. Le prime obiezioni alla parte storica dei “Promessi” venne dalla recensione (complessivamente più che positiva) all’edizione ventisettana, che A. F. C. Streckfuss fece sulla rivista tedesca “Ueber Kunst und Altertum”, nel 1827, recensione pubblicata anonima e ritenuta dal Manzoni come probabilmente stesa dal Goethe, che della rivista era il direttore: lo Streckfuss diceva che tali parti non erano conformi all’arte. Purtroppo obiezioni sulla difficoltà a scrivere poemi (quello di T. Grossi sui Lombardi alla prima crociata) e romanzi storici erano state avanzate dal Fauriel, sia appena avuta notizia delle intenzioni del Manzoni, sia durante la sua permanenza nel 1824 a Brusuglio, quando ebbe modo di appuntare con qualche nota il manoscritto di Fermo e Lucia (per queste notizie, vedi le note alle lettere 153 e 315, nel vol. I dell’edizione mondadoriana delle Lettere, pp. 827-30 e 955-6). Egli attese quasi subito alla stesura di un lavoro su tale argomento, cui si dedicò appieno, però, solo nel 1848, fino alal pubblicazione due anni dopo.

[143] L’entusiasmo per la grandezza poetica di Virgilio ispira  Manzoni  in misura tale, che anticipare alcune intuizioni dello strutturalismo e, più precisamente, la distinzione fra lingua-parola, codice-messaggiio, schema-uso, paradigma-sintagma.: “ci sono  nelle cose, dico nelle cose di cui tutti parlano, delle qualità e delle relazioni più recondite e meno osservate o non osservate; e queste appunto vuol esprimere il poeta; e per esprimerle ha bisogno di nove (sic) locuzioni. Parla quasi un cert’altro linguaggio, perchè ha cert’altre cose da dire. Ed è quando, portato dalla concitazione dell’animo, o dall’intenta contemplazione delle cose, all’orlo, dirò così, d’un concetto, per arrivare il quale  il linguaggio comune non gli somministra una formula, ne trova una con cui afferrarlo e renderlo presente, in una forma propria e distinta, alla sua mente...”

[144] Che il romanzo sia la prosecuzione in prosa del poema epico, è concetto ovvvio in Manzoni: si veda tutta la parte seconda di questo suo discorso “Del romanzo storico”.

[145] La  singolarità del genio artistico sta nella capacità della ragione a purificare i sentimenti personali, per ricondurli ad emozioni pure ed esprimerle adeguatamente con un mezzo differenziato, dalla parola al disegno dalla musica alla architettura.

[146] Si noti quanto la invenzione estetica sia affine alla astrazione dell’idea dai messaggi sensibili, da parte della intelligenza;  ed alla liberazione dell’azione dalle suggestioni della sfera neurovegetativa o passioanle, da parte della volontà. Anche l’artista, infatti, deve astrarre dai sentimenti imbevuti di intenzioni pratiche e dagli istinti, protesi più che mai alla vita concreta, la emotività pura ed assoluta, valida nelal sua espressione, al fuori di ogni risultato pratico-esistenziale

[147] In verità, però, nel “Discorso” in esame, parte seconda, Manzoni cita tante volte “il verosimile” come materia dell’arte, che ci si domanda come non abbia riposto anche qui, nella la saldatura fra dato “storiografico” e dato inventato, una possibile convivenza fra esigenza di verità e invenzione psicologicamente accettabile. Vedi in Manzoni, Tutte le opere, Firenze Sansoni, 1973, II, pp. 1755, 1756, 1761, 1762.

[148] “Almeno a breve termine”: un inserto che ci è stato suggerito dalla condizione delle umane lettere nel mondo occidentale durante il secolo XX, in Italia: dopo Guido Gozzano (norto nel 1916), ci si domanda quale vero poeta sia sorto; e ci si deve chiedere quale grande prosatore si sia rivelato, a parte Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il Gattoaprdo, Luigi Santucci con il Velocifero e Pietro Galletto con Mio padre, Il dono di Brunella, La firma, La ruota, opere tutte che ruotano attorno alla fede, ora soffertamente smarrita nel principe Salina, ora un po’ troppo disinvoltamente vissuta nei vari personaggi del Santucci, ora coerentemente sentita ed attuata dai protagonisdti dei vari libri dello scrittore padovano.

[149] Victor Cousin (1792-1867) fu un filosofo poco originale, sostenitore di uno spiritualismo generico, non cristiano: egli vedeva nella religione “primitiva, spontanea” una forma di filosofia implicita, che conduceva, tranne che per la trascendenza di Dio, ad una visione affine a quella che la sua filosofia insegnava (morale, concezione elevata dell’uomo, contro la filosofia sensista). Oltre tutto si deve a lui la affermazione dei tre valori fondamentali dello spirito, con l’opera del 1853 “Del vero, del bello, del buono”. Manzoni ne divenne amico attraverso il circolo degli “ideologi” nel secondo soggiorno parigino, lo ospitò a Brusuglio nel 1820 e ricevette da lui, negli anni 1828 e 1829 copia delle lezioni tenute alla Sorbona in quegli anni. Manzoni stese una amichevole confutazione già nel 1829,  risposta che a noi sembra sostanzialmente già completa, anche se tale non parve al Manzoni, che non la rifinì (uscì postuma, nelle Opere inedite e rare, a cura del Bonghi, 1887). Per il contenuto di questa “lettera” del Manzoni al Cousin, se ne veda la presentazione nel III volume di Amerio, sparsa fra le pagine 55- 95.