IL NEOCLASSICISMO
LA SUA COMPRENSIONE E DEFINIZIONE
Il Neoclassicismo è un fenomeno complicato e sfuggente, in quanto comprende elementi non totalmente corenti fra loro. Si tratta, infatti, di un movimento che, sul piano artistico, porta ad una conclusione di estrema raffinatezza il movimento classico del Millesettecento, ma che, a livello filosofico, media il passaggio dalla ideologia illuministica a quella romantica. Per di più, la ideologia, dedotta dalle dottrine estetiche o comunque ad essa affiancata, è doppiamente secondaria rispetto alla componente artistica: anzitutto la sua costruzione sull’originario teorema estetico è opinabile e piuttosto sofistica; inoltre, non tutti gli artisti neoclassici l’hanno condivisa, pur essendo dei maestri della scuola.[1] Il Neoclassicismo assume così più di una nota di ambiguità, fino a rendere problematico se interpretare Ugo Foscolo come il massimo esponente del Neoclassicismo letterario piuttosto che l’iniziatore del movimento romantico in Italia.
Non sarà,allora, facile fissare la essenza o natura del fenomeno; e, di conseguenza, è difficile trovarne una definzione esauriente e totalmente chiarificatrice.
Ci sembra, dunque, opportuno avvicinarci in due tempi alla sua comprensione, offrendone due descrizioni, una più “generica” ed una più “specifica”. Una panoramica della sua genesi e della sua “estensione” (applicazioni, diffusione) ci aiuteranno a capirlo più a fondo, pur nella sua ambiguità.
Descrizione generica
Il Neoclassicismo è anzitutto
una nuova concezione del fatto
artistico, cioè una teoria estetica originale, con una produzione coerente di
opere figurative e letterarie: oltre tutto, di notevole valore. Solo marginalmente esso tenta una proiezione
filosofica delle sue tesi estetiche, approdando ad un immanentismo più generalizzato che non nel razionalismo
settecentesco e, in particolare, sviluppando una interpretazione sulla evoluzione dell’umanità occidentale che si
avvicina alla “storia ideale eterna” di G. B. Vico ed è, quindi, di stampo tendenzialmente romantico.
In conclusione, ci troviamo di fronte ad una estetica di estrema, anche se peculiare, classicità (onde il nome di “neoclassicismo”); ed a posizioni ideologiche affini a quelle del romanticismo prevalente in Europa[2].
Descrizione più specifica
Il Neoclassicismo, dunque, è anzitutto una concezione dell’arte, cioè una estetica che, nata per le arti figurative, è stata applicata poi anche alla letteratura ed alla poesia. Eccone un tentativo di descrizione meno inadeguata, in tre momenti.
Anzitutto, arte è CREAZIONE DELLA BELLEZZA IDEALE, cioè espressione di nobile semplicità, tranquilla grandezza, in una serena armonia di linee[3]. Queste caratterizzazioni si trovano nelle opere e nelle lettere di Johann Joachim Winckelmann che del Neoclassicismo è, per gran parte, il maestro.[4] Il limite di questa ed altre dimensioni sottolineate dal Winckelmann sta nella mescolanza di esigenze di natura emotiva ad altre, attinenti la tecnica stilistica: “nobile| tranquilla| serena sono aggettivi attinenti piuttosto la sfera emozionale; semplicità| grandezza| armonia di linee” sono sostantivi riferiti allo stile. Ed “Unbestimmung” (oggi “Unbestimmheit”: indefinitezza, vaghezza) che significa di preciso? Ma queste stesse formulazioni posseggono il fascino della loro ambiguità, la virtù dei loro difetti: essa nasce dalla simbiosi fra intuizioni acute e felicità di linguaggio; si tratta di una forza che si sprigiona contemporaneamente da fattori intellettuali ed artistici. E’ il linguaggio di un semifilosofo e di un semipoeta, che è destinato a rivelare, alla distanza, le sue pecche, ma che, al momento, può contrabbandare le ambiguità teoretiche sotto lo splendore dell’espressione poetica. Ed aver successo
Come secondo
momento nella descrizione della
teoria estetica neoclassica, diamo qui una duplice nostra interpretazione. In
una enunciazione più benevola e magnanima, diremo che la prospettiva estetica neoclassica fa coincidere il bello
artistico con il bello esistenziale, cioè ritiene bello unicamente quanto nella
vita concreta suscita in noi un piacere spirituale moderato e rasserenante,
escludendo dalla “bellezza ideale” (e, quindi, dall’arte) quelle opere che
destano invece emozioni forti ed esasperate, estreme e sconvolgenti (Dante,
Michelangelo, Shakespeare, Alfieri, lo stile gotico). Il bello ideale, cioè
l’arte vera (neoclassica) esige la
espressione di soli stati d’animo che rappacificano,
allietano, fan restare estatici; o, se esaltano e commuovono, lo fanno con
misura e grazia, equilibrio ed armonia. Esso è invece alieno dalle
rappresentazioni tragiche violente, dal
riso patente, dalla satira graffiante; e da quelle espressioni che si affidano
ad uno stile realistico, non abbastanza
raffinato ed elegante. C’è posto anche per la
rappresentazione od espressione del dolore, ma essa deve essere tale
da comunicare un effetto consolatore,
non straziante.
In una formulazione, invece, più sospettosa ed esigente, diremo: si ha l’impressione che si auspichi una forma d’arte efebica, timorosa della sofferenza profonda ed intollerante della asprezza, della lotta e della fatica. La BELLEZZA IDEALE è, insomma, quella offerta da una forma di arte sminuita, in parte, della mascolinità e che, perciò, lascia un certo grado di sopravvento alla femminilità. Si tratterebbe di un concetto di arte non adeguatamente virile: secondo la psicologia abnorme del suo inventore. Ne riparleremo a proposito della diffusione del fenomeno.
Un corollario clamoroso di questi princìpi del Winckelmann (e siamo alla terza caratteristica) lo esprimiamo con le sue stesse parole: “La bellezza delle statue greche può essere scoperta prima che scoperta esser possa la bellezza della natura e per conseguenza la prima è più toccante e meno sparsa, più riunita in un tutto.... i conoscitori ed imitatori delle opere greche trovano in quei capolavori non solo la più bella natura, ma anche più della natura, cioè certe bellezze ideali della medesima”; “La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nelle posizioni che nella espressione. Come la profondità del mare, che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata”[5] Il Winckelmann, ci pare, giungeva a questa sorprendente conclusione: nella natura e nella vita esiste certo anche il “bello ideale”, che si potrebbe imitare, selezionandolo secondo un gusto geniale, come fecero i grandi scultori delal Grecia antica. Ma sarebbe un impegno inutile e rischioso: rischioso, perchè se non si è altrettanto geniali, si corre il pericolo di imitare la bellezza volgare e non quella ideale; inutile, perchè tale selezione è già stata operata efficacemente dalla produzione greca classica, sicchè il contemplare le loro opere garantisce il godimento della vera bellezza, che fa insorgere in noi stati d’animo armoniosi ed equilibrati, mentre il riferirsi ad esse, come modello, garantisce la creazione di altri capolavori od opere che ripropongono la bellezza ideale.[6]
Ed ecco un quarto momento della estetica del Winckelmann: stabilire i concreti modelli per la scultura. Supremo capolavoro, perchè espressione sublime della “edle Einfalt” e della “stille Groesse” è l’Apollo del Belvedere (nei Musei vaticani); vicini ad esso si pongono il Discobolo (di Mirone: attivo fra il 470 ed il 440 a. C.) e il Doriforo (di Policleto:attivo fra il 460 ed il 415 a. C.): quest’ultimo dà il “canone” (regola) per la proporzione tra le varie parti del corpo, sicchè la testa deve essere, come nel “Doriforo”, un settimo della lunghezza della persona. Anche per la espressione del dolore i Neoclassici trovarono presto un esempio di bellezza ideale, la statua del Laocoonte, nobilmente sofferente sotto la stretta mortale dei serpenti inviati da Minerva, per salvare dalla sua perspicacia il cavallo contenente i guerrieri greci, decisi ad entrare in Troia con l’inganno, dopo gli inutili tentativi di penetrarvi con la forza. La scultura è pure di epoca alessandrina, eseguita come fu circa l’anno 50 a. C.,a Rodi: trasferita a Roma e andata smarrita, fu scoperta in scavi presso l’Esquilino, sotto Giulio II, l’anno1506).
In sede letteraria, il neoclassicismo esige uno stile eletto nei vocaboli, ricco di arcaismi, musicalmente carezzevole, sintatticamente irreprensibile. Al limite estremo di questa tendenza stanno i puristi, di cui il padre oratoriano Antonio Césari (veronese: 1760-1828)[7] ed il marchese Basilio Puoti (napoletano: 1782- 1847) furono gli esponenti più in vista. Essi distinguevano i vocaboli in “aurei” ed “argentei”, a secondo che appartenessero al Trecento od al Cinquecento: i libri scritti in quei due secoli -e quelli soli- dovevano fornire le parole da usarsi.[8] Per la sintassi, è piuttosto il Cinquecento a fare autorità. Il Césari ha modo di cadere nel ridicolo, per la imperterrita coerenza a tali princìpi nei suoi scritti. Anche dei convinti classicisti come il Monti ed il genero, Giulio Perticari, debbono prendere le distanze dal purismo intransigente del Césari: essi, con più equilibrio, accettavano anche i migliori scrittori del Millesettecento, come Parini ed Alfieri e, in genere, concepivano la lingua in continuo arricchimento, che selezionasse però i nuovi apporti al vocabolario con “discrezione”, cioè rifiutando la fallosa disinvoltura del Settecento milanese e verriano. E neppure Cesare Botta e Pietro Giordani, rigorosi classicisti come erano, possono essere considerati puristi al modo scriteriato del Césari e del Puoti.[9]
Senza giungere a tali estremi, il neoclassicismo viene a rafforzare una tradizione di secoli. “La grammatica mantiene alcune forme tradizionali (nui,saria, fora); il lessico è ricco di vocaboli arcaici o latineggianti (alma, destriero, fiata, ostello; calle, delubro, ulto –vendicato-; luna –mese-, sole –anno-, polo –cielo-, ecc)... Ai nomi geografici moderni, troppo realistici, si sostituiscono quelli antichi: così per es. “ Vidi il tartaro ferro e l’alemanno| strugger la speme dell’ausonie spiche” (Monti, Mascheron., I). Ad uno scopo analogo, quello di evitare le parole troppo realistiche, precise, moderne, serve la perifrasi: le rane sono “le rauche di stagno abitatrici” (Monti, Mascher. , IV); i colpi dei cannoni e dei fucili sono -il tuon de’ cavi| fulminanti metalli- (Monti, Bardo della Selva Nera, IV), -il muggir degl’ignivomi tormenti” (G. C. Ceroni, La presa di Tarragona)....” “Le scuole istillavano ai giovinetti i princìpi classicistici: si senta come il Cantù descrive gli insegnamenti del suo maestro di retorica: -Poesia... è favella degli iddii, e tanto miglior è, quanto più dal parlar del profano vulgo si sprolunga. E prima quanto alle parole, tu non dirai abbrucia, affligge, cava, innalza, è lecito, spada, patria, la morte, la poesia; ma adugge, ange, elice, estolle, lice, brando, terra natia, fato, musa; e così merto, chieggio, oceàano, imago, virtude, andaro, destriero. Dalle idee basse, che rammentano cose troppo a noi vicine, abborri, figliuol mio. Ai nomi propri sostituisci una bella circonlocuzione; non dirai amore ma il bendato arciero; non il vino ma liquor di Bacco; non il leone, l’aquila, ma la regina de’ volanti, il biondo imperator della foresta, e così i regni buj, il tempo edace, la stagion de’ fiori, il liquido cristallo, l’astro d’argento, la cruda parca. Vedi il Monti? Non disse il gallo, ma il cristato fratel di Meleagro”.[10]
Ma ecco una quinta dimensione della teoria neoclassica: già nel Winckelmann l’ideale di arte neoclassica è circondato da un alone ideologico: l’arte greca diventa il cardine di una educazione estetica dell’umanità, che fa riferimenti a paradigmi etici di tipo pagano, piuttosto che a princìpi di morale cristiana. In tale ideale etico manca il senso del peccato, dei rimorsi e delle tragedie interiori che ne possono derivare; non vi è posto per la penitenza purificatrice ma tormentosa; è assente la necessità di un Redentore che compensi l’insufficienza dell’uomo di fronte alle esigenze della morale oggettiva; non si sente il bisogno di una salvezza soprannaturale in un’Altra vita, ove Cristo risorto ha preceduto a preparae un posto chi ne accetta il magistero e l’esempio. Sulla scia dell’umanesimo immanentistico di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), che idealizza la spiritualità della Grecia classica, questa etica si ispira piuttosto alla eroicità plutarchiana ed alla stoica apatia dello spirito rispetto alle passioni, in una prospettiva di autosufficienza dell’uomo, che è regola a se stesso e possiede i mezzi per elevarsi ad una vita di pura ragione.
Per pensatori e poeti come Ugo Foscolo, John Keats e Percy Bysshe Shelley che non riescono a sottrarsi allo spirito scettico dell’Illuminismo, ma si rifiutano all’atteggiamento cinico ed irridente dei suoi adepti, circa i problemi sul senso della vita umana e del dopomorte, gli accenni di filosofia presenti nel Neoclassicismo tendono ad integrarsi in una complessa ideologia (antropologica, soprattutto) cioè in una filosofia dell’uomo e della sua storia, che potremmo specificare in questi punti fondamentali. Punto primo. Che l’uomo tenda alla felicità è scontato, ma è una illusione: la felicità piena è una esigenza del sentimento, rifiutata, però, dalla intelligenza come sogno irrazionale, come desiderio fantastico, cioè come non dimostrabile dall’unica sorgente di verità che è la ragione.
Punto secondo. Tale coscienza riflessa (filosofica), però, del destino tragico dell’uomo è cosa tutta moderna, contemporanea al cristianesimo. L’anima greca e romana era ancora infantile e “innocente”, al di qua del senso del male, del peccato e del dolore. La loro condizione psicologica sarà ben espressa da Giosuè Carducci un secolo dopo: “Salve, o serena, dell’Ilisso in riva|, o intera e dritta a i lidi almi del Tebro,| anima umana...”.[11] E G.B. Vico trova discepoli o compagni di pensiero.
Punto terzo. Ma eccoci ormai ad una epoca ulteriore, ad un’età di piena maturazione razionale: è quella che l’Illuminismo ha prodotto con l’abbandono del mito dell’immortalità e della divinità. Si può subito pensare ad un ritorno all’epoca felice del paganesimo, senza scrupoli morali nè timore di inferni d’oltretomba: e difatti colla loro indifferenza olimpicamente serena, con il loro scetticismo freddamente noncurante, col loro cinismo facilmente ridanciano, con la loro miscredenza eventualmente insolente, molti maestri dell’Illuminismo possono esser sembrati capaci di far risorgere la incoscienza del mondo antico. Ma il loro errore è stato quello di aver ristretto l’uomo alla ragione ed alla sola ragione: hanno voluto ignorare e mettere tra parentesi la grande scoperta cristiana. Quale? Parrebbe quella del sentimento e delle sue esigenze.
Quarto punto. I Neoclassici vogliono rimediare a questa lacuna e tengono conto anche delle aspirazioni sentimentali dell’uomo, da cui nascerebbe quella tendenza innegabile alla felicità, quel desiderio insopprimibile di immortalità, quel bisogno cocente di Dio e dell’infinità. Essi sono, cioè, dei “post-cristiani” (che non credono più alla dottrina evangelica), ma anche dei “post-illuministi” (che vedono i limiti ed i difetti dell’Illuminismo): essi, accettando dalla ragione illuministica la negazione delle esigenze della nostra sensibilità o sentimento, ne proclamano però il grande fascino e soffrono indicibilmente per la loro illusorietà. Sono bensì dei non credenti, ma non del tutto irreligiosi: della religiosità, essi mantengono il bisogno, la stima e la sofferta mancanza; vorrebbero credere, ma non ci riescono; il cuore ve li induce, ma la ragione li esclude, mantenendoli sulla soglia della fede.
Punto sesto. E ne cercano ed accettano dei surrogati, cioè quelle esperienze della vita che li riconducano allo stato innocente-selvaggio dei primitivi,che erano al di qua del bene e del male, del vero e del falso; alla incoscienza del peccato, della morte, della inutilità del nostro vivere e faticare; all’oblio sull’irrealizzabilità del nostro bisogno di felicità perenne. Ebbene, questa esperienza esistenziale esiste: è la creazione artistica e la sua fruizione. Nella visione del perfetto capolavoro, nella contemplazione della “bellezza ideale”, l’uomo si libera dalle suggestioni del reale deludente e sconsolante e si abbandona alla pura fantasia, si immerge nel sogno, gode di una serenità e di una pace che imitano l’esaudimento delle esigenze profonde, ma (ahinè!) solo sentimentali e quindi irreali, insite nell’animo umano. L’arte opera il miracolo di ricondurre l’uomo al porto beato della inconsapevolezza, al “prima” della capcità a distinguere tra verità ed illusione, tra sogno sentimentale e dimostrazione razionale, tra peccato e virtù; lo riporta al di qua del senso di colpa, di rimorso e tormento per il peccato, in uno stato di serenità e pace. Siamo alla riscoperta del Paradiso terrestre della Bibbia? No: siamo, piuttosto, reintrodotti nell’Olimpo greco-pagano, alla finzione degli dei e degli eroi con le loro imprese erculee ed erotiche, marziali e veneree, gioviali e titaniche, apolinee e prometeiche, vissute al di fuori della tormentosa scienza del bene e del male; siamo trasportati nella nebulosa della cultura classica antica. Le “Grazie” mitologiche prendono il posto delle virtù evangeliche (gruppo marmoreo del Canova; poemetto del Foscolo); le divinità e gli eroi subentrano a Cristo ed ai santi; le imprese di Troia e degli Argonauti soppiantano quelle dei paladini carolingi e delle crociate... E l’arte assume una funzione consolatrice, quasi medica e guaritrice per una umanità, concepita, sostanzialmente, in chiave pessimistica e dolorosa, non essendo più concesso un ritorno totale alla innocenza greca, che sopprima la coscienza evangelica.
Settimo punto. Una volta vista l’arte e la sua bellezza ideale in questa funzione di surrogato della felicità, il passaggio a vedere in essa il valore supremo della vita è abbastanza logico; e coerente diviene il concepire le forze della fantasia creatrice e della sensibilità estetica come le facoltà motrici più alte nella vita umana. L’arte, infati, è l’ultimo rifugio per un’umanità aspirante inutilmente all’infinito ed all’eterno, alla pace ed alla verità, alla soddisfazione ed alla divinizzazione[12]. L’arte, rimedio alla delusione ed alla disperazione, diviene anche strumento educativo, per invitare gli uomini a praticare il bene, perchè esso è fratello della bellezza, la quale ne è il premio e la motivazione più efficace: non è, infatti, il bene parte di quella illusione che la bellezza riproduce e finge come momento estatico di suprema felicità? La bellezza artistica, allora, diventa stimolo ad operare con quella totale rettitudine, che noi sogniamo nella contemplazione della bellezza, unico luogo di beatitudine concesso all’uomo.
LA GENESI DEL NEOCLASSICISMO.... Tra i prodromi o segni premonitori presenti lungo tutto il Millesettecento ci soffermiamo su una terna davvero importante: la diffusione della conoscenza della lingua e letteratura greca; la conseguente aumentata confidenza con la cultura classica, specie con la mitologia greca; e la scoperta-escavazione delle città di Ercolano e Pompei (attorno agli anni 1735-38).
Finalmente la conoscenza della lingua greca non era più solo patrimonio di pochi specialisti, ma faceva parte del bagaglio normale negli studi precedenti l’ingresso all’università. Fra i tanti studenti che la imparavno a scuola, gli studiosi che se ne impadronivano davvero andavano aumentando. Basti riflettere che a cavallo fra il Millesettecento-Ottocento, ci furono tre o quattro traduzioni dell’Iliade in Italia: Melchiorre Cesarotti (in prosa: 1786-94), Ugo Foscolo (solo il primo canto: 1807), Vincenzo Monti (1810: endecasillabi sciolti), Luigi Lamberti (ne preparò una notevole edizione in greco per i tipi del Bodoni e aiutò il Monti nella traduzione). Ippolito PIndemonte tradurrà, infine, l’Odissea in versi sciolti (1822).
E’ facile immaginare come un tale padroneggiamento della
lingua comportasse un accresciuto interesse, un amore che poteva divenire
addirittura fanatismo per la cultura
greca e, quindi, per la classicità
tutta e per una letteratura di stampo classico.
Che tale contesto letterario sia stato, poi, una premessa necessaria allo sviluppo del Neoclassicismo, non si può dubitare per una serie di motivi, che andremo ora elencando.
Il nome stesso, anzitutto, denuncia un tale legame: Neoclassicismo indica un rinnovamento del Classicismo, non (come il Romanticismo) qualcosa di totalmente nuovo.
E vi sono, poi, due fattori che confermano tale affinità: l’evoluzione stilistica del verso pariniano e l’uso della mitologia nei poeti del secolo.
Il Parini si esprime in tutto “Il Giorno” con uno stile elegante, nobile, elevato, musicalmente scorrevole: in una parola, con una versificazione classica. Eppure le parti pubblicate postume (“Il Vespro” e “La Notte”) sono ancora più raffinate e levigate: esse risentono sia della incontentabilità del poeta, che aveva dentro di sè un’esigenza di infinita nobiltà di espressione; sia l’influsso delle idee neoclassiche che circolavano a Brera, nell’accademia di arti figurative, al cui servizio il Parini teneva cattedra di Belle lettere. Ebbene, è certo che non si tratta di una rivoluzione, ma di una evoluzione: tra i due stili non c’è l’abisso della incompatibilità, ma la continuità di un progresso nella stessa tecnica verbale. Il modello supremo rimane sempre Orazio, con il suo verso splendido, più trasparente e lucido della fonte di Bandusia.[13]
Quanto al ritorno agli dei d’Omero e, in genere, alla mitologia pagana, non si trattava solamente del saccheggio di un patrimonio storico-religioso per dar lustro alla espressione. Anche se non era ancora una adesione interiore alla religiosità greco-romana, come sarebbe avvenuto nel Neoclassicismo, tuttavia c’era già qualcosa di più che un semplice riferimento tecnico- stilistico. Manzoni, che aveva conosciuto e condiviso non solo il mondo neoclassico (e il poemetto “Urania”, del 1809, ne è la più esplicita testimonianza), ma tutto il classicismo del secolo XVIII, nella lettera al marchese Cesare d’Azeglio (“Sul romanticismo”: 1823), non esita a identificare la mitologia con la idolatria. Noi stessi, d’altronde, abbiamo dovuto costatare in alcuni poeti del secolo tracce evidenti di un ritorno agli “dei falsi e bugiardi” del paganesimo, se non proprio nel senso di una religione politeista, però in espressioni rivoluzionarie che fingono un culto blasfemo ed anticristiano. Anche in campo ideologico, dunque, il classicismo, innescato dalla imitazione di quello, pur cristianissmo, del Milleseicento francese, aveva maturato un’atmosfera in cui poteva inserirsi non solo la nostalgia per la cultura greca, ma anche il rimpianto per la sua forma di religiosità, che saranno proprie del Neoclassicismo “doc”, cioè più coerente e completo. Se non altro, la mitologia classico-settecentesca aveva pavimentato la strada alla aliquale resurrezione della religione pagana nel Neoclassicismo: senza un simile humus, difficilmente avrebbero trovato tanta sequela le idee del Winckelmann, di cui si è parlato sopra.
Bisogna dire (seconda premessa importante) che grande risonanza avevano avuto nel corso di quei decenni la scoperta, prima, e l’inizio degli scavi, poi, delle città di Ercolano (1709 e 1738) e di Pompei (1740 e 1748) parte distrutte e parte sotterrate dalla eruzione del Vesuvio, il 24 agosto del 70 d. C., quasi per conservarci testimonianze immutate di vita, cultura ed arte (anche pittorica) di un mondo ancora precristiano. Tali fatti diffusero una ammirazione ed un interesse per l’arte antica (l’unica vasta raccolta di pittura classica giunta a noi), che tendeva facilmente a trapassare in entusiasmo e preferenza, rendendola termine di paragone e sfida a riprodurla. I reperti pittorici, a dir il vero, potevano avviare anche ad un realismo di stile e contenuti, perchè non testimoniavano sempre una idealizzazione ad ogni costo della ispirazione e della espressione. Ma l’intervento del Winckelmann ne fissò un’interpretazione univoca e idealizzatrice.
Ed eccoci alla terza e più importante premessa. Il maestro che interpretava i ritrovati delle due città aveva nei suoi cromosomi una sensibilità ben specificata e questa lo portava a trascegliere, da vario materiale che vedeva, le impressioni a lui congeniali. Era un tradimento, in realtà, ma facilitato dal fatto che lo studioso tedesco aveva già preso le mosse (prima di visitare le città dissepolte) dal patrimonio scultoreo dell’antichità greco romana, ignorando che ciò che aveva sotto gli occhi non erano autentiche opere greche (andate perdute o collocate là dove la sua ricerca non poteva arrivare), ma loro copie, di epoca romana e di scuola alessandrina. E la riproduzione tardiva aveva operato uno “spin “sulla forma artistica originaria, nel senso caro al Winckelmann, cioè nell’eccesso di idealizzazione, raffinatezza ed eleganza (quasi un’arte efebica). Il viraggio traditore fu notato già dal più grande scultore neoclassico in Italia, Antonio Canova, che ebbe modo di vedere le statue del Partenone (acquistate dal diplomatico inglese presso l’impero ottomano, Thomas Bruce Elgin) trasferite a Londra, al British Museum (Elgin’s Marbles): Fidia e la sua scuola avevano dato spazio ad una espressione completa e, in particolare, più maschia della emotività umana, non limitata ai sentimenti piacevoli della vita reale, cioè a quella bellezza definitta “ideale” dal Winckelmann. Ma ormai questa aveva conquistato la opinione generale e doveva avere il suo periodo di fioritura e di successo.
E’ questa, in realtà, la premessa decisiva al nascere dell’estetica e dell’ideologia del Neoclassicismo: la individualità del Winckelmann. Omosessuale, di propensione dominatrice (impermascolinità: così parrebbe di dover ricavare dal ritratto), la sua psicologia non poteva non contenere delle componenti morbide che, andando al di là delle inclinazioni specifiche sessuali, risultavano, appunto, in una sensibilità tutto sommato efebica, in cui vi è una aliquale indistinzione tra femminilità e virilità, un tentativo di assommare dolcezza e forza, con una non lieve incidenza della dimensione femminea. Una controprova è che egli si interessa soprattutto di scultura, cioè di riproduzione del corpo umano: e di questo, amava le rappresentazioni che appagassero la sua esigenza di un’arte superelegante, ultraraffinata, che assumesse la levigatezza del miglior Poliziano, limandone però la potenza; facesse propria la avvenenza delle figure di Raffaello, ma attenuandone l’energia.
Quando, poi, intervenne la tragedia della rivoluzione francese, il neoclassicismo ne fu avvantaggiato, perchè, come si è detto, la sua concezione della vita era pessimistica e l’arte diveniva una volta di più un rifugio e quasi una rivalsa contro l’ecatombe di persone, le perdite economiche, gli sconvolgimenti di tradizioni civili e religiose. Ovviamente era difficile alle persone “normali” indovinare i sottintesi sessuali della estetica winckelmanniana.
Ed allorchè dal fallimento della rivoluzione maturò il frutto della dittatura napoleonica, il Neoclassicismo si trovò in un contesto tale di richiami all’antica Roma, di resurrezione di terminologia e di iconografia imperiali, di grandiosità e trionfalismo complessivo, che l’arte non doveva più subentrare come consolatrice, ma accompagnare come eternatrice. Mentre nell’architettura rientrano a tutto campo archi e timpani, colonne e capitelli, edifici a pianta circolare ecc. , Napoleone sponsorizza la “Biblioteca dei classici italiani” che dal 1804 al 1814 pubblica ben 250 volumi. E gli artisti neoclassici maggiori trovarono, appunto durante il periodo napoleonico, l’impulso per un gran numero di opere, spesso le più perfette create dalla loro scuola.
.... E DEL SUO AFFERMARSI. Due ci sembrano le ragioni non semplici del breve ma fecondissimo trionfo del Neoclassicismo, nonostante la personalità ambigua del fondatore e il viraggio non del tutto normale che essa doveva pur imprimere nel concetto e nella attuazione dell’espressione artistica.[14] Noi le avanziamo in forma di pura ipotesi di lavoro, perchè non ci sfugge la difficoltà di leggere nel cuore di ciascun uomo in generale e delle masse (dei fruitori), in particolare. Siamo coscienti di avanzare proposte a nostro rischio e pericolo: altri farà, eventualmente, meglio di noi
La prima “causa”[15] starebbe, secondo noi, in una serie di leggi psicologiche generali, che speriamo di aver già enunciato, almeno una volta, nel corso dello studio dei secoli letterari italiani. La prima legge psicologica è la discreta apertura dell’uomo a conprendere ogni tipo di motivo ispiratore (salvo a non condividerne i contenuti dottrinali); a gustare ogni genere di stato d’animo liricamente espresso (nella libertà di privilegiarne qualcuno come preferito); ad accettare ogni genere di tecnica espressiva (purchè trasmetta davvero emozioni, produca, cioè,arte, faccia poesia). La seconda legge è la dipendenza delle persone a potenza artistica minore dalla guida di artisti geniali, che riescono ad imporsi, talvolta per intere generazioni, a discepoli imitatori o seguaci fruitori. La storia delle varie “scuole” o “stili” artistici è lì a dimostrarlo, con la fortuna di Petrarca, in sede letteraria e di Michelangelo, in sede di arti figurative, come casi emergenti. Una terza legge è più complessa: esiste in ogni scuola artistica il risalto dato a particolari motivi ispiratori, toni lirici, moduli stilistici, che induce automaticamente la emarginazione di altre tematiche, registri emotivi, forme tecniche; ma esiste anche nell’animo umano, aperto all’universalità di questi valori espressivi, la tendenza a stancarsi della moda imperante, ad accorgersi dei suoi limiti, a desiderare di creare-fruire delle componenti estetiche complementari e, in misura maggiore o minore, opposte ad un bagaglio ideologico, melodico e stilistico ormai logoro, perchè arcinoto. Di qui la tendenza ad accogliere l’esempio (che solitamente precede la teorési o dottrina estetica) di un’arte diversa e nuova, purchè essa sia presentata con l’autorità di una produzione geniale, cioè o posta in atto da un nuovo genio operativo o messa in risalto da un nuovo ingegno critico.[16] La stanchezza dell’arido filosofare illuministico doveva favorire l’affermarsi ed espandersi di una forma d’arte più aperta, dche non il classicismo tradizionale, alla sensibilità ed alla fanatsia.
La seconda “causa” fu l’adesione al movimento di personalità notevolissime sia nel campo critico-storiografico, sia nel campo della produzione artistica. I primi scrissero studi di notevole valore in continuazione delle idee e dei giuidizi dell’iniziatore; i secondi riuscirono in una produzione di capolavori in campo figurativo e letterario che servirono da riecheggiamento per la dottrina a cui si ispiravano e, quindi, di richiamo di altri ammiratori ed imitatori.
Fra i produttori di arte, elencheremo fra poco anche i pittori, scultori ed architetti più in vista. Qui ci interessano invece particolarmente quattro letterati, perchè da essi si può arguire un “perchè” solitamente trascurato alla fortuna del Neoclassicismo e del suo portainsegna. Si tratta di Ugo Foscolo (1769-1827), Friedrich Hoelderlin (1770- 1843), Percy Bysshe Shelley (1792-1822) e John Keats (1795-1821).
Sono personalità davvero ai limiti della normalità; anzi, Hoelderlin era uno schizofrenico, che trascorse gli ultimi 37 anni di vita in una forma di mite demenza, senza più produrre nulla di significativo. Ugo Foscolo fu il personaggio meno abnorme dei quattro, ma anche lui interiormente così discorde, da dover far convivere in sè un genio della poesia e del pensiero con un “distruttore di sè e di sue cose”. Da una parte, scrisse versi sublimi, non solo ne “I Sepolcri”; rivisse fino alla sofferenza le problematiche esistenziali (sul senso dell’uomo e sul finalismo della vita) ed ebbe intuizioni geniali in sede di critica letteraria; dall’altra, però, dissipò il patrimonio della figlia; ebbe rapporti d’amore turbinosi e clamorose rotture di amicizie; non riuscì a convivere nè con l’Austria nè con Napoleone; finì nella miseria dell’esilio, dei debiti e della fuga dai creditori. Egli in tanto fu cantore affascinante dell’armonia, in quanto ne sentiva profondamente il bisogno, perchè uomo senza pace, senza fissa dimora, senza stabilità alcuna. Ora, un simile personaggio era naturalmente inclinato a trovare nell’arte, nella poesia, nella vita fantastica quelle finzioni consolatorie che il suo immanentismo materialistico gli negava nella fede e che la sua tormentata psicologia gli impediva nella realtà della vita
Il poeta inglese Shelley fu eccentrico e stravagante, fino a farsi espellere dall’università di Oxford, respingere per sempre dal padre; si separò dalla prima moglie, avviandola al suicidio, per sposare la figlia di un filosofo anarchico, salvo a girovagare poi per l’Italia, perchè bandito dall’Inghilterra dove aveva tentato un ritorno. Incoerente nel pensiero (ateismo, misticismo, agnosticismo si alternano, mentre giungerà a negare quello che era stato un cardine del suo pensare e poetare, cioè la capacità della poesia a surrogare l’aridità della vita), finirà per lasciarsi volontariamente travolgere dalla tempesta che poteva facilmente evitare, a trent’anni, nel mare di Viarerggio. Ma interessa, di lui, anche la figura fisica: il ritratto (attribuito a Bayerhaus) lo rivela sì virile, ma rimasto perennemente giovane, anzi adolescente: il suo viso implora una difesa e protezione: la Weltanschauung neoclassica poteva spingerlo a cercarle nell’arte, come surrogato del reale.
Quanto a John Keats, morto di etisia a 26 anni, il profilo disegnato da B. R. Haydon lo presenta con caratteri femminili od efebici, con una bellezza di incerta sessualità. Sembra, cioè, l’identikit di un individuo psicologicamente complementare al Winckelmann. E la sua poesia, che consta di composizioni già perfettamente romantiche, culmina però nelle “Odi” neoclassiche: in queste, infatti, si ritrova sia la perfezione della forma, sia l’esplicita trattazione del rapporto fra arte e vita, fra piacere e dolore; sia il riferimento di alcuni simboli (il canto dell’usignolo, le decorazioni dell’urna) al bisogno di immortalità, al sogno di eternità.
Il tipo psicologico che prevale (almeno fra i letterati) non è più quello collerico o flemmatico proprio dei protagonisti francesi dell’Enciclopedismo e della letteratura (anche italiana) del classicismo razionalistico. Qui siamo di fronte a casi estremi di temperamenti nervosi o sentimentali, con una maggior inclinazione alla malinconia, un rifuggire dalla violenza e dai sentimenti estremi, la preferenza per levigatezze emotive e stilistiche, una gentlemanliness che ammorbidisce le superfici, evita le angolosità, sfuma i colori, arrotonda le linee, cura la proporzione dei rapporti, valorizza la musicalità dolce, ammorbidisce i contorni delle statue anche imponenti, ingentilisce il dolore, ammansisce la potenza... Le personalità sono più analitiche che sintetiche; sono più timide che ardimentose; oppure irruenti ma fragili, frementi ma mutevoli; prone al pianto ma con parentesi di esuberanza, lontani da ogni forma di comicità e di riso. Le stesse dimensioni dei lavori letterari si riducono, almeno in Italia: inni, carmi o, al più, poemetti.
E veniamo, ora, agli studiosi continuatori nella propaganda teoretica del movimento.
Il principale continuatore della visione winckelmanniana fu Antonio Raffaele Mengs (1728-79) che, attivo come pittore a Roma (villa Albani) ed a Madrid, scrisse anche dei “Pensieri sulla bellezza”. E condivisero, più o meno profondamente, la nuova cocnezione dell’arte anche il Sulzer, il D’Azara, il Fea, il Reynolds[17]. Ma, in Italia, i due corifei del nuovo verbo estetico furono Luigi Lanzi (Treia, Marche: 1739-1810) e Francesco Milizia (Oria- Brindisi: 1725-1798). Nessuno dei due fu artista figurativo, ma solo teorico e critico.
Il Lanzi scrisse la “Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle lettere fin presso al fine del XVII secolo” (1795-6 e, seconda edizione, 1809)[18]: egli propone il primato dell’arte greca e, per ritornarvi, fa perno su Raffaello, sul Correggio e sui Carracci. [19]
Colui che, però, fece più scuola fu il Milizia. Egli fu chiamato “lo scudiero dei classici”, ad ironizzare su certe sue esagerazioni teoriche e fors’anche a controbilanciare il suo tono vigoroso e polemico. Aveva avuto una giovinezza avventurosa e ribelle, dopo essere stato alunno di Antonio Genovesi. Si interessò a molte scienze (medicina, matematica, astronomia, economia), ma rimase sempre illuminista, erudito, polemico ed anticlericale, distinguendosi come critico e teorico delle arti visive. Difatti, egli non solo ha una conoscenza, sulle manifestazioni artistiche prese in esame, degna di ogni rispetto, ma è di una coerenza imperterrita nel connettere le teorie di perfezione artistica neoclassica con la Weltanschauung (concezione di vita) illuministica, cio’ immanentistica. La bellezza dell’edificio coincide con la sua destinazione: fatto per l’uomo, quello naturale, illuminato dalla ragione e non offuscato dalla superstizione, è destinato ad abitazione civile, costruito per il “buon cittadino”. Quali sottintesi filosofici stiano alle spalle di una simile funzionalità dell’architettura, sono portati alla luce dalla voce “Uomo” nel “Dizionario delle belle arti del disegno”: “Uomo è la cosa più preziosa per l’uomo. Egli è posto fino sull’Olimpo... Non è limitarsi il restringersi alla imitazione dell’uomo; è dare all’arte l’oggetto il più bello, è offrirle lo scopo dove può giungere, è presentare la palma più gloriosa che può occorrere”. Che egli riesca anche pungente e risentito, lo si può capire tenendo presente la sua vita giovanile (e, quindi, il suo temperamento probabile fra nervoso e collerico), ma anche il fatto che egli prende le messe dal rifiuto del barocco come negazione dell’arte: uno spunto decisamente aggressivo. Ancora: egli costruisce la sua storia delle arti figurative come quella di specie viventi ed evolutive: la produzione artistica ha dei progressi e dei regressi, il suo zenit ed il suo tramonto. Non è il primo a seguire uno schema di questo genere: in fin dei conti, quando Giorgio Vasari scriveva le sue “Vite” egli distingueva tre età nella vita artistica italiana, che andrebbe crescendo da Cimabue a Michelangelo. Ma Il Milizia è il primo a porre come criterio non tanto la intensità lirica delle opere e la genialità degli artisti esaminati, ma una estetica precisa, con cui condanna il gotico ed il barocco, in nome di un processo di perfezionamento della classicità che raggiunge il suo culmine nel Neoclassicismo. Gli si deve, per altro, riconoscere il merito di insistere, colla stessa chiarezza di intenti e decisione di stile, sul fine educativo della produzione e fruizione artistica: “Ecco lo scopo finale, il grande scopo delle belle arti del disegno. Senza quest’oggetto il Parnaso non sarebbe che vanità e seduzione. Le belle arti col presentare il perfetto ci han da rendere perfetti”.[20] E proprio per questa sua “religione dell’uomo”, egli ritornò, nell’ultimo anno della sua vita, al maestro Genovesi, scrivendo un trattato di economia pubblica...
ESTENSIONE
DEL NEOCLASSICISMO
Il Neoclassicismo si sviluppa in Italia, Francia, Inghilterra e Germania, dalla seconda metà del Millesettecento al 1820 circa. Esso raggiunge la sua piena espressione negli anni 1795-1815, cioè nel periodo termidoriano e napoleonico della Rivoluzione francese.
In Francia si ha il pittore David (Jacques-Louis: 1748-1825), il cui “giuramento degli Orazi” (Serment des Horaces), del 1784, venne salutato come il “manifesto” nel Neoclassicismo europeo. Egli fu seguace della rivoluzione, con pitture su alcuni dei fatti che l’accompagnarono (Morte di Marat: 1793); aderì infine a Napoleone (Consacrazione di N.: 1805-7). In campo letterario, vi fu Andrea Chénier, che la Rivoluzione ghigliottinò (Costantinopoli 1762- Parigi 1794). Nato da madre ottomana, ma cattolica, visse a Parigi, dove aderì al pensiero illuminista, tanto che salutò con entusiasmo gli inizi della rivoluzione. Ma espresse, poi, orrore per le sue tragiche violenze, il che gli meritò l’incarcerazione e la ghigliottina due giorni prima che cadesse Robespierre. Aveva fatto in tempo a conoscere Vittorio Alfieri, con cui condivise l’esigenza che il letterato non fosse servo di nessun mecenate, di nessun potere. I suoi versi furono raccolti solo nel 1819 e molti sono solo frammenti. Tra le opere complete abbiamo delle “Elégies” (con “La giovane prigioniera: La jeune captive”), Boucoliques (con “La giovane tarantina: La jeune tarentine”), il poemetto “Il cieco” (L’aveugle”) e dei “Giambi: Iambes” scritti in carcere. Incompiuti, come moltissimi altri versi, i poemetti “Ermete (Hermès”) e “L’America” (L’Amérique). E’ l’unico grande lirico francese fra Ronsard (1524-1585) e i romantici. Sia il poemetto “L’invenzione: L’invention” (la sua poetica) che i suoi versi testimoniano il poeta neoclassico per eccellenza: la concezione razionalistica giunge alle conclusioni più logiche di pessimismo irrimediabile, ma consolato nell’abbandono nostalgico ad un ambiente d’amore pastorale, riconosciuto come puro sogno. Anche la malinconia e persino il pensiero della morte diventano allora sentimenti compiaciuti, quasi cullanti nel vuoto di certezze ed ideali. Motivi che si calano non in espressioni di commozione e ribellione, ma in versi lucidi ed eleganti, con una retorica sapientissima, con una grazia ed armonia affascinanti, al di sotto delle quali affiora una contenuta emozione. La conoscenza diretta della letteratura greca, i riferimenti al mondo antico, il rispetto per i tradizionali generi letterari contribuiscono ad avvolgere in una rarefatta eleganza di espressione le tematiche eternamente umane sull’uomo e sulla vita, non più derise alla maniera illuministica, bensì ormai sentite con cuore romantico. Suo è il famoso verso “sur des pensées nouveaux faison des verses antiques”, che esprime l’ideale stilistico del movimento: su motivi ispiratori aggiornati alla filosofia e scienza, scriviamo versi eterni, classici, antichi.
Della Germania, abbiamo già accennato a Federico Hoelderlin, di cui ribadiamo qui il significato, completando vita ed opere in nota[21]. In lui la divaricazione fra ideali sognati e forme espressive diventa patologica. La sua devianza psicologica esaspera la latente ambivalenza del Neoclassicismo, oscillante fra ragione e sentimento, razionalismo volterriano e spontaneità russosiana, fra entusiasmo (Begeisterung) e coscienza (Bewusstsein), tra fuoco del cuore e gelo della mente, fra essere e divenire, fra immobile perfezione cristiana (che ha il LOGOS, il “Verbo” immutabile alla sua origine) e perpetuo dinamismo pagano (che ritiene l’evoluzione, il movimento, l’azione come legge prima della vita, secondo il detto “al principio era l’azione - “Am Amfang war die Tat”- che Goethe mette in bocca al superuomo FAUST)[22]. Incarnati in forme storico-sociali, la razionalità intesa come calcolo arido e freddo egoismo, secondo Hoelderlin, è propria della Germania, umanità alienata dall’ossessione dell’efficienza; il sogno utopistico, invece, di una umanità intesa al bello, al vero, al buono, idealmente dimora in Grecia. Ma non la Grecia odierna: Iperione, giovane greco, si allontana dalla patria in lotta per la libertà contro il dominio turco, perchè l’esperienza di vita fra le bande partigiane è risultata brutale, disumana. Diòtima, la donna amata da Iperione (controfigura del poeta), che incarna lo spirito dell’antica Ellade, muore. Ebbene, Iperione si porta in Germania come poeta ed educatore, per risuscitarvi questo spirito idealista e disinteressato. Nella tragedia “La morte di Empedocle”, il suicidio del protagonista risulta un gesto disperato per il fallimento della sua impresa di salvatore dello spirito autentico della primitiva, innocente Grecia; e, contemporaneamente, una pretesa anticipazione del sacrificio di Cristo. Difatti, Empedocle ascende ai cori celesti. La rivelazione della Grecia ideale, quale mondo prossimo a quello divino, ritorna nelle “Odi” più personali (all’inizio, aveva imitato quelle di Schiller). “L’Arcipelago” esprime lo sforzo più alto di far rivivere il mito di un mondo al di qua della colpa (senza peccato, perchè mancante della coscienza del peccato), ove uomini e dei si trovano mescolati e il destino del poeta e dell’umanità da lui sognata si identifica con quello di Dioniso (“Wie wenn am Feiertage”). In tale progetto di ricreare l’umanità, di rinnovare il paganesimo della Grecia antica, tutti i grandi personaggi (Dioniso e Cristo, Napoleone ed il poeta...) e tutti gli avvenimenti straordinari (compresa la rivoluzione francese) acquistano un senso preciso : Cristo è nunzio del divino; Napoleone è il conciliatore; l’Aquila dell’Apocalisse di S. Giovanni è simbolo di risurrezione e di vita rinnovata, nella redenzione di una festa perpetua...
Ma, in Germania, va ricordato anche il giovane Federico Schiller, quello delle odi “Alla gioia” (“An die Freude”: 1786), Gli dei della Grecia (“Die Goetter Griechenlands: 1788), “Gli artisti” (die Kuenstler”: 1789): esse proclamano l’arte come guida alla interiore armonia dell’uomo.
L’Inghilterra ha due grandi e sventurati poeti in Percy Bysshe Shelley ed in John Keats. Di entrambi abbiamo elencato i limiti umani (di costituzione fisica prima che psicologica) e la fine in età giovanissima: quello praticamente fattosi volontariamente inghiottire dal mare di Viareggio a trenta anni (1822); questi divorato dalla tisi a ventisei (1821). Ma è tempo di delinearne ora la statura poetica. Hanno in comune i contenuti romantici della loro ispirazione e la tecnica neoclassica della versificazione.
John Keats (Londra 1795- Roma, 1821) abbandona la facoltà di medicina per dedicarsi interamente alla poesia. Pubblica nel 1817 i primi versi e nel 1818 manda fuori i quattro volumi del peoma “Endymion”; seguono negli ultimi due anni i poemetti “Lamia”, “Isabella”, “La vigilia di Sant’Agnese”, “Iperione”) e le “Odi” (Ad un usignolo: “To a nightingale”| Sopra un’urna greca: “On a grecian urn”| Alla malinconia: “To Melancholy”| All’autunno: “To Autumn”). Dopo aver perso un fratello e l’amore per Fanny Brawne, muore di etisia a Roma nel 1821, dove si era trasferito nella pseranza che il clima mite lo aiutasse a combattere il male. Pur appartenendo al romanticismo inglese per la effervescenza fantastica che raramente trova un’espressione disciplinata ed armoniosa, tuttavia Keats porta in sè le tracce della cultura neoclassica: la scelta dei miti (emblematici delle tensioni congenite fra i poli opposti del sentimento e della ragione), lo scontro fra sogno e realtà, la esigenza di gioia contrapposta alla soggezione al dolore, l’esasperato contrasto fra vita e morte. Egli riconduce questi contrasti a quello fondamentale fra verità e bellezza, per concludere che la bellezza è l’uinca verità disponibile e necessaria all’uomo.... Quanti punti di contatto con Foscolo, Hoelderlin, Shelley!
Percy Bysshe Shelley (Horsham, Sussex, 1792- mare di Viareggio, 1822). La causa dell’espulsione dall’università di Oxford era stato il suo primo scritto “The necessity of atheism” (1811). Del 1813 è il poema La regina Mab (“Queen Mab”), influenzato dalle idee razionalistiche ed anarchiche del filosofo inglese William Godwin: con la figlia di questi, Mary, andò in Svizzera a convivere, abbandonando la moglie sposata nel 1811. Nel 1816, tornato in Inghilterra, scrive Alastor. Di nuovo in Svizzera, vi incontra Giorgio Byron e scrive il poema rivoluzionario: La rivolta dell’Islam (“The revolt of Islam”: 1818). Essendosi suicidata la moglie, sposa Mary Godwin, scendendo poi in Italia, dove visita Venezia, Roma, Pisa. Ed in Italia pubblica le opere maggiori. I Cenci (The Cenci: 1819), Prometeo liberato (“Prometheus unbound”: 1820), “Epipsychidion” (1821), “Adonas” (id.) ed “Hellas” (1822: è un dramam lirico sulla guerra di indipendenza della Grecia dai Turchi). Aveva scritto anche odi famose, come “Ode to the West Wind” e “The triumph of Life”. In prosa compose una “Difesa della poesia” (Defence of poetry”: 1821). Anche Shelley è troppo più romantico che classico, tanto che è considerato il corifeo del romanticismo inglese, come lascia intuire la sua vita pratica, turbolenta, eccentrica, stravagante ed il suo volto adolescenziale. Ma come il suo pensiero oscilla fra razionalismi atei godwiniani e fantasie panteistiche neoplatoniche, tra aspirazioni prometeiche (bisogno di libertà, ma di natura cosmica e psicologica, prima che politica) ed interessi scientifici, così il suo mondo poetico lascia perplessi fra bravura tecnica (padronanza del verso) e spontanea effervescenza, tra frequenza delle immagini e mancanza di una solida capacità raffigurativa (le immagini hanno valore musicale o di simbolismo cosmico, non icasticità rappresentativa, non efficacia raffigurativa), tra splendore del verso e assenza di coinvolgimento emozionale. Il lettore ha la impressione di essere di fronte ad un edificio ammirevole, ma vitreo, anzi nebuloso e freddo. Ebbene, il musicalismo è la componente neoclassica, con la lucidità, levigatezza e snellezza, che accompagna anche tante opere figurative (anche il Napoleone del Canova, ad esempio), che non commuovono, anche se sorprendono per la bravura della lavorazione, la fluidità delle superfici: ma siamo lontani dal calore , dalla carica emozionale dei poeti romantici, a cominciare da William Wordsworth.
In Russia, influenzato dal Neoclassicismo è il poeta Alessandro Sergeevic Puskin (Mosca 1799-Pietroburgo 1837). Ebbe vita movimenmtata, fra benessere materiale e carenza di affetti familiari (affidato alla nutrice ed a pedagoghi francesi e tedeschi), tra incarichi amministrativi e periodo di confino per idee sovversive (ateismo, rivoluzione), tra amori di contrabbando (Crimea, Caucaso) e matrimonio (con la frivola Natalia Gorbaciova, che gli diede quattro figli, ma non pochi grattacapi per i pettegolezzi sulla sua condotta), fra isolamento nella lontana Ekaterinoslav e vita mondana alla corte, dove era stato chiamato per esservi meglio sorvegliato.... Morì dopo un duello, intrapreso per reagire ai pettegolezzi circa la moglie. Anche il Neoclassicismo di Puskin deve essere visto non tanto nelle tematiche, ben spesso romanticamente imprevedibili o realisticamente sconcertanti, quanto nella forma, raffinata, splendida, parnassiana. Si prenda il romanzo in versi “Eugenio Onegin”, punto di riferimento per tutta la grande narrativa dell’Ottocento russo, sia romantica che realistica.[23] Il ricco ed egoista protagonista rifiuta l’amore di Tatiana e ne corteggia la sorella Olga, benchè già fidanzata con il suo amico Vladimir Lenskij: questi, ingelositosi, lo sfida a duello, ma resta soccombente e muore. Il pervicace Onegin, ritrovando Tatiana dopo anni (si era sposata ad un generale), ha la impudenza di corteggiarla ancora, sebbene stavolta deve rassegnarsi ad un netto rifiuto. Orbene, la trama è quanto mai passionale e violenta, ma la forma è di una classicità raffinata. E questo, nonostante che egli iniziasse il romanzo dopo i due anni di contatto coll’estremamente romantico Byron. Come mai? Il contesto socio-letterario gli poteva ben offrire motivi ispiratori disarmonici e stravolti, ma la tecnica espressiva era qualcosa di congenito, iscritta nei suoi cromosomi. E i critici che conoscono la lingua russa non esitano a celebrare la superiore eleganza, perfezione, grazia e splendore della sua versificazione. Si giunge a parlare di una “elegia oggettiva”, impersonale. Son, queste, formule ambigue, che pare però accennino ad una latitanza dell’emotività in favore della raffinatezza stilistica. Ed anche la prosa ha un suo fascino inimitabile: vi è una impronta di lucidità nel pensiero, di elezione nei vocaboli, di armonia nella sintassi e di levigatezza nel musicalismo che fan parlare di “scrittura splendidamente disadorna”. Siamo, mi pare, al programma di Chénier “Sur des pensées nouveaux faison des vers antiques”; ricadiamo nell’ambivalenza di Shelley e di Keats... Forse solo il Foscolo riuscì a far trapassare la intensità romantica delle emozioni nella forma traslucida del linguaggio neoclassico.
L’Italia è certo stata fra le prime nazioni ad essere influenzata dal Neoclassicismo, perchè già nel 1779 la “Storia dell’arte nell’antichità” era tradotta: ancor prima, nel 1776, quando Brera iniziò la sua attività, Parini vi trovò uno stimolo ad approfondire il suo classicismo, coi risultati che si percepiscono sia nel “Vespro” e nella “Notte” del suo poema sia nelle ultime Odi: i colleghi delle arti figurative (Traballesi, Franchi, Albertolli, Knoller, Piermarini, Appiani) erano già iniziati alla nuova temperie neoclassica e vi trascinarono anche il poeta brianzolo.
Tra i principali seguaci della nuova scuola, in Italia, troviamo, dunque, gli architetti Giuseppe Piermarini, [24] Luigi Cagnola[25], Luigi Canonica;[26] lo scultore Antonio Canova[27] e il pittore Andrea Appiani[28]. E già si sono visti studiosi di arte in senso neoclassico, come il Lanzi ed il Milizia.
In sede di letteratura, si ha un elenco notevole di poeti (e non mancano anche prosatori), ma quasi nessuno è “monoliticamente” neoclassico. Così, Ugo Foscolo che viene solitamente additato come il protagonista del neoclassicismo letterario, viene citato (e giustamente, ci pare) come il vero iniziatore del Romanticismo in Italia, per il discorso di apertura, nel gennaio 1809, dell’anno accademico nell’ateneo pavese (“Dell’origine e dell’ufficio della letteratura”); e per le commoventi tonalità dei suoi migliori componimenti poetici. Unico poeta noto come neoclassico puro rischia di essere Vincenzo Monti: i molti altri che ora aggiungeremo, oscillano tra uno stile neoclassico (almeno in alcune loro composizioni) ed un contenuto (e stile correlativo) di altra scuola. Si pensi a molti versi del Parini giovane che si rifanno al Berni (come quelli per la morte dello Sfregia barbiere): essi sono quanto mai popolani nel contenuto e realistici nella forma.
Ma richiamiamo alcuni nomi tra quelli conosciuti, dando qualche cenno in nota per quelli di cui nè abbiamo ancora parlato nè avremo occasione di trattare.[29] Luigi Cerretti (Modena, 1738-1808: Poesie, 1799), Agostino Paradisi (Vignola-Modena, 1736-1783: Versi sciolti, 1762; Rime sacre, 1787), Francesco Cassoli (Reggio Emilia, 1749-1812: Versi, 1802), Carlo Castone Della Torre di Rezzonico (Como 1742-1796: Il sistema dei cieli, 1775; L’origine delle idee, 1778; L’eccidio di Como, 1790), Angelo Mazza (Parma, 1741-1817: oltre le traduzioni, scrisse odi neoclassiche), Giuliano Cassiani (Modena, 1712-1778: Saggio di rime, 1770), Giovanni Paradisi (1760-1826: è figlio di Agostino; l’ode “La Passione” e l’inno “A San Pietro” precorrono gli Inni sacri del Manzoni), Luigi Lamberti (Reggio Emilia, 1759-1813: Poesie e prose,1822), Cesare Arici (Brescia, 1782-1836:La coltivazione degli ulivi, 1805; Il corallo, 1810; La pastorizia, 1814; L’origine delle fonti, 1834; Il Camposanto di Brescia, 1823; Versi sacri, 1828), Lorenzo Mascheroni (Castagneta, Bergamo, 1750-1800: L’invito, versi sciolti di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia, 1793)[30], Giovanni Fantoni (Fivizzano, Massa Carrara, 1755-1807: Odi, 1782; Scherzi: 1784; Poesie varie e prose: 1785), Ludovico Vittorio Savioli Fontana Castelli (Bologna 1729-1804: Amori, 1765 e 1782).
Come già accennato, anche il Manzoni ebbe una fase neoclassica prima della conversione: il poemetto “Urania ne è l’opera più rappresentativa. Di altri poeti oscillanti fra neoclassicismo e romanticismo, il Binni ricorda Diodata Saluzzo-Roéro (Torino, 1744-1840), Alessandro Verri (Milano, 1741-1816), Aurelio Bertòla de’ Giorgi (Rimini, 1753-1798), Ippolito Pindemonte (Verona, 1753-1828) e l’arcade Jacopo Vittorelli (Bassano- Vicenza, 1749-1835).
Nella prosa, il neoclassicismo significò l’uso di una lingua toscana sempre più esigente nella proprietà ed eleganza dei termini e nella precisione della sintassi. Non si può negare che il fenomeno del “purismo” linguistico, esasperatosi all’inizio del Milleottocento, sia stato incoraggiato indirettamente dalle esigenze di raffinatezza della scuola neoclassica. Per questo citiamo qui, assieme a scrittori, grandi anche per il loro pensiero come Vincenzo Cuoco, studiosi noti solo per la forma, per un puntiglio stilistico che servì certo a definire sempre meglio il vocabolario e la costruzione della lingua, ma non arricchì il patrimonio di idee e di di emozioni della nostra letteratura (Antonio Césari, Basilio Puoti, Pietro Giordani), mentre altri sono degni di nota, oltre che per la purezza stilistica, anche per il valore filologico (Giulio Perticari) o per gli apporti storiografici (Pietro Colletta, Carlo Botta). A parte prenderemo in considerazione il re del puro neoclassicismo italiano, Vincenzo Monti, sebbene pare che proprio a lui si addica il verso del Foscolo “Sdegno il verso che suona e che non crea” (Le Grazie, I, 25).
VINCENZO CUOCO (Civitacampomarano, Campobasso, 1770 - Napoli, 1823) sentì l’influsso del Genovesi e di Mario Pagano e attese a studi giuridici, filosofici, storici e letterari. Dopo aver preso parte alla attività della Repubblica partenopea, fu condannato all’esilio dai Borboni ed a Milano fondò il “Giornale italiano”. Rientrato nel 1806 a Napoli, fu accanto a Giuseppe Bonaparte ed a Gioachino Murat come consigliere di stato e direttore generale del tesoro. Una malattia mentale, intervenuta subito dopo il rientro dei Borboni, caduto Napoleone, lo eslcuse da ogni ulteriore attività politica ed intellettuale. A parte il “Rapoporto al re Murat per la organizzazione dela pubblica istruzione”, le sue opere principali sono due: “Platone in italia” (1804-6: Cuoco ha studiato il Vico e qui tenta illustrare in forma romanzesca la civiltà della Magna Grecia, sostenendo la origine autoctona della cultura italica, come quello aveva avanzato l’ipotesi di una “Antiquissima Italorum sapientia”); e il “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, il suo capolavoro (1801; in seconda edizione accresciuta, 1806). E’, questo, un esame critico sia della situazione del regno borbonico prima della entrata dei Francesi; sia del governo, ad un tempo ingenuo e crudele, di questi ultimi: astrattezza e schematismi preconcetti avevano condannato al fallimento una rivoluzione imposta dall’alto e subita passivamente dal popolo. Essi vollero applicare al popolo dell’Italia meridionale modelli legislativi totalmente al di fuori della tradizione e convinzioni della gente interessata. In termini vichiani: non avevano tenuto presenti i valori propri di una società forse prefilosofica, ma certo ancorata alla fede ed alla poesia, alla religione ed al sentimento. In concreto: avevano emanato leggi contro la coscienza e le abitudini della popolazione, irritandola e facendola sollevare contro un governo sentito come tirannico.
In tale studio, egli procede con distinzioni e gradualità esaurienti, realizzando davvero, a livello sia pur solo razionale, molte delle caratteristiche previste dal Winckelmann pel Neoclassicismo. Ad esempio, la lucida disanima di questo errore di fondo, che spiega la facile vittoria degli uomini agli ordini del card. Fabrizio Ruffo, è condotta con una capacità di introspezione psicologica ed un potere di distinzione analitica straordinari: questa “lucidità” intellettuale fa da parallelo alla “levigatezza”, di cui si è parlato spesso per le opere d’arte neoclassiche. E’ una acutezza di lettura dell’animo umano ancor più profonda di quella del Guicciardini, meno calda ma anche meno fallosa di quella del Beccaria. Chiarezza delle singole descrizioni; acutezza della lettura nei rapporti di causa ed effetto; organizzazione degli accadimenti in una visione d’assieme coerente; continuo riferimento a princìpi psicologico-sociali che danno un colpo d’ala alle analisi, facendone un “ctèma eis aéi”, un acquisto per sempre, rendendoli, cioè, canoni interpretativi validi per ogni situazione storica. Non è questa la “edle und zusammen groesse Einfalt”, la nobile e contemporaneamente ricca semplicità delle statue greche, in chiave di lettura neoclassica? La complessità aggrovigliata della matassa negli avvenimenti paradossali (cioè delle intenzioni sublimi nei progetti e degli errori madornali nell’esecuzione) si riduce a trasparente evidenza, ad ordinata correlazione, a comprensibile convergenza: tutto diventa semplice , perchè si è condotti per mano a scoprire il segreto della complessità, che non è più complicazione confusa, ma completezza esauriente.
A questa prima virtù, si deve aggiungere la pacatezza d’animo con cui l’indagine viene condotta: pur trattandosi di una vicenda in cui egli era stato coinvolto, pagando di persona con l’esilio, con un distacco da vero gentiluomo, egli giudica con imparzialità serena il succedersi degli avvenimenti, con uno sguardo superiore, olimpico. Egli è freddo, pur lasciando intuire una tensione dimostrativa; egli apapre impassibile, nella pur sospettabile intenzione giustiziera. E’ di un pessimismo ragionato e, perciò, irredimibile: nessuno delle due parti ha ragione; non vi sono spiragli di meriti o riconoscimenti per nessuno. Ebbene, quando questo quasi disumano distacco dai fatti giungerà agli estremi, non avremo più il lucido indagatore di una singolare vicenda storica, ma l’ammalato mentale chiuso alla capacità stessa di connettere e ragionare. Ma, per il momento, la indagine può procedere senza eroici furori beccariani, senza pressappochiste forzature machiavelliche, senza retorica altisonante nè sentenziosità violenta. Non è questa la “stille Unbestimmung” la calma imperturbabilità del Winckelmann? Nel caso concreto, si noti, tali doti fanno del “Saggio” più uno studio di straordinaria acutezza storiografica che un’opera d’arte, proprio per la latitanza di quel fattore emotivo che dell’arte è l’essenza. Ma è un fatto che il libro si fa leggere e che il lettore ne esce arricchito razionalmente e moralmente.[31]
Riportiamo qualche brano esemplare, a documentazione di virtù e limiti del lavoro. Dal c. II: “... il periglio rende entusiasti i guerrieri, e la fame rende i guerrieri eroi. Una guerra esterna, mossa con eguale ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile”. Dal c. III: “I Francesi caddero nell’errore nel qual cadono per l’ordinario gli uomini che seguomo idee soverchiamente astratte, che è quelo di confondere le proprie idee con le leggi della natura”. Dal c. IV: “La corte di Napoli era la corte delle irresoluzioni, della viltà e, in conseguenza, delle perfidie”. Dal c. VI: “Guai a chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto più ha temuto, più dovrà temere. Molto temeva la regina di Napoli, ed Acton voleva che teemsse di più”. Dal c. VII: “I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione”; “... una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il popolo non si muove per raziocinio, ma per bisogno. I bisogni della nazione napolitana erano diversi da quelli della francese...”; “La discussione farà nascere le idee contrarie; è effetto del’amor proprio: due uomini sono sempre più concordi al principio della discussione che alla fine”. Dal c. XI “Siccome nelle leghe non si dà mai più di quello che uno si prende, così de’ collegati ciascuno si affretta a prendere quanto più può e quanto più presto possibile; la vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sè, si obliano gli interessi di tutti”. Sempre al c. XI “Championnet... fu assoluto, perchè facilmente si giustifica ogni audacia che abbia ottenuto prospero successo”. Dal c. XV: “le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto essere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalle nostre; fondata sopra massime troppo astratte, erano lontanissime dai sensi, e, quel ch’è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo lontanissimo dai nostri difetti, dai nostri capricci, dagli usi nostri...”. Sempre dallo stesso capitolo XV:”Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio, che esso non intendeva, gli avesse procurato beni reali e liberato lo avesse da quei mali che soffriva, forse allora il popolo, non allarmato dall’aspetto di novità contro delle quali aveva inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee e i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di sorte migliore”. Ed ecco un frammento della lettera a Vincenzo Russo: “I francesi avevano fondata la loro costituzione sopra princìpi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni”.
PIETRO COLLETTA (Napoli, 1775 – Firenze, 1831). Si mise al servizio di Gioachino Murat, ma le benemerenze professionali –era ufficiale dell’esercito- lo avevano salvato da persecuzioni ed era passato ai Borboni come tenente generale. Non così dopo i moti del 1820, cui partecipò finendo in esilio a Firenze. Lì scrisse la Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825. Gli amici fatti a Firenze, da Pietro Giordani a Giovanni Battista Niccolini, da Raffaello Lambruschini a Giacomo Leopardi ed a Gino Capponi (fu questi a curare la edizione postuma dell’opera:1834) gli trasmisero preoccupazioni stilistiche, anche se non riuscirono ad assicurargli quella continuità di forma espressiva, cui forse non sarebbe mai giunto. C’era, nell’uomo, un fondo si particolarismi e di tendenziosità per cui non riesce, neppure dopo Napoleone, a guardare alla nazione intera, chiuso come è nella cerchia dei confini del regno borbonico; e addirittura gli toglie serenità nel giudicare, incline a parzialità e pregiudizi indegni di una grande mente.
CARLO BOTTA. Nato a San Giorgio Canavese nel 1766, morì a Parigi nel 1837. Medico, entusiasta della Rivoluzione, ne seguì le sorti sino a divenire direttore dell’ospedale nell’isola di Corfù, fino ad essere nominato deputato a Parigi, per il dipartimento della Dora (essendo il Piemonte ormai annesso alal Francia) e fino a divenire cittadino francese. La Restaurazione lo mise in strettezze anche economiche, specialmente quando gli fu tolta la rettoria della Accademia di Rouen, nel 1821. Scrisse, allora, anche per guadagnarsi da vivere. Ma la sua congenialità all’usare la penna, l’aveva già dimostrata mettendo in carta la “Storia naturale e medica dell’isola di Corfù”e la “Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti” (1809). Continuò a scavare nel filone storiografico con due opere ponderose: la “Storia d’Italia dal 1789 al 1814” (1824) e la “Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini fino al 1789” (edita nel 1832 in 15 volumi). Scrisse anche un poema classicheggiante (“Camillo o Veio conquistata”). Il classicismo di queste scritture è fin eccessivo, ma i discorsi attribuiti ai vari personaggi mancano di quella potenza di introspezione psicologica, che li rendono belli ed utili anche se inventati dallo scrittore (la storiografia rimane per lui “opus oratorium maximum”, cioè la forma più alta di discorso). Ed il moralismo rimane generico, come mancante è la interpretazione coerente dei fatti che giungano a dar ragione dello scoppio della rivoluzione. Questa stessa, ora, è guardata con ambiguità: Napoleone, prima servito puntualmente, ora è giudicato severamente. Il suo riformismo moderato, ch’egli propone come surrogato agli eccessi rivoluzionari, rimane generico ed astratto Così, egli non piacque come scrittore nè ai conservatori nè ai liberali e non divenne, come il Colletta, un autore esaltato durante il Risorgimento. Coerente fu invece nell’osteggiare apertamente il romanticismo e nell’attenersi ad un purismo linguistico che lo accomuna ai Neoclassici.
PIETRO GIORDANI (Piacenza, 1774-Parma, 1848). Temperamente nervoso e spirito critico, ebbe, da giovane, contrasti domestici e difficoltà finanziarie. Simpatizzante per Napoleone, fu prosegretario dell’Accademia delle belle arti di Bologna, dal 1808 al 1815. Si avvicinò, poi, all’Austria e fu vicedirettore del periodico “La Biblioteca italiana”, che difendeva la causa del classicismo (anche contro “Il Conciliatore”) e difendeva il purismo contro le innovazioni straniere. Ebbe difficoltà, però, anche con l’Austria e si rifugiò a Firenze, dove ebbe amici il Vieusseux (Giovan Pietro, di Oneglia), Il Capponi (Gino) ed il Colletta. Collaborò alla “Antologia”, che fu l’opera viva del cosiddetto “gabinetto Vieusseux”. Fece in tempo ad entusiasmarsi per i moti del “Quarantotto”, l’anno in cui morì. Egli era quello che si chiama un “perfezionista”, per cui faceva fatica ad accordarsi con la società: anche in sede letteraria, è sintomatico che un classicista e prurista come lui -al punto da non intendere nè apprezzare il Foscolo- riuscisse però a sintonizzarsi sul Leopardi ( fu lui ad introdurlo nel mondo dei dotti fiorentini) e col Manzoni (quello del capolavoro, almeno). Non ci ha lasciato alcuna opera importante, ma è un esempio di scrittura esemplarmente elevata (magari con qualche spunto di retorica) e di purismo discreto (magari con qualche affettazione di fiorentino popolare): mi pare che si possa avvicinarlo a qualche scrittore terso, controllato, dal contenuto non sublime ma pur sempre interessante, della “Ronda”, il movimento di ritorno all’ordine, almeno in sede letteraria, del 1921 in Italia. Pubblicò qualche scritto teorico (“A un giovane italiano. Istruzioni per l’arte di scrivere”: 1821; “Sul vero nelle arti della parola e del disegno”: 1827), ma il suo libro migliore è quello che raccoglie “Discorsi ed elogi” (1827), in cui spicca il ritratto del Monti. Il suo pensiero, moderato in politica, illuminista in filosofia, fu sempre anticlericale (con scritti adeguati: “Per le tre legazioni riacquistate dal papa”: 1815; “Storia dello spirito pubblico in Italia”): Si interessò anche di pedagogia (“La causa dei ragazzi di Parma”: 1819; Degli asili d’infanzia”: 1844). Studio specifico di critica letteraria fu quello “Dei volgarizzatori trecenteschi” (1834).
GIULIO PERTICARI (Savignano sul Rubicone, Forlì, 1779 – Peasro, 1822). Fu autore di versi mediocri (“Il prigioniero apostolico”| “Cantilena di Menicone”). Sposò Costanza, la figlia di Vincenzo Monti. Il suocero inserì nella sua “Proposta di alcune aggiunte e correzioni al vocabolario della Crusca” (1817-26) due studi del Perticari (“Degli scrittori del Trecento e de’ loro imitatori”: 1818| Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eleoquio”: 1820). Tali studi servirono a confortare la comune tesi contro gli estremismi di p. Césari, cioè a difendere un purismo moderato e non maniaco: il Monti ed il genero auspicavano una lingua fedele alla tradizione, ma aperta ad innovazioni necessarie alla terminologia scientifico-tecnica e non necessariamente confinata nel lessico fiorentino. Una tesi di buon senso, anche se la proposta concreta del Perticari per attuarla, non fu, poi, accettata dall’uso. Egli, infatti, interpretava il linguaggio “aulico, cardinale, illustre e curiale” di Dante come una specie di libera circolazione da una regione all’altra d’Italia dei vocaboli migliori: era il cavallo di Troia per sostenere che, in tempi di scambi maggiori di uomini, cose e termini, si poteva estendere tale osmosi linguistica al libero prestito di parole da una parlata nazionale (straniera) all’altra. Che, almeno per il momento, era decisamente troppo.
MELCHIORRE GIOIA (Piacenza 1767 – Milano 1829). Uscito sacerdote dal collegio Alberoni, simpatizzò, poi, con le idee rivoluzionarie, abbandonando l’abito e la vita sacerdotale. Si immerse nella vita pubblicistica, fondando parecchi giornali. Fra incarichi da parte francese ed imprigionamenti da parte austriaca (fu creduto coinvolto nei moti del 1821, ma poi riconosciuto estraneo e liberato), scrisse con fecondità notevole. Si occupò di sapienza umanistica (“Elementi di filosofia"” 1818; “Ideologia”: 1822; “Esercizio logico sugli errori”: 1824), ma più caratteristici ed innovatori sono gli studi di scienze economiche (“Nuovo progetto delle scienze economiche”:1815-1819; “Del merito e delle ricompense”: 1818), imprimendo una svolta all’economia stessa con l’applicarvi la scienza statistica, della quale risulta il fondatore. Egli la chiama”scienza economica delle nazioni”, in cui “si esamina l’influsso delle cause fisiche e morali, interne ed esterne su le fonti della produzione, su la popolazione, su i lavori e su le abitudini”. L’ultima sua opera è appunto la “Filosofia della statistica” (1826). Irretito nel sensismo, ne sostenne i corollari fino all’utilitarismo ed all’edonismo in sede etica, sicchè ebbe moltissime opere dannate dalla Chiesa all’indice dei libri proibiti.
GIANDOMENICO ROMAGNOSI (Salsomaggiore, 1761 – Milano, 1835). Si laureò a Parma, in giurisprudenza, dopo la frequenza dell’Alberoni, presso i gesuiti. Notaio, pretore, consigliere aulico del governo austriaco, fondò con Francesco Saverio Salfi la “loggia Gioseffina”, aderendo così alla massoneria. Fu coi francesi nel 1796, fondando un club di giacobini. Fu, perciò incarcerato dagli Austriaci e, dopo Marengo, fatto professore di diritto pubblico a Parma. Cooperò alla preparazione del Codice penale per il Regno italico. Dal 1811 al 1814 diresse un “Giornale di giurisprudenza universale”. Nel 1815 pubblicò anonimo, a Lugano, il volume “Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa”. Il libro gli costò la cattedra di “alta legislazionenei sui rapporti con la pubblica amministrazione”. Visse, allora, di lezioni private, avendo discepoli del livello di Cesare Cantù, di Carlo Cattaneo e di Giuseppe Ferrari.[32] Anche lui fu sospettato ed assolto in occasione dei moti del 1821, ma dovette rinunciare anche all’insegnamento privato.Visse in povertà, dando consulti legali, rimanendo fedele alle idee liberali ed agli studi giuridici e storici. Non fu propriamente un letterato, ma un giurista che tentò di guardare alla scienza della legislazione con animo filosofico e grande apertura ai problemi umanistici. Tra le molte opere, segnaliamo: “Genesi del diritto penale” (1791) “Scienza delle costituzioni” (1815, ma edita solo nel 1848); “Assunto primo della scienza del diritto naturale” (1820); “Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento” (1832). Auspicò una sintesi di economia, diritto, politica come filosofia civile (“Giurisprudenza teorica, ossia Istituzione di civile filosofia”: 1839, postuma).
FRANCESCO LOMONACO (Montalbano Ionico, Matera, 1772 –Pavia, 1810). Fu un altro italiano ingenuamente fiduciosi nell’astrattezza dei princìpi repubblicani di Francia e disilluso della loro messa in opera nel Napoletano: egli sfuggì alla repressione borbonica del 1799-1800, riparando a Parigi. Ma, fatto insegnante della scuola militare di Pavia, si urtò col regime napoleonico per i troppo sinceri sentimenti nazionali italiani: si tolse la vita nel 1810. Tra i suoi studi, emergono quelli storici: “Vita degli eccellenti italiani” (1802), “Vite dei famosi capitani d’Italia” (1804-5: nella edizione dell’Opera omnia: Lugano, 1831-7, è in tre volumi, come la precedente), “Discorsi letterari e filosofici” (1809). E’ da notare che il Manzoni conobbe la vita del Carmagnola attraverso l’opera del Lomonaco, tenendola presente nello scrivere la tragedia omonima.
FRANCESCO SAVERIO SALFI (Cosenza, 1759- Parigi, 1822). Sacerdote, optò per la politica ed il liberalismo rivoluzionario, fuggendo da Napoli a Genova, dove svestì la talare, seguendo il trionfo e le sconfitte delle armi francesi da Milano a Napoli (repubblica partenopea) ed a Parigi. Insegnò a Brera sotto Napoleone e fu poi consigliere del Murat. Dopo il 1815 riparò definitivamente in Francia. Cofondatore col Romagnosi della loggia masonica “Gioseffina”, immette nei suoi libri spiriti laicisti. Curò la edizione degli ultimi volumi della “Histoire littéraire d’Italie” di P. L. Ginguené. Benchè scrivesse ormai in francese, tuttavia rimane apprezzabile la sua opera di critico. Continuò la stessa “Storia” del Ginguené, dimostrando una equanime oggettività nel giudicare il Seicento, ciò che, assieme alla eccezionale conoscenza di dati e personaggi del periodo barocco, fa del suo lavoro un’opera ancora da consultarsi in materia. Contribuì anche alla “Bibliographie universelle” ed alla “Révue encyclopédique”, rivelandosi uno storico documentato ed acuto. Meno significativa è la produzione in versi: nelle tragedie, imitò l’Alfieri (“La congiura pisoniana”| “Virginia bresciana”); scrisse anche testi per melodrammi.
GIUDIZIO
(SIGNIFICATO) DEL NEOCLASSICISMO.
A LIVELLO ARTISTICO
Con le le molte opere pervenute a grandi valori estetici, sia in campo figurativa sia in quello letterario, il Neoclassicismo fu un movimento artisticamente positivo e fecondo. Trascurando, per limiti di competenza, le arti figurative, vogliamo qui solo ricordare che la grandezza del movimento in Italia non è stata ancora tutta presa in esame, visto che non abbiamo ancora visitato nè Vincenzo Monti, il più compiuto rappresentante del movimento nei suoi valori e nei suoi limiti; nè Ugo Foscolo, il poeta che, dotato di una potenza poetica suprema, sublima anche lo stile espressivo a risultati sorprendenti. Li prenderemo in considerazione ben presto.
A LIVELLO DI ESTETICA (filosofia
dell’arte).
Sulla estetica winckellmanniana il giudizio non può essere che equivoco: il critico tedesco introdusse una terminologia che indubbiamente avvicinava alla verità la serie dei concetti tradizionali cui si faceva riferimento per stabilire l’essenza dell’arte, ma non del tutto correttamente. Si era fermi, ancora nel tardo Millesettecento, alla “Ars poetica” di Orazio, al dualismo tra espressione di bellezza e finalità educativa. Che se la bellezza veniva sempre più intuita come collegata col mondo misterioso della emotività, questa era, poi, ben lontana dal distinguere in se stessa i sentimenti della vita pratica dalle emozioni artistiche. Ora, la “nobile semplicità”, la “pacata grandezza”, la “bellezza ideale” avevano appunto il merito di insinuare un cuneo e iniziare a porre delle distinzioni fra gli stati d’animo pratico-operativi e quelli astratti e contemplativi, fra sentimenti ed emozioni appunto. Secondo noi è questo il preciso merito del Winckelmann: aver intuito che occorreva introdurre delle caratteristiche nuove, delle valenze peculiari, delle componenti singolari per definire e differenziare le commozioni di valore lirico da quelle di valore esistenziale. Se lo studioso tedesco avesse avuto coscienza dello scopo preciso delle sue proposte estetiche, allora egli sarebbe diventato un punto trigonometrico nella storia della estetica: egli infatti ha trovato, pur tra sofismi ed arzigolgoli, un modo per stabilire una qualche distinzione fra le due realtà: non tutte le espressioni di emotività sono artisticamente valide. Era questo un primo, grande apporto, anche se generico e quindi non definitivo, alla scienza estetica.
Ma qui finisce il suo merito ed iniziano i suoi limiti. Egli, infatti, anzichè ricercare la differenza fra passioni pratiche ed emozioni contempative, all’interno dell’animo umano, si ferma a riflettere sulle espressioni artistiche esteriori (scultoree, soprattutto), per costatare che le impressioni, che alcune statue inviano al loro contemplatore, sono elevate, nobili, consolanti, mentre altri lavori inviano messaggi violenti, scomposti, sconvolgenti e, perciò, disgustosi. La sua conclusione sta nel riconoscere come artistiche solo le prime opere; nel rifiutare come “Kitsch” le seconde. Anzichè incidere col “laser” della ricerca nel groviglio della sorgente operativa stessa dell’arte; anzichè esaminare la psicologia umana nell’atto di produzione del capolavoro artistico, egli si sofferma ad analizzare le onde di ritorno dalle opere al fruitore, cioè limita la sua “diagnosi” alle impressioni che gli giungono dalle opere già prodotte. Fermo ad una tecnica... chirurgica primitiva, il suo “bisturì” finisce per incidere fra emozioni piacevoli|spiacevoli nella vita concreta, cioè per escludere dall’arte le emozioni più alte e sconvolgenti, applicando alla vita virtuale dell’arte un giudizio che vale solo per la vita reale dell’uomo[33]. Ha capito che esistono due tipi di stati emotivi, di cui uno è artistico ed un altro, no; non ha intuìto che l’emozione artistica è quella che prescinde da qualsiasi rapporto con la vita pratica e non quella che si riferisce alla vita pratica, ma solo in senso piacevole! Bisogna ammettere, però, che il Winckelmann si era messo su una via nuova e feconda: chiedergli la soluzione precisa dell’indovinelklo estetico era troppo per i tempi, che non avevano neppur iniziato a capire il funzionamento del cervello, la distinzione delle sue attività e la eventuale simbiosi di qualcuna fra loro, a servizio dello spirito e della umana intelligenza.
Il romanticismo apportò la prima critica –e ben radicale- al sistema del “bello ideale” neoclassico. Nel 1827 Victor Hugo, con la prefazione alla sua tragedia “Cromwell”, non esitava ad inserire il brutto nell’arte, a considerare il brutto come una forma artistica. ?????????????????
Se quella del Winckelmann era una scelta di sentimenti accetti alla “buona” società borghese, quelli cioè che nella vita concreta non possono offendere, perchè hanno tutti, come minimo comun denominatore, la gentilezza, la discrezione, il giusto mezzo, il “niente di troppo”[34]; quella di Victor Hugo era la scelta di un populista dalle idee grandiose ma confuse, che passava ad esaltare il brutto in arte, perchè il male fisico e morale era più facilmente rintracciabile nelle masse dei poveri, la cui vita doveva sperimentare spesso il disordine e l’ingiustizia, l’esasperazione e la collera, il grottesco del ridicolo nello strazio della sofferenza: ed anche i poveri avevano diritto di essere protegonisti nelle opere d’arte.
Si trattava dell’equivoco uguale e contrario a quello del Winckelmann. Come questi non si rende ragione che l’arte rende bello, attraente, affascinante anche quanto nella vita concreta risulterebbe disgustoso, penoso, dolorifico (cioè tutto quanto potrebbe essere riassunto nel vocabolo “brutto”), così Victor Hugo non spiega che il brutto in tanto può aver parte dell’arte, in quanto si accontenti di essere (dapprima) stimolo, cioè motivo ispiratore, alla reazione emozionale dell’artista; e (alla fine: fattore stilistico) strumento di estrinsecazione della affezione emozionale (o lirica) stessa. Il brutto rimane fuori dall’essenza o formalità dell’arte, ma questa può ben rifarsi al brutto esistenziale, cioè a quanto nella vita ci tormenta o ripugna, assumendolo come materia istigatrice, prima; e come mezzo espressivo dell’emozione, poi. Difatti, la emozione, che per essere artistica deve venir espressa nella sua nudità elementare, nella sua astrattezza universale, trascende l’occasionale “brutto” da cui ha preso inizio e di cui si serve come semplice veicolo di trasmissione. Una qualsiasi espressione (verbale, pittorica, musicale...) che comunichi l’impressione del brutto, non sarebbe certo opera d’arte ma, al più, documento sociale, morale, medico, psicologico, ecc. (sarà, questo, l’errore di tanta parte del Naturalismo-realismo-verismo).
In parole più concrete: una volta che l’artista si è acceso di commozione di fronte ad un fatto ripugnante o straziante, nella espressione artistica ciò che colpisce il fruitore è soprattutto la passione emotiva intervenuta ed espressa, che impressiona talmente la intelligenza, da farle emarginare ed ignorare la vicenda o la cosa in sè repellente, che ha suscitato lo sdegno o il riso dello scrittore, pittore, ecc. .
Non è appunto ciò che capita a Michelangelo (i demòni della Sistina), Shakespeare, Dante od allo stile gotico? Non è ciò che avviene nella tragedia e nella commedia, nella drammaticità più alta o nella ironia, satira, grottesco e sarcasmo? La potenza lirica fa obliare la materia che la suscita. Nella Divina Commedia, come in ogni caso di espressione realistica riuscita ad arte, il brutto della vita pratica (le cose, gli avvenimenti che, nella realtà della esistenza, susciterebbero dolore od orrore, disgusto o ribrezzo) sono puri motivi ispiratori, obliati nella forza emotiva che si esprime attraverso l’opera e, quindi, nella impressione di chi la contempla.
A sottolineare l’unilateralità storiografica della interpretazione neoclassica dell’arte greca ci doveva pensare Federico Guglielmo Nietzsche, con la sua opera “La nascita della tragedia dallo spirito della musica” (Die Geburt der Tragoedie aus dem Geiste der Musik) del 1872. Egli dimostra facilmente che, accanto allo sprito appollineo, esisteva nella cultura greca quello dionisiaco, cioè accanto ad un’arte solare, della gioia esultante e dell’ordine, della eleganza e dell’armonia, vi era posto anche per quella tenebrosa, della cupa tristezza e del disordine, dell’ebbrezza e della dissonanza. La tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide concilierebbe questi due momenti dell’anima greca. In realtà, come si è accennato, già il Canova si era accorto che l’arte di Fidia era più complessa e non poteva essere definita nei limiti della “bellezza ideale”. Alla interpretazione unilaterale delle opere figurative della Grecia antica aveva contribuito, come si è pure accennato, il fatto che il Winckelmann aveva scambiato per arte greca originaria o classica quelle che erano imitazioni di età e viraggio alessandrino. Un insieme di critiche che, ripetiamo, non debbono far dimenticare il progresso nella definizione del bello artistico: espressione di una forma di emotività diversa da quella orientata alla vita pratica (sentimenti). Un errore, il suo, ma ricco di promesse.
A LIVELLO FILOSOFICO
Se in campo artistico il Neoclassicismo continua e sublima il Millesettecento (classicista); se in campo estetico ne segna pur un progresso, barcamenandosi tra folgorazioni di verità e zavorra di errori, in sede di pensiero religioso, morale, antropologico esso ne segna la crisi e ne prepara il rovesciamento.
All’irriverente ed irridente ottimismo dei “philosophes”, succede ora la serietà e l’accoramento dei nuovi pensatori-letterati. Nell’Illuminismo, il rifiuto di una Provvidenza per la vita presente e di una immortalità per la futura era compensato dalla arroganza pei risultati, conseguiti dalla intelligenza umana; e dalle certezze sulle immancabili sorti, per l’avvenire della società illuminata. Ma il bagno di sangue della rivoluzione farncese aveva denigrato la fiducia nei lumi della mente e spenta quella nell’avvenire dell’umanità. La coscienza, che così poco spazio aveva avuto negli illuministi, riprende il suo posto accanto e sopra la scienza. Il risultato è quel “malessere metafisico”, quella crisi religioso-morale che si rispecchierà drammatica nella prossima cultura romantica, ma che si manifetsa di già, mal rimediata, nella filosofia neoclassica. Tra l’estetica neoclassica e quella romantica vi è un abisso; tra la ideologia dei due movimenti (come è stato fatto notare recentemente) vi è, invece, una affinità molto più profonda di quanto possa apparire ad una prima impressione. Le diversità, che pur persistono, sono sfumate, per la legge naturale per cui non esistono salti, ma solo passaggi graduali, anche nelle evoluzioni psicologiche. E la gradualità sta nel “surrogato” fantastico, onirico della contemplazione artistica: la sua fruizione aiuterebbe ad obliare la realtà raggelante dell’uomo senza perchè e senza meta, senza certezze di giustizia e senza protezione paterna, trasferendolo in un’epoca ed in un ambiente di sogno e di illusione, cioè nell’antica Ellade, nella presunta innocenza e sicura pace di popoli non tormentati dal rimorso del peccato nè dal timore del giudizio divino. Era quella l’età in cui il tribunale umano dell’Areopago poteva assolvere Oreste dal delitto di matricidio e rasserenare, così, ogni uomo colpevole dei più gravi delitti. Ma una simile fuga dalla realtà e rifugio nell’arte, un simile stato di consolazione originante dall’oblio nella “favola bella che ieri ti illuse, che oggi ci illude” è naturalmente precario: potrà generare capolavori come “I Sepolcri” di Ugo Foscolo, ma non donare pace al cuore ed alla coscienza dell’uomo sano e maturo. Ci si avvia allora a tre soluzioni diverse.
Da una parte, vi è chi ha la coerenza ed il coraggio di ritornare alla fede cristiana, più facilmente cattolica: accanto alla dimezzata conversione di Alesandro Verri, stanno quelle integre di Ippolito Pindemonte, di François-René de Chateaubriand, di Alessandro Manzoni, di Silvio Pellico, di Federico Schlegel e di Zacharias Werner (Koenisberg: 1768; conversione: 1810; morto nel 1823)[35].
Vi è la soluzione opposta e tragica del suicidio: Francesco Lomonaco e P. B. Shelley sono casi ancora isolati, in una società che non riesce a sottrarsi alla tuttora permeante mentalità cristiana, ma i campanelli di allarme suonano proprio dal polo letterario: vi sono i propositi teorici e gli spropositi pratici dell’Alfieri, che rende, poi, molto dignitoso e quasi ammirevole il suicidio di Saul sulla scena; lo segue Goethe che presenta come perdonabile, anzi comprensibile, quasi approvabile il suicidio del “giovane Werther”; lo imita Foscolo, con Jacopo Ortis, mentre il Leopardi per qualche tempo sarà tentato di ripeterne l’insegnamento (“Bruto minore”; “Ultimo canto di Saffo”).
Ma vi è la svolta mediana, che consiste nell’aver il realismo, la lealtà di ammettere la sconfitta dell’uomo, una volta esclusa come “sentimentale e puramente illusoria” la soluzione religiosa: è il pensiero del Romanticismo europeo (e leopardiano) che non ha vergogna a piangere, rifiuta come rivalse menzognere i sogni dell’arte e dell’antica età dell’oro nell’Ellade e, se ha nostalgia, è per il Medioevo e la fede tranquilla del Cristianesimo, che davvero sarebbe la risposta adeguata all’altrimenti insolubile problema dell’uomo ed alla tristezza del suo vivere insensato.
Dobbiamo confessare che, conoscendo la psicologia umana, le tre soluzioni e la loro consistenza quantitativa erano da aspettarsi: il salto all’indietro della conversione esigeva motivazioni profonde e un coraggio morale eccezionale; il suicidio era frenato dalla innata volontà di vivere ed affermarsi, oltre che dai residui princìpi morali persistenti nella mentalità comune; la “via media” del riconoscere la drammatica sorte dell’umanità connaturata con il pensiero immanentistico, era la soluzione ovvia per la più parte degli immanentisti.
Con una notazione, però: che l’abbandono della fede cristiana era un dato tutto sommato minimale, almeno in Italia, che riguardava cioè una parte minoritaria delle stesse élites intellettuali, sicchè anche queste frange di pensatori agnostici od atei erano contenuti nei loro comportamenti, anzi nelle loro stesse riflessioni, da un argine di popolo che li condizioonava e ne rallentava il processo logico del pensare e dell’agire: allo stesso modo che la conoscenza sempre più diffusa della loro cultura e teoretica e pratica finiva per intaccare la solidità delle convinzioni e religiose e morali della massa popolana, solo in apparenza inerte, come non soltanto attiva ma anche recettiva era la minoranza della classe colta.
Filosoficamente, dunque, il “pensatoio neoclassico” operò da logico, naturale ponte di passaggio dall’impudente sicumera razionalista all’impudente depressione romantica, dall’imprudente risata illuminista all’imprudente piagnisteo romantico.
E il passaggio ulteriore da un eccesso all’altro era pure scontato. Stanchi delle lacrime romantiche, si ritornerà ad un nuovo razionalismo (positivistico), ad un nuovo irrazionalismo (decadentistico), con nuove ubriacature di filosofia immanentistica –idealismo o materialismo, hegelismo o marxismo-, con il loro rovesciamento in conversioni, con la loro conclusione più logica nel suicidio, con la loro interpretazione media e mediocre, dominanti e dilaganti anche nel popolo, ma con interpretazioni filosofico-letetrarie ben più gravi e sconcertanti. Tra le conversioni, vi è quella all’incerto cristianesimo del Pascoli, quella di un cattolicesimo ipercritico di Antonio Fogazzaro e di Giovanni Papini; quelle più ovvie di Giosuè Borsi, del filosofo gentiliano Carli???, di Guido Gozzano (sul letto di morte), di Clemente Rebora, fattosi poi prete rosminiano, di Riccardo Bacchelli venuto dal crocianesimo....
Suicidi? Si parla di Renato Serra, il critico di Cesena che, volontario nella prima guerra mondiale, si fece ammazzare a trentun anni, sul Podgora, nel 1915, esponendosi volontariamente al tiro dei soldati austriaci, come Shelley alla tempesta nel mare di Viareggio. Vi saranno Nicola Zingarelli (1860-1935: filologo e studioso di Dante, autore del vocabolario tuttora aggiornato e diffuso); Cesare Pavese (scrittore marxista e neorealista: 1908-1950); Elsa Morante (scrittrice romana che, dopo il sucecso grandioso del romanzo intitolato “La storia” –nel 1974- si tolse la vita nel 1985, pare per l’insuccesso del suo ultimo scritto “Aracoeli”, del 1982. Per non parlare di Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922-Roma 1975), accoppato da un partner omosessuale, come il Winckelmann.
E la via mediana? Forse quella di Luigi Pirandello che conclude il suo Enrico IV con la finta pazzia del protagonista, per qualche tempo mentalmente davvero sperso, dopo che era stato fatto cadere da cavallo da un amico, onde rapirgli e sposare la fidanzata? Che intitola un suo romanzo “Il fu Mattia Pascal”, a pretendere la impossibilità di stabilre persino la individualità vera di ogni uomo? E che, in un suo notissimo dramma, afferma la impossibilità di definire la verità in generale, come è suggerito dal titolo stesso “Così è (se vi pare”) ?
Ne dovremo riparlare. don Marcello De Grandi
Indice NEOCLASSICISMO:
Definizione: Descrzione
generica: p.1|... specifica: pp.
1-6
Genesi
del Neoclassicismo: pp.6-8|.....e della sua affermazione: pp. 8-11
Estensione del Neoclassicismo: pp 11-21: Francia: 11-12;
Germania: pp. 12-13; Inghilterra: pp13-14; Russia: pp. 14-15; Italia: pp. 15-21 (V. Cuoco: 17-8; P. Colletta:18; C. Botta: 19; P. Giordani: 19; G. Perticari: 19-20; Melch. Gioia: 20; G.Dom: Romagnosi: 20; Fr. Lomonaco: 21; Fr. Sav. Salfi: 21). Giudizio sul Neocl. p. 21-25
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[1] Un caso esemplare è quello di Giuseppe Maggiolini, ebanista ed intarsiatore così geniale nello stile del neoclassicismo, da rendere il suo nome sinonimo dei mobili da lu costruiti (“è un “maggiolini” significa “è uno dei preziosi mobile fatto da lui). Ebbene, nato e vissuto a Parabiago (1739-1814), egli era “fabbriciere” (memrbo del consiglio di amministrazione) della sua parrocchia, nella cui vita era così vivamente interessato da ottenere dall’architetto ed amico Giuseppe Piermarini il disegno per la facciata della chiesa.
[2] Diciamo “prevalente in Europa”, perchè il Romanticismo italiano fu per lo più manzoniano e, quindi, cristiano; solo in Foscolo e Leopardi si ebbero poeti significativi, coerenti col romanticismo dominante nel resto dell’Europa, cioè professante un ateismo drammaticamente sofferto, con molta nostalgia per la fede cristiana, ma incapace di superare i pregiudizi razionalistici dell’Illuminismo.
[3] In tedesco abbiamo questi termini: “edle Einfalt” (nobile semplicità), “stille Groesse” (grandezza tranquilla, calma, pacata), “Unbestimmung” ( indefinitezza| vaghezza) e “Versuch einer Allegorie” (tentativo di una allegoria= tendenza alla allegorizzazione?). Alla “bellezza ideale” si possono trovare dei sinonimi? Sul versante delle emozioni, si possono usare “ grazia,compostezza, armonia, pacatezza e nobiltà di stati d’animo”? e, sul versante stilistico, si può parlare di “raffinatezza,eleganza, levigatezza, chiarezza, misura, limpidezza, lucidità, tensione morbida, elasticità contenuta”?
[4] Nato a Stendal (Magdeburgo), da famiglia di modeste condizioni, fece studi irregolari. Entrò al servizio, a Dresda, del nunzio apostolico Alberico Archinti. Convertitosi al cattolicesimo, nel 1755 venne in Italia e visitò Roma, dove si pose al servizio del cardinal Alessandro Albani come bibliotecario. Nel 1762 scese sino a Napoli e visitò Ercolano, Pompei e Paestum (di cui, per primo, segnalò il grande rilievo storico-artistico). Tornato a Roma, nel 1764 fu nominato sovrintendente ai monumenti antichi. Afflitto da disfunzione omosessuale, fu ucciso da un partner nel 1768, in una locanda a Trieste, mentre rientrava da un viaggio in Germania. E’ il fondatore dell’archeologia scientifica. Due sono le opere che più interessano lo studio del Neoclassicismo: Gedanken ueber di Nachahmung der grieschichen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura: Dresda, 1755) e Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte nell’antichità, 1764): quest’opera venne tradotta a Milano nel 1779, quando le idee del Winckelmann già circolavano da tempo, grazie ad esempio ai due volumi di “Monumenti antichi inediti, spiegati ed illustrati” , usciti a Roma nel 1767. Egli pubblicò anche delle “Spiegazioni (Erlauterungen)” alle “Considerazioni”, nel 1756; e, nel 1767, delle “Anerkennungen (“riconoscimenti)” alla sua Storia dell’arte nell’antichità.
[5] La prima sentenza la trovo citata dalla Enciclopedia cattolica, alla voce; la seconda, da Giovanni Getto, Storia delle letteratura italiana, Milano, Rizzoli, 1972, p. 372.
[6] Con il Winckelmann siamo sempre, come si sarà notato, nell’ambito di una “estetica della imitazione”; ma il modello da imitare non è la natura, bensì i capolavori di una particolare età e scuola artistica, quella greca, che sono considerati perfetti e insuperabili. Vedremo che, oltre tutto, si trattava di una illusione, perchè il W. non aveva visto direttamente gli originali della Grecia classica, ma delle copie, imitate per i committenti dell’impero romano di età e gusto alessandrini.
[7] Il padre Césari espone le sue dottrine puriste nella “Dissertazione sullo stato presente dellal ingua italiana” (1809) e nel dialogo “Le Grazie” (1813), che incarna, poi, nella “Aggiunta al dizionario della Crusca” (1806-1811) e che usò nello scrivere le sue opere originali (“Novelle”, biografie e “Rime”). Più utile è lo studio sulle “Bellezze della Divina Commedia” (1824-6), che avanza osservazioni interessanti sulla lingua di Dante. E’, poi, famoso anche per aver provocato la risposta (negativa) di Manzoni al quesito se egli fosse da considerarsi giansenista. Al riguardo, è notevole un particolare. Manzoni non ebbe modo di rispondergli a stretto giro di posta, sicchè la lettera giunse a Verona quando il Césari era già partito per un impegno di ministero a Ravenna, dove inaspettatamente morì. Egli non potè, così, leggere la protesta del Manzoni: egli era stato puro strumento provvidenziale per una chiarificazione definitiva su un problema fastidioso ed importante circa il pensiero del grande scrittore.
[8] Si leggano alcuni esempi, davvero penosi, in Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 556-7.
[9] Basilio Puoti, napoletano (1782-1847), marchese ed avvocato, si dedicò alla letteratura, per la quale rinunziò anche alla cattedra universitaria di latino. Istituì una sua scuola di rigorosa toscanità della lingua: del purismo, divenne la figura esemplare e... patetica. Avverso maniacamente (eppur mitemente, essendo figura di gentiluomo integerrimo) all’imbarbarimento della lingua italiana, scrisse un “Dizionario dei francesismi” (da evitare) e un “Vocabolario domestico napoletano e toscano” (per aiutare i suoi concittadini a purificare la loro loquela). Ma la sua scuola concreta, andò ben oltre la cura dei valori linguistici e divenne laboratorio di educazione morale, cui attinsero discepoli come Luigi Settembrini e Francesco De Sanctis: quest’ultimo diventò suo collaboratore (con una sezione di studi superiori letterari, in vico Bisi) e sucecssore. Egli fu contrario ovviamente al romanticismo, ma dovette fare una eccezione per il Manzoni!
[10] Id. pp. 560-1.
[11] Ilisso è l’affluente del fiume Céfiso, che irriga la piana costiera di Atene; i versi del Carducci sono nell’ode “Alle fonti del Clitunno”. Anche in Pirandello sembra essere presente una simile concezione dell’anima pagana: ne “Il fu Mattia Pascal”, al c. XIII, egli insinua che la differenza fra la catarsi assolutoria e liberatrice del pagano Oreste dopo il matricidio (nella tragedia “Eumenidi” di Eschilo) e la catastrofe tragica, pel medesimo delitto, del cristiano Amleto (in Shakespeare) è tutta fondata sulla coscienza dell’Aldilà (e, quindi, del castigo eterno per il peccato) nel mondo cristiano, coscienza che sarebbe assente nel mondo greco: basta aprire uno squarcio di Cielo sulla conclusione delle “Eumenidi” ed il palcoscenico si riempirà di cadaveri (come appunto avviene nell’Amleto), causati dal tormento etico-religioso dell’eroe danese, illuminato e reso adulto, ma anche infelice, dalla cultura evangelica.
[12] Come si vede, la nostra interpretazione dell’ideologia neoclassica è in parte diversa da quella che vi vede Walter Binni, il quale scrive in proposito: “...Il classicismo di metà Settecento trova nell’opera teoretico-storica del Winckelmann (attivo in Roma già nel 1755) un’eccezionale presa di coscienza, chiarendolo in una decisa prospettiva estetico-pragmatica, in una religione dell’antichità come tempo perfetto di una bellezza e di una civiltà superiore a quella di ogni altra epoca e che i moderni devono imitare e rinnovare, promovendo così una contemporanea educazione dei sentimenti del senso eroico e saggio, virile e composto, stoico e plutarchiano dell’antica civiltà, incentrata nella forza e nella figura suprema dell’uomo” (Storia della Letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1976, Il Settecento, p. 593). La differenza sta anzitutto nel concepire la bellezza-religione, del tempo dei greci e dei romani, come autentica condizione di perfezione e felicità piuttosto che come imperfezione ed incoscienza della vera realtà umana. Di conseguenza, la diversità sta anche nel riprodurre tale bellezza ideale come un autentico ritorno alla innocenza-ingenuità dei pagani (e, quindi, come realtà saziante), piuttosto che come illusione e surrogato (e, quindi, solo come alienazione obliante della impotenza umana ad attingere i valori supremi di verità, gioia e bontà perfette).
[13] Cfr. l’ode oraziana “O fons Bandusiae, splendidior vitro”, Odi, III, 13.
[14] Il fatto della accettazione del Neoclassicismo nonostante la “deformazione psicologica” sottesa, può trovare, ci pare, spiegazioni susfficienti. Anzitutto, sia negli uomini che nelle donne normali vi è una percentuale di ormoni di sesso opposto che, mentre equilibra la psicologia evitandone una radicalizzazione univoca (durezza|dolcezza...), lascia aperta la soglia a processi di inversione sessuale per coloro in cui le percentuali di ormoni non causino una differenza molto decisa e, d’altra aprte, l’ambiente presenti forti sollecitazioni nel senso del polo sessuale pur sempre più debole. In secondo luogo, la misura di femminilità-efebismo infusa nelle opere poteva variare notevolmente da artista ad artista, rimanendo nei limiti della normalità sessuale statistica, anche se più inclinata verso la polarità femminea di quanto non lo sia nella tradizione artistica dell’Occidente greco-romano-cristiano. In terzo luogo, la recessione del fenomeno nel giro di una generazione, in favore del più equilibrato romanticismo, può ben essere stata causata dalla inconscia percezione che qualcosa, sotto sotto, nella moda artistica non quadrava con la norma psicologica. Che se, sul piano architettonico, il classicismo dominò tutto il Milleottocento (e oltre), ciò fu dovuto al fatto che , in sede architettonica, non esistette un vero Neoclassicismo, ma solo una ripresa decisa del classicismo tradizionale, perchè l’architettura è troppo legata alla funzionalità ed esige strutture massicce, che sono più vicine alla forza e potenza virile che alla levigatezza ed eleganza femminile. D’altra parte, il Romanticismo, basato sulla pretesa di porre il sentimento addirittura al posto della ragione nella vita e nell’arte, rimase senza pratiche espressioni in sede di edilizia, perchè una costruzione necessariamanete impegna la ragione col calcolo e non può lasciar la guida dell’edificio al solo sentimento. Fino alla scoperta della possibilità di una alleanza tra ferro e cemento (che apriva il campo a nuove, arditissime soluzioni) la soluzione più efficiente per la contemporanea saldezza e nobiltà delle strutture rimase quella classica: colonne, capitelli, timpani, cupole, archi, volte, ecc.
[15] “Causa” è da prendersi, come già avvisato altre volte, non in senso deterministico, cioè come fattore inesorabilmente capace di produrre un effetto, ma nel senso umano che tien conto della capacità dell’uomo a rifiutare suggerimenti e mozioni dall’esterno, dopo aver soppesato il pro ed il contro e deciso “liberamente” sulla loro accettazione o rupulsa. E’ chiaro che la responsabilità ultima (e la causalità primaria) del diffondersi di determinati tipi di cultura –anche artistiche- appartenga alla libera scelta umana; ma è anche certo che senza quella determinata sollecitazione (o quei determinati messaggi incitatori della sensibilità) la volontà non si sarebbe decisa alla scelta. Quante siano poi le probabilità del successo di una determinata spinta esteriore a superare la resistenza della libera volontà, lo abbiamo già detto altra volta: tali probabilità sono tanto maggiori, quanto meno esse intaccano la coscienza religiosa e morale. E viceversa: la resistenza ad una pressione esteriore per l’adesione della volontà è, alla prova delle vicende storiche in proposito, direttamente proporzionale al coinvolgimento, nelle novità proposte, di mutamenti contrari alla fede religiosa ed alla coscienza morale.
[16] Dobbiamo aver anche detto, nell’esporre queste stesse leggi psicologiche che inducono un mutamento di motivi, tonalità e tecniche espressive, che più solitamente avviene una alternanza fra tonalità contemplative e registri drammatici, cioè fra dominanza della componente vagotonica piuttosto che di quella simpaticotonica nel sistema neurovegetativo (ipotalamo, nel diencefalo, alla base del cervello). E speriamo di aver già avuto occasione di accennare come una tale varizione di “spin” neurovegetativo sta alla base anche del genere ( non della sua profondità o intensità) di intelligenza (sintetica piuttosto che analitica) e dei sistemi filosofici che ne discendono facilmente (idealistici, positivistici, universali).
[17] Johann Georg Sulzer (svizzero di Wintertur: 1720-1779) pubblicò una “Teoria generale delle belle arti” (Allgemeine theorie der schoenen Kuenste: 1771-4); Azara (José Nicolas de: spagnolo dell’Aragona: 1730-1804): diplomatico presso la S. Sede, amico del Canova, del Winckelmann e del Mengs, pubblicò di quest’ultimo le “Opere” con propri commenti interessanti (1780); Carlo Fea (Pigna, presso Oneglia: 1753- Roma, 1836), sacerdote ed archeologo, autore di diversi studi su Roma antica: il suo studio “Sulle rovine di Roma”, egli lo aggiunse al terzo volume della “Storia della arte antica” del Winckelmann, di cui curò la edizione nel 1783-4. Joshua Reynolds (sir), nato nel 1723 nel Devoshire, fu il miglior pittore ritrattista inglese del suo tempo. Fra le pitture, una è sulle Grazie (National Gallery).
[18] Questa del Lanzi, fu la prima storia della pittura italiana: le “Vite” di G. Vasari si limitavano ai soli “sommi” autori.
[19] Altri teorici e critici del Neoclassicismo in Italia: Leopoldo Cicognara (“Ragionamento del bello”: 1808; “Storia della scultura”: 1818); Melchiorre Delfico (“Nuove ricerche sul bello”: 1818); Giuseppe Luigi Biamonti (“Dell’arte poetica”); Giovanni Battista Talia (“Saggio di estetica”: 1823; “Princìpi di estetica”: 1828).
[20] La citazione proviene dalla pag. 57 del libro citato “Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno...” (Roma, 1781). Altre opere del Milizia sono: “Del teatro” (1773) e “Princìpi di architettura civile” (Roma, 1781). Le “Vite” divennero, nella edizione del 1781, le “Memorie degli architetti antichi e moderni”. Si noti, per altro, che il “Dizionario” è in gran parte uan riproduzione della “Enciclopedia metodica” del Panckoucke.
Si noti che Francesco De Sanctis, scrivendo la sua “Storia della Letteratura italiana” (1870-1), riprenderà il motivo dell’organismo vivente (dell’arte verbale, questa volta) e lo dipanerà con i parametri della nascita e crescita, del declino e della ripresa, mettendo però, alla base della fenomenologia poetica, dei princìpi etici come condizionamento: della decadenza estetica è causa una corruzione morale; e viceversa.
[21] Friedrich Hoelderlin, nato a Lauffen (nel Wuerttemberg, sul fiume Neckar) nel 1770, studiò in un seminario protestantico, uscendone con un profondo risentimento contro la religiosità ufficiale e la rigida disciplina.Ma era destinato alla mite follia solitaria, dopo eccessi frenetici fra il 1802 ed il 1806. Continuò gli studi di teologia a Tubinga, avendo condiscepoli Schelling ed Hegel. Studiò Kant, Rousseau, Spinoza e, benchè abilitato all’ufficio di pastore, non esercitò mai tale compito. Affascinato dalla rivoluzione francese, si dovette trasferire ad Jena, dove frequentò le lezionui di Fichte e la compagnia di Schiller. A Weimar (eterno pellegrino, instabile ed irrequieto) conobbe Goethe ed Herder. Volle raggiungere la madre, che lo aveva presto lasciato per portarsi a Nuertingen (il padre era morto nei primi anni di Friedrich): sarà un viaggio ripetuto più volte, negli anni di lucidità che ancora gli rimangono. Si stabilì presso il banchiere Gontard come precettore e si innamorò della moglie Suzette, che compare nei suoi versi come la fanciulla greca Diòdima. Dovette, naturalmente, allontanarsi dalla casa, pur mantenendo con Suzette corrispondenza epistolare e qualche incontro segreto. Dopo un ritorno alla madre, trovò lavoro in Svizzera come precettore, ma solo per tre mesi. Tentò inutilmente di avere una cattedra (di greco) ad Jena e di pubblicare i propri versi. Dal milleottocento, la sua vita è un continuo peregrinare: da Strasburgo a Bordeaux (precettore in casa del console di Amburgo); poi, a piedi, da Boredeaux a Nuertingen, fra eccessi di follia. Affidato nel 1806 ad un falegname in custodia misericordiosa, visse su un’isola del Neckar, suonando il pianoforte e dandosi un’altra individualità, con nomi strani e date anteriori di un paio di secoli (schizofrenia?). Morirà nel 1843 a Tubinga.
Ed ecco le sue opere. Del 1793 è il romanzo epistolare “Iperione o l’eremita in Grecia” (Hyperion oder der Eremit in Griechenland); incompiuta, dopo tre tentativi redazionali, è la tragedia “La morte di Empedocle”, in versi (Der Tod des Empedokles: 1797-99). Ecco le liriche più significative: “Tramonto” (O Crepuscolo: “Sonnenuntergang”), “La brevità” (Die Kuerze), “Canto del destino di Iperione” (Hyperions Schicksalslied), “L’arcipelago” (Der Archipelagus: 1800), “Come in un giorno di festa” (Wie wenn am Feiertage: pure del 1800). Dopo il 1800, scrisse ancora quattro odi, ma tutte in redazioni plurime, tormentate: “L’unico” (Der Einzige), “Il Reno” (Der Rhein), “La migrazione” (Die Wanderung), “Patmos”.
[22] Lo Hegel, nonostante l’opposizione di individualità psicologica con Hoelderlin (tanto freddo e sistematico il filosofo, quanto variabile e disordinato il poeta), non fa altro che giustificare razionalisticamente la oscillazione che squassava la vita pratica del secondo: ipotizzando la realtà come sintesi di una perpetua opposizione fra tesi ed antìtesi, lo Hegel eleva il divenire, la dialettica a legge fondamentale delle cose e della vita; conclude, con una ragione lucida, alla stessa follia dello schizofrenico poeta di Lauffen.
[23] La prima opera fu il poema “Ruslan e Ljudmila” (1820); seguono i cosiddetti “poemi meridionali” (perchè scritti nel soggiorno obbligato in Moldavia), cioè “Il prigioniero del Caucaso”: 1821, “I fratelli masnadieri: 1821; “La fontana di Bachcisaraj”: 1822. Il romanzo fondamentale, in versi, “Eugenio Onegin” fu scritto fra il 1823 ed il 1831, anni in cui egli scrisse anche due libri di racconti ironicamente piccanti (“Il conte Nulin” , de1825 e “La casetta a Kolomna” del 1830); e “Gli zingari” (1824), “Poltava” (1828); e le sue più belle liriche. Del 1833 è l’ultimo grande “poema narrativo”: “Il cavaliere di bronzo” (1833). Egli scrisse ancora fiabe, come “La favola dello zar Saltan” e “La fiaba del galletto d’oro”, i cui versi vengono definiti “splendidi”. Sempre in versi scrisse quattro “microdrammi”: “Mozart e Salieri”, “Il festino durante la peste”, “Il cavaliere avaro”, “Il convitato di pietra” (1830). Parte in prosa e parte in versi è il grande affresco teatrale “Boris Godunov” (1831). Scrisse, per altro, anche in sola prosa (“Il negro di Pietro il Grande”: 1828: tratta di un suo antenato, ma è incompiuto); “Racconti di Belkin” (1830), “La donna di picche” (1834), “La figlia del capitano” (1836). Ci ha lasciato un copioso “Epistolario” molto istruttivo sui tempi e le idee; il diario “Viaggio ad Azrum”, che ha valore di opera storico-narrativa (1836); e alcune altre opere incompiute.
[24] G.Piermarini nacque a Foligno nel 1738 e vi morì nel 1808: oltre all’edificio del teatro lirico, per Milano egli eidificò i palazzi Greppi, Cusani e Belgioioso e ideò la sistemazione della zona di Porta Venezia, secondo le nuove esigenze, pur nel rispetto della tradizione (abbandono delle mura di difesa militare, ma conservazione delle “porte” con criteri artistici).
[25] L. Cagnola (Milano 1764- 1833) è famoso per aver ideato l’Arco della pace a Milano ed aver tracciatoi il primo piano regolatore della città, secondo il volere di Napoleone.
[26] L. Canonica (Tesserete- Lugano 1762- Milano 1844) è il progettista dell’Arena di Milano.
[27] Antonio Canova (1757-1822), ebbe fama internazionale e lavorò per papi (monumenti a Clemente XIII e XIV), per Maria Cristina d’Austria (Vienna), per Napoleone (monumeto a lui ed alla sorella Paolina Borghese): fra i più celebri capolavori, vi è anche il gruppo delle Grazie: a lui il Foscolo dedicherà il poemetto omonimo.
[28] Andrea Appiani (Milano 1754-1817) lasciò molti ritratti: necolassici gli affreschi per Napoleone a Palazzo reale; già incline al romanticismo, per l’impegno dello studio psicologico, nei personaggi altrove ritratti.
[29] Li ricaviamo soprattutto da Walter Binni, Storia della letteratura italiana, Il Settecento,Garzanti, 1976. Ecco notizie utili di qualcuno. Il Cerretti ebbe giovinezza dissipata ed interruppe gli studi di medicina; professore di eloquenza dapprima a Modena e poi a Pavia (gli sarebbe succeduto il Foscolo, se non avessero soppresso la cattedra), fu repubblicano convinto e ministro nella Cisalpina. Tradusse dal greco, dal latino, dall’inglese; ebbe facilità al verso e si provò in molti argomenti: da quello religioso a quello politico ed erotico; scrisse odi sepolcrali e novelle, che presagiscono il romanticismo; le cose migliori sono però le composizioni di stampo neoclassico, che risentono del Salvioli e del Parini. Il Cassoli, che aderì alla occupazione farncese e ricoprì cariche nella sua città natale, oltre ad aver composto le liriche neoclassiche, tradusse le Odi di Orazio e i primi sei libri dell’Eneide e compose anche Inni sacri. Il Rezzonico, come rivelano i titoli dei versi, mette la poesia al servizio della scienza (Newton) e della filosofia (Locke), cercando di realizzare l’oraziano “utile dulci”, cioè la fusione nella poesia della espressione della bellezza e della istruzione e contribuendo, così, a segnare il trapasso dalle rimerie arcadiche alla letteratura classicheggiante e seria, di ispirazione illuministica. Ne “L’eccidio di Como” echeggiano note lugubri, toni preromantici. In prosa ha lasciato il “Giornale del viaggio d’Inghilterra negli anni 1787-88”; i “Discorsi accademici relativi alle belle arti” e il “Ragionamento sulla volgar poesia dalla fine del secolo passato fino ai nostri giorni (1779). Fu amico di C. I. Frugoni (ma contribuì a farne superare la magniloquena retorica), del Condillac (il cui sensismo tracima nelle sue prose) e del Cagliostro: quest’ultima relazione gli costò l’ospitalità di Roma, dove aveva soggiornato un paio d’anni: morì a Napoli. Il Mazza fu professore e preside nell’Università della sua città natale, ebbe una vena enfatica e risentì dela poesia inglese, da cui tradusse l’inno al Creatore (di James Thomson) e, nel 1764, I piaceri della fantasia (poemetto in tre libri di di Mark Akenside): contribuì a diffondere il mito neoclassico delle bellezza ed armonia, con le sue Odi, che il giovane Foscolo avrà presenti. Il Cassiani fu sostanzialmente autore di sonetti (“Saggio di rime”), di argomento religioso (La moglie di Putifarre, Susanna, Maria a piè della croce) e mitologico (Il ratto di Proserpina), rivelando la maestria di offrire con i quattordici versi del sonetto una visione, quasi una pittura, dell’avvenimento descritto. Servì di modello a Parini, al giovane Alfieri, al Monti, al Foscolo. Il Lamberti successe al Parini sulla cattedra di eloquenza a Brera e fu letterato ufficiale del Regno italico. Attaccò ferocemente il Foscolo sulle pagine del Poligrafo, il giornale che egli aveva fondato nel 1811: ne seguì uno scambio di epigrammi violenti. Fu grecista stimato; tradusse l’ “Edipo re” di Sofocle ed i “Canti” di Tirteo; ed aiutò il Monti nella traduzione dell’Iliade. Le sue opere (“Poesie e prose”) furono pubblicate tutte solo nel 1822, ma erano già uscite le “Poesie di scrittori greci” (1808) e le “Poesie” italiane (1796) di stile neoclassico, il cui gioiello è l’ode “I cocchi”. L’Arici, nei suoi fortunati poemetti, prolunga nell’Ottocento la vena per la poesia didascalica e scientifica, con eleganza neoclassica. Si era formato sul Monti ed aveva tradotto da Virgilio ed inventati degli “Inni di Bacchilide” (finte traduzioni dal greco). Scrisse anche un poema epico, “ La Gerusalemme distrutta”, ma è noto soprattutto per i raffinati poemetti citati nel testo. Ma si noti come egli abbia fatto in tempo ad imparare dal Manzoni (Versi sacri) e dal Foscolo (Il camposanto di Brescia). Segretario dell’Ateneo bresciano, a lui fu dedicata una scuola di alto prestigio nella sua città.
[30] L’nvito a Lesbia Cidonia del Mascheroni è una delle operette poeticche più neoclassicamente riuscite, molto vicina alla raffinatezza dell’ultimo Parini. I versi (529 endecasillabi sciolti) sono scorrevolissimo ed eleganti; le varie collezioni nei musei dell’ateneo pavese (cui la contessa Paolina Secco Suardo Grismondi, in Arcadia Lesbia Cidonia, farà visita nel maggio 1793, un mese la scrittura dell’ “Invito” mascheroniano) sono spiegate succintamente ma chiaramente. I versi più famosi sono ritenuti quelli dal 493 al 507, che danno un tocco umano alla impollinazione dei fiori ad opera del vento. D’altronde, l’Invito può forse vantarsi di aver suggerito allo Zanella il tema della “Conchiglia fossile” coi vv. 68-128 (“Che se ami di più de l’eritrea marina| le tornite conchiglie... “), fino alla imitazione (nel famoso verso “E l’uomo ancor non era”) del v. 125 “e Roma ancor non era”. Scorrevole, levigato, elegante, chiaro, interessante per il contenuto... perchè non è grande poesia? Probabilmente, perchè manca una grande idea, un ideale che commuova il cuore del poeta e del lettore: anche il poemetto mascheroniano merita il rimprovero di Foscolo “Sdegno il verso che suona e che non crea” (Le Grazie, I, 25).
[31] Pensiamo che il Manzoni abbia imparato molto, dall’opera del Cuoco, per la stesura pacata della sua “Storia della colonna infame”.
[32] Giuseppe Ferrari (Milano 1811- Roma 1876) fu filosofo e uomo politico. Della letteratura fu benemerito perchè curò la prima edizione delle opere complete del Vico. Amico del Cattaneo, parteggiò con lui per una soluzione repubblicana e federalista della unità d’Italia, sedendo fra i banchi dell’estrema radicaleggiante quando fu eletto al parlamento, dopo raggiunta l’unità del paese. Positivista convinto ed inclinato allo scetticismo di Hume, egli attende che la rivelazione scientifica sostituisca quella religiosa, mentre auspica l’uguaglianza fra tutti gli uomini e, quindi, una sociologia socialistica, che proclama a chiare lettere quello che in Cattaneo era, tutt’al più, implicito. La sua opera principale è la “Filosofia della rivoluzione” del 1851.
[33] In concreto: guerre ed assassini, prepotenze e peccati di ogni genere (vedi “Inferno” di Dante) sono “disgustosi” nella vita reale, ma si rivivono gaudiosamente in riproduzioni davvero artistiche, se rappresentati cioè con quell’astrazione da ogni finalismo pratico che i poeti e gli altri geni artistici sanno operare per esprimere emozioni pure (da componenti istintive) e libere (da ogni finalità pragmatica). Si noti che, là dove affiora l’erotismo, ivi non vi può essere opera artistica, perchè il piacere istintivo è la dimensione più pratica che si conosca nell’uomo: esso domina talmente nella complessa esaltazione dell’attività sessuale, che ne impedisce ogni interpretazione artistica, perchè oblitera alla coscienza la componente emozionale che pur vi è presente, ma soffocata dallo strapotere della passione erotica, sollecitando soltanto una risposta altrettale nel fruitore. Per un’esposizione più distesa (e ricca di prove e dimostrazioni) si veda il nostro “Musica in parole”, Varese, 1983.
[34] Winckelmann, con la sua
umanità eccessivamente virile, probabilmente sentiva il bisogno della
componente femminile anche a livello psicologico ed artistico e, perciò,
rifuggiva da ogni espressione troppo
maschile: si sa che, mentre i contrari si attraggono, gli uguali si respingono.