UGO FOSCOLO (1778-1827)

 

I GIORNI E LE OPERE

                                         LA VITA.

1778:  nasce a Zante (l'antica Zacinto) isola adriatica in possesso di Venezia: il padre, Andrea, è medico veneziano; la madre, Diamantina Spathis, è greca. Il suo nome di battesimo è Niccolò. Compie i primi studi a Spalato, dove il padre si è trasferito, in seminario: ne viene scacciato perchè troppo discolo. Continuò gli studi a Zante.

1788: muore il padre. La madre lascia i quattro figli a parenti in  Zante e passa a Venezia per guadagnarsi da vivere. Sono “quattro anni felici”, che egli trascorre “capitanando rivolte, tramando burle, riuscendo perfino a farsi arrestare a dieci anni dalla forza pubblica per aver tentato, con un pugno di coetanei armati di lime e di martelli, di dar l’assalto alle porte del ghetto, per liberare gli ebrei che vi erano rinchiusi”.[1]

1792:   Chiamato a Venezia, raggiunge la madre, che abita in un tugurio a Campo delle Gatte.  Foscolo non  sapeva ancora parlare l’italiano, ma “d’improvviso, con la violenza estrema che era nella sua natura, nel ragazzo selvaggio esplose l’amore del sapere” (p. 116). Frequenta le scuole a Murano, ma vi aggiunge un autodidattismo di stile alfieriano: “Si buttò a capofitto nello studio, nutrendosi, insieme col poco pane, di storia, di poesia, di latino, studiando l’italiano dieci ore di fila, riempendosi la mente di classici che la sua memoria prodigiosa assorbiva. -Cera nel ricevere-   e marmo nel ritenere- era la mente del ragazzo[2].... Discuteva nottate intere di politica, di letteratura, nei cento caffè di quella Venezia della fine del Settecento in bilico sui grandi momenti della storia; scriveva versi a  getto continuo, e, incantato dalla bellezza femminile, riempiva i cassetti della sua scrivania di ardenti lettere d’amore che non avevano destinatario (p. 116). 

1796: il prefetto della Marciana, dove il giovane trascorreva  le sue giornate a studiare, “lo presentò ad una delle donne più in vista della città, Isabella Teotochi, che aveva un celebre salotto letterario e politico”.[3] La donna, divorziata, conduceva vita libertina, badando (e raccomandando) a non innamorarsi, ma a puntare sul solo erotismo: di fatti dedicò non più di cinque giorni al Foscolo, partendo poi “in viaggio di nozze con un nuovo, importantissimo marito”.[4] Fu la disperazione per il giovane che invocava la morte. La madre lo convince “a lasciare Venezia e a ritirarsi sui colli Euganei, dove riversa i suoi propositi suicidi nella prima stesura di Jacopo Ortis e dove, tentando di dimenticare, si getta nel lavoro scrivendo una tragedia, il Tieste, che, rappresentata poco dopo a Venezia, lo innalza di colpo alla celebrità” (pp. 117-8). Sceglie il nome di “Ugo” al posto di Niccolò. 

1797: dopo le vittorie napoleoniche in Italia, nell’aprile passa a Bologna e “si arruola fra i cacciatori a cavallo della Repubblica Cispadana, rientra in patria con l’esercito francese che occupa Venezia, diventa l’esponente dei tempi nuovi, con la sua “Ode a Bonaparte liberatore”, è nominato membro della Municipalità provvisoria..... Quando, col trattato di Campoformio, Bonaparte cede Venezia all’Austria, Ugo Foscolo si ribella, impreca nei comizi, maledice, minaccia: vuol bruciare la città e morire sotto le rovine. Poi, disperato e malato, va a cercare libertà a Milano” (p. 118). Qui conobbe il Monti ed il Parini e, fra studi, articoli sul “Monitore italiano”, discorsi infiammati di politica, si innamorò della moglie del Monti, Teresa Pichler, “che accoglieva la sua passione con benevola ironia” (p. 119). Il Foscolo era divenuto amico del Monti per averlo difeso da sospetti e processi al passaggio di lui nel campo napoleonico.  Si porta a Bologna, dove completa  il primo abbozzo delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, che gli verrà completato  e pubblicato nel 1799, contro le sue disposizioni all’editore, cui l’aveva lasciato solo in custodia.   Egli si fa di nuovo soldato, perchè la situazione militare si va facendo favorevole agli Austro-russi, dopo la partenza di Napoleone per la spedizione in Egitto. Foscolo, in questo periodo milanese, è il primo a parlare di unità e indipendenza nazionale dell’Italia.

1799-1800: la vita del soldato gli è congeniale ed il giovane capitano combatte coraggiosamente a Novi ligure come a Marengo, buscandosi due ferite (a Cento ed a Genova). Nel 1799, a Genova,  compone l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. “La vita militare gli giovava, l’esercizio all’aria aperta, il cavalcare, il nuotare irrobustirono il suo fisico e gli fecero ritrovare un certo equilibrio” (p. 119).  Oltre tutto, è meno facile alla improvvisazione: “Fra i quindici ed i diciassette anni aveva scritto diecimila versi: ora, in questi cinque o sei anni, pochi sonetti, due odi e qualche bellissimo discorso traboccante di amor patrio, di illuminate teorie di giustizia sociale” (id.).  Dopo Marengo, raggiunto il grado di capitano aggiunto, compie varie missioni in Toscana, innamorandosi, fino a volerla sposare, di Isabella Roncioni, che subentrerà, nella seconda edizione dell’Ortis, alla figura della  Pichler (ma il nome della coprotagonista dell’Ortis, rimarrà Isabella, in ricordo della Teotochi). Ma la nuova Isabella era  già impegnata ed a Foscolo concesse solo un bacio, sposandosi poi col fidanzato. 

1801-1803: tornato a Milano, riprende la sua vita,  grandiosa nelle idee, tempestosa nelle passioni  (gioco d’azzardo ed erotismo). Non riusciva a trovare un lavoro congeniale e così rimase legato all’esercito “in un modesto ufficio mezzo militare, mezzo legale, che gli assicurava un piccolo stipendio per le prime necessità sue e della famiglia lontana: i pochi introiti delle sue opere letterarie non riuscivano a far fronte alle spese ed ai debiti di gioco” (p. 121). Rimaneva un tenace difensore della nazionalità italiana oltre che della libertà costituzionale, ma  le donne dei suoi amori “furono quasi tutte poco rispettabili, talune spregevoli” (p. 120)[5]. Fra queste avventure, la più  indegna fu   quella per Antonietta Fagnani Arese: seppe liberarsene solo nel 1803, confessando lui stesso “Fu l’amore più laido della mia vita” (p. 122).[6] Ma, intanto, nel 1802, aveva scritto per lei la squisita ode neoclassica  All’amica risanata.  Pubblica, ancora nel 1802, la prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, dopo aver fatto ritirare dal commercio (sciabola in pugno) l’edizione pirata dell’editore bolognese. Dello stesso anno è la prima edizione delle sue poesie che, ripudiava ogni sua precedente composizione e diventava definitiva nel 1803 con tutti i dodici sonetti e le due odi ultime. Nel 1803  scrive il Commento alla Chioma di Berenice, che egli aveva tradotto.

1804-6: capitano aggregato allo stato maggiore del generale Pino, è in Francia. Fra i motivi della partenza pare sia stato decisivo l’ultima bravata di Antonietta, che, richiesta di una ciocca di  capelli da parte di Ugo, gli aveva mandato invece quelli della propria cameriera. Il Foscolo le scrisse: “Addio. Ti auguro buona fortuna e miglior fama” (p. 122). Vivendo tra Boulogne, Calais e Valenciennes, in attesa del progettato sbarco in Inghilterra, scrive al Monti una Epistola, in sciolti. Pure di quel tempo è il verso che definisce la sua vita dissipata in cinque sostantivi: “amor, dadi, destrier, viaggi e marte”. Non ci si meraviglierà che, capitato di guarnigione presso un campo di internati inglesi, ebbe, da una relazione con una “slavata e apatica fanciulla” (ib.), una figlia (1805). La signorina si chiamava Fanny Emerytt (poi sposatasi) e la figlia ebbe nome Mary, sebbene Foscolo la  chiamerà sempre “Floriana”: fu affidata ai nonni materni.  Sono di questo tempo  i primi saggi di  traduzione del “Viaggio sentimentale di Yorick”, di Lawrence Sterne, che pubblicherà solo nel 1813, premettendovi notizie autobiografiche, ma nascondendosi sotto lo pseuedonimo di Didimo Chierico (di qui l’aggettivo “didimeo” che denota  gli scritti, le idee e l’atteggiamento spirituale contrapposti a quelli dell’Ortis nelle  Ultime lettere).

1806-7: Napoleone rinuncia al progetto di invadere l’Inghilterra ed il Foscolo torna a Milano, dove proclama la sua convinzione che ormai Napoleone sia diventato un tiranno, ciò che gli rendeva difficile  trovare e lavoro e appoggi. Pur continuando a guadagnarsi da vivere come addetto all’esercito, egli si rifugia nella poesia: “Non mi pento di aver militato, mi pento bensì grandemente del tempo rapito agli studi” (123). Due sono le opere principali di questo biennio: traduce il primo canto dell’Iliade e compone, dopo un colloquio col Pindemonte sul significato delle sepoltura e delle tombe,  il suo capolavoro, il carme I Sepolcri (estate 1806; edizione nel 1807).

1808-11: E’ libera la cattedra di eloquenza alla univesrità di Pavia, e il Monti, che già l’aveva tenuta, aiuta il Foscolo ad esservi destinato.  Era una posizione di prestigio, la sicurezza economica, il pulpito per la diffusione delle sue idee. Preparò la prolusione accademica, “Dell’origine e dell’ufficio  della letteratura”, con impegno  profetico, vivendo in una casa sul Ticino a Pavia: e il 22 gennaio 1809 la pronunciò nell’Aula magna. Essa conteneva il famoso incitamento “O Italiani, io vi esorto alle istorie” e nel complesso potrebbe essere vista come il primo documento del Romanticismo italiano.  Fu un trionfo: quanto mai effimero, però.  Non vi aveva reso omaggio alle autorità, neppure (anzi) citate; non si era unito al coro degli adulatori dell’imperatore “fedele alla linea di condotta che ormai aveva assunto: -L’ingegno alla patria, il sudore alla famiglia, l’anima a liberissimi sentimenti- Poco dopo, la cattedra venne soppressa e Foscolo si trovò  disoccupato, con mille lire all’anno di pensione” (p. 124). Era di nuovo la povertà, aggravata da liti  e disordini. In particolare, ruppe col Monti attorno al 1810[7].

Ad aggravere la sua situazione venne il fiasco (1811, alla Scala) della sua nuova tragedia “Aiace” che crollò, tra risate incontenibili, all’appellativo “O Salamini”,   detto a gran voce da un  messo nel rivolgersi agli abitanti dell’isola di Salamina. Anzi, qualcuno volle vedere nella prepotenza di Agamennone, accenni di critica al regime dispotico di Napoleone.

1812-3: “Avvilito, infelice, Foscolo si rifugia a Firenze, ancora una volta tra le braccia di una donna, la più modesta, la meno brillante fra  tutte, ma anche l’unica che seppe rimanergli sempre vicina, -adorandolo, perdonandolo, soccorrendolo-. Si chiamava Quirina Magiotti Mocenni ... Tranquilla borghese, mal maritata... dava tutto e non chiedeva niente... Ugo poteva aver trovato la pace, nella dolce casa di Bellosguardo, ma il suo cuore volubile seguiva già il pensiero tormentoso di Lucietta Battaglia, vedova da un anno del suo colonnello caduto in Russia...” (124). I salotti si aprono  alla sua attività e conversazione: oltre  che con la Mocenni,  sono notevoli gli incontri con la contessa d’Albany, Cornelia Rossi Martinetti (di Bologna) ed Eleonora Nencini: le ultime due entreranno, assieme a Maddalena  Marliani Bignami (di Milano) nel secondo inno del  carme Le Grazie, attorno al quale lavora in questo periodo.  Intanto, a Bologna, egli manda in scena la sua terza tragedia, Ricciarda, che però cade, anche per la imperizia degli attori.

1813-15: la sconfitta di Napoleone a Lipsia mette in pericolo il Regno italico e Foscolo (che era stato tra quelli che avevano cercato di salvare il Prina) riprende il servizio militare. Ma proprio l’eccidio del Prina decide il Beauharnais a dare le dimissioni, facilitando il ritorno degli Austriaci.  Essi “trattano il Foscolo con deferenza e cortesia, rispettosi del suo nome e del suo ingegno, gli offrono di fondare e di dirigere come vorrà, in assoluta indipendenza,un giornale letterario. Ma Ugo rifiuta sdegnosamente di prestar  il suo giuramento di ufficiale agli oppressori stranieri” (p. 125): passando in Svizzera il 31 marzo 1815, “dà all’Italia una nuova istituzione: l’esilio” (Carlo Cattaneo). 

1815-16: “Per diciassette mesi rimase in Svizzera (peregrinando da Lugano a Zurigo, attraverso Coira, San Gallo ecc.), estremamente infelice: lavorava accanitamente, senza ricavarne i mezzi per vivere, e si aiutava a tirare avanti vendendo via via i libri, l’orologio, i pochi oggetti personali, guardato con sospetto e spesso respinto come un ladro” (ib.).[8]

Per guadagnare qualcosa, ristampò l’Ortis e pubblicò i discorsi Della servitù dell’Italia. Diede alle stampe anche l’Ipercalisse, una satira in  prosa latina contro i letterati italiani. Ma ci voleva altro, per sopravvivere. La decisione di preferire l’esilio in Inghilterra venne dalla consapevolezza che la classe colta aveva stima per lui e la sua opera letteraria; ma sulla decisione di lasciare la Svizzera pesarono  vari motivi: oltre a quello della miserabile condizione di vita in cui si trovava, c’erano  le persecuzioni della polizia austriaca, che  lo teneva d’occhio anche là. E c’erano le solite tragedie d’amore. Leggiamo nello studio di Luciana Cella: “ Unico suo conforto era la corrispondenza con gli amici lontani e specialmente con Quirina, alla quale offre adesso anche il matrimonio: ma la donna, che pur nelle sue lettere lo appoggia e conforta, sa fin troppo bene che Ugo non può essere un marito, che non le sarà mai fedele. Non lo è neanche adesso, perchè ha allacciato una relazione con Veronica Roemer Pestalozza. Stramba, isterica, commediante e cattiva, questa donna brutta e intelligentissima tormentò il Foscolo riducendolo alla’esasperazione. Lo tradiva e gli faceva leggere le lettere dei suoi fortunati rivali, lo umiliava, lo scherniva. Ugo, letteralmente, fuggì” (pp. 125-26).

        1816-27: arrivò a Londra l’undici settembre 1816, accolto ancor più calorosamente di quanto sperava: non era solo la sua fama letteraria, ma anche la conoscenza del suo spirito filodemocratico, antinapoleonico. “Nei fastosi salotti intellettuali di Londra, cosmopoliti e vari ad un livello molto superiore di quelli di Venezia e di Firenze, primo fra tutti quelli di lady Holland, il poeta esule, brutto ed elegantissimo, divenne subito il centro d’attrazione....la sua personalità eccezionale e la sua sconfinata dottrina incantavano quel bel mondo coltissimo che studiava la lingua italiana e parlava bene (ma non come lui!) il greco antico e il latino. Parve, sul principio, che a tanto successo dovesse accompagnarsi un lavoro redditizio, e infatti gli editori si disputavano la sua collaborazione e facevano a gara a versargli sostanziosi anticipi: ma Ugo spese subito più di quanto aveva guadagnato per impiantare la sua vita sullo stesso piano dei nuovi amici altolocati...” (p. 126). Vive allora collaborando con  scritti sulla vita letteraria e non, in Italia (Lettere scritte dall’Inghilterra, 1816:confronto ironico tra il mondo snobistico italiano e quello inglese; Gazzettino del bel mondo: id. ); e con studi sulla letteratura italiana,  nelle migliori riviste di cultura. Ne uscirono i Saggi sul Petrarca (1821), cui si affiancheranno il Discorso sul testo della Divina Commedia  (1825), Sui poemi narrativi e romanzeschi italiani (id.), Della nuova scuola drammatica in Italia (1826, ma edito postumo: 1850) ed Epoche della lingua italiana (postumo, 1850).  Si ricordò, intanto, di avere una figlia in Inghilterra: “Ne fece ricerca e con stupore apprese che la fanciulla quindicenne viveva a qualche chilometro da lui:... sua madre era morta da tempo... per accoglierla degnamente (1822) e farla vivere da gran signora, dilapidò la dote di tremila sterline ereditata dalla nonna che l’aveva allevata... I creditori furono inesorabili e per due volte il fiero e orgoglioso poeta finì in prigione... Da questo colpo non si riprese più: malato, quasi cieco, si ridusse per vivere a dar lezioni di italiano.... Gli rimase soltanto il conforto di Floriana mite, rassegnata, affettuosa...[9] Il 10 settembre 1827, a 49 anni, Foscolo morì, stroncato dalla idropisia; il suo corpo appariva consumato, vecchissimo, ma fino all’ultimo lo spirito era rimasto indomito e ribelle” (p. 127). Si era ritirato a Turnham Green, sotto falso nome e fu accompagnato al cimitero da cinque persone: il  canonico spagnolo Riego, che lo aveva aiutato in quelle estrema calamità, due italiani e due inglesi. Come aveva previsto nella finale del sonetto A Zacinto, così si verificava: “a noi prescrisse| il fato illacrimata sepoltura”. Nella modesta tomba di Chiswick  rimase sino al 1871, quando la salma fu traslata in santa Croce a Firenze, dove nel 1939 gli fu eretto un monumento.

 

 

LE  OPERE

Trascurando i molti versi giovanili, da lui ripudiati, rivediamo le opere principali già accennate nella “Vita” e diamone qualche particolare interessante. 

        1797: Tieste, la tragedia che gli diede fama in Venezia; il protagonista vi compare come magnanimo lottatore contrro la tirannide del fratello Atreo; ed esule, triste ed eroico (autobiografismo ed influssi dell’Alfieri).

Ode a Bonaparte liberatore

        1799: avviene la prima stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, a sua insaputa:   l’editore Jacopo Marsigli lo fece   elaborare “da un prezzolato[10], in un centone di follie romanzesche, di frasi adulterate e di annotazioni vigliacche” (p. 120: parole del Foscolo) “e lo fece pubblicare col titolo dolciastro “Vera storia di due amanti infelici”(ivi). Le “Ultime lettere” saranno edite da lui nel 1802, ma verranno rimaneggiate ulteriormente nelle due edizioni di Zurigo (1816) e di Londra (1817).

        1799: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (ode neoclassica).

        1802: All’amica risanata (ode neoclassica all’amica Antonietta Fagnani Arese).

Prima edizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Edizione pisana delle POESIE (Odi e Sonetti)

        1803: edizione definitiva delle POESIE, con tutti i dodici sonetti, fra cui ALLA SERA| A ZACINTO| A FIRENZE| IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI | ALLA MUSA..[11]

Commento alla chioma di Berenice: traduzione da Catullo, con note, quattro capitoli introduttivi e quattordici Considerazioni: l’opera è importante, perchè contiene i princìpi della poetica (passionale nel contenuto e neoclassica nella forma) del Foscolo.

        1806-7: compone e pubblica il carme DEI SEPOLCRI, il suo capolavoro.

Esperimento di traduzione dell’Iliade (limitato  per ora al primo canto)

        1809: Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (prolusione anno accademico pavese). Lezioni sulla letteratura, la lingua e  la morale letteraria (tenute fino a giugno).

        1811. Aiace, tragedia rappresentata alla Scala (caduta e, poi, proibita).

Pubblica un articolo Sulla traduzione dell’Odissea e risponde alle critiche con il Ragguaglio di un’adunanza de’Pitagorici, e, dalla Svizzera, nell’Ipercalisse

        1813: Ricciarda, tragedia rappresentata a Bologna, ma senza successo.

Pubblica a Pisa la traduzione, dall’inglese di Lorenzo Sterne, del “Viaggio sentimentale  attraverso la Francia e l’Italia”,  traduzione già inizata negli anni di soggiorno in Francia, 1804-6): vi premette la Notizia intorno a Didimo Chierico, autobiografica.

Traduce altri  passi dell’Iliade; lavora al poemetto LE GRAZIE,  di cui aveva già pubblicato quattro brani nel 1803, assieme alla “Chioma di Berenice”: lo aveva  ripreso nel 1809, ma sostanzialmente steso in questi anni (ed edito postumo).

        1815-16: (in Svizzera): Ipercalisse (satira in lingua latina contro i letterati italiani, già iniziata in Italia);

Della servitù d’Italia;

Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno 1200 al 1800.

1816-1827: dapprima ironizzò sul  mondo “snob” italiano messo a confronto con quello inglese, nelle Lettere scritte dall’Inghilterra (da cui ricavò Il gazzettino del bel mondo: 1816); poi, svolse un lavoro prevalentemente critico, di cui sono frutto il Saggio sullo stato della letteratura italiana nel primo ventennio del secolo decimonono (1818); articolo sui Poemi narrativi e romanzeschi italiani (1819|1825); Saggi sul Petrarca, (Saggio sopra l’amore del P., .... sopra la poesia del P., .... sopra il carattere del P.; Parallelo fra Dante e P.),  frutto delle lezioni tenute a Caroline Russel e pubblicati in volume nel 1821; articoli per il New  Monthly Magazine su vari autori italiani (Pier delle Vigne, Cavalcanti, Michelangelo, Tasso...); traduzione del terzo libro dell’Iliade (edito dal Capponi sulla Antologia, nel 1821); Storia di Parga (inedito); Il Digamma eolico (1822: studio erudito per il Quarterly Review); articolo sulla Letteratura periodica italiana (1824); Discorso sul testo della Commedia di Dante (1825);  Discorso storico sul testo del Decamerone (introduzione ad una edizione inglese dell’opera boccaccesca: 1825); Della nuova scuola drammatica italiana (postumo); Epoche della lingua italiana (id.).

        L’EPISTOLARIO abbraccia l’arco tutto della sua vita e rivela il temperamento schietto ma impulsivo del Foscolo, capace di gesti eroici come di collere assurde; di offese esplosive, ma anche di umiltà nel domandarne perdono con animo addoloratissimo; rivela le sue nobili idealità politico-sociali, ma anche la sua  schiavitù all’erotismo, che lo induce ad una condotta brada ed instabile, da giovane immaturo e incontrollato, finendo per farsi rifiutare dalle   donne cui chiese il matrimonio (la figlia del conte Giovio[12] e Quirina Mocenni Magiotti, ad esempio). L’espressione delle sue lettere varia da una sobrietà di stile, virile e  degna di Dante, alla loquacità sentimentale della peggior retorica romantica (lettere d’amore).  Genio e sregolatezza si rivelano anche attraverso l’epistolario, come attraverso gli altri fatti e documenti che dobbiamo ora prendere in considerazione.[13]

 

LA PERSONALITA’

        A) Testimonianze disorganiche, intuizionistiche, analitiche

 

Ecco anzitutto la coscienza che egli aveva di sè[14]: dei tredici sonetti da lui pubblicati nelle Poesie (il “Ritratto” ha due redazioni), ben sei sono autobiografici!

 II: Di se stesso:  “Non son chi fui; perì di noi gran parte:| questo cha avanza è sol languore e pianto.| E secco è il mirto e son le foglie sparte| del lauro, speme al giovenil mio canto.|| Perchè dal dì ch’empia licenza e Marte| vestivan me del lor sanguineo manto,| cieca è la mente e guasto il core, ed arte| l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.|| Che se pur sorge di morir consiglio,| a mia fiera ragion chiudon le porte| furor di gloria e carità di figlio.|| Tal, di me schiavo e d’altri e della sorte,| conosco il meglio ed al peggior mi appiglio;| e so invocare e non darmi la morte”.[15]

VII: Il proprio ritratto: “Solcata ho fronte, occhi incavati, intenti,|crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,| labbro tumido, acceso e tersi denti,| capo chino, bel collo e largo petto.|| Giuste membra, vestir semplice, eletto;| ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;| sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;| avverso al mondo; avversi a me gli eventi.|| Talor di lingua e spesso di man prode;| mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,| pronto, iracondo, inquieto, tenace:|| Di vizj ricco e di virtù, do lode| alla ragion, ma corro ove al cor piace:| morte sol mi darà fama e riposo.”[16] (1801-2)

XII: A se stesso: “Che stai? già il secol l’orma ultima lascia;| dove del tempo son le leggi rotte,| precipita, portando entro la notte| quattro miei lustri; e obblio freddo il fascia.|| Che se vita è l’error, l’ira, l’ambascia,| troppe hai del viver tuo l’ore prodotte;| or meglio vivi e con fatiche dotte,| a chi diratti antico, esempi lascia.|| Figlio infelice e disperato amante| e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,| giovine d’anni e rugoso in sembiante,| che stai? Breve è la vita e lunga l’arte;| a chi altamente oprar non è concesso| fama tentino almen libere carte” (dicembre 1799).

        Si tratta di un insieme di dati non facilmente armonizzabili.

 

Il ritratto di Antonio Fabre ci conferma questi dati, la loro complessità e disarmonia. Soprattutto quel “largo petto” (e le “giuste membra” od “esatte”: v. 5 de Il proprio ritratto) con le emunte guance, gli “occhi incavati”, il “capo chino”; e, poi, “l’ardito aspetto, i “ratti passi”, la forte impusività (“talor di lingua e spesso di man prode”) con la innata tristezza (“mesto i più giorni”) e la rarità del sorriso ( i labbri “al sorriso lenti”);  il coraggio che gli viene solo dalla collera,  perchè “il pudor mi fa vile e prode l’ira”; e l’aspettarsi fama solo dalla morte, dalla quale attende anche il riposo ad una stanchezza del vivere abituale (ultimo verso); e, infine, quelle ossessive tentazioni di suicidio, in contrasto con l’aspirazione alla fama, da esigere con lavori di scrittore.... Decisamente una pesonalità ancor più complicata che semplicementecomplessa, non univoca, anzi aggrovigliata e sofisticata.

 

L’Epistolario conferma questa individualità contradditoria con forme nuove, letterariamente   sempre affascinanti, ma talora  filosoficamente fuorvianti (per affermazioni che negano libertà interiore all’uomo). Ecco la lettera raccolta in Epistolario II, 542: “Il mondo crede ch’io abbia ingegno, e lo credo anch’io; ma si crede altresì ch’io sappia più di quello che so. So poco; nella mia fanciullezza fui tardo, caparbio; infermo spesso per malinconia, e talvolta feroce e insano per ira”. Ecco la missiva a Leonardo Cicognara (1813): “io, come discepolo, amico e fors’anche discendente di don Chisciotte...”. Ecco espressioni dalla lettera alla contessa d’Albany (21 dic. 1815): “Non fu uomo forse sopra la terra che abbia quant’io secondato a vele piene la propria natura e non solo nelle passioni virtuose, bensì anche nelle viziose: il che ho fatto perchè, secondo il mio modo di sentire, le passioni tutte sono torrenti e va loro aperta la strada. Così si possono poscia dirigere; altrimenti straripano e ti sommergono e ti travolgono seco..... e dove s’apra sotto di me il precipizio, non tanto cercherò di evitarlo, quanto di cadervi da uomo”. Alla sorella Rubina scrive (4 ott. 1823): “vi sono certe anime, le quali si possono rompere, non piegare”. Altrove afferma: “Io non posso amare se non altamente, ardentemente, forsennatamente, forse”. E si noti che il proposito o, almeno, la dispoonibilità al suicidio è espressa sia nella lettera citata alla contessa d’Albany, sia in quella a Santorre di Santarosa  del 10 sett. 1824. Nella lettera di cui all’Epistolario IV, pp. 77-8 si lamenta: “... io sono da gran tempo malato, e vivo in quella specie di languore e di noia per cui l’uomo può appena pensare”

Il che non  cancella la meravigliosa forza d’animo dimostrata da altre lettere: quella, ad esempio, inviata al vicepresidente della repubblica italiana, Francesco Melzi d’Eril, prima di partire per la Francia, nel 1804: “Le confesso, Cittadno Vice-Presidente, sono stato inesperto e imprudente; ma il mio contegno fu ad un tempo severamente probo. Non ho mai venduto la mia opinione nè la mia penna, non ho palpato l’ignoranza, la viltà ed il delitto che governavano... d’altra parte certe qualità, fiere e magnanime tengono del veemente e del selvaggio, per cui chi le possiede si attira nel mondo molte inimicizie”; quella  a Francesca Giovio, la figlia del conte Gian Battista, quando il progetto di matrimonio venne meno: “Addio: ascoltate per carità i consigli del vostro misero amico: abbiate pietà delle sue preghiere; obbedite a’ vostri genitori, che non vorranno mai farvi infelice; sacrificatevi alla virtù, unica consolazione delle disavventure.... Io vi amerò sempre, ve lo giuro dal profondo del cuore, vi amerò sino all’estremo respiro; e giuro sull’onor mio di non ammogliarmi finchè non sarete d’altri... Ma non sarete mia moglie finchè potrò comparire vile d’innanzi a me, seduttore verso i vostri parenti, e crudele con voi. Addio con tutta l’anima, addio”; quella in cui spiega ai familiari il perchè non abbia potuto prestare giuramento all’Austria: “...L’onor mio e la mia coscienza mi vietano di dare un giuramento che il presente governo domanda per obbligarmi a servire nella milizia, della quale le mie occupazioni e l’età mia, e i miei interessi m’hanno tolta ogni vocazione. Inoltre tradirei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere, e con vendermi a qualunque governo. Io per me sono inteso a servire l’Italia; nè come scrittore ho voluto parer partgiano di Tedeschi o Francesi, o di qualunque altra nazione... Se dunque, mia cara madre, io mi esilio e mi avventuro come profugo alla fortuna ed al cielo, tu non puoi, nè devi, nè vorrai  querelartene, perchè tu stessa m’hai ispirati e radicati col latte questi generosi sentimenti...” (31 marzo 1815).

 

Si confrontino i tentativi di giustificare le proprie trasgressioni con i passi affini, attribuiti al protagonista, che è per tanta parte proiezione autobiografica nelle Ultime lettere: “Per altro bada di non volerti opporre quando mi verrà voglia di andarmene; perchè tu sai ch’io son nato espressamente inetto a certe cose, massime quando si tratta di vivere con quel metodo di vita ch’esigono gli studi, a spese della mia pace e del mio genio...” (Padova, 7 dic. 1797). E ancora da Padova, l’ 11 dicembre, gli fa dire: “Quando fui solo, la mia ragione, che è in perpetua lite con questo mio cuore, mi andava dicendo: - Infelice! temi soltanto di quella beltà che partecipa del celeste... Fuor di scherzo: conosco d’essere un cervello bizzarro e stravagante fors’anco”. Sempre da Padova, nella lettera mancante del primo foglio (per cui la data è da arguire dalla precedente e dalla seguente, rispettivamente dell’undici e ventitrè dicembre), egli così parla di sè: “..il mio cuore, il quale non ha  saputo mai pacificarsi co’ tempi, o far alleanza con la ragione. E però tu mi udivi assai volte esclamare che tutto dipende dal cuore! – dal cuore che nè gli uomini nè il cielo, nè i nostri medesimi interessi possono cangiar mai”. E nella lettera dell’undici Maggio 1798: “Perchè mai questo mio cuore nelle stesse occasioni ora è pace pace, ora è tutto tempesta? Diceva quel viaggiatore: Il flusso e riflusso de’ miei umori governano tutta la mia vita.”[17]

 

Le testimonianze dei contemporanei, che l’hanno conosciuto di persona, offrono elementi concordi, con particolari integrativi.

Ecco una testimonianza della sorella, inserita in un ritratto della Cella: “Sul logoro, stinto capppottuccio verde, stretto e tirato sulla persona muscolosa, spiccava la massa dei capelli rossi e ricciuti: -Brutto come una scimmia-, diceva di lui teneramente la sorella Rubina, ma piacente, con quegli occhi grigi incavati, intenti, il gran naso aquilino e la bocca tumida e arguta, e avvincente con la sua giovanile irruenza e con l’inarrestabile eloquenza piena di fuoco”  (p. 116).

Ecco le parole con cui il bibliotecario (un prete) della “Marciana”, la biblioteca di Venezia ove il giovanissimo Foscolo passaava le sue giornate a studiare, lo presentò ad Isabella Teotochi: “Questo rosso greco è un soprafattore, ma ha ingegno per farlo... O sarà un avventuriero, o diverrà un genio” (p. 117).

 Il complemento del ritratto è nelle parole di Isabella Teotochi Albrizzi: “L’animo è caldo, forte, disprezzatore della fortuna, e della morte. L’igegno è fervido, rapido, nutrito di sublimi, di forti idee;.... Grato alla fortuna avara, compiacesi di non esser ricco, amando meglio esserlo di quelle virtudi, che esercitate dalla ricchezza quasi più virtudi non sono. Pietoso, generoso, riconoscente, pare un rozzo selvaggio a’ filosofi de’ nostri dì. Libertà, indipendenza sono gl’idoli dell’anima sua. Si strapperebbe il cuore dal petto, se liberissimi non gli paressero i moti tutti del suo cuore. Questa dolce illusione lo consola, e quasi rugiada rinfresca la fin troppo bollente anima sua. Alla pietà filiale, all’amistà fraterna, all’imperioso amore concede talvolta un filo, ond’esser ritenuto; ma filo lungo, debole, mal sicuro contro l’impetuoso torrente di più maschie passioni. Ama la solitudine profonda; ivi meglio dispiega tutta la forza del suo ferace ingegno, che ne’ suoi scritti trasfonde. La sua vasta memoria è cera nel ricevere, marmo nel ritenere. Amico fervido ma sincero, come lo specchio, che non illude, nè ingana. Intollerante per riflessione più che per natura. Delle cose patrie adoratore, oltre il giusto disprezzatore delle straniere. Talora parlatore felicissimo, e facondo, e talora muto di voce e di persona. Pare che l’esistenza non gli sia cara, se non perchè ne può disporre a suo talento; errore altrettanto dolce al suo cuore quanto amaro a quello degli amici suoi”.[18]

Zoric, in Studia romanica et anglica Zagabriensia, 1959, (pp. 36 e 39), nell’articolo “Ancora sul soggiorno di U. Foscolo a Spalato”, attesta: Allora che studiava, dava poco a sperare: era però veramente un berrecchino di piazza, e un diavolo in iscuola. Il Giannuzzi era solito dirgli: -tu diventerai o un grand’uomo o un demonio... Restò costantemente inquieto dappertutto. Tutti ricordano i suoi capelli rossi rossi, e i suoi occhi di fuoco, e la sua perpetua inquietudine... Sino da quella età egli presagiva quella bizzarria, che poi s’è col tempo cotanto ingigantita. Vivace sempre fino all’incomodo ed all’impertinenza, era ricco di busse d’ogni parte.... Il Foscolo a me sembrava, allora io ero giovinetto, volubile, pazzo e fanatico”.

Per il soggiorno a Venezia nei primi anni, abbiamo questa descrizione : “mettea meraviglia vederlo aggirarsi per le vie e pei caffè, vestito di un logoro e rattoppato soprabito verde, ma pieno di ardire, vantando la sua povertà infino a chi non curavasi di saperla, e pur festeggiato da donne segnalate per nobiltà ed avvenenza e dalle maschere più graziose e da tutta  la gente”[19]. “Aveva diciassette anni quando un abate gli scriveva: “Guardatevi dalla vostra celebrità. In Venezia si passa dal teatro alla predica e dalla predica al Foscolo”. 

Ecco nei versi di Silvio Pellico l’incertezza, l’ambivalenza del Foscolo di fronte al fatto religioso: “Ugo conobbi, e qual fratel l’amai,| chè l’alma avea per me piena d’amore:| dolcissimi al suo fianco anni passai,| e ad alti sensi ei m’elevava il core.| Scender nol vidi ad artifizi mai,| e viltà gli mettea cruccio ed orrore:| vate era sommo, ed avea cinto l’armi,| e alteri come il brando eran suoi carmi...|| Ma sventura, sventura! Uom così degno| d’amar colla sua grande anima Iddio,| in fresca età l’ardimentoso ingegno| ad infelici dubitanze aprìo:| chè di natura l’ammirabil regno| opra di cieche sorti or gli apparìo,| or de’ mondi il Signor gli tralucea,| ma incurante d’umani atti il credea.|| Nondimen fra’ suoi dubbii sfortunati,| Ugo abborriva l’inverecondo zelo| di que’ superbi, che, di fé scevrati,| fremono ch’altri innalzin voti al cielo:| e talor mesto invidiava i fati| del pio, cui divin raggio è l’Evangelo;| e spesso entrava in solitario tempio,| come non v’entra il bandanzoso e l’empio.|| E mi dicea che que’ silenzi santi| della casa di Dio nella tard’ora,| quando qua e là da pochi meditanti| sovra i proprii dolor si geme ed òra,| ovvero i dolci vespertini canti| sacri alla Vergin ch’è del ciel Signora,| nell’alma gl’infondean pace profonda,| o d’alta poesia la fean gioconda.|| Sempre onoranza fra i più cari amici| rese al canuto Giovio venerando,| e sue parole di virtù motrici| con benevol desio stava ascoltando,| e a lui diceva: -Anch’io giorni felici| ho sulla terra assaporati, quando| innamorata ancor la mia pupilla| vedea quel nume che a’ tuoi rai sfavilla...|| E siccome al buon Giovio sorridea| con ossequio amantissimo di figlio,| così sul mio Manzoni Ugo volgea| quasi paterno, gloriante ciglio:| in esso egli ammirava e predicea| di fantasia grandezza e di consiglio,| forte garrendo, se taluno ardìa| di Manzoni schernir l’anima pia...”. E soggiunge nella cantica “Le chiese”:“E l’amato mio Foscolo, infelice,| sebbene lui fede ancor non consolasse,| talor volea con umile cervìce| mescersi all’alme per cordoglio lasse,| che la bella de’ cieli Imperadrice| imploravan che a lor grazia impetrasse;| e quando al tempio a sera ei mi seguiva,| indi commosso e pensieroso usciva.|| Oh quante vole insiem quella scalea| ascendemmo del Duomo inosservati!| Quante volte in quegli archi ei mi traea,| e là sussurravam detti pacati| sul beneficio  d’ogni eccelsa idea,| sui vantaggi dell’are all’uom recati,| sulla filosofia meravigliosa| che della Chiesa in ogni rito è ascosa!|| Oh allorquando vi penso, io spero ognora| che, pria di morte almen, quell’alto ingegno| avrà veduta la soave aurora| del promesso agli umani eterno regno!| Spero che quella forte anima ancora| nodrito avrà del ciel desio sì degno,| che quel Dio che sol vuole essere amato| avrà tardi sospir anco accettato...”.

A queste testimonianze dirette, si possono aggiungere giudizi acuti e sintetici  di vari studiosi . Quella generale di U. M. Pallanza: “Conosceva il valore della virtù, ma nessuna ne praticò con equilibrio, perchè un fuoco interno lo rendeva inquieto e randagio... Ma amò con una forza tutta sua l’ideale cielo in cui vivono dignità, decoro, amore, patria, belelzza; e per quel cielo fece follie” (La letteratura italiana, Milano, Dante Alighieri, III/I, pp.62-3). E quello di Natalino Sapegno, sugli ultimi anni del poeta: “Si suole troppo spesso insistere...sulle sue umane debolezze, che si rivelano in forme anche più vistose in questo scorcio estremo della sua esistenza: smania di lusso, inguaribile prodigalità, folli amori (l’ultimo, ardentissimo ma non ricambiato, per Carolina Russel). E non si tien conto del suo sforzo ostinato di lavoro...”[20]

 

B) Proposta di una ricostruzione sintetica, organica, ragionata.

 

Seguiremo il nostro schema abituale: IL FISICO| IL TEMPERAMENTO O PSICOLOGIA| IL TIPO DI FANTASIA| IL TIPO DI INTELLIGENZA. Riusciremo a scoprire le cause di una personalità così ricca e sconcertante, di un individuo così contradditorio tra virtù e vizi, intelligenza e assurdità?

        IL FISICO: abbastanza alto e robusto da essere atto al servizio militare, aveva certo l’ossatura di un atletico, anche se smagrito: la muscolatura non vi reggeva il paragone. E’ questo un indizio di distonia ortosimpatetica, che gli forniva occasionalmente adrenalina per un lavoro al di là del normale, ma che normalmente lo condannava a facili stanchezze ed a discontinuità nella applicazione della stessa genialità discorsiva (taciturnità cupa ed ostinata che si alterna a loquacità brillante ed irresistibile). 

        IL TEMPERAMENTO (LA PSICOLOGIA). Come gran parte dei poeti, anche il Foscolo è sostanzialmente un temperamento nervoso, cioè un “emotivo, non attivo, primario od instabile”[21]. Ma con residui di attivismo particolarmente accentuati: egli era un atletico, ma ridotto ad una magrezza quasi patologica; era un nervoso che risentiva del “passionato. Lo possiamo considerare un “subattivo”, cioè un velleitario dell’azione. Tale temperamento (proprio anche di Dante, che attenta la carriera politica) è stato  incarnato da Shakespeare nella figura paradigmatica di Amleto[22]. Siccome ogni nervoso è anche un distonico, cioè un individuo in cui le pulsioni del sistema neurovegetativo sono diseguali (sicchè i toni sistolico e diastolico del cuore sono irregolari, disarmonici, prevalendo l’uno a scapito dell’altro), ebbene è facile riconoscere in questi “velleitari dell’azione” dei simpaticotonicoprevalenti, cioè degli individui in cui la pulsione diastolica prevale su quella della sistole cardiaca; in cui la propensione all’agire e realizzarsi nella vita sociale è tentatrice anche se condannata al fallimento.

 Vediamo di sfruttare la documentazione sopra accumulata in rapporto ai soliti tre fattori del temperamento (nervoso: emotività| non attività| instabilità).

        L’emotività.  A testimoniarne la misura eccezionale sta anzitutto la produzione poetica, non vasta, ma sublime: Dei Sepolcri, i quattro o cinque sonetti più tardivi, alcuni passi de Le Grazie. 

I dati sopra riportati, ci permetton di parlare, in sintesi, di una impulsività indomita. Anzitutto nell’entusiasmarsi e nel polemizzare, nel venire a lite e nel  pentirsene, nell’impegnarsi a corpo perduto con Napoleone e nel ritirarsene con veemenza. E, poi, vi è il buttarsi nei pericoli fino ad uscirne salvo  a stento e  con ferite; l’ardore dei suoi innamoramenti (pronto a suicidarsi per una negata adesione) e, in generale, l’estremismo dei suoi stati d’animo, che nell’angoscia come nell’esultatnza sono talora in parallelo con quelle della finzione romanzesca nell’Ortis; l’eccesso delle sue passioni pratiche, come la schiavitù al gioco,  il fascino del lusso, la prodigalità scriteriata, la volubilità negli amori.... La sua vita è così clamorosamente guidata dall’impulso emozionale, che  si sarebbe tentati   di credergli, quando afferma che non era possibile che la ragione trionfasse delle sue passioni, se non stessero nella sua vita certi atti riflessi e meditati che  sapevano pur contrastare tutte le sue passioni[23], per ubbidire alla coscienza, cioè ad ideali della ragione che colla sensibilità non avevano nulla a che fare (amore alla libertà politica in genere ed alla indipendenza dell’Italia da qualunque straniero).

        La subattività, cioè la compresenza di impulsi straordinari e persistenti di attivismo e il clamoroso fallimento di ogni sua iniziativa pratica, è certamente la dimensione più disorientante della sua personalità.

 Da una parte non si può negargli una eccezionale capacità di attrazione, di fascino, di socializzazione, di comando: si pensi alla sua puerizia a Zacinto, dove è il capo riconosciuto dei ragazzi del suo quartiere, che egli organizza in continue imprese al limite della legalità e ragionevolezza. La Teotochi-Albrizzi testimonia della sua capacità di generare  sorpresa, simpatia, ammirazione: non solo di concentrare su di sè l’attenzione, ma anche  di ottenere sequela ed imitazione. Vi è poi la testimonianza di quall’abate che gli scrive: “In Venezia si passa dal teatro alla predica e dalla predica al Foscolo”. Anche la seduzione delle donne è indizio del carisma di fascino, intraprendenza e coinvolgimento. Soprattutto la sua militanza in più di una battaglia testimonia di una sia pur disordinata e magari imprudente facoltà attivistica, operativa,  produttiva.

Dall’altra parte, sta il fallimento di tutta una vita pratica: il suo unico successo è quello letterario, anzi poetico; consiste, cioè, nella genialità di una espressione verbale che fonde parole e musicalità, che opera il sinergismo fra idee ed armonia, la simbiosi tra filosofia e musicalismo. Il risultato è qualitativamente altissimo, ma limitato quantitativamente: nel giro di  cinque anni di vita (1801-6) egli scrive  i versi sublimi dei migliori sonetti e dei Sepolcri, avvicinandosi in seguito a tale intensità di lirismo solo in  una quarantina di altri versi, ne Le Grazie (Inno di Pallade, vv. 169-212).Pel resto lascia versi notevoli, ma non immortali. La ispirazione è stata al calor bianco, ma effimera:  splendida della luce di un  lampo, che a tutti si impone ma fugge . Pel resto la sua vita risulta più vicina a quella demoniaca che a quella divina: imprevedibile ed ingovernabile, certo, ma anche inaffidabile. Era un “attivo” di tipo amletico, distruttivo e non costruttivo: incapace di salvare le amicizie, di cooperare con qualsiasi autorità, di acquistare od almeno conservare un patrimonio[24], di trovarsi una moglie, di trovarsi un lavoro con cui guadagnarsi decorosamente da vivere. Alla sua mirabile loquacità di certi momenti corrisponde un tempo più vasto di silenzio e taciturnità insuperabile; all’ardore dei suoi amori veementi sta di fronte la infedeltà più insolente ed incorreggibile;alla furia del suo combattere, si oppone la assenza di continuità nella milizia del Bonaparte; alla forzata persistenza nel lavoro imposto dalla miseria degli anni trascorsi in Svizzera ed Inghilterra, fa riscontro la decadenza organica, il logoramento delle energie, la morte precoce a 49 anni.

        La instabilità (primarietà) del temperamento rischia di essere già stato documentato a sufficienza. In lui, distonico nel senso della prevalenza simpaticotonica od ortosimpatetica, vi è un continuo stato di ansia ed insicurezza, che diviene veglia ed allarme, collera e tensione, impulsività e preoccupazione, sospetto e timore, avversione e violenza. Ma tutto questo agitarsi logora un organismo mancante di pace, in continua ricerca di “armonia” (una parola-chiave, come vedremo nella poesia del Foscolo, ma, prima ancora, nella sua psicologia e fisiologia[25]): alla distanza non gli riesce di vivere a lungo ad una altezza di sentire che è stressante e debilitante, logorante e spossante.  Ed eccolo, allora,  cadere nell’estremo opposto del riposo totale nell’abbandono liberatore dell’erotismo, nella consolazione riposante dell’affettività, nell’affidamento consolatore di amicizie, sognate come eternamente disposte al perdono, all’accoglienza, all’aiuto.

In pratica egli è un nevrosico, anzi un nevrotico, che alterna momenti di collera travolgente a momenti di prodiga generosità: talvolta lascia la impressione di non essere padrone del proprio sentire ed agire. 

Vediamo dapprima ancora qualche  episodio di instabilità nella vita pratica.

Uno dei segni della instabilità di un temperamento nervoso è la mancanza di fissa dimora o, almeno, il frequente mutare di luogo, abitazione, occupazione. A voler fissare una tappa dei “traslochi” geografici e professionali del Nostro, occorrerebbero pagine a stampa  per citare le città dove non tanto soggiornò, quanto  “fu di passaggio”; o per elencare le alternanze fra la professione di letterato ed il mestiere del soldato.

Le sue svolte ad “U” nelle amicizie sono pure clamorose e  frequenti: amici ed amiche sono diventati spesso nemici o contestatrici. Fra i primi troviamo Napoleone e Monti, casi conosciutissimi; ma anche Manzoni. Quanto testimonia il Pellico per il rispetto ed ammirazione dell’autore dei Sepolcri al giovane nipote di Beccaria,vale per il periodo del soggiorno italiano del Foscolo. Anzi, in  proposito, va ricordato che il primo elogio stampato sulla poesia  del Manzoni gli venne dalla penna del Foscolo, a proposito  degli sciolti in morte di Carlo Imbonati. Ma, alla fine, prevalsero le divergenze ideologiche, mentre Foscolo diveniva sempre più scettico e cinico. Morendo nel settembre del 1827, fece in tempo a leggere la prima edizione dei Promessi Sposi, esprimendosi sul dissenso religioso e tacendo del valore poetico dell’opera. Anche con Santorre di Santarosa ebbe modo, esuli entrambi in Inghilterra, di  inimicarsi per gravi offese. Fra le  rotture con le donne, stanno quella con la tanto avvenente e colta quanto onesta e sorniona Teresa Pichler (capace di canzonarlo crudelmente: “L’irruente innamorato minaccia di spaccarsi la testa contro lo spigolo di un caminetto? Teresa gli offre una dose d’oppio perchè si metta tranquillo...”)[26], per finire con Maddalena Bignami (qui fu il marito che gli  chiuse la porta  di casa una volta per tutte) o con le altre sopra citate, che gli negarono il legame coniugale.  In lui si attua perfettamente quanto la scienza psicologica dice di un temperamento nervoso: egli passava da un ammobigliato all’altro, non avendo fissa  residenza (e, ahimè! sia da ragazzo che da anziano ebbe a provare anche la prigione come sua provvisoria dimora...).

Incapace di mantenere rapporti sociali ed amichevoli stabili, egli finiva per vivere solitario, salvo l’adesione di rare persone, che gli stessero vicine per carità  di consanguinei (la figlia Mary-Floriana) o per carità cristiana (il canonico Riego).[27] “Chi vive solo, muore solo” dice il proverbio; e tale fu la sua fine. Si noti che a Londra vi erano vari esuli italiani, che egli però disprezzava come inguaribilmente discordi fra loro. Ebbene, fra questi, Santorre di Santarosa gli offrì, nonostante  dissapori prima intervenuti,  ospitalità liberale anche negli ultimi giorni, che però lui rifiutò per un senso di dignità che sconfinava con l’orgoglio (e l’imprudenza, viste le sue condizioni). Ma anche di brave persone inglesi (quelle che non si erano disgustate per i suoi scatti impulsivi o per la vita privata riprovevole a motivo dell’erotismo del gioco, e della prodigalità insensata) rifiutò l’aiuto. [28]

Ed ora entriamo nell’intimo dell’animo foscoliano, per scoprirvi l’instabilità del mondo interiore e la riuscita, sublime operazione  del suo  superamento.

La mutabilità inquieta del Foscolo ha più di una svolta paradossale. Dapprima egli giunge ad istituzionalizzare la sua ambiguità interiore, riconoscendosi in entrambi i poli di attitudini contrastanti, per cui egli, da una parte, si schiera nettamente col neoclassicismo (la sua poetica più elaborata è tale:  si vedano  i Capitoli e le Considerazioni  apposte alla edizione della “Chioma di Berenice”), mentre dall’altra si apre ad una visione romantica dell’ufficio della poesia (“Prolusione” all’anno accademico a Pavia, del gennaio 1809). Anche i suoi scritti letterari risentono di ambedue le pulsioni: quella neoclassica che fa capo alle due odi, alle Grazie, alla traduzione dell’Iliade e della “Chioma di Berenice”; e quella già romantica, che si esprime nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, nella impostazione “passionale” della sua esistenza (quasi fosse un “romanzo”, cioè, appunto,  vissuta  romanticamente, irrazionalmente). A breve distanza,  poi, dallo scritto  romantico per eccellenza,   iniziano a comparire gli scritti “didimei”: del 1802 sono le Ultime lettere in prima edizione; del 1804 è l’inizio della traduzione del romanzo di Laurence Sterne “Sentimental journey through France and Italy” (con la Notizia intorno a Didimo Chierico, che pubblicherà nel 1813). L’atteggiamento “didimeo” non è più quello passionale ed enfatico della natura impulsiva e grezza di Jacopo Ortis-Ugo Foscolo, ma quello saggio, disteso ed ironico del flemmatico, disilluso e scettico Yorick-Didimo-Foscolo. Siamo ad un  approdo “realistico”, che attrae, ma non penetra nella psicologia del Fosoclo.[29]

Ma vi è ancora di più. I momenti più alti della poesia foscoliana riescono a far convivere i due atteggiamenti opposti, ad apparentare le due posizioni mentalmente contrastanti in una animazione lirica complessa che li sintetizza, li costringe ad una simbiosi emozionale delicatissima, ad un sinergismo   epico-elegiaco  che  sarebbe da dirsi temerario se non fosse riuscito in misura  imprevedibile. La  dissonanza pratico-esistenziale e filosofico-dottrinale trova una armonia artistica che, attenuata la disperazione ortisiana nella elegia rassegnata,  supera la semplice serenità didimea  in un epos  che esalta la virtù , pur destinata alla sconfitta; che piange virilmente sull’insensatezza casuale della vita umana, ma promuove le illusioni che persuadono   sentimentalmente all’eroismo patrio, alla fedeltà amicale, alla virtù morale, alla genialità inventiva, nonostante la convinzione razionalistica della loro inutilità; che riscatta la tentazione della disperazione per il vuoto di senso ed il  misconoscimento dei valori, esultando  per la bellezza della fede in essi  e lacrimando silenziosamente sul candore e sul sacrificio di quanti se ne fanno operatori e seguaci  fedeli. Di questa  complessa armonia lirica   risultano intessuti alcuni dei sonetti migliori, i versi 169-212 del terzo inno alle Grazie, soprattutto la poesia  dei Sepolcri.  Foscolo, in sede estetica,  imposta un’operazione affine a quella di Emanuele Kant in sede strettamente filosofica: non importa che la “ragion pura” non sia atta a dimostrare la verità dei Valori tradizionali, dal momento che a  darci sicurezza su Dio e sull’anima immortale, sui doveri morali e sull’eterna plausibilità dell’operare generoso ed eroico, sta l’intuito del sentimento, connesso inesorabilmente coll’imperativo categorico. Foscolo  pure si appella al sentimento e trova nella sua reazione spontanea (che  si esalta e si commuove di fronte al bene fedelmente adempiuto ed al meglio eroicamente attuato, qualunque siano i loro risultati pratici); ed eterna, nel canto ammirativo e riconoscente della poesia, quegli uomini che la vita pratica abbandonerebbe alle forze cieche della natura, annullandoli nella indifferenza di vero e falso, buono e malvagio, utile e dannoso.[30] 

Lo spirito del Foscolo viene trattenuto al di qua della frantumazione della personalità (quanto è più grave una nevrosi, tanto più è vicina alla schizofrenia) dal fondo istintivo del suo sentire: la ragione  pianga pure sulla ingenuità  degli eroi, ma si continui a sentire il fascino del loro sacrificio, perchè senza di esso l’umanità ritornerebbe alla beluinità della foresta, alla brutalità insensata dell’animale, precedenti “il dì che nozze, tribunali ed are| diero all’umane belve esser pietose| di se stesse e d’altrui”[31].

 E la complicazione riuscita dei due atteggiamenti (l’elegia suggerita dalle negazioni intellettuali; e l’esaltazione epica, imposta dalle imprese eccezionali dei grandi uomini)  ha un nome ben preciso: la commozione virile, il pianto dell’uomo consapevole e maturo, che  potrà ben rassegnarsi ad essere scettico[32], in quanto la vita umana appare, alla ragione ipercritica del razionalismo, inutilità caotica, avventura insensata, viaggio senza meta, ma che non perderà la inguaribile speranza  iscritta nel sentimento, per cui essa appare al poeta  non del tutto senza ordine e progetto; si lascia sospettare come un percorso finalizzato; si avvia a ritornare una storia ragionevole (per il trionfo finale di verità e di bene), se non proprio provvidenziale.

E’ questo il mirabile  superamento  del groviglio esistenziale del Foscolo, che non solo istituzionalizza i due poli della contraddizione,  facendo prevalere il momento spontaneo- impressionistico nelle Odi e nelle Grazie e quello razionalistico nelle Ultime lettere, ma li fonde liricamente, giungendo ad intessere nella trama della delusa elegia  romantica l’ordito della fiduciosa epopea illuministica.

 

IL TIPO DI INTELLIGENZA,  ci pare di poterla  inquadrarla in queste dimensioni.

Fu una intellligenza acuta, ma non profonda, perchè intuitiva ma poco sistematica (poco ragionativa), inventiva ma disordinata, vivace ma disorganica,  sorprendente ma inaffidabile. La sua intelligenza era un guazzabuglio di genialità e  disorientamenti, di profezia e   surrealismo onirico (di sogni impossibili), di estremismi che giungevano alla contraddizione, di lampi  abbaglianti e di errori colossali. Era la negazione del senso comune (con una capacità eccezionale di scoprire e denunciare  stolidità e malizia), ma anche del buon senso (con un’ingenuità mirabile nell’ignorare ogni prudenza e nel proprorre od appoggiare rimedi peggiori del male).  Non solo il temperamento era impaziente ed impulsivo, ma lo era anche la intelligenza, intollerante di temporeggiamenti, di gradualità, di compromessi.  La sua intelligenza, intransigente ed unilaterale, del tutto astratta, non era incarnata nè dalle dimensioni dello spazio (l’uomo concreto, socialmente condizionato) nè da quelle del  tempo (l’uomo situato nella sua storia, condizionato dal suo passato), fattori accidentali, bensì, ma praticamente ineludibili per conoscere ed  far progredire l’umanità.  La mente del poeta si meritava tutti gli elogi ed i rimproveri  che Vincenzo Cuoco rivolge  alla repubblica partenopea del 1799:  essa era a misura perfetta del razionalismo illuministico, generica e sognatrice, disincarnata e fallimentare, tanto sicura nel demolire gli errori altrui quanto incapace di  proporre un sistema  a misura d’uomo e di società.

Se vogliamo  ricondurrequeste virtù e questi difetti della sua intelligenza ad una livello più scientifico,  diremo che essa era troppo più analitica che sintetica. Aveva a disposizione un sistema neurovegetativo troppo più potente della pur formidabile intelligenza, per cui non gli riusciva, in un’opera di largo disegno, di tenere assieme e di far convergere in un organismo di pensiero le miriadi di intuizioni che le sollecitazioni precipitose della emotività facevano balenare dinanzi alla sua mente.  Benchè dotato di memoria eccellente, tuttavia egli era più un inventore che un erudito, più un intuitivo che un sistematico, sicchè egli tendeva ad usare il tesoro delle vastissime nozioni possedute al minuto, non all’ingrosso: su scala matematica, non geometrica; tatticamente, non strategicamente.

Lo stanno a dimostrare le sue opere letterarie. Si può definire “organico” il romanzo di Jacopo Ortis, fatto di lettere e di pagine di diario?   Vi sono due poli decisivi, l’amore e la libertà della patria: ma il glutine  vero dell’operetta è la psicologia del protagonista, proiezione autobiografica dell’autore. Le  Ultime lettere sono un coacervo di sfoghi  sentimentali, una serie di schede  sullo stato dei sentimenti in Ortis, cioè in Foscolo.

 Sull’organicità dei Sepolcri espresse dei dubbi, in una lettera all’autore,  l’abate francese Aimé Guillon, che chiamava il carme un poema  fumoso: Foscolo stesso, rispondendo, espose la trama logica del carme, che avremo modo di prendere in considerazione anche noi: non si può dubitare che un ragionamento logico ne sorregga la poesia. E’ vero che questa coerenza razionale non è altrettanto compatta quanto è, invece, sublime il lirismo; pure il procedimento raziocinativo affiora  suffcientemente, sia pure attraverso passaggi che assomigliano a voli pindarici, cioè esigono un complemento di spiegazione per  chairirne la interpretazione al lettore comune.  

 Quanto alle altre opere, Le Grazie sono rimaste incompiute e non è certo la trama esile e dispersa che ne costituisce il centro di interesse:  esteticamente, il poemetto è policentrico, nel senso che i   brani liricamente vivi od intensi sono marginali alla trama stessa e rischiano di costituire momenti poetici a se stanti. Le due Odi si aggirano sui cento versi ciascuna, rendendo facile, come i sonetti, la fedeltà ad un concetto centrale,  solo perchè brevemente svolto.

 Tra le prose, prevalgono  quantitativamente le lettere, che non sono mai (come capita talora al Manzoni) dei trattatelli filosofici, politici o religiosi, ed anche le loro dimensioni sono quelle normali della corrispondenza personale.

 Le lezioni universitarie, le prose che accompagnano la “Chioma di Berenice” e  gli scritti critici dell’esilio inglese sono composizioni di non trascurabile fascino: ma se il saggio va oltre la misura di un elzeviro, allora esso si mantiene coerente solo attraverso l’accumulo di notazioni filologiche o   psicologiche: queste ultime sono interessanti sempre (anche se discutibili, talora), ma svariano fra la notazione morale e quella musicale, cioè fra l’attenzione al contenuto e quella alla tecnica espressiva. Manca una trave portante di grandi dimensioni, un pensiero ragionato di perdurante filosofia. Lo stesso discorso del 22 gennaio a Pavia, la applauditissima prolusione all’anno accademico, fa uso bensì di asserzioni filosofiche (gnoseologia sensista ed  antropologia materialistica), ma non di sforzo dimostrativo; al centro vi è, poi, la tesi dell’ importanza della parola-letteratura, una tematica che trova appoggi più nella storia letteraria e nella psicologia che nella speculazione filosofica. 

La prevalenza analitica del suo pensiero gli impedisce, ad esempio, di intuire la differenza tra emozioni (proprie anche degli animali) e sentimenti (peculiari solo dell’uomo) e, di conseguenza, il valore filosofico dei secondi, a differenza delle prime: l’aspirazione alla verità, alla felicità, al bene non sono esperienze emotive aperte al mondo animale. Non si possono, quindi,  disattendere come ingenuità di una umanità sottosviluppata, bambina o selvaggia, ma sono bisogni umani, che nascono dalla ragione e le  si impongono con tale forza da esigere la partecipazione della sfera emozionale. Tutta la problematica esistenziale (donde viene e perchè vive l’uomo? qual è il senso della vita? che ci attende dopo la morte? che cosa è l’amore? perchè vi è l’odio, la sofferenza degli innocenti e la morte? perchè “gioia promette e reca pianto amore?” come è spiegabile la tragedie delle guerre?...) ha una importanza così radicale per gli uomini, che coinvolge con sè anche la sfera emozionale. Tale complessità, per menti acute ma non profonde, può sembrare pura effervescenza emotiva, quando invece essa è primariamente una attività razionale, che solo secondariamente istìga ed agita i centri neurovegetativi dell’ipotalamo, che negli animali presiedono unicamente alla vita istintiva ed emotiva, senza possibilità di accedere ad alcuna problematica o appassionamento ideologico.[33]

Solo nel breve arco di quattro anni, 1802-1806, la mente di Foscolo riuscì a trovare momenti di armonia fra analisi e sintesi, fra le troppe idee aggrovigliate da  coordinare e forma chiara e concisa della  loro espressione. Ne uscirono alcuni sonetti sublimi e, soprattutto, il carme Dei Sepolcri. In tutto, si tratta di poesia altissima, ma limitata  a neppure  cinquecento versi,  comprese  le parti della tessitura del velo per le Grazie, nei vv. 169-212 del terzo Inno. 

 

        IL TIPO DI FANTASIA.  Debole, generica, diffusa è  quella visiva: in questo, la vaporosità della visione foscoliana assomiglia molto a quella del Petrarca  di “Chiare, fresche e dolci acque”. Prendiamo  quattro brani dai Sepolcri. Il primo, dei versi 154-167, è quello che contiene il verbo vedere (“...Io quando il monumento| vidi ove posa il corpo di quel grande,| che temprando lo scettro a’ regnatori,| gli allor ne sfronda ed alle genti svela| di che lagrime grondi e di che sangue;| e l’arca di colui che nuovo Olimpo| alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide| sotto l’etereo padiglion rotarsi| più mondi, e il Sole irradiarli immoto| onde all’Anglo che tanta ala vi stese| sgpmbrò primo le vie del firmamento;| te beata gridai, per le felici| aure pregne di vita, e pe’ lavacri| che da’ suoi gioghi a te versa Appennino”), sicchè ci si aspetterebbe una rappresentazione figurativamente significativa. In realtà, non vi è il più pallido tentativo di descrivere le urne, l’arca, le tombe, che pure il poeta afferma di “vedere”: egli è interessato alle “egregie cose” cui i sepolti invitano con il loro esempio straordinario.

Il  brano, che subito segue (vv. 168-172) prorompe nell’inno sublime: “Lieta dell’aer tuo veste la Luna | di luce limpidissima i tuoi colli| per vendemmia festanti, e le convalli| popolate di case e d’oliveti| mille di fiori al ciel mandano incensi”.  E’, questa, certo, una fra le espressioni visivamente più felici del Foscolo, ma non si può dire  che essa riesca a far “vedere” qualcosa di distinto, di concreto, un  profilo di casa o di albero, di collina o di cielo: è un paesaggio “impressionistico”, in cui si intuiscono, come già in Petrarca, delle vaghissime forme, delle indistinte apparenze: una galassia di pulviscolo luminoso, ma non più. Che il brano risulti, poi, fascinoso, questo dipende dal fatto che neppure qui è necessaria la figuratività, ma semmai il musicalismo, a sublimare emotivamente le  già incandescenti idee espresse.[34]

Ed ecco il terzo brano, quello dei versi 201b-212: “Il navigante che veleggiò quel mar sotto l’Eubéa| vedea per l’ampia oscurità scintille| balenar d’elmi e di cozzanti brandi,| fumar le pire igneo vapor, corrusche| d’armi ferree vedea larve guerriere| cercar la pugna; e all’orror de’ notturni| silenzi, si spandea lungo ne’ campi| di falangi un tumulto e un suon di tube,| e un incalzar di cavalli accorrenti,| scalpitanti sugli elmi a’ moribondi,|  e pianto ed inni, e de le Parche il canto”. I versi 210- 211 sono gli unici figurativamente davvero efficaci, in cui  il poeta rasenta la concretezza della visione. Ma  le figure sono, poi, “larve”; delle azioni belliche si vedono non le figure dei cavalli, ma il loro “incalzare”, cioè l’accidentalità del loro precipitoso movimento; e neppure, direttamente, le spade, ma  le scintille che ne escono. I suoni, invece, si fanno udire  forti ed efficaci.

Il quarto brano, dei vv. 279b-283a, piace maggiormente per la intensità lirica di commozione, ma la figura di Omero ed il suo ispirarsi alle tombe dei troiani caduti per la difesa  della città, resta  genericissima:  la si intravede  attraverso qualche suo movimento incerto e vacillante: “un dì vedrete| mendìco un cieco errar sotto le vostre| antichissime ombre, e brancolando| penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,| e interrogarle”.

        Sorprendentemente completa ed efficace è  la fantasia musicale, che crea un’atmosfera  di forza attraverso la prevalenza delle vocali larghe “A|O” e della dentale “T”; e la armonizza nella linea  della dolcezza  mediante un discreto predominio di liquide e nasali (la “R”, però, prevalendo nettamente sulla “L”, declina la gentilezza verso una virilità sorvegliata). Più dettagliatamente avremo modo di riprendere il discorso nello studio della tecnica stilsitica.

        Alla scarsezza del fattore visivo-figurativo, fa riscontro una fantasia cinestetica un poco migliore: discreta è la sensibilità del movimento; sufficiente il senso del dinamismo. E’ un indizio di quei “residui di attivismo” nella personalità del Foscolo, su cui si è insistito nello studio della sua psicologia o temperamento. I versi 201-212 sopra riportati sono già una buona testimonianza   Soprattutto si noti, ai fini dell’espressione del dinamismo, l’efficacia dell’accentuazione scazonte (4| 7| 10) del verso 210. Ma si vedano, sempre nei Sepolcri, i vv. 19-22 (“E una forza operosa le affatica| di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il tempo”); 135-6 “che tronca fè la trionfata nave| del maggior pino, e si scavò la bara”; ivv. 201b-12 (già riportati sopra); i vv. subito seguenti 213-225 (“Felice te che il regno ampio de’ venti,| Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!| E se il piloto ti drizzò l’antenna| oltre l’isole egée, d’antichi fatti| certo udisti suonar dell’Ellesponto| i liti, e la marea mugghiar portando| alle prode retée l’armi d’Achille| sopra l’ossa d’Aiace: a’ generosi| giusta di gloria dispensiera è morte;| nè senno astuto, nè favor di regi| all’Itaco le spoglie ardue serbava,| chè alla poppa raminga le ritolse| l’onda incitata dagl’inferni dei”. A dir il vero, però, i versi più movimentati sono ancora altri, che rimandiamo però in nota, perchè  non sono tra i migliori del carme.[35]

Pure, non si può non riconoscere che prevalgono nettamente (lo vedremo studiando la tecnica stilistica nei sonetti) nella espressione foscoliana di grande pregnanza estetica, i verbi di stasi (intransitivi o di  dinamismo puramente interiore) rispetto a quelli di moto  fisico, esteriore. Se a questo si aggiunge che i verbi transitivi sono  talora usati nella forma passiva e, quindi, con le ali del volo tarpate (vv. 89-90; 99-100); o che spesso si trovano impiegati nella forma negativa (“Ove più il Sole| per me alla terra non fecondi questa| belal d’erbe famiglia e d’animali,|e quando  vaghe di lusinghe innazi| a me non danzeran l’ore future,| da te, dolce amico, udrò più il verso| e la mesta armonia che lo governa...” (vv. 3b-7); se si tien conto  delle forme  condizionali  e dubitative del pensiero e dell’azione (uso del “se” ipotetico e del “forse”), allora si comprenderà come anche la fantasia cinestesica del Foscolo  fosse limitata. Aveva dei conati dinamici e per tradurli in atto  doveva superare delle timidezze congenite: la vita concreta e l’eterno bisogno di danaro lo costringeva a mobilitare i residui delle proprie energie e ad operare, spesso disordinatamente e persino eroicamente; ma l’espressione spontanea della poesia   lo faceva ricadere nello stato a lui più congeniale, quello della  vita contemplativa,  colla frequenza dei verbi intransitivi, colla forma negativa di quelli transitivi attivi di moto, con i verbi di moto interiore  prevalenti (vedere, udire, sentire...).

A suo luogo osserveremo la puntuale ricaduta (d’altronde già accennata nella documentazione della instabilità della psiche foscoliana, a pp. 14-5) dei dati tutti, convergenti a formare la individualità foscoliana, sulla sua produzione poetica.  Prenderemo atto, allora, come dalla personalità poliedrica del Foscolo, tendenzialmente universale e dispersiva, escono tre gruppi di posizioni ideologiche, di tonalità liriche, di tecnica stilistica, che ora ne esasperano una dimensione, ora ne isolano l’altra e, al momento di piena perfezione psicologica, si alleano in un capolavoro che concilia i due pensieri, fonde i due lirismi, intreccia i due stilemi.

Ma l’armonia sorprendente, che ha creato uno dei capolavori più alti della nostra poesia, è stata sufficiente, nella sua elaborata complicazione,  a comunicare equilibrio alla vita pratica del poeta? Purtroppo le sue opere ed il suo esito finale a Turnham Green testimoniano negativamente:  capace di vincere “di mille secoli il silenzio”, l’armonia  artistica è stata insufficiente a  tacitare il tumulto delle passioni, a fare della sua vita un capolavoro di coerenza e costruttività, a fare dei suoi giorni e delle sue opere concrete la traduzione effettiva dei suoi ideali razionali ed estetici. L’artista è troppo superiore all’uomo. E proporre il Foscolo come modello di vita significa incitare alla corruzione morale ed alla assurdità ideologica.

 

 

L’AMBIENTE

 

Mai univoco, l’ambiente culturale viene selezionato, salva al libertà di arbitrio  ed i pregressi credi religiosi, convinzioni morali ed ideologie più o meno filosofiche, in base alla pressione di fattori politico-militari ed anche in base alle inclinazioni della propria intelligenza, cioè alla congenialità o meno di alcune tessere delle varie culture in circolazione, con la propria  conformazione mentale.

 

Anticipiamo qui gli elementi che egli clamorosamente rifiutò, pur  trattandosi di idee eminenti e dirompenti. Egli fu tra gli illuministi più coerenti, che scartarono anche il deismo e, quindi, ogni forma di religiosità positiva. Questo non toglie, a certi suoi momenti di vita, una seria presa in considerazione del fattore religioso come atteggiamento favorevole alla riflessione, come occasione unica al rientrare in se stessi, come invito ad esami di coscienza ed a propositi di bene (testimonianze del Pellico). Alla fine, comunque, il rifiuto della fede cristiano-cattolica, ricevuta in famiglia e nella scuola di Spalato, fu certo  l’opzione più spazzante della sua vita, perchè  da essa dipese  tutto un ordine di valori, a cominciare dal concetto di libertà: senza religione,  essa finisce per ridursi a quella esteriore o socio-politica, alla libertà riguardante, cioè, il rapporto con gli altri uomini,  perchè vien negata o trascurata quella interiore, propria solo dell’uomo,  attinente il dominio sulle passioni. Essa determina anche i contenuti di coscienza, cioè i doveri morali, non escluso  il giudizio  sul maggior bene o male della rivoluzione francese e del tipo di democrazia che ne è scaturito. Ad esempio, la impossibilità per lui di servire l’Austria si configura come un preciso dovere morale: “L’onor mio e la mia coscienza mi vietano di dare un giuramento che il presente governo mi domanda.... Inoltre tradirei la nobiltà, incontaminata fino ad ora, del mio carattere col giurare cose che non potrei attenere, e con vendermi a qualunque governo...”: una simile coscienza rivela una prospettiva  in cui la adesione|rottura con una certa condizione politica  costituisce  una scelta morale primaria, anche in assenza di sopraffazioni  generalizzate o di guerre aggressive; implica una prospettiva morale  che ha fatto della libertà esteriore quell’assoluto, che la fede impone di vedere solo nel libero arbitrio, o capacità di controllo  della volontà sulle passioni (istinti ed emozioni).

Di fronte a questi “No!” fondamentali, la separazione dall’Arcadia (con il rifiuto di tutti i versi scritti in prima gioventù  in quello stile) e il disinteresse totale per la commedia, compresa quella goldoniana, che pure era ancora viva a Venezia quando egli vi approdò nel 1792, sono delle scelte secondarie, sebbene confermino più di un tratto della sua personalità e presagiscano  la fondamentale serietà della sua ispirazione: se una vena umoristica penetrerà in lui, sarà per altre vie e per altri contesti ambientali (letteratura inglese: “Viaggio sentimentale”  dello Sterne). 

 

L’ambiente pratico-esistenziale.

La discendenza greca dalla madre Diamantina Spathis avrà avuto un impatto sulla costituzione fisica, sul temperamento, sulla intelligenza e fantasia che non riusciamo a dimostrare distinto da quello paterno, ma che possiamo sospettare come determinante: un temperamento così poco pacifico ed allegro, anzi così infuocato  e tempestoso, è molto poco veneziano.

 Comunque, dalla madre e dall’isola di Zante-Zacinto ebbe un’eredità eccezionale: egli saprà parlare greco antico correntemente e potrà tradurre  il primo canto (1807) ed il terzo (1821) dell’Iliade direttamente dalla lingua di Omero.

Un’altra conseguenza fu la facilità con cui egli potè  sintonizzarsi con il Neoclassicismo, legato alla scultura ed alla mitologia dell’antica Grecia. Mentre traduceva La chioma di Berenice,[36] ne preparava il Commento, che con le annesse Considerazioni, costituiscono la professione estetica  del poeta (egli opta per una poesia basata sulla espressione delle passioni moderne nella forma  mitica dell’antichità classica).

 

Gli avvenimenti dell’Ottantanove. Abbiamo già visto  gli ideali libertari, sia per  innata turbolenza, sia per intuitiva ribellione alla ingiustizia (opposizione alla chiusura degli ebrei nel ghetti). In una temperie così predisposta, la rivoluzione francese fu come una miccia  caduta in una polveriera: lo trovarono concorde nonostante i mezzi usati, che tanto avevano socraggiato il Parini e messo in difficoltà  anche Pietro Verri. Solo quando Napoleone la fece da padrone, egli ne prese le distanze. Ma l’ideale di una Italia una ed indipendente rimarrà al sommo dei suoi pensieri.

 

Campoformio è la prima grande delusione (17. 10. 1797): Napoleone cede il Veneto all’Austria, in cambio delle Fiandre austriache e del riconoscimento della repubblica Cisalpina! Ne  nasce o si rafforza la persuasione che non gli ideali, la virtù e la verità trionfino nella storia umana, ma il caso e la forza; che l’uomo sia alla mercè di un destino prefissato e, quindi, deterministicamente costretto ad errori e colpe non meno che a virtù ed eroismi.[37] Si conferma, in una parola quel disorientamento generale sulla vita che, già epsresso da Jacopo Ortis, il 1 gennaio 1797,   viene riconfermato il 20 marzo di due anni dopo, cinque giorni prima del suicidio: “Io non so nè perchè venni al mondo, nè come, nè cosa sia il mondo, nè cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa”. E si rafforza quella credenza che il sentimento sia non un sinergismo fra ragione ed emotività, ma una forza appetitivo-conoscitiva media fra animalità ed umanità, capace di attingere solo delle illusioni, non la verità: “E perchè l’umana schiatta non trova nè felicità nè giustizia sopra la terra, crea gli dei protettori della debolezza e cerca premi futuri del pianto presente” (lettera da Ventimiglia, del 19-20 febbraio 1799).

 

La vita errabonda ed incerta –anche prima dell’esilio in Svizzera ed Inghilterra- accentuano la  congenita instabilità ed irrequietezza, che pure ne sono la causa principale, secondo un processo di feed-back, cioè di azione e reazione fra temperamento ed ambiente, tra Gestalt e Behaviour. E confermano in  lui la persuasione che la vita umana sia disarmonia, per la contraddizione insanabile fra ricerca della verità e approdo al dubbio, fra aspirazione alla felicità e incontro con la disperazione, fra bisogno di bontà e scoperta di ingiustizia, di malvagità (in noi come negli altri). Oltre i brani già riportati dalle  Ultime lettere, si vedano anche i sonetti Alla sera e quello  In morte del fratello Giovanni.

 

Gli innumerevoli ed appassionati  successi con le donne lasciano, invece, nel poeta la persuasione che l’amore sia uno dei pochi momenti di armonia nella vita umana, perchè in esso si placa l’inquietudine e si realizza il sospirato raggiungimento di soddisfazione fisica e psicologica. Così, nell’Ortis, la realizzazione dell’amore con Teresa (che è la proiezione contemporanea di Teresa Pichler-Monti e di Isabella Roncioni) avrebbe certamente potuto  placare la disperazione (di origine prima politica) del protagonista e fermare la tentazione suicida.  I Sepolcri accennano discretamente all’amore come all “unico spirto a mia vita raminga” (assieme alal poesia: v. 12). E mentre nei vv. 241 (Elettra e Giove) e 255 (le spose troiane) l’amore presenta già i suoi limiti di potenza consolatrice ed anzi i suoi contraccolpi per la dolorosa separazione della morte[38], ne Le Grazie, esso si presenta davvero come estasi idillica, nella sua più limpida idealità e nella più efficace forza consolatrice. E la affinità fra sentimento amoroso ed emozione poetica ribadisce in lui la confusione, di matrice neoclassica, fra  la elementare emozione artistica, che illude momentaneamente la felicità e la complessa natura psicologica del sentimento che, avendo la sua radice  nella razionalità, è  presago di verità, felicità e virtù,  come rivelatore di esigenze pienamente umane e, quindi, non oniriche e menzognere, ma ragionevoli ed esaudibili.

 

L’ambiente specificamente culturale. Prenderemo in considerazione particolarmente questi autori o movimenti: l’Illuminismo, l’Alfieri, il Parini, il Vico, il Machiavelli, l’Hobbes, la letteratura italiana in genere, il neoclassicismo ed il preromanticismo in particolare, la letteratura inglese più recente e “Il viaggio sentimentale” di Sterne.

 

 L’ILLUMINISMO ENCICLOPEDISTA è risentito nella sua forma più radicale: egli passa dalla fede cattolica all’immanentismo ateo. Nonostante  la venerazione per la madre ed i ricordi della fanciullezza, puerizia ed adolescenza a Zante ed a Spalato; nonostante l’amicizia, a Milano, col credente Pellico e la stima per il Manzoni convertito; nonostante  la simpatia per la cattolica famiglia del conte Giovio, di cui intendeva sposare la figlia Francesca; nonostante gli intensi contatti, sui diciotto anni, con la Bibbia e con le opere di Dante, egli giunge a negare la Provvidenza nelle vicende umane (“la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?”: Ultime lettere, 17 aprile 1798;  “O Natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati e ci consideri come i vermi e gli insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano?: id, Ventimiglia, 19-20 febbraio 1799); giunge a  negare la libertà interiore dell’uomo (meccanicismo materialistico: Ultime lettere, : “Il genere umano è questo branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o strascinarsi dietro la inesorabile fatalità. A che dunque seguire, o temere ciò che deve succedere?”: 3 gennaio 1798; e il 17 aprile, di Napoleone si afferma: “...La Natura lo   creato tiranno; e il tiranno non guarda alla patria; e non l’ha”); a vedere nella storia solo il caso e la forza (tutta la lettera del 19 e 20 febbraio 1799, da Ventimiglia, di cui si è già citato qualche sentenza esemplare in proposito; eccone altre: “L’universo si controbiliancia. Le nazioni si divorano perchè una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra... e sono cieche ruote dell’oriuolo”). E’ rifiutata la immortalità dell’anima: oltre il passo riportato dalla lettera di Ventimiglia, 19-20 febbraio, si leggano  le famose parole conclusive dell’incontro con Parini, immaginato a Milano il 4 dicembre 1798: all’implicito invocazione del suicidio da parte di Jacopo, il “vecchio venerando” risponde: “-Se tu nè speri nè temi fuori di questo mondo- e mi stringeva la mano-, ma io!-. Alzò gli occhi al Cielo e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze”. Quelle che il Foscolo non aveva più.

 

Ma, data a Voltaire ed agli enciclopedisti la loro parte di “ragione”[39],  ECCO SPUNTARE IL PENSIERO DI ROUSSEAU al cui seguito la fiducia nella “ragione” si logora, per la  malizia intellettuale e le passioni più sfrenate che essa  origina: “Cos’è l’uomo, se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato, e scellerato bassamente” (1 Novembre 1797); e, da Milano, il 6 Febbraro 1799:  “O Ulissi! eccomi ad obbedire alla vostra saviezza, a patto che io, quando vi veggo dissimulatori, agghiaccciati, incapaci di soccorrere  alla povertà senza insultarla, e di difendere il debole dalla ingiustizia; quando vi veggo per isfamare le vostre plebee passioncelle prostrati appiè del potente che odiate e che vi disprezza; allora io possa trasfondere in voi una stilla di questa mia fervida bile, che pure armò spesso la mia voce e il mio braccio contro la prepotenza; che non mi lascia mai gli occhi asciutti nè chiusa la mano alla vista della miseria; e che mi salverà sempre dalla bassezza. Voi vi credete savi, e il mondo vi prédica onesti... ma toglietevi la paura... non vi affannate dunque; le parti sono pari: Dio vi preservi dalle mie pazzie, ed io lo prego con tutta la espansione dell’anima perchè mi preservi dalla vostra saviezza....Tu (Lorenzo) il vedi: ogni consiglio ed ogni ragione è funesta per me. Guai s’io non obbedissi al mio cuore! – La Ragione?- è come il vento: ammorza le faci, ed anima gl’incendi.” Siamo, dunque, abbrivati verso Rousseau ed il romanticismo, sulla cui scia rischia di ritornare la fede in Dio (più stoica che cristiana, a dir il vero): “Io mandava alla Divinità i miei ringraziamanti, e i miei voti, ma io non la ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello delle sventure, io la temo e la supplico. Il mio intelletto è accecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte. E’ vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove mangiano un pane amaro, e bevono acqua mescolata alle lacrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio. – Ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno di una religione! Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquà, perchè io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore. Sono io debole, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessità della solitudine, delle lagrime, e di una chiesa!” (mezzanotte: del sette luglio 1798).[40]

 

Benchè, dunque, in contrasto, le due anime del razionalismo  volterriano e del sentimentalismo russoiano trovano eco nella Weltanschauung foscoliana.  Esse, sia pure con forza dirompente minore, avevano già schiamazzato nella  PSICOLOGIA DELL’ALFIERI: il Foscolo ne intuisce le affinità  congeniali. A Firenze, avevano forse avuto modo di vedersi per via, ma non di parlarsi:  il “fiero allobrogo” divenuto misantropo, non  intendeva fare  ormai conoscenze nuove. Ma grande fu l’influsso di lui sul nuovo e più grande poeta. Intanto li accomunava l’inquietudine del temperamento, il tormento della personalità psicoclastica, anche se la maggior propensione all’attivismo del Foscolo li distanziava, chiudendo il nobile astigiano nel suo splendido isolamento ed esponendo il povero veneziano alle avventure militari, amorose, economiche e geografiche le più strazianti. L’astigiano comunicò (o confermò, meglio) nel Foscolo un alto senso della dignità, della coerenza, del rifiuto di compromessi o servilismi, sino a sconfinare con l’alterigia, il disprezzo, lo sdegno. Si trovarono pure in sintonia per la impazienza (ed eventuale imprudenza) nell’esigere  la realizzazione pronta e piena delle idealità politiche; nel provare insofferenza per i tempi in cui erano chiamati a vivere ed ai quali non riusciva loro di adattarsi (tanto da pensare entrambi al suicidio, ancora poco prima di morire)[41]; nella propensione, sia pure molto titubante, a confidare nel futuro lontano ed in una società più degna; nell’amore ed impegno per la libertà della patria italiana. Ed altre persuasioni li univano:  non sono le idee, ma le passioni che muovono la storia; non la  plebe, ma le grandi personalità la costruiscono, secondo una concezione plutarchiana e machiavellica, che vede le vicende umane guidate e costrette da  individui di stampo “ principesco ed eroico”.

Tre anni dopo la morte, il Foscolo mitizzava l’Alfieri nei Sepolcri, vedendo in lui la incarnazione appassionata dell’amor patrio (vv. 188-97). Ma già in vita ne aveva esaltato la figura nel sonetto A Firenze (v. 8) e nella lettera di Jacopo Ortis del 27 agosto 1798; e l’aveva imitato negli Epigrmmi e, meno felicemente, nei due sonetti intitolati “Il porprio autoritratto”. Alfieriane, d’altronde, sono le tragedie  Tieste (1797), Aiace (1811) e Ricciarda (1813).

 

 IL PARINI POTE’ ESSERE CONTATTATO A MILANO. Il colloquio di cui ne Le Ultime lettere, alla data 4 dicembre 1798  fa sentire a fondo la figura  forte e coerente di lui, i suoi sentimenti religiosi ed il buon senso morale nei suggerimenti all’Ortis, è  psicologicamente vero, anche se storiograficamente solo verosimile. Il poeta lombardo fu certo di stimolo al Foscolo a quella elevatezza di sentire, all’aspirazione ad una vita coerente in se stessa, magnanima con gli altri, ripugnante ad ogni servilismo ed adulazione, fedele pur nella solitudine, nella povertà e nel declino delle forze, agli ideali ed ai princìpi della coscienza. Al Parini è dedicato un largo brano dei Sepolcri, anche se i versi 53-90 non attingono il diapason più sublime del carme.

 

LA PRESENZA DI VICO, DI MACHIAVELLI E DI HOBBES nella formazione del senso della storia umana in Foscolo. Il magistero del Vico è in contrasto con quello degli altri due filosofi della storia; difatti vi è la Provvidenza che guida il cammino degli uomini, secondo un corso ideale eterno, di ascensione in ascensione, sia pure attraverso declini interposti (ricorso storico). Della dottrina vichiana, rimase nel Foscolo solo la componente “evolutiva” nel cammino del creato tutto, che sboccia nel passaggio dal bruto all’uomo: il poeta non riuscì a far propria la visione ottimistica delle ulteriori ascese dell’umanità, pur attraverso sconfitte e periodi di barbarie[42]. Si insinuò in lui, però, un vivo senso della importanza degli studi storiografici (Prolusione all’anno accademico di Pavia, 22 gennaio 1809), come luogo di ricuperi, sia pur momentanei e casuali, delle personalità degne e delle imprese utili alla umanità. Veniva così superato il disinteresse se non disprezzo, diffuso nella società illuministica, che non riusciva a prendere con eccessiva serietà il risultato di ricerche, la cui certezza dipendeva, in ultima analisi, dalla fiducia nei testimoni-storiografi, cioè da un fatto emotivo e non dalla pura ragione. Ecco allora il pensiero tutto dei Sepolcri che, celebrando in particolare le tombe come un segno dell’affiorare dello spirito intelligente nel bruto animale, continua poi a venerarle come sorgente di memorie eroiche, degne, nobili di peronaggi e fatti starordinari; e come sorgente di stimoli a ben operare,  attraverso l’imitazione (versi 91-6,: “Dal dì che nozze e tribunali ed are| diero all’umane belve esser pietose| di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi| all’etere maligno ed alle fere| i miserandi avanzi che Natura| con veci eterne a sensi altri destina”). 

Finirono, così, per prevalere i suggerimenti di Machiavelli ed Hobbes[43] sulla irrazionalità delle umane vicende e il dominio conseguente dei forti e dei furbi (La “golpe e il lione”): il groviglio delle vicende umane è insensato; la forza che lo guida è il caso, il destino, la fortuna cieca. Abbiamo già riportato i brani della lettera del 19-20 febbraio 1799, nell’Ortis. Ecco affermazioni chiaramente hobbesiane: “O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perchè la Società è necessaria nemica degli ndividui... Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a’ destini... Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani... La terra è una foresta di belve... Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbono eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotto tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finchè un’altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini.  Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi  vengon patrocinati dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che insomma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni, i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità dei volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e sono cieche ruote del’oriuolo...”.

Nei Sepolcri, il concetto di moto perpetuo ed insensato delle cose è rispecchiato nei versi 16-22: “e una forza operosa le affatica| di moto in moto; e l’uomo e le sue  tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il Tempo”; è scolpito lapidariamente nei vv. 182-3 (“l’alterna| onnipotenza delle umane sorti”) ed è  additato dolorosamente nella propria vita coi vv. 147-9 (“ove una volta la fortuna cessi| dalle vendette, e l’amistà raccolga| non di tesori eredità ma caldi| sensi e d di liberal carme l’esempio”).

 

LA LETTERATURA ITALIANA, LA CLASSICITA’ GRECA E ROMANA, IL NEOCLASSICISMO.

Precoce poeta, il Foscolo assorbì anzitutto gli influssi dei contemporanei e fra i quindici ed i diciassette anni aveva scritto qualcosa come diecimila versi, seguendo la moda arcadica con anacreontiche e canzonette. Ma poco a poco, riecheggiando in sè tutta la poesia italiana, amò e imitò soprattutto Dante e Petrarca, Alfieri e Parini.

 Si noti che, nella letteratura  latina, ottiene un ascolto eccezionale anche Lucrezio: accanto ai versi citati nella lettera a Santorre di Santarosa, vi è da considerare che i versi 19-22 dei Sepolcri, riportati poco sopra (“e una forza operosa le affatica...”), sono  integrazione di una espressione del De Rerum Natura, IV, 830-1 (“Omnia migrant| omnia commutat natura et vertere cogit”).

 La terra greca è celebrata rievocando la patria, l’isola di Zacinto,terra di sogni e di pace, di bellezza e di felicità, degna di essere celebrata da Omero, il cantore di Troia distrutta e di Ulisse ramingo. Se si aggiunge la sua passione per il digamma eolico, lettera scomparsa dall’alfabeto greco, che suonava come “V” e che fu sostituito solitamente da una “U”, ci si accorgerà quanto il suo spirito era radicato nella classicità greca.

Abbiamo già detto come troppi fattori lo convogliavano verso il Neoclassicismo, che espose anche teoricamente nel Commento alla Chioma di Berenice, e nelle quattordici Considerazioni che l’accompagnavano. Con una particolare diversità, però: mentre il Neoclassicismo aveva ridotto  lo spirito della classicità greca al modulo “apollineo” (della serenità e della estasi), Foscolo ne vive anche lo spirito dionisiaco (dell’agitazione e del turbamento), salvo a trovare una “armonia” fra le due anime della Grecia antica, in quel precario equilibrio di idee, stati d’animo e tecnica espressiva, cui si è già accennato e che dovremo riprendere più esplicitamente nell’esame delle opere poetiche, che  per ora ci servono solo a chiarirci il pensiero del poeta.

Dei poeti italiani, quelli più presenti nei Sepolcri sono, ci sembra, il Petrarca e l’Alfieri. Il primo è   all’origine di una mente incerta tra aspirazioni e delusioni; suggeritore, quindi, della elegia che ne discende e di uno stile  colloquiale e  confidenziale. L’altro, è sorgente della fede nel ricupero dei valori;  della lirica esaltazione per i loro momenti di trionfo e per la poesia che li immortala; di uno stile che mantiene una sua forza risentita, quasi ad esprimere  il voler  sperare nell’uomo contro  ogni suo fallimento,  il voler credere alla vita contro ogni  scoraggiamento razionalistico.

 In particolare, le strofe più alte de Le Grazie (III, Inno a Pallade, vv 144-187: “Mesci, odorosa dea, rosee le fila...”) hanno uno spunto nel Mezzogiorno del Parini (1010-1019: “Or versa pur dall’odorato grembo...”).

E, sempre per Le Grazie (attorno alle quali il Foscolo lavorò dal 1809, ma soprattutto nel 1813) una delle fonti deve essere stata l’Urania di Manzoni che, pensata nell’inverno 1806-7, fu stesa tra l’estate 1808 ed il gennaio 1809, anno in cui venne pubblicata.[44]

Anche un altro poeta del Millesettecento aiutò la ispirazione de Le Grazie: l’ode  di Angelo Mazza[45], intitolata “L’aura armonica” contiene idee precorritrici del poemetto foscoliano, a proposito di bellezza, armonia, idealità.

 Ancora: i versi della battaglia di Maratona (Dei Sepolcri, 199-212) sono stati suggeriti dall’ “Eccidio di Como”, poema minore del Millesettecento, opera di Carlo Castone Della Torre Rezzonico (Como 1742-96).[46]

Inutile dire quanto il movimento neoclassico abbia influito nella stesura de Le Grazie: il poemetto è dedicato ad Antonio Canova, che con la esposizione agli Uffizi negli anni 1812-13 della sua Venere, aveva acceso la fantasia del poeta. E già si sapeva che il Canova stava lavorando al gruppo delle Grazie che avrebbe esposto a Roma nel 1814.

Lo stesso Monti, a parte la mediazione dell’atmosfera neoclassica in generale,  suggerì probabilmente anche qualcosa di più specifico con i suoi “Pensieri d’Amore” (vv. 186-7; 200-201), mediando forse anche il citato riferimento a Lucrezio.

 

LA LETTERATURA PREROMANTICA EUROPEA. Rousseau rimane il suggeritore principe della  forma epistolare nelle Ultime lettere, soprattutto attraverso il romanzo, epistolare appunto, “La nouvelle Eloise” (1761); per il sentimentalismo effusivo, vi andranno aggiunte “Les rèveries du promeneur  solitaire”: “Fantasticherie del passeggiatore solitario”). Egli conosceva anche la recente produzione inglese preromantica: lo Young (Night thouths), il Gray (Elegy written in a country churchyard), il Macpherson (The poems of Ossian). Esplicita è nei Sepolcri l’ammirazione per i cimiteri ed il tipo di culto ai defunti –più civile che religioso- tributato dagli Inglesi ai loro morti (vv. 130-6).  Un simile influsso fu efficace, si intende, nella misura in cui un temperamento come quello del poeta di Zacinto ne bisognasse, perchè Foscolo in proposito era così predisposto da non necessitare di molti mentori o maestri.

Per il contenuto (trama) delle Ultime lettere, l’apporto letterario più immediato fu quello dei “Dolori del giovane Werther” (Johann Wolfgang Goethe: Die Leiden des jungen Werther: 1774). La suggestione del  Werther goethiano è tanto più innegabile, in quanto la prima stesura  aveva per tema solo  la delusione amorosa e non contemplava il motivo politico, che tanta parte ha invece nella edizione definitiva e che è  problema tutto foscoliano

 

L’OPERA DELL’INGLESE LAURENCE STERNE e la svolta “didimea” del Foscolo.

Se la temperie psicologica del Foscolo  può spiegare la grandezza poetica ed il complesso lirismo del   carme Dei Sepolcri, così come aveva già generato i migliori sonetti prima della scoperta del “Viaggio sentimentale”, tuttavia è notevole che la stesura della poetica  neoclassica sia avvenuta in quei  due anni passati nei dintorni di Boulogne-sur-mer, in Francia, che videro anche la traduzione del “Sentimental  journey through France and Italy”  di Laurence  Sterne. Davvero quegli anni 1804-06 furono per il Foscolo come un periodo di decantazione, che lo liberarono dell’accesa foga, passionale ed espressiva, propria dell’Ortis e lo  confermarono nella pacatezza propria del neoclassicismo,  anche attraverso il flemmatico autore inglese. Jacopo Ortis si converte a Didimo Chierico: Foscolo ama contemplarsi nel personaggio Jorick che  lo aiuterà a  dar spazio alla emotività più serena che era pur presente in lui (le due Odi erano già state scritte), anche se non come umorismo ed ironia. Il romanzo sterniano diventa il nuovo punto di osservazione, da cui egli apprende a contemplare le vicende della vita con superiorità scettica e con sorriso ironico, parte rassegnato, parte divertito. Non che il Foscoolo riesca mai ad attuare il suo proposito di “conversione didimea” nei suoi scritti[47]. Egli tradussee bensì il romanzo dello Sterne (edito nel 1813), ma come avrebbe mai potuto procurarsi la psicologia flemmatica che necessitava a scrivere un’opera che per metà è  di costume e per l’altra metà è comico? Eppure egli vorrebbe scrivere “...con una nuova specie di ironia, non epigrammatica, nè suasoria, ma candidamente ed affettuosamente storica” così da giungere a fare quello che fa Yorick,  che “da’ fatti narrati in lode delle persone, deriva  lo scherno contro molti difetti, segnatamente contro la fatuità del loro carattere”. Ma questo si verificherà nel “Gazzettino del bel mondo”, cioè negli scritti di costume pubblicati in riviste inglesi.  Per il momento, l’incontro del “Viaggio sentimentale” serve solo a  confermare nello spirito foscoliano il momento apollineo della prospettiva neoclassica, quello della calma e pacatezza che si riverserà ancora nelle Grazie.  A portare il Foscolo ad un maggior equanimità nella valutazione dell’uomo e delle sue opere, a dar importanza cioè ai fattori positivi della vita, può ben aver contribuito lo “spin” artistico,  cioè la nuova velocità angolare psicologica,  assorbita dal contatto col “Viaggio sentimentale”, col personaggio Yorick, con la scrittura dello Sterne. Solo  indirettamente, dunque, se influsso vi fu, lo spirito didimeo può aver favorito il realismo dei Sepolcri, che non riescono a rinnegare nè la giustizia resa dalla giustizia divina ad Aiace (215-25) nè l’onorabilità dei vinti che hanno eroicamente combattuto (vv. 270b-271).

La lettura del “Viaggio sentimentale” e dell’opera maggiore dello Sterne, il “Tristram Shandy” (The life and opinions of Tristram Shandy, gentleman: 1760-7) avevano d’altronde, già procurato la ispirazione per il “Frammento della storia di Lauretta” nelle Ultime lettere!

 

 Ma l’origine immediata del carme Dei Sepolcri, la dobbiamo riconoscere in IPPOLITO PINDEMONTE E NELLA DISCUSSIONE AVUTA DA LUI COL POETA ZACINZIO, A PROPOSITO DELLA RAGIONEVOLEZZA O MENO DELL’EDITTO DI SAINT CLOUD[48]. Come risulta da lettera, scritta dal poeta ad  Isabella Teotochi Albrizzi (da Milano, il  6 settembre 1806), egli   il 16-17 giugno, di ritorno da Venezia, aveva avuto un colloquio non precisamente conciliante con  Ippolito Pindemonte e la  stessa Isabella, se egli  si sentiva in certo modo colpevole e poteva esprimersi in questi termini: “Io la (Epistola sui cimiteri, divenuta poi Dei Sepolcri) intitolo al Cavaliere (il Pindemonte, appunto) ricordandomi de’ suoi lamenti e dei vostri; e per fare ammenda del mio sdegno un po’ troppo politico”. Se ne deduce che il dibattito, sorto magari sulla comunicazione che il Pindemonte stava scrivendo addirittura un poemetto (progettato in quattro canti di ottave, sui cimiteri), aveva trovato il Foscolo in favore dell’editto di Saint Cloud, mentre il Pindemonte e la Albrizzi erano contrari. Ripensandoci sopra e iniziando il “carme” non prima della fine di luglio del 1806 (come si può dedurre da altre lettere del Foscolo), egli condusse a termine l’opera nel mese di agosto, visto che, nella citata lettera del 6 settembre, poteva  già annunciare finito il carme e pronto per la stampa.  L’intervento del Monti, che gli chiedeva somma perfezione per quello che pareva già essere, ad ogni modo, un capolavoro, ritardò la stampa fino all’inizio di aprile del 1807, dopo che il Foscolo vi aveva lavorato attorno ancora nel gennaio. Dal Pindemonte, come ricordato nelle “Note” dallo stesso Foscolo, sono tratti  i versi 8b e 9 (...il verso| con la mesta armonia che lo governa”).[49]

 

IL RAPPORTO DI ACCETTAZIONE|CONTRASTO DEL FOSCOLO RISPETTO ALLA CULTURA DEL SUO TEMPO  ha dato occasione di scoprire le tessere del suo pensiero. Si tratta di un pensiero in evoluzione  e non sempre coerente, talora sofisticato, alla ricerca di una “armonia” tra aspirazioni del sentimento e  pregiudizi  del razionalismo: al punto che egli giunse, nel corso di poco tempo, ad un radicale mutamento di opinione di fronte al giudizio da dare sull’editto di Saint Cloud.  Siccome anche  il tema cardinale della sua poesia più alta è essenzialmente filosofico (ideologico), il suo pensiero verrà ampiamente ripreso  in sede dei motivi ispiratori e questo ci pare dispensi da una trattazione separata.

 

        LA POESIA DI (NICCOLO’) UGO FOSCOLO

 

A)  PANORAMICA DELE OPERE PRINCIPALI

 

Le principali opere letterarie del Foscolo –Ultime lettere di Jacopo Ortis, Dei Sepolcri (con i migliori sonetti), Le Grazie (con le Odi) costituiscono tre parti di una grandiosa sinfonia, che ricamano quasi delle  variazioni melodiche sulla stessa tematica di fondo.

Identici, infatti, sono i motivi ispiratori, quelli esistenziali sommi, che si sintetizzano nella ricerca di senso per la vita umana. Essi si spiegano man mano nella considerazione sul valore e funzione della virtù morale e della libertà politica, della giustizia e dell’eroismo (così spesso sfortunati e soccombenti, al punto da diventare l’icona della sofferenza e fallimento dell’innocente), della genialità inventiva od artistica, dell’amore sessuale e dell’amicizia in genere, soprattuto  dell’anelito dell’uomo alla sopravvivenza dopo la morte. Ma essi sono prospettati in tre dimensioni diverse, osservati cioè da tre punti di vista differenti  che, dapprima opposti, sono resi alfine complementari e relativi fra loro dalla genialità paradossale del poeta, dalla sua mente che attinge una complessità di sintesi che non sai se definire sublime o sofistica.

Con la più grande coerenza (come sempre nei massimi poeti) anche i toni lirici si trovano dapprima contrapposti e poi riconciliati e sublimati fra loro, mentre lo stile passa attraverso vicende parallele, analogiche al differente prospettarsi delle grandi tematiche morali, prese a motivo di canto.

Per queste interrelazioni delle grandi opere foscoliane, non le analizzeremo separatamente, ma le indagheremo  come fossero un’opera unica,  di cui vedremo variare  la prospettiva degli stessi motivi ispiratori e, conseguentemente, i registri lirici e la tecnica espressiva.

 Soltanto annoteremo, qui di seguito ed in corpo minore, alcuni dati storici e contenutistici delle singole opere, in modo da poterci introdurre più speditamente alla loro analisi propriamente artistica.[50]

 

                ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS.

Iniziate col titolo “Laura, lettere”, nel 1796, furono edite a Bologna col titolo “Vera storia di due amanti infelici” dal libraio  Marsigli, cui l’autore aveva lasciato in custodia un testo  non definitivo. Il testo fu completato e modificato da un certo Angelo Sassoli, per poter passare la censura degli Austriaci, ritornati momentaneamente in città, nell’avanzata vittoriosa durante la spedizione di Napoleone in Egitto e prima della sua vittoria a Marengo. E’ la prima edizione, del 1798-9. E’ già in forma epistolare, ma risente molto del Werther goethiano, perchè il protagonista muore di propria mano per sola delusione amorosa. Nel 1802  il Foscolo condusse a termine la seconda edizione, che intreccia al dramma affettivo quello politico. Mentre la figura della donna amata[51] non è più modellata su Isabella Teotochi Albrizzi, ma su Isabella Roncioni, passando da vedova a fanciulla diciottenne, assume parte primaria il trattato di Campoformio e la cessione di Venezia all’Austria da parte di Napoleone. Il giovane Jacopo, veneziano, se ne dispera, perchè vede spente i suoi ideali di libertà e di  patria (il romanzo inizia: “Il sacrificio della patria nostra è consumato”, nella lettera dell’undici ottobre 1797: solo col procedere dell’operetta, il protagonista penserà “italianamente”; per ora la “patria” è Venezia soltanto). Si rifugia dapprima sui colli Euganei dove conosce Teresa, già promessa dal padre, in contrasto con la madre, al ricco Odoardo, di cui essa non è innamorata. Egli se ne innamora pazzamente,  trovando nella speranza di poterla sposare quasi un rimedio alla propria  delusione politica. Con lei, Odoardo, il padre e la sorella Isabellina, visita la casa del Petrarca ad Arquà (lettera del 20 novembre 1797). Lui, poi, si decide a mantenere la promessa fatta a sua madre, di frequentare l’università di Padova: Vi si reca, dandone un giudizio lapidario: “Questa università (come saranno, pur troppo, tutte le università della terra!) è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici tra loro, e di scolari dissipatissimi” (lettera del 23 Dicembre 1797). Ritorna, dunque, sui colli. L’undici maggio del 1798 egli ottiene un bacio da Teresa e ne è estasiato (“dopo quel bacio io son fatto divino”: lettera del 15 maggio): essa lo ama. Ma ritorna Odoardo ed Jacopo, allora, vaga per varie città italiane: a Firenze non riesce ad incontrare l’Alfieri, ma visita le tombe di Santa Croce in  questo atteggiamento: “Dianzi io adorava le sepolture di Galileo, del Machiavelli, e di Michelangelo; e nell’approssimarmivi io tremava preso dal brivido”; a Milano conosce Parini ed ha un famoso colloquio con lui (lettera del 4 dicembre 1798); a Ventimiglia, riconosce i confini naturali d’Italia, ma è sopraffatto dalle riflessioni pessimistiche sul trionfo della forza, del caso, dell’inganno nella storia umana, sicchè dispera che mai si liberi ed unisca la patria (lettera del 19 e 20 febbraio 1799); a Ravenna, abbraccia la tomba di Dante. Ritorna alfine sui colli Euganei, dove trova Teresa sposata con Odoardo. Decide allora il tragico epilogo, ma prima  chiede una copia della  Bibbia al sacerdote del luogo. Si ucciderà con il pugnale.

Il romanzo è formato da lettere all’amico Lorenzo Alderani (che  forse si identifica con Giovan Battista Niccolini, amico del Foscolo e futuro tragediografo romantico): questi completa con brevi note la vicenda, sia con una avvertenza iniziale (“Al lettore”), sia con interventi più frequenti nella parte finale. Inutile dire che Jacopo è la controfigura del Foscolo,  portato all’estremo della passionalità e dell’idealismo..

 

                   I SONETTI

Dei dodici riconosciuti dall’autore, il primo scritto pare sia stato Per la sentenza capitale proposta nel gran consiglio cisalpino contro la lingua latina (1798); l’ultimo è quello In morte del fratello Giovanni (1802). Pur essendo tutti più che discreti, migliori sono universalmente ritenuti quelli intitolati Alla sera| A Zacinto| In morte del fratello Giovanni, cui  seguono (a nostro parere non dello stesso livello supremo) quelli A Firenze, Alla Musa ed Il proprio ritratto (nella  seconda redazione). E si noti che anche tra quelli giovanili (non recepiti nella edizione del 1803) non sono disprezzabili i  quattro In morte del padre, quello, di amaro rimprovero, A Venezia; Notturno e Alla donna gentile (Quirina Mocenni Magiotti).

Contenuto dei principali. Alla sera: è una grata ma elegiaca celebrazione del tramonto, perchè la sera è bensì cantata come benefica all’anima del poeta, ma in senso sostanzialmente triste: sorella della morte, essa placa il suo interiore dissidio ed ispira pensieri di requie sepolcrale. A Zacinto: canta l’isola natale, esaltandola per il clima favorevole, per il mare splendido, da cui nacque Venere, in cui navigò Ulisse. Immortalata perciò, giustamente da Omero, è  celebrata anche dal Foscolo, che però spera ormai soltanto di trovarvi la pace ultima del sepiolcro. In mnorte del fratello Giovanni:  il poeta sa che   molto  gli somiglia (anche nel vizio del gioco d’azzardo, che ha condotto  Giovanni al suicidio) e lamenta il dolore della madre e la miseria della  propria condizione, che non gli permette di visitarne ora la tomba, anzi neppure di sperare la sepoltura in patria. Alla Musa: rievoca con nostalgia gli anni giovanili, poeticamente più disponibili: ormai il poeta si sente senza più ispirazione ed incapace, perciò, di affidare ai versi il proprio dolore fatale, congenito (“che deve albergar meco”).

  Il proprio ritratto: chiaramente ispirandosi a quello di Alfieri, dichiara  “esatte” le sue membra” fisiche[52], ma confessa l’animo agitato fra ragione e passioni, con le inclinazioni ed i comportamenti  più contrastanti; e denuncia l’ambiente, i tempi, la società avversa: di una personalità così  turbolenta, solo la morte darà un giudizio intero. A Firenze celebra la patria  della lingua italiana, la città viva di ideali e di lotte  sanguinose, residenza ultima del  “fero vate”, l’Alfieri, ma soprattutto del suo grande amore, Isabella Roncioni.

 

                   Le   ODI

 A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Ode scirtta nel 1800, mentre il poeta era assediato in Genova con le truppe del generale Massena; fu poi edita nel 1802. Luigia, nata Ferrari e sposata Pallavicini,  di soli 28 anni, si era lesionata cadendo da cavallo lungo la riviera di Sestri: era bellissima e, quindi, il fatto destò pietà e costernazione eccezionale. Foscolo dovette conoscere la notizia attraverso informazioni scritte od orali,   senza conoscere direttamente la donna.

Il  motivo ispiratore esterno: considerazioni sulla donna giacente ferita a letto e descrizione immaginosa della caduta; augurio per un ritorno alla piena salute, espresso mediante la invenzione di un nuovo mito: Diana, precipitata dalla rupe etnea dalle cerve impaurite e, dapprima, sfigurata dalla caduta, ricompare ancor più fulgida in Olimpo dopo la guarigione.

Il motivo ispiratore intimo: più che la donna, protagoinista dell’ode è la bellezza stessa, sperimentata qui come vulnerabile, fragile, effimera. E’ vero che, con l’evasione nel mito (di Diana), l’ode si anima di ottimismo e, nel finale,  persino di qualche nota epicizzante, ma come motivo ispiratore rischia di essere più vicina alle Ultime lettere che alle Grazie. 

Liricamente (esteticamente, artisticamente), il valore dell’ode supera la sufficienza, ma non va oltre la discrezione.

Tecnicamente,  ci limitiamo qui alla metrica: si tratta di 18 sestine di settenari, di cui il secondo ed il quarto sono sdruccioli ed aritmici (senza rima); gli altri piani, rimati. Lo schema  è, dunque, questo: abacdd.

 

All’amica risanata. L’ode fu composta fra il 1802 ed il 1803 e nel 1803 pubblicata. L’amica è Antonietta Fagnani, moglie dell’avvocato Arese, ammalatasi in quell’inverno. Come accennato, essa era stata un suo amore appassionato ed indegno, ma il poeta scrisse l’ode quando ormai i legami erano spezzati o, almeno, molto allentati: l’animo placato permette la idealizzazione della donna,  elevata anch’essa ad icona della bellezza, vero motivo ispiratore dell’ode. Ma questa volta la bellezza è vittoriosa, trionfatrice, eterna. Il tema è divisibile in tre momenti. Nel vv. 1-48 vi è la celebrazione della donna risanata, incarnazione della bellezza (“L’aurea beltade| ond’ebbero ristoro unico ai mali| le nate a vaneggiar menti mortali”: vv. 10-12). Nei vv. 49-54 interviene la tentazione razionale, che dà i brividi per la previsione che vecchiezza e morte incombono anche sull’amica, come su ogni forma di bellezza creata: il poeta reagisce vigorosamente, imprecando a chi osasse ricordare all’amica tali realtà alla sua donna (“Meste le Grazie mirino| chi la beltà fugace| ti membra e il giorno dell’eterna pace”: vv. 52-54). Ed ecco intervenire allora, nella terza parte, il potere deificatore della poesia, che eterna la fama delle personalità eminenti, anche per la bellezza (Venere, Diana, Bellona). L’ispirazione  comprende, così, tutti e tre i momenti della prospettiva foscoliana della esistenza e dei suoi valori: dapprima viè il fascino spontaneo (ingenuo?) dei beni esistenziali, di cui la bellezza e l’amore sono un caso notevole; ma  il poeta (secondo momento) è ben cosciente che, per la ragione (razionalistica) anche la bellezza è destinata a perire, sicchè la sua perennità è pura illusione (vv.49-54); eppure il  Foscolo inibisce volutamente tale convinzione filosofica e lascia campo alla persuasione  imposta  dal sentimento, superiore ad ogni sconfitta e fallimento della vita, perchè  evade nel mito e nella illusione, volendo aver fiducia nel potere deificatore ed eternizzante della poesia e dell’arte: è così che egli può intonare il canto epico dell’esaltazione finale (vv. 55-96).

Esteticamente: l’ode è superiore alla precedente e merita una buona  valutazione, rimanendo inferiore solo ai grandi sonetti , ai Sepolcri ed al brano sublime dei versi 169-212, nel III Inno delle Grazie.

Stilisticamente, si tratta di un’ode in 16 sestine di 5 settenari, conclusi da un endecasillabo: sdruccioli ed aritmici il secondo e quarto verso. Lo schema è, dunque, questo: abacdD. Del musicalismo e di altri fattori stilistici, riparleremo. 

 

                   DEI SEPOLCRI

Date: di composizione: estate 1806 (praticamente, nel mese di agosto); di edizione: Brescia, aprile 1807.

Occasione: editto di Saint Cloud (1804) che si sapeva dover essere esteso anche all’Italia, come lo fu nel settembre del 1806. L’epistolario del Foscolo lascia intuire che nel giugno si era avuto un amichevole discussione tra il Foscolo, il Pindemonte e la Teotochi-Albrizzi, lui favorevole alla disposizione “democratica”; gli altri due, contrari. Nello stesso 1807, abbandonando la stesura già avanzata di un poemetto sui Cimiteri, il Pindemonte scriverà una “Epistola sui Sepolcri”, in amichevole polemica con il carme foscoliano[53].

Foscolo, si convertirà al valore dei sepolcri, ma nella sua personale, complessa prospettiva che, partendo dalla poetica ed ideologia del Neolcassicismo, la potenzia, giungendo ad assegnare alla Arte (Poesia) non una pura funzione consolatoria nella illusione di una sopravvivenza inesistente, ma una funzione autenticamente conservatrice ed eternatrice dei valori tutti; e non solo a livello psicologico, cioè come memoria, riconoscenza e celebrazione presso i posteri, ma anche a livello sporadicamente oggettivo (ontologico, reale).. E, strumento privilegiato ad una tale operazione estetica, sono le tombe che ispirano i poeti. 

Ecco la famosa definizione che il Foscolo dà della composizione poetica detta “carme”: “é un modo di poesia desunto dai greci, che dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche, presentandole non al sillogismo dei lettori, ma alla fantasia ed al cuore”.

La forma metrica: si tratta di 295 endecasillabi sciolti.

Trama e divisione del carme, secondo le indicazioni scritte dal poeta all’abate francese Aimé Guillon, che aveva pubblicato sul “Giornale italiano” del 22  giugno 1807 un articolo di censure, centrate sulla poca chiarezza dello svolgimento  razionale tra le varie parti del carme, l’articolazione logica è la seguente[54]:

1)    vv. 1-22: le tombe e il culto dei morti non servono al defunto (materialismo, negazione della sopravvivenza dell’anima personale);

2)    vv. 23-40: epure, perchè privarsi della illusione che si sopravvivrà nell’affetto e ricordo dei propri cari?

3)    vv. 41-50: solo chi non lascia eredità di affetti,  non  ha interesse alla propria tomba.

4)    E, invece, la nuova legge impedisce questa cura della tomba e la “celeste corrispondenza d’amorosi sensi” tra i vivi ed i morti. Caso particolarmente deplorevole: il grande poeta Parini, sepolto senza onori nè distinzioni,  non ha oggi una tomba ove essere onorato.

5)    91-150: senza dire che il culto dei morti, assieme alla religione ed alle nozze, ha segnato e causato l’evoluzione dalle belve  insensate e feroci all’uomo intelligente e civile. Sui morti si prestava giuramento; il culto dei morti, pur con abusi e forme superstiziose, fu una forma di espressione religiosa. In tal senso, ancor oggi, in Inghilterra, sussiste un degno culto per idefunti. Invece, là dove (come in Italia) brama di ricchezza e fasto nobiliare, esauriscono la vita degli uomini, le tombe non dicono nulla, si riducono a forme di orgoglio, che il clero sfrutta a proprio vantaggio.

6)    vv. 150-212: le tombe sono un richiamo ad esempi di genialità e di eroismo, un incitamento ad imitarne gli autori. Caso eminente per gli Italianai  sono le tombe in Santa Croce, ove i sepolcri di Galileo e Machiavelli, di Michelangelo e soprattutto di Alfieri sono uno stimolo formidabile ad emularne le imprese.

7)    vv. 213-225. Fortunato Ippolito Pindemonte che, navigando in gioventù, ha potuto visitare le tombe degli antichi greci, che gli avranno rievocato la epopea di Maratona e l’eroismo di Aiace, la battaglia cioè per la libertà della Grecia contro l’invasore persiano e la giustizia  lenta ma inesorabile delle cose, che portò al capo Retéo, ove il Telamonio fu sepolto, le armi di Achille, ottenute per inganno da Ulisse, ma restituite, come da volontà del figlio di Peléo, al più forte tra i Greci;

8)    vv. 226-295: Foscolo non può viaggiare verso tali tombe incitatrici di opere grandiose, ma si augura di essere poeta dei sepolcri, perchè è attraverso la poesia che le tombe sopravvivono alla opera inesorabile del tempo, demolitore di ogni cosa; è attraverso la poesia, quindi, che le tombe stesse possono espletare il loro compito di memoria verso il passato e di sprone verso il futuro. Se la morte, cioè, trionfa della vita umana; se il tempo trionfa delle tombe (“ne spazza fin le rovine”, perchè “una forza operosa le affatica| di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il tempo”), la poesia trionfa del tempo (“le Pimplée fan lieti| di lor canto i deserti, e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”), eternando i grandi uomini, le grandi imprese. Esempio supremo: Omero  assicura, alla memoria umana di tutti i secoli, il “sangue per la patria versato” da Ettore e, con lui, eterna gli eroi sia  greci (“i fatati Pelìdi”) sia troiani (Elettra che da Giove ebbe Dardano, onde discesero Erittonio, Troe, Ilo, Laomedonte, Priamo, Ettore e, da un ramo laterale, Enea e il popolo privilegiato dei Romani).

Si tratta, stavolta, di poesia sublime, paragonabile solo a quella della Commedia di Dante e dei Promessi Sposi del Manzoni.

 

                   LE GRAZIE

Date: il Foscolo vi lavorò a più riprese, dopo averne pubblicato dei frammenti già nel 1803, assieme alla traduzione della “Chioma di Berenice”, fingendo essere, quei frammenti, traduzioni da un “Inno alle Grazie” del poeta alessandrino Fanocle. Ma fu specialmente il soggiorno fiorentino del 1812-3, nella casa di Quirina Magiotti Mocenni, sul colle di Bellosguardo, che il  nuovo carme si andò definendo. Non riuscì, però, al Foscolo, dargli forma definitiva o struttura unitaria.  Dei tre Inni (Venere- Vesta- Pallade), nessuno è compiuto e la stessa numerazione dei versi non  viene  ordinata univocamente dai critici.

Definizione: è un “carme”, in endecasillabi sciolti, dedicato ad Antonio Canova, che nel 1813 aveva collocato nella galleria degli Uffizi la sua Venere, mentre si apprestava a comporre ed esporre a Roma il trittico delle Grazie nel 1814. E’ diviso in tre Inni e vuol celebrare i valori più alti della civiltà umana, impersonati nelle tre divinità greche (Eufrosine, la bellezza; Aglaia, l’ingegno; Talia, la virtù). E’ invenzione del Foscolo che le Grazie siano figlie di Venere e siano creature medie fra gli dei (da cui prendono i doni) e gli uomini (cui li trasmettono).

Trama (presumibile). I° Inno: all’apparire delle Grazie, vergini sacre a Venere, ha inizio la civiltà; esse raggiungono e umanizzano l’isola di Citera (a nord di Zacinto?) e la Grecia tutta; poi, passano, profughe dall’Ellade, in Italia, per l’arrivo dei barbari Ottomani.  II° Inno: canta le vicende della poesia in Grecia ed in Italia, mentre sul poggio di Bellosguardo, in Oltrarno,tre giovani sacerdotesse celebrano un rito in onore delle tre Grazie (sono le amiche del Foscolo: Eleonora Mancini, di Firenze; Cornelia Rossi Martinetti, di Bologna; Maddalena Marliani Bignami, di Milano). III° Inno: perseguitate anche in Italia dalla impudenza di Dioneo (Boccaccio), sono trasferite nella mitica terra di Atlantide, dove, coi raggi del sole, viene intessuto un velo che proteggerà Eufrosine, Aglaia e Talia dalla violenza delle passioni, senza per questo sottrarre più i loro doni agli uomini. Nel velo (vv. 144-87; ovvero 169-212, secondo altre ricostruzioni del mosaico dei brani scollegati) si celebra la giovinezza, l’amore casto, l’ospitalità, la compassione, l’amore materno con accenti di commozione che attingono  in qualche punto la sublimità estetica dei Sepolcri e dei migliori sonetti.

 

 

 

 

 

B) MOTIVI ISPIRATORI

 

La loro universalità umanistica.  Pur nella quantità limitata dei versi e delle prose che ne segnano la grandezza eccezionale, il Foscolo rivela una tale vastità e profondità di tematiche ispiratrici che, in tutta la storia della letteratura italiana,  solo in Dante si può trovare un pensatore più completo e solo in Manzoni uno che gli stia alla pari. D’accordo: rispetto a Dante, il Foscolo denuncia una carenza di interessi propriamente metafisici. Eppure  la sua indagine sul significato dell’uomo, della sua vita e della sua storia è così profonda e vasta, che finisce per coinvolgere appassionatamente (anche se solo genericamente) la problematica religiosa (Dio esiste davvero? ed è provvido Padre o arbitro indifferente alle vicende umane?) e, di scorcio, persino quella cosmologica (quale il rapporto fra la natura e l’uomo? fin dove va spinta la intuizione  circa la evoluzione dell’uomo dagli  animali?).[55]

 La loro triforme prospettiva. Se si potesse parlare di una filosofia del Foscolo,  essa dovrebbe essere classificata come una forma di esistenzialismo avanti lettera, cioè di una antropologia (scienza dell’uomo) in senso antinomico (dalla interpretazione contrastante). Per ora useremo una terminologia pressappochista, che vuol mediare fra la più trasparente e globale concezione esistenzialista ed il pensiero neoclassico del Foscolo: a suo luogo, cercheremo di essere più precisi. L’uomo incontra, dunque, esigenze  generate dal sentimento[56]:  sarebbe, questo, il momento ingenuo, prerazionale della conoscenza; segue il rifiuto da parte della  ragione, che  smantellerebbe come “illusioni” queste aspirazioni del cuore; interviene però in Foscolo un terzo momento, che per ora chiameremo della volontà, per salvare in   ad ogni costo almeno qualche aspetto (sia pur marginale), qualche forma (sia pur accidentale)  degli insopprimibili  bisogni  sentimentali. E, considerandoli appunto alla luce della successiva riflessione di Soren Kirkegaard, si possono specificare i contrasti del Foscolo nella triade di valori ormai divenuta classica: Aspirazione alla verità| alla felicità| alla bontà; costatazione di dubbi ed errori| di dolori e fallimenti| di colpe proprie ed altri. La salvezza dei “valori” avverrebbe attraverso la volontà di credere, sperare ed operare per il meglio?

L’uomo cerca la verità  come il valore primo della propria esistenza: chi è l’uomo (un semplice animale superiore od un essere in cui lo spirito, intelligente e libero, è anche immortale e, quindi, dagli animali si distingue insuperabilmente)? donde viene e per qual fine vive? La vita è opera di Dio ed è guidata dalla Provvidenza paterna di Lui o è solo frutto del caso e di meccanismi biochimici?[57] In particolare, perchè soffrono anche gli innocenti e trionfano spesso i malvagi, prepotenti od astuti? E perchè l’uomo, che pure tende fondamentalmente al bene, non riesce a comportarsi come pur vorrebbe e cade nel peccato e nel delitto e si trova coinvolto nelle colpe e malvagità altrui, di cui la guerra è la somma e il culmine? E perchè lo stesso amore, che pure si presenta come il momento supremo di idealità, di gioia e  fusione di intenti, desideri, di comunione di vita, insomma, si stravolge spesso in tradimento e disgusto, in sofferenza ed odio?[58] E quella vita prolungata dell’uomo che è la storia, ha una direttiva ed un senso,  fa trionfare la verità e la giustizia, emarginando col tempo errori ed insolenze, oppure travolge tutti i valori nella dimenticanza e nella insignificanza, confondendo eroi e malfattori, santi e delinquenti? Gli imperi si succedono a caso, in base alla legge del più forte; o beneficamente, secondo un piano provvidente e benefico? Già si è citato un passo dalle Ultime lettere dove molti problemi sono posti esplicitamente: “Io non so nè perchè venni al mondo, nè come, nè cosa sia il mondo, nè cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa” (20 marzo 1799).

L’uomo tende alla felicità come al fine ultimo della sua esistenza: ma chi può mai proclamarsi felice sulla terra? Illusione il pretendere di raggiungerla.[59] La vita presenta delusioni e fallimenti per tutti, visto che la sua fine è lo scacco ultimo della morte. E’ ovvio che al centro di tutti questi valori sta la immortalità dell’anima, la cui accettazione o rifiuto dà un senso tutto opposto alle vicende della vita umana. Ma tale immortalità o meno è già inclusa nella fede|rifiuto della Provvidenza.

L’uomo cerca il bene, quello valido per tutti, quello morale: ma vi è del tutto incapace. Altro è come si vorrebbe vivere, altro come ci si comporta di fatto: la favola di Fedro  delle due bisacce, imposte da Giove sulle spalle degli uomini, ci mostra chiaramente che, al più, possiamo ignorare le nostre magagne, ma in compenso vediamo molto acutamente quelle altrui; e gli altri ci rendono, a suo tempo, coscienti delle nostre.

Questi “beni” esistenziali comunissimi, messi in crisi dal razionalismo illuministico, Foscolo li chiama, talora, con altri termini; altri, poi, ne sottodistingue  nelle grandi categorie  accennate.  Ma li usa anche esplicitamente: “L’UOMO SARA’ INFELICE” (in apertura del “Frammento della storia di Lauretta” );  del “BELLO” e del “VERO”  parla nella lettera del 15 maggio 1798: in entrambi i casi, egli fa uso del carattere  maiuscolo![60]

Ad indicare, poi, l’insieme delle aspirazioni dell’uomo, la pace, la felicità,  l’amicizia... egli usa sempre più spesso la parola “ARMONIA”: la si  incontra  nelle Ultime lettere, il 20 novembre 1797, cioè quasi in apertura, ma  per una sola volta; la si ritrova nei Sepolcri tre volte (vv. 9, 27 e 233); la  si legge  ben nove volte ne Le Grazie (I, 285, 305,308, 324, 327, 353, 372, 401; II,50).

 Tra i valori degni di memoria eppur a rischio di insignificanza,  Foscolo sottolinea fortemente l’amore per la patria e l’eroismo di chi combatte per  essa (la figura di Alfieri e le tombe di S. Croce, nei Sepolcri, 151-197a; i combattenti per la libertà di Troia o della Grecia: ivi, vv.197b-295) e privilegia il senso  della amicizia (Lorenzo Alderani, il destinatario delle Ultime lettere,  sta a significare il bisogno di amicizia che ardeva nel cuore di Jacopo-Ugo; in più vi è l’episodio dell’incontro confidenziale con Parini a Milano, come da lettera del 4 dicembre  1798); e vi è un senso vivissimo della Natura, che non è sempre l’onnipotente padrona degli eventi, ma proprio anche solo il paesaggio, romanticamente consenziente con lo stato d’animo dell’uomo ospitato in essa. Quest’ultimo motivo sarà il primo ad essere esaminato particolarmente.

 

I SINGOLI MOTIVI ISPIRATORI

 

         La natura come paesaggio.

Ultime lettere di Jacopo Ortis. Prescindiamo dal suo valore cosmico e metafisico, dunque, per fermarci alla sua dimensione vegetale, quale verde  mantello  sorridente nella campagna o quale   compassionevole amica nel bosco ombroso o nel fazzoletto di terra che ospiterà  maternamente il corpo defunto. Ecco  la conclusione felicissima della lettera del 1 novembre 1797: “Che bell’autunno! Addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare un canestro d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto la famiglia cantando la canzonetta della vendemmia”. Il Sole gioca la parte del grande regista di tali spettacoli consolanti.[61] Così il trapianto dei pini sui colli Euganei e il paesaggio che accompagna la passeggiata ad Arquà creano un clima idillico[62], mentre il “boschetto di tigli” protegge il vecchio Parini dall’afa estiva di Milano ed ospita l’incontro  fra i due poeti[63]. Vi è la beatitudine infusa dalla contemplazione di un paesaggio: “Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione?...” (Frammento della storia di Lauretta, 13 maggio 1798). Anche la salita alla “più alta montagna”, presenta bensì “la terribile maestà della Natura”, in un giorno di vento e di bufera, ma placa il cuore di Jacopo, distraendolo dalla prossima perdita di Teresa (ivi, 15 e 25 maggio). Talora la natura sembra ostile, ma in realtà accompagna i sentimenti di depressione di Jacopo (“La stagione, la nebbia perpetua, quest’aria morta...” del 6 febbraio 1799); essa in realtà è sempre materna, sia che consoli quelli che debbono vivere, sia che chiami Jacopo alla soluzione finale  inesorabile ( mezzanotte del 14 marzo 1799).

Nell’Ode all’amica risanata, siamo nello stadio ove l’illusione del realizzarsi dei “valori” è ricreata  mediante la contemplazione della bellezza, che inibisce la cruda verità razionale  sulla  vanità degli ideali umani tutti. Ebbene, la natura apre e chiude idillicamente la composizione.  La prima strofa descrive il sorgere del pianeta Venere, che segna la fine della notte; la terz’ultima, ferma l’attenzione su Cipro “ove perpetua| odora primavera” e sulle isole dell’Ionio “che col selvoso dorso| rompono agli Euri e al grande Ionio il corso”; la penultima,  riesce pur essa consolante, per    l’accenno alla propria origine in quelle isole, per  lo spostamento dell’attenzione dal suicidio di Saffo, delusa in amore, al fraterno compianto delle onde che battono il litorale della rupe di Leucade.[64]

Dei Sonetti,  Alla sera   mette in  rapporto il paesaggio coll’animo esacerbato del poeta: se è limpido e lo “corteggian liete| le nubi estive e i zeffiri sereni”, gli  reca il refrigerio della pace nell’estasi della contemplazione; se esso, invece, porta “dal nevoso aere inquiete| tenebre e lunghe all’universo”, allora esso placa le ambasce del suo cuore, perchè “vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme| che vanno al nulla eterno: e intanto fugge| questo reo tempo, e van con lui le torme| delle cure onde meco egli si strugge”.

Sempre il paesaggio è visto, romanticamente, in riferimento al personaggio che vi è immerso.

Di se stesso all’amata: qui il paesagio accompagna l’animo in pena del Foscolo con la “bruna notte”, la “luna”, il “freddo aer” e le “mute ombre”, attraverso il “selvoso piano” e “deserto”.

A Zacinto celebra, fra nostalgia e disillusione, l’isola natale, con le bellezze  “del greco mar”, le “limpide nubi” e le “frondi”, che egli ricorda, cosciente che non potrà mai più rivederne e viverne l’incanto.

Il carme DEI SEPOLCRI si apre “All’ombra dei cipressi” e della “bella d’erbe famiglia e d’animali”; continua nei vv. 39-40 “e di fiori odorata arbore amica| le ceneri di molli ombre consoli”; prosegue col ricordo del tiglio,  che all’anziano  Parini “già di calma era cortese e d’ombra” (vv. 65-9). Ma,  visto che il Foscolo tende a dare un’anima alla natura ed a renderla sensibile allo stato d’animo umano[65],  allora è da aspettarsi che là, ove gli uomini sono insensati o corrotti, anche la natura si ribelli e assuma una fisionomia stravolta. Ecco la sepoltura disonorata del Parini; ecco le sepolture dei  ricchi milanesi, motivo di ostentazione, d’opulenza e vanità, realizzate persino sotto i pavimenti delle chiese. Ed allora anche la natura diventa tetra, macabra, ossianesca, come nel “notturno” dei vv. 70-90.[66]  Un altro brano si incontra di notturno drammatico, ma è poeticamente molto superiore e più popolato di persone ed azioni umane che di vegetazione: sono i versi  201b-212, che abbiamo già riportati a p. 17. Ed ecco la (vera  o presunta?) opposizione fra le tombe dei cattolici, in cui si trascura  il complemento della vegetazione, per preoccuparsi (istericamente?) del suffragio per le anime dei cari defunti; e le tombe pagane dei Greci, dei Romani e quelle stesse attuali degli Inglesi, ove “di fiori odorata arbore amica| le ceneri di molli ombre consola” (vv. 39-40) e si favorisce quella “celeste...| corrispondenza d’amorosi sensi...”, per  la quale “spesso... si vive con l’amico estinto,| e l’estinto con noi.” (vv. 29-33).[67]

Ma il brano paesaggistico più estasiante è la descrizione dei colli toscani, ne vv.165-173: “Te beata, gridai, per le felici| aure pregne di vita, e pe’ lavacri| che da’ suoi gioghi a te versa Appennino!...” citato a pag. 17). 

Pienamente integrata (ma subordinata) nella finale del carme, ove il lirismo tocca il suo zenit nella celebrazione della poesia come autentica forza immortalatrice, ritorna la natura nelle espressioni profeticamente commosse di Cassandra: “E voi, palme e cipressi, che le nuore| piantan di Priamo e crescerete ahi presto!| di vedovili lagrime innaffiati,| proteggete i miei padri: e chi la scure| asterrà pio dalle devote frondi| men si dorrà di consanguinei lutti| e santamente toccherà l’altare.| Proteggete i miei padri. Un dì vedrete| mendìco un cieco errar sotto le vostre| antichissime ombre, e brancolando| penetrar negli avelli e abbracciar l’urne,| e interrogarle...” (vv.272- 283a).

Il carme Le Grazie intreccia  a tal punto l’ambiente geografico e vegetale, animale e cosmico (attraverso la mitizzazione degli astri, secondo la mitologia greca), che le figure delle tre Grazie e delle altre persone ivi rievocate ne risaltano a stento. Dovremmo citare troppi versi: ci limitiamo ad un brano per ognuno dei tre Inni.

        Il primo Inno (Venere) ci presenta l’amabile trasformazione della natura al posarsi delle Grazie sull’isola di Citera: “Poi, come l’orme della Diva e il riso| delle vergini sue fer di Citera| sacro il lito,| un’ignota violetta| spuntò a’ piè de’ cipressi; e d’improvviso| molte purpuree rose amabilmente| si conversero in candide. Fu quindi| religione di libar col latte| cinto di bianche rose, e cantar gl’inni| sotto de’ cipressi, e d’offerire all’ara| le perle e il fiore messagger d’Aprile” (vv.82-91).

        Il secondo (Vesta) , colla preparazione del rito in onore delle Grazie, offre occasione ad una sfilata di fiori e piante addotti sul colle di Bellosguardo, dove Eleonora Mancini (Firenze), Cornelia Rossi Martinetti (Bologna), e Maddalena Marliani Bignami (Milano) fanno da controfigura alle Grazie stesse. I vv. 151-183, non sublimi, li rimandiamo in nota.[68]  In questo secondo Inno, anche i vv. 508-22 hanno una ispirazione floreale notevole.

        Il terzo Inno (Pallade) intreccia sempre più intimamente natura, persone, mito e allegorie o simboli: i vari ricami intessuti, da varie divinità inferiori e sotto la guida di Pallade, per il manto delle Grazie sono un esempio di questa mirabile sintesi, oltre a rappresentare il culmine della poeticità del carme-poemetto (vv. 169-212): “Mesci, odorosa Dea, rosee le fila; e nel mezzo del velo ardita balli,| canti fra ’l coro delle sue speranze| Giovinezza; percote a spessi tocchi| antico un plettro il Tempo; e la danzante| discende un clivo onde nessun risale.| Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,| a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo| crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome| vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno| l’urna funerea spireranno odore.|| Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;| e ad un lato del velo Espero sorga| dal lavor di tue dita; escono errando| fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco| due tortorelle moromorando ai baci;| mirale occulto un rosignuol, e ascolta| silenzioso, e poi canta imenei:| fuggono quelle vereconde al bosco.|| Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;| e sul contrario lato erri co’ specchi| dell’alba il sogno; e mandi a le pupille| sopite del guerrier miseri i volti| de la madre e del padre allor che all’are| recan lagrime e voti; e quei si desta,| e i prigionieri suoi guarda e sospira.|| Mesci, o Flora gentil, oro alle fila; | e il destro lembo istoriato esulti| d’un festante convito: il Genio in volta| prime coroni agli esuli le tazze.| Or libera è la gioja, ilare il biasmo,| e candida è la lode. A parte siede| bello il silenzio arguto in viso e accenna| che non fuggano i motti oltre le soglie.|| Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;| e pinta il lembo estremo abbia una donna| che con l’ombre e i silenzi unica veglia;| nutre una lampa su la culla, e teme| non i vagiti del suo primo infante| sien presagi di morte; e in quell’errore| non manda a tutto il cielo altro che pianti.| Beata! ancor non sa come agli infanti| provido è il sonno eterno, e quei vagiti| presagi son di dolorosa vita...”[69]

 

 

 

 

L’autobiografismo, l’amore,  gli affetti parentali, l’amicizia.

Introverso e temperamento fondamentalmente nervoso, il Foscolo non poteva  evitare la propria personalità, vicende e passioni  come sorgenti   profonde del proprio cantare. Come per il Petrarca, i sentimenti della vita pratica diventano oggetto di canto,   si innalzano a  motivi ispiratori,   che la ragione trasforma in  emozioni pure liberandoli da ogni interesse utilitaristico, da ogni scoria istintiva, universalizzati come patrimonio emotivo accessibile ad ogni intelligenza, ad ogni cuore.

 

Sostanzialmente autobiografiche sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis. Vediamo i punti di contatto principali fra la vita del Foscolo e quella di Jacopo. L’amore alla patria si impone fin dalle prime parole e rimane il filo conduttore della trama. Dapprima è inteso come attaccamento campanilistico di un giovane veneziano alla libertà della città ed ai suoi ordinamenti: “Il sacrificio della patria è compiuto” si riferisce al trattato di Campoformio,  con cui Napoleone  cedeva Venezia all’Austria (17. 10. 1797). In seguito tale amore si allargherà all’Italia tutta: si veda specialmente la lettera da Ventimiglia del 19-20 Febbraio 1799: “Là giù è il Roja...I tuoi confini, o Italia, sono questi!”. Anche  il rifugiarsi sui colli Euganei corrisponde alla realtà: il Foscolo vi si recò su consiglio della madre, proprio per la disperazione di Campoformio, dopo il quale il Foscolo “si ribella,impreca nei comizi, maledice, minaccia: vuol bruciare la città e morire sotto le rovine”[70]. L’amore per Teresa è  la proiezione dei troppi amori dell’autore, come egli  confessava al Mazzini “Il calendario delle donne da me amate è lungo assai”: si sa che, in particolare, la “Teresa” del romanzo fu ispirato dapprima da una sconosciuta fanciulla veneziana; divenne poi Teresa Pichler Monti ed infine la pisana Isabella Roncioni: proprio quest’ultima, conosciuta a Firenze e che avrebbe sognato di sposare, era già fidanzata come la Teresa del romanzo. Ma, al di là delle vicende esterne, vi è la “confessione” di molti dati del proprio temperamento (che noi abbiamo già utilizzato per ricostruirne la individualità) e del suo pensiero. Possiamo spigolare ulteriormente: “spesso rido di me, perchè propriamente questo mio cuore non può sofferire un momento, un solo momento di calma” (22 Novembre 1797);  “io m’inginocchio a ringraziar la Natura che, dotandomi di questa indole nemica di ogni servitù, mi ha fatto vincere la fortuna, e mi ha insegnato a innalzarmi sopra la mia educazione... S’io avessi venduta la fede, rinnegata la verità, trafficato il mio ingegno, credi tu ch’io non vivrei più onorato e tranquillo?... No; nè umana forza, nè prepotenza divina mi faranno recitare mai nel teatro del mondo la parte del piccolo briccone...E tu però mi udivi assai volte esclamare che tutto dipende dal cuore! –dal cuore che nè gli uomini nè il cielo, nè i nostri medesimi interessi possono cangiar mai... Sai tu perchè fra la turba de’ dotti gli uomini sommi sono così rari? Quello istinto ispirato dall’alto che costituisce il GENIO, non vive se non nella indipendenza e nella solitudine, quando i tempi, vietandogli d’operare, non gli lasciano che lo scrivere...Che s’io dovessi far sempre la guardia a questo mio cuore prepotente sarei con me stesso in eterna guerra, e senza pro. Navigherò per perduto, e vada come sa andare...”. Il giudizio che   fa dare da Parini su Jacopo è segno dell’autocoscienza che il Foscolo aveva di sè?: “Un giovane dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto di ingegno, quale sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso o la vittima del potente” ( (Milano, 4 Dicembre).

Se nell’autobiografismo trova spazio anche il pensiero del Foscolo, la sua filosofia già documentata proprio con le Ultime lettere studiando l’Ambiente culturale, potremmo allora aggiungere questo tratto circa l’incerta attitudine nei confronti di Dio: “Eterno Iddio! esisti tu per noi mortali? o sei tu padre snaturato verso le tue creature? So che quando hai mandato sulla terra la Virtù, tua figliuola primogenita, le hai dato per guida la Sventura...” (12 maggio 1798) E ancora: “Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore... Vieni tu dall’altissima vendetta del Cielo?- E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo sulla polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, che altre volte ho candidamente adorato, ch’io non offesi, di cui dubito sempre.- e poi tremo, e l’adoro. Dov’io cerco aiuto? non in me, non negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è negro” ( Ventimiglia, 19 e 20 Febbraio 1799).  Con tali incertezze e contraddizioni collimano due fra i gesti ultimi del protagonista: la ricerca di un volume della Bibbia prima di morire (14 marzo) e la  richiesta al parroco, perchè si esima dalle esequie religiose...

Nell’autobiografismo,  comprendiamo anche l’affetto per i propri cari, l’amicizia, e l’amore.

L’amore è il motivo originario dell’operetta, affine allora ai “Dolori del giovane Werther”, di Goethe. In seguito, il motivo passa in secondo piano nell’intenzione, ma  di fatto prende il sopravvento: se Tersa avesse accettato il suo amore, egli si sarebbe conservato in vita. D’altronde Teresa detta pagine di una esaltazione (prima) e di una desolazione (poi) davvero romanticissime: “La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla...” (26 Ottobre 1797); “-Non sono felice!- mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore.” (20 Novembre); “senza Teresa, io sarei forse già sotterra” (17 marzo 1798); “Sì, Lorenzo! –dianzi meditai di tacertelo- or odilo, la mia bocca è tuttora rugiadosa –d’un suo bacio- e le mie guance sono state inondate dalle lagrime di Teresa. Mi ama –lasciami, Lorenzo, lasciami tutta l’estasi di questo giorno di paradiso” (14 maggio, ore 11); “Non posso essere vostra mai!” (14 maggio, a sera); “Dopo quel bacio io son fatto divino... O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alla più tarde generazioni...” Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore o (che mi spaventa ancor di più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come servo infedele” (15 maggio); “Perdonami, Teresa; io ho funestato la tua giovinezza e la quiete della tua casa; ma fuggirò” (ore 9: del 19-20 luglio 1798); “E ho avuto il coraggio di abbandonarla? anzi ti ho abbandonato, o Teresa, in uno stato più deplorabile del mio. Chi sarà tuo consolatore?...”[71]. “...tutto, insomma, da più tempo era scritto; e tu, donna angelica, potevi soltanto disacerbare il mio destino; ma placarlo, oh! non mai” (23 Marzo 1799); “...il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere” ( 25Marzo 1799). Più in generale, egli giunge a scrivere (dopo il bacio di Teresa): “Tutto è amore... l’universo non è che amore!” (14 Maggio 1798).

In questo travaglio di delusioni, il ricordo della madre ritorna frequente:  è la madre che gli ha consigliato (anche nella realtà di Ugo, non solo nella finzione di Jacopo) di riparare sui colli Euganei; è la madre che, da Venezia, riconsiglia ad Jacopo di partire per una terra straniera, per evitare persecuzioni: egli, che aveva deciso di fermarsi invece, stavolta obbedisce e  vaga per l’Italia; ma il 22 marzo è a Venezia, dalla madre e l’amico Lorenzo riporta stralci del colloquio di addio del giorno seguente, in cui la madre benedice il figlio  e invoca su di lui la bendizione di Dio, mentre Jacopo usa parole equivoche per non darle in anticipo il dispiacere del proposito  disperato. E torna a morire presso Teresa, sui colli.  Intuendo lo strazio che il suo gesto causerà alla madre, Jacopo  tenta consolarsi, affidandola all’amico: “Non ti raccomando mia madre; ben so che avrà in te un altro figliuolo. O madre mia!” Ma il cuore gli grida la verità: “... ma tu non avrai più il figlio, sul petto del quale speravi riposare il tuo capo canuto- nè potrai riscaldare queste labbra morenti co’ tuoi baci. E forse tu mi seguirai!- Io vacillava, o Lorenzo. Or è questa la ricompensa dopo ventiquattro anni di speranze e di cure? Ma sia così! Iddio che tutto ha destinato non l’abbandonerà –nè tu!”  (25 marzo, 1799, giorno del suicidio).

L’amico Lorenzo Alderani testimonia il culto dell’amicizia nel Foscolo, un motivo della sua ispirazione poetica oltre che un fattore di una esistenza serena (armoniosa), quale lui la sogna. Giunge a scrivergli  il 17 Marzo 1798: “Fratel mio Lorenzo, tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai...” ; ed il 20 luglio 1798: “Ma tu, Lorenzo mio, chè non m’ajuti? Io non ti scriveva, perchè un’eterna tempesta d’ira, di gelosia, di vendetta, di amore infuriava dentro di me...”. Insomma, a Lorenzo egli confida tutto, si apre come davanti ad uno specchio: abbiamo letto che anche il bacio ricevuto da Teresa, che avrebbe voluto tenere segreto,  egli giunge a confidarlo all’amico (lettera del 14 maggio 1798). E chiede aiuto: “Vuoi tu versare sul cuore dell’amico tuo qualche stilla di balsamo? Fa che Teresa ti dia il suo ritratto e consegnalo a Michele...” (Bologna, 24 Luglio 1798). Ed  Lorenzo gli si protesta vero amico, in termini che    commenta così: “Eccomi con le lagrime su le tue lettere. Riordinando le mie carte mi sono venuti sott’occhio questi pochi versi che tu mi scrivevi sotto una lettera di mia madre, due giorni innanzi ch’io abbandonassi i miei colli: -T’accompagnano tutti i miei pensieri, o mio Jacopo: t’accompagnano i miei voti, e la mia amicizia, che vivrà eterna per te. Io sarò sempre l’amico tuo e il tuo fratello d’amore; e dividerò teco anche l’anima mia....”(8 Febbraro, ore una e mezzo). Lorenzo  ammonisce, ovviamente,  Jacopo contro la tentazione di suicidio. Jacopo gli risponde così: “E tu, Lorenzo mio –leale ed unico amico- perdona... Ah, finchè io non bramava che un  amico fedele, io vissi felice. Il Cielo te ne rimeriti! Ma e tu pure non ti apsettavi ch’io ti pagassi di lagrime. Purtroppo ti pagherei ad ogni modo di lagrime! Or tu non proferire su le mie ceneri la crudele bestemmia: -Chi vuol morire non ama nessuno- Che non tentai...?” (Venerdì, 25 Marzo, 1799, ore 1)

        Delle Odi, la prima (“A Luigia Pallavicini”) non ha motivi autobiografici:  il poeta non conosceva la Pallavicini. La seconda, se comprendiamo l’amore nei motivi autobiografici del Foscolo,  ne è, almeno materialmente, tutta intessuta. D’accordo,  il  motivo ispiratore formale dell’ode è la celebrazione della bellezza in astratto ed assoluto, ma i ricordi dell’amore per la contessa Antonietta Fagnani Arese sono ancora  trasparenti: è il poeta che gioisce quando “Fiorir sul caro viso|  vedo la rosa” (v. 13); o quando la  osserva ornare di mirto il simulacro di Venere “che presiede marmoreo| agli arcani tuoi lari| ove a me sol sacerdotessa appari” (vv.73-8). Ed ecco il secondo, molto più sentito e commosso, spunto autobiografico: non più pensa Foscolo all’amore, ma a Zacinto ed alle isole “che col selvoso dorso| rompono agli Euri e al grande Ionio il corso”; e pensa alla sua fanciullezza “Ebbi in quel mar la culla.... (già riportati)| 

        I sonetti. Come si è già detto, il motivo ispiratore dominante è l’autore stesso, non solo nei due sonetti intitolati “Il proprio ritratto” (il settimo ed ottavo: diventano tre, con il rifacimento di uno dei due), ma anche in altri quattro che nel titolo stesso denunciano l’autobiografismo (il secondo: “Di se stesso”; il quarto, dallo stesso titolo; il quinto “Di se stesso all’amata”; il dodicesimo “A se stesso”). Tra questi, si son già riportati i due più significativi.

Coinvolti in tale tema sono gli altri due, quelli dell’amore e degli affetti familiari. Ma anche gli altri hanno al centro l’autore:  essi realizzano alla lettera il senso stretto di “poesia (tecnicamente) lirica”, che significa poesia  in prima persona. “Alla sera” è un elogio del tramonto, perchè porta la pace (o, almeno, la cessazione del tormento esistenziale) nell’animo del Foscolo; lo stesso è “Di se stesso all’amata”: i sospiri per la donna del cuore fanno tacere le “cure” o affanni  profondi del poeta; e nel sesto sonetto, “All’amata”, egli si rimprovera di aver abbandonato Isabella Roncioni, pagandone il prezzo  con pene indicibili; nell’ottavo sonetto, “A Firenze”, dopo le due quartine di celebrazione della città geniale, egli la esalta per la felicità trovata in essa, innamorato di Isabella Roncioni. Il nono, “A Zacinto” esalta l’isola natale per angustiarsi di non poterla più rivedere: “Tu non altro che il canto avrai del figlio,| o materna mia terra; a noi prescrisse| il fato illacrimata sepoltura”. “In morte del fratello Giovanni” parla bensì della sorte infelice del fratello, e piange sul dolore della madre orbata dal figlio suicida, ma esprime soprattutto la desolazione della propria vita, che rischia di trascinarlo alla stessa fine: “Sento gli avversi Numi, e le secrete| cure che al viver tuo furon tempesta,| e prego anch’io nel tuo porto quiete”; “Alla Musa” si apre con la nostalgia dei tempi in cui il poetare gli era più spontaneo e frequente: “E tu fuggisti in compagnia dell’ore,| o dea! tu pur mi lasci alle pensose| membranze, e del futuro al timor cieco”...In pratica, solo il terzo sonetto “Per la sentenza capitale... contro la lingua latina” ha un contenuto che non è  immediatamente autobiografico, ma patriottico e culturale

 

Il carme DEI SEPOLCRI .

Il tema generale è la ricerca del modo di dar valore alle esigenze connaturate nell’uomo, eisgenze che culminano nel bisogno di immortalità per dare un senso alla vita, una Provvidenza alla storia, un fondamento alla giustizia. Tale motivo ispratore in tanto è sentito profondamente, angosciosamente dal poeta, in quanto riguarda anche lui, uomo tra gli uomini, disorientato fra disorientati, sgomento fra sgomenti, peccatore fra peccatori. Ed ecco, allora, i numerosi affioramenti della prima persona, dei suoi pronomi ed aggettitivi possessivi, dei ricordi circa il suo passato, dei presagi per il futuro della sua opera poetica. Già al verso terzo, la questione generale circa il significato e funzione del sepolcro (“All’ombra dei cipressi e dentro l’urne| confortate di pianto è forse il sonno| della morte men duro?”)  si confessa come  questione personale: “Ove più il Sole| per me alla terra non fecondi questa| bella d’erbe famiglia e d’animali| e quando vaghe di lusinghe innanzi| a me non danzeran l’ore future,| nè da te, dolce amico, udrò più il verso| e la dolce armonia che lo governa,| nè più nel cor mi parlerà lo spirto| delle vergini muse e dell’amore,| unico spirto a mia vita raminga,| qual fia ristoro ai dì perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite| ossa che in terra ed in mar semina morte?” (vv. 1-15). Questo coinvolgimento autobiografico continua per tutto il componimento, senza nulla togliere dalla gravità oggettiva e dalla universalità umana della problematica che ne anima il canto. Nei versi 145-150 troviamo un’invocazione per una sepoltura che sia oasi di pace pel poeta e sprone ad operare nella generosità ed a lottare per la libertà: “A noi| morte apparecchi riposato albergo,| ove una volta la fortuna cessi| dalle vendette e l’amistà raccolga| non di tesori erdità, ma caldi| sensi e di liberal carme l’esempio”. Poco dopo, il pronome “io” apre un volo pindarico che si espande  per ben  35 versi (154b-188a), in un periodo che è logicamente ineccepibile nella sua  celebrazione ascensionale da  un privilegio all’altro della terra toscana e di Firenze in particolare,  ma che, anticipando inaspettatamente il motivo della ricchezza paesaggistica e letteraria rispetto a quella (psicologicamente attesa dal lettore) costituita dagli artisti, scienziati e patrioti sepolti in di Santa Croce , rende non poco difficoltoso la comprensione del ragionamento foscoliano alla prima lettura.[72]  Felice sei, o Toscana, per i tuoi paesaggi; grande sei, o Firenze, per i sommi poeti Dante e Petrarca, ma sei ancora più fortunata, perchè in santa Croce “serbi l’itale glorie, uniche forse| da che le mal vietate Alpi e l’alterna| onnipotenza delle umane sorti| armi e sostanze t’invadeano ed are| e patria e, tranne la memoria, tutto.| Che ove speme di gloria agli animosi| intelletti rifulga ed all’Italia, |quindi trarrem gli auspìci”.

Ed anche il sublime  finale, che vuole  credere almeno nell’immortalità della memoria, attraverso l’opera dei poeti sommi, che tramandano ai posteri le imprese dei  giusti, degli eroi, dei geni dell’umanità, ha un aggancio autobiografico: la funzione eternatrice di Omero rispetto alle vicende ed eroi di Troia e di Grecia è la missione che anche Foscolo intende assumersi e spera di realizzare: “E me che i tempi ed il desio di onore| fan per diversa gente ir fuggitivo,|me ad evocar gli eroi chiamin le Muse,| del mortale pensiero animatrici...” (vv. 226-9).

La battaglia per la sopravvivenza dell’uomo è troppo radicale perchè Foscolo non la soffra all’ultimo grado, non la combatta sino all’ultimo  sforzo di ragione: è la battaglia per la sua immortalità, per il senso della sua vita, per  la ragionevolezza della sua perseveranza nel vivere ed operare.

 

Le Grazie sono di un soggettivismo tanto più scoperto quanto meno commovente.  L’intervento del poeta è sentito dal lettore come troppo poco spontaneo, una delle cause della lenta,  impacciata,   espressione del tema; è un indizio della carente progettazione complessiva e della imperfetta  specificazione di molti particolari. Ecco  l’apertura dell’Inno primo: “Cantando, o Grazie, degli eterei pregi| di che il Ciel v’adorna, e della gioia| che vereconda voi date alla terra,| belle vergini! a voi chieggo l’arcana| armoniosa melodia pittrice| della vostra beltà; sì che all’Italia, afflitta da regali ire straniere,| voli improvviso a rallegrarla il carme”.  (I, 1-8)  E’, questo inizio, quasi una invocazione alla musa, chè il lavoro assomiglia ad un poemetto allegorico-mitologico, con  troppo generici riferimenti ad interiori vicende umane (di evoluzione a stadi, ora superiori ora recessivi, di civiltà). Ma invocazione non è: è, invece, colloquio confidenziale che non riesce, però,  a ricreare quella intimità di affetti che hanno  segnato la sublimità estetica dei Sepolcri, salvo il muto dialogo fra la Musa Erato e Flora nel progettare e tessere il manto delle Grazia, nel  già riportato passo dell’Inno III, vv. 169-212.

Tralasciando l’immediatamente successivo  invito al Canova, cui il carme è dedicato (vv. 9-27) ed in cui pure brilla il forte principio critico-letterario “Sdegno il verso che suona e che non crea” (v. 25), leggiamo i versi che salutano Zacinto, l’isola vicina a Citera ove le Grazie nacquero: “Salve, Zacinto! all’antenoree prode,|de’ santi Lari Idei ultimo albergo| e dei miei padri, darò i carmi e l’ossa,| e a te il pensier:| chè piamente a queste| dee non favella chi la patria obblia” (vv.48-52).

Riportiamo i vv. 377-398 del primo Inno perchè, a parte la lieve animazione lirica, standard per il carme tutto,[73] espongono la trama complessiva dell’operetta: “Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato| ah! da gran giorni omai profughe in terra| alla Grecia vi tolse, e se l’Italia,| che v’è patria seconda i doni vostri| misera ostenta e il vostro nume oblìa?| Pur molti ingenui de’ suoi figli ancora| a voi tendon le palme. Io finchè viva| ombra daranno a Bellosguardo i lauri,| ne farò tetto all’ara vostra, e offerta| di quanti pomi educa l’anno, e quante| fragranze ama destar l’alba d’aprile| e il fonte e queste pure aure e i cipressi| e il segreto mio pianto e la sdegnosa| lira e i silenzi vi fien sacri e l’arti.| Fra l’arti io coronato fra le Muse,| alla patria dirò come indulgenti| tornate ospiti a lei, sì che più grata| in più splendida reggia e con solenni| pompe v’onori: udrà come redenta| fu due volte per voi, quando la fiamma| pose Vesta sul Tebro e poi Minerva| diede a Flora per voi l’attico ulivo.....”

Dell’Inno II, l’inizio è decisamente in “io”: “Tre vaghissime donne a cui le trecce| infiora di felici itale rose| Giovinezza, e per cui splende più bello| su lor sembiante il giorno, all’ara vostra| sacerdotesse, o care Grazie, io guido”. Il concetto ritorna con le stesse due parole al v. 52, mentre più attenuato si fa nel plurale “patrio” del v. 190 (“nostro”= italiano ) e del v. 340 (“a noi” Italiani), salvo a rifarsi perentoriamente singolare dal v. 401 (“odo”) al v. 463 (“meco”) ed ai vv. 553-561 (“mie, miei”). Ma anche quando il poeta non parla in prima persona, è sempre presente come maestro di cerimonie,a significare l’azione delle Grazie o dei devoti in loro favore. E questo atteggiamento del “pedagogo, precettor d’amabil rito” finisce per diventar mortificante, come in Parini, anche nel poemetto foscoliano. La costruzione intellettuale dell’azione non è superata ed impaccia l’espressione dell’emotività, anzi ne impedisce l’insorgere, visto che la mente è preoccupata ad organizzare  contenuti di idee e significati di scene cultuali. Fra i casi in cui le parole del grande “cerimoniere” riescono più vive, ci sono i versi 30-37: “Date principio, o giovinetti, al rito| e da’ festoni della sacra soglia| dilungate i profani. Ite, insolenti| genii d’Amore e voi, livido coro| di Momo; e voi, che a prezzo Ascra attingete.| Qui nè oscena malia nè plauso infido| può nè dardo attoscato: oltre quest’ara| cari al volgo e ai tiranni, ite, profani.”

Altrove l’ammonimento si fa commosso: “Gioia promette e manda pianto Amore” (v. 42: verso ripreso in III, 160); “...O nati al pianto| e alla fatica, se virtù vi è guida,| dalla fonte del duol sorge il conforto” (vv. 90-2).

Nel terzo Inno (Pallade), l’imperativo dell’organizzatore del culto alle Grazie continua ad essere il segno dell’autobiografismo prepotente nel carme: il poeta ancora esce dall’ombra parlando in prima persona. Come all’inizio: “Pari al numero lor volino gli’inni| alle vergini sante, armoniosi| del pellegrino suono uno e diverso| di tre faville. Intento odi, Canova; ch’io mi veggio d’intorno errar l’incenso, qual si spandea sull’are a’ versi arcani| d’Anfione...” (vv.1-7). L’intervento esplicito del poeta ritorna in apertura della seconda parte (vv.76-8: “E a me un avviso Eufrosine, cantando| porge, un avviso che da Febo un giorno| sotto le palme di Cirene apprese”. 

Ed ecco, dopo il ricamo del velo, intessuto da Flora sotto le direttive esplicite di Erato, cui suggerisce con un silenzio ispiratore Psiche, nei versi commossi 169-212, ecco il saluto del poeta: “Addio, Grazie, son vostri, e non verranno| soli quest’inni a voi, nè il vago rito| oblieranno di Firenze ai poggi| quando ritorni April...”. Ancora una volta, vorremmo sottolineare come il mancato “secondo miracolo poetico”, dopo i Sepolcri, è dovuto in parte proprio al coinvolgimento pratico-personalistico dell’autore nella vicenda: l’argomento non è decantato dalle finalità pratiche (celebrare l’opera del Canova e le tre donne del cuore Eleonora, Cornelia, Maddalena) e  non è riuscito a portare la convinzione della funzione civilizzatrice dell’arte (poesia in particolare) al calor bianco di una partecipazione emotiva profonda e commossa. Come per Manzoni  “Urania”  tutta, così per Foscolo quasi tutti i versi delle Grazie sono rimasti espressione di una convinzione intellettuale, di un programma razionale, senza il coinvolgimento adeguato della sfera neurovegetativa. E, nelle Grazie, la presenza del poeta come regista della scenografia del poemetto, è un segno di tale stato ambiguo della materia, che non ha bruciato tutte le scorie, tutte le strutture progettuali e schematiche che ne dovevano essere pura preparazione ed introduzione.

 

Il motivo storico-mitologico.

 Uniamo le due tematiche, perchè subordinate alla componente più sentita e sofferta dal poeta, quella filosofico-umanistica, antropologico-esistenziale di cui si è parlato. Foscolo ha una felice levità di mano nell’incanalare tanto i fatti e i personaggi reali (della storia, dunque) quanto le favole classiche ed i loro protagonisti immaginari (magari reinventati dal poeta stesso) , al punto che egli appare indifferente nel saccheggiare il patrimonio storico della umanità come nell’usufruire del bagaglio mitologico in cui la fantasia ama sognare ed illudersi.

A Luigia Pallavicini caduta da cavallo presenta nei primi trentasei versi una tale fusione e confusione di verità cronachistica e di affabulazione mitologica, che quest’ultima serve da eufemistica copertura ad operazioni reali e dolorose. Difatti medici e infermiere, medicinali e medicazioni, pianti di parenti ed amici, la bellezza della donna, le sue danze, il suo canto, tutto viene così trasfigurato: “I Balsami beati| per te le Grazie apprestino,| per te i lini odorati| che a Citerea porgeano| quando profano spino| le punse il piè divino,|| quel dì che insana empiea| il sacro Ida di gemiti,| e col crine tergea| e bagnava di lagrime| il sanguinoso petto| al ciprio giovinetto.|| Or te piangon gli Amori,| te fra le dive liguri| regina e diva! e fiori| votivi all’ara portano| d’onde il grand’arco suona| del figlio di Latona.|| E te chiama la danza| ove l’aure portavano| insolita fragranza,| allor che, a’ nodi indocile,| la chioma al roseo braccio| ti fu gentile impaccio|| Tal nel lavacro immersa,| che fiori, dall’inachio| clivo cadendo, versa,| Palla i dall’elmo liberi| crin su la man che gronda| contien fuori dall’onda.|| Armoniosi accenti| dal tuo labbro volavano,| e dagli occhi ridenti| traluceano di Venere| i disdegni e le paci, la speme, il pianto, e i baci.” Ma che cosa è, dunque, successo? Il cavallo su cui l’amazzone cavalcava si è imbizzarrito ed è entrato nel mare, mettendo a rischio mortale la giovane. Ma ad evitare il peggio, ecco l’intervento degli dei: “Se non che il re dell’onde| dolente ancor d’Ippolito,|surse per le profonde| vie del tirreno talamo| e respinse il furente| col cenno onnipotente” L’agurio della completa guarigione viene espresso da Foscolo con la coniazione di un nuovo capitoletto nella mitologia di Diana: “Di Cinzia il cocchio aurato| le cerve un dì traeano,| ma al felino ululato| per terrore insanirono;| e dalla rupe etnea| precipitar la Dea.|| Gioian d’invido riso| le abitatrici olimpie| perchè l’eterno viso,| silenzioso e pallido,| cinto apparia d’un velo| ai conviti del cielo.|| Ma ben piansero il giorno| che dalle danze efesie| lieta facea ritorno| fra le devote vergini,| e al ciel salia più bella| di Febo la sorella”.

 

        I sonetti.

Ispirati prevalentemente alla persona del poeta, lasciano ai margini sia la storia che la mitologia. Ma non la obliano del tutto. Alla Musa è un discorso (anzi un lamento) alla mitica personificazione del proprio genio poetico: è la espressione della nostalgia per i giorni più giovanili e più facili alla traduzione dei propri affetti in versi liricamente vivi, ricchi di musica-in-parole.

A Zacinto accenna in versi toccanti al mare Ionio, dalle cui acque Venere sorse a civilizzare la terra; e ad Ulisse, che vi ebbe una tappa, nella peregrinazione  inflittagli dagli dei dopo la conquista di Troia. “Gli avversi numi” sono, d’altronde, in agguato anche per Niccolò-Ugo, a sospingerlo verso la morte disperata del suicidio, come è accaduto al fratello (In morte del fratello Giovanni). In questo sonetto tendono a divenire personaggi mitici o deità personificate tutti i moti dell’animo: accanto agli “avversi numi” vi sono infatti “le secrete cure” (il tormento assiduo nel profondo dell’animo). E’ questa una trasposizione congeniale al Foscolo, che nel sonetto Alla sera fa della Notte e delle “liete nubi”, degli “zefiri sereni”, delle “inquiete tenebre” e del “reo tempo”  quasi delle essenze psicologiche, parallele alle (ancor qui ricordate) “cure” od affanni e parallele allo “spirto guerrier ch’entro mi rugge”. Il confine fra stati d’animo, mutamento di clima e spiriti invisibili del creato scompaiono in favore di una Natura animata e di una umanità ridotta a natura sensibile ma irrazionale. Anche il tramonto del secolo XVIII (ultimo sonetto: A se stesso) “personifica” il tempo nel primo verso (“Che fai? Già il secol l’orma ultima lascia”).[74]

Con questo processo la mitologia e la storia segnano il passaggio dall’autobiografismo alla ideologia; costituiscono la tappa intermedia, anzi la via di contrabbando con cui l’autobiografismo trasgredisce nella ideologia.

 

Il carme  DEI SEPOLCRI approfondisce questo procedimento: storia e mitologia si fondono a “personificare” le forze che presiedono, determinanti, all’esistenza degli individui, al loro mescolarsi nella società e perdurare nei secoli. Costituiscono, in realtà, un “lapsus”, cioè un indizio involontario, della sorgente autobiografica alla ideologia foscoliana: sono la chiave, anzi il grimaldello per cui il suo personale modo di sentire la vita trapassa a filosofia dell’esistenza umana tutta e dell’essere in generale. La chiave di transizione (anzi, si è detto sopra, di “trasgressione”) dal proprio mondo affettivo, che sente la vita come dettata da impulsi incoercibili, alla antropologia, che fa dell’uomo un capriccio del caso (inaccessibile ad una provvidenza divina) e il risultato caotico di forze irrazionali  (impervie alla libertà dell’uomo) è forse proprio costituita da questi due fattori: da una parte, la lettura della storia come la  proiezione su scala universale del groviglio inestricabile di forze prepotenti nell’animo del poeta, della sua propria esperienza, cioè, di incapacità a dominare il proprio mondo neurovegetativo da parte della coscienza e della ragione; dall’altra, la tendenza a vedere i miti dell’antichità pagana come interpretazioni vere e non deformazioni della vita umana e della sua storia. Ecco: le favole del mondo greco intese come strumento per una diagnosi   dell’inconscio o subconscio umano, interpretate, poi, unilateralemnte come espressione di detrminismo meccanicistico della esistenza singola, sociale e storica dell’uomo. E’ l’indubbio margine di incomprensibilità razionale del rapporto giustizia-successo nella vita che prende il sopravvento e  trasforma tale parziale incongruenza in negazione totale, in   una filosofia della disperazione, di colui che nega un rapporto anche a distanza, strategico fra tali valori, perchè vorrebbe il rapporto virtù e premio, delitto e castigo realizzato prontamente sulla terra.

 

Si comincia col mitizzare la NATURA, che fa pervenire al “passeggier solingo” il “sospiro” che affiora dal sepolcro (vv. 49-50); e che “con veci eterne” destina i miserandi avanzi” dei defunti “a sensi altri”, cioè ad altre forme di essere o di vita (vv. 95-96).[75]

 

Il SOLE, chiamato “ministro maggior della Natura” nelle Ultime lettere (20 Novembre 1797) è nominato colla maiuscola cinque volte, dal terzo al penultimo verso: è  l’astro che “feconda questa questa| bella d’erbe famiglia e d’animali” (vv. 4-5); da cui gli amici rapiscono “una favilla...| a illuminar la sotterranea notte,| perchè gli occhi dell’uom cercan morendo| il Sole...” (vv. 119-23); che, immoto, illumina i pianeti che gli ruotano attorno (vv. 161-2); e che risplende “sulle sventure umane” (v. 295).

 

Come il Sole, così anche il TEMPO viene deificato: sono sue le “ore” che “vaghe di lusinghe” danzano innanzi ai viventi,  illudendoli per una vita ancor lunga (vv. 6-7); è lui che “traveste “l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel” (vv. 20-22). Immedesimata col Tempo e con la Natura è quella “forza operosa” che “affatica di moto in moto” la materia eterna e caotica (vv. 19-22). Forza attiva di vita è quella ispirazione poetica, che diventa “lo spirito delle vergini Muse e dell’amore” (vv. 10-11); così come lo è la speranza, divinizzata anch’essa: “Anche la Speme,| ultima Dea, fugge i sepolcri” (vv. 16-17). In contrapposizione alla  “VITA” sta “l’obblio”,  forza distruttrice che “involve| tutte cose.... nella sua notte” (vv.18-19). Forma ideale di Vita è invece quella potenza misteriosa ma sublime che egli chiama “ ARMONIA”, forza organica e spirituale, psicologica e cosmica che è inseparabile dalla luce, cui essa, che è fattore musicale, sembra dare la parola (v. 27). Essa governa il verso (v. 9), cioè lo anima e gli conferisce una forza che lo rende fattore di vita, capace di superare l’oblio e la notte, la distruzione del tempo e la barbarie dell’uomo: “... e quando| il tempo con sue fredde ali vi spazza fin le rovine, le Pimplée[76] fan lieti| di lor canti i deserti e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”. Anche gli “amorosi sensi” che conservano la presenza e, in qualche modo la vita, dei cari defunti, sono “celeste... corrispondenza... celeste dono... negli umani” (vv 29-31). La musa Talia è la ispiratrice della poesia ironico-satirica del Parini, che della dea diventa sacerdote (vv.53-90). Ed ecco che, gradatamente tutto si fa divino:  nella classicità pagana “cipressi e cedri| di puri effluvi i zefiri impregnando| perenne verde protendean su l’urne| per memoria perenne” (vv. 114-7), così  che “di fiori odorata arbore amica| le ceneri di molli ombre consoli” (vv. 39-40); gli spiriti dei trapassati ascendono a”geni” della patria (v. 134), accanto ai tradizionali “domestici Lari” della mitologia romana (v. 99); il rito pagano del prender cibo sulle tombe dei defunti diventa una scena non solo dignitosa, ma sublime: “e chi sedea| a libar latte e a raccontar sue pene| ai cari estinti, una fragranza intorno| sentìa qual d’aura de’ beati Elisi” (vv. 126-9)[77];  la felice geografia toscana  diventa in qualche modo mediatrice fra terra e cielo (“e le convalli| popolate di case ed’oliveti| mille di fiori al ciel mandano incensi”: vv. 170-2); la morte è potenza benigna, che metterà fine alle“vendette” della fortuna (v.147), così come ha reso giustizia ad Aiace Telamonio, strappando le armi di Achille dalla prora d’Ulisse (che le aveva ottenute con l’inganno) e portandole sul sepolcro del più forte eroe greco dopo il figlio di Teti: “a’ generosi| giusta di glorie dispensiera è morte...” (218-25, già citati a pp. 17-18). E la vegetazione, messa a cultura per gusto di bellezza, ma presto sorgente d’ombra e frescura ai tumuli degli eroi troiani, è chiamata a far parte del mondo divino, divenuta cintura di protezione per i sepolti: “E voi, palme e cipressi che le nuore| piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!| di vedovili lagrime innaffiati,| proteggete i miei padri...” (272-78, già citati a pp. 17 e 35). D’altronde anche l’Oceano diventa padre innamorato, che abbraccia le terre quasi suoi figli; difatti Omero, col suo canto immortale, “i prenci argivi eternerà per quante| abbraccia terre il gran padre Oceàno” (vv. 290-1). La stessa “religiosa pace” dei sepolcri non è morte, ma vita ed i protagonisti dell’umana storia parlano dalle tombe  e “A egregie cose il forte animo accendono| l’urne dei forti, o Pindemonte; e bella| e santa fanno al peregrin la terra| che le ricetta” (v.151-154a).  Segue, poi, tutto il brano dedicato ai monumenti sepolcrali di S. Croce in Firenze (vv. 151-198: già citati in   parte a p. 17 ), cui si agglutina, per memoria spontanea, l’evocazione delle grandi gesta di Maratona (vv. 199-212) e di quelle dei Greci e Troiani, nella guerra omerica tramandata dall’Iliade (vv. 213-95). E qui ci pare proprio che venga confermato come sia proprio la mitologia, la quale dà uno spirito umano, anzi divinizza la natura,  a segnare il passaggio dall’autobiografismo del Foscolo alla ideologia neoclassica e oltre: la via alla immortalità, da lui auspicata, sta proprio nell’esercizio adeguato della genialità poetica. Se i garanti della sopravvivenza psicologica e socio-culturale degli eroi greci e troiani, caduti per la conquista|difesa di Troia, sono  i poemi di Omero, egli vuole esserne il prosecutore: “E me, che i tempi ed il desio d’onore| fan per diverse genti ir fuggitivo,| me ad evocar gli eroi chiamin le Muse, del mortale pensiero animatrici” (vv. 226-9). In questa funzione eternatrice della poesia, storia e mito,uomini e divinità si passano il testimone, in un’opera che rimane intelligente e benefica, nonostante tutte le negazioni della ragione razionalista. Omero è,  radicalmente, personaggio storico, ma a lui si affianca la mitica Cassandra, la vergine inutilmente amata da Apollo e destinata , per punizione, a profetare il vero senza essere mai  creduta: entrambi aiutano a vincere il “tempo” che, delle tombe, “con sue fredde ali vi spazza| fin le rovine” (v.v. 231-232). Si crea, cioè, una simbiosi in cui storia e mitologia, esperienza secolare e fede religiosa finiscono per imporre la  certezza di una provvidenza (sia pur immanente), quale il sentimento esige; e l’arte, la poesia sanno   impersonare e spingere ad agire secondo le esigenze di verità, giustizia, felicità: “le Pimplée fan lieti| di lor canti i deserti, e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio” (vv. 232-4). [78] Contro i sofismi dell’Illuminismo, la personalità più profonda di Foscolo si ribella e chiama a raccoltà la propria esperienzza sentimentale (il “cuore” sincero, spontaneo, in lui eterno oppositore della ragione sofistica e calcolatrice), la propria  cultura storica, la forma di religione a lui più congeniale (quella pagana) per poter affermare, con un atto di volontà vincitore, la immortalità del vero, del bene, del successo, del progresso (felicità).

 

E veniamo a LE GRAZIE, dove il processo di fusione fra autobiografismo-storia-mitologia si va sfaldando, con il predominio della religione classico-pagana, ormai unico referente di immortalità.   Il razionalismo ha finito per prevalere ed i “valori” hanno una esistenza solo illusoria, secondo una stretta adesione all’ideologia neoclassica.  Verità, giustizia e felicità sono chimere, che l’arte illude essere reali, perchè, attraverso il  fascino delle emozioni in essa espressi, si oblia la  tristezza della vita e del destino umani e ci si unisce spiritualmente ai popoli ingenui dell’antichità classica, che credevano ai miti e, quindi, anche al mito per eccellenza della immortalità.[79]

A cominciare dai versi 28-37 (“eran l’Olimpo e il Fulminante e il Fato| e del tridente enosigeo tremava| la genitrice Terra; Amor dagli astri| Pluto feria: nè ancor v’eran le Grazie...”), il carme è sostanzialmente poesia mitologica. Nei tre Inni si alternano Venere, Vesta, Pallade, Eufrosine (Allegrezza), Aglaia (Splendore), Talia (Floridezza), Amore e Momo, Erato e Flora, Psiche e Astrea, Clio, Urania, il Fato, il Genio, Armonia, la Speme, Pale, Bellona, Ebe, Febo, Marte, le Gorgoni, Giove, le Ninfe, Plutone, l’Olimpo, la mitica terra d’Atlantide. Solo in questo continente fantastico l’umanità sarà virtuosa e perciò ospite degna delle benefiche Grazie.

Decisamente minori sono gli spunti realistici del poemetto. Vi è la dedica al Canova, che ritorna all’inizio di ogni parte (I, 16; II, 48-9; III, 4). Si ritrova la lieve trama storico-ideale dell’incivilirsi dell’umanità, perchè le Grazie portano  l’inizio della  spiritualità ovunque arrivano: dapprima nell’Ellade; poi, dopo l’invasione dei Turchi Ottomani, in Italia (II, vv. 268-74); infine, nell’Atlantide (III, 110), dopo che col Decamerone, le dispensatrici di umanità vennero offese per l’impudenza di Dioneo-Boccaccio.  Vi sono coinvolte le tre donne che sul colle di Bellosguardo preparano un rito in onore delle tre Grazie (II, 1-5; 56-74): Eleonora Nencini (di Firenze) è simbolo della musica; Cornelia Rossi Martinetti (di Bologna),  rappresenta la poesia; Maddalena Marliani-Bignami (di Milano) impersona la danza e suona l’arpa.[80] Vi sono anche immagini tratte dalla realtà contemporanea e, fra esse, quella di II, 124-38, che si riferisce alla vita lungo le  spiagge del lago di Como, è la più realistica. Vi si descrive il movimento di barche e gitanti sulle acque;  la vita delle sponde, animata da pastorelli col gregge e da cacciatori con branchi di cani; e soprattutto “di Lecco il malleo domator del bronzo” che “tuona dagli antri ardenti” (II, vv.133-4), cioè il fragore  di una  delle più avanzate industrie metallurgiche italiane. E’ forse l’unico accenno, in tutte le scritture del Foscolo, al processo  di sviluppo tecnico dell’umanità, cui il poeta era complessivamente insensibile, sbilanciato come era  nel  geniale, ma unilaterale sviluppo della  intelligenza umanistica.

Man mano che  il Foscolo procedeva verso la maturità, sempre più coerente è lo sviluppo dei suoi interessi e motivi ispiratori: regredisce nettamente il richiamo (testimoniato dal Pellico, oltre che dalle Ultime lettere) della Weltanschauung cristiana, ma si vanifica anche il contatto con la realtà della società italiana e internazionale. Egli non riesce a intuire che “i valori” sono in via di attuazione, sia quelli socio-politici da lui alfierianamente auspicati; sia quelli letterari, che egli  commentava con tanta acredine dalla Svizzera e da Londra. Non sapeva sperare che la libertà d’Italia  fosse distante poco più dello spazio di una generazione dalla sua morte; non riusciva a comprendere che la poesia italiana non era finita con lui, ma stava già avendo un rigoglio sorprendente, col Manzoni,[81] e stava preparando altri capolavori, in versi (Leopardi e Carducci) ed in prosa (il Verga), nel  corso di una o due generazioni. Egli si andava chiudendo sempre più nella mitologia o nello scavo di quei grandi  scrittori del passato, che erano stati in grado di ricostruire  fede nei valori, ottimismo nella vita,  fiducia nelle capacità di giustizia da parte degli uomini, ma appunto come “poeti” cioè come creatori di illusioni per la mente  e consolazioni pel cuore, al di fuori del reale e del vero.

Eppure, nei Sepolcri, egli aveva fatto un passo innanzi rispetto a questa posizione neoclassica: aveva voluto credere nella immortalità degli uomini degni, grazie al ricordo che l’arte e particolarmente la poesia  mantengono lungo i secoli, eccitando emulazione ed imitazione. Ora, per lui sempre più orgoglioso e malato, si trattava proprio soltanto di sogno, di illusione, di oblio dell’arido, crudo, inesorabile vero. Dobbiamo ora guardare in faccia a questa fonte prima, motivo supremo della poesia foscoliana.

 

IL MOTIVO IDEOLOGICO DELLE VERITA’|ILLUSIONI (o dei VALORI)

 

Natura e autobiografismo, storia e mitologia si polarizzano attorno al problema dei problemi, quello del significato dell’uomo e della sua vita: chi è l’uomo; qual è il fine della esistenza umana; c’è posto nella vita per la verità o finisce per trionfare dubbio e menzogna; come mai si cerca la felicità e si incontra il dolore e il fallimento; dove sta la giustizia se nella storia trionfano i malvagi e soccombono i  buoni, sicchè non  è dato proprio di costatare il rapporto, pur  esigito dalla sensibilità umana più profonda, di virtù-premio e di delitto-castigo; perchè “promette gioie e manda pianto amore”[82]; come mai gli uomini si dilaniano in guerre e aspirano ad opprimere i più deboli, anche se innocenti; esiste una Intelligenza o Provvidenza nello svolgersi delle vicende umane oppure il caso domina inesorabile; soprattutto, c’è vita oltre la tomba o lo spirito è mortale  come quello dei bruti? E ancora: la “natura” è amica dell’uomo o coincide con il “Fato” (“Natura”) e guarda impassibile e  indifferente ai mali dell’umanità “finchè il Sole| risplenderà sulle sciagure umane?”[83]

La vita del poeta (autobiografismo), con le sue innegabili tensioni verso il meglio e le sue sconcertanti malefatte, con il suo bisogno inappagato di “armonia” e di pace non costituisce già una prova che un destino è  “congenito” a tutta l’umanità, lo stesso che “deterministicamente” travolge lui verso una “illacrimata sepoltura” (A Zacinto), dopo un’esistenza in cui inutilmente attende che “la fortuna cessi| dalle vendette” [84] ? E la storia non è forse un guazzabuglio di vicende insensate, ove il caso domina, sicchè spesso i candidi ed i geniali soccombono e trionfa, invece, la forza bruta o la fallace malizia? E molti miti non vogliono universalizzare proprio queste irrazionalità dell’umana vicenda, condannando alla sconfitta gli eroici difensori di Troia; e, nel campo Acheo, destinando al successo l’astuto Ulisse contro i meriti di Aiace Telamonio, che si uccide per non vedersi aggiudicate le armi di Achille, destinate al più forte tra gli alleati  del Pelìde?

 Si tratta delle domande fondametali che, in una forma o nell’altra, ogni uomo si pone e che specialmente andavano ponendosi gli uomini a cavallo dei due secoli “l’un contro l’altro armato”[85], che avevano assistito alla tragedia della rivoluzione, come risultato della allegra negazione, da parte degli “enciclopedisti”, delle  credenze etico-religiose che avevano convinto le menti, persuaso il sentimento e consolato il cuore dei cristiani medioevali. Si tratta di domande che si richiuderanno nella risposta tradizionale della Chiesa cattolica con la conversione di René de Chateaubriand e di Joseph de Maistre, di François-Pierre de Biran, di Alessandro Manzoni, del Monti, di Silvio Pellico,  di Carlo Porta e di Friedrich Schlegel; ma che diverrano fonte di lacerazioni intime in Leopardi e nel complesso dei pensatori romantici della prima metà del secolo XIX in tutta Europa.[86]

Ma non sono queste le uniche due  soluzioni –opposte e contradditorie- ipotizzabili. Se il Neoclassicismo si accontentava di “evadere” nella contemplazione artistica dalla sofferenza “metafisica” nascente dalla coscienza razionalistica dell’umana condizione, nella più parte dei letterati romantici insorge questa convinzione sofisticata eppure non priva di verità e di fascino: vero o non vero, il cristianesimo ci è necessario per ben vivere ed operare costruttivamente; occorre accettarne lo spirito complessivo (se non le singole verità dogmatiche) se si vuole ritrovare pace interiore e possibilità di convivenza civile. Dobbiamo sentire e vivere come se il cristianesimo fosse vero.  In qualche  misura, precursore di tale corrente di pensiero, equivoco ma suggestivo, è stato certamente il Foscolo, il cui atteggiamento è definito esattamente come “pessimismo attivo”. Questa, però, è la posizione più matura, complessa e paradossale del poeta, che vi premette, quasi     tesi ed antitesi contrastanti, dapprima la negazione sofferta ma radicale dei valori; e, poi, la loro affermazione serena ed esultante, perchè frutto della inibizione della coscienza della loro  vanità e della conseguente aderenza alla loro illusoria promessa di felicità.

 L’atteggiamento pessimistico primario, lo possiamo descrivere con una terminologia rintracciabile più di una volta in Foscolo, anche se non con quella integralità ed ordine con cui venne poi sistematizzato nelle tre grandi antinomie  (dissociazioni) rilevate  dall’esistenzialismo tedesco del primo dopoguerra (Karl Jaspers e Martin Heidegger), al seguito delle considerazioni che   tre geenerazioni prima aveva avanzato Soren Kierkegaard (1813-1855).

L’uomo ideale, astratto, universale[87] si sente fatto per la VERITA’, LA FELICITA’ E LA GIUSTIZIA: sono queste LE  ESIGENZE, ISTANZE, ASPIRAZIONI, STREBUNGEN (tensioni) di una umanità minima, i valori essenziali della vita ragionevole, di fronte  ai quali ricchezze e onori, bellezza e piaceri, successo e persino longevità perdono d’importanza., risultando dei valori superflui, marginali, supererogatori

 L’uomo storico, concreto, singolo  scopre che tali ideali risultano irrealizzabili, impervi, adiaporetici (impraticabili, non transitabili): si  rivelano illusori.

 L’uomo, infatti, è errante e dubbioso, incerto e disorientato sulle verità più urgenti (quelle esistenziali, sopra elencate). Quanto alla felicità, tutti hanno esperienza dei dolori fisici e morali, dei fallimenti e delusioni, che la vita anche più fortunata presenta; e inesorabile ed universale è, poi, lo scacco finale della morte. Aporia (difficoltà, cioè, insuperabile) ancora più evidente è la coerenza morale,  la cui mancanza è anche causa di non poca parte delle tristezze della vita: la incapacità di vivere all’altezza delle esigenze più urgenti della coscienza, la costatiamo più facilmente nelle debolezze, difetti, colpe, malvagità altrui ma, se siamo sinceri, la ritroviamo in noi stessi, che “vediamo il bene e lo approviamo, ma seguiamo poi il peggio”.[88] L’uomo non è all’altezza della  perefzione, della misura di umanità cui pure si sente prepotentemente chiamato. La verità è deformata con una maschera e l’uomo diventa attore, cioè ipocrita[89]; chi la cercasse sul serio finirebbe per apparire pazzo e deve mettersi il berretto a sonagli; chi insistesse a ricercarla, finirebbe nel vicolo cieco di un “Così è (se vi pare)”, di “Uno nessuno e centomila” o del “Fu Mattia Pascal”;  oppure cadrebbe nella tragedia di Edipo che la trova a sua perdizione; o di don Chisciotte, che vi impazzisce; ecc. La felicità è una chimera, introvabile come l’araba fenice  o come l’ariostesca Angelica, che più la si insegue, più la si perde. Sulla giustizia parlerà amaramente Manzoni, non molti anni dopo il Foscolo. Alla esclamazione di Renzo: “C’è finalmente giustizia a questo mondo!”, egli commenterà “Tanto è vero che quando un uomo è sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica”.   Chi, poi, come Jacopo Ortis, vuole vedere subito la verità riconosciuta, la bontà premiata, la felicità raggiunta, si dispererà sino al suicidio. Un atteggiamento non lontano dalla vita reale del Foscolo, se si tengono presenti sia il sonetto “Di se stesso” (“e so invocare e non darmi la morte”); sia le citate lettere a Luisa Stolberg del 21 Dicembre 1815  ed a Santorre di Santarosa del 10 Settemre 1824.

Nell’uomo vi sono dunque contraddizioni, dissociazioni, aporie: bisogni cocenti ma irrealizzabili, esigenze profonde ma incolmabili, necessità primarie destinate a rimanere inevase. E’ questo il primo momento della posizione mentale del Foscolo, decisamente pessimistico. Lo documenteremo ovviamente con brani dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Ma ecco il secondo momento, quello ottimistico e,  in apparenza almeno, del tutto positivo. Forse avranno giocato anche fattori autobiografici, sia pure transitori ed effimeri.  Egli è stato giovane ed ha avuto momenti di esultanza sia  nel successo con molte donne sia nella attesa di una palingenesi politica, che la rivoluzione francese aveva disegnato e le prime vittorie di Napoleone sembravano poter diffondere in tutta Europa. Per di più egli ha la coscienza di essere un grande poeta e, nonostante la povertà e le emerginazioni che lo assillano, sa di avere diritto ad una fama immortale ed ha gustato il  trionfo alla Fenice di Venezia  con la gloria della sua prima tragedia, l’Aiace. Insomma, Foscolo ha avuto i suoi momenti di gaudio se non di felicità, di piacere, se non di armonia interiore.  La vita, dunque, non è tutto dubbio ed errore, dolore ed insuccesso, prepotenza ed inganno. Forse. Ma,  certo, Foscolo vuole, alla scuola del Neoclassicismo, inibire la coscienza della irrealtà dei valori; è capace di un oblio totale della inutilità della “Strebung o tensione” verso la verità, la felicità e la giustizia  NELLA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA.

E’ quanto ci testimoniano le due Odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo ed All’amica risanata; ed il carme Le Grazie. Foscolo vuole esprimere pace e soddisfazione, gioia ed esultanza, serenità e felicità[90]. Questo approccio è quello tipicamente neoclassico: evadere dalla coscienza  circa la irrealtà dei “valori” e rifugiarsi nelle illusioni del mondo ideale,  attraverso la contemplazione dell’arte, della bellezza, dell’amore. In queste opere, sbocciate tutte negli anni 1802-3, egli riesce ad attingere una superiorità psicologica  sulle “sciagure umane” che gli permette di fingersi uno stato di felicità,  di farsi una credenza emotiva circa  la realizzabilità del vero, del bello, del bene nella vita o nella storia (sia pure soltanto in momenti particolarmente felici della vicenda umana, come le età di Pericle in Grecia, di Augusto in Roma, del Rinascimento in Italia); o, se non altro, nell’UTOPIA del  continente immaginario Atlantide.  Mitologia e storia lo aiutano a costruirsi un sovrammondo, a crearsi una RELIGIONE DEI MITI O DELLE ILLUSIONI.[91]Egli sembra pervenire, con le opere citate, al rovesciamento  della posizione  originaria ortisiana, riassumendo con la parola “ARMONIA” la somma degli ideali cui l’animo umano aspira con tutta la sua natura; egli riesce ad illudersi che tale meta suprema sia raggiungibile, con la fantasia se non con la ragione; nell’arte, se non nella realtà. E’ il rovesciamento dell’atteggiamento “ortisiano”, anche se non si può parlare, per questa attitudine psicologica del Foscolo (lo abbiamo detto) di atteggiamento didimeo. Vi è anche un notevole brano in prosa sulla condizione d’animo sereno, ottimistico, che egli la chiama “ ARMONIA”: lo riportiamo in nota[92].

Ma è significativo che, prendendo a motivo ispiratore solo uno dei due poli opposti, il Foscolo non riesca ad esprimersi in un’arte sublime: sia le Ultime lettere che le Odi e Le Grazie sono solo poesia mediocre. Nè la  semplice convinzione razionalistica del fallimento totale dell’uomo, della vita, della storia umana; nè la persuasione sentimentale del cuore, circa  la validità dell’umano inventare nella scienza, creare nell’arte, operare nell’onestà e immolarsi per gli ideali, sanno  scuotere la sua sfera emozionale e coinvolgere la mente a tal punto, da  creare quei nessi espressivi unici ed irrepetibili, commoventi e sconvolgenti della  più alta  poesia. Egli trova l’optimum dimensionale del suo estro lirico nella dialettica di tesi e antitesi, nel confronto  tra la  negazione dei valori e la loro affermazione, nella sintonia fra le esigenze del cuore già romantico e le irrisioni della intelligenza ancora illuministica, nella simbiosi fra aspirazioni insopprimibili del sentimento e la loro inibizione a livello di ragionamento. E’ in questa “SINTESI ARDITA, PARADOSSALE, AFFASCINANTE” delle due  posizioni contrastanti che Foscolo si ritrova  come nel suo  liquido elemento, alla sorgente di un’arte inimitabile.

Ecco, allora il suo terzo atteggiamento di fronte al duello mirabile tra mente e cuore, tra affermazione e negazione  del trionfo della verità, felicità, giustizia, della  sopravvivenza oltre la tomba e, quindi, di un senso della vita. Egli non si rassegna alla sconfitta dell’uomo, alla  irrealtà dei valori. Il suo è stato definito  felicemente come un “PESSIMISMO ATTIVO”, che cerca di reagire e di ricuperare in qualche modo alla   verità della ragione le illusioni della sensibilità. E questo bisogno di accordare mente e cuore, sentimento e ragione, senso comune e senso (iper)critico lo porta a superare in qualche misura le posizioni di oblio ed evasione, di inibizione e tacitamento che la proposta neoclassica avanzava ( “alienarsi” dalla triste realtà dell’uomo nella contemplazione dell’arte, nel godimento della bellezza). Ci sembra che il Sapegno abbia espresso in modo sobrio ma adeguato la posizione complessa dell’animo foscoliano, sottolineando in particolare il momento affermativo:  “rimangono intatte nel Foscolo le ragioni ideali che fan tutt’uno con i motivi dell’incipiente civiltà romantica: accanto alla concezione statica e tirannica dell’Hobbes, alla professione agnostica, al meccanicismo fatalistico, sussistono in un fondo segreto e incoercibile della sua coscienza l’istinto della libertà, la speranza della giustizia, il  sentimento della storia e del progresso, l’ansia metafisica, la fede costante se pur non ragionata nell’armonia intima dell’universo; sussistono appunto come speranze, nostalgie, esigenze insoddisfatte ma indomabili, “illusioni” infine, che trovano sbocco non in un sistema organico di idee, ma in una realtà di affetti profondi e di luminose immagini; non in una filosofia, ma in una poesia”. [93]

Rimandiamo in nota il mosaico incompleto della riflessione foscoliana riferita a questi tre valori riassuntivi, perchè, come si è detto, solo frammentario ed occasionaale è l’uso di questa terminologia e di  questi paradigmi triadici delle esigenze dell’umano operare (il VERO, il BELLO, il BUONO diranno definitivamente i romantici, al seguito del filosofo francese Victor Cousin).

Noi cerchiamo di esaminare gli stessi valori, ma sfaccettati in qualche loro aspetto o applicazione particolare, da lui ora sofferti come impervi, ora sognati come attuabili, ora cantati come necessari e, quindi, almeno psicologicamente  realizzati. [94]

Abbiamo selezionato sette componenti della esperienza del Foscolo, che egli chiama in causa molto frequentemente,  in ciascuna delle tre  dimensioni che si alternano appassionatamente nel suoanimo: la Bellezza e l’Amore, la contemplazione della Natura, l’amor di Patria, la Integrita’ morale, il Genio e l’Arte, il bisogno di Giustizia nella Storia umana, l’esigenza risolutiva della Immortalità dell’anima.[95]

 

        LA NATURA:  tesi affermativa (della  ragione intuitiva, spontanea, precritica: dominata dalla emozione, secondo il razionalismo): Ultime lettere: del 12 Novembre 1797; del 3 aprile 1798; del 13 e 25 maggio 1798. Citiamo   gli ultimi tre brani: “Intanto la Natura ritorna bella, quale dev’esser stata quando nascendo la prima volta dall’informe abisso del caos, mandò foriera la ridente Aurora d’Aprile; ed ella, abbandonando i suoi biondi capelli su l’oriente e cingendo poi a poco a poco l’universo del roseo suo manto, diffuse benefica le fresche rugiade e destò l’alito vergine de’ venticelli per annunziare ai fiori, alle nuvole, alle onde e agli esseri tutti che la salutavano la comparsa del Sole: del Sole! sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato” (3 aprile 1798); “Ier sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di Maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla Notte, ed io non sentiva che il canto delle villanelle, e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, e il mio cuore s’innalzava come se  aspirasse ad una regione più sublime assai della terra...” (13 Maggio); “Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole – nella terribile maestà della Natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata alcun poco in pace con se medesima” (25 Maggio 1798: cfr.il sonetto Alla sera).

                                      antìtesi  negativa (della ragione razionalistica: della ragione (iper)critica: libera dalle sollecitazioni emotive, secondo il razionalismo): Dei Sepolcri, 19-22 “E una forza operosa le affatica| di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| dela terra e del ciel traveste il tempo”. La natura, come forza cieca ed indifferente che macina la materia facendola evolvere od involvere da una forma d’essere in altra, è ancor meglio  dichiarata nell’accenno al tentativo dell’uomo di sospendere il moto insensato del suo rullo compressore: “Dal dì che nozze, tribunali ed are| diero all’umane belve esser pietose| di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi| all’etere maligno ed alle fere| i miserando avanzi che Natura| con veci eterne a sensi altri destìna” (id. vv. 91-96).   Ultime lettere, 17 Aprile 1798: (“La Natura? me se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?); 11 Maggio 1798 (“Convien pur dire che la Natura abbia pur d’uopo di questo globo e della specie dei viventi litigiosi che lo stanno abitando”); 2 Giugno 1798 (“Dov’è la Natura? Dov’è la sua immensa bellezza? Dov’è l’intreccio pittoresco de’ colli ch’io contemplava dalla pianura innalzandomi con la immaginazione nelle regioni de’ cieli?  mi sembrano rupi nude e non veggo che precipizi. Le loro falde coperte di ombre ospitali mi son fatte noiose: io vi passeggiava un tempo con le ingannevoli meditazioni della nostra filosofia. A qual pro se ci fanno conoscere le infermità nostre, nè porgono rimedio a risanarle?...”); 19 e 20 Febbraro 1799 (“O Natura, tu hai forse bisogno di noi sciagurati e ci consideri come i vermi e gli insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che viviamo?... Ho vagato per queste montagne. Non v’è albergo, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là croci che segnano il sito de’ viandanti assassinati...”); 14 Marzo 1799 (“Splendi, su splendi, o Natura e riconforta le cure de’ mortali. Tu non risplenderai più per me. Ho già sentito tutta la tua bellezza e t’ho adorata e mi sono alimentato della tua gioia; e finchè io ti vedeva bella e benefica, tu mi dicevi con una voce divina: -Vivi-. Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sanngue; la fragranza de’ tuoi fiori mi fu pregna di veleno; amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli, adescandoli, con la tua bellezza e co’ tuoi doni, al dolore”);

 

                        sintesi (riaffermazione  sentimentale, cioè della ragione che coinvolge la sfera emotiva): Dei Sepolcri, vv. 29-40: “Celeste è questa| corrispondenza d’amorosi sensi| celeste dote è negli umani; e spesso| per lei si vive con l’amico estinto| e l‘estinto con noi, se pia la terra| che lo raccolse infante e lo nutriva| nel suo grembo materno ultimo asilo| porgendo, sacre le reliquie renda| dall’insultar de’ nembi e dal profano| piede del vulgo; e serbi un sasso il nome,| e di fiori odorata arbore amica| le ceneri di molli ombre consoli”); id., 114-26: “...ma cipressi e cedri| di puri effluvi i zefiri impregnando| perenne verde portendean su l’urne| per memoria perenne e preziosi| vasi accogliean le lacrime votive.| Rapian gli amici una favilla al Sole| a illuminar la sotterranea notte,| perchè gli occhi dell’uom cercan, morendo,| il Sole, e tutti l’ultimo respiro| mandano i petti alla fuggente luce.| Le fontane versando acque lustrali| amaranti educavano e vi”ole| su la funebre zolla;| e chi sedea a libar latte e a raccontar sue pene| ai cari estinti, una fragranza intorno| sentia qual d’aura de’ beati Elisi...”

 

BELLEZZA E AMORE

Affermazione o “tesi” (spontanea|affettiva: ragione oppressa dall’emiotività?): Ultime lettere, del 26 Ottobre 1797 (“La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla e te ne ringrazio.... Io tornava a casa col cuor in festa. –Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo e, chi sa, fatale...”); 12 Dicembre 1797: (“ Le villanelle vennero sul mezzodì co’ loro grembiuli di festa intrecciando i giuochi e le danze di canzonette e di brindisi...”); 3 Dicembre 1797: (Sente da lontano Teresa che suonando l’arpa, canta; egli ne scrive a Lorenzo in questi termini: “Ora ponti nel mio cuore, quand’io udiva cantar Teresa quelle strofette di Saffo tradotte alla meglio da me con le altre due odi, unici avanzi delle poesie di quella amorosa fanciulla, immortale quanto le Muse. Balzando d’un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella sedia stessa ove io la vidi il primo giorno, quand’ella dipingeva il proprio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo viso di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente... tutto era armonia: ed io sentiva una nuova delizia nel contemplarla...”); 14 Maggio 1798: (Teresa “... saliva su per la collina, ed io la seguitava. Le mie potenze erano tutte di Teresa; ma la tempesta che le aveva agitate era alquanto sedata. –Tutto è amore –diss’io-; l’universo non è che amore! e chi lo ha mai più sentito, chi più del Petrarca lo ha fatto dolcissimamente sentire?...il Petrarca mi riempie di fiducia religiosa e d’amore; e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore- Teresa sospirò insieme e sorrise. La salita l’aveva stancata:  -Riposiamo –diss’ella: l’erba era umida, ed io le additai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. E’ alto, solitario, frondoso: fra’ suoi rami v’ha un nido di cardellini. –Ah vorrei poter innalzare sotto l’ombra di quel gelso un altare!- La ragazzina intanto ci aveva lasciati, saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che veniano aleggiando- Teresa sedea sotto il gelso, ed io seduto vicino a lei con la testa appoggiata al tronco, le recitai le odi di Saffo –sorgeva la Luna –oh!- perchè mentre scrivo il mio cuore batte sì forte? beata sera!); 14 maggio, ore 11 (“Sì, Lorenzo! dianzi io meditai tacertelo- or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa –d’un suo bacio – e le mie guance sono state innondate dalle lagrime di Teresa. Mi ama. –lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l’estasi di questo giorno di paradiso.”); 14 Maggio, a sera (“... Teresa giacea sotto il gelso- ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole? Vi amo. A queste parole tutto ciò che io vedeva mi sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci! deh! a che non venne la morte? e l’ho invocata. Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioja di due cuori ebbri d’amore...”); 15 Maggio 1798 (“Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gaio, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi: il lamentar degli augelli e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano e i fiori si colorano a’ miei piedi; non fuggo gli uomini e tutta la Natura mi sembra mia. Il  mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scrivere o dipingere la Beltà, io, sdegnando ogni modello terreno, la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e  co’ pensieri spirati dal Cielo ad altissime imprese; tu riaccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco universale. Adesso che l’anima mia risplende di un raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire...”).

D’altronde il Frammento della storia di Lauretta contiene questa declamazione: “ O Bellezza, genio benefico della Natura! Ove mostri l’amabile tuo sorriso, scherza la gioia e si diffonde la voluttà per eternare la vita dell’universo: chi non ti conosce e non ti sente, incresce al mondo ed a se stesso...”.

Le due Odi celebrano la Bellezza, come si è detto: le due donne sono una icona della realtà vista come dono divino o forse come divinità essa stessa.  In particolare si rileggano le prime due strofe de All’amica risanata, che culminano nei versi: “l’aurea beltade ond’ebbero| ristoro unico a’ mali| le nate a vaneggiar menti mortali” (vv. 10-12).

Nel carme Dei Sepolcri leggiamo i vv. 10-12: “... nè più nel cuor mi parlerà lo spirto| delle vergini Muse e dell’amore,| unico spirto a mia vita raminga”; e si vedano i vv. 235-253 dedicati agli amori di Elettra e Giove.

 

        Negazione o “antitesi” (razionalistica)

Ultime lettere: 29 aprile 1798 ( riguarda Lauretta: “Io voleva in quella sfortunata creatura mostrare a Teresa uno specchio della fatale infelicità dell’amore”); 26, 27, 28, 29 Maggio  e 2 Giugno 1798 (da questa prendiamo la finale, in cui si torna a parlare di Teresa: “Almeno costei non mi perseguitasse con la sua immagine, ovunque io mi vada, a piantarmisi faccia a faccia: perch’ella, o Lorenzo – perch’ella mi move qui dentro un terrore, una disperazione, una rabbia, una gran guerra- e medito talora di rapirla e di strascinarla con me nei deserti, lungi dalla prepotenza degli uomini- Ahi sciagurato! mi percuoto la fronte e bestemmio. Partirò”); 28 Maggio (“Spesso io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il Cielo, e il Sole, e l’Oceano, e tuttti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma se anche in mezzo alla universale rovina io potessi stringere un’altra volta Teresa –un’altra volta soltanto- fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato”). Teresa, ci pare, rappresenta  l’amore vero, ma risulta irrangiungibile: essa viene sacrificata ad uno sposo che essa non ama. E lo stesso è di Lauretta per la quale, dopo la morte dell’innamorato, clemenza e misericordia è la morte (25 Maggio 1798: “Ti ringrazio, eterno Iddio, Ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità”).

Ode a Luigia Pallavicini caduta da cavallo: D’accordo, non solo la mitica Diana nella favola novellamente inventata dal Foscolo, ma anche la donna, potè guarire pienamente.[96] Ma rimane il fatto che la Bellezza vi appare come vulnerabile, non necessariamente vittoriosa. E lo stesso risulta anche dall’altra ode, i cui versi 52-4 inutilmente tentano escludere la realtà tragica della sconfitta finale anche  per la Bellezza: “Meste le Grazie mirino| chi la beltà fugace| ti membra e il giorno dell’eterna pace”.

Ma non solo bellezza ed amore sono caduchi: l’amore può risultare anche volgare e dissacratore, bruto e disumanizzante. E’ la novità delle Grazie, il cui Inno II, vv. 422-45 recita contro il Decamerone ed il suo narratore più procace: “... e Dioneo, re del drappello| le Grazie afflisse. Perseguì i colombi| che stavan su le dense ali sospesi| a guardia d’una grotta: invan gementi sotto il flagel del mirto onde gl’incalza| gli fan ombra d’attorno e gli fan prieghi| che non s’accosti; sanguinanti e inermi| sgombran con penne trepidanti al cielo|...|  Or vive il libro| dettato dagli dei; ma sfortunata | la damigella che mai tocchi il libro!| Tosto smarrita del natio pudore| avrà la rosa; nè il rossore ad arte| può innamorar chi sol le Grazie ha in core”.

E i versi 42 del secondo Inno e 160 del terzo ribadiscono il connubio della delusione per chi volesse cercare la felicità nell’amore: “ Gioie promette e amnda pianto Amore.”

 

        riaffermazione o “sintesi” ( del sentimento, come ragione che si fa sentimento, catturando  la sfera emotiva per la importanza delle tematiche prese in considerazione):

Di questa posizione non si trova traccia nelle Ultime lettere.

Delle Odi, non ci pare si possano addurre i versi dedicati a Diana nella prima ( A Luigia Palalvicini), perchè sono frutto di invenzione fantastica e, quindi, di finzione cosciente. Invece valgono quelli conclusivi della seconda, All’amica risanata, perchè alla poesia è attribuito il potere di  eternare come divinità donne mortali, ma particolarmente dotate. E’ la situazione opposta, cioè non è la   mitologia che crea la immortalità, ma il potere umano dell’arte che  crea i miti e le divinità annesse: “Mortale guidatrice| d’oceanine vergini,| la parrasia pendice| tenea la casta Artemide,| e fea, terror de’ cervi,| lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.|| Lei predicò la fama| Olimpia prole; pavido| Diva il mondo la chiama,| e le sacrò l’eliso| soglio, ed il certo telo,| e i monti, e il carro della luna in cielo.|| Are così a Bellona,| un tempo invitta amàzzone,| die’ il vocale Elicona;|...||...Ond’io, pien del nativo| aer sacro  su l’itala| grave cetra   derivo| per te le corde eolie,| e avrai divina i voti| fra gl’inni miei delle insubri nepoti”.

Dei Sepolcri, la parte finale ha  anche questo significato. Certo, è più dichiarato (v. 228: “me ad evocar gli eroi chiamin le Muse”) e più avvincente nel lirismo è il canto della forza immortalatrice della poesia nei confronti del valore eroico dei combattenti attorno a Troia. Ma la celebrazione di questo potere mirabile è riferito anzitutto all’amore tra Giove ed Elettra: “Ed oggi nella Troade inseminata| eterno splende a’ pellegrini un loco| eterno per la Ninfa a cui fu sposo | Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio| onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta| talami e il regno della Giulia gente.| Però che quando Elettra udì la Parca| che lei dalle vitali aure aure del giorno| chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove| mandò il voto supremo: E se, diceva,| a te fur care le mie chiome e il viso| e le dolci vigilie, e non mi assente| premio miglior la volontà de’ fati,| la morta amica almen guarda dal cielo| onde d’Elettra tua resti la fama.| Così orando moriva. E ne gemea| l’Olimpio: e l’immortal capo accennando| piovea dai crini ambrosia su ll Ninfa,| e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba...” (vv. 235-253).

 

        AMICIZIA

Affermazione o “tesi” (spontanea,  della ragione candida, precritica):

Troviamo la fede spontanea in un amico in questo valore nella “Epistola in versi” A Vincenzo Monti (1804-6): la tua amicizia sincera “Mi mentirà così, Vincenzo, quella| che in molti uomini lessi e in pochi libri| (perch’io cultor di pochi libri vivo)| ardua sentenza: -Amico unico è l’oro-”.

 

        Negazione od antìtesi (della ragione razionalistica):

Ultime lettere, Padova, Dicembre 1797: “Frattanto l’occasione mi ha smascherato tutti quei signorotti, che mi giuravano sviscerata amicizia, che ad ogni mia parola faceano le meraviglie; e che ad ogni ora mi proferivano la loro borsa, e il loro cuore. Sepolture! bei marmi e pomposi epitafi; ma schiudili e vi trovi vermi e fetore.”

La stessa “Epistola in versi”  prima citata proferisce un giudizio molto negativo sulla possibilità di vere amicizie tra gli uomini, salvo ad esprimere la speranza che il Monti costituisca una eccezione al fatto universale che basa l’amicizia sulla utilità, cioè sulla speranza di ottenerne vantaggi. E proprio la inconsistenza delle amicizie reali si rivelerà nella rottura col Monti (1810) a proposito del giudizio sui versi di Cesare Arici.

 

        Riaffermazione  o “sintesi”, imposta  dal sentimento, come fusione di ragione ed emotività:

Dei Sepolcri: “A noi| Morte apparecchi riposato albergo,| ove la fortuna cessi| dalle vendette e l’amistà raccolga| non di tesori eredità, ma caldi| sensi e di liberal carme l’esempio”.

Ma questa volta abbiamo anche il caso di Lorenzo Alderani, il destinatario delle Ultime lettere, che rimane fedele oltre la morte dell’amico Jacopo: Venerdì (25 Marzo 1799) ore 1 (“E tu, Lorenzo –leale ed unico amico- perdona. Non ti raccomando mia madre; ben so che avrà in te un altro figliuolo... Ah, finchè io non bramava che un amico fedele, io vissi felice. Il Cielo te ne rimeriti! Ma t’aspettavi ch’io ti pagassi di lagrime?...  or via, ti consola.... ti consola. La mia vita ti sarebbe più dolorosa della mia morte. Addio. Queste carte le darai tutte al padre di Teresa. Raduna i miei libri e serbali per memoria del tuo Jacopo...”).

 

        DIGNITA’ MORALE, MAGNANIMITA’, GENIALITA’, EROISMO

 

        Affermazione o “tesi” (spontanea| della ragione  non razionalistica):

Sonetti: Autoritratto: “Morte sol mi darà fama e riposo”

         A se stesso: “Che stai? Breve è la vita e lunga l’arte:| a chi altamente oprar non è concesso| fama tentino almen libere carte”

        A Firenze: “E tu ne’ carmi avrai perenne vita| sponda che Arno saluta in suo cammino,| partendo la città che dal latino| nome accogliea finor l’ombra fuggita...”

 

        Negazione od “antìtesi” (ragione razionalistica, cioè ipercritica):

Ultime lettere:  Padova, 23 Dicembre 1797: “Questa università (come saranno purtroppo tutte le università della terra) è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici tra loro e di scolari dissipatissimi...”); 17 Marzo 1798 (“Intanto dalle mie lunghe letture ho raccolto: Che il non conoscere gli uomini è pur cosa pericolosa: ma che il conoscerli, quando non s’ha cuore da volerli ingannare, è pur cosa funesta!”); 20 Novembre 1797: Petrarca trascurato; la sua casa, cadente; Torquato Tasso emarginato e perseguitato dai potenti; impossibile rintracciare una copia delle “Vita” di Benevenuto Cellini (“La sacra casa di quel sommo italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un tanto tesoro. Il viaggiatore  verrà invano di lontana terra a cercare con meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dei canti celesti del Petrarca. Piangerà invece sopra un mucchio di ruine coperto di ortiche e di erbe selvatiche, fra le quali la volpe solitaria avrà fatto il suo covile. Italia! placa l’ombra dei tuoi grandi. Oh! io mi risovvengo col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo d’essere vissuto quarantasette anni in mezzo a’ dileggi de’ cortigiani, le noje de’ sacecnti e l’orgoglio de’ prìncipi, or carcerato ed or vagabondo, e tuttavia melanconico, infermo, indigente; giacque finalmenmte nel letto della morte, e scriveva, esalando l’eterno sospiro: Io non mi voglio dolere della malignità della fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico”); Milano, 11 Novembre 1798 (“Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un libraio: -Non l’abbiamo-. Lo richiesi di un altro scrittore; e allora quasi dispettoso mi disse ch’ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente francese, e appena intende lo schietto toscano. I pubblici atti e le leggi sono scritte in uuna cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta.... Chiesi ov’erano le sale de’ Consigli Legislativi: pochi mi intesero; pochissimi mi risposero; e niuno seppe insegnarmi”); Marzo 1799 (“Sull’urna tua, Padre Dante! Abbracciandola mi son prefisso ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto... mentr’io genuflesso con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e l’alto animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata patria, e l’esilio, e la povertà, e la tua mente divina?”); Milano, 4 Dicembre 1798 (riportiamo questa sola frase del Parini: “la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l’altro quarto a’ loro delitti”;  per il trattamento indegno del Parini, più ancora  di questa stessa lettera, danno testimonianza i vv. 53-90 dei Sepolcri, di cui riportiamo i più significativi  (“... E senza tomba giace il tuo| sacerdote, o Talia, che a te cantando educò un lauro| con lungo amore, e t’appendea corone;|....| O bella Musa, ove sei tu? non sento| spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume,| fra queste piante ov’io siedo e sospiro|...Forse tu fra plebei tumuli guardi| vagolando, ove dorma il sacro capo| del tuo Parini? A lui non ombre pose| tra le sue mura la città, lasciva| d’evirati cantori allettatrice,| non pietra, non parola; e forse l’ossa| col mozzo capo gl’insanguina il ladro| che lasciò sul patibolo i delitti....|... Indarno| sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade| dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti| non sorge fiore, ove non sia d’umane| lodi onorato e d’amoroso pianto”). D’altronde, il caso del Parini, dopo l’applicazione in Italia dell’editto di Saint Cloud, sarà il caso generale ( vv.51-3: “Pur nova legge impone oggi i sepolcri| fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti| contende...”).

 

        Riaffermazione  sentimentale (o “sintesi” della ragione che coinvolge ma domina l’emozione)

Ultime lettere: Milano 4 Dicembre ( è la Patria che parla al poeta: “SCRIVI CIO’ CHE VEDESTI. MANDERO’ LA MIA VOCE ALLE ROVINE E TI DETTERO’ LA MIA STORIA.  PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI SI AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE SONO LAVATI NEL SANGUE”)

Dei Sepolcri, stralci dai vv. 151-220: “A egregie cose il forte animo accendono| l’urne dei forti, o Pindemonte e bella| e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta...|....| ...ove speme di gloria agli animosi| intelletti rifulga ed all’Italia| quindi trarrem gli auspicj....Ah sì! da quella| religiosa pace un Nume parla:| e nutria contro a’ Persi in Maratona| ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,| la virtù greca e l’ira...||a’ generosi| giusta di gloria dispensiera è morte,| nè senno astuto nè favor di regi| all’Itaco le spoglie ardue serbava,| chè alla poppa raminga le ritolse| l’onda incitata dagli inferni Dei.|...|... chè dei Numi è dono| servar nelle miserie altero nome|....| E tu onor di pianti, Ettore, avrai,|ove fia santo e lagrimato il sangue| per la patria versato, e finchè il Sole| risplenderà su le sciagure umane”).

Lezioni di eloquenza (22 gennaio 1809: “O Italiani, io vi esorto alle storie, perchè niun popolo più di voi può mostrare nè più calamità da compiangere nè più errori da evitare nè più virtù che vi facciano rispettare nè più grandi anime degne di essere liberate dalla oblivione... Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell’agonia della morte lo consolerà il pensiero di rivivere almeno nel petto de’ suoi concittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i nobili fatti alla fede delle venture generazioni?”).

 

PROVVIDENZA NELLA VITA DEI SINGOLI, NELLA STORIA DI TUTTI.

Ultime lettere. La presenza di Dio nella vita e nella storia è fortemente, insistentemente esigita, ma negata nell’Ortis

Se non vi è mai risposta decisamente affermativa e la divinità ricercata finisce per rivelarsi una intelligenza stoicamente immanente nella “Natura” (il cui nome si interscambia con quello di Dio), vi è però vivissima l’aspirazione ad una Sapienza buona che segua l’uomo,  garantendo già qui in terra la coordinazione fra virtù e premio, delitto e castigo. A questo modo si rivelerebbe la giustizia di Dio nella umana esistenza e sarebbe assicurata la felicità. E’ così che nell’Ortis si ritrovano entrambi i poli del dilemma foscoliano: esigenza della giustizia nella vita e nella storia, garantita dalla Provvidenza di un Dio  sommamente potente e sommamente buono, in passi contradditori che sarebbe troppo penoso riportare. E si noti: vi è almeno una espressione in cui la presenza di Dio benefico è affermata, forse dapprima sfuggita alla censura della ragione ipercritica, ma alla fine lasciata, consapevolmente, volutamente, anche se senza adesione più decisiva, oltre il solito ondeggiamento (25 Marzo 1799: la citeremo   nella riaffermazione).

 

        Affermazione  spontanea, della ragione precritica (dominata dall’emozione?).

Le testimonianze più significative ci sembrano quelle presenti nelle Ultime lettere, 13 e 25 maggio e   mezzanotte ed alba (dell’otto Luglio) 1798: “Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella e talvolta anchela schietta Natura; ma la Natura somma, immensa, inimitabile non la ho veduta dipinta mai.... Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed io la ho guardata sovente con indifferenza. ...”; “Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità: tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell’anima, e mandi la Morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte...”; “Io mandava alla Divinità i miei ringraziamenti e i miei voti, ma io non la ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello delle sventure, io la temo e la supplico; “Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Non l’ho mai adorato come adoro Teresa.- Bestemmia! Pari a Dio colei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l’uomo umiliato. Dovrò dunqeu io anteporre Teresa a Dio?...”.

 

        Negazione razionalistica

Ultime lettere: in quella da  Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799 egli è discepolo disperato delle dottrine materialistiche e casualistiche di Tommaso Hobbes, che negano senso alla storia e progetto in essa di una Provvidenza: “Pare che gli uomini siano fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a’ destini. Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale, paiono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessari effetti del tutto. L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perchè una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra.” E, dopo aver citato a conferma le guerre aggressive di Alessandro Magno, di Sparta contro Messene, di Roma antica contro i popoli italici (che precedentemente si erano sbranati fra loro), degli Israeliti contro gli abitanti di Canaan, delle guerre civili nell’impero romano con i dittatori Cesare, Nerone, Costantino, delle invasioni dei barbari e del sangue sparso nelle colonie americane conquistate dagli Europei, egli continua: “ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescerà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La terra è una foresta di belve. La fame, i diluvI, e la peste sono ne’ provvedimenti della Natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro. Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le  apparenze del giusto, finchè un’altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che insomma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni, i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de’ volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell’oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de’ loro teschI sgabello al trono di chi la compie. E perchè l’umana schiatta non trova nè felicità nè giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premi futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de’ conquistatori; e opprimono le genti con le passioni, i furori e le astuzie di chi vuole regnare”. La lettera del 3 Gennaio 1798, scritta “Dai colli Euganei”,  dice fra l’altro: “Il genere umano è questo branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o strascinarsi dietro la inesorabile fatalità. A che dunque seguire, o temere ciò che ti deve succedere?... Che s’io dovessi far sempre la guardia a questo mio cuore prepotente sarei con me stesso in eterna guerra,  e senza pro. Navigherò per perduto e vada come sa andare.”[97] Nella lettera del 14 Marzo 1799, non ci interessa  che la Natura sia presentata come madre benigna,  ma che essa  affermi come offerta da lei stessa la via del suicidio per sfuggire ai mali insuperabili della vita: “Io ti feci nascere perchè tu, anelando alla tua felicità, cospirassi alla felicità universale; e quindi per istinto ti diedi l’amor della vita e l’orror della morte. Ma se  la piena del dolore vince l’istinto, che altro puoi tu fare se non correre verso le vie che io spiano per fuggir da’ tuoi mali? Quale riconoscenza più t’obbliga meco, se la vita ch’io ti diedi per beneficio, ti si è convertita in dolore?”. Mercoledì, 23 Marzo 1799, ore 5: “ Tutte le mie passioni disperate; le disavventure delle persone più necessarie alla mia vita; gli umani delitti; la sicurezza della mia perpetua schiavitù e dell’obbrobrio perpetuo della mia patria venduta –tutto insomma da più tempo era scritto; e tu, donna angelica, potevi soltanto disacerbare il mio destino; ma placarlo, oh! non mai.” Fra le cose scritte nell’ultimo giorno di sua vita, il Venerdì 25 Marzo 1799, troviamo alle ore 1: “ Or tu non proferire sulle mie ceneri la crudele bestemmia: -Chi vuol morire non ama nessuno- Che non tentai sopra di me? che non feci? che non dissi a Dio? ah la mia vita purtroppo sta tutta nelle mie passioni e, se non potessi distruggerle meco, -oh a che angoscie, a che spasimi, a quanti pericoli, a quali furori, a che deplorabile cecità, a che delitti non mi trascinerebbero a forza! Un giorno, o Lorenzo,   prima ch’io decretassi la morte mia, io stava genuflesso implorando dal Cielo pietà; e le mie lagrime piovevano abbondanti- e in quel punto mi si sono improvvisamente inaridite le lagrime, e il cuore mi s’è inferocito e avresti detto che mi venisse mandato appunto dal Cielo un delirio ad assalirmi... Godi, tu, Padre, de’ gemiti della umanità? pretendi tu che sopporti miserie più potenti delle sue forze? o forse hai conceduto al mortale il potere di troncare i suoi mali perchè poi trascurasse il tuo dono, trascinandosi scioperato tra il pianto e le colpe?...”

Dei Sepolcri, vv. 182-5: “le mal vietate Alpi e l’alterna| onnipotenza dele umane sorti| armi e sostanze t’invadeano ed are| e patria e, tranne la memoria, tutto”.

 

        riaffermazione inconsapevole (nel bel mezzo delle negazioni razionalistiche!)

 Ul time lettere, il 25 Marzo 1799, ore 1, quando oramai tutto è deciso (cioè non esiste un senso alla vita, perchè manca la Provvidenza di Dio; tanto vale allora cessare di soffrire e darsi la morte), volendo ringraziare Lorenzo per l’ufficio di figlio che al suo posto terrà presso la madre, esce nella esclamazione “Il Cielo te ne rimeriti”. Che è quanto dire: “La c’è la Provvidenza!”.

Dei Sepolcri, vv. 196: “Con questi grandi (Vittorio Alfieri, nella chiesa di Santa Croce) abita eterno”; 220-1: “Ai generosi| giusta di gloria dispensiera è morte; | nè senno astuto, nè favor di regi| all’Itaco le spoglie ardue serbava,| chè alla poppa raminga le ritolse| l’onda incitata dagl’inferni Dei”; vv. 270-1: “chè de’ Numi| è dono servar nelle miserie altéro nome”. Dopo queste  affermazioni, don Rodrigo griderebbe (al Griso od al Foscolo): “Dunque!”, che corrisponde pressappoco al ciceroniano: “Habemus confitentem virum bonum!” (abbiamo  un onest’uomo confesso):  anche in Foscolo la ragione ragionevole è superiore a tutti i sofismi della ragione razionalistica.

 

        LIBERTA’ DELLA PATRIA

 

        L’ Affermazione della spontaneità precritica la si può trovare nell’ode a Bonaparte liberatore (del 1797, poi ripudiata: “Italia, Italia,| con eterei rai| su l’orizzonte tuo torna l’aurora| annunziatrice di perpetuo sole;|....| Ve’ ricomporsi i tuoi vulghi divisi| nel gran Popol che fea| prostrare i re col senno e col valore,| poi l’universo col suo fren reggea...”); e nelle Lezioni di eloquenza del 22 gennaio 1809 (brani già riportati a p. 57, a proposito di “Dignità morale, magnanimità, genialità, eroismo”).

 

        Negazione razionalistica

Ultime lettere: 17 Marzo 1798 (“Fratel mio Lorenzo, tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai, non che spegnersi... se Dio non ha pietà dell’Italia, (gli ingegni generosi) dovranno chiudere nel loro segreto il desiderio di patria –funestissimo! perchè o strugge, o addolora tutta la vita; e nondimeno, anzichè abbandonarlo, avranno cari quei pericoli e quell’angoscia e la morte. Ed io mi sono uno di questi; e tu, mio Lorenzo... Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertà si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia! Ma i francesi che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertà, faranno da Timoleoni in pro nostro?....Non accuso la ragione di stato che vende, come branchi di pecore, le nazioni; così fu sempre, e così sarà; piango la patria mia, -che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende-.  (Napoleone) Nasce italiano, e soccorrerà un giorno alla patria – altri sel creda; io risposi e risponderò sempre –La Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; e non l’ha”); Milano, 4 Dicembre 1798 (dapprima è Jacopo che  parla a Lorenzo: “Siati questa l’unica risposta a’ tuoi consigli. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiamo comandare nè forse siamo tanto scaltri; noi non siam ciechi, nè vogliamo ubbidire; noi non ci degniamo di brigare E il meglio è vivere come quei cani senza padrone, a’ quali non toccano nè tozzi nè percosse”; poi è Parini che parla a Jacopo: “E pensi tu –proruppe- che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaja, in questi vani lamenti?... Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti: giudica più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre”); oltre la lettera, già riportata nelle parti interessanti questo tema, si leggano anche queste espressioni del 14 Marzo 1799: “Ecco fiumi di sangue che portano tra i fumanti flutti recenti mucchi d’uman cadaveri: e sono questi milioni di uomini sacrificati a mille pertiche di terreno e a mezzo secolo di fama che due conquistatori si contendono con la vita de’ popoli. E temerò io di immolare a me stesso que’ dì pochi e dolenti che mi saranno forse rapiti dalle persecuzioni degli uomini o contaminati dalle colpe?.

Dei Sepolcri, i già riportati versi  182-5 “le mal vietate Alpi| e l’alterna onnipotenza delle umane sorti...”.

 

        Riaffermazione  sentimentale, della ragione che coinvolge anche l’emotività.

Dei Sepolcri, vv. 151-212: è il famoso brano (già riporttao in gran parte a pp. 16-17) in cui il poeta esprime il suo entusiasmo di fronte alle tombe racchiuse nella chiesa di Santa Croce in Firenze, che ancora spronano all’amore di patria (in Italia come nella Grecia antica): “A egregie cose il forte animo accendono| l’urne de’ forti, O Pindemonte; e bella| e santa fanno al peregrin la terra| che le ricetta| Io quando il monumento vidi...|| te beata gridai....|....| Ma più beata chè in un tempio accolte| serbi l’itale glorie, uniche forse| da che le mal vietate Alpi....|...| Che ove speme di gloria agli animosi| intelletti rifulga ed all’Italia,| quindi trarrem gli asupìcj. E a questi marmi| venne spesso Vittorio ad ispirarsi.| Irato a’ patrii Numi, errava muto| ove Arno è più deserto, i campi e il cielo| desioso mirando; e poi che nullo| vivente aspetto gli molcea la cura,| qui posava l’austero; e avea sul volto| il pallor della morte e la speranza.| Con questi grandi abita eterno, e l’ossa| fremono amor di patria. Ah sì! da quella| religiosa pace un Nume parla:| e nutria contr’a Persi in Maratona| ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,| la virtù greca e l’ira...”

 

        IMMORTALITA’ DELL’UOMO E SOPRAVVIVENZA PERSONALE

 

        Affermazione implicita. Dobbiamo rifarci alla  fanciullezza del Foscolo per intuire che vi  è stata un’epoca della sua vita, in cui la sopravvivenza dell’anima faceva parte del suo bagaglio culturale ovvio: sono le epoche “preistoriche, cioè  antecedenti la  sua “scrittura”, la stesura dei suoi scritti. Non c’è, infatti, mai nè in versi nè in prosa una decisa adesione a questa verità di filosofia classica e di fede cristiana. Mentre il riferimento a Dio nelle Ultime lettere è frequentissimo, pur nella incertezza della sua concezione, mai è dato trovare una chiara affermazione della immortalità personale (non solamente psicologica) dell’uomo.  E’ questo un motivo per sospettare che, attribuendo ad Jacopo momenti o residui di fede nel Dio cristiano, personale, paterno e provvidente, il Foscolo intenda riferirsi a se stesso, ma   non più che adolescente.

 

Negazione razionalistica

Ultime lettere,  (Dai colli Euganei), 13 Maggio: “Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e il  presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne’ loro cumuli coperti d’erba dormono gli antichi padri della villa: -Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si traforma e si riproduce – umana sorte! men infelice degli altri chi men teme”; (8 Luglio) Mezzanotte: “E’ vero! I disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove mangiano un pane amaro e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio. – Ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno della religione!”; Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799: “E perchè l’umana schiatta non trova nè felicità nè giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente”.

Dei Sepolcri, vv. 1-22: “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne| confortate di pianto è forse il sonno| dellamorte men duro? Ove più il Sole| per me alla terra non fecondi questa| bella d’erbe famiglie e d’animali,| e quando vaghe di lusinghe innanzi| a me non danzeran l’ore future,| nè da te, dolce amico, udrò più il verso| e la mesta armonia che lo governa,| nè più nel cor mi parlerà lo spirto| delle vergini Muse e dell’amore,| unico spirto a mia vita raminga,| qual fia ristoro ai dì perduti un sasso| che distingua le mie dalle infinite| ossa che in terra ed in mar semina morte?| Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,| ultima dea fugge i sepolcri; e involve| tutte cose l’obblio nella sua notte;| e una forza operosa le affatica| di mioto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il tempo”.

Sonetto In morte del fratello Giovanni:  le terzine (specie i vv. 11 e 12) paiono proprio considerare il sepolcro come luogo di pace solo perchè vi manca la coscienza  del vivere travagliato: “Sento gli avversi Numi e le secrete| Cure che al viver tuo furon tempesta,| e prego anch’io nel tuo porto quiete.|| Questo di tanta speme oggi mi resta!| Straniere genti, l’ossa mie rendete| allora al petto della madre mesta”.

 

        Riaffermazione per la forza  della ragione costretta dalla evidenza, e  coinvolgente la commozione,  che vince ogni sofisma razionalista.

Ultime lettere, 25 Maggio (dai colli Euganei): “Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? ... Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte... E mi par di vederti venir con mia madre, a benedire o perdonar non foss’altro alle ceneri dell’infelice figliuolo. E predìco a me consolandomi: Forse Teresa verrà solitaria su l’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi addio.”[98]

Dei Sepolcri: tutti i versi 226-95, specie i vv. 230-4 sull’opera immortalatrice delle Muse, che “Siedon custodi dei sepolcri e quando| il tempo con sue fredde ali vi spazza| fin le rovine, le Pimplée fan lieti| di lor canto i deserti, e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”.

 

        ARMONIA DELLA VITA

E’ un po’ la sintesi delle aspirazioni, dei bisogni, delle esigenze dell’umanità qui in terra: equilibrio fra ragione e cuore, fra emozione e pensiero, fra istinti e volontà interiormente libera, fra spirito e materia, fra anima e corpo.

 

        Affermazione  della ragione spontanea, precritica (dominata dalla emotività?)

Ultime lettere, 20 Novembre (1797): “Io ho veduto la Natura più bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isabellina ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca ad Arquà. Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; ma per più accorciare il cammino prendemmo la via dell’erta. S’apriva appena il più bel giorno d’autunno. Parea che la Notte seguìta dalle tenebre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi, susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada, mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi e le fatiche degli uomini; e intanto spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della Natura. – Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo, e guardare tanti benefìcj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza. Allora ho veduto Teresa nel più bell’apparato delle sue grazie. Il suo aspetto, per lo più sparso di una dolce malinconia, si andava animando di una gioia schietta, viva, che le usciva dal cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri, aperti prima nell’estasi, si inumidivano a poco a poco: tutte le sue potenze parevanio invase dalla sacra beltà della campagna... Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto lascia più senso che la tua misera copia? E non ti pare ch’io somigli i poeti traduttori di Omero? Giacchè tu vedi ch’io non mi affatico, che per annacquare il sentimento che m’infiamma e stemprarlo in un languido fraseggiamento...”

 

        La negazione della ragione razionalistica: è implicita in tutte le Ultime lettere, anche se mai si parli di “disarmonia” esplicitamente. Si rileggano le lettere del 19 e 22 Gennaio  e del 17 marzo 1798; tutto il frammento “Storia di Lauretta”; le lettere del 5, 20 e 25 Marzo (ore 1) 1799.

 

        La riaffermazione, per istinto insopprimibile, per evidenza  imponente, per ragione ragionevole,  è presente nell’ultima parte dei Sepolcri, v. 233: “... le Pimplée fan lieti| di lor canto i deserti e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”. E’ vero, si tratta, qui, soltanto di sopravvivenza psicologica, cioè nella memoria e nell’affetto, ma  ne Le Grazie la parola “armonia” ritorna   nove volte e  la mitizzata opera civilizzatrice delle semidivinità è pur storicamente documentata in Grecia e progressiva in Italia. Riportiamo qui le testimonianze più significative; per le altre, segniamo i riferimenti in nota.  Nel primo Inno, ai versi 285 (è Diana –Cintia- che parla alle Grazie: “Al partir mio| tale udirete un’armonia dall’alto| che diffusa da voi farà più miti| de’ viventi i dolori....”); 327 (“...Udiro intente| la Grazie; e in cor quell’armonia fatale| albergàro, e correan su per la terra| a spirarla a’ mortali. E da quel giorno| dolce ei sentian per l’anima un incanto,| lucido in mente ogni pensiero, e quanto| udian essi o vedean vago e diverso| dilettava i lor occhi...); 353 (“le fatiche e l’arte| agevolmente, all’armonia che udiva| diede eleganza alla materia; il bronzo| quasi foglia arrendevole d’acanto| ghirlandò le colonne; e ornato e leggi ebber travi e macigni...”); 401(“Venite, o Dee, spirate, Dee, spandete| la Deità materna, e novamente| deriveranno l’armonia gl’ingegni| dall’Olimpo in Italia: e da voi solo,| nè dar premio potete altro più bello,| sol da voi chiederemo Grazie un sorriso”).[99]

 E la fiducia che  il benefico influsso delle Grazie continuerà ad operare nel  futuro, spinge il poeta a  risuscitare   il favoloso regno platonico di Atlantide (terzo Inno). E’ proprio il caso di ricordare il detto di Cicerone. “Naturam expellas furca, tamen ipsa recurret”. [100]

 

 

 

                C) TONALITA’ LIRICHE

 

Premessa. Come in ogni grande poeta, anche nel Foscolo i registri emozionali nascono e sono adeguati ai motivi ispiratori. Siccome abbiamo trovato nel poeta di Zacinto tre prospettive del motivo ideologico che, come è il principale, così assorbe in sè i motivi pur importanti della natura e dell’autobiografismo, dobbiamo allora aspettarci di incontrare tre fondamentali tonalità liriche, secondo che un’opera sia nata come espressione di una sola posizione univoca (delle due in lui contrastanti); oppure come sintesi, filosoficamente paradossale ma esteticamente sublime, delle due tematiche logicamente incompatibili. Riassumiamo le tre posizioni emotivo-intellettuali.

Dapprima, con un processo di alienazione, rimozione od obliterazione, guarda alla vita come ad un miraggio di splendore, nella verità, felicità, bellezza e giustizia.Esplicitamente una tale operazione è accennata nei versi 52-4 dell’ode All’amica risanata “Meste le Grazie mirino| chi la beltà fugace| ti membra, e il giorno dell’eterna pace”. E’ questa la “spiritualità” delle Odi e de Le Grazie.

In un secondo momento, un razionalismo impietoso rivisita la prospettiva esistenziale e storica, riducendola ad un macabro campo di battaglia, dove “all’orror de’ notturni| silenzi si spandea lungo ne’ campi| di falangi un tumulto e un suon di tube| e un incalzar di cavalli accorrenti| scalpitanti sugli elmi a’ moribondi| e pianto ed inni e de le Parche il canto” (Dei Sepolcri, vv. 207-12): trionfano l’errore ed il dubbio sulla verità, il dolore sulla gioia, la caducità sulla bellezza, la forza e l’astuzia sulla onestà e generosità. E’ questa l’aura  ideologica delle Ultime lettere di jacopo Ortis.

E vi è un terzo momento, che è quello che nasce dalla mentalità neoclassica e la supera, perchè non scorge nell’arte soltanto una sorgente di illusioni consolatrici, ma una testimonianza della  attuazione dei valori, sia pure nei tempi lunghi della storia, (“ai generosi, giusta di gloria dispensiera è morte”: Dei Sepolcri, vv. 220-1). Anzi, va oltre e scorge nella psicologia umana una sorgente di verità, a conferma delle aspirazioni sentimentali (cioè razional-emotive) presenti inestricabilmente nell’animo umano (“chè de’ Numi è dono| servar nelel miserie altéro nome”: Dei Sepolcri, vv. 270-1). L’uomo deve, allora,  arrendersi alla evidenza precaria ma innegabile della sopravvivenza dei valori,  a cominciare dal culto delle tombe dei grandi, che ispirano emulazione nella ricerca della verità, nella lotta per la conquista della felicità, nella testimonianza della giustizia e del bene. Vi è qui la elevazione dell’animo all’entusiasmo per quanti hanno genialmente operato in questi campi di civiltà e progresso, pur nella residua convinzione che lo sforzo rimarrà spesso inutile, che solo occasionalmente i valori si fanno strada e si impongono. Poesia consolatrice, ma anche confortatrice a ben operare e garante di almeno precarie isole di realizzazione  nella storia, contro il determinismo caotico e contro l’assenza di senso e di Provvidenza nella vita; se anche contro il materialismo antropologico e l’ateismo disperato, questo è un corollario che sembra logico, ma che non è stato tradotto in convinzioni ed affermazioni dal poeta.

Ebbene a queste tre posizione psicologiche corrispondono i due stati d’animo monodici e contradditori dell’epopea (idillio) e della tragedia (dramma, elegia) e, infine, la loro somma nel capolavoro  De Sepolcri (la commozione,  sinergismo di epopea ed elegia).

       

        Le ultime lettere di Jacopo Ortis.

Al rifiuto razionalistico dei valori corrisponde la tristezza forte e tempestosa della tragedia oppure la sua forma meno potente che si usa definire come  dramma in senso specifico[101], salvo parentesi ancora più flebili, che si riveleranno come elegiache. Le pause idilliche ed epicizzanti sono delle brevi parentesi nel contesto drammatico detto.

Però vi è agitazione ed esasperazione, non ribellione. La tristezza non esce in imprecazioni vannifuciane[102]o prometeiche, ma in accorate invocazioni: si rivedano le lettere del 12 Maggio e dell’8 luglio 1798; quella da Ventimiglia, del 19-20 Febbraro 1799 (ove Dio, Natura, Cielo finiscono per equivalere) e quella del Venerdì 25 Marzo 1799, ore 1. Quest’ultima,  nell’ultimo giorno della sua vita, segna forse l’acme della disperazione nella parte ove egli cerca di scrollarsi di dosso la coscienza morale che il suicidio sia frutto di odio per se stesso e per gli altri (“or tu non proferire su le mie ceneri la crudele bestemmia: chi vuol morire non ama nessuno. Che non tentai sopra di me? che non feci?...”).

Le Ultime lettere rappresentano il momento dionisiaco dell’anima foscoliana. Ma è uno stato d’animo non decantato: giovanile, troppo spontaneo e vicino all’azione; la parola non è lontana dal“grido” pratico- operativo; la tonalità che ne promana è quella forma di patetismo mosso e forte, che è l’enfasi e la concitazione, cioè una delle forme  sentimentali della parola, frutto di uno stato d’animo ora eccessivamente e retoricamente  esultante (“La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla”; “Tutto è amore... l’universo non è che amore!”; “dopo quel bacio io son fatto divino...”); ora  disarmonicamente  disperato, esaltato e  quasi furioso. Fra le lettere (o stralci di esse) più tipiche di questo dramma enfatico, si rileggano “Dai colli Euganei, 11 Ottobre 1797” (la prima); 4 “Dicembre 1798” (colloquio tempestoso col Parini); “19 e 20 Febbraro 1799” (determinismo storico, machiavellismo radicale ed hobbesianesimo convulso: “I tuoi confini, o Italia, son questi...”); “5 Marzo 1799” (vita come infelicità; aspirazione alla tomba come a porto di quiete; esclamazioni enfatiche sulla tomba di Dante); “25 Marzo 1799”: lamentele con Dio per la propria innocenza e malvagità degli uomini; attribuzione a destino cieco e a circostanze storico-sociali della colpa per il proprio suicidio).

Manca in ogni caso equilibrio  e si è ben lontani dalla  pur invocata armonia (già nella lettera del 20 Novembre 1797): si tratta di stati d’animo tempestosi, vicini a quelli dello Sturm und Drang  in Germania ed a quelli delle tragedie meno riuscite di Alfieri. L’espressione dei sentimenti, anzichè purificarsi ed elevarsi ad emozioni pure,  è ancora legata alla finalità  pragmatica della vita concreta che si tradurranno nel gesto infausto e tragico per eccellenza, il suicidio. Coerente sarà lo stile, cioè    concitato.

Tutto sommato, ci sembrano migliori i brani elegiaci (“Frammento della storia di Lauretta”); e, superiori a tutti, gli stralci idillici (legati, in genere, all’amore ed al paesaggio: Il trapianto dei pini, il 12 Novembre 1797; la visita ad Arquà, il giorno venti successivo). Ma  anche questi ultimi sono oleografie, cioè cose ancora immature, adolescenziali, con espressioni scontate, che nè spiacciono nè affascinano.

 

                Le Odi e Le Grazie

Rappresentando il momento della alienazione dalla realtà ed il puro sogno della fantasia artistica, queste opere si orientano tendenzialmente verso un’interpretazione illusoriamente positiva della vita, che sfocia ovviamente nei toni lirici dell’idillio e della epopea. E’ il momento apollineo della poesia foscoliana. Ma, trattandosi ancora una volta, come nel caso delle Ultime lettere, di una prospettiva unilaterale  della visione complessa, movimentata della esistenza singola e della storia di tutti, che costituisce l’oggetto della ispirazione ottimale per il Foscolo, il poeta non raggiunge neppure in queste composizioni risultati eccezionali: se non vi fossero Dei Sepolcri ed i Sonetti, non sarebbero bastati certo Jacopo Ortis, la Pallavicini, Antonietta Fagnani Arese, Eufrosine, Aglaia e Talia, Venere, Vesta e Pallade, Eleonora Nencini, Cornelia Rossi Martinetti e Maddalena Marliani Bignami ad assicurare al Foscolo  fama universale, non solo  nella storia della letteratura italiana, ma nella storia della poesia umana tout court.

 

A Luigia Pallavicini caduta da cavallo

Scritta nel 1800, quando il Foscolo era in Genova assediata dagli Austriaci, durante il ritiro dei Francesi dall’Italia in assenza di Napoleone, essa è poesia solo sufficiente: discreta, se si vuol essere magnanimi. I due atteggiamenti lirici- la elegia (con stralci drammatici) e l’idillio (con elevazioni epiche) sono ben distinti: si succedono, senza fondersi in commozione. Elegiache sono le prime tre strofe (vv. 1-18), cui seguono altre tre (vv. 19-36) in tono idillico, estatico: è il vagheggiamento della avvenenza della donna,  forse deformata dall’incidente.[103] L’incidente è descritto e mitizzato nelle seguenti sette strofe (vv. 37-78), con pennellate drammatiche, che sanno un po’ di retorica: c’è troppa divagazione mitologica per una sventura creduta ancor più gravida di conseguenze di quanto riuscisse, poi, davvero. E’ un letterato che scrive, non un amico che piange... Il tono è enfatico e prosegue, peggiorando, nelle due seguenti strofe (vv. 79-90: “Péra chi osò primiero...”, di scoperta imitazione pariniana), finchè l’ode trova nelle ultime tre strofe uno dei   percorsi tipicamente foscoliani: la contemplazione di una divinità (Diana, nel caso, per la quale è inventato un nuovo mito: incidente affine a quello della Pallavicini, con guarigione  perfetta), vuole auspicare anche alla amazzone ligure lo stesso esito favorevole. Così la bellezza supera il dolore e la vita ha il sopravvento sulla morte: ma solo nella contemplazione idillica della favola antica (vv. 91-108). Nel complesso elegia e dramma predominano: la ode è offerta alla bellezza vinta nei fatti della vita, vittoriosa nel sogno dei miti.

 

All’amica risanata. Migliore della precedente, attinge un valore estetico discreto. Il tono previene quello de Le Grazie, per cui si potrebbe definire come “grazioso”, variando fra l’idillio e l’epopea. Nasce dalla capacità del Foscolo ad obliare il male della vita, alienandosi nella fantasia dell’amore, ricordo del passato e sua mitizzazione attraverso la inibizione delle vicende  che lo avevano condotto alla conclusione (in realtà piuttosto tempestosa, come abbiamo visto) e della coscienza  che la beatitudine ad esso collegata era qualcosa di effimero e caduco (vv.52-4: “Meste le Grazie mirino| chi la beltà fugace| ti membra, e il giorno dellìeterna pace”). Tale processo di affabulazione-divinizzazione è all’origine di una cascata di immagini ed espressioni collegate col mondo religioso pagano della Grecia classica. Dal primo verso, ove la fine della malattia, che  permette di lasciare il letto ad  Antonietta Fagnani Arese, è paragonata al sorgere mattutino del pianeta Venere a rallegrare il mondo (“Qual dagli antri marini| l’astro più caro a Venere| co’ rugiadosi crini| fra le fuggenti tenebre| appare, e’l suo viaggio| orna col lume dell’eterno raggio...”); al trascorrere del tempo, che  è quasi ritmato  dalla danza delle Ore (vv. 19-51: semidivinità create dal poeta), a corteggio della “Dea” vera, che è l’amica formosa e procace (v. 28); al proposito di eternare la donna attraverso la poesia, così come era avvenuto per Diana, Venere e Bellona, creature terrenamente mortali ma eccezionalmente dotate per seducente bellezza o particolari abilità pratiche, elevate a divinità dal canto dei vati..

Siamo su posizioni diametralmente opposte a quelle delle Ultime lettere.Nei versi “All’amica risanata” l’oblio è riuscito pienamente e la lievitazione verso l’idillio e la epopea è condotta avanti discretamente, sicchè essa esprime il meglio della poesia neoclassica in Italia (superiore alla “Urania” di Manzoni e ad ogni composizione coerentemente neoclassica del Monti).  I vv.  7-12, che continuano quelli già riportati, assieme ai vv. 79-90, possono essere un campione bastante per  dare l’impressione del lirismo medio dell’ode: “sorgon così tue dive| membra dall’egro talamo| e in te beltà rivive,| l’aurea beltade, ond’ebbero| ristoro unico ai mali| le nate a vaneggiar menti mortali”; “Regina fu, Citéra| e Cipro, ove perpetua| odora primavera,| regnò betata, e l’isole| che col selvoso dorso| rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.|| Ebbi in quel mar la culla,| ivi erra ignudo spirito| di Faon la fanciulla,| e se il notturno zeffiro| blando sui flutti spira,| suonano i liti un lamentar di lira...”.[104]

 

Le Grazie. Nel complesso il carme-poemetto oscilla fra epopea ed idillio: almeno questo è l’intento del Foscolo, che nelle tre strofe di introduzione (un settenario aritmico e due endecasillabi rimati, ciascuna) afferma testualmente: “Alle Grazie immortali| le tre di Citerea figlie gemelle| è sacro il tempio e son d’Amor sorelle;|| Nate il dì che a’ mortali| beltà ingegno virtù concesse Giove,| onde perpetue sempre e sempre nuove|| le tre doti celesti| e più lodate e più modeste ognora| le Dee serbino al mondo. Entra ed adora”.

La celebrazione paesaggistica è più facilmente idillica; quella riferita alle Grazie, più solitamente epicizzante; con parentesi di dramma non migliore nè peggiore delle due tonalità di fondo ora ricordate; con cadute elegiache o commosse (in III, 169-212) che sono, invece, di un’altezza e timbro lirico che  son capaci di far rabbrividire per tristezza o commozione.

Ecco un tentativo di giudizio sui brani migliori, tenendo presente che la intensità lirica non supera (salvo che nello squarcio segnalato ultimamente) la sufficienza.

Inno primo (Venere): rislatano i vv. 118-150 (e, più, specialmente, i vv. 132-50): il brano inizia idillico (vv. 118-129) e continua drammatico (vv. 129b- 144), per concludersi con note elegiache (vv. 145-50). Nei vv. 263-325  è inserito un lungo brano dal tono   più comune e caratteristico  a tutto il poemetto,  l’idillio epicizzante (vv. 263 ai vv. 297); vi succede un tono commosso che si crea dal sinergismo fra celebrazione della generosità (nei “vati puri”, nei “prenci indulgenti”, nelle “pie giovani madri che a straniero latte| non concedean gl’infanti”...) e la mestizia per la coscienza della rarità  effimera di tali magnanimi comportamenti. Ci si avvicina alla tonalità lirica dei Sepolcri, anche se di minor caratura o potenza (vv. 298-325).  Tale minor potenza della stessa qualità lirica la ritroviamo nella parte finale di questo primo inno, i vv. 377-404.

Inno secondo (Vesta). E’ notevole tutto il primo brano, i vv. 1-183, nel tono tipico del poemetto, oscillante fra idillio ed epicità. Ma vi sono sussulti di nostalgia (verso giorni più lieti) e di compassione (per la miserabile sorte umana): vv. 42; 65-74; 90-2.

Inno terzo (Pallade). Il brano migliore è degno del poeta dei Sepolcri: si tratta dei più volte ricordati vv. 169-212, dove si descrive la tessitura del velo di protezione per le Grazie. Il tono è commosso per la esaltazione (da una parte) di valori fisici (bellezza, vitalità giovanile: vv. 169-179); di momenti felici (matrimonio, nell’amore casto di due colombe: vv. 180-7); di virtù morali (compassione nel guerriero verso i suoi prigionieri: vv. 187-194); di discrezione e temperanza (nell’allegria del convito: vv. 195-202); dell’amore materno (preoccupazione logorante per la salute del figlio: vv.203-212); e per la desolazione (dall’altra parte) nata dalla chiara coscienza che la morte toglie ogni  consistenza tanto alle doti fisiche che alle virtù morali, al punto che la madre è detta beata, perchè “non sa come agli infanti| provido è il sonno eterno, e que’ vagiti| presagi son di dolorosa vita” (vv. 172-9); la Giovinezza “canti fra ’l coro delle sue speranze” mentre “discende un clivo onde nessun risale”, perchè “percote a spessi tocchi| antico un plettro il Tempo”.  “Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,| a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo| crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome,| vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno| l’urna funerea spireranno odore”.[105] Tale intonazione per la stessa sfiducia nella purezza e durata dei valori umani è anticipata qua e là nel resto dell’Inno (v. 160: “gioje promette e manda pianto Amore: ripete o quasi II, 42; vv. 99-100: “Tal destino è nei fati. Ahi! senza pianto| l’uomo non vede la beltà celeste”; vv. 248-81)[106].

 

 

        DEI SEPOLCRI

Se poniamo Dei Sepolcri dopo la “Commedia” di Dante ed i “Promessi” di Manzoni, come terza “corona” suprema delle lettere italiane, non è per una inferiorità qualitativa (cioè non è per una minor intensità lirica), ma solo per la minor estensione o durata del gaudio poetico che essi comunicano ai lettori. Quei 295 versi sono quasi tutti poesia sublime, con una ispirazione al calor bianco,  come il risultato di una incandescenza estetica.[107]

Quanto ai timbri liricamente differenti, si possono distinguere (ma fino a un certo punto) momenti anche prolungati su registro monodico.  Su queste tonalità singole avremo modo di insistere e specificare nell’analisi stilistica musicale. Vi  è ad esempio il tono elegiaco in apertura, nel primo tempo della grande sinfonia  (vv. 1-22); l’idillio, prevalente in alcuni dei versi dedicati al Parini (vv. 55-61); la fusione di idillio ed epicità nell’estasi (vv. 114-129); la drammaticità più frequente: il cimitero macabro  (vv. 75b- 88a); del terrore nel sogno notturno della credente superstiziosa (vv. 104-14); del disprezzo-rimprovero alla inetta società italiana del tempo, che cerca solo guadagni e soggiace ai prepotenti (vv. 137-45); e l’epopea, nel brano dedicato a S. Croce, ai “grandi” ivi sepolti; ed a Maratona (vv, 151-212).

Ma, nel complesso, il carme ha un suo timbro peculiare ed indimenticabile, una melodia inimitabile. Non si tratta di un canto monodico, ma polifonico, non di una melodia ad una sola voce, ma  della risultanate di più componenti, come d’orchestra  scaligera o di corale possente. Il vocabolo più adeguato a definirla è  quello di COMMOZIONE, ma possono essere significativi anche ACCORAMENTO, DESOLAZIONE, COMPASSIONE.

Come, infatti, il motivo ispiratore è dialetticamente poliedrico, fra aspirazioni della ragione intuitiva, (candida, precritica), negazioni della ragione razionalistica (sofistica, ipercritica) e   riaffermazione della ragione ragionevole (che tien conto anche del sentimento),  tanto che la ideologia vincitrice non è solo quella della (pseudo)religione dei miti o delle illusioni, ma si esprime anche in affermazioni di valore oggettivo circa la giustizia storica e la provvidenziale corrispondenza fra virtù e premio,[108] così il registro lirico risulta dalla sintonia fra due stati d’animo non solo diversi ma contrastanti, EPOPEA ED ELEGIA, cui il Foscolo trova paradossalmente una espressione che le abbraccia fraternamente, che le lega ragionevolmente, che le costringe in simbiosi artistica.

Da una parte, dunque, vi è il sentimento, la ragione, la volontà disperata ma prevalente di affermare i valori e di credere nella giustizia, a cominciare dal bisogno di felicità già sulla terra, che si incarni in un amore  fedele ed estasiante,  su su fino all’immortalità dell’uomo oltre la tomba, nel premio dei buoni e dei grandi, dei geni e degli eroi. Ebbene tale fede nell’umanità ideale e progressiva induce un impeto emozionale di natura  entusiastica ed esultante, un lirismo grandioso e potente, un canto trionfale e spiegato sopra la morte, l’ingiustizia, la infelicità, il dolore e gli errori della vita concreta: E’ L’EPOPEA  di chi ignora, non  conosce  ancora il dettato della ragione, dissacratrice dei  sogni infantili e delle illusioni adolescenziali; o di chi sa eppure oblia ed inibisce, in nome di una esperienza umana più vasta, i sofismi della ragione illuminista; e sente ed accetta la necessità di credere in una provvidenza  che assicuri, per l’uomo singolo e per la storia dell’umanità tutta, il successo del vero, del bello, del buono. Ne nasce il  CANTO TRIONFALE E SOLENNE, come di una vittoria definitiva, di una eterna glorificazione della vita, della storia, dell’uomo.

Ma la persuasione finale della positività dei valori avviene solo attraverso il superamento del pessimismo razionalistico, del pianto sulla convinzione del non senso della vita, sulla persuasione della totale casualità delle vicende umane,  sul rifiuto di credere nel trionfo di verità, felicità e giustizia. E da tale prospettiva esistenziale non può nascere che un atteggiamento psicologico o profondamente elegiaco o amaramente drammatico. Nelle Ultime Lettere ha prevalso di gran lunga il dramma, anzi la tragedia. Qui, nei Sepolcri in una mentalità più incline a riconoscere qualche  probabilità alla vittoria finale dei valori e, di conseguenza, al senso positivo dell’umana esistenza, la tragedia si attenua in ELEGIA  e le permette di allearsi con la epopea, nella COMMOZIONE del gigante che combatte una strenua battaglia, con un filo di speranza di sopravvivere e salvare il tesoro delle idealità che sono la vita della sua vita, ma con il timore tuttora prevalente della  ingenuità del suo eroismo, della inutilità  dei suoi sforzi, della sconfitta della vita di fronte alla morte. Il “pessimismo attivo” del Foscolo crea la penombra emotiva tra “pianto ed inni e delle parche il canto” (Sepolcri, 212); genera la psicologia  morbida tra fede sentimentale e negazione razionalistica; origina lo stato d’animo complesso fra tristezza irrisolta e sforzo di credere ed esultare. Si tratta sempre di un sinergismo fra una componente eroica e gigantesca ed una dimensione flebile ed autolesionista; si tratta della consonanza fra la tromba ed il flauto, tra il pianoforte ed il violino; si tratta di un canto che unisce virilità gentilmente possente e femminilità   dignitosamente dolente; si tratta della melanconia struggente di una rovina  che appare irricuperabile e la perseverante  fiducia di una ricostruzione, che si impone come sempre possibile.

Come la celebrazione pertinace dei geni e degli eroi, della onestà e dignità, dell’amicizia e dell’amor di patria si coniuga con lo scetticismo della loro inutilità, colla negazione prevalente del loro valore, così il singhiozzo che prorompe dal petto del poeta è il pianto di un uomo maturo, di un gigante che si vede morire nell’atto stesso che si sa vincitore: non per nulla la morte di Nelson viene così potentemente e luttuosamente celebrata nei vv.134-6: egli è il “prode| che tronca fe’ la trionfata nave| del maggior pino e si scavò la bara”. E’ una malinconia solenne, una tristezza infinita, una nostalgia grandiosa. E’ la voce baritonale del canto struggente nei battellieri del Volga; è il volto desolato eppur luminoso dei “prigioni” di Michelangelo, vinti  ma pur  consci  di una missione compiuta.

 

 

I sonetti

Non ci si deve aspettare che essi rientrino tutti in uno solo dei toni lirici distintivi della dialettica ideologica ed affettiva del Foscolo: si distribuiscono, invece, fra tutti e tre i registri, con una libertà che nasce dalle circostanze diverse della loro origine immediata.

Tutti  e tredici sono notevoli per intensità emotiva; sono, cioè, poesia almeno discreta, spesso grande, talora sublime nei tre capolavori Alla sera, A Zacinto, In morte del fratello Giovanni.[109] Da questi tre ultimi prescindiamo per un momento.

Il tono comune dei rimanenti sonetti è quello drammatico, cioè della tristezza forte, risentita, ribelle. Si tratta, dunque, di sonetti di stampo più “alfieriano” che petrarchesco, con momenti di più alto livello che quelli del maestro.  Ma quasi tutti risentono, più ancora che di Petrarca e di Alfieri, delle condizioni di spirito, negativa e disperata, del poeta di Zacinto: vuoi che mediti su se stesso, vuoi che rimpianga amori perduti, vuoi che lamenti la decisa esclusione del latino dall’insegnamento delle scuole, egli non trova motivi di conforto e speranza, ma solo di pessimismo e di  desolazione: nessun valore si salva; in particolare, la sua vita si presenta come fallimento e persecuzione. Siamo dunque, complessivamente, nel momento negativo od “ortisiano”, quello delle Ultime lettere, espresso però con una decantazione dei sentimenti ed una elevazione alla emotività pura che li distacca da quelle come la Kunst si differenzia dal Kitsch. La più parte dei sonetti danno, dunque, voce poetica (e di quale altezza!) al momento negativo od ortisiano della complessa prospettiva  esistenziale del Foscolo, che ispira la sua più grande poesia: una voce poetica che le Ultime lettere da sole non riescono  a conferire.

Di se stsso: “Non son chi fui; perì di noi gran parte:| questa che avanza è sol languore e pianto.| E secco è il mirto e son le foglie sparte| del lauro, speme al giovenil mio canto...”. E’ un sonetto più che discreto, buono,  nonostante le evidenti riprese dal Petrarca (il lauro) e da Ovidio (v. 13: “conosco il meglio ed al peggior mi appiglio”). Solo l’ultimo verso zoppica, per il forzato accento sesto sulla parola negativa per eccellenza (“non”).

All’Italia (Per la sentenza capitale proposta nel gran Consiglio cisalpino contro la lingua italiana) è sufficientemente drammatico, con particolare vigore nelle due terzine.

Di se stesso (quarto sonetto, identico nel titolo al secondo): è discretamente drammatico, nonostante che il tema amoroso solleciti l’animo del poeta verso l’idillio: i ricordi delle ore liete, il vagheggiamento del bel volto non bastano a rasserenare “del dolor la piena”, perchè “i grandi occhi ridenti| che arsero di immortal raggio il mio cuore...” sono rievocati solo perchè al poeta “insegnarono alfin pianger d’amore”. E il tono risultante non è di elegia, ma di  ortisiano, amaro, non rassegnato rimpianto: “Perchè taccia il rumor di mia catena| di lagrime, di speme e di amor vivo|e di silenzio, chè pietà mi affrena,| se con lei parlo, o di lei penso o scrivo...”). Ma il risultato poetico complessivo è solo discreto, proprio per l’alternarsi di memorie idilliache e di ribellione pertinace: vi è un margine di dissolvenza incrociata, che attenua la potenza lirica della composizione.

Di se stesso all’amata (quinto sonetto)[110] Le due quartine e la prima terzina sono tipicamente petrarchesche, tanto che si potrebbero confondere coi versi del poeta di Arezzo per il tono elegiaco, se non fosse per qualche nota drammatica più accentuata;  e per il richiamo alla luna, alle ombre ed alla notte, abnormi per il Petrarca. Per l’ultima terzina (poesia  migliore che accentua il dramma e mantiene venature elegiache: “Ma per te le mortali ire e il destino| spesso obliando, a te, donna io sospiro:| luce degli occhi miei, chi mi t’asconde?”)[111] si potrebbe esser tentati di appellarsi al modello alfieriano, vista la forza drammatica della espressione. Ma sia il tipo di pensieri che il musicalismo sono specifici del Foscolo: più dolce questo e più singolari i concetti delle “mortali ire, del destino, dell’oblio...”: è l’anelito ad una liberazione irraggiungibile, il presentimento dello spirito dei Sepolcri.

All’amata (VI sonetto)[112] E’ un sonetto discreto, in tono  disperato, che risente dell’Alfieri ed eleva a grande poesia l’aura ortisiana. L’impronta foscoliana è,  difatti, visibilissima, per l’apertura autoaccusatrice e colloquiale (“Meritamente, però ch’io potei| abbandonarti, or grido...”); per il riferimento ai “duri casi”, all’ “ombre inferne”; ecc. La conclusione è la parte migliore del sonetto, ma solo negli ultimi due versi: il dodicesimo (primo della terzina ultima) stona per la deformazione del verbo “sanguinare” esigita dalla rima (“sanguinente”): “Ahi, vota speme! Amor fra l’onde inferne| seguirammi immortale, onnipotente”.

Il proprio ritratto (sonetti VII e VII-BIS).[113] Entrambi imitazione  dell’Alfieri, sono in tonalità drammatica, con punte di forza notevolissima, che, nella edizione ultima, non cedono a quello dell’Astigiano. I versi migliori sono l’ottavo (invariato nelle due redazioni: “avverso al mondo, avversi a me gli eventi”) e l’ultimo (“Morte, tu mi darai fama e riposo”) che riecheggia da vicino il maestro (“Uomo, sei grande o vil? Muori e il saprai!). Ma l’insoddisfazione di se stesso non nasce solo dalla mancata realizzazione della libertà politica, bensì dalla sconsolata delusione di sè e del mondo tutto: l’autolesionismo è parte della  disaffezione universale come nelle Ultime lettere.

A Firenze (VIII sonetto). Varia i registri emotivi, ma li sa acollegare felicemente. La prima quartina è elegiaca, la seconda è drammatica; le due terzine sono idilliche. Ma come il dramma delle lotte fra guelfi e ghibellini è smorzato dalla musicalità  conciliante (palatali, liquide, nasali che frenano la forza di labiali, dentali e gutturali), così quello suggerito dal “fero vate” (l’Alfieri) è raddolcito dal richiamo al “pellegrin” che ne ricerca non la casa, ma la “magion”. L’idillio, poi, è inclinato alla tristezza dalla memoria di un passato non più ricuperabile.

Alla Musa (XI sonetto: scritto e pubblicato nel 1803). Pur con residui di tensione drammatica e amara, il sonetto è sostanzialmente elegiaco. E’ espressa, anzitutto, la nostalgia della prima giovinezza, quando la ispirazione poetica era più solita e il verso più facile; segue la tristezza per la rarità dei momenti liricamente felici, ora che è incamminato verso i venticinque anni di età; quindi, il timore per un futuro infelice, suggerito dalla esperienza del passato e dalla conoscenza di se stesso; e infine, la coscienza della propria vocazione a soffrire molto, senza la consolazione di riuscire a tradurre in versi tutta l’ambascia del proprio cuore.

A se stesso (XII sonetto: scritto nel Dicembre 1800; edito nel 1802): Drammaticamante notevole per il vigore del rimprovero a se stesso, per la forza dell’impegno conseguente; e il fuggire del tempo è reso più pungente per l’avvicinarsi della fine di un secolo. Un insieme di fatti che inducono il poeta ad un esame di coscienza: dà uno sguardo sgomento ai 22 anni ormai  finiti (prima quartina); poi si analizza impietosamente e scopre le piaghe della sua individualità disequilibrata  e del suo vagabondaggio terreno (“Che se vita è l’error, l’ira e l’ambascia,| troppo hai del viver tuo l’ore prodotte....| Figlio infelice e disperato amante,| e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,| giovine d’anni e rugoso in sembiante...”). In realtà la seconda quartina e la prima terzina costituiscono un ennesimo autoritratto, che genera il proposito a riscattare il tempo con opere di dottrina e di poesia (“or meglio vivi e con fatiche dotte| a chi diratti antico, esempi lascia....|| “Che stai? Breve è la vita e lunga è l’arte;| a chi altamente oprar non è concesso| fama tentino almen libere carte”).

Ed eccoci ai tre capolavori.

        ALLA SERA (I sonetto: scritto fra il 1802 ed il 1803; edito nel 1803). Si tratta di arte sublime,  programmaticamente intonata  sull’idillio, ma con un sottofondo elegiaco persistente: la   risultante è una tenerezza infinita, che lo rende affine, nella tonalità, ai Sepolcri. Così la morte, di cui la sera è immagine, serve a sottolineare quanto il tramonto sia caro al poeta. E il richiamo alle “torme delle cure”, al “reo tempo” ed al “nulla eterno” sono funzionali alla “pace” che il vespero adduce e al cessar dei tormenti e al placarsi delle ribellioni. Quale delle sue tonalità prevale? Nessuna: si fondono nella tenerezza. Sopra gli altri piacciono i versi 1-4 e 7-8: “Forse perchè della fatal quiete| tu sei l’immago a me sì cara vieni| o sera. E quando ti corteggian liete| le nubi estive e i zeffiri sereni,...”; “sempre scendi invocata e le secrete| vie del mio cor soavemente tieni”. Pur non rientrando nella dialettica psico-ideologica  che sottosta solitamente alla grande arte foscoliana, perchè sostanzialmente è il paesaggio che placa il tormentoso pessimismo foscoliano, tuttavia il risultato è vicinissimo allo spirito dei Sepolcri,  con l’idillio che supplisce alla dimensione epica, rendendolo più intimo e personale, meno politico o  filosofico.

        A ZACINTO (IX sonetto: scritto ed edito come ALLA SERA). La nota elegiaca dei primi due versi (“Nè mai più toccherò le sacre sponde| ove il mio corpo fanciulleto giacque...”)  ritorna nell’ultima terzina, ma con un colpo d’ala epicizzante che la tradurrà in commozione. Il corpo centrale, i versi 3-11 (“Zacinto mia, che te specchi nell’onde| del greco mar da cui vergine nacque|| Venere , e fea quell’isole feconde| col suo primo sorriso, onde non tacque| le tue limpide nubi e le tue fronde| l’inclito verso di colui che l’acque| cantò fatali ed il diverso esilio| per cui bello di fama e di sventura| baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.”) sono più specialmente epici, con un crescendo affascinante. Ma la prima terzina introduce già la nota elegiaca per l’ambivalente sentimento che desta la vicenda penosa del peregrinare di Ulisse, coronata dal successo del rientro in patria. L’ultima terzina  è  governata dalla commozione, che fa trasalire, portando alla gola un nodo di pianto: “Tu non altro che il canto avrai del figlio,| o materna mia terra; a noi prescrisse| il fato illacrimata sepoltura”. Il sonetto si inserisce quindi nella sintesi emotiva dei Sepolcri, con la commozione nata da epopea più elegia, ma di nuovo il motivo ispiratore è tangenziale soltanto alle motivazioni psicologiche e metafisiche delle opere paradigmatiche: qui l’autobiografismo è motivo solitario e la mitologia ulissica non ha alcuna funzione consolatoria.

        IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI (X sonetto).[114] Il sonetto è un soliloquio col fratello defunto: i primi sei versi, dedicati primariamente al fratello ed alla madre, sono in tono elegiaco con qualche cadenza drammatica: “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo| di gente in gente, mi vedrai seduto| su la tua pietra, o fratel mio, gemendo| il fior de’ tuoi gentili anni caduto.|| La madre or sol, suo tardo dì traendo,| parla di me col tuo cenere muto”. Il resto diventa sostanzialmente autobiografico e lascia prevalere il registro drammatico in un crescendo di esasperazione e di disperazione,  che raggiunge un diapason toccante e sconvolgente. Si tratta della  protesta contro le vicende della   vita, che il poeta ama attribuire alla sorte ostile, piuttosto che alle proprie  imprudenze ed intemperanze, tacitando la tentazione di suicidio nella compassione per la madre: “Ma io deluse a voi le palme tendo;| e se da lunge i miei tetti saluto,|| sento gli avversi Numi, e le secrete| cure che al viver tuo furon tempesta,| e prego anch’io nel tuo porto quiete .|| Questo di tanta speme oggi mi resta!| Straniere genti, l’ossa mia rendete| allora al petto della madre mesta”. E’ l’espressione più artisticamente riuscita del momento negativo od antitetico,  ortisiano della visione foscoliana della vita: ma, anche qui, col limite della mancanza di una una espansione magnanima del proprio malessere esistenziale alla condizione di tutta l’umanità. Di nuovo: siamo al di fuori della tematica ispiratrice più tipica del poeta, anche se la espressione è poeticamente sublime.

 

 

 

 

 

NOTE DI TECNICA STILISTICA

 

 Come al triplice viraggio del motivo ispiratore di fondo –quello ideologico- corrispondono tre tonalità liriche, distinte e coerenti con le singole versioni di quello, così  incontreremo tre differenti e pertinenti forme stilistiche nelle opere fondamentali. Potremo dare il nome di stile romantico alle Ultime lettere di Jacopo Ortis; chiamare stile neoclassico quello delle due Odi e de Le Grazie; definire foscolianamente complesso, come confluenza delle componenti  precedenti, quello dei Sepolcri, di  Alla sera ed A Zacinto.

 

Ultime lettere: sono un romanzo epistolare, più attento alle vicende interiori del protagonista ed al dibattimento psicologico (impressionistico) di princìpi religiosi, etici e socio-politici che non alle vicende esteriori della sua vita o della società che gli sta attorno: la stessa Teresa (la  giovane amata), il suo fidanzato Odoardo e il padre,  il trattato di Campoformio del 17.10.1797, (implicitamente, ma continuamente presente) il popolo dei colli Euganei  (guardato con simpatia), il corpo docenti e la massa degli studenti alla università di Padova (giudicati con note dissacranti) sono personaggi e fatti marginali. Sostanzialmente l’opera è la autobiografia di un solitario, Jacopo Ortis, disperato per l’andamento  insensate delle vicende politiche, che culminano nella cessione di Venezia all’Austria da parte di Napoleone;  e nella delusione personale del matrimonio di Teresa con Odoardo che essa non ama, mentre si è innmorata del geniale e generoso Jacopo. Questo diario-confessione avviene attraverso le missive all’amico Lorenzo Alderani, depositario delle confidenze del tormantato e tormentatore Jacopo, sulle grandi tematiche sopra accennate.

Alle spalle stanno due grandi libri. “La nouvelle Eloise” di Rousseau e “Die Leiden des jungen Werther” di Goethe. Vi influirono anche la “Elegia sopra un cimitero campestre” di Thomas Gray e i poemi di Ossian, di James Macpherson.[115]

Con tali intendimenti del giovane Foscolo e con tali modelli, il  romanzo non poteva riuscire che ultraromantico. Che significa?. La scrittura conserva il sapore dell’immediatezza e confidenzialità, quasi trascrizione di una relazione “a braccio” fatta all’amico sulle vicende interiori ed esteriori dei ultimi due anni e mezzo di vita. Ecco come si confessa egli stesso il 29 Aprile (1798): “Pur se afferrassi tutti i pensieri che mi passano per fantasia! –me ne vo notando su’ cartoni e su’ margini del mio Plutarco; se non che, non sì tosto scritti, mi escono dalla mente...”.

 L’espressione, di conseguenza è effusiva ed appassionata: non vi si ricercano ragionamenti o concisione, ma si lascia la parola al cuore, cioè alla mente guidata dall’ impressione immediata. Di conseguenza, mentre alcune note sono brevissime, quasi appunti di una intuizione fulminea,  molte   si  protraggono liberamente: si prendano le lettere del 20 Novembre (1797), del 17 marzo e del 4 dicembre  1798 e quella del 19 e 20 Febbraro 1799.

In tale maniera d’espressione, non non manca la retorica delle esclamative  ed interrogative enfatiche. Tale “sentimentalismo” si ritrova anche nei brani migliori già riportati, ad esempio (26 Ottobre –1797): “La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla...” (od anche: “La divina fanciulla! io l’ho veduta, Lorenzo,...”); “Sì, Lorenzo –dianzi io meditai di tacertelo- or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa – d’un suo bacio...” (14 maggio, ore 1). Esso affiora tanto più nei brani meno ispirati e meno significativi: si veda la seconda lettera, quella del 13 Ottobre (1797), che è un’accozzaglia di tali punti di esclamazione e di domanda, con  l’aggiunta di un “perchè” di troppo e l’uso infelice di un “se non se” al posto di “fuorchè, altro che”.[116]

Ancora una particolarità: il vocabolario, fra tanta eccitazione interiore ed agitazione esterna, è sorprendentemente “statico”. La “ratio” o proporzione dei verbi di moto esteriore, rispetto a quelli intransitivi o di “moto” psicologico (interiore), è davvero bassa. Prendiamo la prima letterea (11 Ottobre 1797): dopo un passivo (“è consumato”) ed una voce medio-passiva (“tutto è perduto”) un intransitivo (“ci resterà”) ed un attivo interiore (“piangere”); seguono “salvarmi| mi opprime| mi commetta| mi ha tradito| vinto| per evitare|, ho ubbidito”, cioè un cumulo di verbi o passivi o di azione interiore: finalmente viene anche un “ ho lasciato” che è davvero un verbo di movimento fisico, corporale.

 

Le Odi.

A Luigia  Pallavicini...  Ode di 18 strofe di sei settenari, con rima abacdd: il secondo e quarto verso sono sdruccioli ed aritmici. Il vocabolario e tutta la impostazione sono tipicamente neoclassici:

   proiezione del fatto nella atmosfera universalizzante, eternatrice e paradigmatica della mitologia greca: invocazione alle Muse (vv. 1-6); intervento di Nettuno (vv. 67-72); accenno alla nascita di Venere dai flutti del mare (vv. 65-6) ed alle sue avventure amorose con Adone (vv. 4-12);  invenzione di un nuovo mito per Diana, sul cui esempio auspicare la guarigione della Pallavicini (vv. 91-108);

   linguaggio eletto, aulico, latineggiante o comunque ricercato (balsami, cioè medicamenti; aure, cioè venti; lavacro, cioè bagno...). La raffinatezza del linguaggio risalta tanto più, quando si è costretti a confrontarlo con quello realistico che il poeta vi sostituisce in uno squarcio prolungato (vv. 49-78: “ardon gli sguardi, fuma| la bocca, agita l’ardua| testa, vola la spuma,| ed i manti volubili| lorda,| e l’incerto freno,| e il candor del seno;|| e il sudor piove, e i crini| sul collo irti svolazzano...”);

   sintassi complessa, con subordinate e periodi lunghi, che abbracciano facilmente due strofe;

   inversioni alla latina, fin dal primo verso, che anticipa il complemente oggetto sul soggetto e sul verbo, cosa frequente anche in séguito;

   proporzione  equilibrata di sostantivi-aggettivi, verbi di moto e di quiete;

   musicalità caratteristica del Foscolo:  discreto equilibrio nell’uso delle vocali ictate, tutte rappresentate: la prevalenza della vocale “E” non è eccessiva. Anche l’alternarsi di versi piani e sdruccioli costruisce un’armonia tra forza e dolcezza: quest’ultima prevale nel musicalismo complessivo, in cui gli sdruccioli, le liquide e nasali (con privilegio della “R”), le fruscianti “F|V” e le palatali dolci donano fluidità-morbidezza-velocità al discorso.[117] Dal Parini viene l’esecrazione “Péra” del v. 79. Il tipo di strofa ha, proprio del Foscolo, i due versi sdruccioli in seconda e quarta posizione.

 

All’amica risanata. ode in sedici strofe di sei versi, di cui i primi cinque settenari; l’ultimo, endecasillabo; le rime sono abacdD. Ancor più che la precedente, scritta con animo e mente neocclassica:

-proiezione mitica: l’astro di Venere, sorgente dal mare al mattino (vv. 1-6); le ore sublimate a divinità minori (vv.19-51);coinvolgimento delle Grazie (v. 52), Diana (vv. 55-66), Bellona (vv.67-72), Venere (73-84); la leggenda di Saffo (vv.86-90);

   Linguaggio raffinato: antri (grotte), crini (capelli), egro talamo (letto ove giacevi malata), beltade, farmachi, ministre...;

   costruzioni ampie, con periodi che abbracciano anche quattro strofe (vv. 19-42);

   inversioni alla latina: notevole il v. 12 “le nate a vaneggiar menti mortali” e le strofe 13-14 (vv. 73-84) sono i casi più clamorosi, in un contesto di padronanza sicura delle costruzioni sintattiche più complicate;

   equilibrio fra visività e musicalità: le descrizioni sono particolareggiate pur nella loro vaghezza e disinvoltura; in questa composizione la fantasia visiva non è meno interessante di quella musicale, con accenni di malizia sessuale;

   eccetto che nel brano del ballo (vv.31-48), prevalgono verbi di quiete: “appare, orna, rivive,vaneggiar, fiorir, insidiando, vegliano, eran, gemmano, mirando, obliano,...” di fronte a “fuggenti, sorgon, tornano, recano”, nelle prime cinque strofe (vv. 1-30).

   la musicalità si differenzia da quella dell’ode alla Pallavicini, per una maggior frequenza di vocali larghe ictate, ma la scorrevolezza dei versi, levigati eppur morbidi, denunciano immediatamente sia la presenza di molte parole sdrucciole (oltre le finale dei versi 2 e 4 di ogni strofa, l’ode  ne conta parecchie altre, come “sorgon, trepide, indica, inclito, candidi, principio...”), sia la prevalenza di liquide e nasali, fruscianti (“F|V”) e sibilanti.

Poesia superiore alla precedente per la solarità dell’ottimismo che diffonde, per le leggiadre immagini, per l’ampiezza delle strofe, la felicità della metaforizzazione, la apertura delle perifrasi ma -ahimè!- anche per la sottile sensualità che la pervade. Poesia che piace, ma non affascina sino all’estasi: è più ammirevole per la felicità espressiva che per la intensità del lirismo.

 

 I Sonetti. Esaminiamo solo qualcuno dei migliori. Si noti che essi hanno una costruzione notevolmente diversa, che va dall’impianto razionalistico alfieriano (ne vedremo subito il significato) allo schema aperto e fluttuante, tipicamente romantico.

        Il proprio ritratto. I versi non conoscono l’enjambement, ma sono stechiometrici: il periodo logico coincide col periodo metrico, cioè ogni verso conclude o il pensiero principale od una sua parte (colon); si tratta, dunque, di intuizioni staccate, espresse con procedimento  concitato, franto (spezzato). E’ questo inquadramento (e quasi imprigionamento) del pensiero nel verso che ci ha fatto parlare di “razionalismo stilistico”. La musicalità è aspra, vicina a quella dell’Alfieri.

Simile a questi autoritratti, alfierianamente strutturato, vi è anche Di se stesso.

         Gli altri sonetti. L’enjambement è ovviamente impiegato. Addirittura Alla sera è composto da due soli periodi, che occuopano rispettivamente le due quartine e le due terzine. In morte del fratello Giovanni, la seconda quartina e la prima terzina formano un periodo solo.

Vi è equilibrio fra sostantivi ed aggettivi.

Il musicalismo è tipicamente foscoliano: armonia solenne, generata dalla simbiosi fra un equilibrio di vocali larghe, medie e tenui, con prevalenza invece di consonanti liquide (“R” predominante), fruscianti, dolcemente sibilanti, palatali tenere.

La mitologia è meno presente (A Zacinto, Alla Musa la esigono per il tema collegato alla Grecia classica).

La proporzione fra verbi di quiete e di movimento si equilibra: la contemplazione si allea colla cinestesia, dal primo sonetto (Alla sera) all’ultimo (A se stesso).

L’espressione è complessivamente più vicina al romanticismo che non nelle Odi. Ne Il proprio ritratto vi è concitazione, come la si ritrova ovunque vi sia dramma prevalente (Di se stesso| All’amata| A se stesso). In altri, invece, vi è un senso di abbandono confidenziale che giunge fino alla colloquialità (col vocativo rivolto al fratello Giovanni, A Firenze, Alla sera, Alla Musa); che giunge anzi a proporre la continuazione di un colloquio, quasi precedentemente avviato, come segno di amicizia e di frequentazione abituale (“ mai più toccherò le sacre sponde| ove il mio corpo fanciulleto giacque|, Zacinto mia...”; “Pur tu copia versavi alma di canto...”: Alla Musa; “E tu ne’ carmi aavrai perenne vita...”: A Firenze).

 

DEI  SEPOLCRI.

        Caratteristiche generali. Alla complessa dialettica dei motivi ispiratori, alla polivalenza del tono lirico, risultante dalla simbiosi di elegia ed epopea, corrisponde adeguatamente uno stile polimorfo che assume in sè componenti classiche collaudate e forme romantiche ancora in germinazione. In realtà con le Ultime lettere, con alcune caratteristiche del carme Dei Sepolcri e con le Lezioni di  eloquenza si può a buon diritto far iniziare il movimento romantico in Italia.

-“Dei Sepolcri” sono un “carme”, che è così definito dal Foscolo: “modo di poesia desunto dai Greci, che trae dalle antiche tradizioni sentenze morali e politiche, presentandole  non con ragionamenti e sillogismi, ma alla fantasia ed al cuore”.

Il carme risulta da 295 endecasillabi sciolti (cioè senza rima): il tipo di verso era parte del bagaglio classicissimo già dal Millecinquecento, ma si tinge in Foscolo di sfumature romantiche che andremo analizzando.

        -Lo schema petrarchesco dei Trionfi.[118] Inconsapevolmente, il carme riprende la dialettica tra valori diversi che già il Petrarca con più semplicità filosofica e minor sublimità poetica aveva adottato nella sua minor opera in lingua toscana. Eccone i quattro passaggi principali:

-La morte personale trionfa sulla vita, significando per ciò stesso la fine di ogni realtà per il defunto (“Vero è ben, Pindemonte, anche la Speme,| ultima dea fugge i sepolcri...”). Se non trova esaudimento la nostra aspirazione suprema alla immortalità personale, quale altra  nostra esigenza  meno essenziale potremo pensare che troverà realizzazione? La morte non è che la beffa finale della irrazionalità insensata della esistenza, ove l’amore delude, la bellezza avvizzisce, la patria è alla mercè del più potente od astuto, l’amicizia vien tradita, gli spiriti superiori vengono emarginati o calpestati, il dolore e l’ingiustizia sono le condizioni normali in cui un galantuomo deve operare...

-Ma la tomba trionfa della morte. (“Ma perchè pria del tempo a sè il mortale| invidierà l’illusion che spento| pur lo sofferma al limitar di Dite?”): i sepolcri mantengono vivo il ricordo della bellezza fisica, delle scoperte geniali, delle azioni eroiche (in S. Croce, ad esempio; o sui campi di Maratona); essi  conservano affetti ed amore (Parini, dimenticato perchè senza tomba; Elettra, ricordata perchè Giove ne protegge la tomba); essi educano i superstiti al ricordo dei padri, introducendo, così, il senso di rispetto per loro, anzi il culto religioso degli “antenati” e, con ciò stesso, favorendo la civiltà, che distingue  gli uomini  dai bruti (“Dal dì che nozze e tribunali ed are| diero all’umane belve esser pietose| di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi| all’etere maligno...”); essi infine incitano ad imitare le virtù degli scomparsi (“A egregie cose il forte animo accendono| l’urne de’ forti, o Pindemonte...”).

-E’ ben vero: il tempo trionfa delle tombe: “e una forza operosa le affattica| di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il tempo”;

“e quando| il tempo con sue fredde ali vi spazza| fin le rovine...”), perchè anche le tombe sono “affaticate” di moto in moto dalla stessa forza operosa della natura, che tutto travolge e conduce all’oblio.

        -La poesia trionfa anche del tempo: “le Pimplée fan lieti di lor canti i deserti e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”. La voce del poeta, vate di ideali e celebratore di grandezze, mantiene vivo il ricordo, l’ammirazione, l’affetto, la riconoscenza di quanti hanno operato a creare o rinvigorire i valori umani, le componenti spirituali dell’esistenza: la poesia rischia di vincere anche il tempo e la morte.

Attraverso questa ardita prospettiva di sconfitte e risorgimenti, il poeta sembra persuaso e vuole   persuadere altrui che la tomba e la poesia, la memoria e l’affetto dei vivi siano una rivalsa sufficiente, un compenso adeguato alla morte totale dell’individuo ed al fallimento della persona umana, delle verità e dei beni spirituali di cui essa è portatrice.

 Ed ecco allora ricomparire il dualismo dei fattori stilistici (neoclassici puri, da una parte; romantici  genuini, dall’altra), che si fondono in una sintesi ardita, paradossale, ma  riuscitissima ed artisticamente insuperata e, forse, insuperabile.

 

-Particolari elementi classici (sono già stati indicati  per le odi e per  alcuni sonetti). Vi è una sintassi ampia e solenne, fatta spesso di periodi lunghi e difficili, con inversioni non solo sintattiche, ma anche logiche: non solo viene anticipato, ad esempio, il complemento oggetto sul soggetto e sul verbo, ma anche un pensiero intero viene  anticipato rispetto alla posizione in cui la logica l’avrebbe voluto, rendendolo così più facilmente comprensibile. Del primo caso si trovano esempi già nei versi 6-7 (“e quando vaghe di lusinghe, innanzi| a me non danzeran l’ore future”) e 17b-18 (“e involve| tutte cose l’obblio nella sua notte”); del secondo caso vi è l’esempio clamoroso dei vv.154b-185, che dovremo analizzare partitamente fra non molto.

-Residuo retorico di rara efficacia è il chiasmo del v. 177 (“amore in Grecia nudo e nudo in Roma”).

Abbiamo, inoltre, l’impiego sistematico della mitologia e della storia socio-cultuale pagana: (la “Speme, ultima Dea” dei vv. 16-17; le  Muse o Pimplée dei vv. 228 e 232; Elettra e Giove e tutta la fabulosa stirpe di Dardano sino a Priamo ed ai suoi cinquanta talami: vv. 235-55); il richiamo alla storia della Grecia eroica: Maratona (vv. 199-212).

Ecco un campionario del vocabolario elitario, neoclassico[119]:  Speme| sembianze| reliquie| limitar di Die| vulgo| templi acherontei| polve| gleba| ambrosia| Nume| are| étere| fasti (giorni propizi)| domestici Lari (divinità familiari)| “tradussero per lungo ordine d’anni”| zefiri| beati Elisi| i Geni (divinità tutelare di una persona o luogo)| acque lustrali (purificatrici)| libar latte (versar latte in onore di divinità)| inclite| inaugurate (qui, eccezionalmente, significa “malaugurate”, cioè portatrici di sventura)| Orco (dimora dei defunti malvagi, con Plutone che è sinonimo di Orco)| Olimpo| etereo padiglion (il cielo)| lavacri| incensi| Calliope| Venere| auspìci| nullo, cioè “nessun”| molcea (addolciva)| la cura (l’ambascia, il dolore)....

 

Particolari elementi romantici. 

-Sicuramente tale è il carattere confidenziale, anzi dialogante con cui il carme si presenta, essendo indirizzato al “dolce amico” Ippolito Pindemonte (chiamato per nome ben tre volte),[120] quasi sfogo del cuore con cui si vuol superare l’aridità della ragione illuministica.

- La frequenza di vocaboli umili o dolenti, cari, in ogni caso, al cuore: confortate di pianto|  la terra pia| l’arbore amica| i guardi pietosi| le stelle pie| le umane belve fatte pietose| la pietà congiunta (dei parenti)| la pietosa insania delle britanne vergini| colui che astiene –pio-la scure dalle “devote fronde”| urne| pianto|  lagrime| lagrimato|| obblio| illusion| deserta| solingo| squallida| perduti| mute| furor| sospiro| sciagure.

 

Fattori ambivalenti

-Il poeta  non solo alterna il linguaggio aulico, raffinato, elegante, con altri termini confidenziali, intimi, commossi, ma si esprime con una musicalità che sa essere levigata e cristallina,   ma anche duttile e scorrevole : il risultato è una espressione contemporaneamente signorile e confidenziale,  solenne ed amichevole,   peregrina e persuasiva, grandiosa e coinvolgente. 

-Tale armonia si ripercuote nella scelta dei verbi: verbi di moto e di quiete si equivalgono nella frequenza; contemplazione e cinestesia si  equilibrano.

-E si manifesta in un particolare  richiamo al “Sole”: per sè fattore classico ed ottimistico, viene però inserito in un contesto spesso negativo: vv. 3b-5 (“Ove più il Sole| per me alla terra non fecondi questa| bella d’erbe famiglia e d’animali”); vv.119-22a (“Rapian gli amici una favilla al Sole| a illuminar la sotterranea notte,| perchè gli occhi dell’uom cercan morendo| il Sole...”); vv. 294b-5 (“ e finchè il Sole| risplenderà su le sciagure umane”). L’unica citazione in positivo, ma in realtà anodina rispetto alla ideologia del carme, è quella del v.162 (“e il Sole irradiarli immoto”).

 -Lo stesso vale per la parola classicissima “Armonia”, molto cara al Foscolo, che però la introduce sempre come aspirazione più che come realtà, come desiderio irrealizzabile più che come conquista sicura: v.9 (“la mesta armonia”), v. 27 (“gli sarà muta l’armonia del giorno”); v. 233-4 (“e l’armonia| vince di mille secoli il silenzio”). Di nuovo: declinazione del vocabolo all’ambivalenza.

 

 

 -La musicalità è un capolavoro di  adeguatezza al tono lirico che, nel prevalere della commozione finale, lascia spazio a brani ora  univocamente elgiaci  e persino a brevi squarci idillici, ora  a  passi di invettiva drammatica od a larghi squarci di epopea. Ebbene, la capacità di adeguare spontaneamente il musicalismo dell’espressione al timbro emotivo soggiacente è  una conferma ulteriore della genialità poetica del Foscolo, della sua mostruosa versatilità non solo emotiva, ma altresì verbale e  sonora.  

Esaminiamo separatamente la composizione vocalica e quella consonantica. Delle vocali prendiamo in consoderazione solo quelle accentate come le più risonanti nella fantasia. Per ciò stesso, le enclitiche e proclitiche (articoli, preposizioni, pronomi monosillabici) sono di, norma, trascurate.

 

-Le vocali, dunque, variano nella presenza, secondo il registro emotivo.

Nei primi quindici versi, l’elegia è controbilanciata da un notevole spirito polemico: alla nostalgia per la vita che cammina inesorabilmente verso la morte, fa riscontro un residuato dello spirito scettico e battagliero con cui il Foscolo deve aver discusso del problema col Pindemonte. Ecco allora l’affiorare delle vocali larghe “A|O” e dell’acuminata “I” che ne sono gli indizi. Invece  i vv. 16-22, ove lo spirito combattivo recede del tutto e la elegia si approfondisce,  vedono la “A” ridursi ad  un paio di casi (“anche, sembianze”), le “O”  (sono undici)  non riuscire a reggere il confronto con la media “E” (una dozzina: il v. 22 accentua solo tale vocale, ben sette volte!), la velata “U” (quattro volte)  e la non  sempre pungente “I” (a causa del contesto consonantico: dei tre casi, eccezione è “affatica”,  adeguatamente  drammatico ), che  prendono il sopravvento.

I vv. 23-40 presentano ancora due sottogruppi di stato d’animo triste: dal v. 22 al 29a ritorna un atteggiamento lievemente combattivo, ma, questa volta, contro la legge di St. Cloud e in favore dei sepolcri tradizionali;  da “Celeste è questa| corrispondenza d’amorosi sensi” e sino alla fine (vv. 29b-40) si ha una pausa di distensione e quasi di idillio. Ebbene, nei versi 22-29a, ritorna la “A” imponente (cinque volte); recedono a soli tre casi le “O”, forti ma meno guerriere, lasciando giusto spazio alle altre più tenui vocali.  Dal v. 29b, si hanno sette “A”, cinque “O”, una quindicina   di “E” (trascurando gli articoli, la congiunzione “e”...), otto “I” e un paio di “U”. La fantasia  musicale del Foscolo seguiva docilmente il cuore (lo stato emotivo), e questo obbediva prontamente alla ispirazione della mente.

Coi vv. 41-50 si rientra in una fase polemica, drammatica: la solita prevalenza delle “A” (una diecina di volte, da “lascia” a “manda”), con il corteggio delle “O” ( una dozzina da “Sol a “noi”, ma spesso in parole marginali, come l’avverbio iniziale o il pronome finale). Vi sono, poi, le “E”, che assumono valori stridenti per il contesto vocalico e consonantico (“esequie| acherontéi| preghi: in tutto sono unidici); le “I”che  si rivelano pungenti per l’orchestarzione consonantica (“chi| spirto| ortiche| d’Iddio: son  sette in tutto); quattro “U”, di cui due in posizione forte (“pur, Natura”).  Che, però, il gioco delle stesse tre vocali medie-strette  aiuti a creare qui un’atmosfera drammatica (è la prima polemica anticristiana, contro la fede nell’immortalità delle anime; la seconda seguirà ai vv. 104-114), questo la dice lunga sul valore “relativo” o, meglio, complementare dei singoli suoni fra loro e sulla dipendenza del musicalismo dal valore verbale o ideativo delle parole, primo fattore espressivo  in ogni forma di letteratura, prosa o versi che sia.[121] A parte il contenuto concettuale, quando esamineremo la strumentazione consonantica del brano avremo   suggerimenti sul mutato valore della orchestra vocalica di “E|I|U”.

Il piglio contestatorio riprende a proposito dell’indegna sepoltura del Parini (vv.51-90). Il brano  non è, però, del tutto coerente. Difatti, all’interno del brano drammatico stanno due parentesi idilliche, nel ricordo delle felici ore di  collaborazione del poeta brianzolo con la Musa (vv. 53b-57); ed una finale  (vv. 86b-90) in cui dramma ed elegia si equilibrano. Ebbene, i primi quattro versi  (“che a te cantando....| e tu gli ornavi del tuo riso i canti), a livello di musicalismo vocalico vivono della struttura drammatica: lo “spin” idillico non ha avuto tempo di operare un viraggio adeguato sino a tali componenti e la espressione  del registro contemplativo nella emotività resta affidata alla parola-idea e solo consonanticamente al fattore sonoro. Prevalgono le vocali larghe (la “O”, ma con un dittongo “AU” e solo il “lungo amore” del v. 56 esprime, con la “U” dell’aggettivo, la gioia della fatica compositiva, dall’ideazione all’opera di lima finale. Si leggano ora gli altri cinque versi (vv. 65b-69: “ E tu venivi| e sorridevi a lui...|...cui già di calma era cortese e d’ombre”).  Qui solo una “A” ( v. 69: “calma”) è rimasta, ma con un tal corteggio consonantico da perdere ogni prepotenza e rientrare nella  maggior duttilità della “forza domestica” delle  cinque “O”, nella valanga di “E” (otto)  con il  non modesto corteggio di “I” (due) e di “U” (quattro!). Quanto agli ultimi quattro-cinque versi (“Indarno| sul tuo poeta...|...| d’amoroso pianto), pur belli di fascino elegiaco, si deve costatare che i residui polemico-drammatici vi creano un groviglio vocalico non molto significativo: ancora molte “A” ed “O”, (sono sei e sei),  con le altre a fare da comparse minori. L’effetto contemplativo e triste è affidato, a parte il senso razionale delle parole, al loro consonantismo, chè il musicalismo vocalico risente dello spirito drammatico precedente. Siamo a  un caso parallelo a quello dei vv. 53b-57.

A parte queste  tre nicchie di serena o desolata contemplazione, il vocalismo pel resto dei versi (una trentina e più) segue bene il loro crescendo drammatico. Dapprima (vv. 51-54a) la forza  della protesta rimane affidata più alle “O (nove!) che alle due sole “A” (“guardi”|giace). Si è detto che tale caratura vocalica penetra anche nei seguenti versi  53b-57, per crescere poi nei versi di aperta critica alla incultura milanese che non si è curata di garantire  al Parini  una tomba certa e degna: nei vv.57-61  dominano ben nove “A”, di cui una in ripetizione irritante nella parola “Sardanapàlo” (oltre tutto con accento forzatamente piano, che appesantisce al massimo il nome già odioso per la fama ed il simbolismo cui  è culturalmente legato) ed un’altra nella strana giacenza della parola “abduani”.[122] Di fronte a tale dispiegamento di forza, il resto delle vocali scompare od è assorbito ed asservito. 

Dopo la seconda parentesi idillica dei vv. 62-69, riprende nei versi 70-86, più scatenata, la aggressione alla insensibilità milanese, presentando come ipotesi non inverosimile la più macabra delle fini cui  il cadavere del poeta brianzolo potrebbe essere andato incontro: sepoltura in fossa comune, assieme a delinquenti, in un cimitero anonimo, dove uccelli notturni di malaugurio (anche se tale non è la citata “ùpupa”) la rendono  paurosa ai vivi che vi dovessero passare accanto.  Sedici “A” accentate non dicono tutto, perchè in “vagolando” (v. 71) la vocale è presente due volte e tre in “campagna” (v. 83), creando un riecheggiamento rafforzativo, riecheggiamento che si amplia ulteriormente in “cagna ramingando”  del v. 79; e perchè in “raspar” il consonantismo aiuta a creare una impressione fosca, traumatizzante. Più che insistere sulle quindici “O” (ma nei “bronchi” del v. 78, il consonantismo ne incupisce il valore)[123], credo serva di più sottolineare come le “U” si giochino qui un ruolo primario: dai “tumuli” del v. 70 alle “sepolture” del v. 86 se ne contano otto, con il fenomeno di eco in “ùpupa” 8v. 82) e con il rafforzamento delle  varie presenze non accetuate ma ripetute in serie (“ululando” del v. 80; “uscir dal teschio ove fuggìa la Luna”). E’ noto che la “U”, usata genialmente,  evoca tenebre, inferno, terrore, malvagità. Qui crea un quadro grottesco, un notturno macabro, di stampo ultraromantico:  è forse il passo meno felice del carme, ma resta  pur sempre grande poesia.

E, visto che siamo in argomento, la stessa vocale “U”  è uno dei cardini che aiutano a  creare l’altro passo notturno, turbolento, sanguinario del poema, la battaglia di Maratona (vv.201-212: “corrusche, pugna, notturni, “di falangi un tumulto e un suon di tube”).

Nei versi 91-103 vi è uno squarcio discretamente epico, che celebra le istituzioni fondamentali dell’evoluzione dell’uomo dalla belva: il matrimonio, i tribunali, la religione.Una quindicina di “A”, con soltanto sei “O” ci pare assicurino il tono alto, solenne, mentre le ben 13 “E”  giocano su due scacchieri, potendo servire a rafforzare l’epicità come ad aiutare  le sette “I” e le altrettante “U”:  a far sentire lo sforzo dello sviluppo e la permanente minaccia della morte (“i miserandi avanzi che Natura| con veci eterne a sensi altri destina”). E preparano il tono drammatico della polemica seguente

Spesso la “O” ha una discreta prevalenza sulla “A”, a denunciare la innata tendenza del poeta all’armonia ed equilibrio fra due spinte interiori contrastanti, che tendono a rappacificarsi e collaborare, privilegiando, quindi, la vocale meno potente, così come, per compenso, la consonante “R”, la meno dolce delle due liquide. Nel brano di polemica anticlericale (vv. 104-114) la vocale media “E”si mette praticamente alla pari con la larga “A” (quindici e sedici presenze, rispettivamente), lasciando le “O” a sei casi e le “U” a soli tre: non si dà neppure un caso di “I” accentata! A creare un’atmosfera stridente, di detestazione e ripulsa, per le vere od immaginarie ricadute negative della fede cattolica nel Purgatorio e nella possibilità di suffragio pei defunti, concorrono la alleanza fra le due “U” e le tre “A” nel v. 110: “nude le braccia su l’amato capo”; e l’efficacia espressiva del prolungarsi  dell’ansia materna  nell’accoppiamento di uno sdrucciolo con l’aggettivo  adeguato “Gemer lungo” (v. 112).

Ma la “I” ritorna tionfante nei versi seguenti, dal 114b al 136, perchè il brano, sostanzialmente epico (esaltazione del culto pagano alle ceneri dei cari estinti e dei loro costumi di onoranze funebri, continuate tuttora da vicino in Inghilterra, patria dell’ammiraglio Nelson, nel cui ricordo culmina  l’epopea elogiativa dello squarcio) prende le mosse in tono umilmente idillico e va crescendo poi  fino al canto sublime degli ultimi due versi. L’idillio, già avviato alla epicità, crea quel tono lirico di simbiosi che abbiamo chiamato “estasi”: è l’emozione tipica dei vv. 114a-129.  Essa si appella alla vocale più stretta, dapprima introdotta numerosa, ma in posizione non ictata (“Ma cipressi e cedri| di puri effluvi i zefiri impregnando...), salvo a darle, poi, il giusto rilievo anche con l’accento (“votive, Rapìan, amici, favilla, sospiro, chi, sentìa, Elis”i: e si noti il quasi accento su “vi”ole” con dieresi) man mano che il nuovo clima estetico si impone. Ma crescono allora anche le possenti “A”: presente solo quattro volte nei primi nove versi (“impregnando,vasi, illuminar, mandano”), nei vv. 124-5  giunge ad imporsi in  6 dei sette vocaboli che li formano (“Le fontane versando acque lustrali| amaranti educavano e viole”), con il monopolio di  tre delle quattro sillabe di “amaranti”! E la massiccia presenza sèguita nei versi 126-129 (“libar latte, raccontar, ai cari, una fragranza, qual d’aura de’ beati). I versi dal 120 al 136 urgono con tale coerenza verso la sublime epopea di Nelson (“che tronca fè la trionfata nave| del maggior pino e si scavò la bara”), che anche il concetto tuttora contemplativo dei primi cinque versi (130-4) assume musicalmente uno “spin” epicizzante tale, che costringe ad elevare la voce nel leggere la pratica del pur  affettuoso e candido costume funebre espresso (“Pietosa insanaia che fa cari gli orti| de’ suburbani  avelli alle britanne| vergini dove le conduce amore| de la perduta madre...”). Le “A” e le “O” la fanno da padrone con sei e sette presenze ciascuna, presenze che culminano nei due seguenti versi non tanto per il numero delle ictate (tre A  e  tre “O”), ma per la loro potenza, (“trionfata| nave| la bara; tronca|  maggior”) congiurata da  altre  quattro “A”non accentate, nonchè dalla fatica di dieresizzare “tri”onfata” e dalle parole tronche di “maggior| scavò”: le poche presenze di “E|I|U”  e lo sdrucciolo “vergini” si perdono in tanto rullar di tamburi e scoppiar di cannoni. Il consonantismo, lo vedremo, è l’unico  fattore musicale  cooperante col pensiero idillico.

 Coi vv.137-145a ci imbattiamo in un altro brano di  ovvio lirismo, ma di non facile definizione tecnico-espressiva. Il tono emotivo è ancora una volta quello del dramma polemico: questa volta, oltre che la credenza cristiana nell’Oltretoma, è preso di mira il lusso e la meschinità di nobili, borghesi ed intellettuali del regno italico, specialmente  in MIlano. La difficoltà a definire “Ma ove dorme il furor d’inclite gesta... e i stemmi unica laude”) sta nell’equilibrio della presenza vocalica:   le larghe “A|O” (3 sole “A”,  e due dittonghi “AU”, ma ben  dieci “O”) parrebbero equivalersi pefettamente con la media “E” ( otto volte), la stretta “I” (dieci volte!) e la profonda “U” (quattro volte).  Va notata  la presenza di un numero di parole sdrucciole abnorme (“inclite, vivere, inutil, immagini, marmorei, patrizio, italo, unica”). Dovremo studiare il consonantismo con particolare attenzione. L’unica parola per ora incriminabile dello spirito aggressivo pare l’aggettivo “inaugurate” (malaugurate), che è forte ed antipatico.

 Facilmente interpretabile è, invece, la vocalizzazione dei versi immediatamente seguenti (145b-150), che proclamino a visiera alzata, con la la povertà economica, la ricchezza morale del poeta: sincerità nell’amicizia e genialità nella poesia. Si ha il prevalere della “A”, la frequenza della “O”, mentre alla  insistente “E”  è probabilmente affidata la vena malinconica per il fallimento delle proprie aspirazioni, che resta sottesa all’orgoglio della coscienza del proprio valore umano ed artistico. Naturalmente la orchestrazione consonantica ha una sua parte importante, che cercheremo di  “radarizzare”.

        I vv. 151-201 sono di un registro epico così coerente ed elevato che il musicalismo vocalico vi si adegua visibilmente: le larghe “A|O” dominano talmente,  che la media “E” vi resta subordinata e cooperante, le “I” vi si fanno sentire  acuminate e, quindi, non contrastanti, mentre le poche “U” presenti vengono giocate in modo da  vellutare soltanto il tono grandioso, esultante dell’esaltazione. Lo studio del consonantismo  confermerà un doppio genere di epicità, più rigida e ferma nei vv. 154a-164; più mossa e vivace dal v. 165 al v. 188 e, dopo una parentesi drammatica su Vittorio Alfieri (vv. 188b-195), ancora nei vv. 196-201. E vi dovremo notare un numero abnorme di vocaboli sdruccioli.

Al brano 201b-212 si è già accennato per il valore decisivo che vi assume la presenza della “U”. Ma si noti anche il sussegurisi   degli iati, che generano un suono levigato e prolungato in “Eubea| vedea |igneo| spandea). In attesa di analizzare il consonantismo coerente, già ora segnaliamo la quasi onomatopeia dell’accento scazonte sulla settima sillaba nel v. 210 (“e un incalzar di cavalli accorrenti”), come coefficiente dell’atmosfera stregata che il poeta ha   vissuto in se stesso e comunica a noi, ripensando alla  battaglia di Maratona.

 

Epopea è anche la  poesia dei vv. 213-25, che celebrano un raro caso di giustizia (ma post mortem!) operato dalla divinità (ma quella infernale!): la restituzione delle armi d’Achille al “più forte dei Greci” come aveva voluto  lui morendo, cioè ad Aiace Telamonio: le divinità infernali le rapirono alla prua della nave di Ulisse per depositarle sulla tomba dell’eroe, suicidatosi per   il prevalere sui suoi meriti, dell’astuzia del re di Itaca e della prepotenza  di Agamennone.

Si tratta, dunque, di un’esultanza venata di  drammaticità per la persuasione della complessiva ingiustizia della esistenza umana. E’ tenendo presente tale fusione di punti di vista  che si può comprendere la  forte presenza, nella  prima parte (vv. 213-218a) della media “E” e delle “I”, mentre solo nella seconda metà le parti si invertono e le vocali larghe finiscono per  prendere il sopravvento. Ma la “A” non riesce a  prevalere sulla “O”, che aiuta a rasserenare l’atmosfera, altrimenti appesantita dalla complicazione dei concetti e dalla frequenza di “E|I”.

Il brano finale (226-295), il più tipicamente animato dalla commozione, cioè dalla fusione fra elegia ed epopea, ha una vocalizzazione adeguata: le larghe (prevale sempre la “A”)[124] sono contrastate dal complesso delle “I” (diciassette casi) e di “U” (nove casi) accentate, dalla presenza di qualche parola sdrucciola e dai suoni  degli iati, in cui l’accento è sulla vocale più debole (“fea, dicea, Laerte, pio, due, due, vie, trofeo, Oceano, fia”). Se alle vocalizzazione resta affidato la forza della epicità, al complesso consonantico toccherà dar voce alla tenerezza dell’elegia. L’orchestra del musicalismo, così, segnalerà anch’esso il carattere poliedrico dello stile del  carme tutto e di questo finale in particolare,  rivelando le componenti della  sua dimensione lirica, complessa ed armoniosa, non solo attraverso le idee e le immagini, ma altresì attraverso la dimensione sonora della parola.

 

Passiamo al consonantismo. Avvertiamo che non consideriamo consonanti forti|aspre la labiale media “B” e la dentale “D”: un calcolo a tavolino, da grammatico filisteo, le potrebbe aggregare ad esse, ma all’orecchio di un lettore attento agli effetti estetici, tali due suoni rientrano in quelli deboli e tenui. La stessa “S” forte cavalca a metà strada fra le aspre (come lo sono davvero, invece, la “Z”, “SS”e la cosiddetta “S impura, cioè accompagnata da altra consonante”) e le dolci. Anzi la “sci” è suono decisamente tenero. Le elenchiamo in corsivo, dunque.

I primi quindici versi, in tono elegiaco venato di amarezza drammatica, offrono un campione ben caratteristico. Le consonanti forti (labiali “P”; gutturali “CH|GH”, dentali “T|Z”,  doppia “SS” ed “S” impura)  si trovano praticamente sempre addomesticate se non addolcite, perchè accompagnate (nella stessa sillaba o, almeno, nella parola) dalle liquide “R|L” (“ombra, cipressi, forse, morte, duro, Sole, per, terra, bella, erbe, danzeran, future, udrò, verso, governa, cor, parlerà, spirto, raminga, qual, ristoro, perduti, morte”) o dalle  nasali “N|M” (pianto, sonno, quando, lusinghe, amico, mesta, unico, distingua, infinite). Se ben ci apponiamo, fanno eccezione  queste poche voci: “questa, più, che, sasso, ossa”, di cui due sono un pronome ed un avverbio, monosillabici. Ma se ci si mette poi a ricercare le parole in cui liquide e nasali, fruscianti e palatali dominano isolate, il  risultato non pare poi clamoroso: “urne, men, non, famiglia, animali, ore, armonia, lo, nel, vergini, Muse (“s” dolce), amore,  fia, dalle, mar”.  Ecco, però: se si aggiungono le parole da noi elencate impropriamente come caratterizzate da consonante forte perchè contengono   una “B” od una “D”, allora la proporzione dei vocaboli mansueti raggiunge una presenza significativa e ben udibile.   Per il resto si viaggia in un paesaggio dove liquide, nasali e fruscianti (“V|F”: “Ove, fecondi, famiglia,vaghe, future, governa, vergini, fia, infinite”) e palatali tenui (“famiglia, dolce”) dominano con una sonorità che balza all’orecchio a prima lettura. Il quinto verso (“bella d’erbe famiglia e d’animali”) è il più dolce, sebbene il dimostrativo “questa” che lo introduce ne raffreni la morbidezza. La “R”, specialmente,  è frequentissima ed opera sul versante della romanticità dello stile. Ma fino a un certo punto: essa aiuta anche ad impedire che il  timbro diventi arcadico o cantabile. Infatti, come si è detto, la “R”, delle due “liquide”, è quella meno dolce e, specie in unione con altre consonanti, tende ad una certa  ruvidezza. Ora il primo elenco di parole sopra presentato la mostra, appunto, in contesti ove labiali, dentali e gutturali sono presenti a  fissare un ordito tenace e virile, che si intreccia con la trama fluida e pastosa delle liquide, nasali e fruscianti a costruire quel risultato ambivalente e complesso che rispecchia, nello stile, la poliedricità della prospettiva ispiratrice e della intonazione emotiva.

Il brano che segue (vv. 16-22) approfondisce la elegia dell’inizio: ed ecco allora che, come la “A” ictata quasi scompare (rimane in “anche”, v. 16; ed  in “sembianze”, v. 21) e trionfano le “O” come garanzia di solidità vocalica, così si infoltiscono le “U”, mentre il consonantismo vede aumentare il numero delle fruscianti (“Ver, fugge, involve, forza, affatica, traveste”), la “L” prevale sulla “R” e le nasali  si fanno sentire specialmente attraverso la “M”.

Prevalenza di elegia dal v. 23 al 29a ma, come si è già detto, con note di dramma: come per le vocali, abbiamo una simbiosi di consonanti che vedono  la labiale “P” (cinque), gutturali (cinque), dentali (otto, di cui una raddoppiata in “sotterra”), sibilanti aspre[125] (tre casi: “spento, forse, destarla”) mescolarsi ad un tal numero di liquide (“R” prevalente) nasali e fruscianti (“invidierà, vive, forse, soavi”) che non val la pena di contarle, tanto danno nell’orecchio spontaneamente.

Nei seguenti versi 29b-40, vi è uno spin del consonatismo: esso inizia con  residutai suoni forti (numerose “S impure” come in “celeste, questa estinto...”; o raddoppiate, come in “spesso, sasso”; una “Z” in “corrispondenza”; l’esplosiva “P” ancora nei vv. 37-38, “profano piede”; e la dentale nel v. 39: “odorata”), ma il tutto è attutito da vocalismo tenue o dall’onnipresente “R” ammorbidente e termina, poi, con il predominio di consonanti tenere, parallele all’intensificarsi dell’idillio e dei pensieri di pace e distensione. Così, nel v. 39, la “R” si fa presente quattro volte in quattro parole (“e di fiori odorata arbore amica”); cresce la frequenza insolita di “L” (celeste, celeste, negli, lei, raccolse, ultimo asilo, reliquie, insultar, vulgo, “le ceneri di molli ombre consoli”); aumentano le palatali dopo i due “celeste” iniziali, con “porgendo, ceneri”), le fruscianti (“vive, infante, nutriva, profano, vulgo, fiori”), mentre anche le nasali si affermano sempre più frequenti (quattro in quattro parole nel v. 40). Naturalmente alle spalle di tale sonorità vi è anzitutto un pensiero consolante che desta  emozioni  di serenità: il musicalismo raddolcito ne è semplice conseguenza.

Vocalismo forte nei versi 41-50, polemici contro la fede cristiana nell’Aldilà: anche la media “E” e la stretta “I” vengono assorbite dal complesso drammatico, che però risulta anche da un consonantismo che ci pare caratterizzato in senso stridente dalla presenza di varie combinazioni eccezionali: “esequie” presenta tre “E” consecutive con un suono gutturale ad appesantirle; “errar” ha tre “R” ed è parola tronca; “spirto” mette assieme  due coppie di consonanti rudi; “compianto” ha una gutturale al principio ed una dentale al termine; “templi acherontei” accumula tre “E” quasi di seguito, con due dentali ed una gutturale e con il dittongo tagliente in “acherontei” (la vocale media e quella stretta); “ricovrarsi” presenta di nuovo due coppie di consonanti stridenti con una gutturale a precederle; tale fenomeno ha un riecheggiamento  nelle  vicine doppie consonanti di “grande, perdòno, ortiche, deserta, preghi”, mentre la triplice “D” in “d’Iddio” si accumula sulla “I” a  rafforzare tale atmosfera ostile. A questo punto la concertazione complementare e contrastante, lungo la linea delle tenerezza (liquide, nasali, fruscianti; presenza di parola sdrucciola in “tumulo” o di suoni palatali in “gioia” o di altro suono ammosciato , in “lascia”...), riesce solo a contenere l’effetto drammatico, a compensare con un residuo di cortesia e gentilezza l’accusa  sostanzialmente grave ed  ostile.

Nel brano sul Parini (51-90) abbiamo selezionato due rifugi idillici ed una nicchia finale di tristezza, in un contesto fortemente accusatorio e, perciò, drammatico. Nei vv. 54b-57  neppure il consonantismo pare contribuire decisamente ad esprimere l’idillio: è più equilibrato del vocalismo forte ed alto, ma si barcamena fra un sostantivo  duro (“tetto”) e l’aggettivo umile che l’accompagna (“povero”); applica “lungo amore” cordialmente risonante ad “educò un lauro” con pensiero intimamente suggestivo, ma musicalismo imponente; fa dipendere il termine rasserenante “riso” da un “ornavi” vocalmente greve e gli fa reggere “i canti”, grandioso anche nelle consonanti. Ripetiamo: qui la parola-pensiero basta da sola o quasi alla espressione del lirismo, nonostante un vocalismo forte ed un consonantismo a dir poco equivoco.

Nei vv. 65b-69 (“E tu venivi| e sorridevi a lui sotto quel tiglio| ch’or con dimesse fronde va fremendo| perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio| cui già di calma era cortese e d’ombre”), come è chiaramente favorevole all’idillio il vocalismo, così lo è l’orechestrazione consonantica. Addirittura nel v. 67 abbiamo un susseguirsi di tre fruscianti (“frondi va fremendo”), cui la “R” dopo la “F” da un senso di leggero moto e sonorità amica; e le “V” si  accumulano in “venivi, sorridevi, va, vecchio”. Al loro suono andrà aggiunto quello della “U” di “urna”, mentre la palatale-liquida di “tiglio”e le combinazioni ammorbidenti la “R” in “frondi, urna, ombre” finiscono per coprire i pochi suoni forti (“sotto, ch’or, con, perchè, copre”). Ma occorre sottolineare che sono ancora i concetti a dettare il primo senso lirico di contemplazione serena: il sorriso della Musa, le frondi dimesse, la cortesia del dono di ombre e tranquillità da parte di un tiglio fraterno, umanizzato...

 Nei vv. 86b-90 l’elegia prevale sull’amarezza delle condizioni umane sfavorevoli ed anche il consonantismo lo rivela, sia pure un poco a fatica: le parole a consonantismo forte (“poeta, preghi, notte, estinti, onorato, pianto”)  recedono rispetto alle più numerose di segno opposto (“indarno, rugiade, lo sdrucciolo “squallida”, sorge, fiore, ove, umane lodi, amoroso”), le quali contribuiscono   a creare un alone di compassione e di tenerezza.

Ma la caratura prevalente del brano su Parini è di tipo fortemente drammatico. Vi è un “climax”, una scala, un’ascensione nell’entrare in tale stato emotivo. I primi tre versi e mezzo (51- 53a),  ad esempio,  trafiggono l’editto di Saint Cloud applicato all’Italia, con una certa discrezione, che risente della gentilezza dei versi immediatamente precedenti e che si manifesta anche nel consonantismo ambivalente: le  labiali  esplosive(“Pur, sepolcri, pietosi”), la gutturale (“guardi”), le dentali soprattutto (“morti, contende, tomba, Talia, cantando ”) smorzano  la  morbidezza delle liquide (“legge, Talia, Pur, sepolcri, fuor, guardi, morti, sacerdote”), nasali (“nuova, impone, nome, contende, tomba, cantando), palatali (legge, oggi). Il discorso scende anzi a toni più sereni nell’idillio di 54a- 57, salvo a tentar di  scagliare un primo rimprovero acerbo in 57-65a contro il giovin signore lombardo. Gli riesce a metà: il vocalismo è coerente, come si è visto, ma le consonanti sono incerte, con il difficile incontro di “BD” nell’aggettivo “abduani” e la forza pungente della combinata “IT” di “muggito” quali puntelli pressochè unici alla volontà polemica, pur chiaramente espressa dal pensiero del poeta. Il musicalismo  è coerentemente aggressivo, invece, dopo la parentesi idillica dei vv. 65-69. Ecco allora l’accumulo delle esplosive palatali (“plebei, capo, pose, parola, capo, patibolo, ùpupa, pie, sepolture, poeta, preghi, pianto”), delle gutturali (“guardi, vagolando, sacro, capo, cantori, capo, insanguina, cagna, famelica, teschio,croci, accusar, singulto, che, squallida”) e soprattutto delle dentali (“tumuli, tuo, tra, città, evirati, cantori, allettatrice, pietra, patibolo, delitti, derelitta, teschio, luttuoso, singulto, stelle, obbliate, sepolture, tuo, poeta, estinti, onorato, pianto), le sibilanti aspre (forse, ossa, mozzo, raspar, fosse, teschio, svolazzar, stelle, squallida...) e le “R” in unione irritante con altra consonante (sacro, allettatrice, pietra, bronchi, croci ...”). Di fronte ad esse le consonanti gentili sono minoranza, che ovattano lo sfogo fantastico del Foscolo: le fruscianti (“vagolando, ove, lasciva, evirati, fosse, famelica, fuggia, funerea), il suono “sc” (sibilante palatalizzata: “lasciva, lasciò, uscir” ), soprattutto  le liquide e nasali (“dorma, Parini, lui, non ombre,allettatrice, non parola, ladro, macerie, derelitta, ululando, funerea, campagna, luttuoso, rai, stelle, obbliate, sepolture, Indarno, rugiade, dalla squallida...”) e, the last but not the least, i vocaboli sdruccioli (tutti già riportati negli elenchi fatti). Sono suoni che elevano la  polemica al livello del gentiluomo, ma non le tolgono fremente sdegno ed acre  risentimento.

Già abbiamo definito sostazialmente epico il brano che segue nei vv. 91-103, come il tessuto vocalico ci ha confermato. Le consonanti consentono, con sibilanti aspre (“nozze, esser, se stesse, avanzi, testimonianza, tradussero”), dentali (tribunali, pietose, d’altrui, toglieano, etere, eterne, destina, Testimonianza, fasti, tombe, domestici, temuto, giuramento, riti,  virtù, patrie, pietà congiunta tradussero), esplosive (pietose, responsi, polve, patrie, pietà, per”) e gutturali (“che, quindi, lungo): come al solito si mescolano con una minoranza di consonanti più dolci: le liquide e nasali (“Dal, tribunali, are, diero, alle umane belve, altrui, toglieano, all’etere maligno,  alle fere,  i miserandi avanzi, Natura, a sensi altri destina, Testimonianza, tombe,...: è inutile continuare, perchè sono rare le parole che non contengano una di queste tipiche consonanti della tenerezza e gentilezza; solo riportiamo i casi più puri e risonanti in tal senso: “Lari, giuramento, religion, congiunta, lungo, anni). Se si aggiungono le fruscianti (belve, vivi, fere, veci, fasti, polve, virtù” ), qualche “S” dolce (“pietose, miserandi, uscian) e qualche sdrucciolo (toglieano, etere,domestici, tradussero, ordine) si ha la solita completezza di spettro musicale , che però varia di predominanza a secondo del tono lirico emergente.

La contrapposizione dell’angoscia che incuterebbe la fede cristiana nella immortalità, rispetto al sereno ricordo dei defunti nel paganesimo, genera dapprima il brano drammaticamente accusatorio dei vv. 104-114a; poi quello che sale dall’idillio all’epopea nei vv. 114b-136, per ricadere nella polemica contro l’infingarda generazione italiana nei vv. 137-145a e terminare con un miscuglio di epopea e di elegia nei vv. 145b-150.

Il consonantismo è coerente nel primo squarcio (104-114a), al punto che possiamo citare parole intere anzichè fare elenchi di  suoni forti  dominanti e  deboli recessivi. In “Non sempre i sassi sepolcrali” è il rincorrersi di quattro “S” a far drammaticità; in “fean pavimento” è il sinergismo di consonanti (“f| p| v| t”)[126] col vocalismo cristallino, levigatissimo (“fean pavimento”); altri vocaboli  fanno stridore da soli: “ lezzo, città, meste, d’effigi”-ati scheletri, balzan, esterrefatte, desti...”.

Il brano idillico-epicizzante di 114b-136 inizia con l’estasi della fusione tra epopea già presente nell’intenzione del poeta e l’idillio che gli si impone per i particolari suggeriti dalla prima fantasia circa i riti pagani: vv. 114b-129. L’epicità, per quanto riguarda le consonanti, è qui affidata alla “P” che prevale nei primi quattro versi (“cipressi, puri, impregnando, perenne, protendean, per, perenne, e prezi”-osi”, perchè)  ed alle dentali e sibilanti aspre, prevalenti in seguito (“cedri, zefiri, prezi”osi, sotterranea notte, tutti, petti, fuggente, amaranti, zolla, raccontar, intorno, sentìa”). Ma, a parte il lavorio delle vocali già segnalato, occorre tener presente per la componente idillica l’orchestra delle palatali (cipressi, cedri, impregnando, accogliean,  fuggente, luce), le liquide (inutile ormai contare le “R”: bastino le parole con  la “L” : “effluvi, l’urne, accogliean, lacrime,favilla, illuminar, gli, dell’uom, al Sole, luce, le, lustrali, viole, zolla, libar, Elisi”), le nasali (“impregnando, perenne, protendean, memoria perenne, acciogliean, lacrime, rapìan, amici, illuminar,sotterranea, notte,uom cercan morendo, mandano, fuggente, fontane, amaranti educavano, funebre, pene, una fragranza intorno sentia...”), le fruscianti (“effluvi, zefiri, vasi, votive, favilla, fontane, versando, educavano, viole, funebre, fragranza”)...

L’epicità della trama musicale dei vv. 130-4, nonostante l’ordito del pensiero idillico,  è innegabile nell’analisi delle vocali; ma (lo si è accennato) il consonantismo coopera invece con l’idillio del pensiero. Di fronte alle cinque “P”, “T”, CH” stanno undici nasali, una “S” dolce (“pietosa”) e due palatali (“ vergini| Geni”), oltre alla solita orchestrazione delle liquide (“gli| avelli| della| clementi|; cari, orti, suburbani, britanne, vergini, amore della perduta madre, pregaro, ritorno, prode”...). Musicalismo ambivalente e non elidente, che lascia cioè affiorare l’idillio del pensiero in una coabitazione discorde: basterbbe a testimoniare la somma grandezza poetica del Foscolo.

Inutile commentare ulteriormente i due versi supremi 135-6, di assoluta, purissima epopea.

Segue il brano contro “il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo” del Regno italico, i troppo lussuosi palazzi e monumenti funebri, con l’auspicio finale di una diversa vita e diversa fine: vv. 137-50. Polemica e dramma, ma con l’eco della precedente epopea che si impone nel v.143 con un elogio alla classe che sta fustigando (“decoro e mente al bello Italo regno”) e con l’innalzamento finale  ad una magnanima aspirazione per la propria sepoltura  (vv. 145b-150). Nel consonantismo, il dramma  ci sembra si riveli in “furor, geste, sien, ministri, tremore, inaugurate, Orco, cippi, marmorei, patrizio, adulate, stemmi”, ma, come per le vocali, abbiamo un contrasto  vincente nelle liquide, nasali, fruscianti e nelle parole sdrucciole. La parola-concetto  (lo testimonia questo brano) è il principale e, ove capiti, unico portatore del tono lirico: il musicalismo della parola stessa aiuta potentemente, ma non necessariamente, perchè è fattore espressivo subordinato e secondario.

Gli altri 5 versi o poco più (145b-150) che sono vocalicamente epicizzanti,  rimangono, nelle consonanti, incerte tra la epopea e l’accoramento contro la fortuna persecutrice: ci troviamo di fronte a tre “P”, nove dentali,  cinque gutturali, una doppia “S” ed una “ST” in parola tronca (“amistà”) che con “vendette” ed “eredità” pare dominare il panorama sonoro del brano; ma non possiamo ignorare le dodici nasali e diciotto liquide (di cui  ben otto “L”), le due “V”  e la “F” del brano. Insomma, mentre le vocali inclinano per la epopea, le consonanti seguono più adeguatamente il polisenso lirico dello squarcio, complesso e, direi, contorto nei sentimenti, perchè riesce ad accumulare epopea, protesta drammatica ed elegia in pochi versi...

Il brano che inizia al v. 151 con “A egregie cose” e termina al v. 201 con “la virtù greca e l’ira”, notissimo ed uno dei più belli del carme, è sublime nel tono epico (fan eccezione i drammatici 190-195 a proposito della disperazione fiduciosa -ci si permetta l’ossimoro- di Alfieri). Si tratta di un’epopea che, inizia con tre versi e mezzo di entusiasmo, di epicità esultante per le speranze raccolte nelle tombe di Santa Croce in Firenze. Ma, poi, quando cita i magni viri, i personaggi illustri di tali tombe –Machiavelli, Michelangelo, Galileo- lo slancio perde di foga: rimane il senso della grandiosità, ma  lo stupore, il rispettto, la soggezione a tali maestri inducono una epopea meno gioiosa e più ammirativa, il tono resta imponente ma si fa pesante (vv. 151-164). Ma già l’elogio di Michelangelo richiama un consonantismo più duttile, che si apre ed alleggerisce ulteriormente nella contemporanea esalatazione di Galileo e Newton. Col v. 165, a costo di una arditezza logica che assomiglia ad un volo pindarico, in cui le connessioni razionali sono molto allentate, Foscolo si abbandona ad una così sincera, appassionata,   vivace celebrazione del paesaggio e della letteratura di Firenze che la geografia e la storia della Toscana ne escono mitizzate; ed il lettore è immesso in un’atmosfera visivamente olfattivamente e tattilmente percepibili, mentre il cuore è elevato al cielo della  esultanza e della soddisfazione. Lo abbiamo visto: le vocali si affermano come corresponsabili primarie di un tale grido e canto di gioia. Ma le consonanti? Ebbene, sono più facilmente interpretabili come fattori di epicità nella parte solenne ma riverente, che non in quella spiegata ed entusiastica.  I vv.154-164 sono impostati non solo su un vocalismo maestoso e possente, ma anche su una prevalenza di dentali (da “temprando” a “rotarsi”),  labiali (da “posa”a “prima”), gutturali (da “quando” a “sgombrò”) e sibilanti aspre (“sfronda, sgombrò”): l’epoea è rigorosa ma possente. Già più scorrevole e fremente, solare e cordiale è il consonantismo dei primi versi: alla dentale forte “T” (cinque volte), alla palatale dura “P” (due volte),    alle quattro gutturali (“egregie, cose, peregrin, che”), fanno da ammortizzatori e rasserenatori le innumeri liquide, nasali, palatali (egregie, accendono, ricetta).  E van notate le due parole sdrucciole consecutive (”animo accendono”). Questa “ouverture” del brano, incupitasi un poco per riverenza ai grandi nominati, riesplode nella virtuale visitazione al paradiso ecologico toscano (vv. 165-188a): qui, mentre le vocali fanno da fattore portante  alla grandiosità della gioia espressa, il consonantismo dà uno “Schwung” ( slancio, estro) a quella  epopea più aperta, magnanima, dolce e lieve che il motivo ispiratore impone anzitutto con i  giudizi  delle descrizioni visive o delle rievocazioni storico-letterarie. Troviamo un’altra dozzina di parole sdrucciole, intanto, cioè un numero eccezionale; poi le liquide  con una frequenza straordinaria di “L”: ne abbiamo contate trenta, di cui sei in coppia (“colli, convalli, Ghibellin, Calliope, intelletti, all’Italia”); la dozzina o quasi di fruscianti “V|F” e le non poche palatali (“felici, pregne, ciel, incensi, fuggiasco, dolce, Celeste, auspici”) e le “U” che riecheggiano da una parola all’altra in “Luna| luce” e in “nudo|nudo”. Una epopea solare, aprica, piena di aria e di luce.

I vv. 188b- 197a, dedicati alla passione di Alfieri,  travagliata fra il bisogno di libertà e la costatazione di sempre peggior tirannia, suonano drammatici e lo attesta anche il corteggio musicale. Ma è interessante notare come questi versi conservano, quasi per abbrivo, la foga epica del brano precedente, sicchè le vocali larghe sono sempre frequentissime, sebbene vi  siano quattro “U”  (“Numi, muto, nullo, cura”), un discreto numero di fruscianti (“venne, Vittorio, vivente, posava, avea, volto, fremono) con liquide e nasali a raddolcire le gutturali, dentali, sibilanti aspre ( da “questi” a “spesso”, da “Vittorio, ispirarsi, irato” a “patrii, muto, deserto,  campi”....”).

 Più che di drammaticità, è il caso di parlare di tragedia peri versi 201b-212, ove la battaglia di Maratona è evocata con gusto felicemente romantico, di miglior  tempra che non la scena notturna dei cimiteri nei vv. 75b-86a. Quattro ci sembrano i fattori principali, responsabili della atmosfera  turbinosa e sconvolgente evocata da questi versi. Anzitutto vi è  il susseguirsi di “R”, anche a coppie, nei versi 204-207 e 210; secondariamente, troviamo l’infoltirsi abnorme di “U” (una quindicina) e della affine “V” (sette); in terzo luogo il già citato prolungarsi vitreo, stridente del suono nei quattro iati di “Eubea, vedea, igneo, spandea”; infine l’onomatopea dello scalpitare irregolare dei cavalli nella battaglia,al v. 210, mediante il ricorso ad un accento   faticoso  (sulla settima anzichè l’ottava sillaba),  in un endecasillabo che contiene ben cinque “A”: tutto questo  rende bene il senso della  violenza dei destrieri  nel loro incedere. Le “A” sono quattro (tre ictate) negli ultimi due versi del brano, con quattro dentali, tre gutturali e tre labiali.: è il sigillo della sarabanda guerriera, mentre  l’ aggettivo “corrusche” ha una funzione perversa non piccola.  Il brano è già stato riportato a p. 17.

Ancora epopea, nei vv. 213-25, con una nota di protesta per la ingiustizia della vita terrena, a stento  compensata da un gesto riparatore delle divinità infernali. Tre accenti susseguentisi sulla quinta, sesta e settima sillaba (Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi”);  così come “drizzò”(sibilanti aspre), “egee| marea| Ajace| retée” (iati, più o meno riassorbiti dalla metrica in una sola sillaba, ma  urtanti per la levigatezza vitrea e dissona); “d’antichi fatti| certo udisti risuonar dell’Ellesponto| i liti” (densità di dentali); “portando alle prode retèe l’armi d’Achille” (frequenza di dentali ed in più le due esplosive “P” con la gutturale in “Achille”),  son evidentemente  caratteri dei versi che dicono ordine alla drammaticità. Del resto, la frequenza delle  liquide e delle nasali apporta quell’equilibrio che volge altrettanto efficacenmente all’epopea il complesso del brano, così come fanno le vocali, nonostante il segnalato  infittirsi di “E” ed “I” nei primi sei versi.

I settanta versi finali sono, dunque, giocati sulla simbiosi di elegia ed epopea, col risultato di quella commozione che rimane nel cuore come la melodia peculiare di tutto il carme. I concetti li conosciamo: la morte distrugge tutto, eppure qualcosa si conserva attraverso la collaborazione di le tombe e la poesia che  a quelle si ispirano: saranno solo illusioni, per il pensiero razionalista, ma al Foscolo sfugge un lapsus circa una fede  in qualcosa di più, quando afferma “Chè de’ Numi è dono| serbar nelle miserie altéro nome”,  espressione che pare deporre per una Provvidenza divina  sul tipo di quella che ha reso giustizia ad Aiace Telamonio.

 Ci aspettiamo, sul piano delle consonanti, uno sbilancio in favore dei suoni tenui e teneri, fra le palatali, dentali, gutturali, sibilanti aspre, da una parte; e le liquide, nasali, palatali e fruscianti, dall’altra. Tralasciando i primi quattro versi già da noi sospettati come prosecutori del momento drammatico, proprio del gruppo di versi precedente (vv. 213-225), possiamo  prendere come campione i vv. 230-257, i meno alti nella commozione, ma già  introdotti in tale spirito lirico.

Troviamo 75 nasali (preponderanti le “N”),  5 sibilanti dolci (“deserti, sposo, Eliso, viso, ambrosia”), 18 fruscianti (“vi, rovine, vince, Giove –tre volte-, vitali, voto, diceva, viso, vigilie, volontà, fati, fama, piovea, Ninfa, fe’, fato”), 15 palatali (“oggi, vince, Giove, Giove, Giulia gente, Giove, dolci vigilie, cielo, gemea, accennando, giusto cenere, sciogliendo), e un numero senza numero di liquide (una quarantina di sole “L”).  A contenere il fremito di dolcezza in questa onda lunga di consonanti “contemplative”, sta uno sparuto battglione di 24 gutturali (comprendendo anche “peregrini, crin”), 9 sibilanti aspre (Z|SS|S impura), 23 dentali, di cui un paio di doppie (“Elettra, Erittonio”) e qualche altra già annumerata alle “S” aspre (“custodi, resti,giusto). Decisamente sono le vocali le custodi della veemenza epica, mentre alle consonanti viene affidato il compito di addolcirla e di  esprimere  il bisogno struggente di pianto, la tristezza infinita di fondo.

 Naturalmente, nel computo da noi tentato, quello che interessa è la percentuale dei rapporti fra consonanti dolci e forti, non il numero assoluto chè, trattandosi del brano più lungo da noi esaminato di tutto il carme, è ovvio che le presenze in sè siano più numerose per ciascuna componente in gioco. Ribadiamo che, salvo casi di posizione complicata da altri fattori, non prendiamo nota della dentale media “D” e della sibilante “S”, come spesso non si è fatto molto caso della vocale media “E”: si tratta di suoni ambivalenti, che vengono trascinati a giocare con il musicalismo vincente, nel campo vocalico o consonantico.

Dal v. 258 alla fine entra in scena Cassandra e  il lirismo raggiunge profondità da brivido: le consonanti non si accontantano di attenuare l’effetto delle vocali larghe, prevalenti e portatrici di emozione grandiosa ed esaltante, ma le avvolgono e imbevono di un velo di lacrime, fondendo la elegia con l’epopea nella più altamente commossa polifonia   della nostra letteratura. Contiamo le  consonanti seguendo gli incontri del testo, ma tenendo divisi i due gruppi delle forti e delle tenui.  Ivi” ci mette di fronte ad una frusciante: è la prima di venticinque (“Ivi, venne, guidava, apprendeva, giovinetti, ove, figlio, cavalli, invan, servar, vedovili, devote, fronde, vedrete, avelli, vie, far, trofeo, fatali, afflitte, argivi, avrai, ove, fia, versato, finchè). Alla “V” sono da avvicinarsi le undici “U” (“Nume,  mura, Numi, lutti, urne, tutta, due, due, su , mute, l’ultimo). Le “R” sono   quasi novanta (ottantotto, tenendo conto delle due, tre presenti in  una sola parola: “Cassandra, parlar, Troia, mortale, ombre, amoroso, amoroso, apprendeva, sospirando, Laerte, pascerete, permetta, ritorno, patria, vostra, cercherete, mura, opra, lor reliquie fumeranno, Troia, avranno, servar, miserie, altéro, cipressi, nuore, Priamo, crescerete, presto, proteggete, padri, scure, asterrà, frondi, dorrà, toccherà l’altare, proteggete, padri, vedrete, errar, vostre, ombre, brancolando, penetrar, abbracciar, interrogarle, gemeranno, antri, secreti, narrerà, raso, risorto, per, far, trofeo,  sacro, prenci, argivi, eternerà per, abbraccia terre, gran padre, onor, Ettore avrai, lagrimato, patria versato, risplenderà, sciagure”) e le “L” sono sessantatrè (“allor, le, parlar, mortale, all’ombre, l’amoroso, lamento, al, Laerte al figlio, cavalli, cielo, la, le, lor, reliquie, nelle, altéro, palme, le, vedovili lagrime, la, dalle, lutti, l’altare, le, brancolando, negli avelli, l’urne, interrogarle, Ilio, volte, splendidamente, le, bello l’ultimo,  il, placando quelle afflitte alme col, il, lagrimato, il, la, il Sole, risplenderà, le). Le nasali rasentano il centinaio (tra le moltissime “N” e le  non poche “M”, ne abbiamo contate novantaquattro!). E completiamo la parte elegiacogenetica delle consonanti con il conteggio delle palatali, che sono quattordici, di cui quattro raddoppiate (“giovinetti, dicea, cielo, cercherete, cipressi, proteggete, proteggete, cieco, abbracciar, gemeranno, prenci argivi, abbraccia, Oceàno). Le sibilanti dolci sono sei (amoroso, amoroso, pascerete, miserie, crescerete, raso)

E le consonanti dure? si comincia con “Cassandra”, dunque con una gutturale, che trova ovviamente delle prosecutrici: sono in tutto ventisei (cantò,carme, guidava, Argo, cavalli, cercherete, reliquie, queste, chè, lagrime, chi, scure, consaguinei, toccherà, mendìco, antichissime, brancolando, interrogarle, secreti, sacro, placando, canto, quante, lagrimato il sangue, sciagure). Con “in petto” ci imbattiamo nelle dentali, che sono quarantotto, di cui cinque raddoppiate (Troia, [127]mortale, nepoti, giovinetti, Laerte, permetta, ritorno, patria, vostra, cercherete, Penati, Troia, stanza, queste, tombe,altéro, piantan, crescerete, presto, innaffiati, poteggete, vedrete, vostre, penetrar, interrogarle, antri, secreti, tutta, tomba, volte, risorto, splendidamente, mute, ultimo, fatati, vate, afflitte, canto, eternerà, quante, terre, tu, pianti, Ettore, santo, lagrimato, versato). Le sibilanti aspre sono sedici, tenendo conto anche delle doppie (“Cassandra, sospirando, vostra, stanza, queste, cipressi, presto, scure, asterrà, vostre, antichissime, versato). Le esplosive labiali, infine, sono trentuno (“Petto, parlar, apprendeva, sospirando, permetta, patria, opra, Penati, palme, cipressi, piantan, Priamo, presto, proteggete, padri, pio, proteggete, padri, penetrar, abbracciar[128], per, più, Pelìdi, placando, prenci, abbraccia, padre, pianti, per, patria, risplenderà”).

 Si tratta, dunque, di valori relativi: ebbene il prevalere delle consonanti “contemplativosimili” sono decisamente superiori alla drammaticogenetiche. Di nuovo: le vocali sostengono l’epopea; le consonanti tendono a creare una velatura di elegia; l’insieme aiuta quel lirismo di compassione, commozione che è il culmine del grande capolavoro foscoliano.

Anche uno sguardo ai verbi conferma il prevalere della quiete sul moto, della contemplazione sulla cinestesia, della vita interiore su quella esterna. Ecco un tentativo[129] di elenco nei primi novanta versi. Tra i verbi di quiete totale o almeno  di un moto puramente interiore, nel primo brano, porrei “confortate, è, udrò, governa, parlerà, fia, perduti, distingua, involve, affatica, invidierà, sofferma, vive, sarà, destarla, è, si vive, nutriva, porgendo, renda, serbi, consoli, lascia, ha, mira, vede, lascia, preghi, oda, impone, giace, cantando, educò, è, fan, sei, sento, siedo, sospiro, sorridevi,  fremendo, copre, era, guardi, dorma, lasciò, accusar, son, obliate, preghi, sorge, onorato”;  tra quelli di moto sicuro, invece, “danzeran, semina, fugge, traveste, raccolse, errar, ricovrarsi, manda, contende, t’appendea, ornavi, pungean, venivi, vagolando, pose, insanguina, raspar, ramingando, ululando, uscir, fuggia, svolazzar. ”

Riprendiamo la  cernita, prendendo a campione i settantacinque versi da “A egregie cose” sino a “ l’onda incitata dagli inferni Dei””, che scegliamo perchè particolarmente movimentato. Ma il riposo od il moto puramente interiore ci pare si esprima in “accendono, ricetta, vidi, posa, temprando, svela, vide,  veste, popolate, udivi, allegrò, desti, serbi, rifulga, ispirarsi, irato, è, molcea, posava, avea, abita, fremono, parla, nutriva, sacrò, vedea, balenar, fumar, vedea, udisti, suonar, mugghiar, è, serbava, incitata,” mentre prevale il movimento esteriore in “ fanno, sfronda, grondi, alzò, rotarsi, irradiarli, stese, sgombrò, gridai, versa, festanti, mandano, adornando, rendea, invadeano, trarrem, venne, errava, veleggiò, cozzanti, cercar, spandea, incalzar, accorrenti, scalpitanti, correvi, drizzò, portando, ritolse”: 37 verbi di quiete o moto interiore contro ventisette di movimento esteriore.

E potremmo fermarci qui.

Ma vi sono altri componenti del carme che si barcamenano egregiamente fra  ragionamento classico e  intuizionismo romantico. Da una parte, il carme presenta una unità mirabile,  proprio perchè nasce dall’armonizzazione della triplice prospettiva dei valori, impresa  razionalmente erculea, eppur riuscita  Dall’altra, i passaggi da una visione all’altra delle varie tematiche non sono così  trasparenti e logici, come auspicherebbe il lettore candido che vorrebbe una  comprensibilità immediata nei versi di Foscolo, affine a quella della prosa nei Promessi Sposi del Manzoni.

  E’, difatti, lo sviluppo logico del poemetto, che ha attirato subito  le critiche di molti studiosi, di ogni estrazione ideologica (Bettinelli, Giordani, Monti, Pindemonte, Tommaseo, Torti...).  Non è in questione il suo senso complessivo (“che vuol dire?”),  perchè questo risulta globalmente comprensibile, ma la chiarezza  dei  passaggi  da un punto di vista all’altro nella  valutazione della utilità delle sepolture, nella dimostrazione  della opinione del poeta in materia e nella critica  di quelle diverse ed opposte (“quale è il procedimento dimostrativo della tesi paradossale ed affascinante?”). In altri termini il problema è questo: vi è una unità ragionevole del carme o si tratta di intuizioni staccate ed arbitrarie, di tronconi di pensieri senza giustificato motivo di coesistenza ? Chi ha espresso nella forma più organica la obiezione all’opera fu il francese Aimé Guillon (che giunse a definirla “poema fumoso”), nel “Giornale Italiano” del 22 giugno 1807. A lui il Foscolo diede risposta lo stesso anno con la Lettera a Monsieur Guill... su la sua incompetenza  a giudicare i poeti italiani[130]che contiene lo schema del ragionamento sotteso al carme e che noi qui  cerchiamo di riesporre con una certa libertà, in  modo da renderlo ancor più comprensibile.

-Vv. 1-22: All’arida ragione, la tomba e il culto dei morti non sembra servire a nulla, vista la scomparsa di tutto l’uomo con la morte (negazione della immortalità dell’anima e della vita ultraterrena);

-vv. 23-40: Eppure, no: la tomba serve, perchè dona l’illusione della presenza del defunto ai propri cari, e   il conforto di essere ancora in comunione con loro. E’ già un vantaggio: fa parte di una religione consolatoria, di una fede medicinale  che placa  il  dolore;

-vv. 41-50: Non è dunque favorevole all’uomo l’editto di Saint Cloud, che sta per essere applicato anche in Italia e che vuole le tombe tutte uguali e quasi ne proibisce il nome sulla lastra sepolcrale. Ecco un precedente che può far presagire ciò che accadrà: la sepoltura anonima del Parini impedisce di ritrovarla e di onorare un uomo che è stato un promotore di grandi valori, come la rettitudine e la poesia.

-vv.91-150: ma v’è di più: la sepoltura, assieme alla pratica religiosa, alla istituzione  del matrimonio e della giustizia sociale nei tribunali, è stata un segno della crescita dell’uomo fuori dalla brutalità animale: per ciò stesso, essa è una manifestazione del progresso intervenuto nell’uomo ed ha  la funzione di stimolarne una continua crescita. In proposito bisognerà distinguere fra le tombe cristiane, curate in vista  della Vita eterna;  e quelle pagane della classicità greco-romana, che si preoccupavano unicamente del residuo rapporto  (sentimentale) fra vivi e defunti. Nel cristianesimo, infatti, i parenti  non si occupano della bellezza della tomba e della possibile  comunicazione con i  cari ivi sepolti, perchè sono unicamente  angosciati dal problema della salvezza eterna della loro anima, al  punto da crearsi incubi per il dovere del suffragio   con cui purificarli dalle colpe terrene, suffragio da ottenere venalmente dal clero.   Essi, anzi, arrivano a porre le tombe sotto il pavimento delle chiese, contaminando il profumo degli incensi con il lezzo dei cadaveri. Ben diversa era la condizione delle tombe dei pagani che, cremato il defunto e conservate le ceneri in urne artistiche, riposte fra il verde di piante suggestive, invitavano a colloqui silenziosi e ad usi gentili (come il libar latte sulle tombe). Ebbene, un tipo di sepoltura simile è quello usato in Inghilterra, dove le giovani si recano ad esternare l’affetto ai genitori defunti ed a pregare i “Geni patrii” per le vicende politico-militari del proprio popolo (come nel caso di Nelson, morto nella vittoria navale a Trafalgar).  A questo punto, alla polemica contro la concezione cattolica delle tombe, Foscolo aggiunge l’imprecazione contro nobili, borghesi ed intellettuali lombardi che,  nelle tombe, vedono soltanto uno sfoggio di ricchezza e potenza,  chiusi come sono ad ogni ideale di gloria e di  progresso;

-vv. 151-212: Va allora ribadito: le tombe sono stimoli efficaci ad operazioni degne, nel campo dell’eroismo e della genialità, come sono prova quelle conservate nella chiesa di Santa Croce in Firenze (elogio di Machiavelli, Galielo e Michelangelo). In questo brano vi è il salto logico più ardito, con l’anticipo di celebrazioni alla terra toscana tutta per la felicità del clima e lo splednore dei paesaggi; a Firenze in particolare, per aver dato i natali od i parenti a Dante e Petrarca. Solo dopo questi elogi, inaspettati nel processo della esposizione-dimostrazione circa il valore e la funzione delle tombe, solo alla fine, dunque, giunge il plauso per il privilegio ancora più grande (ecco il  legame logico, che finalmente affiora) della custodia dei sepolcri nella chiesa citata, sepolcri che racchiudono ogni speranza di futura grandezza dell’Italia, perchè solo dal loro esempio ed ispirazione potrà venire alla patria lo stimolo alla libertà, unità, desiderio di gloria nel pensiero e nelle gesta eroiche. Ecco perchè Alfieri veniva spesso a far visita a questi “marmi”: vi trovava conforto alla disperazione per le sorti di umiliazione e soffocamento di ogni libertà e possibilità di opere geniali all’Italia a lui contemporanea. D’altronde non si tratta solo dei sepolcri di Santa Croce: vi sono stati anche quelli di Maratona, donde i Greci traevano ispirazione per la   conservazione e promozione della loro civiltà e dove ancora il visitatore odierno sente e rivive, attraverso fantasia e sentimento,  l’esempio degli eroi antichi, che ivi difesero la libertà della patria contro le soverchianti forze persiane.

-vv.213-25: ed a proposito del mar Egeo, Pindemonte (cui è dedicato il carme, in forma di lettera colloquiale) avrà intuìto, navigando nei luoghi della civiltà classica di Grecia, che la storia, estinta ormai ogni forma di invidia, fa spesso giustizia; avrà sentito, ad esempio, presso il capo Retèo, la marea riportare, rumoreggiando, le armi di Achille sul sepolcro di Aiace Telamonio, restituite dalle divinità sotterranee come al più forte tra gli Achei combattenti sotto  Ilio, dopo averle strappate alla nave di Ulisse, il quale le aveva ottenute con l’astuzia e con l’appoggio del prepotente re  Agamennnone.

-vv. 226-295:  Dunque, la morte non è la fine totale: rimane qualcosa dei grandi fatti e personaggi attraverso il loro sepolcro perchè, prima che il tempo ne spazzi fin le rovine, la poesia, che essi   suggeriscono ai geni della parola, immortala le imprese, degne di imitazione, dei nostri antecessori: caso esemplare è il grande avvenimento di Troia, che la poesia di Omero, ispiratosi ai seplocri di Ettore e degli altri combattenti  caduti eroicamente per l’ideale patrio, ha eternato a beneficio e stimolo ad altre grandi imprese, per gli uomini di ogni generazione.

Questa ricostruzione, logica fin  che si vuole, perde però ogni profumo lirico, ogni fascino  emotivo, ogni bellezza artistica:  va smarrita anche, sul piano tecnico-espressivo, quella specie di  voli  pindarici che, una volta  intuito il passaggio sottinteso, cosituiscono uno degli aspetti gioiosamente sorprendenti del capolavoro. Si è già segnalato il più ardito di tali passaggi dall’elogio  delle tombe in Santa Croce al canto esultante per la felicità di paesaggio e di clima della Toscana e di Firenze (vv. 154b- 188a). Non è l’unico caso.  Al v. 53 (“...E senza tomba giace| il tuo sacerdote, o Talia...”) la semplice congiunzione “e” andrebbe  integrata per maggior logicità e chiarezza   “E così, ad esempio, senza tomba...”.  Tra il verso 90 ed il 91 la chiarezza del passaggio esigerebbe di sostituire la prosecuzione addirittura asindetica (senza congiunzione) con una forma più estesa: “Non solo i sepolcri consolano i vivi e danno l’illusione di essere ancora in contatto coi loro cari scomparsi, ma sono stati, assieme alla istituzione della giustizia sociale e delle nozze pubbliche, una tappa nell’ascesa dalla beluinità inintelligente alla spiritualità dell’uomo: e possono essere, se onorati intelligentemente,  tuttora un a spinta a svilupparla. Ed ecco allora il legame col brano dei sepolcri in Santa Croce ed a Maratona (vv. 151- 199): Che a tale funzione di civiltà le tombe servano tuttora, lo testimonia il magistero delle tombe  nella chiesa di Firenze. Difatti “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, o Pindemonte...”. Il v. 199 (“e nutria contr’a’ Persi in Maratona| ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,| la virtù greca e l’ira” viene più ovviamente collegato con i sepolcri di santa Croce, attraverso un passaggio di questo genere: “E’ tanto vero che dalle tombe spira  ancora il senso  della idealità degli antichi  eroi, immolatisi per la libertà o la grandezza della patria, che proprio dalle tombe ai caduti di Maratona gli antichi Ateniesi traevano stimolo ed entusiasmo a combattere contro la prepotenza dei vicini aggressori; e il ben disposto visitatore odierno potrebbe coglierne l’impulso a rivivere quella battaglia ed a sentirne  tutto l’orrore e tutta la grandiosità. Il breve squarcio dei vv. 213-225 potrebbe essere così connesso alla battaglia di Maratona: “ Nè solo ai vivi i sepolcri arrecano  vantaggi:  di fronte alle tombe si rende alfine giustizia alle doti geniali di personaggi, perseguitati in vita per motivi ideologici o di invidia. Caso notevole è quello del riconoscimento della forza e valore di Aiace Telamonio, privato della eredità delle armi di Achille in vita, ma onorato dalla loro deposizione sul suo sepolcro, dopo che egli si era suicidato per il dolore del misconoscimento. Il passaggio, poi, all’ultima parte, è più ardito ancora e comprensibile solo nella mentalità del neoclassicismo filosofico: l’arte, per tale ideologia, è  l’opera che  consola i vivi, in quanto ridesta lo spirito sereno, non tormentato dalla coscienza del male, proprio degli antichi pagani, nell’età classica. Ma in tale prospettiva viene operato dal Foscolo un notevole progresso: l’arte non solo  riporta i vivi, psicologicamente, in un passato meno tormentato, rievocando epoche più felici, ma li ìncita per il futuro, facendo in qualche misura sopravvivere   i grandi trapassati, così da    riceverne per sempre gli  stimoli a bene operare per il progresso della civiltà. Specialmente la poesia, che dai sepolcri deve trarre ispirazione per opere degne di riconoscimento e di imitazione. Difatti le tombe da sole non bastano ad eternare personaggi ed avvenimenti, perchè anch’esse sono soggette al logorio inesorabile del tempo[131]: solo la celebrazione in versi immortali dei poeti assicura la sopravvivenza psicologica, se non proprio ontologica, dei geni e degli eroi meritevoli di memoria e di imitazione. L’ideologia neoclassica subisce uno “spin” verso una rivalutazione di fatti e personaggi passati, che son fatti operare ed influire non tanto per consolazione, ma per istruzione, educazione ad “egregie cose”, fattibili non senza l’ intervento di un fato (Provvidenza?) che a tempo e luogo  favorisce il trionfo della giustizia e delle altre opere proprie della spiritualità umana.

Il carme ci mette di fornte, dunque, ad  unità  e coerenza complessiva,anche se non pedante; ad intuizioni singole sorprendenti, ma non isolate; a passaggi volanti e colpi d’ala inattesi, ma non arbitrari. Vi è abbastanza razionalità per definire classico il poemetto; vi è abbastanza libertà di procedimento per aggregarlo in qualche misura allo spirito romantico.   Eppure l’impressione di spirito romantico nel carme è assai più forte che non lo possa attestare questa aliquale libertà di procedimento dimostrativo. C’è qualche elemento più  generale e più radicale ad imparentarlo  coll’ormai  diffuso spirito  sentimenale.  Si è già parlato del tono confidenziale e discorsivo, quasi epistolare, oltre che di una parte del linguaggio cordiale e tenero. Ma vi è questo di più: la impostazione problematica del motivo ispiratore. Il carme si presenta come un problema da risolvere, come rivelano le numerose domande che costellano la prima parte del carme (sino al v. 73). I primi quindici versi sono occupati dall’impostazione della questione, con due domande, una di seguito all’altra:  “All’ombra de’ cipressi o dentro l’urne| confortate di pianto è forse il sonno| della morte men duro?” (vv. 1-3); “Ove più il Sole....?” (questa seconda domanda occupa i  vv. 3b-15). Un’altra domanda inizia già al v. 23 (“Ma perchè pria del tempo a sè il mortale| invidierà l’illusion che spento| pur lo sofferma al limitar di Dite?”) ed anch’essa si raddoppia (“Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armnia del giorno, se può destrala con soavi cure nella mente de’ suoi?”: vv. 26-29a).  Se la domanda del v. 62 (“O bella Musa ove sei tu?”) può apparire un artificio retorico, ciò conferma che la forma problematica era così presente nell’animo del poeta, che essa affiorava anche dove non ve n’era una  autentica necessità. La risposta, d’altronde, inizia con un “forse” (v. 72) ed è un’altra domanda (“Forse tu, fra plebei tunmuli guardi| vagolando, ove dorma il sacro capo| del tuo Parini?” I “forse” sono quattro nel carme (si vedano anche i versi 2, 26 e 75) e le ipotetiche sono cinque: si vedano gli inizi ai vv. 33, 42, 215, 244, 263. Son tutte forme espressive che accentuano  il carattere  solo verosimile e probabile, non rigidamente definito, della soluzione raggiunta: il discorso si aggira su temi fondamentali  di filosofia, ma è condotto avanti solo con argomenti psicologici e, quindi, non assolutamente certi, ma solo verosimili.

 

 

IL SIGNIFICATO DEL FOSCOLO

 

        A LIVELLO INTELLETTUALE: IL PENSATORE TORMENTATO

 

Intelligenza più acuta che profonda, più analitica che sintetica, egli non riuscì a superare il sofisma fondamentale, comune alle due culture dell’Illuminismo e del Romanticismo, pur opposte in tanti altri aspetti. Non si accorse che l’opposizione fra cuore ed intelligenza è artificiosa, perchè il cuore non ha capacità nè intuizionistiche nè, tanto meno, ragionative, sicchè non ha poteri di  conoscenza o di giudizio e neppure di percezione delle sensazioni o di elaborazione delle risposte emotive, essendo solo organo manifestativo di queste ultime. I nervi –lo si sapeva già dal tempo di Galileo (Dialogo dei massimi sistemi: 1632) e di Rembrandt (Lezione d’anatomia del dottor Tulp: 1632) non partono dal cuore, ma solo vi arrivano: il sentimento non è, dunque, opera del cuore, ma  del cervello, nel cui ambito andava riportata la sua eventuale opposizione alla “ragione”. Fin qui Foscolo (come tutti gli iluministi) errava su dati noti alla scienza da   almeno un secolo e mezzo.

A questo punto, però, entra in gioco una mancata distinzione tra emozione e sentimento, una distinzione, che per almeno un secolo ancora sarebbe rimasta  impervia alla ragione: solo  attorno al 1890 James e Lange sarebbero giunti alla sorgente dell’emotività nell’ipotalamo del diencefalo, permettendo finalmente di dar fondamento scientifico alla  differenziazione tra quella che è una pura attività animale, sia pur condivisa dall’uomo (l’emozione)  e quella che era invece una attività solo umana (il sentimento), legata perciò alla intelligenza.[132]

Praticamente ( come già enunciato varie volte) il sentimento non è altro che l’attività della ragione od intelligenza, che genera degli stati emozionali attorno a determinate idee (comuni complessivamente a tutti gli uomini –si pensi alla religione ed all’amore sessuale- o specifiche per alcuni individui particolari – si pensi alla filantropia ed al patriottismo, alla  gioia dello studio od alla passione per la intraprendenza socio-politica, econimica, tecnologica, ecc.). Il sentimento è, quindi, una forma di conoscenza razionale accompagnata da uno stato emotivo od appassionato.   Non ha allora senso parlare di una opposizione fra razionalità e sentimento, anche se ha senso parlare  della eventuale inaffidabilità del sentimento, per il fatto che un’idea appassionatamente abbracciata può rendere più difficile l’esame della sua verità od erroneità. Ma il sentimento inizia da un’idea (perciò da un fatto razionalissimo), che è percepita dalla mente come radicalmente importante per la vita umana ed è perciò accompagnata da una esplosione di emotività che, se rende arduo l’esame critico della validità o meno dell’idea istigatrice dello stato appassionato, non  rende però irrazionale o infrarazionale o prerazionale  la idea originaria.

Il Foscolo fu forse l’uomo che, nella sua generazione a cavallo dei due secoli e delle due culture, incarnò più drammaticamente tale disorientamento gnoseologico, perchè lo accettò non solo  a livello puramente intellettuale, deducendone i corollari delle negazioni  metafisiche[133] più  estreme, ma ne soffrì in misura straziante a livello emotivo, fino a ricavarne il capolavoro sublime Dei Sepolcri; e lo tradusse nella vita pratica con tale   coerenza e furore che, se non giunse ad attuare il più volte accarezzato  progetto di suicidio, pure condusse vita così disordinata e sconcertante, da lasciare per ciò stesso almeno il sospetto   che le premesse ideologiche  giustificatrici di tale  disorientamento pratico, erano irrazionali, cioè disumane.

Il tentativo che egli  costruisce, sulla scia della ideologia neoclassicistica ma  operandovi un progresso ammirevole, di salvare in qualche modo le proposte della mente appassionata (sentimenti), attraverso il “pessimismo attivo” o la “religione delle illusioni” e, comunque, attraverso la disperata speranza che giungano pure tempi in cui i valori siano coltivati e promossi da persone eccezionali a costo della vita, , è ammirevole, ma  non convincente.[134] In realtà se nell’atmosfera del capolavoro la proposta di salvare psicologicamente i valori umani supremi (pur negandone la consistenza ontologica o metafisica) è seducente e può sembrare paradossale ma pur valida, a mente riflessa essa non può non apparire una contraddizione mascherata, un paralogismo, un ossimoro elegante ma insostenibile, una forma di retorica  maliosa ma delirante. Come è giustificabile la fede nella sopravvivenza dei defunti, se l’uomo muore integralmente? La psicologia è un effetto della ontologia antropologica: se questa vien meno del tutto, l’influsso del non-più- esistente  si genera  solo per la  psicologia dei vivi: i quali, però, possono ricordare  e commuoversi, ma non imitare fatiche e sacrifici inutili.  Come credere nella efficacia delle imprese geniali ed eroiche, se i “valori” non hanno consistenza ma sono solo illusioni? Come aver fiducia in un loro imporsi nella storia umana, se questa è in preda al caos e senza una Guida provvidente? 

 

        A LIVELLO POETICO: L’ARTISTA MIRABILE

 

 Dell’arte sublime di molti sonetti e soprattutto dei Sepolcri si è parlato a lungo, per riconoscere: l’altezza od intensità emotiva che affascina fino al brivido  e la complessità del registro poetico che sbalordisce.

La sublimità del canto foscoliano fa pensare ai Prigioni di Michelangelo, al Canto dei barcaioli del Volga: travolge in una voglia di pianto e di esultanza, di ammirazione e di compassione.

Quanto alla complessità del timbro lirico, vorremmo qui completare quanto detto a proposito della ambivalenza classico-romantica del capolavoro foscoliano. Tra le caratteristiche dei suoi versi migliori che depongono per il loro carattere romantico piuttosto che classico, ne abbiamo  taciuto uno che pure è inconfondibile: i poeti classici non riescono a fondere due sentimenti in un risultato di lirismo complesso (epopea ed idillio, in estasi; epopea ed elegia, in commozione; elegia ed idillio,  in tenerezza...); sono solo i poeti romantici (Virgilio, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Pascoli, ad esempio) che vi riescono. Ebbene, Dei Sepolcri sono una caso paradigmatico, perchè il sinergismo dei vari stati d’animo non è presente solo nella commozione finale, ma anche nell’estasi dei versi 165-179 (celebrazione del paesaggio toscano  e di Firenze, patria di Dante e Petrarca) e nella tenerezza dei versi 114b-129 (culto dei morti presso gli antichi greci e romani). Se vi si aggiunge Alla sera (estasi: previene in parte “L’Infinito” di Leopardi), A Zacinto (fra tenerezza e commozione), A Firenze (fra estasi e tenerezza), allora si avrà la conferma che in Foscolo convivenao due anime, o meglio  nel suo cervello la sfera cosciente aveva difficoltà ad unificare il proprio pensiero, sicchè questo inviava al sistema neurovegetativo messaggi complessi e, razionalmente, poco concordi:  il sistema  emotivogenetico esplodeva in reazioni coerentemente diverse e contemporanee di fronte a tali messaggi e le reazioni erano così formidabili, da riuscire ad imprimere nella forma espressiva della parola intelligente entrambi i timbri o registri emozionali,  fusi armoniosamente in tonalità liriche multiple. Personalità disequilibrata, quella del Foscolo, ma capace di  regalare all’umanità, in momenti di estro particolarmente potente, un tipo di esperienza emozionale di eccezionale elevatezza e  complessità. Non per nulla alla prima lettura il carme può risultare difficile e scostante: come si è già detto, esso misura  i fruitori dalla radice del naso in su; ne saggia la forza di intelligenza e la maturità emotiva.

 

        A LIVELLO SOCIO-POLITICO: IL VATE DELLA NUOVA ITALIA.

 

I residui di costituzione atletica e di temperamento attivo, presenti nella sua individualità, facevano del Foscolo un “passionato decaduto a nervoso”, un nostalgico di una vita operativa, cui non corrispondeva più possibilità di successo. Il suo era un agitarsi impulsivo e disordinato, più che un agire organicamente mirato e programmato. Eppure la sua vita fu una perenne propensione all’agire, con sprazzi di notevole attività  nella milizia e nella propoganda socio-politica[135]: attivismo incostante, per una  impazienza che lo portava a ritenere attuabili prontamente progetti di perfezione totale, nella incapacità di intuire la necessità di dilazioni, gradualità, compromessi, ecc. “Tutto, subito e perfettamente” sembrava il suo motto, colla esigenza di una Italia indipendente anche da Napoleone e governata costituzionalmente: il risultato fu quello di osannare, dapprima e di detestare, poi, Napoleone; di militare nelle sue truppe  e dimettersene, salvo a rientravi quando si profilava il pericolo che vincessero potenze ancor più conservatrici  che non il regime  filofrancese (come dopo la  caduta della Repubblica di Napoli nel  1799 e dopo la sconfitta di Lipsia nel 1813).  Se il suo vocabolario è equivocamente attivistico, poco dinamico e scarsamente cinestetico, egli era però amleticamente convinto del dovere dell’azione, cioè della necessità morale di pagare con i fatti le proprie convinzioni. A differenza dell’Alfieri, egli non si chiuse in uno splendido isolamento, ma si arruolò volontario, combattè valorosamente e venne più volte ferito; tornò a mettersi a disposizione dopo Lipsia nell’esercito del Regno italico, accantonando divergenze teoretiche e disgusti personali (soppressione della cattedra di eloquenza, appena assegnatagli). Il risultato, però, è quello prevedibile in un temperamento troppo simile a quello di Amleto: egli  finisce per risultare un distruttore di sè e di sue cose, morendo solo, paradossalmente assistito dalla carità di un membro di quel clero che, nella migliore delle ipotesi egli compativa e, nella peggiore, detestava.

 Da questa dedizione al dovere politico nacque la ammirazione e le celebrazioni che  ottenne dalla generazione risorgimentale, che vide in lui, come in Alfieri, un precursore ed un esempio: esaltazione che culminò nel trasporto dei suoi resti mortali, dall’Inghilterra, nella chiesa di Santa Croce, nel 1871.

Eppure non potevano mancare dubbi ed esitazioni, specie nei più pensosi e severi protagonisti del Risorgimento. Se il Cattaneo gli attribuì il grande merito di aver dato all’Italia una nuova istituzione, l’esilio volontario, egli stesso e Mazzini furono poi quelli che più criticarono l’atteggiamento disperatamanete pessimista del Foscolo dopo il 1815. E in verità la sua reazione ai moti del 1821, intempestivi ed infelici ma pur animati da grande patriottismo, fu poco degna di lui e dimostrò che orgoglio e pregiudizi lo avevano portato ad un pessimismo insensato. Il suo disprezzo, infatti, per gli italiani impegnati nelle lotte da lui stesso auspicate per la libertà, nasceva dal trasferimento  al giudizio sulla storia concreta, di ipotesi avventate, che la sua poesia poteva anche rendere fascinose e seducenti, ma che nella vita pratica non  potevano trovare applicazione. Se, infatti, l’ipotesi  che nella storia umana regna sovrano il caos della pura casualità fosse  presa sul serio, tutti si finirebbe, come lui dopo il ritiro fuori d’Italia, ad estraniarsi dall’impegno nella politica e nella vita sociale, per concentrarsi sull’egoistica preoccupazione di salvare od imporre se stessi. Così facendo a Londra, ne ricavò il   disastro degli ultimi anni, sia nei rapporti umani, sia nell’esito economico, sia nelle stesse proposte critiche. Si estraniò, cioè, gli editori, che pure si erano mostrati a lui favorevoli al suo arrivo a Londra; sperperò il patrimonio della figlia Maria (chiamta Floriana); si lasciò ossessionare dalla ipotesi totalmente infondata di un Dante riformatore religioso, che avrebbe racchiuso nel poema un progetto (da scoprire “sotto il velame de li versi strani”), convinzione ossessiva che lo indussero a considerae la Commedia un’opera religioso-politica  più che un lavoro poetico. 

Foscolo ebbe tutti i difetti delle sue virtù, tutti gli svantaggi della sua genialità: ammirabile  nella poesia sublime, ammirabile nella sincerità appassionata, ma deludente come  pensatore, fallimentare come uomo d’azione. La genialità artistica fu pe rlui come la collana d’Argia: tesoro di inestimabile valore, ma portatrice inesorabile di sventure.  Per la sua figura di uomo, il silenzio pensoso è   l’omaggio adeguato, così come l’apprendimento a memoria dei suoi versi lo è  per il poeta.

 

 

                                                                           Eleno Vergili, 23.08. 202, ore 9.55

 

         INDICE

VITA: pp. 1-4                OPERE: pp. 5-6                

PERSONALITA’: pp. 6-18: A) Testimonianze: pp. 6-10   

                                      B)   Proposta di sistemazione: pp 10-18:   1) Costituz. fisica: 10

                                                         2)Temperamento: 10-15;       3) Tipo di Intelligenza: 15-16

                                                         4) Tipo di fantasia: 16-18

AMBIENTE: PP. 18-27      A)  Elementi dell’ambiente rifiutati: p. 18-19

B)     Ambiente pratico-esistenziale: 19-20

C)     Ambiente specificamente culturale: 20-27

LA POESIA: pp. 27-89          A) Panoramica delle opere principali: pp. 27-31

                                       B) MOTIVI ISPIRATORI: pp. 32-62

                1) Universalità: p. 32;      2) Triforme prospettiva: pp. 32-3; 

I singoli motivi ispiratori: pp. 33- 62  1)Paesaggio: pp.33-36; 2)Autobiografismo: pp. 36-41;  3) Motivo storico-mitologico: pp. 41-6;  4) Motivo ideologico: pp. 46-50;     5)Le sue incarnazioni privilegiate in Foscolo nelle tre diverse prospettive: a) Natura: pp. 51-2;  b)Bellezza e amore: pp. 2-55;   c) Amicizia: pp. 55;  d) Dignità...eroismo: pp. 56-57; e)Provvidenza: pp. 57-59; f) libertà della patria: pp. 59-60; g) Immortalità pp. 60-61; h) Armonia: pp.61-2.

D)   TONI LIRICI: PP. 62-70

E)      NOTE DI STILE: pp. 70-89:  1) Ultime lettere: pp. 71; 2) Odi:

pp. 72-73;  3) Sonetti: pp. 73;    4) Dei Sepolcri: pp. 73-89: a) Carme: che è? p. 73; b) Schema dei Trionfi: p. 74; c)  Elementi di classicità: pp. 74-5; d)... e di romanticismo: pp.75; e)fattori ambivalenti:  Musicalità: 75-86;   altre componenti ambivalenti: 86-89.

F)      Significato del Foscolo: pp. 90-3.

                              

 

 

 

 

 

 

  

       

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[1] Ricito da Luciana  Cella (Cutolo) “Flash su tre secoli”- Milano, Ceschina, 1969, pp. 115-6. Le citazioni da questo studio sono fatte, in genere, indicando le pagine nel testo, senza altre indicazioni. Entrambi i fratelli, Giovanni e Giulio, morranno suicidi (1801; 1838); la sorella Rubina si sposerà a Venezia.

[2] La definizione è nel ritratto che, del Foscolo, ha delineato Isabella Teotochi Albrizzi  e che riporteremo più avanti.

[3] Id. p. 117. Isabella era sposa a Carlo Antonio Marin; nel suo salotto convenivano Ippolito Pindemonte, Saverio Bettinelli, Aurelio de’ Giorgi Bertòla.

[4] L. Cella, o. c. p. 117.

[5] La Cella ricita qui da Giuseppe Chiarini, Vita di Ugo Foscolo (1910).

[6] La Fagnani Arese si concesse al Foscolo, ma non rinunciò agli altri suoi amanti. Sarà la stessa donna che, moglie dell’avvocato Arese, farà uccidere Giuseppe Prina, ministro delle finanze  del Regno italico sotto il figliastro  di Napoleone  Eugenio Beauharnais, per poter  tenere i beni comprati dal marito all’asta come prestanome dello stesso Prina. Questi,  nella sua posizione di ministro, non poteva  mettere il suo nome in simili acquisti, ma ne approfittava ugualmente attraverso quello che riteneva un amico fidato, appunto l’avvocato Arese!

[7] Il motivo immediato della rottura del rapporto fino allora amichevole, fu il contrastante giudizio sui versi di Cesare Arici (Brescia 1782- 1836), elogiati dal Monti, stroncati del Foscolo.

[8] “Per essersi preso cura di una ragazza madre abbandonata da un avventuriero, si trovò circondato dalla malevolenza generale; stava a pensione da un pastore che lo faceva morire di fame, nessun medico voleva prestare le proprie cure ai suoi occhi malati perchè non aveva denaro. – V’è pur della grande putredine, in questa arcimoralissima Svizzera!- scrive amaramente” (p. 125).

[9] Floriana sopravvisse al padre per soli tre anni, mantenuta dalla carità di amici: soccombette alla etisia. Tra le amicizie  più generose è da citare quella del prete spagnolo Riego; tra quelle più affettuse, la sempre   affettuosa Quirina cui, due mesi prima di morire,  il poeta scrisse una lettera, che non riuscì  però a spedire: “...ora muoio e tu non sarai qui, mia Quirina”. Il canonico Riego si prese cura di Floriana ed ereditò i manoscritti del Foscolo. Per modico compenso venenro ceduti nel 1835 a Gino Capponi, che li passò poi alla Accademia Labronica (Livorno), cui tuttora appartengono.

[10] Si tratta di Angelo Sassoli.

[11] Ecco i titoli degli altri sette: Di se stesso| All’Italia (nella prima edizione: “Per la sentenza capitale proposta nel Gran Consiglio cisalpino contro la lingua latina”)| Di se stesso| Di se stesso all’amata| All’amata| Il proprio ritratto| (in due stesure)| A se stesso.

[12] Gian Battista Giovio (Como, 1748-1814) fu un uomo non privo di ingegno, che disperse però in componimenti poetici mediocri ed in studi filosofici e storici di poco conto. Pure “I cimiteri”, versi del 1804,  poterono offrire al Foscolo qualche spunto per i suoi Sepolcri. La figlia si chiamava Francesca.

[13] Opere minori e minime: una cinquantina di composizioni arcadiche, composte fra il 1793 ed il 1797; la cantica “Robespierre”; il sonetto “A Venezia”; l’ode “Ai novelli repubblicani” (1797); la lettera premessa alla seconda edizione dell’ode “A Bonaparte liberatore”; il “Discorso sull’Italia” al generale Championnet; le “Orazioni per i comizi di Lione”; le poesie edite postume, fra le quali si trovano un gruppo di “Sermoni” ( di cui solo uno finito),un  certo numero di epigrammi (di cui alcuni pungenti e degni dell’Alfieri); “Il sesto tomo dell’io”, studio autobiografico sulla linea della “Notizia intorno a Dididmo Chierico”, in tono malizioso, scettico, ma rimasto allo stato frammentario; la collaborazione con Il Monitore d’Italia; alcune traduzioni  secondarie; l’edizione delle opere di Raimondo Montecuccoli (1808).

[14] E’ difficile, invece, ricavare note precise sulla  individualità dalla Notizia intorno a Didimo Chierico, dove  le affermazioni più suggestive ci sembrano queste: “Teneva irremovibilmente strani sistemi; non però disputava a difenderli”; “Celebrava don Chisciotte come beatissimo, perchè s’illudeva di gloria e d’amore”; “Insomma pareva un uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana”. Troppo poco o troppo lambiccato: Foscolo sta dando le caratteristiche della nuova personalità, auspicata, sognata, voluta anche, ma non connaturata, bensì scoperta riflettendo (anche) sul romanzo di L.Sterne.

[15] Con lo stesso titolo “Di se stesso” vi è anche il sonetto IV, poeticamente appena discreto ed autobiograficamente poco significativo (lamenta la passione d’amore  impossibile o per Teresa Pichler, la moglie del Monti; o per Isabella Roncioni, già fidanzata e presto sposata).  Lo stesso giudizio mi pare valga per il sonetto V (Di se stesso all’amata).

[16] “Il proprio ritratto|Bis” ha queste variazioni interessanti: il v. 3: “tumidi labbri ed al sorriso lenti”;  v. 7: “sobrio, ostinato, uman, prodigo, schietto”; le  due terzine: “Mesto i più giorni e solo; ognor pensoso;| alle speranze incredulo e al timore,| il pudor mi fa vile e prode l’ira”:| cauta in me parla la ragion, ma il core,| ricco di vizj e di virtù, delira. – Morte, tu mi darai fama e riposo” (rifacimento del 1821-4).

[17] Le parole del viaggiatore, dal contesto, paiono dette in riferimento al Foscolo, che se ne sente offeso.. Comunque, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, benchè romanzo, sono evidentemente autobiografiche in gran parte. Qui non ci interessano le occasioni vuoi affettive (amore per la Pichler e per la Roncioni) vuoi ideali ( disperazione per la patria tradita a Campoformio), ma la psicologia del protagonista del romanzo, che anche in questo è fortemente autobiografico: le esaltazioni e le disperazioni del suo sentire, cioè la aborrme capacità di godere e di soffrire, il tumultuare di un animo non padrone di sè, che precipita (si direbbe troppo naturalmente, quasi fatalmente) verso il suicidio, sono comportamenti consoni con le testimonianze e la vita dell’autore. Che non riuscì a suicidarsi, ma lo tentò con l’oppio, fornitogli dalla Pichler per calmarne le smanie amorose; ed ebbe la sventura di  averne  in qualche modo la  predisposizione, visto che i due fratelli finirono volontariamente la vita (Giovanni, a Venezia, per debiti di gioco, si  uccise nel 1801, con una pugnalata, in presenza della madre; Giulio, ripetè il gesto insano nel 1838).

[18] I. Teotochi Albrizzi, Ritratti, Roma, 1946, pp. 37-8. Ricito dalla Garzantiana, 1976,  L’Ottocento, p.137.

[19] M. Pieri, Opere, Firenze, 1850, I, p. 39.

[20] U. M. Pallanza, La letteratura italiana, Milano, Dante Alighieri, III/I, pp.62-3; N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, III, pp. 46-50. Di quest’ultimo, il piccolo brano citato è a p. 46, ma nelle pagine 47-51 il Sapegno dà una traccia della personalità del Foscolo col paragrafo intitolato “L’Indole e la poetica”, che è  esatto, ma un po’ troppo sintetico e poco esemplificato; e steso con un linguaggio ancora generico,  che non tien conto  delle indicazioni psicologiche basate su studi di laboratorio o di indagini statistiche, come quelli della scuola di Groninga e di René Lesenne.  

[21] Ricordiamo: “emotivo” non significa tanto “dotato di sensibilità forte”, ma “capace di esprimerla e trasmetterla altrui”; “attivo” non significa tanto “capace di agire comunque”, ma almeno di  “operare con successo, cioè con dei risultati positivi”; e, soprattutto, di “trascinare gli altri all’azione ed alla cooperazione con lui”; “ primario od instabile” significa che la perseveranza è difficoltosa, non è un dono di natura, perchè il sistema nervoso  si esaurisce facilmente, vuoi per la scarsezza delle riserve di energia, vuoi per la tendenza a sprecarle con un uso disordinato e disorganico; e che la costanza del lavoro è una conquista imposta da una intelligenza, capace di fornire alla volontà motivazioni ideali convincenti allo sforzo, nonostante la stanchezza innata.

[22]Nel nostro libro “Musica in parole” (Varese, 1983) additiamo questo tipo di personaggio come presente insistentemente nei motivi ispiratori di grandissimi poeti od artisti: da Edipo re (Sofocle) ad Amleto (Shakespeare), da don Chisciotte (Cervantes) ad Adelchi (Manzoni), dal “padre” nei “Sei personaggi in cerca d’autore” (Pirandello), al  “matto” ne “La Strada” (Fellini) a “Nazarin” nel film omonimo di Bunuel. Trattandosi di una ispirazione basata sulla psicologia  dei loro poeti inventori, cioè di un “motivo inconsapevolmente autobiografico”, si può certo parlare realisticamente  di “Sei ( e più) autori in cerca di un personaggio” , oltre che di “Sei personaggi in cerca d’autore”.

[23] “Sapevano contrastare tutte le sue passioni”, perchè egli era ben cosciente che il combattere Napoleone come tiranno (dapprima) e l’esilio (poi) gli avrebbero impedito l’accesso a quel benessere che solo poteva aprirgli la strada al loro esaudimento (gioco, donne, lusso).  D’altronde vi è una sola via per negare libertà interiore (“di arbitrio”, in ternmini filosofici), quella di dichiarare Foscolo non tanto un nevrotico (e chi potrebbe negare che lo era?), ma uno psicotico, cioè un demente (e chi potrebbe mai affermare che lo fosse?).

[24] Il patrimonio ereditato da Mary-Floriana lo impiegò, a parte le spese per la servitù e la vita da “milord”, a costruirle una villa degna della ricchezza di lei: tremila sterline profuse, per lo più, nell’edificare il “Dygamma cottage”, un edificio ispirato ai suoi studi di greco (aveva scritto un articolo su questa lettera, la “F”, scomparsa dall’alfabeto greco, con le conseguenze  sulle parole ove era stata soppressa: solitamente vien sostituita dalla vocale “U”)

[25] E’ necessario  tener presenti, alle spalle della psicologia, le componenti fisiologiche, già aperte dalla indagine scientifica, in attesa di misurare anche le predisposizioni anatomiche, non ancora  perfettamente conosciute.  In concreto, in Foscolo vi era  un più facile impiego di noradrenalina, il messaggero chimico che mantiene la prevalenza del momento ortosmpatetico nell’attività dell’ipotalamo (questo è la centralina, posta alla base del cervello, della vita neurovegetativa e della sensibilità animale, cioè delle emozioni e degli istinti). Ma questo  carburante, mentre genera una spinta all’attvismo forzato del cervello, si esaurisce però facilmente, esigendo tempi lunghi di riaccumulo e ripresa di istigazione ad agire. Quando l’organismo, invece, agisce sotto l’impulso della serotonina, il carburante dei centri vagali o parasimpatetici, la sua operosità avviene nella calma, nella distensione, nel risparmio di energie, sicchè la efficienza è meno  fulminea ma più prolungata, stanca meno  e permette di lavorare più a lungo.

[26] Le notizie provengono sempre dallo studio di L. Cella, cit. p. 119.

[27] Di Quirina Magiotti Mocenni, si deve parlare di una vicinanza amicale eccezionale: ma non bastante per farla fisicamente vicina, chè ne rifiutò il matrimonio, come si è visto; e la  presenza  fu solo epistolare ed affettiva.

[28] Si veda Lanfranco Caretti, Ugo Foscolo, in Storia della Letteratura italiana, Milano Garzanti, 1976,  L’Ottocento, pp. 106-9.

[29]  “Yorick” è il personaggio centrale del “Viaggio sentimentale”. La traduzione dallo Sterne  voleva introdure in Italia un tipo di romanzo, il cui interesse dipendeva solo secondariamente dalla tepida e marginale aura emotiva (comico-ironica), ma  principalmente dal contenuto o motivo ispiratore, non  tanto grandioso, quanto radicale: un tipo di romanzo sostanzialmente incentrato su tesi di filosofia antropologico-gnoseologica. Eccole, in sintesi: i pregiudizi creati dal linguaggio, ereditato dall’ambiente in cui ci si forma, crea equivoci continui e sostanziali, sicchè  gli uomini parlano in realtà lingue diverse  pur usando gli stessi fonemi; ne discende il corollario della incomunicabilità soggettiva e del relativismo oggettivo circa ogni valore e la vita tutta. L’ispirazione è spazzante e, quindi, per sè molto impegnativa; il modo di trattarla, poi, signorilmente scettico ed elegantemente cinico. Non vogliamo dare il merito principale del fallimento di tale intento del Foscolo  al successo abbagliante dei “I Promessi Sposi. Va notato, infatti, che il tentativo di trasferire in Italia una simile antropologia e interpretazione della vita era non solo precoce, ma addirittura incongruo e repulsivo. Gli italiani, anche razionalisti, non  hanno una psicologia da flemmatici;  sono dotati, invece,  di una sensibilità che esige  di scoprire il finalismo delle singole azioni e della vita intera. Atteggiamenti che negano significato alla esistenza rimangono, ancora nel secolo XX-XXI, inconcepibili,  gratuiti, assurdi e quindi estranei, almeno all’uomo medio, caratterizzato da un temperamento o nervoso o sentimentale, o collerico o passionato.  L’italiano comune, non sofisticato dalle influenze estere, sente d’intuito che  la pace apparente raggiunta nello scetticismo, in cui tutto è caso e fatalità, è  soltanto l’opposto dell’estremismo romantico, che si dispera per la stessa assenza di senso e di valori  oggettivi. Alla irrazionalità esaltata e disperata di Jacopo, succede il razionalismo sorridente ed irridente dello Yorick o di Didimo. Ma l’equilibrio sta proprio nella ragionevolezza di Renzo e Lucia, che neppure si sognano di negare l’evidenza della oggettività del bene (e del male), della assolutezza (ed unicità) della verità, del significato religioso (e morale) della vita; e sentono come momenti di tentazione l’urlo delle passioni, il richiamo dell’arbitrio emotivo-istintivo e la parallela insensatezza dell’enfasi nella espressione di Jacopo, così come il sorriso pacatamente scettico e la condotta raffinatamente cinica di Yorick- Didimo-Foscolo-Sterne. 

[30] Foscolo supera, dunque, pur facendo propria la funzione consolatoria dell’arte, la ideologia del Neoclassicismo, comunicandole una funzione ben superiore. Nel Neoclassicismo, le illusioni nascono da un oblio totale della irrealtà dei valori,  grazie all’estasi della produzione-contemplazione artistica; nel Foscolo, le virtù intellettuali e morali ricevono valore, accidentale ma vero, dalla capacità oggettiva  della poesia ad eternarle non solo nella memoria, riconoscimento, stima, ammirazione e riconoscenza dell’umanità, ma soprattutto nella capacità di farle imitare e rinnovare. Pel Neoclassicismo, l’arte disumanizza l’uomo, restituendolo alla incoscienza  primitiva, onde rendergli sopportabile la vita: è quasi una droga spirituale; in Foscolo, l’arte sublima le facoltà umane, favorendo la coscienza del passato  come stimolo al presente e rendendo oggettiva la sopravvivenza dell’uomo geniale o virtuoso, anche se solo psicologicamente (nella memoria) od occasionalmente (nella ripetizione non programmabile, ma affidata al caso).

[31] Dei Sepolcri, vv. 91-3.

[32] A parte la convinzione sull’insensatezza generale della vita umana, segno dello scetticismo foscoliano è anche il suo pessimismo generale sulla massa del popolo, cui basterebbero per vivere le tre “A” di “ara” (altare, Dio, fede religiosa, cioè mito ed illusione), “aratrum” (cioè il minimo necessario per il pane quotidiano) e l’ “arbor patibuli” (cioè la forca, per tenerlo lontano dal delitto); e la sua sfiducia totale sugli uomini ed il futuro d’Italia, dopo il Congresso di Vienna:egli non era capace di vedervi alcuno spiraglio di elevazione e miglioramento.

[33] Il confondere emotività e senmtimento è stato, si noti,  l’ostacolo primo agli studiosi per giungere a definire una  filosofia estetica di consistenza scientifica, sin dentro il secolo ventesimo: sia per mancanza di dati neurobiologici adeguati, sia anche per la insufficiente pazienza e potenza nell’elaborare la  vastità delle osservazioni raccolte da intelligenze più analitiche che sintetiche

[34] Si veda, in proposito, il citato “Musica in parole”, Varese, 1983, dove si cerca di documentare come, dopo le idee, il secondo ed ultimo fattore di espressione poetica sia la musicalità, da cui dipende anche l’impressione visiva, sia di superficie che tridimensionale.

[35] Sono i vv. 78-86 (“Senti raspar fra le macerie e i bronchi| la derelitta cagna ramingando| su le fosse, e famelica ululando;| e uscir dal teschio, ove fuggìa la Luna,| l’ùpupa, e svolazzar su per le croci| sparse per la funerea campagna,| e l’immonda accusar col luttuoso| singulto i rai di che son pie le stelle| alle obliate sepolture”); e  i vv. 108b-114 (“... le madri| balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono| nude le braccia su l’amato capo| del lor caro lattante onde nol desti| il gemer lungo di persona morta| chiedente la venal prece agli eredi| dal santuario”).

[36] La Chioma di Berenice è opera del poeta alessandrino Callimaco (Cirene, 305 ca- 240 ca a. C.); Foscolo  lo ridusse in italiano, partendo dalla traduzione (quasi completa) che Catullo aveva eseguito, in  esametri, dal testo originario al latino. I papiri ci han restituito l’originale greco.

[37] Si veda nelle Ultime lettere, specialmente la lettera del 19 e 20 febbraio 1799, in cui l’umanità tutta, compresi i personaggi più storicamente famosi e gli eroi “sono cieche ruote dell’oriuolo”; quella del mercoledì 23 marzo: “Tutte le mie passioni disperate; le disavventure delle persone più necessarie alla vita mia; gli umani delitti; la sicurezza della mia perpetua schiavitù e dell’obbrobrio perpetuo della mia patria venduta- tutto insomma da più tempo era scritto; e tu, donna angelica, potevi soltanto disacerbare il mio destino; ma placarlo, oh! non mai...”; e quella del 14 marzo, mezzanotte, in cui la Natura è ambigua (come lo sarà in Leopardi), a seconda che appaia materna nei momenti favorevoli e felici della vita o matrigna nei momenti di dolore e disperazione: “...finchè io ti vedeva bella e benefica, tu mi dicevi con voce divina: -Vivi- Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza de’ tuoi fiori mi fu pregna di veleno; amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli, adescandoli colla tua bellezza e co’ tuoi doni al dolore”

[38] Ecco  l’introduzione al lamento di Elettra morente a Giove: “Però che quando Elettra udì la Parca| che lei dalle vitali aure del giorno| chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove| mandò il voto supremo...” (vv. 241-44); ed ecco la  triste previsione della morte degli uomini troiani, nonostante le preghiere delle spose: “ ...ivi l’iliache donne| sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando| da’ lor mariti l’imminente fato” (vv. 255-7).

[39] Fra i corollari del razionalismo illuministico, Foscolo  accenna anche al pirronismo storiografico, ma desolatamente, cioè considerandolo sorgente di confusione e di scetticismo esistenziale: Ultime lettere, 17 marzo 1798.

[40] In espressioni come queste, si rivela clamoroso il legame fra razionalismo e orgoglio: l’uomo autosufficiente è eredità della superbia stoica, che  pregava dagli dei la stagione propizia, ma  attendeva dalla sola propria volontà la virtù morale

[41] Per l’Alfieri, si è visto; per il Foscolo, si legga la lettera a Santorre di Santarosa, scritta dal Digamma cottage, giovedì, 16 settembre 1824: “Ma per me non veggo altra via che mi guidi a una vecchiaia libera non dalla povertà, ma dalla indigenza....; nè redenzione veruna fuorchè la morte. Ed io ho pur ponderato con esatte bilance il  TO BE AND NOT TO BE di Amleto”: parole che egli fa intendere nel loro senso più sinistro, citando i versi di  Lucrezio sulla morte volontaria di Democrito: “Denique Democritum postquam matura vetustas| admonuit memores motus languescere mentis| sponte suo leto caput obvius obtulit ipse” (De rerum natura, III, 1039-41).

[42] Una volta ammessa l’evoluzione dal bruto all’uomo, dalla materia stolta allo spirito intelligente, è difficile non proseguire nell’attesa  fiduciosa di un progresso dall’ignoranza alla istruzione, dal disordine caotico all’ordine razionale, dalla ingiustizia alla giustizia, dall’infelicità alla consolazione. Ma Foscolo aveva un temperamento impulsivo; aveva un bisogno cocente di valori pronti e perfetti; mancava del senso della gradualità e della necessità di pazienza e perseveranza: tanto più sentiva il valore della storia, quanto meno lo possedeva in sè; il suo valorizzarla era un modo di esorcizzare un vuoto, o almeno un limite, della sua psicologia, di cui era dolorosamente cosciente.

[43] Thoma Hobbes, 1588-1679,  il famoso pensatore inglese che fu nominalista in gnoseologia (il pensiero non rappresenta l’essere), determinista in antropologia (mancanza di libero arbitrio) e materialista in metafisica (materia e movimento spiegano tutto l’essere), giunge abbastanza coerentemente a concepire l’uomo come egoista (di ciò che lo muove, egli cerca quanto gli piace e fugge quanto gli reca dolore) e, quindi, non socievole; ad auspicare,  di conseguenza, l’assolutismo di chi è a capo dello stato, unico ordinamento che impedisca la guerra di tutti contro tutti (“bellum omnium contra omnes”), visto che gli uomini sono lupi a vicenda tra loro (homo homini lupus).

[44] Il tema dell’ “Urania” manzoniana e de Le Grazie è molto simile: nel poemetto manzoniano la civilizzazione dell’umanità è affidata alle Muse. Pindaro trascura la invocazione delle Grazie in una sua gara poetica con Corinna, che così può essere vittoriosa. Ma Urania consola il grande poeta e gli prepara il poemetto sulla missione delle Muse, mandate da Giove a ingentilire gli animi degli uomini selvaggi.

[45] Angelo Mazza (Parma, 1741-1817) fu docente e preside della facoltà di lettere all’università di Parma, tradusse dall’inglese “The pleasures and imagination”, un poema filosofico-didattico di Mark Akenside; l’Inno al creatore di Thomson-James (1700-1748); e imitò Milton, Pope, Dryde. Compose poesie enfatiche, criticate dal Monti, dal Rezzonico, da Pietro Napoli Signorelli. Ma delle sue Odi si ricordò il Foscolo, che ne riecheggiò qualche motivo ne  Le Grazie.

[46] Carlo Castone Della Torre Rezzonico (Como, 1742-96) fu letterato che scrisse poemetti filosofici (“L’origine delle idee”: versificazione delle dottrine di Condillac), scientifici (“Il sistema dei cieli”) e storici (L’eccidio di Como); scrisse anche liriche, ma la sua opera più utile è  il “Giornale del viaggio d’Inghilterra negli anni 1787-88”.

Vi è poi un altro poeta che suggerì un intero verso al Foscolo, per il sonetto Alla sua donna: è Luigi Lamberti (“Luce degli occhi miei, chi  mi t’nasconde?”:  dal “Lamento di Dafni”).   Il Lamberti (Reggio Emilia, 1759-1813) fu buon grecista e tradusse da Sofocle (Edipo re), i canti di Tirteo e altri poeti greci. Aiutò il Monti nella traduzione dell’Iliade e scrisse poesie proprie, uscite dopo la sua morte (1822). Il Foscolo lo attaccò con un epigramma nel 1809: “Che fa Lamberti, uomo dottissimo?| Stampa un Omero laboriosissimo. Commenta? No| Traduce? Oibò!| Duqnue che fa?| Le prime prove ripassando va;| e ogni mese un foglio dà,| talchè in dieci anni lo finirà| se pur Bodoni pria non morrà.| Lavoro eterno! Paga il governo.” Ma i due avevano già litigato dopo la recita dell’Aiace, la prima tragedia foscoliana. In quell’occasione, il Lamberti aveva fatto circolare versi pungenti: “Nel presentarci il furibondo Aiace,| l’altero Atride| e l’Itaco fallace,| gran fatica il Foscolo non fè:| copiò se stesso e si divise in tre”. La risposta di Foscolo non fu meno mordace: “Agamennone, Ulisse e Aiace in lite| Ugo imitò, e si pinse; il buon Lamberti| gliel rinfacciava, ed imitò Tersite”.

[47] Sia la Notizia intorno a Didimo Chierico che l’Ipercalisse (scritta in latino ed edita a Zurigo nel 1816: Didymi clerici prophetae minimi Hypercalypseos liber singularis)  sono tra gli esempi di “scritti didimei”, cioè stesi nello stile, pacato e sereno, della nuova temperie psicologica alla “Yorick”. Ma nessuno dei due scritti giunge ad un valore lirico, cioè a far sentire l’ironia, anche se la “Chiave” per la lettura dello scritto “supernascosto” definisce l’opera  una “satira contro i dotti italiani, i quali facendo mercato della dottrina e della verità corruppero le lettere della gente italica; alimentarono l’ambizione e gli errori di Napoleone”. La scrittura segreta, arbitrariamente allusiva (quasi un codice di spionaggio) impedisce ogni preoccupazione emotiva, assorbendo la mente dell’autore e del lettore nell’intento di far corrispondere determinati nomi grecizzanti ed operazioni strambe con personaggi e costumi di singole personalità o di classi intere di cittadini,  nell’Italia del tempo.

[48] L’editto napoleonico del 1806 applicava anche all’Italia le disposizioni francesi del 1802: situare i cimiteri fuori degli abitati;  seppellire unicamente ivi (non nelle chiese o nei sagrati attorno ad esse, ad esempio) i defunti; uguagliare tutte le tombe,   potendosi bensì porre il nome sulla tomba, ma escluso ogni titolo nobiliare od altra iscrizione non approvata dalla Municipalità, salvo a porre questi su lapidi o monumenti addossati ai muri di cinta dei cimiteri stessi. Ci si può chiedere in proposito: erano, queste, norme dettate solo da preoccupazioni igieniche ed egualitatrie od anche da spirito antireligioso, che voleva impedire  di  facilitare la fede attraverso la devozione ai propri cari trapassati, dal momento che questi erano sepolti abitualmente nel “sagrato, cioè nella terra consacrata” sita attorno alle chiese? Si noti che, sebbene  l’editto sarebbe stato pubblicato solo nel settembre del 1806, tuttavia già da tempo si conosceva la decisione di farlo e se ne discuteva in Italia.

[49] Vedi, per queste vicende concernenti immediatamente l’origine de Sepolcri, la “Nota introduttiva” al carme, di Franco Gavazzini, in La letteratura italiana, Storia e testi, volume 51,  tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974, Ugo Foscolo, Opere, I, pp. 285-9. Il progettato poemetto del Pindemonte, già ridimensionato per suggerimento di Melchiorre Cesarotti, si ridusse allora all’epistola dallo stesso titolo (“I Sepolcri”: 1807) e metro (endecasillabo sciolto) del carme foscoliano. Ad entrambi cercò di rispondere Giovanni Torti, con l’epistola critica in versi “Sui –Sepolcri- di Ugo Foscolo e di Ippolito Pindemonte” (1808). Nessuno dei due componimenti sono, però, neppur lontanamente da paragonare al capolavoro foscoliano.

[50] Non sono disprezzabili neppure tutti i componimenti giovanili: i quattro sonetti In morte del padre (con un rifacimento parziale del secondo), quello di amaro rimprovero A Venezia, quelli intitolati Notturno e Alla donna gentil;gli sciolti dell’epistola A Vincenzo Monti, scritta dalla Francia durante i due anni 1804-6 in cui dimorò tra Boulogne e Valenciennes in attesa della mancata spedizione contro la Inghilterra, gli azzeccati epigrammi nello stile dell’Alfieri (alcuni già citati), e la stessa scherzosa Novella sopra un caso avvenuto in Milano ad una festa da ballo (canzone, in cui il pirncipe Vitaliano Borromeo rischia di morire in un bicchier d’acqua, mentre la nobiltà non ha il coraggio di venirgli in aiuto) testimoniano (con le raffinate traduzioni da Anacreonte e Saffo, da Catullo e dal Pontano, da Callimaco e da Lucrezio) che anche a prescindere dai capolavori, il Foscolo si sarebbe meritato un posto tra i poeti neoclassici in Italia.

 

[51] Con il trascorrere degli anni fino alla stesura del 1802, la donna reale cui lo scrittore si riferiva, fu dapprima una anonima fanciulla veneziana; poi Teresa Pichler, la moglie di Vincenzo Monti, che egli aveva rivista a Genova e che   velava con i tratti  di altre due donne che gli erano state a cuore, dallo stesso nome eppur così opposte fra loro: la cinica Teotochi e la illibata Roncioni (andata sposa al marchese Bartolomei).

[52]  “Il ritratto”,  canzonetta dell’adolescenza,  nega la propria bellezza: “A me, gentile, amabile| volto non diè natura,| ma diemmi invece un’anima| tenera, fida e pura”). Si ricordi la lettera della sorella Rubina, che conferma tale dato (p. 8)

[53] Si è già accennato al terzo poeta coinvolto nella disputa, Giovanni Torti,  che nel 1809, scrisse lui pure una “Epistola sui Sepolcri di Ugo Foscolo e di Ippolito Pindemonte”.

[54] In verità, i passaggi logici del carme sono difficili da intuire a prima lettura, tanto che le accuse di oscurità vennero anche da parte di Saverio Bettinelli, Pietro Giordani, Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte, Niccolò Tommaseo, Giovanni Torti (Ricciardi, I, p. 286). Il Guillon  aveva frainteso anche il senso di singole parole ed era giunto a parlare di “fumoso poema”. In realtà se oggi, troppo affrettatamente, ci si esonera dall’obbligo di inserire il carme nel programma di italiano per la maturità, ciò dipende dalla fatica richiesta per acquisire a fondo il senso di una lingua  raffinata, di un ragionamento complicato, messo assieme con  una logica pindarica,  cioè con passaggi intuitivi e non esplicitati, che  esigono sforzo di riflessione, anche quando vengono spiegati da un  insegnante adeguatamente preparato. Ma proprio la comprensione di tutto il carme, come già lo studio della Commedia, sottopone il cervello ad una ginnastica intellettuale che ne allarga ed approfondisce la potenza di comprensione, che  esalta, cioè, la capacità di lavoro della intelligenza. Il “carme” del Foscolo è una di quelle opere che “misurano gli uomini dalla radice del naso in su”.   

[55] Per il dramma tra il credere ed il non credere, tra la azione della Provvidenza nella vita umana o la sua totale soggezione alla Natura indifferente e casuale, si rileggano tutte le Ultime lettere, in particolare,  quelle del 1798 (dal 19 gennaio al 29 aprile,  dell’11, 12, 25 maggio, dell’ 8 e 20 luglio; del 4 dicembre (colloquio col Parini); e, tra  le lettere del 1799,  quella da Ventimiglia del 19 e 20 febbraio; e  le note di Lorenzo Alderani del 14, 20 e 25 marzo.

Per la  evoluzione dai bruti all’ uomo, si vedano i versi  91-103 dei Sepolcri (“Dal dì che nozze, tribunali ed are...”); per un legame più generico ma più spazzante fra tutte le forme di esistenza terrena, si rileggano negli stessi Sepolcri, i vv. 19-22 , già citati più di una volta  (“e una forza operosa le affatica di moto in moto...”).

[56] Il  sentimento è nominato nella gita ad Arquà del 20 Novembre 1797 (“il sentimento che m’infiamma”). Solitamente viene sostituito dalla voce  “cuore”, il cui contrasto colla ragione abbiamo avuto modo di citare più volte dalle Ultime lettere: si veda in particolare la lettera da Milano del 6 Febbraro (1799).

[57] Quante volte nelle Ultime lettere, la “Natura” e “il Cielo” (oppure, direttamente, Dio) si trovano appaiati o si succedono a breve distanza, senza che Jacopo si decida per una scelta fra le due Potenze che reggono l’uomo!  Si veda già in 20 novembre 1797 e specie in quelle del 20 luglio, del 17 settembre,1798; del 14 marzo e di Venerdì 25 III, 1799, ore 1.  

[58] Se Virgilio nelle Egloghe  si lamentavava “me tamen urit amor; quis enim modus adsit amori?” (II,68): e ancora contava due sole catergorie di innamorati: “et quisquis amores| aut metuet dulces aut experietur amaros”: III, 109b-110), il Foscolo non è lontano da tale prospettiva pessimistica: “Gioia promette e manda pianto Amore” (Le Grazie, II, 42, ripreso in III, 160). 

[59] Foscolo anticipa lo scetticismo di D’Annunzio e Trilussa, che si completavano così in due versi per loro ammiratori: “La vera gioia è sempre all’altra riva”; “Fortunato quell’uomo che ci arriva”!?

[60] “IL BELLO”  ci pare sinonimo  sia della felicità che dell’amore. Ecco altri passi interessanti: “-Non sono felice”- mi disse Teresa (20 Novembre 1797); “Non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: “Era uomo e infelice” (finale della lettera del 25 Maggio 1798); “Io ti feci nascere perchè tu, anelando alla tua felicità, cospirassi alla felicità universale” (Lettera del 14 Marzo, mezzanotte, 1799). Le Ultime lettere di Jacopo Ortis sono l’opera che contengono  i vocaboli più espliciti di questi valori, sia pure nella loro forma negativa.

[61] Lettera del 20 Nov. 1797: “Il Sole squarcia finalmente le nubi, consola la mesta natura”; del 3 Aprile 1798: “Il Sole! sublime immagine di Dio, luce, anima, vita di tutto il creato”.

[62] Ultime lettere, 12 e 20  novembre 1797.

[63] Ivi, lettera del  4 Dicembre 1798.

[64] Ecco i versi più interessanti: vv. 1-6: “Qual dagli antri marini|  l’astro più caro a Venere| co’ rugiadosi crini| fra le fuggenti tenebre| appare, e il suo viaggio| orna col lume del fuggente raggio...” ; vv. 79-84: “Regina fu; Citéra| e Cipro, ove perpetua odora primavera,| regnò beata; e l’isole| che col selvoso dorso| rompon agli Euri e al grande Ionio il corso”; vv.85-90: “Ebbi in quel mar la culla;| ivi erra ignudo  spirito| di Faon la fanciulla;| e se il notturno zeffiro| blando sui flutti spira,| suonano i liti un lamentar di lira”.

[65] La “Natura” è deificata colla maiuscola due volte (vv. 50 e 95); il “Sole”, cinque volte (vv. 3, 119, 122, 162, 294); la Luna, due volte (vv. 81 e 168).

[66]  Ecco i versi 70-90, che sono già stati citati, in parte, nella nota 35 e che sono pur  belli, anche se inferiori alla media del carme:  “Forse tu fra plebei tumuli guardi| vagolando, ove dorma il sacro capo| del tuo Parini? A lui ombre non pose| tra le sue mura la città, lasciva| d’evirati cantori allettatrice,| non pietra, non parola; e forse l’ossa| col mozzo capo gl’insanguina il ladro| che lasciò sul patibolo i delitti.| Senti raspar fra le macerie e i bronchi| la derelitta cagna ramingando| su le fosse, e famelica ululando;| e uscir dal teschio, ove fuggìa la Luna,| l’ùpupa, e svolazzar su per le croci| sparse per la funerea campagna,| e l’immonda accusar col luttuoso| singulto i rai di che son pie le stelle| alle obliate sepolture. Indarno| sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade| dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti| non sorge fiore, ove non sia d’umane| lodi onorato e d’amoroso pianto”.

[67] Ecco, più estesamente, le lodi e le polemiche del poeta  nei vesri 104-136, esteticamente validi anche se storicamente  partigiani: “Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi| fean pavimento; nè agli incensi avvolto| de’ cadaveri il lezzo i supplicanti| contaminò; nè le città fur meste| d’effigiati scheletri: le madri| balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono| nude le braccia su l’amato capo| del loro caro lattante onde nol desti| il gemer lungo di persona morta| chiedente la venal prece agli eredi| dal santuario. Ma cipressi e cedri| di puri effluvi i zefiri impregnando| perenne verde protendean su l’urne| per memoria perenne, e preziosi| vasi accogliean le lacrime votive.| Rapìan gli amici una favilla al Sole| a illuminar la sotterranea notte,| perchè gli occhi dell’uom cercan morendo| il Sole; e tutti l’ultimo sospiro| mandano i petti alla fuggente luce.| Le fontane versando acque lustrali| amaranti educavano e viole| su la funebre zolla; e chi sedea| a libar latte e a raccontar sue pene| ai cari estinti, una fragranza intorno| sentìa qual d’aura de’ beati Elisi.| Pietosa insania, che fa cari gli orti| de’ suburbani avelli alle britanne| vergini dove le conduce amore| della perduta amdre, ove clementi| pregaro i Geni del ritorno al prode| che tronca fe’ la trionfata nave| del maggior pino,| e si scavò la bara”.

[68] “Recate insieme, o vergini, le conche| dell’alabastro, provvido di fresca| linfa e di vita ahi breve a’ montani |gelsomini, e alla mammola dogliosa| di non morir sul seno alla fuggiasca| ninfa di Pratolina, o sospirata| dal solitario venticel notturno|. Date il mistico giglio, e se men alte| ha le forme fraterne, il manto veste| degli amaranti inviolato: unite| aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie| di Bellosguardo che all’amante suo| coglie Pomona, e a’ garofani alteri| della prole diversa e delle pompe,| e a’ fiori che dagli orti dell’Aurora| novella preda a’ nostri liti addussero| vittoriosi i Zefiri su l’ale,| e or fra’ cedri al suo talamo imminenti| d’ospite amore e di tepori industri| questa gentil sacerdotessa edùca.| Spira soave e armonioso agli occhi| quanto all’anima il suon, splendono i serti| che di tanti color mesce e d’odori:| ma il fior che altero del lor nome han fatto| dodici Dei ne scevra, e il dona all’ara| pur sorridendo, e in cor tacita prega:| che di quei fiori ond’è nudrice, e l’arpa| ne incorona per voi, ven piaccia alcuno inserir, belle Dee, nella ghirlanda| la qual ogni anno il dì sesto d’aprile| delle rose di lagrime innaffiate| in val Sorga, o belle Dee, tessete| a recarla alla madre...”

[69] Delle due Odi, la prima  concede poco spazio al paesaggio (i fiori dei vv. 15 e 26; i venti del v. 43; il lito e l’acque dei vv. 61 e 65; la “rupe etnea” del v. 95); la seconda, ha due strofe mirabili (la terzultima e la penultima )  sull’isola di Citera e Cipro (e del mar Jonio), che abbiamo già citate.

[70] Nel già citato L. Cella, Flash su tre secoli, Milano Ceschina, 1969, p.118.

[71] Jacopo abbandona i colli Euganei, dopo un colloquio con il padre di Tersa, che lo persuade, con parole pacate e sensate, essere il matrimonio con Odoardo l’unica scelta fattibile nelle circostanze  concrete.

[72] Certo è questo uno dei punti più vulnerabili per obiettare contro la chiarezza del poema: ma la passione che trascina  all’imprevisto spostamento nell’ordine dei beni, esaltati come peculiari o come posseduti in misura eccezionale da Firenze, è così veemente, da inibire ben presto (cioè non appena compreso  il pensiero denso, complesso dei versi) ogni obiezione: la poesia è così fascinosa da cancellare ogni meschina  esigenza di sillogistica perfezione.

[73] Parelerei di  “Lievitazione lirica appena incipiente” per quella “stamdard” del poemetto tutto, eccettuati cioè alcuni brani che segnaleremo, come quello distintissimo già più volte segnalato dall’Inno III. Con questo giudizio, siamo lontani dal giudizio di B. Croce, che vede anche nelle Grazie solo altissima poesia, da paragonarsi ai Sepolcri.

[74] L’unico riferimento storico lo troviamo nel sonetto A Firenze ,  dove le faide feroci fra Guelfi e Ghibellini, nel Medioevo, ed il soggiorno recente dell’Alfieri, in Lungarno,  condividono l’ispirazione con il tema amoroso nel ricordo di Isabella Roncioni.

 

 

[75]La Natura, nominata 20 volte almeno nelle Ultime lettere, nei Sepolcri è  deificata colla maiuscola  due volte (vv. 50 e 95); il Sole, citato colà 9 volte, è richiamato qui cinque (vv. 3, 119, 122, 162, 294). Dio che, sotto il nome anche di “Cielo”, “divinità”, “crocefisso” nelle Ultime lettere è citato ben 32 volte, nei Sepolcri è nominato una sola volta  e come rifugio di superstizione, cioè in senso negativo (v. 46), mentre un altro riferimento al Dio cristiano ed a Maria santissima avviene rispettosamente ma con terminologia pagana (in relazione a Michelangelo “che nuovo Olimpo| alzò in Roma ai Celesti”: vv. 159-60; ed al Petrarca “che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma| d’un velo candidissimo adornbrando,| rendea nel grembo a Venere Celeste”: vv. 177-9). In compenso, “Dea” è detta la musa (v. 68); i Numi pagani sono invocati due volte con lettera maiuscola (vv.190 e 270) e Giove ed Elettra hanno una parte di primo piano nella parabola finale del carme (vv.235-53).

[76] Dal monte Pimpla, in Macedonia, le “Pimplée” sono le Muse, che presiedono alla espressione artistica, alla Poesia specialmente, di cui la musica, l’armonia è una componente fondamentale.

[77] Dalle parole di S. Agostino in proposito, non pare che la tradizione fatta sparire dal cristianesimo fosse poi così spirituale e poetica: il rito, che per sè voleva indicare la fede nella sopravvivenza dell’anima, si prestava ad abusi e mancanza di rispetto, perchè si finiva per mangiare presso le tombe dei defunti..

[78] Nella genealogia  degli ascendenti di Priamo ed Ettore (Dardano, Assaraco, Erittonio, Ilo...)  i nomi sono tutti, quasi  certamente, frutto di fantasia poetica, a cominciare da Giove che ama adulteramente Elettra: ma è ben storica l’esistenza di regnanti e difensori della città di Troia e, attraverso Enea, discendente da loro o meno, è ben storico il popolo romano e la unità di popoli realizzata attraverso le sue conquiste ed la sua equanime legislazione. Abbiamo anche qui, nei versi mirabili 235-295, la simbiosi di storia e mitologia, che si sostengono a vicenda nel far accettare come autentica la sopravvivenza psicologica dei grandi benefattori od eroi dell’umanità.

[79] E’ facilmente osservabile come la religione cristiana è riguardata con ben diversa attitudine nelle tre opere più ideologicamente significative: le Ultime lettere presentano un cristianesimo così seducente che, come si è documentato, Jacopo Ortis oscilla fra l’adesione ad esso ed il sofferto rifiuto della sua verità; Dei Sepolcri è notevolmente contro la devozione ai defunti della Chiesa e lo stesso “Iddio” è citato polemicamente (come il conforto calcolato di chi “non lascia eredità di affetti” e, perciò, “errar vede il suo spirto| fra ’l compianto de’ templi acherontei,| o ricovrarsi sotto le grandi ale| del perdono d’Iddio” (vv. 43-6), salvo a riferisi all’Aldilà cristiano con terminologia pagana (vv.159-160; e 177-9); Le Grazie obliano del tutto la religione cristiana, e il poeta è affidato totalmente al paganesimo, che pur sa totalmente illusorio.  

Una svolta ad “U” avviene, però, nel campo morale, in senso spirituale e cristiano: il problema di convivenza con le Grazie non dipende soltanto dal contesto civile e acculturato della uamanità ma anche dal suo comportamente morale: dall’Italia esse fuggono per l’offesa che al loro pudore arreca Boccaccio ed il suo Decamerone (Inno II, vv.421-445: “...e Dioneo, re del drappello| le Grazie afflisse. Perseguì i colombi| che stavano su le dense ali sospesi| a guardia d’una grotta: invan gementi| sotto il flagel del mirto onde gl’incalza| gli fan ombra d’attorno e gli fan prieghi| che non s’accosti; sanguinanti e inermi| sgombran con penne trepidanti al cielo|... Ora vive il libro| dettato dagli Dei; ma sfortunata| la damigella che mai tocchi il libro!| Tosto smarrita del natio pudore| avrà la rosa; nè il rossore ad arte| può innamorar chi sol le Grazie ha in core”.

[80] La Marliani-Bignami è ricordata anche negli ultimissimi versi del III Inno, sia per l’amicizia giovanile, sia per il  lutto che l’aveva colpita mentre il Foscolo lavorava al carme (il padre si suicidava nel 1813, per fallimento finanziario).

[81] Abbiam già detto che il Foscolo, morto il 10 settembre 1827, fece in tempo a leggere la edizione ventisettana dei Promessi Sposi: il suo commento fu di distacco dal pensiero dell’autore, che pur aveva stimato fra i suoi amici e lodato (per primo, in stampa) per le sue composizioni poetiche.

[82] Le Grazie, I, 42 e III, 160.

[83] Dei Sepolcri, vv. 294-5.

[84] Dei Sepolcri, vv. 147-8.

[85] I secoli XVIII e XIX: la definizione è di Manzoni, nel “5 Maggio”.

[86] Tutta questa problematica esistenziale troverà poi, nell’idealismo hegeliano, una sistemazione che media il caos della vita individuale con la logicità e sensatezza globale della storia umana, ricuperando una tranquillità  intellettuale, se non proprio una pace e serenità  complete, in questo compromesso che vede sacrificato l’individuo, cui si nega la sopravvivenza personale, in nome del trionfo complessivo dell’Idea, che si attua nelle vicende socio-temporali di secoli e di eoni.

[87] Nella cultura od ideologia neoclassica, la diversità di prospettiva, che crea la diversa attitudine di fronte ai valori, non è, come nell’esistenzialismo, quella tra l’uono universale, astratto  e quello particolare, concreto, ma tra le diverse facoltà che studiano l’uomo e la vita, considerati sempre nel loro complesso, universale e particolare.  Il momento positivo od ottimistico (i valori sono reali, le aspirazioni umane hanno un esaudimento, la vita ha un senso)  nasce dalla ragione intuitiva, precritica, ingenua, in cui la emotività ha il sopravvento e crede, perciò, nella immortalità, Provvidenza, giustizia, ecc. Il momento negativo è causato dalla ragione logica o riflessa, critica o consapevole, che emargina la sfera emotiva come prerazionale e, perciò, creatrice di illusioni, non conoscitrice di verità: tutti i valori sopra elencati sono immaginazioni poetiche,  miti artistici, illusioni consolatrici..  Fin qui abbiamo  voluto trovare un linguaggio comune col neoclassicismo. Ma in Foscolo vi è un terzo momento che è quello del “pessimismo attivo” e che non coincide col primo momento ingenuamente ottimistico: vi è un ritorno all’affermazione dei valori che  è imposta, a nostro parere,  dal sentimento, cioè dalla ragione che, comprendendo la importanza vitale dei “valori”, non può non coinvolgervi la sfera emozionale ed afferma  la verità delle intuizioni originarie, non in nome dell’emotività animale, ma in nome del sentimento umano (gli animali non hanno sentimenti, come non hanno religione nè moralità), cioè proprio in nome della ragione che ha trascinato, in seconda battuta, cioè come fenomeno dipendente e secondario, anche la commozione dei centri neuriovegetativi, proprio per la primaria, decisiva  importanza dei problemi etico-religioso ai fini di giudicare della vita, della storia e del loro senso e valore. Saranno questi i  fondamenti delle tre posizioni di tesi affernativa, antitesi negativa, sintesi riaffermativa che useremo.

[88] E’ di Ovidio la frase: “Video bona proboque; deteriora autem sequor”. Quanto allo scoprire più i peccati altrui che i nostri,  si ricordi la favoletta di Fedro delle due bisacce imposte da Giove sulle spalle degli uomini.

[89] “Ipocrita” è colui che risponde coperto da una maschera, come facevano gli attori antichi (la maschera serviva anche da elementare megafono, per  diffondere la voce nei teatri all’aperto). L’attore non è, sul palcoscenico, la persona della reale esistenza, ma un personaggio di fantasia: la maschera nasconde la verità e fa  prevalere la menzogna.

[90]Si noti che questo atteggiamento positivo non va confuso con l’attitudine didimea: in questa vi è una vena di scetticismo sornione che ironizza con disinvoltura sulla vanità del vivere e dei propositi umani: la soluzione alla illusorietà dei valori è signorilmente superata con la flemma dell’umorismo che ride dell’uomo, senza farsene un dramma.  Oltre tutto, il Foscolo prese contatto con lo Sterne dopo aver scritto e pubblicato sia le Odi che alcuni brani delle future Grazie: questi basano il loro ottimismo su una “alienazione” cioè sul rifugiarsi nell’arte o nel mito per guarire dal male di vivere o (se si preferisce) dal veleno di morte seminato in ogni nostra giornata, che è solo un passo verso la dissoluzione radicale..

[91] Questo atteggiamento di solito è applicato alla terza fase o posizione della ideologia foscoliana. Noi invece lo vediamo attuato qui, al secondo livello, quello della riuscita obliterazione della negatività dell’umano vivere e della credenza in una sua valenza positiva.

[92] Ecco il brano dai “Discorsi sulla lingua italiana”, scritti durante l’esilio londinese, circa la la funzione ed importanza    dell’armonia per l’animo umano: “Esiste nel mondo una universale secreta armonia, che l’uomo anela di ritrovare come necessaria a ristorare le fatiche e i dolori della sua esistenza: e quanto più trova sì fatta armonia, quanto più la sente e ne gode, tanto più le sue passioni si destano ad esaltarsi e purificarsi, e quindi la sua ragione si perfeziona. Questa armonia nondimeno di cui l’esistenza è sì evidente, e di cui la necessità è sì fortemente esperimentata più o meno da tutti i mortali, vedesi (come tutte  le cose che la natura offre all’uomo) commista a una disarmonia di cose, le quali cozzano e si attraversano, e spesso si distruggono tra di loro. Però nella musica più che nelle altre arti appare evidentemente che l’immaginazione umana trovò il modo di combinare i suoni che esistono in natura onde produrre melodia ed armonia, sottraendone tutti i suoni rincrescevoli e discordi. Il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia”.

[93] Natalino Sapegno, Lineamenti di storia della letteratura italiana, Firenze, La nuova Italia, 1962, III, pp. 50-1. 

[94] LA VERITA’: la “tesi”, della spontaneità precritica circa la  sua raggiungibilità, non è rintracciabile esplicitamente in Foscolo, ma si può supporla come fase infantile, sia per  spontanea persuasione congenita in ogni uomo,  sia per l’educazione ricevuta che, essendo stata cristiana,  presupponeva ovvia la capacità dell’uomo ad attingere il vero. L’ “antitesi” del dubbio e della negazione la si può trovare in Ultime lettere, 17 Marzo 1798: risultato dello studio è il dubbio (pirronismo in campo storico); donde il proposito di non leggere più; 20 Marzo 1799 (“Io non so nè perchè venni al mondo nè come nè cosa sia il mondo nè cosa io stesso mi sia...”);Venerdì (25 Marzo 1799, ore 1: “Godi, tu Padre, de’ gemiti dell’umanità?...). Va qui notato che il Foscolo afferma ripetutamente di ripudiare la ragione  e di voler seguir e il cuore, alle cui esigenze fondamentali però non crede, proprio in virtù delle negazioni decretate dalla ragione. La “sintesi” di riaffermazione, imposta per forza di  una ragione divenuta sentimento (attraverso il coinvolgimento della sfera emotiva  a problemi ed esigenze radicali e decisivi per l’uomo) la si può vedere in Ultime lettere, 15 Maggio 1798 (“Beati gli antichi... che trovavano il BELLO  ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore...”); Mezzanotte (probabilmente dell’8 Luglio 1798: “La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio... di un altro mondo”).

LA FELICITA’: “tesi” del candore precritico:  le due Odi; Le Grazie. Antitesi”: la negazione razionalistica della felicità è ovviamnete collegata con la negazione della immortalità dell’anima: si vedano Ultime lettere, 20 Novembre 1797 (“fatale infelicità dell’amore”); “Frammento della storia di Lauretta” (“...io credo che il Destino abbia scritto ne gli eterni libri: L’UOMO SARA’ INFELICE”); 12 Maggio 1798: “So che quando hai mandato su la terra la Virtù, tua figliuola primogenita, le hai dato per guida al sventura”; 25 Maggio 1798: “...non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era uomo, e infelice”); 6 Febbraro 1799; Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799 (“ ...l’umana schiatta non trova nè felicità nè giustizia sopra la terra...”); mercoledì (23 Marzo) 1799; Venerdì (25 Marzo 1799). “Sintesi”: riaffermazione della esistenza  e acquisizione della felicità ad opera sempre della ragione, ma sospinta dalla disperazione che l’emotività vi induce in seguito alla negazione ipercritica, aggrovigliandosi con la intelligenza nel risultato del sentimento:  Ultime lettere, 15 Maggio 1798 (“Dopo quel bacio io son fatto divino...”: già riportato, a proposito delle “illusioni” necessarie alla vita).

LA GIUSTIZIA: “ Tesi” (affermazione  spontanea, precritica): Ultime lettere, 4 Dicembre 1798 (parte finale: “Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d’udirvi, e forti da vendicarvi ...fra l’avvilimento delle carceri e de’ supplici vi innalzerete sovra il potente, e il suo furore contro di voi accrescerà il suo vituperio e la vostra fama” ). “Antitesi”: Non solo il complesso delle Ultime lettere addita la ingiustizia (trionfo del tiranno e della schiavitù della patria; oppressione delle vite di Teresa e di Lauretta; si vedano in particolare la lettera da Milano del 4 Dicembre 1798; la lettera da Ventimiglia del 19 e 20 Febbraro 1799; lo scritto del Venerdì 25 Marzo 1799), ma vi sono altre testimonianze  notevoli in materia. Vi è la introduzione correttiva, nella ristampa del 1799, dell’ “oda” (sic) A Bonaparte liberatore (1797); la convinzione della meschinità di  tutti gli Italiani contemporanei (lettere scritte dall’Inghilterra) e di spregio contro gli stessi idealisti che avevano tentato i moti del 1821 (Santorre di Santarosa in Piemonte); il giudizio sbrigativo sul popolino, pel quale occoroono solo tre cose: “ara (altare, cioè religione), aratrum (il pane e la fatica per guadagnarlo) e Arbor patibuli (la forca, per  tenerlo  disciplinato col timore). Lui stesso non si ritiene un puro: parla delle sue pazzie  (Milano, 6 Febbraro 1799) e dei suoi delitti (25 Maggio 1798: ultime righe). E, infine, dove si nega la Provvidenza, si ritiene tutta la vita fatale (3 Gennaio 1798: “Il genere umano è questo branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi, e incontrare o strascinarsi dietro la inesorabile fatalità”) e determinata da meccanismi non controllabili  (Padova, 11 Dicembre 1797: “tutto dipende dal cuore! –dal cuore che nè gli uomini, nè il cielo, nè i nostri medesimi interessi possono cangiar mai!”). “Sintesi” di riaffermazione , ad opera della la ragione-sentimento (cioè animata dalla spinta emotiva)  che si vede costretta anche dalla esperienza storica ad affermare almeno in certi casi il valore dell’eroismo e della virtù: Dei Sepolcri, vv. 151-197: “A egregie cose il forte animo accendono| l’urne de’ forti, o Pindemonte”); vv. 215-25 (“E se il piloto ti drizzò l’antenna...) contengono non solo la sopravvivenza affettivo-psicologica (parte finale 226-95), ma anche qualche lapsus di fede in una giustizia vera, strategicamente orchestrata dagli dei: “a’ generosi| giusta di gloria dispensiera è morte” (vv. 220-1); “de’ Numi è dono| servar nelle miserie altéro nome” (vv. 270-1). D’altronde, al di fuori della “fiction” poetica, parlando da uomo concreto dalla cattedra di Pavia, nella famosa prolusione alle Lezioni di eloquenza, egli esorta gli Italiani alle istorie, proprio per ricavarne, come dalle tombe di Santa Croce, lo stimolo “a egregie cose”.

[95]  Stando alle opere letterarie, in Foscolo trova eco più frequente l’esigenza della felicità che non quella della verità,  l’aspirazione alla bellezza ed all’amore che non quella alla famiglia ed ai figli, la passione per la patria unita e libera che quella per i poveri e gli emarginati, l’esigenza della libertà politica ed esteriore che non quella per il libero arbitrio interiore, l’ammirazione per i geni dell’arte, della tecnica e della filosofia che non quella per i giganti   della vita religiosa e della carità (i santi)... La intensità con cui  rivive i valori da lui privilegiati è sublime, ma il suo orizzonte  dell’umano operare è selezionato e carente: nella  celebrazione-rimpiato dei valori della vita vi è un “defectus elenchi” che è all’origine della sua disperazione di vederli realizzati.

[96] Luigia Ferrari aveva sposato diciassettenne il marchese Domenico Pallavicini, morto nel 1805; la caduta avvenne nel 1799, ma Luigi Carrer, solitamente ben informato, afferma che l’Omaggio dei poeti-soldati, fra cui il Foscolo, per la donna fu  conmposto quando essa si riprese, cioè nel 1800. Essa si risposerà nel 1818 con il segretario del locale consolato francese Stefano Prier (vedi  Letteratura italiana, Ricciardi, 1974, nel primo dei due tomi dedicati al Foscolo, p. 170).

[97] Si veda anche Padova, 11 Maggio 1797: “ E però tu mi udivi assai volte esclamare che tutto dipende dal cuore! –dal cuore che nè gli uomini, nè il cielo, nè i nostri medesimi interessi possono cangiar mai!”; e Milano, 6 Febbraro 1799: “Tu il vedi: ogni consiglio ed ogni ragione è funesta per me. Guai se io non obbedissi al mio cuore! -La Ragione? – è come il vento: ammorza le faci ed anima gli incendi”. Se alla Provvidenza sostituiamo la Natura, il risultato è altrettanto  negativo: lettera del 17 Aprile 1798: “...la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non è forse matrigna?” con i tanti altri passi già citati.

[98] Si potrebbe leggere anche in questa chiave di positività il brano sul trapianto dei pini, nella lettera del 12 Novembre 1797: “E quando le ossa mie fredde dormiranno sorto quel boschetto alloramai ricco ed ombroso, forse nelle sere d’estate al patetico sussurrar  delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali al suono della campana de’ morti pregheranno pace allo spirito dell’uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E se talvolta lo stanco mietitore verrà a ristorarsi dalla arsura di giugno, esclamerà guardando la mia fossa: - Egli innalzò queste fresche ombre ospitali!-”.

[99] Ecco gli altri rimandi, ove “armonia” è meno significativa al nostro scopo: Inno I, 305, 308, 324, 372; Inno II, 50.

[100] “La natura, anche se la scacci con la forca, ritornerà ciononostante (ad imporsi).”

[101] “Dramma in senso specifico”: si è già detto che il tono “drammatico” o dramma in senso largo o generico significa qualunque tonalità lirica movimentata, forte, potente, sia nel campo della gioia (Epopea), sia in quello della tristezza (Tragedia). Questo senso generico si oppone ai toni “contemplativi dell’idillio e della elegia. In senso specifico, “dramma” equivale a “tragedia minore, tonalità moderatamente mossa, eccitata, vibrata ”.

[102] Inferno, 24, 121-51; 25, 1-18).

[103] Come si è già detto, l’incidente accadde tra la fine di giugno e l’inizio di luglio del 1799: Luigia Ferrari (1772-1841) era andata sposa diciassettenne  al marchese Domenico Pallavicini, morto nel 1805; nel 1818 si risposò col segretario del consolato francese a  Genova Stefano Prier, vivendo poi altri 23 anni. Un gruppetto di soldati poeti pensò di celebrare la donna con un “Omaggio” di composizioni poetiche, cui parteciparono, col Foscolo, Giovanni Fantuzzi, Giuseppe Giulio Ceroni e Antonio Gasparinetti.

[104] Altri versi, in specie 19-48 che descrivono la  tentatrice beltà di Antonietta guarita e tornata alle attività più seducenti come la danza, il suono dell’arpa ed il canto, possono sembrare liricamente più alti; a noi sembrano sessualmente più  seducenti, ma esteticamente non  superiori agli altri.

[105] Il brano dei vv. 169-212 è citato integralmente a p. 36.

[106] Come si è già detto, la chiusura del terzo inno si sofferma sul dolore che ha colpito Maddalena Marliani Bignami, per la morte tragica del suocero. Ma, poeticamente, i versi aspirano ad una commozione che non raggiungono.

[107] Fra i pochissimi meno intensi, segnaliamo i vv. 51-61 e 104-114.

[108] Si ricordino i versi 217-25, a proposito della restituzione delle armi d’Achille al più forte tra gli Achei dopo di lui, cioè ad Aiace Telamonio; ed vv.270b-271, a proposito della fama onorata che accompagna, anche nel fallimento umano, chi è devoto agli dei e da loro protetto.

[109] Dunque, a nostro parere, non sublime è il lirismo del sonetto Alla Musa, che ci sembra nel complesso solo sufficiente od al più discreto. Migliore ci son sempre sembrati quelli A Firenze e almeno il migliore dei due Autoritratto.

[110]  Rielaborato nel 1801-2 per Isabella Roncioni, da un precedente sonetto giovanile e intitolato “Notturno”. Si noti che per la stessa donna sono anche i sonetti Di se stesso all’amata (“Così  gl’interi giorni..”) e Di se stesso (“Perchè taccia il runor di mia catena...”).

[111] L’ultimo verso (“Luce degli occhi miei, chi mi t’asconde?”) è preso da Luigi Lamberti (“Lamento di Dafni”).

[112] Scritto fr ail 1799 ed il 1800, mentre era ufficiale in Liguria. Si ignora la donna per cui fu scritto.

[113] Il sonetto pubblicato nell’edizione del 1802 è il primo; il secondo ne è un rimaneggiamento eseguito fra il 1802 ed il 1824 e deve essere considerato la volontà ultima del poeta, che riuscì a migliorarlo profondamente. Letta questa redazione, non possiamo convenire col Carducci, che definiva il  sonetto una “scimmiottatura” dell’esempio alfieriano!

[114] Scritto nel 1802 ed edito nel 1803. Giovanni Dionigi Foscolo, tenente nell’esercito cisalpino, si pugnalò a 20 anni in presenza della madre, a Venezia, per un grosso debito di gioco, l’otto dicembre 1801. Giulio, il terzo fratello, si suiciderà nel 1838.

[115] Suo succedaneo, in Italia, sarà “Fede e bellezza” di Niccolò Tommaseo.

[116] Ecco la frase “Oh quanti de’nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! ...perchè... e che potremmo aspettarci noi se non se indigenza e disprezzo...?”

[117] Si noti come il musicalismo del Foscolo sia vicino a quello del Parini, che trova la sua forza nell’equilibrata mescolanza delle vocali, mentre affida la dolcezza al prevalere di liquide e nasali. Nel Foscolo si incontra qualche vocale larga ictata in meno e qualche consonante emolliente in più. Rispetto al Leopardi, come ebbe a notare Luigi Russo, la “R” prevale sulla “L”, più tipica del poeta recanatese.

[118] “I Trionfi” del Petrarca comprendono sei quadri: Trionfo dell’Amore; della Pudicizia sull’Amore; della Morte sulla Pudicizia; della Fama sulla Morte; del Tempo sulla Fama; dell’Eternità sul Tempo.

[119] Abbiamo fatto una selezione sino al verso 195.

[120] Vedi i versi 16, 152, 214.

[121] Diciamo qui una nostra impressione: la vocale “E” è detta media perchè non ha un peso specifico particolare nel concerto vocalico, ma fa da subserviente alla musicalità dominante: se  questa è in “tonalità maggiore”, la “E” la rafforza; se è in tonalità minore, la “E”   la difende.

Quanto alla duplicità dei fattori espressivi presenti nella parola, quello astratto-ideativo (filosofico) e quello sonoro-musicale e  sulla decisa prevalenza della prima componente  rispett alla seconda (al punto che quella da sola può far arte; mai la seconda ha potenzialità estetiche senza la prima), si veda il mio volume “Musica in parole, Varese, 1983, nella sezione dedicata allo “Stile”.

[122] Abdua è, per sè, Lodi; ma l’aggettivo “abduani” potrebbe riferisi anche al fiume Adda: si tratta in ogni caso delle “marcite” della bassa milanese, che fan la fortuna dei proprietari, mediante  il connesso allevamento del bestiame.

[123] “Bronchi” sarà usato dal Manzoni nell’inno sacro “Il Natale”: è lecito supporre che sia una reminiscemnza dai “Sepolcri” foscoliani.

[124] Veramente i primi quattro versi risentono ancora dell’onda drammatica presente in sordina nel gruppo delle rivendicazione ad Aiace delle armi di Achille (vv.213-225) e presentano una sequela di vocali strette “I” ed “U” che, assommate alle “E”, superano  di gran lunga le vocali larghe: quattro“I” ed una “U” ictate che fan pendere dalla parte del tormento e della protesta le sette “E” che superano la frequenza delle larghe (tre “A” e due “O” ictate).

[125] Come predetto, consideriamo solo “S” impura, “SS”, “Z”. La “S” anche aspra è equivoca come la vocale media “E”: gioca con il consonantismo dominante, come la “E” rafforza il dominante vocalismo.

[126] Benchè a noi pare che normalmente la “F” sia da collocare tra le consonanti fruscianti e, quindi, dolci, non va dimenticato che essa è la forma “aspirata” delle “P”, come non solo si  sa per la lingua  greca, ma si vede anche dalla trascrizione di voci latine in francese e inglese (ad esempio, philosophy). Vogliamo dire che vi sono dei contesti –e questo ci sembra ben uno di quelli- in cui la “F” tende a riprendere il suo valore forte.

[127] “Il dì| Tidìde” costituiscono un suono acuto assimilabile a quelli “forti”, per la combinazione della dentale media con la “I” accentata.

[128] Abbiam tenuto conto di “abbracciar” non per la doppia “B”, ma per la presenza dell’ “R”, che ci pare renda  aspra la labiale media.

[129] Ci può ben essere qualche  errore nella scelta e collocazione dei verbi: ad esempio “affatica” è verbo di lavoro e sforzo interiore massimo, ma esteriormente insensibile. E di casi ambigui ce ne saranno ben altri: ma il risultato finale, in favore della quiete, mi pare assodato.

[130] Ricito dal volume 51, Tomo I, della Ricciardiana, Milano-Napoli, 1974, p.286.

[131] Presentato in questi termini, il “tempo” (intuito ovviamente in Foscolo come cronologico), rischia di valere invece come “meteorologico”: non è il passare di anni e secoli in sè, ma le turbinose vicende di stagioni ed intemperie che demoliscono e fanno scomparire ogni traccia dei manufatti umani, tombe non escluse. Di qui la presenza in qualche critico di una interpretazione “meteorologica” dei versi 19-22: “E una forza operosa le affatica| di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il tempo”. Essi andrebbero letti, allora, con la pausa dopo “reliquie” e una intonazione particolare del v. 25, che segni il riferimento al  “tempo” (e non alle “reliquie”) delle specificazioni”della terra e del ciel”.  In realt, ci pare, le due interpretazioni del fattore “tempo” non si contraddicono , ma si assommano.

[132] Il chiarire  la differenza fra queste due attività interessa moltissimo la comprensione del Romanticismo, la sua parte (minore) di verità e il mastodontico errore che  sta alla base del suo dogma fondamentale: guida alla vita dell’uomo non può più essere la ragione (razionalistica) che ha condotto alla bancarotta intellettuale, morale e socio-politica della rivoluzione francese, ma appunto il sentimento che, essendo spontaneo, è anche candido e russoianamente al di qua dei sofismi corruttori. Ma fare del sentimento una potenza conoscitivo-giudicativa pre- od infrarazionale o solo auroralmente razionale era un proseguire l’errore di Vico e di Kant, che affidavano ad una potenza  diversa dalla ragione la funzione di conoscere Dio ed  i valori etico-religiosi, una facoltà intermedia rispetto alla ragione pura, che finiva per  ridicolizzare le intuizioni da cui prendeva le mosse il sentimento, riducendole a pure  illusioni:  necessarie alla vita pratica, ma indifendibili a livello di piena razionalità!

En passant, si noti che, caduto il Romanticismo, finiva anche la tutta germanica e kantiana distinzione tra Vernunft (intelligenza) e Verstand (intelletto) e, quindi, tra varie facoltà di pensiero e di ragionamento, distinzione che era  il tentativo di traduzione filosofica della ingenua proposta vichiana e che ne aggravava la esiziale confusione gnoseologica, sempre a favore di un settore di conoscenza inferiore alla ragione e riguardante (manco a dirlo) i valori religiosi e morali.

[133] Non si tratta solo della negazione di Dio e della vita eterna, ma della perdita di fede nella perennità di tutti i valori razionali , della verità, bellezza, bontà e felicità della vita, della sopravvivenza e progresso di tali valori nella storia umana., della Provvidenza e significato positivo della vita dell’uomo sulla terra.

[134] Usando il linguaggio approssimativo foscoliano, potremmo dire che il suo tentativo di salvare i valori potrà persuadere il cuore, ma non convincere la ragione. Con linguaggio più preciso, dovremo invece affermare: il discorso dei Sepolcri, pur essendo razionalmente errato e perciò incapace di convincere la intelligenza, tuttavia è così appassionato ed  commovente, da riuscire a strappare un assenso  dalla ragione di molti lettori, disorientati dalla bellezza e fascino con cui è stato  espresso il sofisma  che sta in fondo al carme.

[135] D’altronde, non si dimentichi: il nervoso non è per sè un non attivo in ogni senso, ma è sempre un “incapace di far agire gli altri” (in questo il Foscolo era proprio l’opposto di Napoleone; ed è in questa incompatibilità caratteriale che va cercato anzitutto- anche se non unicamente- l’antipatia, l’incomprensione e la ostilità ideologica tra i due); ed è anche –con graduazioni infinitesimali sino all’autismo dello schizofrenico- un individuo meno adatto al lavoro esterno e facilmente prono agli incidenti, oltre che alla pigrizia (questa, poi, è una forma di stanchezza congenita, di insufficiente  disponibilità di acetilcolina o di serotonina, prima che un sensazione psicologica ed un costume operativo!)