MONTI VINCENZO (1754-1828)

 

LA VITA E LE OPERE

               

                LA VITA.

1754: Nasce ad Alfonsine di Romagna (Ravenna) e studia nel seminario di Faenza, senza divenir sacerdote. Frequenta la università di Ferrara, ma non conclude la luarea nè in giurisprudenza nè in medicina.

1770-1778:

Questi primi otto anni di attività letteraria sono considerati il suo “noviziato poetico”. Le prime composizioni nascono sotto gli auspici dell’Arcadia, di cui è fatto partecipe col nome di Autonide Saturniano. Egli  prende a modelli sia il Metastasio che Ludovico Savioli, Giuliano Cassiani ed i due poeti  ferraresi Onofrio Minzoni ed Alfonso Varano (autore, quest’ultimo, delle “Visioni sacre e morali”).[1]

1779-1797:

A Roma, come “abate”, è in cerca di una sistemazione. Dapprima è fatto canonico di S. Pietro; poi, trova nel duca Luigi Braschi, nipote di Pio VI, un mecenate, che lo assume come segretario (il Monti aveva composto La bellezza dell’universo, in occasione delle nozze di lui con Costanza Falconieri). Diviene il poeta più in vista della sua generazione, assorbendo influssi neoclassici dalla Roma ora dominata dall’archeologo Ennio Quirino Visconti, così come era stata la sede dell’attività del Winckelmann fino ad un decennio prima. Naturalmente, al momento è in favore della Chiesa e canta il viaggio a Vienna di Pio VI (Il pellegrino apostolico: 1782) ed il prosciugamento delle paludi pontine (1784: La Feroniade: fu poi continuata e ritoccata per tutta la vita) per la iniziativa  dello stesso papa. Nella Bassvilliana  (1793), egli approva la uccisione a furor di popolo  di Nicolas Josef Hugou, detto Bassville, inviato da Parigi come segretario dell’ambasciata francese col compito preciso di diffondervi le idee rivoluzionarie  Di questi anni sono pure la Prosopopea di Pericle (in occasione del ritrovamento di un busto dello sattista ateniese: 1789) e l’ode Al signor di Montgolfier, per il primo volo col pallone aerostatico (1784). Ma interiormente è illuminista e scettico, sicchè le vittorie di Napoleone ne  provocheranno la fuga.

1791: sposa Teresa Pikler (ne avrà due figli, Gian Francesco, morto a due anni; e Costanza)

1797 (marzo):Lascia Roma per affiancarsi a Napoleone. Pubblica scritti di ritrattazione dei versi precedenti, in chiave razionalistica, antipapale, filofrancese... Si iscrive alla Massoneria[2]. Non tutti furono entusiasti che l’autore della Bassvilliana fosse ora onorato; fu anzi trascinato in tribunale a Venezia. Tra i suoi difensori ci fu anche il Foscolo.

1799: segue i Francesi, sconfitti, riparando a Parigi.

1801-1815: dopo la vittoria napoleonica di Marengo, rientra in Italia ed ottiene la cattedra di eloquenza a Pavia (1802-4); diviene infine storiografo del Regno d’Italia e poeta ufficiale del regime napoleonico. A Milano è avvicinato dal giovane Alessandro Manzoni, allora suo ammiratore: egli lo incoraggerà nel suo impegno poetico, rimproverandolo anche quando lo  sorprende in un ridotto per gioco d’azzardo. Nel 1810 pubblica la prima edizione della traduzione dell’Iliade. Circa lo stesso tempo rompe col Foscolo, cui era legato da fervida amicizia: testimonianza del legame preferenziale erano stati i versi della “Epistola” scritta al Monti da Boulogne sur Mer, nel 1804. La causa immediata della rottura fu il giudizio contrastante sui versi dell’Arici, che il Monti aveva elogiati ed il Foscolo, stroncati.[3]

1815-28:Rientrati gli Austriaci a Milano, il Monti non ebbe difficoltà a ripassare il Rubicone ed a farsi amico dei nuovi padroni, denigrando il regime napoleonico.

La esplosione del movimento romantico lo indusse a partecipare alle discussioni sulle opposte scuole letterarie. Nel 1825 pubblicò un Sermone  sulla mitologia, endecasillabi sciolti in difesa delle posizioni classicistiche. La parallela disputa sulla lingua italiana, col dilemma purismo-innovazione, stimola la pubblicazione di un Proposta di alcune correzioni al vocabolario della Crusca, ove lui ed il genero Giulio Peticari prendono una posizione equilibrata contro l’eccesso di padre Césari. Contro ogni fanatismo passatista e contro ogni faciloneria popolaresca, essi propongono di accogliere ogni parola scritta dai letterati italiani di tutti i secoli: la scrittura da parte dei professionisti della letteratura avrebbe dovuto garantire dignità e coerenza con i caratteri peculiari della lingua. Gli anni estremi furono amareggiati da mali fisici (cecità, paresi nel 1826) e morali (calunnie contro la figlia Costanza, vedova di Giulio Perticari).

        13 novembre  1828: muore a Milano, riconciliato con la Chiesa, anche per l’influsso di scritti e vita del Manzoni, che non mancò di fargli visita e di restituirgli, così, il favore fatto dal Monti, con una severa osservazione, a lui giovane scapestrato, che rischiava di sprecare le sue doti   di uomo e di letterato nel gioco e nella dissipazione.

 

        LE OPERE

                   1770-78: in questi anni di noviziato poetico compone due capitoli, vari sonetti e canzonette e tre “visioni” in rima dantesca (terzine a rima incatenata). Di esse, la cosa più importante è la visione del 1776 intitolata Ezechiello (parafrasi poetica del c. 37 del libro biblico di Ezechiele);

                1778-97:  Prosopopea di Pericle (ode: 1779);

    La bellezza dell’universo (1781:epitalamio in terzine dantesche, per le nozze del  nipote di Pio VI, duca Luigi Braschi);

                                        Il pellegrino apostolico (1782: poemetto-visione in due cantiche di terzine dantesche);

                                        Cantate (due) per la nascita del delfino (1782: è il figlio di Luigi XVI, scomparso poi nelle vicende del Terrore);

                                       (Sciolti) A  S. E. il signor  principe don  Sigismondo Chigi (1783)

                            Pensieri d’amore (1783:  dieci lasse di endecasillabi sciolti, per l’amata Carlotta Stewart, imitati da vicino sui “Dolori del giovane Werther” di Goethe);

                            AL SIGNOR DI MONTGOLFIER (ode: 1784):  forse i versi più belli;

                                    Sonetti (quattro) Sulla morte di Giuda (1788);

                          In morte di Ugo Bassville (o Bassvilliana: 1793 e seguenti: poemetto-visione, interrotto al quarto canto: la morte di Luigi XVI ed i danni della rivoluzione francese, fatti contemplare al Bassville, in pena della sua azione a Roma  in favore della rivoluzione e del suo spirito di odio e di crudeltà);

                            Musogonia (scritto nel 1793, è un canto in ottave, sulla origine delle Muse da Giove e Mnemosine: dapprima antirivoluzionario, chiamava Napoleone “gallo fellon che varca il monte”, fu rimaneggiato nel 1797 in suo favore);

                            Feroniade: poemetto in tre canti, di circa duemila endecasillabi sciolti, elaborati fra il 1784 ed il 1828 e condotti pressochè a termine: vi si parla dell’origine leggendaria delle paludi pontine (gelosia di Giunone per Feronia, amata da Giove: resa immortale da Giove,  questa prodiga alla regione fecondità di genti e terreni, rovinate poi da fiumi e intemperie ed ora redente dai lavori di prosciugamento di Pio VI): è l’opera più curata dal poeta, che la limò sino al colpo apoplettico che doveva condurlo alla morte; fu edita a partire dal 1830.

                               Aristodemo: tragedia di stile alfieriano, non senza contaminazioni di ispirazione nordica e di spirito romantico: stesa nel 1786, ha lo stesso argomento di quella di Carlo Dottori, rispetto alla  quale, però, manca del tormento psicologico, perchè il protagonista è alfierianamente  tutto proteso al potere e manca di sfumature ed esitazioni interiori: nonostante il successo, è inferiore al modello;

                                   I Pitagorici:dramma allegorico, con spunti presi dal “Viaggio di Platone in Italia” del Cuoco; dedicato a Gioachino Murat, contiene accenni vari alla massoneria; fu musicato da Paisiello (1808);

                               Galeotto Manfredi: tragedia scritta nel 1787, basata su una gelosia spietata. Si ispira all’ottavo libro dell’Istorie fiorentine (Machiavelli) e rovescia la situazione dell’Otello: è la moglie che si lascia istigare da un cortigiano ad uccidere il marito, ritenuto a torto infedele.

                                    Caio Gracco, tragedia completata fra il 1788 ed il 1802, è la migliore fra le opere teatrali. Narra la fine del tribuno della plebe, ucciso ad opera di Opimio, fautore dei patrizi. Manca però in Caio quella passione travolgente che lo renda personaggio indimenticabile: è troppo ragionevole e cade vittima della sua moderazione (controfigura del Monti e di  gran parte  di quegli Italiani che, pur passati alle idee nuove, erano però ostili tanto ai giacobini quanto all’antico ordine delle monarchie di diritto divino);

                                    Prometeo: poemetto incompiuto, in tre canti di versi sciolti con lo inizio di un quarto. Il nuovo Prometeo è Napoleone, che non è però esaltato come ribelle a Dio (Giove), quanto come benefatttore dell’umanità, cui dona il “sacro fuoco” della pace.

                                     Il Fanatismo| La superstizione| Il pericolo: tre poemetti anticattolici ed antimonarchici, ma non atei (vi si manifesta piuttosto deismo illuministico, filomassoneria, anglofobia e filobonapartismo): erano il prezzo pagato per l’accoglienza, non così facile, nelle file dei privilegiati –e pagati- della rivoluzione esportata in Italia. Ma, più di questi scritti, gli fu d’aiuto l’amicizia col generale Marmont e di Ugo Foscolo. 

                                               Per il congresso di Udine: canzone petrarchesca (1797)

                                               DOPO LA BATTAGLIA DI MARENGO ovvero PER LA LIBERAZIONE D’ITALIA: canzonetta scritta a Parigi (1800)                                             

                                                In morte di Lorenzo Mascheroni (Mascheroniana): poemetto in cinque canti, di cui i primi tre scritti nel 1800 e gli ultimi due editi postumi: è in terzine dantesche.[4]

                                    Congresso cisalpino di Lione (canzone: 1801);

                                A sua eccellenza la signora marchesa Anna Malaspina della Badia: versi composti attorno al 1803, fra i più sinceri del poeta, anche se sono soltanto una dedica ad una edizone bodoniana dell’ “Aminta” del Tasso;

                               Inno per l’anniversario del supplizio di Luigi XVI (ottanta decasillabi, intercalati, ad ogni quartina, da due versi del coro);

                               La pulcella d’Orléans: traduzione in ottave del poema volterriano (eroicomico e, qua e là, osceno): versi di ottima fattura, che verranno però rifiutati e distrutti del Monti, sicchè compariranno in edizione solo nel 1878, da copia conservata da amici;

                               Teseo (cantata) e Il beneficio (per la incoronazione di Napoleone a re d’Italia);                           Il bardo della selva nera: poema per le imprese di Napoleone in Germania (1806): interrotto all’ottavo canto, è composto di quattro canti in endecasillabi sciolti, frammisti di liriche; e di altri quattro in ottave. Vi è ovviamento riferimento ad Austerlitz (1805) e vi si sente l’influsso di Ossian e del Gray (visita ai campi di battaglia)

                               La spada di Federico II (ancora sullo stesso argomento: in ottave);

                               La palingenesi politica: sulle imprese di Spagna: 1806

                               La Jerogamia di Creta (1810): matrimonio con Luisa d’Austria;

                               ILIADE (1810) tradotta integralemente, sulla prosa del Cesarotti e con l’aiuto del Lamberti: l’opera più duratura (fino dentro agli anni 1960  era usata praticamente in tutte le scuole d’Italia).

                               Le api panacridi in Alvisopoli (1811): per la nascita del figlio di Napoleone;                        Mistico omaggio (1815): cantata od azione drammatica per il ritorno degli Austriaci (vi sono ingiurie contro Napoleone);

                               Il ritorno di Astrea (1816)| Invito a Pallade (1819): stesso motivo;

                               Le nozze di Cadmo e di Ermione (1825): endecasillabi sciolti per le nozze di due figlie del marchese Gian Giacomo Triulzi;

                                Per il giorno onomastico della mia donna (1826): canzone libera, senza strofe; sono solo 64 versi fra endecasillabi e settenari, con  alternanza e rime spontanee, senza schemi preordinati: è una delle cose  più sentite del Monti.

                               Per un dipinto dell’Agricola (sonetto senza data, occasionato da un ritratto per la figlia Costanza);

 Sopra se stesso (sonetto);

Le Grazie riformate epitalamio per le nozze di Bartolomeo Costa,)

figlio di Antonietta di Genova (quaranta settenari: sono contro il Romanticismo);

                               Sermone sulla mitologia: endecasillabi sciolti del 1825: vi si trovano le famose espressioni contro “l’audace scuola boreal” e contro  il programma romantico di ispirarsi all’“arido vero, che dei vati è tomba”;

                PROSE:          Epistolario: quasi tremila sono le lettere rimaste: rivelano decisione e scaltrezza, ma solo al servizio della propria sistemazione e di quella dei propri familiari. 

                               Prolusioni (agli studi all’Ateneo pavese per l’anno 1804);

                               Proposta di alcune aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-28): si tratta di vari volumi, con una appendice apparsa postuma nel 1831, che rappresentano una presa di posizione  polemica contro il purismo del Césari: assieme al genero, Giulio Perticari, il Monti si rivela aperto ad ogni apporto della lingua scritta, di ogni epoca della nostra letteratura. Egli ignora il “parlato”, perchè legato ancora ad una concezione aristocratica del linguaggio. Con lui, però, il blasone della nobiltà non ha più sede geografica (Toscana e Firenze) e tanto meno storica (il secolo XIV e XVI), ma ha una collocazione culturale e tecinca (tipografica: è la lingua scritta a mano od a stampa, in ogni parte d’Italia, dalle persone colte).

 

LA INDIVIDUALITA’

 

Potremmo sbrigarcela brevemente, perchè non è un grande poeta e la sua personalità non ha molto da dirci rispetto ad una poesia che quasi sempre merita il rimprovero di Foscolo “Sdegno il verso che suona e che non crea” (“Le Grazie”, I, 25) e la critica del Leopardi: “Il Monti è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione; del cuore, in nessun modo”. Ma ci sono molte testimonianze di contemporanei e studiosi che meritano di essere  lette: le riporteremo in nota. [5]

        IL FISICO.  Statura un po’ più della media, robusto, ma florido: si veda il ritratto dell’Appiani. La floridezza indicava che l’atleticità era minata da una distonia di carattere vagale.

        TEMPERAMENTO O PSICOLOGIA. E’ un compromesso fra il collerico e il sentimentale: emotivo, subattivo, substabile.[6] La distonia vagoprevalente è denunciata non solo dalla floridezza (ritratto dell’Appiani), ma anche dai toni prevalentemente sereni, idillici od epicizzanti: egli aveva un’anima “solare”, ottimistica, in cui i margini di instabilità (cedevolezza ed alternanza nelle spinte passionali) si evidenziarono specialmente negli ultimi anni, quando alla (pretesa) grandiosità epica sucecsse uno stato  di abbattimento, con espressioni (solo allora) elegiache.

        TIPO DI FANTASIA. Musicalità e visività prevalenti sulle idee: le parole valgono più come musica e descrizione che come concetti; la componente filosofica, ideologica è povera. Ma, a sua volta, la fantasia visiva è mediocre: la tendenza ad impostare le sue composizioni come “visioni” non riesce ad esprimere figure nè plastiche (tridimensionali) nè pittoriche (le moltissime discrizioni rimangono generiche e non incidono nessun tratto specifico nella memoria: si vedano, ad esempio, La bellezza dell’universo e gli Sciolti al Chigi).

        TIPO DI INTELLIGENZA.  Più sintetica che analitica, ma del tutto superficiale. Egli è poeta “occasionale”: compone quasi tutto sollecitato da avvenimenti esteriori, per lo più connessi con la sua posizione di poeta “cesareo” o giù di lì (“poeta di regime” dovremmo dire). Conduce per lo più a termine i componimenti intrapresi e, certo, la traduzione dell’Iliade e le opere teatrali indicano una resistenza psicologica  notevole; ma nelle altre composizioni   non supera la misura del poemetto  e nella sola Feroniade rasenta i duemila versi. Ma l’impegno di intelligenza che inventa, scoprendo aspetti nuovi della verità o nuove dimostrazione delle antiche, non ha luogo in lui, che anche nei versi di adesione alla rivoluzione non  dispiega di originalità alcuna, come non   aveva dato nessun contributo alla verità della religione, quando scriveva da cattolico.  Una simile mediocrità intellettuale non spiega del tutto nè, quindi, giustifica il suo farsi “segretario della opinione dominante”, una specie di don Abbondio letterario, ma certo aiuta a comprendere la sua viltà morale e la sua venalità professionale. Aveva delle attenuanti nella sua individualità tutto sommato povera, perchè mancante della  grandezza prima dell’uomo, la ideazione penetrante ed innovatrice.

 

 L’AMBIENTE.   Vissuto in un’epoca di crisi, prima, di mutamente rivoluzionari, poi, il Monti si trovò sollecitato via via da contesti politico-ideologico-morali e letterari diversi.

Il contesto ideologico e prassico. Dal 1754 al 1789 egli vive in un ambiente prevalentemente tradizionale e religioso: famiglia cristiana, seminario di Faenza, Roma papale....

Ma, già prima della rivoluzione, egli legge Voltaire e Rousseau e, mancante di spirito critico,  diviene favorevole alle idee  illuministe, dalle quali non lo allontanava certo la sua condotta libertina. Con la rivoluzione, la sua mente, non propriamente solida,  entra in crisi e confusione: il passaggio a Napoleone,  dunque, non va visto come un salto improvviso e del tutto egoistico. Una controprova può essere la sua distanza da ogni giacobinismo e dall’ateismo, tanto che entra nella massoneria ( che crede in Dio, anche se non necessariamente nella Provvidenza).

Con il ritorno dell’Austria, egli si “addestra” politicamente e finisce per rientrare nella fede cattolica, anche tramite il Manzoni.

Il contesto letterario. L’istruzione classica implicava la conoscenza della letteratura greca, latina, italiana. Quanto al greco, Monti non lo possedeva al punto da poterlo tradurre con sicurezza e facilità: in questo non solo il Foscolo (nato a  Zante da madre greca), ma anche il Cesarotti, il Lamberti ed il Lampredi[7] gli erano superiori. Ma il latino gli era familiare, al punto che tradusse Perseo e lasciò riecheggiare nei suoi versi Virgilio, Ovidio, Orazio.

 Con la propensione alla versificazione innata, è facile intuire che seguisse le mode del tempo, partecipando all’Arcadia e scrivendo canzonette  alla maniera del Metastasio e strofette alla maniera del Savioli, sonetti alla maniera dei Giuliano Cassiani e di Onofrio Minzoni (1734-1817). Quest’ultimo era una gloria della sua terra ferrarese, assieme ad Alfonso Varano (1705-88), dal quale il Monti, come già detto, riprese l’impostazione dei componimenti coll’artificio delle “Visioni”; da entrambi i “ferraresi” riprese la terzina dantesca, che  Il Varano aveva usato nelle “Visioni” ed il Minzoni in capitoli berneschi. E Dante  riecheggia spesso nei versi del Monti, ma  ci si accorge che i “furti” di vocaboli od espressioni gli servono solo per la sonorità, non per i concetti, sicchè egli ne riproduce facilmente il musicalismo, mai  la potenza lirica.

Nella “Prosopopea di Pericle  si risentono i classici greci, latini ed italiani (Parini, specialmente); nella Musogonia, ci sono reminiscenze di Esiodo; negli Sciolti a Sigismondo Chigi e nei Pensieri d’amore, vi sono rifacimenti in versi dal Goethe (“I dolori del giovane Werther”) e di Edoardo Young.[8] Ne La bellezza dell’universo, vi è la risonanza del Marino (descrizione della rosa), del “Mondo creato” (T. Tasso), del “Paradiso perduto” (Milton), della Bibbia. Si sono notate, inoltre, vicinanze con le idee  sulla fisica e sulla filosofia di Francesco Maria Zanotti (“Della forza attrattiva delle idee”) e del platonismo cristiano, secondo una riviviscenza auspicata da papa Bendetto XIV (1740-58).  I quattro sonetti Sulla la morte di Giuda si rifanno alla “Messiade” di Isaia Matteo Klopstock, oltre che a Girolamo Vida, al Marino, a C. Innocenzo Frugoni.

Un invito alla poesia raffinata, di stampo neoclassico, gli potè venire a Roma da mons. Ennio Quirino Visconti, che egli conobbe direttamente. A Roma ebbe modo di leggere Voltaire e Rousseau, con le conseguenze di pensiero che si possono immaginare per la sua mente  supeficiale,  troppo poco riflessiva.  Intanto assorbiva dai contemporanei anche stranieri: Da Goethe a Klopstock, da Ossian al Gray, dal Parini all’Alfieri (pel proprio teatro). A suo tempo si incontrerà e scontrerà con gli scrittori romantici, ma mentre politicamente e religiosamente muterà secondo le nuove circostanze, sul fronte letterario egli rimane fedele al classicismo ed alla mitologia, avversando decisamente la scuola boreale e la ispirazione  al vero storico ed alle verità (esistenziali) in genere.  Nel frattempo, però, egli  non discende all’uso  (anche popolare) della lingua “chè al volgo corruttor d’ogni favella| parlar la lingua degli dei non lice” (Feroniade, I, 158-9).

Nella Feroniade convergono Orazio (Sermoni, I) e Dionigi di Alicarnasso, giacchè entrambi parlano di questo mito; ma vi dobbiamo supporre anche Ovidio, suo maestro per la mitologia; e il Virgilio delle Georgiche (per la descrizione della natura).

Per Il pellegrino apostolico, la Bassvilliana e la Mascheroniana,  i riecheggiamenti si rifanno a Dante, a Klopstock ed al Varano.

Nella “saffica” Invito d’un solitario ad un cittadino (1792) vi sono derivazioni dal “Come vi piace” (As you like it),di Shakespeare.

Per il teatro, cominciando dall’Aristodemo, Alfieri, Shakespeare ed il teatro francese sono presupposti; per Galeotto Manfredi ebbe presente le storie del Machiavelli come fonte primaria e Otello, Enrico VIII, di Shakespeare, per l’atmosfera generale; per il Caio Gracco gli soccorsero le “Vite parallele” di Plutarco, Alessandro Verri (Le Notti romane) e Appiano Alessandrino; per I Pitagorici, ebbe dal Cuoco (Platone in Italia) più di uno spunto e dalla cultura masssonica altri suggerimenti; per la traduzione de” La pucelle d’Orléans”, oltre a Voltaire gli fu da suggeritore anche l’osceno Ariosto; per Il Bardo della selva nera gli servì certamente l’atmosfera ossianica diffusa dalle traduzioni del Cesarotti; ovviamento Omero è il principale fornitore di materiale per la traduzione dell’Iliade; e,  Per il giorno onomastico della mia donna, gli suggerì spunti sia il canto sesto dell’Iliade (incontro di Ettore ed Andromaca alle porte Scee), sia il Tasso (Gerusalemme liberata, VI, ottava 77), sia la finale del “Carmagnola” del Manzoni (incotrro del capitano, condannato a morte, con la moglie).

 

LA POESIA DEL MONTI

 

Le cose migliori del Monti ci sembrano l’ode Al Signor di Montgolfier; Per la liberazione d’Italia (canzonetta “Bella Italia, amate sponde”), questi versi dell’Iliade,  (VI, 180-4): “... Quale delle foglie,| tale è la stirpe degli umani. Il vento| brumal le sparge a terra, e le ricrea| la germogliante selva a primavera.| Così l’uom nasce, così muor” ed il complesso della canzone Per l’onomastico della sua donna. L’opera maggiore, per altro, è la traduzione del poema omerico che, pur non reggendo praticamente mai il paragone nè con l’originale nè con i cinque versi particolarmnete felici ora citati, presenta pure una  sua dignità ed efficacia di narrazione complessiva, mai più raggiunta da emuli posteriori.

                          I MOTIVI ISPIRATORI

Sostanzialmente il Monti è un poeta d’occasione (o di “circostanza”): manca un centro preciso ed originale della sua ispirazione poetica. Come manca nella sua vita pratica un ideale persistente cui essere fedele, così egli deve attendere la circostanza esteriore che gli suggerisca il motivo della versificazione.

Addirittura, la cosa migliore è, come detto, la traduzione dell’Iliade di Omero (e, dicono, anche i versi forbiti che traducono la Pucelle d’Orléans, del Voltaire).

Altro segno generale di tale disponibilità alla suggestione esterna, in mancanza di una tematica interiormente privilegiata perchè porofondamente sentita, è la pronta assunzione di motivi ed atteggiamenti propri delle nuove opere (e nuove mode) che man mano affioravano. A parte la fedeltà al classicismo, egli si barcamenò fra tutti gli spunti ed i poeti e le mode affiorate nel corso della sua lunga carriera poetica.  La sua stessa teorica avversione al romanticismo, subisce delle smentite nel concreto delle opere  scritte. Così l’Aristodemo ed Il Bardo risentono dei poemi e della atmosfera di Ossian[9]; i Pensieri d’amore e gli Sciolti a Sigismondo Chigi  son frutto forse più   della imitazione dei “Die Leiden des jungen Werther” che di iniziativa autonoma e di esperienza psicologica personale.

Quanto alla varietà di temi concreti, su cui scrivere versi, egli passa dalle monacazioni alle nozze (e questo passi, viste le usanze del tempo), dagli avvenimenti tecnici (Al signor de Montolfier) a quelli civile (prosciugamento delle paludi pontine), da quelli mitologici (Musogonia) a quelli mlitari e politici (la Bassvilliana, a Roma; i vari componimenti per vittorie, incoronazione, nozze di Napoleone, poi; i versi per il ritorno dell’Austria, infine).

Definendo il Monti poeta d‘occasione, non vogliamo dirlo del tutto sordo a qualche tema procedente dal suo mondo interiore, anzichè dalle circostanze esterne. Non si può negargli un’ispirazione anche personale nei Pensieri d’amore o negli Sciolti. E così si deve riconoscergli la sincerità dell’amore alla terra d’Italia, scaturito in versi discretamente sentiti (canzonetta “Bella Italia, anmate sponde”).

Vi è poi il motivo della “natura  che non è solo paesaggio, ma senso di una forza di vita e di rinnovamento, che non affascina solo per il piacere di esservi immersi nella pace, ma per la meraviglia di bellezze ed opere, sempre imprevedibili e perciò sorprendenti, che ne promanano. Questo tema è così sentito, che lo stesso Monti denuncia la intervenuta incapacità a gioirne,  come uno dei segni eminenti che la sofferenza gli toglie la facoltà di  partecipare in pienezza di spirito alla vita (Sciolti a S. Chigi, vv. 12-15)[10]. Inutile dire che tale tema si ritrovi in quasi ogni sua composizione: anche se non giunge mai ad una espressione liricamente sufficiente.

Vi  è bensì un tema di valore universale, sentito almeno  una volta con potenza lirica discreta: la forza della ragione ed il suo innegabile statuto di arbitro della pace, perchè corte d’appello ultima per ogni questione, scientifica o filosofica.  Essa è celebrata nell’ode Al signor di Montgolfier, colta   in una delle sue attività maggiori, la scienza che, vincendo la legge di gravità, permette all’uomo di ascendere in alto col pallone aerostatico; che sta soppiantando le diatribe filosofiche colla sicurezza delle prove di fatto; che gli permetterà forse di vincere la stessa morte e che, in qualche modo,  lo eguaglia a Dio. Ma se l’ode è davvero sentita; se il tema in essa è centrale e costituisce un punto trigonometrico nella cultura di ogni tempo (l’uomo è creatura limitata o essere autosufficiente ed in crescita esponenziale che non ha limiti?), tuttavia resta dubitabile la fede del poeta nella  intelligenza dell’uomo. Infatti nella saffica “Invito d’un solitario ad un cittadino” (1792)  l’entusiasmo per il progresso e la fiducia ottimistica nella ragione cedono il passo al pessimismo sia per la sua natura mortale, sia per le sue opere malvage: sulla sua empietà che vuol sfidare Dio e si prepara, per ciò stesso, la punizione[11]. Se anche, dopo la “fuga” verso Napoleone nel 1797, egli si  fortificò in quel razionalismo che era stato fino allora solo scetticismo godereccio e lo cantò con voce ostentatamente ottimista ed esultante, tuttavia la moderazione ideologica che mantenne (deismo, massoneria, posizione contro ogni estremismo democratico) mi pare che confermino il suo “relativismo” intellettuale, la “provvisorietà” della sua adesione a dottrine di cui era tutt’altro che sicuro, anche se vi inneggiava  stentoreamente per il proprio vantaggio. Rivelava sempre quell’atteggiamento di uomo intellettualmente mediocre, disponibile ad ogni trasmutazione non solo pratica, ma altresì teoretica, fino al ritorno all’antica fede ed  agli antichi padroni.

 Persistenze nella versificazione montiana,  ve ne sono: la prospettiva classicistica  della mitologia e della retorica; e le continue reminiscenze letterarie. Ma si tratta di accidentalità espressive, non di contenuti di pensiero; non di temi volontariamente presi in considerazione, ma di formule, in  parte congeniali, in parte acquisite con tale ovvietà, da renderle quasi una seconda natura nel suo modo di pensare per lo  scrivere. Non fanno, perciò, parte dei Motivi ispiratori, ma della tecnica stilistica ed ivi  li prenderemo in considerazione.

 

                               LE TONALITA’ LIRICHE

Non sono molti i versi del Monti che raggiungono o superano la sufficienza artistica, comunicando una autentica commozione lirica, sia pure frammentaria, di breve respiro.        Leopardi  esagera un po’ quando assolutiza il giudizio negativo sulla produzione montiana, ma non erra di molto: “Il Monti è un poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione; del cuore, in nessun modo” E forse pensando a lui (lo si è già detto), il Foscolo scriverà il famoso  verdetto “Sdegno il verso che suona e che non crea” (Le Grazie, I, 25).

Il Monti crede di surrogare la  emotività epica con l’enfasi e la retorica; e contrabbanda come idillio la raffinatezza musicale della versificazione. Esempi tipici di tali virtù esteticamente inutili sono La bellezza dell’universo e la Feroniade.

Il componimento che convince di più rimane l’ode Al signor di Montgolfier, che alterna strofe idilliche a quelle, preponderanti, epicizzanti.

L’idillio ti sorprende affascinante  nelle strofe terza, quinta e trentaduesima, sempre negli ultimi due versi: “Stendea le dita eburnee| su la materna lira;|e al tracio suon chetavasi| de’ venti il fischio e l’ira”|| “Cantava il vate odrisio| d’Argo la gloria, intanto,| e dolce errar sentivasi| su l’alme greche il canto”|| “Svelaro il volto incognito| le più remote stelle,| ed appressar le timide| lor vergini facelle”.

Più solitamente l’epopea domina; ma è un po’ enfatica, cioè non del tutto convincente. Ci sembrano migliori, rispetto al livello lirico usuale,queste: “Su l’alta poppa, intrepido| col fior del sangue acheo| vide la Grecia ascendere| il giovinetto Orfeo” (str. 2); “ O della Senna, ascoltami,| novello Tifi invitto:| vinse i portenti argolici| l’aereo tuo tragitto” (str. 6); “Brillò Sofia più fulgida| del tuo splendor vestita,| e le sorgenti apparvero| onde il creato ha vita” (str. 14); “Fosco di là profondasi| il suol fuggente ai lumi,| e come larve appaiono| città, foreste e fiumi” (str. 26);“Umano aridr,pacifica| filosofia sicura,| qual forza mai, qual limite| il tuo poter misura?” (str.29); “Frenò guidato il calcolo| dal tuo pensiero ardito| degli astri il moto e l’orbite,| l’olimpo e l’infinito.|| Svelaro il volto incognito le più remote stelle,| ed appressar le timide lor vergini fiammelle.|| Del sole i rai dividere,| passar quest’aria osasti:| la terra, il foco, il pelago,| le fere e l’uom domasti.||....|| Che più ti resta? infrangere| anche alla morte il telo,| e della vita il nettare| libar con Giove in cielo” (strofe 31-33; 35)

 

La epicità, una volta, si fonde con l’idillio e crea un attimo di estasi: “Tace la terra, e suonano| del ciel le vie deserte:| stan mille volti pallidi | e mille bocche aperte” (str. 19).

Altre volte cede il passo ad un sincretismo fra epopea e tragedia (tonalità che solitamente si definisce come “dramma”, quasi una tragedia minore o non del tutto riuscita): ma non sono i passaggi più  artistici. Si vedano le strofe  18 e  21-24.

 

Sempre in tonalità  epicizzante è la canzonetta “Dopo la battaglia di Marengo (già nota col titolo “Per la liberazione d’Italia”).  L’inizio, a dir il vero vede prevalere l’idillio, pur nella simbiosi con l’esultanza  (“Bella Italia, amate sponde,|pur vi torno a riveder!| trema in petto e si confonde| l’alma oppressa dal piacer”). Le altre venti quartine si avviano ad una marcia  trionfale per il generale Désaix, caduto a Marengo dopo aver deciso delle sorti della battaglia; e, naturalmente,  per Napoleone, il vincitore, proclamato superiore ad Annibale come militare, come legislatore, come politico e come uomo. Ma  lo stato d’animo espresso oscilla indeciso fra drammaticità esecratrice degli oppressori e terrore delle vicende militari, da una parte; ed esultanza per la vittoria delle armi che apportano libertà, pace e progresso, dall’altra.  Il risultato è più spesso una mediocre drammaticità, che stenta a convincere e non trascina mai nell’oblio dell’arte pura. Le strofe più univocamente epiche ci sembrano le  tre seguenti: “Tremar l’Alpi, e stupefatte| suoni umani replicar!| E l’eterne nevi intatte| d’armi e armati fiammeggiar.|| Del baleno al par veloce| scese il forte, e non s’udì:| chè men ratto il vol la voce della Fama lo seguì.||...... Che più chiedi? Tu[12] ruina,|Ei salvezza al patrio suol.| Afro, cedi e il ciglio inchina:| muore ogni astro in faccia al sol.” Fra le strofe drammaticamente intonate (cioè ad una tragedia mediocre), le migliori ci sembrano queste due: “D’ostil sangue i vasti campi| di Marengo intiepidir,| e de’ bronzi ai tuoni ai lampi| l’onde attonite fuggir.|| Di Marengo la pianura| al nemico tomba diè.| Il giardino di natura, no, pei barbari non è”. [13]

 

 Il tono elegiaco  si affaccia effimero[14] in qualche verso dei Pensieri d’Amore (nell’ottavo specialmente, ma anche nel nono e decimo pensiero);  è  sicuramente riuscito nei cinque versi già riportati dalla traduzione dell’Iliade, VI, 180-4, versi che  migliorano  persino il testo omerico e si avvicinano alla intensità dei famosi versi di Mimnermo “Emèis, d’òia ta fulla fuéi poluànthemos òre...”; anima discretamente tutti i versi Per l’onomastico della mia donna, (citiamo quelli finali: “.... E quivi| di te memore....|...|... il tuo fedele,| adorata mia donna,| t’aspetterà cantando,| finchè tu giunga, le tue lodi; e molto| de’ tuoi cari costumi| parlerò co’ celesti, e dirò quanta| fu verso il miserando tuo consorte| la tua pietade: e l’anime beate,| di tua virtude innamorate, a Dio| pregeheranno che lieti e ognor sereni| sieno i tuoi giorni e quelli| dei dolci amici che ne fan corona...”).

 

                        TECNICA STILISTICA

Esemplificando in riferimento preferenziale con l’Ode Al signor di Montgolfier, vediamone anzitutto i fattori che lo accomunano a tutti  gli scrittori classici.

Armonia di pensiero e musicalismo. La classicità del suo verso ha un’origine anzitutto congenita, confermata, poi, dall’atmosfera neoclassica in cui  si è formato. Tale classicismo innato consiste nella armonia tra un pensiero non profondo ma  chiaro, ordinato, moderato (lontano da estremismi) ed una musicalità contemporanemanete sostenuta  ed elegante, grandiosa e gentile, magniloquente e raffinata, possente eed elastica, forte e dolce, fluente e levigata...

Documentiamo il musicalismo: pur nell’equilibrio delle due componenti opposte, il verso del Monti è più flessuoso e scorrevole di quello pariniano, ha meno di forza e più di doclezza Tentiamo di penetrarne il segreto. Le vocali, nel Monti, non caratterizzano  il musicalismo, perchè vi è compensazione nella frequenza di  larghe (A|O), strette (I|U) e media (E). Invece, delle consonanti, quelle decisive ci sembrano la  “L” e, simmetricamente antagonista, la “T”, mentre la “R” e la “S” concorrono all’armonia od equilibrio che lega assieme le caratteristiche opposte sopra dichiarate.  La cosa si può costatare nei versi che riporteremo man mano a testimonianza delle altre peculiarità dello stile montiano. In nota  analizziamo  puntigliosamente i primi versi (endecasillabi sciolti) della Feroniade, l’opera più curata e condotta a perfezione stilistica del Monti.[15]

 La integrazione,  con riporti o riecheggiamenti, di poeti greci e latini, italiani e stranieri nelle sue composizioni, come è comune a tutta la galassia classicistica, così nel Monti assume una frequenza e disinvoltura.... preoccupanti. Solo il D’Annunzio avrà la prontezza di sintonizzarsi sulla recentissima produzione letteraria europea (anche lui, attraverso il francese) che fu eccezionale nel Monti. Addirittura Bendetto Croce ha parlato di un “motivo ispiratore letterario”  per lui, come se il poeta si proponesse consapevolmente di fare delle reminiscenze letterarie un tema di canto. Questo ci sembra (lo abbiamo già detto)  eccessivo.[16] Eccoci all’ode per Montgolfier con due casi macroscopici. Il v. 43 (“Pèra lo stolto cinico”: cioè l’incredulo che chiama frenesia la scienza chimica) è ricalcato sul famoso inizio del discorso a tavola del vegetariano, nel “Mezzogiorno” del Parini (“Péra colui che prima osò la mano|armata alzar su l’innocente agnella...”). A loro volta i vv. 113-40 (“Umano ardir, pacifica| filosofia sicura,| qual forza mai, qual limite| il tuo poter misura?”) sono un riecheggiamento di Orazio, Odi, I, 3, vv. 25-40, cioè della finale del “propempticon per Virgilio che si reca in Grecia “Sic te diva potens Cypri, parte finale che inzia “Audax omnia pèrpeti| gens humana ruit per vétitum nefas...”.[17]

La sintassi latineggiante, con inversioni tra verbo e soggetto, tra complemento di specificazione e sostantivo specificato. Qui ci limitiamo  qualche citazioni dall’ode solita: “Vide la Grecia ascendere| il giovinetto Orfeo” (vv.7-8); “e al tracio suon chetavasi| de’ venti ilfischio e l’ira” (vv. 11-12); “E dolce errar sentivasi| sull’alme egregie il canto” (vv. 19-20).[18]

L’uso della retorica (interrogative ed esclamative scontate, inversioni e traslati...) sono schemi ovvi nel Monti. Nell’ode al Montoglfier troviamo interrogative retoriche nei vv. 25-32| 113-6)[19], esclamative nei vv. 21-24| 41-44| 66| 81-84...). Per i traslati, si veda “abeti=navi” al v.2; “il seno a Teti”= il mare al v. 4; “ dei fulmini| l’inviolato impero”=cielo ai vv.27-8; “Sofia”= scienza, al v. 53; “marzii corpi”= ferro, da cui si ricavano le armi per la guerra, di cui Marte è la divinità”, al v. 62...

La mitologia costituisce forse l’elemento più consistente e clamoroso del classicismo montiano. Tutta la nostra ode è un ricamo di proiezioni mitiche: la nave “Argo”, Giasone, Tifi, Orfeo, Teti, le Nereidi, Nettuno, Borea, Orizia, Teséo, il Fato, Erebo, Dedalo, ecc. Le “Metamorfosi” di Ovidio (altrove anche la “Teogonia” di Esiodo) è la gran fonte al continuo favoleggiare del poeta romagnolo...

 

Ed  ecco almeno una componente più specificamente neoclassica: il vocabolario raffinato: “eburnee dita| alìpedi| vate odrisio| talami| il telo| libare..”.

 

E, infine, una dimensione personale del Monti: il senso del meraviglioso nelle realtà, antiche come la natura o nuovissime come il pallone aerostatico. Monti finisce per apparire come un eterno bambino,  che guarda il mondo e la storia “sub specie stuporis”, cioè come manifestazione incessante di fenomeni stupefacenti. Vi sono termini che agiscono da “lapsus” rivelatori, da spie acutissime. Nell’ode Al signor di Montgolfier, troviamo il conceetto di “meraviglia” riproporsi varie volte: nel verbo “maravigliando” (v. 13), nell’aggettivo “mirabile” (vv. 41 e 66); in vocaboli equivalenti: “attonita” (v. 35); “stan mille volti pallidi| e mille bocche aperte” (vv. 75-76). PIù in generale, i vv. 13-15| 21-28| 33-80 esprimono proprio lo sbalordimento di fronte all’ingegno umano ed alle sue invenzioni, da parte del poeta.

 Si noti che anche la retorica e la mitologia possono essere sentiti come uno strumento di tale meraviglia: un modo di proiettare all’infinito, di dare una patina eterna alle vicende umane, a personaggi particolari o paesaggi da loro visitati.

 

                        LA FORTUNA

Come letterato, va distinto il successo del suo magistero nel periodo napoleonico da quanto successe in seguito. Dapprima, infatti, fu considerato maestro da vari poeti, destinati ad  una produzione incomparabilmente superiore alla sua (come il Foscolo ed il Manzoni), sicchè lasciò tracce nei versi anche di quelli che saranno poi suoi denigratori (come il Foscolo ed il Leopardi).

Foscolo riecheggerà l’apertura dell’ultima strofa nei Pensieri d’amore (“Tutto père quaggiù. Divora il Tempo| l’opre, i pensieri”) nei versi 16-22 de “I sepolcri” (“Anche la Speme,| ultima dea, fugge i sepolcri; e involve| tutte cose l’obblio nella sua notte;| e una forza operosa le affatica| di moto in moto e l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel traveste il Tempo”).

Leopardi, lo si è visto, dagli stessi Pensieri d’amore (lasse 8 e 9), trarrà spunti per le “Ricordanze”, “Amore e morte”, “A Silvia”, “La vita solitaria”; degli sciolti “Al principe Chigi” (vv. 179-82) si servirà per i vv. 183-205 nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.

Manzoni  migliorerà nella espressione sul “guazzabuglio del cuore umano” un suggerimento del v. 11 degli stessi “Sciolti”: “portentosa mistura è il cuor dell’uomo”, senza dire che tutta la sua prima produzione poetica (dal poemetto “Adda” del 1803 all’Urania del 1809) è sotto l’insegna del Neoclassicismo e del magistero montiano. Coerentemente, davanti ad un busto del poeta,  improvvisava l’elogio spropositato  di questi due versi: “Salve, o divino, cui largì natura| di Dante il core e del suo Duca il canto” (prima della sua duplice conversione alla fede ed al romanticismo, è da credersi).

Ma altro è l’imitazione più o meno cosciente, altro è il giudizio riflesso, già da noi riportato. Foscolo  pare quasi abbia scritto per il Monti: “Sdegno il verso che suona e che non crea” (Le Grazie, I, 25); Leopardi ha quel giudizio eccessivo che nega valore poetico ad ogni e qualsiasi verso del Monti (“Il Monti è un poeta veramente dell’orecchio  e dell’immaginazione; del cuore, mai”).

 Il tentativo di Carducci  di rivalutarlo, dedicandogli lezioni universitarie che ne esaltano la versificazione  genuinamente classica, non ha avuto seguito.

E ci si permetta di ricordare che il vocabolo “frale” nel senso di “corpo” (“fra-gi-le”, perchè mortale), benchè già rintracciabile in Francesco Redi ed in Vincenzo Filicaia, è pervenuto ad un uso diffuso (almeno nel periodo romantico) grazie al Monti, che lo introduce ovviamente (nel v. 19 degli “Sciolti” e nel v. 15 del decimo dei Pensieri d’amore, ad esempio). Riccardo Bacchelli nel suo “Mulino del Po” fa  pronunciare tale termine da un candidato  al parlamento, che ha pretese culturali: ma qualche comiziante lo rimbecca e lo invita a parlare in modo più comprensibile. Forse è stata l’ultima avventura del termine nella letteratura italiana! Anno 1940 o giù di lì.

 

Visto come uomo, era da aspettarsi il “rigetto” della sua condotta e della sua figura in epoca risorgimentale: come il Guicciardini, egli aveva difeso “el proprio particulare” anzichè l’ideale patrio. Ma, anche senza tale ambiente politico-sociale di metà Ottocento, il giudizio sulla sua condotta non può che essere negativo. Troppo gli si addicono gli insulti di “proteo” e “girella”, donabbondiesco e voltagabbana. Proprio non può essere proposto a modello di lealtà e responsabilità socio-politica per nessuna epoca o cultura: almeno finchè l’uomo sarà stimato di un buon palmo al di sopra degli animali.

 

                               INDICE VINCENZO MONTI : pp. 1-14

VITA:      pp. 1-2    INDIVIDUALITA’:  pp. 4-5      LA POESIA: motivi ispiratori: pp. 7-9

OPERE:  pp. 2-4    AMBIENTE              pp.  6-7      lirismo: 9-10;   Stile: 11-13; FORTUNA

 

 

 

 

 

                              

                              

                              

                              

                                 

                          

 

 



[1] Della sua formazione religiosa sono frutto numerose opere, della prima epoca e dell’ultima della sua vita (dopola conversione): 1776: La visione di Ezechiello; sestine Sopra i dolori di Maria Vergine; distici De Christo nato; quattro sonetti Sulla morte di Giuda; sonetto contro l’ Alfieri (vi difende il papato); Il pellegrino apostolico (in appoggio al viaggio in Austria di Pio VI, nel 1782); tratti più o meno ampi de La bellezza dell’universo (1781),  de La prosopopea di Pericle (1789), de La Feroniade (iniziata nel 1784) e della Bassvilliana (1793). Covertito, brucerà la finissima traduzione in ottave de “La Pucelle d’Orléans” di Voltaire (se ne salvò copia presso amici e fu così pubblicata nel 1878) e metterà uno spunto religioso nei versi a sua moglie Teresa Pickler (1826: Per il  giorno onomastico  della mia donna).

[2] Nella canzone petrarchesca Per il congresso di Udine, (1797) si accenna al “triangolo immortale”; l’Asilo della verità è una cantata per festa massonica del 1806; I Pitagorici (dramma allegorico, musicato da Paisiello, dedicato a Giuseppe Bonaparte, capo della massoneria napoletana) ha simbolismi massonici.

[3] Sono noti gli epigrammi che i due si scambiarono (almeno, la cosa è sicura per i versi del Monti; meno certa per quelli di  Foscolo) in seguito. Sicuramente il Monti commentò così un ritratto del Foscolo: “Questi è il rosso di pel, Foscolo detto,| sì falso che falsò fino se stesso| quando in Ugo cambiò ser Nicoletto:| guarda la borsa se ti viene appresso”. A Foscolo sono attribuiti questi versi, più sobri: “Questi è Vincenzo Monti, cavaliero,| gran traduttor del traduttor d’Omero” (si ironizza sulla insufficiente conoscenza del greco da parte del Monti, che si era servito della traduzione in prosa del Cesarotti per comporre i versi della sua Iliade).

[4] Nella Mascheroniana, accanto al poeta che dà il nome,  vi si celebra anche il Parini: entrambi introdotti a lamentarsi dei mali d’Italia e ad auspicare la pace, che solo Napoleone potrà  portare.

[5] Benjamin Constant: “C’est un veritable poète, fougueux, emporté (irascibile, impulsivo), faible, timide e mobile. Le pendant de Chénier en Italien, quoique il vaille mieux que Chénier” (Garzantiana, 1976, pp. 7-8 dell’Ottocento). Pietro Giordani: “Egli per verità pronto a divanpare negli sdegni, non sempre giusti, ma brevi e placabili, altrettanto fu incapace dell’odio; anzi rispondeva coi benefizi alle ingiurie; poco sapendo guardare da nuove offese d’ingrati e d’ingannatori. Nella severa maestà del suo volto (sì vivamente rappresentata dalla scultura di Giambattista Comolli) la grazia (non rara) di un sorriso dolce e delicato rivelava pienamente un animo sincerissimo e affettuoso...” (ivi). Silvio Pellico: “Monti vive, ma muto... Si scusa di questo suo demone taciturno, attrribuendolo alla sordità. Il povero uomo è avvilito perchè i governi più non l’accarezzano. Egli non ha mai saputo di valer qualcosa per se stesso e ora che gli mancano i sorrisi dei potenti si crede spogliato de’ suoi più bei pregi...” (Garzantiana, 1976, p. 11). Ugo Foscolo: “... il poeta Monti... ricco veramente di ingegno poetico, tuttavia mancò di costanza; nei suoi componimenti ebbe sempre mai fretta, anzi ci fu costretto, perchè pigliava occasioni dalla frequenza dei magistrati ai quali la sua penna era venduta. Dacchè mondo è mondo, non so se altri sia mai esistito più volubile ed impudente di lui. Dall’anno 1792 al 1794 le cose scritte pel Papa spirano eccessiva superstizione; pari empietà quelle pei Giacobini; lodò ed esecrò tutti i princìpi del diritto civile, e i prìncipi, secondo la spinta che riceveva per denaro. E già blandisce l’imperatore d’Austria la cui fama aveva lacerato negli anni addietro. Il suo dire è nitido, benchè più splendente che puro: imita e più spesso ripete le stesse cose. La moglie è famosa per intemperanza e il signore va adorno (nella descrizione dell’Ipercalisse) di corna di lumaca. Il Monti fu educato alla corte romana” (dalla “Chiave” per la lettura e comprensione dell’ “Ipercalisse”). Francesco De Sanctis: “Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo, quando anche i retrivi gridavano –libertà- ben inteso la  -vera libertà- come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutti i governi.... Il poeta faceva quello che i diplomatici... E non tutto è ipocrisia. Dotato di ricca immaginazione, ivi le idee pigliano colore e forma, sì che facciano illusione a lui stesso e simulino la realtà. Non aveva l’indipendenza sociale dell’Alfieri e non aveva la virile moralità del  Parini: era un buon uomo, che avrebeb voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove, tutte le opinioni e, dovendo scegliere, si tenea stretto alla maggioranza e non gli piaceva fare il martire. Fu dunque il segretario dell’opinione dominante, il poeta del buon successo. Benefico, tolllrante, sincero, buon maico, cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d’animo che per malignità o perversità d’indole, se si fosse ritratto nella verità della sua natura potea da lui uscire un poeta... Monti raffredda, perchè sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità di Tersite; e più alza la voce e più piglia aria dantesca, più ti lascia freddo.... Monti era la sua personificazione e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva dato le più alte qualità dell’artista: forza, grazia, affetto, armonia, facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica, un’assoluta padronanza della lingua e della elocuzione poetica. Ma erano forze vuote, macchine prive d’impulso. Mancava la serietà di un contenmuto profondamente meditato e sentito, mancava il carattere, che è l’impulso morale...” (Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, II, pp. 424-5). Natalino Sapegno afferma che la sua “personalità umana si dissolve, diventa evanescente. Ed è veramente una personalità in embrione, trasmutabile come quella di un fanciullo, aperta a tutti i suggerimenti ed a tutte le suggestioni...” (Compendio di storia della Lett.it., Firenze, La Nuova Italia, 1963,  III, p. 27).

[6] Si noti, la sua instabilità ideologico-politica dipende secondariamente dal temperamento: si tratta di un mutare di credenze, per la scarsezza di intelligenza. Pure, lo stato di poca stabilità emozionale non lo aiutava a perseverare nelle posizioni intellettauli, in quanto un vagotonicoprevalente non ha una grande forza, neppure di resistenza e perseveranza in generale. In questo, egli era il contrario dell’Alfieri, che aveva intelligenza acuta e, quindi, tendente alla persistenza e, per di più, un viraggio emozionale simpaticoprevalente, che   lo rendeva testardo, salvo incidenti clamorosi,  nelle sue idee.

[7] Urbano Lampredi, fiorentino (1761-1838), scolopio che lasciò l’abito talare per farsi giornalista, tradusse molto dal greco ed ebbe polemiche sia col Monti che col Foscolo.

[8] Si noti, per altro, che il Monti leggeva  gli scrittori inglesi e tedeschi in traduzione (spesso francese, l’unica lingua  straniera che conoscesse bene).

[9] Ricordiamo che Ossian (od Oisin) è un leggendario bardo (poeta) del III secolo d. C. a cui la tradizione “gaelica” (o celtica: lingua dell’Irlanda e della Scozia, risalente ai Galli) attribuiva canti epici popolari. James Macpherson gli assegnò la paternità dei due poemi in prosa ritmica “Fingal” (1761) e “Tenora” (1762: nel 1765, edizione con il titolo comune di “The poems of Ossian”), da lui composti mediante brani di quei canti epici, ma con vasti complementi di propria  invenzione. Immensa fu l’eco in tutta Europa   e nel 1763, il Cesarotti li aveva già tradotti in italiano. Tutti (Cesarotti e Goethe compresi) si entusiasmarono a tale “scoperta”, credendo candidamente alla vantata paternità delle opere: solo Samuel Johnson  la mise in dubbio, osservando che vi erano troppe somiglianze con la Bibbia,  Milton ed Omero. In realtà la prosa ritmica era esemplata su quella della traduzione della Bibbia in inglese.

[10] “Questa parte di me, che sente e vede,| questa di vita fuggitivo spirto,| che mi scalda le membra e le penétra,| con quale ardor, con qual diletto un tempo| scorrea pe’ campi di natura e tutte| a me dintorno rabbellìa le cose!| Or s’è cangiato in mio tiranno, in crudo| carnefice, che il frale, onde son cinto,| romper minaccia, e le corporee forze| qual tarlo tarditor, logora e strugge”.

[11] Dell’ode Al signor di Montgolfier avremo modo di riportare versi, commentandoli, sia per riconoscere le tonalità liriche che per farci un’idea dello stile del Monti. Dell’ode saffica “Invito d’un solitario ad un cittadino” riportiamo qui alcune strofe, sia perchè i versi rasentano la sufficienza poetica, sia perchè sembrano proprio rovesciare la posizione entusiastica del’ode precedente, vecchia di solo otto anni. Si noti che lo sfondo complessivo è quello della natura campestre nel cui seno, favorevole all’uomo anche nelle manifestazioni in apparenza ostili, il poeta invita a rifugiarsi   l’uomo della città,  spaurito e sbalordito per le violenze delle guerre e degli eccidi collegati alla rivoluzione francese.  Ma, prima di riportare le strofe che ci interessano, ecco il collegamento con le quattro   tralasciate: il vento gelido invernale che potrebbe irritare, invita invece a riflettere sulla caducità dell’uomo, fatto da Prometeo col fango ed autolesionatosi con l’aprire il vaso di Pandora, che lasciò svanire tutti i doni preparati da Giove per la novella stirpe umana (le altre strofe, pur intrise di mitologia, sono nel complesso più comprensibili): “Egli del fango prometéo m’attesta| la corruttibil tempra, e di colei| cui donaro il fatal vase gli dei| l’eredità funesta.|| Ma dolce è il frutto di memoria amara;| e meglio tra capanne e in umil sorte,| che nel tumulto di ribalda corte,| filosofia s’impara.|| Quel fior che sul mattin sì grato olezza| e smorto il capo sulla sera abbassa| avvisa, in suo parlar, che presto passa| ogni mortal vaghezza.|| Quel rio che ratto all’oceàn cammina,| quel rio vuol dirmi che del par veloce| nel mar d’eternità mette la foce| mia vita peregrina.||....||....|| Fuggi il pazzo furor, fuggi il sospetto| de’ sollevati: nel cui pugno il ferro| già non piaga il terren, non l’olmo e il cerro,| ma de’ fratelli il petto.|| Ahi di Giapeto iniqua stirpe! ahi diro| secol di Pirra! Insanguinata e rea| insanisce la terra, e torna Astrea| all’adirato empiro.|| Quindi l’empia ragion del più robusto,| quindi falso l’onor, falsi gli amici,| compre le leggi, i traditor felici,| e sventurato il giusto.|| Quindi vedi calar tremendi e fieri| de’ Druidi i nipoti, e violenti| scuotere i regni e sgomentar le genti| con l’armi e co’ pensieri,|| Enceladi novelli, anco del cielo| assalgono le torri;| a Giove il trono| tentano rovesciar, rapirgli il tuono| e il non trattabil telo.|| Ma non dorme lassù la sua vendetta,| già monta su l’irate ali del vento;| guizzar già veggo, mormorar già sento| il lampo e la saetta”.

[12] “Tu” è Annibale, chiamato anche “Afro”, cioè “africano, cartaginese”.

[13] Se si volesse andare a scoprire  i punti deboli di questi versi, gli indizi della loro medicorità, si possono rilevare i seguenti: i campi di battaglia, che col sangue “intiepidir”, è figura retorica (esagerazione), affidata per di più ad un verbo debole (“intiepidire” non riesce a dar il senso, l’impressione della strage); “l’onde attonite fuggir” è  menzogna retorica, che non riesce a farsi accettare dalla mente e, perciò, neppure dal cuore; “”Il giardino di natura,| no, pei barbari non è” pur risultando una formulazione espressiva felice (e imitata dai romantici), non lega coi due versi primi della quartina (“Di Marengo la pianura| al nemico tomba diè”) e non riesce a spegnere la riflessione che, intanto,  barbari non erano ormai più gli Austriaci e che, invasori, lo erano tanto questi che i  Francesi: la libertà dell’Italia era un sogno di Monti, di Foscolo, di Parini e di un buon gruppo di italiani colti e candidi come loro, ma non era la volontà, il progetto di Napoleone...

[14] “Effmero”: intendiamo notare che per lo più l’elegia si impone per pochi versi alla volta, per ricadere subito nella retorica dei lamenti per l’amore  (di Carlotta Stewart), che si avvicinano al tono drammatico, ma non convincono. Ecco, comunque, l’inizio delle lasse ultime, dove ci pare si concentri meglio la tristezza del poeta (sia pure imitata da vicino sulle espressioni del Werther goethiano): Dalla strofa VIII: “Alta è la notte, ed in profonda calma| dorme il mondo sepolto, e in un con esso| par la procella del mio cuor sopita.| Io balzo fuori dalle piume, e guardo;......| Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque,| e verrà tempo che da voi l’Eterno| ritiri il guardo e tanti Soli estingua?| E tu pur anche coll’infranto carro| rovesciato cadrai, tardo Boote,| tu degli artici lumi il più gentile?|.... Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque,| dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo?...”; dalla lassa IX: “Limpido rivo, onor del patrio colle,| che dolce mormorando per la via| lo stanco ed arso passeggiero inviti,| è gran tempo, lo sai, che su l’erbetta| del tuo bel margo a riposar non vengo...”; dalpensiero X: “Tutto père quaggiù. Divora il Tempo| l’opre, i pensieri. Colà dove immenso| gi astri dan suono, e qui dov’io m’assido,| e coll’aura che passa mi lamento,| del Nulla tornerà l’ombra e il silenzio...”.  In questi versi   sono stati annotati, da una parte, i riferimenti precisi ai “Dolori”  goethiani e le reminiscenze da Virgilio ad Alfieri;  dall’altra, gli influssi sul Leopardi, che vi ispirò per le “Ricordanze (“Vaghe stelle dell’Orsa”); “Amore e morte”; “A Silvia”, “La vita solitaria”; e sul Foscolo (I Sepolcri, vv. 17-25).

[15] Ecco l’inizio della Feroniade: “I lunghi affanni ed il perduto regno| di Feronia dirò, diva latina,| che del suo nome fe’ beata un giorno| di Saturno la terra. Ella per fiere| balze e foreste errò gran tempo esclusa| da’ suoi santi delubri, e molto pianse,| dai superbi disdegni esercitata| d’una diva maggior, che l’inseguìa,| finchè novelli sacrifici ottenne| sugli altari sabini, e le fur resi| per voler delle Parche i tolti onori”.  Contando solo le vocali accentate (ma anche in preposizioni e articoli), abbiamo in questi undici versi (e, quindi, 121 sillabe) nove “I”, sette “U”, otto “A”, nove “O”, in una frequenza pressochè uguale.  Smbra una eccezione, la “E” che, con 15 presenze, supera ogni altra vocale. Ma essa, invece, conferma il valore puramente  medio-armonizzatore del vocalismo: infatti, è la vocale media per definizione e, quindi, non altera il rapporto di uguaglianza delle restanti vocali. Ma va notato che la “I” accentata (almeno nei sostantivi-aggettiiv-verbi-avverbi) o, più ancora, ictata assume un valore di forza tagliente, che la  cancella dalle vocali deboli, dandole un ufficio tutto particolare, ma affine a quello delle larghe e forti.

 Se controlliamo le consonanti, i numeri sono questi: per le conosnanti (o gruppi consonantici) dolci, abbiamo ventidue “L” (ma nessun “GL”); diciassette “N”; solo quattro “M” e ben ventiquattro “R”; due soli “GN” e due “G” e “C” palatali;  nove “F” e solo quattro “V”. Tra le consonanti “forti” troviamo  sei  gutturali (GH|CH” od equivalenti, come “gran”); sei “P”;  dodici “T”; quindici “S” ed una “Z”. Altre consonanti sono mediatrici, come la media dentale “D” (quindici), la media labiale “B” (tre); e, mentre una sola volta la “S” è rafforzata da una “T” (v. 5: foreste), altre volte o è dolce per posizione (v.10: resi) od è raddolcita dal connubio con liquide (v. 5: esclusa), con nasale (v.6: pianse); anche l’unica “Z” è ammorbidta dalla liquida“L” (v. 5)., mentre la frequentissima “R”  è equivoca per natura, risultando essa  la consonante più aspra tra le dolci e la più dolce fra le aspre.  Potrebbe insorgere la tentazione di pensare ad una musicalità insignificante,  sulla linea di quella del Marino. Ma non è precisamente così: le “I” accentate ed ictate, le numerose “T” e la notevole presenza di “R” ed “S” comunicano una discreta forza che fa da spina dorsale ad un linguaggio, raddolcito bensì dal restante musicalismo, ma che non scade a sdolcinature arcadiche, pur senza ergersi nè alla ruvidezza alfieriana nè alla maggior virilità del linguaggio pariniano.

[16] Che egli, dotato di ottima memoria, “leggesse col rampino”, d’accordo; che egli   traducesse in versi italiani poesia o prosa di autori e toscani e stranieri (nel caso dei Pensieri d’amore sappiamo che si tratta spesso di parafrasi in versi delle situazioni del “giovane Werther” goethiano); che egli amasse, nel suo comporre poetico,   questo gioco di intarsio con le tessere di autori famosi, lo si assente ovviamente; ma che egli facesse di simile “modalità” di  scrittura propriamente un motivo di ispirazione, questo no: Monti non ha mai scritto versi sulla opportunità|bellezza (o meno) di un tale vezzo  espressivo.

[17] In Orazio, però, si tratta di una invettiva contro la nefasta temerarietà della mente umana, che (osando attraversare i mari con le navi) varcherebbe i limiti imposti dalla natura; per il Monti, si tratta di un legittimo ardimento, per sfruttare a favore dlel’uomo le stesse leggi naturali.

[18]Nella traduzione della Iliade, tale sintassi rappresenta dapprima un ostacolo non piccolo alla comprensione del senso delle parole, da parte del lettore, specie se non ancora padrone della lingua latina. Ma va notato che il puntiglio a superare tale difficoltà è di un aiuto decisivo  a strutturare una intelligenza che voglia essere aperta alle altre lingue, che voglia saper districarsi nella lettura delle espressioni  umane più diverse: la ginnastica che viene imposta alla intelligenza del lettore (penso ai ragazzi di 12-13 anni che, nel curriculum della scuola media secondo la riforma “Gentile”, dovevano leggersi gran parte dell’opera di Omero nella traduzione del Monti) dona una tale maturità logica ed ovvietà di scrittura sintatticamente corretta,  che essa risulta  decisiva nella crescita intellettuale dell’alunno. Solo degli esercizi massicci e protratti di analisi logica possono in qualche misura supplire ad una  simile ginnastica mentale.

[19] Citiamo la prima delle interrogative retoriche: “Tentar del mare i vortici| forse è sì gran pensiero,| come occupar de’ fulmini| l’inviolato impero?” (vv.25-8); delle esclamative retoriche, quella dei vv. 41-44: “Mirabil arte, ond’alzasi| di Sthallio e Black la fama,| pèra lo stolto cinico| che frenesia ti chiama!”.