IL   ROMANTICISMO

 

DEFINIZIONE.

       Premessa. Più che di una definizione si tratterà di una descrizione, perchè nel Romanticismo vi sono alcune componenti contraddittorie, che permettono solo una definizione riduttiva, cioè funzionale ad alcuni elementi principali, mentre altri fattori vanno aggiunti con poca coerenza, per la necessità di dare una panoramica completa del fenomeno.[1] Ad ogni modo, la conoscenza dell’origine del vocabolo “romantico”  è il primo aiuto a comprendere il fenomeno.

        Il nome. Derivando ultimamente da “Roma”, “romantic”  negativamente indicherà qualcosa che non è germanico od anglosassone. Positivamente,“romantic” è collegato con “romance”, cioè con i racconti in versi ed in prosa caratteristici dei popoli parlanti una lingua  che ha continuato e sostituito la lingua di Roma: lingue che sono dette appunto “romanze”. Il termine compare in Inghilterra nel corso del Milleseicento per catalogare (con disistima e fastidio) quanto di inverosimile, surreale, gratuito vi era nei romanzi cavallereschi (e pastorali), penetrati anche nel mondo anglosassone, ma di origine medioevale e composti nei paesi di lingua romanza. Il razionalismo illuminista mantenne il senso negativo dell’aggettivo, proprio per la opposizione delle trame stesse alla ragione, alla logica, alla verosimiglianza. Fu Rousseau ad iniziarne un uso parzialmente positivo: “prima come sinonimo di pittoresco (per indicare gli aspetti bucolici e malinconici  di un paesaggio), poi per esprimere l’indefinito stato d’animo che un certo paesaggio suscita. Ma furono i tedeschi a valersene per primi in una accezione totalmente positiva, estesa a tutto un atteggiamento spirituale ed estetico. Novalis affermò: -In quanto conferisco al volgare un alto significato, al comune un aspetto enigmatico, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita, io lo rendo romantico. E fu ancora Novalis ad assimilare romantico a poetico, o meglio a quel particolare poetico che riusciva gradito alla nuova sensibilità. –Tutto in lontananza diventa poesia: monti lontani, uomini lontani, eventi lontani, tutto diventa romantico. Dopo le ulteriori precisazioni teoriche dei fratelli Schlegel, che lo diffusero soprattutto in relazione alla polemica contro il classicismo, il termine era maturo per essere assunto a vessillo del nuovo movimento letterario...”[2].  Si può, ora, tentare una definizione del Romanticismo.

Definizione. E’ la forma di cultura dominante complessivamente nel mondo intellettuale e, particolarmente, in quello letterario, nell’Europa della prima metà del secolo XIX  (Milleottocento).

Tale cultura consiste sostanzialmente NEL PRIMATO DEL SENTIMENTO SULLA RAGIONE, ANZI  NEL CONSIDERARE IL SENTIMENTO COME SORGENTE  PIU’ VERA DI CONOSCENZA E, PERCIO’, COME GUIDA PIU’ AFFIDABILE PER LA VITA. Ci si accorge subito che ci si trova in netto contrasto con  la cultura illuministica[3]. Non che ogni  principio  della ideologia  romantica sia un rovesciamento della corrispondente componente illuministica, ma  molti lo sono. Così, oltre il dogma fondamentale della fiducia-entusiasmo pel sentimento e sospetto-rifiuto della ragione, troviamo il culto della storiografia in opposizione al pirronismo[4];  l’amore per il Medioevo (contro il disprezzo per l’età di mezzo come epoca di tenebre e superstizioni), l’ammirazione per il cristianesimo (contro la esaltazione del paganesimo della Grecia antica), la rivalutazione delle saghe germaniche (contro l’uso della mitologia classica)    l’esaltazione di Shakespeare (contro il disprezzo per quel “barbaro non privo di ingegno”) e la celebrazione delle nazionalità (in opposizione al cosmopolitismo). Vi è ancora il “populismo” dei romantici, che si sentono amici del popolo, contro il  carattere borghese degli illuministi anche più umani (come il Parini), che  “alto disdegna(vano) il vile  (ed ignorante) volgo maligno”. Vi è infine l’opposizione fra l’ottimismo ingenuo  della generazione settecentesca ed il pessimismo programmatico  della prima metà del Milleottocento.

Eppure rimane comune la incapacità di credere  nella Provvidenza  e nella immortalità dell’anima, posizione intellettuale che, anzi, si aggrava in un sofferto ma totale ateismo (contro il “deismo” di molti razionalisti): un punto nodale, che  ebbe deduzioni diverse ed opposte solo a causa della Rivoluzione farncese. Prima di essa  vi erano spazi di soddisfatte illusioni (e becera allegria) per  quanti non l’avevano prevista, pur avendola preparata; spazi che furono sottratti a quanti la subirono con paura ed orrore e si trovarono precipitati in un’amarezza e pessimismo irrimediabili.

Ma se prendiamo in considerazione il Romanticismo italiano, le cose si complicano parecchio. Esso è spaccato (lo vedremo, nei particolari, più avanti) in due correnti, che Francesco De Sanctis definì neogulefa (faceva capo al Manzoni ) e ghibellina (si arroccava attorno al Mazzini): se si pensa che alla seconda corrente si può accomunare idealmente il Leopardi, si comprenderà come il dare una definizione del movimento in Italia diventa ben arduo. Da una parte, sta una serenità che nasce dalla fede   e matura nella  speranza, perfezionandosi nella carità; dall’altra, sta la mestizia inconsolabile del Leopardi (e del Foscolo,  che nelle “Ultime lettere” anticipa la sensibilità romantica). La incapacità di aderire alla religione  impedisce che si realizzi per loro la preghiera della Pentecoste manzoniana: “per Te sollevi il misero| al ciel, ch’è suo, le ciglia;| volga i lamenti in giubilo,| pensando cui somiglia”. Sono, questi due,  i soli grandi poeti italiani ad essere in  sintonia coll’aura che è, invece, tipica del Romanticismo europeo.   

Osservazioni marginali. Si può essere tentati di definire il Romanticismo piuttosto come un moto letterario che come una forma integrale di vita, cioè come civiltà-cultura[5], soprattutto perchè, in sede di pensiero, è difficile dimostrare come come la filosofia idealistica  sia più affine al sentimento romantico che al razionalismo illuministico.  Alla fin fine,  la fonte del pensiero idealistico è quella “Critica della ragion pura” di Emanuele Kant, che segna l’apogeo dell’ipercriticismo razionalista  del Millesettecento. Inoltre, tra le arti visive, almeno la  la architettura non pare poter avere delle espressioni romantiche adeguate[6].   Eppure non si può negare che l’esaltazione del sentimento abbia favorito sia la produzione della musica operistica ( quella dell’ “opera lirica”), che fiorisce proprio nella prima metà del Milleottocento, sia quella moda di pittura detta “Impressionismo” che arriverà solo nei tardi anni Settanta, ma che non si può certo attribuire alla cultura del “Naturalismo- Realismo” trionfanti in quel tempo. Quanto all’Idealismo, esso  rappresenta  la celebrazione dello “spirito” come fonte dell’essere tutto anche materiale e, quindi, collima in questo colla rivalutazione  di ogni forma di spiritualismo, propria del movimento romantico.  Inoltre, una delle più affascinanti novità della scuola idealistica è la introduzione del “divenire od evoluzione” della Idea negli esseri tutti da parte di Hegel (Georg Wilhelm Friedrich: Stoccarda 1770- Berlino, 1831): e, come vedremo, nella mentalità romantica, il dinamismo prevale sulla stabilità,  l’agitazione tipica del sentimento soppianta l’essere immobile della ragione: col Faust di Goethe diremo che  “Am Anfang war die Tat” (statt des Wortes: “In principio c’era l’azione” al posto della Parola,  come affermato invece dall’inizio del Vangelo di S. Giovanni). Quanto alla vita pratica, vi è una tale messe di comportamenti sradicati dalla ragione ragionevole ed affidati alla spontaneità emotiva, da confermare decisamente la definizione del romanticismo come  civiltà o, almeno, come cultura  completa di vita.[7] René Lesenne, nel suo Traité de caractérologie (Parigi, P.U.F., 1952, p. 373) sostiene che il Romanticismo segna il trionfo del tipo psicologico “sentimentale” (emotivo, non attivo, secondario o stabile) del tedesco renano, rispetto al tipo “passionato” (emotivo, attivo, secondario) proprio del prussinao, che invece si imporrà nella seconda metà del secolo con il Realismo politico, artistico, letterario.

Dunque, tutto ponderato, ci sembra si possa e si debba parlare di una “cultura”, oltre che di una letteratura romantica.

Prima di prendere in esame la Mentalità, il Gusto, il Costume e la tecnica espressiva (stile letterario e moda esistenziale) del Romanticismo, daremo uno sguardo ad alcune premesse sia nel campo pratico-esistenziale (avvenimenti militari, politici e sociali) sia nel campo strettamente culturale (premesse straniere al Romanticismo italiano).

 

PREMESSE

               

                Premesse socio-politico-militari.

Situazione politico-militare. Gli avvenimenti più significativi ed influenti furono la rivoluzione francese ed il suo fallimento economico e militare, fra  stragi di veri o presunti nemici interni (ghigliottina,  stragi a Lione, in Vandea, a Marsiglia, a Bordeaux...), la sua salvezza  da parte di Napoleone, la sua espansione all’Europa a prezzo di guerre quasi ininterrotte, con centinaia di migliaia di morti, per un periodo di oltre una generazione (1789-1815). La sola campagna contro la Russia (1812) riportava a casa  soltanto trentamila uomini dei seicentomila che avevavno costituito l’armata della spedizione. Il fallimento successivo delle armi francesi (Lipsia, 1813; Waterloo, 1815), trascinò definitivamente nella rovina anche la fiducia nella ragione, senza che  riuscisse a svilupparsi la distinzione fra l’abuso illuministico e la sua potenza autentica, seppur limitata.

 

Situazione socio-economica. E’ con la vittoria dei princìpi democratici cari a Rousseau,  impostisi   a Parigi man mano che la rivoluzione procedeva, che il “quarto stato”, cioè  la massa dei poveri, fa l’ingresso nella vita attiva dello Stato. Come era già accaduto a Firenze nel tumulto dei Ciompi (1378), tale ascesa improvvisa aveva finito per deragliare il processo di costituzionalizzazione della Francia e portarne l’economia alla catastorfe, causando così il ritorno della borghesia (dapprima, col Direttorio) e anche della nobiltà (poi, coll’impero napoleonico) alle redini del potere. Comunque, il processo è così gagliardo, che  trova modo di organizzare addirittura le prime cellule di comunismo: François-Noel Babeuf e Filippo Buonarroti, seguaci di Robespierre, organizzano in carcere, dopo la sua caduta, gli “eguali” (nel 1796: scoperta la congiuura, il francese si suicidò nel 1797; il Buonarroti sopravvisse sino al 1837, influendo sul socialismo europeo).

Ma non si deve pensare che bastino le idee di Rousseua a  spingere la plebe ad aspirare alla partecipazione del potere ed alla vita politica in genere. Quando un simile fenomeno si verifica, è perchè sta succedendo qualcosa come il risveglio economico-culturale del secolo XI in Italia, che condurrà alla istituzione dei liberi comuni, cioè alla detronizzazione di nobiltà e vescovi dai posti di comando, che vengono assunti dalla borghesia istruita. E’ questo il punto nodale: già nel Millesettecento e tanto più nel secolo romantico, anche il popolo aveva potuto approfittare di un certo tempo libero ed accostarsi alla cultura, sentendo, in un secondo momento, l’esigenza della partecipazione alla vita pubblica. Se la Germania, ora, sente la lotta contro Napoleone come guerra di liberazione nazionale, è anche perchè la Prussia ha reso possibile l’acquisto delle terre ai “servi della gleba”, permesso ai non nobili di far carriera nell’esercito, soppresse le più gravi durezze nel servizio militare.  La plebe, raggiungendo un minimo di benessere, si ritaglia del tempo libero, parte del quale è dedicato alla istruzione: con ciò stesso essa diventa popolo e si avvia a diventare coprotagonista sulla scena socio-politica.  Sono queste le due condizioni  fondamentali che permettono l’accesso del quarto stato alla vita pubblica: crescita economica, acquisto di istruzione (cioè, di competenza).

D’accordo: solo in Inghilterra si è ormai avviato, già nel Millesettecento il processo di industrializzazione, che permette alla classe operaia di liberarsi dall’incubo della fame e della miseria e  di aprirsi  ad un acculturamento almeno incipiente. Tuttavia il progresso della igiene e dell’economia era un dato di fatto già sensibile anche in Francia, Germania ed in alcune regioni dell’Italia[8]  Il mondo sociale è ancora prevalentemente contadino, ma cresce l’artigianato: coll’aumento della popolazione, la attività edilizia trascina con sè un indotto di numerose attività sussidiarie, dai fabbro-ferrai ai carpentieri, dai falegnami ai vetrai... Insomma, nella prima metà del Milleottocento, qualcosa anche in Italia si sta muovendo e la condizione economico-culturale va migliorando (almeno  nel Nord, Piemonte e Lombardia in testa, ma senza escludere l’Emilia e la Toscana). In questi paesi, il venticinquennio rivoluzionario-napoleonico potè trovare non solo una risposta dipendente dalla fede religiosa (questo avvenne in Spagna  fra il 1808 ed il 1812, ancora più clamorosamente  che in Vandea  fra il 1793 ed il 1796,  nelle Pasque veronesi nell’aprile del 1797 e nella marcia su Napoli del card. F. Ruffo,  nei primi mesi del 1799), ma anche una presa di posizione dipendente  da un fervore di idee, che nasceva dalla capacità ormai acquisita di confrontarsi personalmente con le novità di pensiero e di rivolgimenti.

Orbene, è quando una certa parte del popolo acquista tale coscienza che esso diviene, dapprima, oggetto di interesse anche per i letterati e, in momenti successivi, capace di esprimere esso stesso dei letterati dal proprio seno. Si vuol dire: se il popolo diventa nell’epoca romantica un soggetto di simpatica attenzione per i letterati e un argomento di celebrazione e di canto per la letteratura, ciò si deve certamente anche alla crescita economico-culturale del popolo stesso. Oltre tutto, esso può  e deve essere annoverato ora fra i consumatori di letteratura: e questo finirà per aggiungere, negli scrittori, un interesse  materiale a quelli  spirituali (dettati dalla carità cristiana o dalla “pietas” puramente  umana) ad interessarsi della classe più diseredata.

 

La restaurazione metternichiana non ebbe influsso nè sulla nascita (chè il movimento era già sorto in Germania nel 1797 con la pubblicazione della rivista “Athena”um”) nè sullo sviluppo del Romanticismo, che anzi l’Austria tentò di soffocare in Italia. D’istinto a Vienna compresero che un moto di pensiero e di letteratura nato durante il periodo rivoluzionario non poteva che sentirne l’influsso. Nè si sbagliavano, perchè tutti i romantici furono patrioti, di cui alcuni finirono nelle carceri austriache (il Pellico) ed altri dovettero esulare (il Berchet). E perciò la censura soppresse dopo un anno (1819) la rivista  bisettimanale “Il Conciliatore”, che era l’espressione italiana della nuova scuola, sostenendo invece la “Biblioteca italiana” che divenne così il rifugio del classicismo e neoclassicismo, dopo aver  quell’articolo di Anne-Louise-Germaine Necker, Madame de  Stae”l (Sulla maniera e l’utilità delel traduzioni”: 1816)[9], che generò nell’anno stesso lo scritto di Giovanni Berchet (“Lettera semiseria di Grisostomo”) da cui prende inizio ufficialmente il Romanticismo italiano.

Dovremo, ora, ripeterci succintamente  nella presentazione degli autori preromantici, già fatta studiando il Millesettecento.

 

Le premesse letterarie straniere

 

Inghilterra. Joseph Addison (1672-1719) e lo Shaftesbury inclinano  verso posizioni platonizzanti in filosofia e nella teorizzazione estetica[10]; Edward Young (1683-1765:pubblica nel 1742-6 “The complaint; or nights thoughts on life, death and immortality”, cioè Il lamento, ovvero pensieri notturni sulla vita, la morte e la immortallità”, anticipando la meditazione sulle tombe, che diviene invito a meditare sulla vanità delle cose del mondo:  fu cappellano alla corte di Giorgio II dal 1728 al 1730); Thomas Gray (1716-71: Elegy written in a country Churchyard, del 1751; “The Bard” del 1757; “The descent of Odin” del 1761); James Macpherson (1736-96: con i poemi cadenzati del 1761-2: Fingal| Temora, attribuiti al bardo antico Ossian, diffonde il gusto “romantico” delle visioni del mondo medioevale nordico, della gente celtica ancora  primitiva, semplice ed eroica, con il senso dell’indefinito per la vastità delle distese dei mari e la grandiosità delle scene di guerra).

 

Germania. Dapprima si hanno opere scritte con motivi ispiratori nuovi, con tonalità più calde e con stile  più libero rispetto alla signorilità spesso fredda e compassata del classicismo.  Friedrich Gottlieb Klopstock (1724-1803) fra il 1748 ed il 1773 realizzò i venti canti della Messiade (Der Messias), con tema  radicalmente cristiano. Anche le sue “Odi” ed i “Sonetti” contengono novità tematiche (la amicizia, il rimpianto dei cari perduti) e metriche. La trilogia drammatica  “Arminio” (1769-87), poi, si accosta al mondo degli antichi Germani e cerca di riflettere l’espressione dei bardi di stampo ossianico.

Salomon Gessner (1730-1788), poeta della Svizzera tedesca, inserì una nuova sensibilità (più dolce e patetica) con “Der Tod Abels” (1758: La morte di Abele) e più ancora con gli Idyllen del 1756-72 (fu il Bertòla a diffonderne la conoscenza in Italia).

 Ma soprattutto la Germania fornì teorizzatori come Johann George Hamann (1730-88) e soprattutto Johann Gottfried Herder (1744-1803). Il primo ha lasciato scritti per lo più frammentari; tra le idee innovatrici, sta il culto della genialità, la concezione della letteratura come libera dal canone della imitazione e degli schemi prestabiliti; egli scrive, inoltre, con un linguaggio denso e persino oscuro, ma  ricco di metafore, immaginoso.

 Il secondo è più sistematico, anche se  pure lui ha lasciato “Frammenti sulla letteratura tedesca” e “Selve critiche” non organizzate. Ma scrisse anche opere  rifinite: “Trattato sulla origine del linguaggio” (1770: “Abhandlung ueber den Ursprung der Sprache”), “Idee sulla filosofia della storia dell’umanità” (1784-91: “Idee zur Philosophie der Geschichte der Menschheit”), Volkslieder o “Stimmen der Voelker” (1788-9; 1807: Canti popolari o Voci dei popoli). Herder difende la poesia ossianica e quella di Shakespeare come testimoni del primitivo linguaggio umano e vuole che si interpreti la lingua della poesia come testimonianza del grado di sviluppo culturale del popolo (tesi che da noi sarà realizzata dal De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana). Anche il suo stile è lontano da ogni schematismo preconcetto: è istintivo ed impressionista. Sullo slancio delle idee di Herder nascerà lo Sturm und Drang, che dapprima comprende anche i giovani Goethe e Schiller.

 

In Francia, troviamo due grandi teorizzatori che  hanno il presentimento dei princìpi romantici: sono Denis Diderot (1713-1784) e Jean Jacques Rousseau (1712-78).

 Del primo interessano le “Conversazioni” sul “Figlio naturale” (“Le fils naturel”: 1757)[11] e i Discorsi sulla poesia drammatica (1758).

Del Rousseau, interessano qui  (già citate, per Foscolo) “Les rèveries du promeneur solitaire” (postumo). Il genio precede la ragione, appartine più al primitivo ed al barbarico che all’uomo civilizzato; “naturale” è sinonimo di “spontaneo, istintivo, piacevole ed imemdiato” non di “regolato, ordinato dalla ragione”. Il sentimento soppianta la ragione come criterio di bene e di verità.

 

In Italia, si erano avuti G.B. Vico,  Saverio Bettinelli, Melchiorre Cesarotti, Ippolito Pindemonte, Aurelio De’ Giorgi Bertòla, Elisabetta Caminer-Turra, che fan da precursri o da corteggio al Foscolo delle 2Ultime lettere” e dei “Sepolcri”, mentre l’Alfieri costituisce un fratello spirituale dei protoromantici dello Sturm-und-Drang.

Il Vico (1668-1744) sottolinea, nei “Principi della scienza nuova”, il valore delle età primitive, ancora più importanti dello spirito filosofico di quelle più recenti, evolute intellettualmente ma più corrotte religiosamente e moralmente: tra i valori del secondo corso storico (della fantasia, dei poeti e degli eroi) sta proprio la genialità artistica.

Saverio Bettinelli  (1718-1808) ha dei ritorni di fiamma platonizzanti che si rivelano nell’ “Entusiasmo delle belle arti” (1769), dove l’arte è affidata ad altre facoltà che non quelle propriamente razionali.

Melchiorre Cesarotti (1730-1808), moderato sostenitore di alcuni ideali del suo secolo, nelle opere “Sopra il diletto della tragedia” (1769),  “Sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica” (id.), “Saggio sulla filosofia delle lingue| “Saggio sulla filosofia del gusto” (entrambe del 1785), tien conto sia della ragione che dell’uso per spiegare la evoluzione delle lingue; e difende la natura fantastica, passionale della poesia e la libertà creatrice del genio.

Ippolito Pindemonte (1753-1828) non è un teorico, ma un poeta spontaneamente inclinato alla  melanconia e ad un musicalismo  suadente che avvince più ancora dei temi e delle idee presi a motivo ispiratori. Abbiamo già visto le sue opere studiando il Millesettecento e in particolare la sua epistola sui “Sepolcri” in risposta all’opera omonima del Foscolo.

Aurelio Bertòla non solo si sentì spontaneamente consenziente con le prime composizioni preromantiche europee ed imitò lo Young nelle sue “Notti clementine” (1775), tradusse gli “Idilli” del Gessner e riuscì ad esprimere note patetiche nelle “Poesie  campestri e marittime” (1779), ma anche nei suoi studi di critica sulla prosa e poesia tedesca (Idea della poesia alemanna: 1779| Idea della bella letteratura alemanna: 1784) esplorò con particolare sensibilità le espressioni elegiache ivi presenti.

Elisabetta Caminèr-Turra (Venezia, 1751-96), di proprio pubblicò una raccolta di versi (“Il trionfo della verità”), ma è molto più importante come studiosa di materie letterarie. Fu compilatrice de “L’Europa letteraria” (1768-73) e del “Giornale enciclopedico” (1774-81) e fondatrice  del “Nuovo giornale enciclopedico (1782-90), dapprima collaborando con il padre Domenico e lo scienziato Alberto Fortis; poi, con il commediografo  Francesco Albergati Capacelli. Qui ci interessa, più specificamente, per la parte che ebbe nel far conoscere e diffondere in Italia la “comédie larmoyante”: ne tradusse dal farncese per venti volumi, editi fra il 1772 ed il 1776! Con questo genere di letteratura siamo fuori dalla solennità ed eleganza neoclassica e ci avviamo verso il patetismo caro ai romantici.

 

                La fondazione e la fioritura del movimento romantico.

 

In Germania.

 

Dallo Herder, i fratelli Federico ed Augusto Guglielmo Schlegel prendono spunto per tentare uan definizione diversificatrice fra poesia classica e romantica. La opposizione fra NATURPOESIE E KUNSTPOESIE (spontanea e immediata la prima, riflessa e studiata la seconda) dello Herder diventa, negli Schlegel e nei letterati riuniti attorno alla rivista “Athenaeum”, la opposizione fra “NAIVE”  (ingenua)  e SENTIMENTALISCHE (sentimentale)  DICHTUNG (poesia). Ingenua, cioè spassionata, era la poesia degli antichi Greci, che poteva, così,  assumere le caratteristiche della “Stille” (calma, serenità) teorizzata dal Winckelmann. “Sentimentale, cioè appassionata, è la poesia dei moderni, perchè in essi vi è la “SEHNSUCHT”,  cioè l’eterno anelito o nostalgia verso l’infinito: attitudine che non può non destare irrequietudine e turbamento dello spirito.

“Romantico”[12] diventa sinonimo di “romanzo”, cioè di medioevale, caratteristico della letteratura propria dei popoli fioriti dopo il Mille su premesse cristiane, su una sensibilità profondamente mutata rispetto a quella dei Greci pagani. Se, difatti, agli antichi popoli precristiani era possibile una attitudine spirituale di calma e tranquillità, ciò dipendeva dalla mancanza  del senso del peccato, che la religione cristiana ha introdotto nella coscienza della nuova umanità: la condizione di esiliato fuori dal paradiso terrestre e di escluso dalla felicità del Paradiso celeste, crea il tormento  sulla terra per l’uomo destinato al Cielo, la tensione verso uno stato ed un destino perduti e sospirati. Sensibilità irrequieta, dunque: alle Eumenidi che assolvono Oreste dal matricidio e gli ridonano la pace interiore, succedono Machbeth ed Amleto che non riescono, l’uno a liberarsi dall’ombra di Banco; e l’altro a decidersi al patricidio, che avverrà alla fine in un tragico conflitto, ma non senza la morte dello stesso figlio.

Rispetto alle certezze limitate del mondo antico,  l’uomo moderno si arricchisce del senso del mistero, dell’infinito, del divino, una sensibilità molto più soggetta alla incontentabilità, allo sforzo di capire ed all’ansia di raggiungere, al turbamento che è dinamismo spirituale, col rischio dello squilibrio e dell’eccesso ma anche colla opportunità di sentimenti complessi e sublimi. A questo modo, si imprime uno “spin” alla contrapposizione fra “poesia di natura e poesia d’arte”. L’esclusivismo di Herder faceva della poesia riflessa o poesia d’arte (Kunstpoesie)  una forma di Kitsch, di “non-arte”, perchè frutto di imitazione, di retorica, di rielaborazione di modelli creati spontaneamente in altri tempi, da altre personalità geniali, che erano autori della “Naturpoesie”, l’unica vera arte, quella della Bibbia, di Omero, di Sofocle, di Shakespeare, di Ossian e dei canti popolari. Ora, invece, coi fratelli Schlegel, il campo dell’arte letteraria si ampia fino ad abbracciare anche la “Kunstpoesie” di Herder. Poesia vera può essere anche quella riflessa, della calma e serenità, ma essa appartiene ad altri tempi e popoli e, perciò, difficilmente potrà diventare od essere percepita come vera arte dal popolo odierno, che ha un animo turbato e commosso: ad ogni “popolo”, ad ogni “coscienza popolare” appartiene una poesia tipica.

Così, pressappoco, dicono tanto le opere di Augusto Guglielmo Schlegel (“Vorlesungen ueber schoene Literatur und Kunst”: 1801-4; “Vorlesungen ueber dramatische Kunst und Literatur”: 1809-11; “Geschichte der alten und neuen Literatur”: 1812),[13] quanto quelle del fratello Friedrich (“Vom Wert des Studiums der Griechen und Roemer”: 1794; “Geschichte der Poesie der Griechen und Roemer”: 1798).  Le idee, poi, ritornavano nella rivista “Athenaeum”, fondata da loro nel 1797 e uscita dal 1798 al 1800 a Berlino. Attorno al cosiddetto “gruppo di Jena” ed all’Athenaeum sorse la prima scuola romantica, formata da poeti come Guglielmo Enrico Wackenroder (1773-1798),[14]  filosofi come Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854), il teologo Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834) ed i poeti  Ludwig Tieck[15] e Friedrich Leopold, barone di Hardenberg, che con lo pseudonimo di Novalis, fu il più grande lirico e narratore del primo periodo romantico.

Sul Novalis (1772-1801) val la pena di spendere qualche parola in più. Debole di costituzione, era destinato a morire di tisi a ventinove anni; sfortunato in amore, perse la fidanzata Sophie nel 1797 (anch’essa per la stessa malattia). Egli impregna la sua poesia di questo senso, anzi desiderio struggente della morte ( “Hymnen an die Nacht”: 1797-1800), ma anche di un anelito verso i valori spirituali e religiosi (“Geistliche Lieder”: 1799), con un viraggio decisamente cattolico, pur essendo egli di estrazione protestante (1799: “Die Christenheit oder Europa”, auspicio a ritrovare lo spirito originario dell’Europa unita nella fede, come nel Medioevo). Tali spunti ideologici persistono nella “polvere di fiori” (“Bluetenstaub”: pensieri lirici) del 1798, in cui sogno di perfezione e desiderio di redenzione investono un’aerea concezione che unisce religione e poesia, politica e scienza, musica e lingua. Dei due romanzi incompiuti (“I discepoli di Sais”: “Die Lehrlinge von Sais”, 1798-9; “Heinrich von Ofterdingen”: 1798-1801),  il più significativo è il secondo, che gli garantì la fama e l’influsso sul movimento roamntico anche dopo la morte. E’ autobiografico ed espone una concezione romantica di vita, opposta ai goethiani “Wilhelm Meisters Lehrjahre” (Gli anni di apprendistato di W. M.), che propongono invece un ideale classico-realistico. Al centro della vita è posta la poesia, a fondere assieme visibile ed invisibile, spirituale e materiale.

Vi fu in Germania un “secondo Romanticismo”, che sottolinea maggiormente lo spirito popolare e conferma la nostalgia per il Medioevo cristiano e germanico. Questa seconda “scuola romantica” ebbe vita fra il 1804 ed il 1806 ad Heidelberg. Vi fecero parte Ludwig Achim von Arnim (1781-1831)[16] e Clemens Maria Brentano (1778-1842)[17], di cui l’Arnim sposò la sorella Bettina. Anch’essi si procurarono un mezzo di divulgazione con il “Giornale per eremiti” (2Zeitung fuer Einsiedler”), cui collaborarono i fratelli Jacob Ludwig Karl e  Wilhelm Karl Grimm[18]. Assieme a loro troviamo anche Adalbert von Chamisso (1781-1838), Ernst Theodor Amadeus Hoffmann   (1776-1822) e Joseph Karl von Eichendorff (1788-1857), che tutti amarono rievocare l’antica vita nazionale della Germania, portando all’attenzione un mitico Volksgeist (“spirito popolare”) che darà animo alla ricerca tedesca della coincidenza fra nazione e stato, con tutti i subbugli politici e militari connessi.

 

In Inghilterra, Samuel Taylor Coleridge (1772-1834)[19] e Thomas Carlyle[20] (1795-1881) diffondono le idee tedesche e fanno confluire nel gran movimento europeo i presentimenti di Gray, Young, Macpherson e quelli atipici di George Gordon Byron (1788-1824) e di P. B. Shelley[21], mentre Walter Scott (1771-1832)[22] dà voga al romanzo storico. Ma il poeta più significativo è William Wordsworth[23] (1770-1850): con la pubblicazione delle “Lyrical ballads”, scritte da lui e dal Coleridge nell’“annus mirabilis” 1797-8, si fa iniziare il movimento romantico in Inghilterra. Ai romantici inglesi possiamo riunire lo statunitense Edgar Allan Poe (1809-1849).[24]

 

                In Francia vi era stato il grande precursore Rousseau, che aveva per primo affermato la priorità e poziorità del sentimento sulla ragione e aveva   fatto della natura spontanea   il canone per misurare l’uomo e le sue conquiste. Così, anche, si è visto nel Diderot la indistinzione fra arte e vita, cioè, praticamente, la riduzione della vita ad arte, della genialità alla primitività spontanea, anche se selvaggia.

 Su tale terreno già dissodato, sopraggiunse Anne-Louise- Germaine Necker, sposata Stael (1766-1817)[25]. Essa, nel 1800, pubblica “De la littérature considérée  dans ses rapports avec les institutions sociales” (La letteratura considerata nei suoi rapporti con le istituzioni sociali). Lo studio pecca di ingenuità, attribuendo eccessiva importanza al clima nella definizione del carattere di una società e delle sue manifestazioni, giungendo a dedurne una netta differenza fra letterature del Nord e quelle del Sud. Pure, esso sottolinea il valore storico-culturale della letteratura, cioè il rapporto fra la vita tutta di un popolo e la sua produzione poetica, interpretando così  la produzione letteraria come testimonianza del pensiero e dei costumi di un’epoca storica in un determinato paese, cioè della sua “cultura” o civiltà|barbarie.  In tale interpretazione, il De Sanctis la seguirà.

Più importante ancora fu il suo studio “De l’Allemagne” (1810: La Germania), che espose in maniera più organica e moderata i princìpi fondamentali della nuova estetica romantica. Vi si esalta il sentimento e lo slancio della spontaneità, negando valore alle regole ed al canone della imitazione; vi si rivendica la funzione della fantasia rispetto alla ragione nella creazione artistica; si preferisce il Medioevo romantico alla classicità pagana; si dà grande rilievo alla popolarità dell’arte, in quanto un’arte non compresa dal popolo non è moderna, non è viva, non è attuale (relativismo del valore dell’arte e suo valore genericamente culturale,  la cui importanza è quella di essere “spia” o “testimone” delle idee, condotta, gusti, tecnica di un popolo, in una determinata epoca).

E dal 181o, dal trattato “De L’Allemagne” di Madame de Stael, si fa iniziare il romanticismo francese.

Ed è dalle reazioni all’articolo della Stael nella “Biblioteca italiana”, “Sulla utilità  e maniera delle traduzioni” che si fa iniziare tradizionalmente il movimento romantico italiano. Reazioni che, però, non furono tutte positive. Fra  i sostenitori del classicismo si ebbero Pietro Giordani e il diciottenne Giacomo Leopardi[26]; fra i sostenitori si schierarono Ludovico  Di Breme (“Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani”), Pietro Borsieri (“Avventure letterarie di un giorno”) e soprattutto Giovanni Berchet (“Lettera semiseria di Grisostomo”). Il tutto, un anno prima della sua morte.

 A dir il vero, al di fuori del  sistema di idee propriamente romantiche, già François-René de Chateaubriand (1768-1848) si era espresso con uno stile appassionato, effusivo, che fa pensare istintivamente ad una ispirazione di taglio romantico. Egli aveva dapprima condiviso le idee illuministiche, che ancora presiedono all’opera del 1797 “Essai historique sur les révolutions” (Saggio storico sulle rivoluzioni),  ma la conversione che seguì poco dopo (era esule in Inghilterra) lo portò a divenire un apologeta della fede cristiana: con uno spirito molto più poetico che sicentifico. Iniziò con “Le génie du Christianisme” (1802: Il genio del cristianesimo), che comprende i due lunghi racconti “Atala” e René”: il primo vuol dimostrare l’armonia fra religione, natura e affetti del cuore; il secondo vuol dimostrare quanto siano pericolose le vaghe fantasticherie e rovinoso il seguire le passioni, che finiscono per indurre solitudine e tedio. E’ proprio questa prospettiva psicologica, che tenta di dimostrare la verità di una dottrina (quella cattolica) attraverso la sua capacità di armonizzare uomo e natura, passioni e ragione, inducendo equilibrio e soddisfazione nella vita, la “spia” che rivela la tendenza romantica nell’anima dello scrittore.”Les martyrs” (1809) confermano lo Chateaubriand come “enchanteur”, cantore epico, poeta in prosa che si fa leggere e trasporta nel suo entusiasmo ed esalatazione, nonostante gli intenti evidentemente apologetici.

Così, attraverso la conversione  religiosa profonda, egli ricupera, al di fuori di ogni militanza letteraria, il culto per le antiche età cristiane, per l’arte gotica che ha illustrato il Mediovevo, mentre  gli è congeniale dare un viraggio enfatico alle scene grandiose ed uno “spin” patetico a quelle melanconiche, di cui i paesaggi sono l’occasione privilegiata.[27]

Ma più propriamente romantici, tra gli scrittori francesi, risultano Lamartine, Vigny, Musset e Hugo.

Alphonse Lamartine (1790-1869) si fece conoscere con le “Meditations poétiques” nel 1820: per il tono confidenziale, gli spunti autobiografici piacquero tanto ai romantici che ai classicisti.[28] Dopo il 1830 matura in lui lo spirito religioso: pur trattandosi di una religiosità romantica, cioè  di un sentimento connesso con la natura e con l’arte, tuttavia raggiunge in qualche poesia profondi accenti cristiani. Nascono allora le “Harmonies poétiques et réligieuses” (1830), “Jocelyn” (1836: una storia d’amore con forti risvolti morali e religiosi, sullo sfondo di paesaggi alpini e della figura del parroco); e “La chute d’un ange” (1838: La caduta di un angelo): vita epico-tragica dell’uomo primitivo, in cui si inserisce l’ispirazione dei primi capitoli della Bibbia. La sua poesia resta, però, affidata più al musicalismo, all’atmosfera vaga e avvolgente in cui il lettore è quasi fasciato ed accarezzato che non alla profondità di pensieri: il segreto del suo fascino è più la componente musicale che non quella filosofica della parola. Eppure l’aura poetica non è solo idillico-elegiaca, ma si innalza facilmente ad una epicità  che coionvolge pur lasciando il senso di una superficialità che delude.[29]

Alfred de Vigny (1797-1863) resta ambivalente: distonico, incerto nella vita sentimentale, nelle posizioni politiche come in quelle letterarie. Pure i suoi capolavori, lirici e teatrali, sono notevolmente romantici. Nel campo drammatico ha lasciato nel “Chatterton” del 1835 uno dei testi più riusciti del teatro romantico francese; per i versi, stanno i “Poèmes antiques et modernes (1826; edizione completa, 1837; la composizione più noptevole è “Moi”se” –Mosè-). e soprattutto la collezione postuma “Les destinées”. Tra le più famose composizioni “La maison du berger” (La casa del pastore), “La mort du loup” (La morte del lupo), “Le silence” (Il silenzio), “L’esprit pure” (Il puro spirito), “Le mont des oliviers” (Il monte degli ulivi). Il suo pessimismo nasce dal bisogno di certezze etico-religiose, che il poeta non riesce a trovare. Il rifugio nello stoicismo detta meditazioni deluse sul male del mondo, sul male filosofico. Il dramma “Chatterton”  è la storia del suicidio di un giovane poeta inglese, che è condotto alla disperazione per il contrasto insanabile tra sogni ideali poetici e realtà deludente della vita. Ci troviamo di fronte ad un Foscolo in tono minore, ad un Guido Gozzano senza l’amaro sorriso dell’autoironia. Egli è un po’ come il pastore dei suoi versi: non riesce a credere in Dio, non è soddisfatto della natura e cerca precario conforto nell’amore di una donna.[30]

Alfred de Musset (1810-1857) condusse coscientemente una vita “romantica”, consapevole che l’alcool e gli stravizi (come gli eccessi di erotismo: ma dà da pensare, in peggio, il fatto che fra le sue prime opere c’è la traduzione delle “Confessioni di un oppiomane” del Quincey), lo avrebbero distrutto: morì infatti a 47 anni. Ebbene, tale esperienza della sua esistenza pratica diventa il problema  centrale dei suoi personaggi letterari. Da una parte, vi sono due figure storiche, Lorenzaccio de’ Medici e George Gordon Byron che lo attraggono; dall’altra vi sono due personaggi  d’invenzione, “don Giovanni” e “Jacques Rolla” (quest’ultimo, protagonista del suo poema “Rolla”, del 1833) che sembrano incarnare il suo tormento e la sua sconfitta: la perdita della purezza  morale, la incapacità a ricuperare delle certezze nei valori supremi e, come conclusione, il proprio annientamento. Di qui il suo pessimismo, che sembra però nascere più in un contesto ultraromantico e naturalista: il degrado degli uomini in preda ai propri vizi nasce dalla convinzione che è impossibile sfuggire non tanto ad un destino astratto e  ipostatizzato come quello dei romantici immanentisti, ma alla propria costituzione psicosomatica, che è il  vero destino. E’ per questo che rimandiamo in nota ogni sua altra opera, comprese quelle artisticamente più valide.[31]

 

Victor Hugo (1802-1885), enfant prodige e autore di poesie, drammi  e romanzi, fu davvero uno scrittore completo, anche se, oggi, ridimensionato. Divenne caposcuola del romanticismo francese,  dopo aver  iniziato come cantore della restaurata monarchia borbonica. Furono i problemi sociali ad avvicinarlo alla democrazia  (la compassione per i poveri genera la simpatia per le forme democratiche che più ne promettevano la elevazione) ed a fargli ricuperare i valori romantici,  con l’amore al popolo ed alla sua storia: i più diseredati sono celebrati nel capolavoro dei Miserabili (Les misérables: 1862); la storia di Parigi  è visitata attraverso la vita del secolo XV attorno alla sua cattedrale (“Notre Dame de Paris”:1831); la storia della Francia e della civiltà occidentale tutta, è schizzata attraverso le figure (reali o d’invenzione) che schiaffeggiano la corruzione degli alti strati sociali (da “Le roi s’amuse”, 1832: Il re si diverte; a “Lucrèce Borgia”: 1833); la solidarietà  con gli indigenti,anche se  indotti al delitto da   una società corrotta, è espressa in “Claude Gueux” (1834)...

Il dramma “Cromwell” (1827), con il famosissimo “Préface” (Prefazione) dà inizio al teatro romantico in Francia: anche il brutto essitenziale (della vita  pratica) viene assunto come materia o motivo ispiratore di letteratura; il comico ed il grottesco si addicono anche alla drammaturgia tragica (sull’esempio di Shakespeare), perchè il teatro deve essere aperto su tutta la vita; il verso assume una  struttura non lontana dalla prosa, cioè dal parlare reale della gente viva, cui il poeta deve  aderire.

Quanto alla poesia, a parte le raccolte iniziali di stampo classicistico, egli incomincia ad inserire schemi romantici in “Odes et ballades” (1826); si avvicina nettamente al romanticismo con le raccolte “Feuilles d’automne” (Foglie d’autunno: 1831), “Les chantes du crépuscule” (Canti del crepuscolo: 1835) e culmina con “La legende des siècles”, compiuta due anni prima della morte. In questa, le  vicende  grandiose ed i personaggi  più significativi della storia (dai primi capitoli della Genesi a tutto il secolo XIX),  vengono passati in rassegna ed assunti a simbolo di idee filosofiche ed ideali etico-religiosi, di problemi eterni e di progressi|regressi provvisori, mentre una esplosione di immagini fantastiche, di visioni simboliche, di proiezioni mitizzanti,  trasferiscono in epopea|tragedia la vita tutta, le gioie ed il soffrire, le vittorie e le sconfitte, gli errori e le colpe, le virtù e gli eroismi dell’uomo.[32]

 

 

In Spagna, il Romanticismo, secondo le indicazioni del grande critico Marcellino Menéndez y Pelay (1865-1912) si divise in due direzioni: quello storico-nazionale (rappresentato specialmente da Angel de Saavedra y Ramìrez de Baquedano, duca de Rivas: 1791- 1865) e quello soggettivo-filosofico-byroniano (con massimo esponente il poeta José de Esproneda y Delgado (1808-1842).

 

IL PENSIERO DEL ROMANTICISMO

 

PREMESSA. Ripetiamo: il mondo apollineo della poesia non  spicca quasi mai per delle premesse ideologiche molto coerenti; talora, anzi, esse mancano persino di chiarezza definitiva nelle singole proposizioni. Tanto più intricato e disinvolto risulterà il pensiero del movimento romantico, che mette a fondamento della propria teoria il sentimento, la spontaneità, l’immediatezza e non la ragione. E’ vero che il sentimento è un’attività pienamente ed unicamente umana, proprio perchè la sua radice prima è razionale e, solo in un secondo momento, si riveste di emotività animale. Ma resta anche dimostrato dalla esperienza storica, che il sentimento, se non riconosce la ragione come giudice ultimo, devia spesso verso illusioni ed errori, e, più ancora di frequente, verso mezze verità ed esagerazioni, con sfagli temerari e scarti di coerenza. Naturalmente, chi è dotato di sufficiente sindéresi o capacità di orientamento intellettuale, riconosce, bensì, nella spontaneità e nel sentimento, delle facoltà tipiche od almeno preponderanti nell’arte, ma assicura sempre alla ragione l’ultima parola nel campo della verità in generale e, quindi, anche circa la teoresi estetica. E’ quello che avvenne ovviiamente col Manzoni e coi Manzoniani; ma  non sempre con quanti –nè più nè meno che gli illuminsti e neoclassici coerenti- rimanevano immanentisti e  incapaci di credere alla libertà interiore dell’uomo.

 

LE COMPONENTI ESSENZIALI.

 IL PRIMATO DEL SENTIMENTO (SPONTANEITA’). Che sia corretto o meno  riassumere nel termine “sentimentalismo” il pensiero romantico,  rimane fermo che il principio fondamentale di tale movimento è la fiducia nel sentimento, la celebrazione dell’affettività, il primato del “cuore” rispetto alla ragione, l’opposizione alla mentalità razionalistica dell’Illuminismo: quello è sincerità, questa è calcolo; quello è spontaneità, questa è sofisma.  Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834) è la espressione filosofica più vicina al primo romanticismo. Egli, entrato in contatto a Berlino con i fratelli Schlegel e fatto amicizia specialmente con Federico,  fa della “intuizione” la   forma di conoscenza più importante, perchè essa è il “sentimento dell’infinito”, di cui la religione è la manifestazione più alta (discorsi sulla religione:  1799 ). E’, dunque, proprio il sentimento che costituisce la fonte dell’umano conoscere. 

Più solitamente, però, non si chiariscono filosoficamente i concetti con tale disperata coerenza, ma si preferisce parlare di spontaneità, in continuazione al programma dello Sturm und Drang: tutto l’operare umano (anche l’attività conoscitiva) si arrocca al modello della produzione artistica. Ora, nella creazione  estetica la ragione viene non eliminata, ma subordinata alla espressione del sentimento (emotività, precisiamo noi, oggi); la componente formale dell’arte tutta è il sentimento, mentre la ragione fornisce soltanto la materia che stimola l’emozione e i mezzi espressivi di essa.[33]  Ebbene, tutto l’agire umano deve essere dettato dal sentimento, che è quanto dire dalla spontaneità affettiva, dalla inclinazione naturale, dalla genialità individuale: la verità si scopre con la intuizione e non con il ragionamento-sillogismo; la moralità si  costruisce (kantiamente) con la adesione entusiastica al dettato della coscienza e non si misura su leggi e norme esteriori; la legislazione serve a mantennere l’ordine sociale, ma non detta alcun dovere morale...

Il “divenire” come primo corollario del “sentimentalismo”. La ragione intende giungere alla verità definitiva dell’essere (che cosa è?), a princìpi fermi e stabili, perchè assoluti: la verità non cambia e perciò non “diviene” e non si evolve, ma progredisce mediante precisazioni, perfezionament e deduzioni coerenti. Viceversa, il sentimento, proprio perchè  si fonda bensì su una  conoscenza intellettuale, ma  disorientata dalla emotività, muta per sua natura: se la verità cerca l’essere, il sentimento crea il divenire. Non esisteranno, allora, verità assolute, oggettive e, quindi, immutabili; esistono impressioni sentimentali, soggettive, relative e, quindi, mutevoli. La “verità” si tramuta nell’opinione di ciascuno e, in sede morale, nella coscienza individua. Questo legge di una evoluzione  radicale, che non è soltanto progresso e perfezionamento, ma anche capovolgimento e contraddizione, è il nuovo principio  del pensiero romantico: anche la scienza si svilupperà in tale direzione con la proclamazione di un evoluzionismo dapprima lamarckiano e, col 1859, darwiniano[34]; lo stesso positivismo, che  si afferma dopo la metà del secolo, si baserà sull’evoluzione del pensiero umano (dalla teologia alla filosofia e dalla filosofia alla scienza). Se col Cristianesimo  era stato recepito il grande assioma giovanneo “In principio era la Parola-Dio” (quindi la “Verità immobile”), con Goethe (anni 1829-32), la base della vita diventa l’azione- dinamismo-evoluzione-divenire: “Am Anfang war die Tat” (In principio era l’azione: Faust, I, Camera da studio).

Il “divenire idealistico” come prima incarnazione del divenire emozionale.  Esiste solo l’Idea, la quale si sviluppa per gradi infinitesimali dalla materia insensibile allo spirito cosciente dell’uomo. Ogni sua manifestazione risulta dalla fusione (sintesi) del positivo (tesi) e del negativo (antìtesi), sicchè anche il falso, il brutto, il dannoso, il cattivo diventano reali componenti dell’essere, assieme al vero, al bello, all’utile, al buono, in quanto  dimensioni della realtà di risultanza (sintesi), che consta sempre di vero e falso, bello e brutto, utile e dannoso, buono e   malvagio. E’ il gran principio della “Dialettica”, per cui i contradditori coincidono nel concreto dell’essere risultante, dalla  opposizione iniziale alla finale unione. Si noti come il principio  intuitivo di “non contraddizione” venga scalzato, con gran vantaggio della libertà di pensiero, ma non della sua verità. Johann Gottlieb Fichte (1762-1814: questi fa parte del primo gruppo romantico che fonda “Athenaeum”), Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854: entrerà in contatto con i fratelli Schlegel e col poeta Novalis negli anni 1798-9, a Dresda) e soprattutto Georg Wilhelm Friedrich Hegel  (1770-1831) svilupparono questo fantastico mosaico della realtà tuttta, prendendo le mosse dalle “forme a priori” della “Critica della Ragion pura” (1781)   di Immanuel Kant (1724-1804).[35]

Il “divenire materialistico” di  Ludwig Feuerbach (1804-72) e di Karl Marx (1818-83).

Come è noto, Il Feuerbach operò il rovesciamento della piramide hegeliana, ponendo la materia al primo posto, come unica esistente; e facendo del pensiero e di ogni attività spirituale un “epifenomeno”, un prodotto della materia stessa giunta ad un determinato grado di evoluzione o divenire dialettico (aspetti, questi, dell’idealismo che vengono conservati). E’ questo il materialismo metafisico o filosofico. Karl Marx  svilupperà, a partire da tale dottrina, il “materialismo storico”: non le idee, ma la prassi è  il motore della storia; le rivoluzioni ne segnano le svolte fondamentali; sia le comuni attività degli uomini che quelle straordinarie delle rivoluzioni hanno  alla radice solo motivazione economiche. Sono i concetti base delle opere scritte in collaborazione con l’amico Friedrich Engels “La sacra famiglia” (1844-5) e “L’ideologia tedesca” (1845-6, ma edita solo nel 1932). Marx le svilupperà ulteriormente  nei libri de “Il capitale” (1867, 1885, 1895).

 

         SENSO STORICO, STORIOGRAFIA E STORICISMO. Che la storia costituisca un centro di interesse assolutamente primario nel moto romantico, è fuori dubbio,  anche come reazione al “pirronismo” che aveva afflitto, almeno in parte, gli studiosi del Millesettecento. Ma si va più in là e,complice l’idealismo, si perviene alla ideologia storicistica.

 

Gli studi storiografici.  L’intersse per la storia si manifesta anzitutto nelle ricerche documentarie e nelle grandi sintesi di studiosi  geniali.

 In Germania abbiamo dapprima Barthold Georg Niebuhr (1776-1831)[36] che conduce la storia di Roma fino alle guerre puniche (“Roemische Geschichte”, dal primo volume nel 1811 al terzo, postumo, del 1832). A lui farà seguito Theodor  Mommsen (1817-1903), che dapprima raccoglie sistematicamente le iscrizioni latine (“Corpus inscriptionum latinarum”) e poi stende una serie di studi che spaziano dalla fondazione di Romna fino a Diocleziano (Roemische Geschichte| Die roemische Provinzen von Caesar bis Diokletian) e si distendono anche su popoli italici (Oskische Studien) e su argomenti più generali (Roemische Staatsrecht: Il diritto statale romano).

In Francia, si hanno tre grandi studiosi di storia, le cui  opere, però,  subordinano le ricerche documentarie ad intuizioni-ideologie filosofiche.

Jacques-Nicolas-Augustin Thierry (1795-1856) scrive la “Histoire de la conquete d’Angleterre par les Normans” (1824: Storia della conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni), le “Lettres sur l’histoire de France” (1827: Lettere sulla storia di Francia),[37] “Essai sur l’histoire de la formation et du progrés du tiers ètat” (1853: Saggio sulla storia della formazione e del progresso del terzo stato). Adolphe Thiers (1797-1877) rivolge la sua attenzione agli avvenimenti recenti. Statista e politico, oltre che storiografo,  prestò, nei  suoi studi,   molta attenzione ai particolari diplomatici, militari e finanziari, mentre rivelò poco interesse per le idee, i costumi, le condizioni sociali: “Histoire de la révolution française” (1823-7); “Histoire du consulat et de l’Empire” (1845-7).

 Se il Thierry è un po’ il filosofo della storia e Thiers ne è il politico, Jules Michelet ne è il poeta  (1798-1874). E non solo perchè egli ha scritto anche opere che alla poesia si avvicinano non solo per i soggetti presi a descrivere: “L’oiseau” (L’uccello: 1856), “La femme” (La donna: 1860), “La mer” (Il mare: 1861), ma proprio perchè la passione permea le  stesse pagine delle sue oepre storiografiche, rendendole talora enfatiche, spesso fortemente ideologizzate.   Nel 1827 egli faceva omaggio al nostro Vico  di una edizione della Scienza nuova (antologica, col titolo: “Principi della filosofia della storia”) e da lui trasse ispirazione per la giovanile “Histoire romaine” (1831).  Herder e Vico, sentimento e razionalità si intrecciano nella “Introduction a l’histoire universelle” (1831), nella quale egli, però,  non riesce a  risolvere il problema se nelle vicende umane domini la fatalità o la libertà. Nella loro esposizione, poi, si alternano schema e genialità, novità  di prospettive e dipendenza da pregiudizi. Così la vastissima “Histoire de France” (1833-44; 1855-67) diviene la storia della lotta contro il dispotismo, lotta che culmina nella rivoluzione, cui egli dedicò un ampio studio (“Histoire de la Révolution”), edito fra il 1847 ed il 1853.[38]

Ad avvelenare l’anticlericalismo di Michelet era stato il suo urto con lo statista e storico François-Pierre-Guillaume Guizot (1787-1874). Questi, pur essendo calvinista e sostenitore della monarcìhia del luglio 1830[39], era però difensore della collaborazione fra chiesa e stato, perchè, convinto della decadenza morale e politica della società, pensava occorresse farvi fronte da parte di tutti i sinceri sostenitori del bene pubblico, a cominciare dalla Chiesa cattolica che in Francia aveva ancora un numero notevolissimo di fedeli, amanti dell’ordine e del buon costume.  Anche il Guizot scrisse le sue opere storiografiche dapprima con molta competenza, poi più con intenti filosofici che accuratezza documentaria: “Histoire de la révolution d’Angleterre” (1826-7), “Histoire de la république d’Angleterre et d’Olivier Cromwell” (1854), “Histoire du protectorat de Richard Cromwell e du rétablissement des Stuarts” (Storia del protettorato di R. Cromwell e della restaurazione degli Stuart: 1856), “Histoire générale de la civilasation en Europe” (1845; “Histoire de la civilisation de France” (1845), “Mémoirs pour servir à l’histoire de mon temps” (Memorie per servire alla storia del mio tempo: 1858-68).[40]

In Italia abbiamo due grandi storiografi, Cesare Cantù e Francesco De Sanctis;  ma non sono paragonabili con quelli tedeschi e francesi. Vengono scritte anche molte autobiografie.

Cesare Cantù (1804-1895) ha valore soprattutto come autore della “Storia della città e della diocesi di Como” (1829-31). Già meno valida e concreta è la “Storia della Lombardia nel secolo XVII”. La sua “Storia universale”, in 52 volumi (finiti di stampare nel 1890) rimane opera divulgativa, anche se sorprende per la erudizione vastissima. Fa contrasto lo stile retorico, prolisso ed artificioso delle introduzioni a quello scorrevole, sobrio e semplice del corpo propriamente storiografico. Delle opere letterarie o con la letteratura coinvolte, ricordiamo il romanzo “Margherita Pusterla” (1838), che lo rese famoso e fu tradotto in varie lingue, pur nella assoluta ingenuità ed insignificanza; “Novelle brianzole” (1883); “Storia della letteratura italiana” (1865: altrettanto poco significative quelle della letteratura latina e greca); “Il Conciliatore e i carbonari” (1878).[41]

Di Francesco De Sanctis, troppo importante per la affermazione del metodo critico e storico in sede letteraria, dovremo trattare adeguatamente più avanti.

Ecco alcune autobiografie: siccome sono letterariamente interessanti, avremo modo di parlarne a suo luogo, dando gli estremi di vita ed opere degli autori. Luigi Settembrini scrisse “Le ricordanze”; Francesco De sanctis, “La giovinezza” (cioè l’autobiografia incompleta); Massimo d’Azeglio, i “Ricordi”; Giacomo Leopardi, lo “Zibaldone”; Lorenzo da Ponte, le “Memorie”; Giovanni Visconti Venosta, i “Ricordi di gioventù”.

 

Ma il senso storico è così incarnato nello spirito del Romanticismo, che anche la letteratura se ne impregna a fondo. Con W. Scott, lo si è visto, nasce il “romanzo storico”, che in Italia avrà discepoli numerosi: dal Manzoni, all’amico del Manzoni, Tommaso Grossi (Marco Visconti), al genero del Manzoni, Massimo Taparelli d’Azeglio (Ettore Fieramosca o La disfida di Barletta| Niccolò de’ Lapi), all’accennato Cantù (Margherita Pusterla), a Domenico Guerrazzi (L’assedio di Firenze| Veronica Cybo| Beatrice Cenci| Pasquale Paoli| L’assedio di Roma...), ad Ippolito Nievo con le sue notevoli  “Confessioni di un italiano”, a Giuseppe Rovani (I cento anni)...

 

Dalla storiografia allo storicismo. L’importanza assunta dalle scienze storiche e la rivelazione,  da loro  fatta, circa la evoluzione nel pensiero e nei costumi dei vari popoli (e, dello stesso popolo, nelle differenti età) mettono gli studiosi di fronte al problema dei “valori” eterni ed immutabili (il vero, il bello, il buono) e della loro consistenza e coerenza. Si è visto come in Hegel l’Idea abbracci ogni modo di essere, anche quelli negativi del falso, brutto e malvagio, facendo approdare ad una concidenza dei contradditori, visto che il concreto della sintesi risulta dall’incontro-scontro-fusione dei tre valori fondamentali con i loro opposti. Si tratta di uno storicismo radicale, che in tanto pretende di evitare il relativismo assoluto ( è, quasta, una espressione contradditoria, un ossimoro), in quanto l’assoluto è  satbilito dall’idea-spirito che si evolve sino alla mente umana e definisce essa i valori, in quanto al di là dell’Idea non esiste  canone di giudizio: è vero, bello, buono ciò che capita, ciò che è reale, perchè tutto quanto accade nella storia è incarnazione insindacabile ed imparagonabile della Idea-spirito. Seguendo tale concezione hegeliana, B. Croce concluderà che la “Storia non è mai giustiziera, ma è sempre giustificatrice”. Ma non tutti i pensatori si rassegnano, poi, a  confondere il “fatto” col “diritto”, cioè a far coincidere “ciò che è avvenuto” (qualsiasi “Ergebnis” od “event”, cioè accadimento) con “ciò che veramente è avvenuto”[42] (l’Erlebnis od happening od avvenimento, cioè ciò che è accaduto nel positivo, nel vero e non nel falso, nel bello e non nel brutto, nel buono e non nel male). Ed ecco, allora gli “storicisti” non hegeliani proporsi il problema di come conciliare la innegabile mutabilità storica con la fissità dei valori, che debbono anche srevire come “princìpi, canoni, paradigmi” di giudizio per lo storiografo.  Ecco la soluzione di un precursore dello storicismo: G. B. Vico. La sua proposta, volendo stabilire dei “valori” anche al di fuori della ragione (religione e fede, arte e poesia) affidandoli ai “sensi” ed alla “fantasia” (od almeno al loro prevalere rispetto alla ragione), rischia di “relativizzare” le conquiste tutte dell’umanità, sia quelle dei sensi che  della fantasia  e della ragione: ogni età ha i suoi vantaggi e svantaggi, le sue conquiste e perdite.  Epure il suo errore nel considerare “relativi” i valori è marginale. E’ vero che ogni età privilegia alcuni valori  piuttosto che altri, ma sia la fede religiosa che la produzione artistica e la verità scientifico-filosofica sono  beni  positivi ed eterni. Diversa è soltanto la loro relazione con la vita morale, fondamento ultimo della società.   Ed ecco, allora, il Vico rivelare due altre  verità inesorabilmente stabili: da una parte, la società sta o cade in dipendenza dalla pratica o ribellione alla legge morale; dall’altra, la capacità  dell’uomo ad essere fedeli alla onestà dipende dalla fede religiosa e non dalla potenza intellettuale: la del rifiuto di Dio lo fa regredire allo stato selvaggio, come l’umiltà dell’ossequio religioso gli fa ricuperare la capacità di risalire, dapprima, alla produzione di  arte-poesia ed atti di eroismo; di impostare, poi,  ragionamenti esatti (“ricorso storico o “nuovo corso storico”). Ma tutto questo è credibile, se a monte della ipotesi evolutivo-involutiva dei corsi e ricorsi storici sta  una fede granitica nella Provvidenza di un Dio personale, buono e favorevole all’uomo. Ma non è tale la fede di Wilhelm Dilthey (1833-1911), che termina la sua vita di studioso e filosofo della storia con una posizione problematica: egli vuol superare il relativismo storicistico, ma finisce per spostare soltanto il problema (nell’opera dei suoi ultimi anni “Essenza della filosofia”). Il “relativismo” (soprattutto etico-religioso) rimane, ma non è proprio  della persona singola, bensì delle varie società che si susseguono nel tempo e stabiliscono esse, con la forza di fatto o con le leggi  statali, i propri valori. Relativismo non soggettivistico, ma “sociale” (e statale): B. Croce giungerà a proclamare che “Il diritto –cioè la legge- è forza e nient’altro che forza”, perchè un comportamento è dichiarato giusto e buono solo in base alla “forza” delle maggioranze democratiche, che possono  ridursi al consenso manovrato dai più furbi o dai più potenti.[43]  Da tale posizione  non sa uscire neppure Friedrich Meinecke (1862-1954), che afferma bensì la necessità di riannodare il relativismo  storicistico alla fede nei valori della cultura ed in una “assoluta sorgente di vita”, ma non dimostra nè specifica ulteriormente (“Le origini dello storicismo”: 1936). E’ per questo che Karl Raimund Popper (filosofo austriaco: 1902- 1994) già nel suo libro del 1944 “La miseria dello storicismo” polemizza senza mezzi termini contro un pensiero che ha   finito per giustificare la Realpolitik da Bismarck ad Hitler,  allattati entrambi dallo idealismo hegeliano; e la tragedia ancora più  spaventosa del comunismo marxiano nella Russia sovietica.

 

Eppure un corollario benefico di questo disorientamento metafisico si impone: lo storicismo, presso lo studioso non idealista ha assunto un significato di prudenza e benevolenza nel giudicare  degli avvenimenti-personaggi delle passate generazioni, oltre che di fedeltà assoluta alla verità delle documentazioni.  Prudenza, significherà il prendere in considerazione tutti gli aspetti di una cultura (demografia, religione, morale, filosofia, arte, pensiero scientifico,  scoperte tecnologiche, livello di salute e aspettativa di anni di vita, benessere economico, diffusione della formazione intellettuale,   distribuzione più o meno equa del  welfare fra i componenti della società...) e, più ancora,  operare uno studio analatico dei fatti prima di pronunciare un giudizio sintetico di valore. Benevolenza significa eliminazione di ogni atteggiamento pregiudiziale ed ostile: l’argomento di studio va affrontato con serenità massima, anzi con una disposizione a sottolineare più le componenti positive che quelle negative, salvo l’ossequio alla verità che impone di non ignorare nè sottovalutare anache queste ultime.

 

SPIRITUALISMO E RELIGIOSITA’

 

Dal deismo|ateismo illuminista al ricupero del cristianesimo dopo gli orrori della rivoluzione francese. L’illuminismo si era arroccato, al più, nel deismo senza provvidenza ed era stato, nel complesso, anticattolico ed anticlericale (il deismo era la religione della Massoneria). Ma molti degli  enciclopedisti erano stati addirittura atei e materialisti, ignorando od irridendo le urgenti domande di senso circa l’uomo, il suo destino  e la sua sconcertante condizione esistenziale. Ma le stragi della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche furono viste, da molti strati della “intellighenzia” a cavallo fra i due secoli,[44] come il coerente corollario, l’effetto“boomerang” all’abbandono della fede e della moralità cristiane. Le conseguenze non furono però unanimi. Vi furono conversioni con svolte ad “U”, come per Joseph De Maistre (1753-21),[45] Jean François de La Harpe (1739-1803: già favorevole alla rivoluzione ed anticattolico, come mostra il suo dramma “Melanie ou la Religieuse”, che  è una condanna dei voti monastici, se ne staccò poi e si convertì alla fede come anche alla monarchia); René de Chateubriand (“Le génie du Christianisme” è del 1802, pochi anni dopo la conversione); Alessandro Manzoni (1810), Silvio Pellico (nella prigione dello Spielberg, fra il 1820 ed il 1830). Altre sono state dilazionate alla vigilia di morire: Carlo Porta (1775-1821), Vincenzo Monti (1754-1828) e François-Pierre Maine de Biran (1776-1824).[46] Altre conversioni lasciano un po’ perplessi, come quella di Federico Schlegel, troppo vicino alla religiosità generica di Schleiermacher. 

 

Ma gli intellettuali romantici, nel loro complesso, si fermarono a metà strada, incapaci di abbandonare il sofisma della opposizione tra sentimento che appellava alla fede e ragione che la demoliva.  Visti però gli effetti della lotta contro la fede tradizionale, abbandonato il disprezzo e la irrisione per gli “ingenui” credenti, questa nuova generazione ebbe comprensione, stima, rispetto, nostalgia e, in una certa misura, invidia  di loro. A farci capire questa strana psicologia di  atei  veneratori del Medioevo e simpatizzanti per la Chiesa; di  dolenti per l’incapacità a credere (si potrebbe dire che erano cristiani praticanti, ma  senza fede, clericali senza sacramenti), ci sembra possano servire gli esempi di Ugo Foscolo giovane e di Publio Virgilio Marone nelle Georgiche, cioè a metà strada nel suo passaggio dal materialismo epicureo alla fede negli dei e nella loro Provvidenza. Per il Foscolo, abbiamo riportato ampi brani dai versi del Pellico sulla serietà con cui egli entrava e restava,  pensieroso, nel duomo di Milano; e della stima che aveva per il Manzoni, anche convertito. Per Virgilio, si meditino i versi 491-9 del secondo libro delle Georgiche[47]: “Felice colui che è giunto a conoscere le cause dei fatti naturali anche più sconvolgenti ed ha pootuto così schiacciare sotto i piedi ogni forma di paura, come quella dell’esistenza di un  (favoloso) fato inesorabile e dello strepito dell’ingordo fiume Acheronte (che non restituisce mai i morti). Ma fortunato anche colui che riconosce le divinità agresti, come Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle. Costui non subisce gli allettamenti di diademi o porpore di re nè i timori per le lotte intestine tra concittadini infidi o per  la  irruzione, dal Danubio,  dei Daci decisi alla guerra,  o la preoccupazione per la sorte del potere del popolo romano e  pel suo impero, destinato a perire; e neppure ha avuto occasione di piangere sui poveri o di invidiare i possidenti.” Vogliamo una testimonianza dall’interno del mondo romantico più sicuro? Ecco le affermazioni di Alfred de Musset: “Nostro malgrado, verso il cielo dobbiamo alzare gli occchi... Mio malgrado, l’infinito mi tormenta...”[48]

Naturalmente una simile posizione mentale non porta la gioia del vivere nè la pace del cuore: non a torto i romantici sono stati paragonati a salici piangenti sulle rive d’un bel fiume, disertato dalla pagane naiadi. E, così, la melanconia e il gusto stesso del pianto, dell’autocommiserazione sono  collegati, nell’immaginario collettivo, con il concetto di romanticismo, che è passato ai posteri non tanto come “sentimentalismo” ma come “patetismo, languore”, cioè un pessimismo ed un pianto razionalmente non giustificati, ma sofistici e forzati. L’uomo della strada, ormai lontano da quella temperie psicologica, è tentato di dire: “Ma se non vi volete decidere a scegliere fra i suggerimenti del vostro sentimento  e le conclusioni della vostra ragione, non venite a tormentarci con i vostri piagnistei: sono problemi  irragionevoli, tutti e solo vostri.” Carducci, nell’Intermezzo, premesso alle “Rime nuove”, ne farà una impietosa caricatura. E difatti dal termine “romanticismo” si sono tratti vocaboli non esaltanti, ma sprezzanti: “romanticherie, romanticume...”.

 

Tuttavia va riconosciuto che almeno si tendeva a dar risalto ai valori spirituali, in nome del loro legame con la religione. Non è un caso che la filosofia più vicina al romanticismo sia l’idealismo: esso, pur nell’immanenza panteistica che lo  caratterizza, pone come sorgente dell’essere e suo sigillo una realtà spirituale, l’Idea, che “alienata” nella materia,  si va rivelando, poi, sempre più come intelligente ed onnipotente, passando dai minerali ai vegetali ed animali, fino a riconquistare pienamente se stessa nello “spirito” degli esseri umani. Benchè, nella prassi cocnreta  delle loro conseguenze sulla vita umana, il panteismo materialistico e quello idealistico finiscano per coincidere, tuttavia psicologicamente, intenzionalmente vi è una differenza abissale tra chi  pretende affermare che tutta la realtà è spirito e quanti, viceversa, affermano che in fondo anche lo spirito (l’intelligenza e la libertà) sono semplici epifenomeni della materia bruta. Decisamente i romantici volevano valorizzare  il “proprium” dell’uomo, cioè la sua anima spirituale, compresa la sua  tensione o “Strebung” verso  l’infinito e l’eterno, verso Dio, qualunque fossero i concetti di “anima” e di “Dio” che essi si facevano.

 

Ma, non osando credere in un Dio personale, ecco i letterati e i pensatori del Romanticismo cercare dei surrogati alla religione, che dessero, se non l’infinito, l’indefinito della natura; se non la gioia della felicità, almeno un  suo presentimento nell’amore sessuale; se non la  virtù della bontà nelle azioni cpncrete, almeno lo splendore della bellezza nelle opere d’arte. E, di fatto, Natura, Amore ed Arte diventano per i romantici dei surrogati, dei succedanei alla fede religiosa.[49]

La Natura appare quasi eterna, nel suo continuo rinnovarsi; quasi infinita nei suoi paesaggi di albe e tramonti, di montagne altissime e di fiumi immensi; quasi beatificante nel riposo, nella frescura, nei fiori, nei profumi... Essa, altre volte, appare onnipotente nella sua impassibilità, che  la esonera dalla sofferenza; nella sua imprevedibilità, che le permette manifestazioni sorprendenti come la  estensione  immensa di oceani e foreste o il succedersi imperterrito di notti e giorni, di  inverni ed estati, di piogge ed aridità; che le consente attività sconvolgenti, come i cataclismi delle ere geologiche o dei vulcani e terremoti... Essa è del tutto buona, perchè è generazione, è vita, è  crescita, sicchè l’abbandonarsi alla spontaneità della natura dovrebbe costruire la bontà personale e sociale. Sono spunti presi da Jean Jacques,  con cui concordano Novalis, Hoelderlin[50] e lo stesso Leopardi (almeno quanto alla sua onnipossanza).

 

L’Amore diviene un altro surrogato della religione, perchè in esso il dispiegamento del sentimento diventa sublime. Nell’abbandono amoroso, l’uomo oblia i travagli della vita, la pochezza del vissuto quotidiano;  trova una rivalsa alle sconfitte e delusioni e, anzi, si  esalta in un’estasi che  illude il paradiso. Quando si è in preda al sentimento amoroso, tutto sembra realizzabile, nulla impossibile: soprattutto si ha la impressione di aver attinta la felicità (cfr “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, fin quando esiste per  il protagonista anche solo uno spiraglio di realizzare il suo sogno nei confronti di Teresa).  Rousseua, George Sand, Federico Schlegel (nel romanzo  del 1799 “Lucinde”) sono i più soggetti alla tentazione di confondere amore spirituale e sensuale, di coinvolgere la divinità nella vita sessuale, di confondere il senso del sacro con quello della donna. In Italia vi sarà il caso del romanzo “Fede e bellezza” di Niccolò Tommaseo.

L’Arte,  infine, è chiamata a  supplire alla esperienza religiosa. Questa sublimazione del fatto estetico è evidentemente uno sviluppo di spunti neoclassici, quelli che attribuivano alla attività artistica tutta (creazione e fruizione) il potere di obliterare la realtà deprimente per trasferire in regioni di serenità, in tempi di pace. Ora non è più questione dei soli capolavori della Grecia pagana nè soltanto una “alienazione” momentanea in altri luoghi ed età, ma si tratta di far sorgere in sè la illusione di diventare in qualche modo “divino”, attraverso la contemplazione o la produzione del capolavoro. Non si parla forse di “creazione” a proposito della opera d’arte? E non si può in essa (specialmente attraverso la poesia) fingere forze sovrumane per i propri personaggi, che possono così superare ogni vincolo, di gravità come di distanze spazio-temporali? E non è essa contemporaneamente spontaneità  emotiva ed elaborazione razionale? L’esperienza artistica sembra, quindi, ai romantici quella più vicina all’estasi religiosa, perchè, accanto alla impressione di riuscire a partecipare dell’infinito e dell’eterno (della felicità!), vi è anche la coscienza che tutto ciò possa avvenire nella spiritualità  più pura, libera dalla sensualità come dall’utilitarismo egoistico: l’arte porta fuori da ogni forma di egoismo e di riferimento alla prassi di un’esistenza troppo spesso macchiata di volgarità.

E questa inclinazione a fare dell’arte uno degli “assoluti” della vita, genera –come già nel Rinascimento- uomini la cui vita è così romanzesca da assomigliare da vicino ad un’opera d’arte: là vi erano stati Cellini e Tasso; qui, dopo Alfieri e Foscolo (anime romantiche precoci), si hanno Mazzini e Garibaldi, i volontari  nelle guerre di Risorgimento, dal 1848 alla “spedizione dei Mille”. Erano uomini che non si accontentavano del quotidiano grigiore di vita, ma erano alla ricerca dell’infinito e dell’eterno e si illudevano di trovarlo nell’eroismo di una giornata campale, nel sogno di contribuire a  realizzare una pagina storica, nell’ideale di fare l’unità della Grecia, dell’Italia o della Germania, nel fare della propria vita qualcosa di unico, inimitabile, poetico.

 

        INDIVIDUALISMO E SOGGETTIVISMO

Questi atteggiamenti sono una eredità dello Sturm und Drang e sono un ovvio corollario del primato del sentimento. Se la verità è quella spontaneamente sentita da ciascuno, essa facilmente si differenzierà in molte impressioni: la “idea”  ritenuta vera sarà quella privilegiata dalla sfera emotiva e le reazioni di questa  variano da individuo ad individuo, da circostanza a circostanza. Solo il freddo ragionamento può costringere la mente verso quella unità, che della verità e del bene è quasi una  dimensione necessaria, secondo il detto scolastico: verum, bonum et unum convertuntur (la verità, il bene l’unità si implicano a vicenda).

In sede religiosa, già il libero esame luterano aveva dato i frutti prevedibili con l’insorgere delle “sette”, per questa interferenza dell’emotività nella ricerca del vero  cristiano: dopo i Battisti (1640),  i Quaccheri (fondati da John Fox in Inghilterra nel 1649) ed i Metodisti (John Wesley: 1738), ecco che all’inizio del nuovo secolo sorgono dapprima gli “Avventisti” (William Miller: 1782-1849); poi,  fra il 1820 ed il 1830, le comunità cattolico-apostoliche e quelle Neoapostoliche (a sfondo escatologico)  ad opera di E. Drummond  e di Edward Irving; negli U.S.A fioriscono i Mormoni (od i “Santi dell’ultimo giorno”: circa 1830, ad opera di Ioseph Smith);  nel 1861, i militanti del “Salvation Army” (William Booth);  nel 1872, i Testimoni di Géova, nati come Millenaristi ad opera di Charles Taze Russel. Che nel sottofondo di queste varie ramificazioni stia una forma di sentimento, lo può suggerire il “Pietismo”, nato in Germania (Halle) ad opera del conte Ludwig Zinzendorf: erano cristiani evangelici diffidenti delle dispute dogmatiche, freddamente razionali e preoccupati di salvare “il cuore” del cristianesimo, con le pratiche devote e la accentuazione dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Su questa  via, il più coerente sarà Schleiermacher che farà, del sentimento,  la vera forma di conoscenza e, del sentimento religioso, la conoscenza dell’infinito, disincagliando la religione dalla verità dei dogmi e abbandonandola alla sensibilità dei singoli. Le varie religioni sono sfaccettature dell’unico sentimento, che nei vari “geni” religiosi (di cui il supremo è Gesù, detto il Cristo) trova espressione eccezionale e spesso seguaci tanto organizzati quanto sterili, cioè privi della intensità del sentimento  iniziale. Anche una parte di intellettuali cattolici verrà coinvolta (col movimento “modernista”) in questa mentalità, ma a fine secolo soltanto. 

Questo soggettivismo, corollario della spontaneità, figlia del sentimento, è una trasgressione dalla attività artistica (in cui l’emotività ha il primato perchè “fine” e, quindi, elemento “formale” della espressione razionale) alla attività filosofica e teologica (in cui la razionalità pura ha diritto di operare, perchè non si tratta di produrre la bellezza, ma di  scoprire la verità).  Una conseguenza ben grave è il soggettivismo morale: la “coscienza” non è più la sorgente penultima della distinzione fra bene e male, ma l’unica e, perciò, l’ultima. Ma la “coscienza” è conoscenza, cioè è un “comprendere” (abbracciare) e capire” (contenere) una realtà che è fuori dell’uomo e che egli deve soltanto “intus-legere” cioè leggere dentro (al di là delle apparenze) ed accettare. La realtà di riferimento ultimo per la distinzione fra onestà|disonestà dell’azione è la natura umana per ogni studioso, credente o non credente; ed anche il Decalogo, come interpretazione perfetta della natura stessa da parte di Dio (che la  “rivela” all’uomo), per gli Ebrei e per i cristiani. Dimenticata questa badiale verità, che la coscienza non è la garante assoluta, ma solo “relativa” della moralità di un’azione e che, quindi, non è propriamente sorgente di onestà dell’agire, ma soltanto di “responsabilità” dell’agente, l’arbitrio diventa ben presto signore del comportamento e, a livello sociale, la anarchia è   alle porte.[51]

 Questo significa che, nonostante marginali benefìci, nel complesso il movimento romantico segnò un peggioramento rispetto al razionalismo illuministico. Pur con l’esaltazione della ragione e della “sola ragione”, si poteva ancora parlare di “diritto naturale” comune a tutti gli uomini e, perciò, dialogare coi razionalisti in base a princìpi da tutti ammessi. E’ vero che, anche con loro, il discorso morale si faceva poi difficile od impossibile per la proclamata assenza di libertà interiore, cioè di capacità del volere a  controllare le passioni. Ma questo disorientamento antropologico persiste anche nel romanticismo di marca “foscoliana ed europea”.  All’interno, però, dei princìpi illuministici  rimaneva la concordanza gnoseologica, cioè sul valore inventivo e dimostrativo della verità da parte della ragione, sicchè il problema specificamente morale aveva una base  pregressa di dialogo. Col sentimentalismo romantico, invece, manca la condivisione  della fiducia nel valore dello strumento di ricerca della verità: la sfiducia nella ragione fa cadere il punto in comune di partenza per condurre avanti una disputa qualsiasi. Ognuno resta chiuso nell’intuito del proprio sentimento e resta, così, aribitro non solo del proprio comportamento pratico, ma della stessa  legge teoretica che lo detta, perchè  ciascuno se la crea nella spontaneità della propria coscienza,  nel solipsismo del proprio modo di sentire il bene ed il male. Per questo dicevamo che il libertinaggio individuale e l’anarchi a livello sociale sono in agguato.

 

        POPOLARISMO E NAZIONALISMO

Le cause dell’ingresso del popolo nella letteratura e nella simpatia dell’opinione pubblica in genere. La rivoluzione aveva proclamato i princìpi di “uguaglianza e fraternità”, accanto a quello di “libertà”. Rousseau non aveva scritto invano, egli che veniva dalla Svizzera, “borghesemente” democratica e usciva da una famiglia di popolo (il padre era un piccolo artigiano). Ma, dobbiamo ripeterlo, non si trattava soltanto di idee proclamate a voce o per scritto, da Rousseau o da altri: il “lancio” del quarto stato nella pubblica opinione, nella attenzione dei letterati e, ben presto, nella vita pubblica, fu un acquisto dello stesso popolo che, uscendo poco a poco dalla miseria, si  ritagliava, nella  permanente povertà, del tempo libero per imparare a leggere e scrivere[52], per  procurarsi un minimo di cultura e per far sentire la sua presenza nella pubblica opinione. Perchè nobiltà e borghesia intellettuale si accorgessero del popolo, occorse al popolo un minimo di “peso psicologico-culturale” per costringerle a sentire la sua presenza ed a tenerne conto. Solo in séguito intervengono i princìpi evangelici della “fraternità”[53] e quelli socio-culturali della “eguaglianza”, per allargare quel varco apertosi nella vita associata dal popolo stesso ed accelerarne il  ritmo di avanzamento. In proposito va  tenuto ben fermo, almeno dopo la caduta del mito marxista nel 1989, quanto osservava Carlo Cattaneo: è la intelligenza che crea l’economia, non viceversa; è l’economia che è un epifenomeno o corollario della cultura, non viceversa. Che cosa vogliamo dire? Che la causa prima alla creazione di tempo libero per strati sempre più vasti di popolazione e, quindi, di possibilità di un loro acculturamento e coinvolgimento nella vita socio-politica, fu (ed è tuttora) la intelligenza di medici, ingegneri  e brevettatori di ogni estrazione che promossero (e promuovono) l’igiene, la salute ed i processi  tecnici con cui accelerare e perfezionare la produzione di quei beni che  costituiscono il benessere,  mettendoli così a portata di  borsa di un sempre maggior numero di gente. Senza dire che il qualunque benessere-tempo libero- interesse-per-la-cultura dei poveri finiva per renderli consumatori di letteratura, cosa della quale gli scrittori non potevano non tenere conto.

Pure, rimane vero il fatto che il “sentimento” e la “spontaneità” ebbero la loro parte nel richiamare la attenzione e la simpatia dei letterati verso il popolo.[54] Proprio dal nucleo sorgivo del Romanticismo  fiorisce l’amore per gli umili. In base alle idee di Rousseau, infatti, il popolo sarebbe il depositario di quel buon senso e naturalezza, di quella moralità spontanea, che nascono da una semplicità non ancora intaccata dal progresso assorbito dalle persone colte; che sono fondati sulla impressione del sentimento immediato e non sul calcolo della ragione astuta. Di qui il “vagheggiamento” del popolo, come  portatore di valori autenticamente umani, che la ragione rischia di offuscare e rinnegare.

E una delle  facoltà conservate dal popolo non sofisticato è proprio quella della poesia. Riesce ad imporsi il mito del “popolo-poeta”; viene accettata come dimostrata la esistenza (di vichiana memoria) di epoche in cui la fantasia di una gente semibarbara prevale sul loro raziocinio non ancora completamente sviluppato;  viene creduta, perciò, la possibilità di una generazione di uomini colletivamente poeti, perchè cresciuti solo fino a quella potenza intellettuale prefilosofica, anteriore alla coscienza critica e operante, perciò, fra sogno e riflessione. Non si cita più Omero, ma la Chanson de Roland (che per il momento sembra anonima) ed il Nibelungenlied (che anonima per noi romane veramente), Shakesperare (di cui si conosce poco e che la critica vuole essere prestanome di altro scrittore che non voleva mettersi in pubblico come “bardo”, quando la vita di teatro era  disprezzata  ed occorreva la protezione di persone altolocate -del re, addirittura- per poter venire esercitata con onore). In qualche modo, anzi, si trova la maniera di cooptare anche il pur conosciutissimo Dante fra i testimoni della esistenza di un popolo-poeta. Insomma, la vera poesia nasce collettiva ed anonima; solo col crescere della cultura diventa personale e firmata

 Si capisce, allora, il viraggio popolare che la ipotesi di Herder e Schlegel  (per ditinguere la poesia classica da quella romantica) assume nella “Lettera semiseria di Grisostomo”  di Giovanni Berchet.  La opposizione tra Kunstpoesie (poesia elaborata, propria dei classici) e Naturpoesie (quella spontanea, propria dei romantici) si risolve in un compromesso all’italiana,  teoreticamente falloso[55], ma di facile comprensione; e coinvolgente il popolo. La contrapposizione,  che è di sostanza nel pensiero tedesco, si traduce in accidentale giustapposizione negli studiosi italiani.  Questi declinano infatti così la differenza: La poesia vera è sempre popolare; quella oggi detta “classica”, quando fu scritta dagli antichi, era anch’essa popolare, cioè rifletteva la mentalità, le credenze, il modo di esprimersi del popolo di quelle epoche (greco-romane). Cambiati i costumi,  la cultura e la maniera di esprimersi della gente, quella poesia diventa sofisticata, retorica, artificiosa, cerebrale, appesantita da regole che la nuova generazione non riesce più a capire o, almeno, a gustare. Da “Kunst” degrada a “Kitsch”. Poesia popolare è quella attuale, spontanea, coerente e consonante con il sentimento della popolazione. Poesia classica è quella che, popolare ai tempi di  Atene e di Roma, è divenuta “classica”, estranea e non più gustabile da noi,     perchè i tempi sono mutati.

Ebbene, oggi (proseguiva Berchet) i popoli sono imbevuti di spirito o almeno di cultura cristiana; sono interessati al Medioevo, come alla sorgente della propria coscienza nazionale; hanno un immaginario collettivo che, posto che ancora ami le leggende, preferisce quelle nordiche delle stirpi germaniche a quelle pagane dell’antica Ellade.

La poesia vera, attuale è, dunque, quella popolare, in sintonia con lo spirito del proprio popolo, le sue tradizioni, i suoi sentimenti.

E si può, allora, fare un passo ulteriore. Fra i sentimenti,  il patriottismo ed il nazionalismo stanno certamente a cuore al popolo :  questo, infatti, ormai cresciuto a misura di vita pubblica, chiede la indipendenza dallo straniero e la partecipazione alla vita pubblica, attraverso uno stato costituzionale e democratico. Da “società segrete”, formate da minoranze  ancora formate da élites intellettuali (la Carboneria è l’esempio tipico, ma non unico), si passa alla “Giovine Italia” di Mazzini che si appella al popolo e  rende noti programma e finalità (1831). Verrà la partecipazione entusiastica del popolo milanese alle “Cinque giornate” de 1848 (18-23 marzo); il volontariato, specie nella prima   guerra di indipendenza italiana (1848-9); la insurrezione di Venezia e la sua eroica resistenza negli stessi due anni; le”dieci giornate di Brescia” del marzo 1849 e soprattutto  le  folle di seguaci di Garibaldi nella “spedizione dei Mille” (Maggio-Ottobre 1860). La stessa cosa  accadeva in Grecia, che in dieci ani (1821-1830) si liberò dalla dominazione turca; ed in Polonia, che invece vide soffocati nel sangue i due tentativi di insurrezione contro la Russia (1830-1 e 1863-4). Per dirla con le parole di Riccardo Bacchelli nel romanzo “Il Mulino del Po”, la plebe si  andava elevando a popolo, i sudditi a cittadini. E  gli analfabeti si  andavano acculturando, anche se più lentamente  nelle regioni meridionali d’Europa.

 

LA POETICA DEL MOVIMENTO ROMANTICO.

Dalle componenti del pensiero, si può sintetizzare con grande facilità la “estetica letteraria” o “poetica” romantica. In realtà una ideologia che mette al centro del suo pensiero il “sentimento” si può sospettarla a priori  come una teoria dell’arte (della poesia) scambiata per una concezione di tutta la vita, per una Weltanscahauung. Non ci si meravigli se dorvremo riprendere qui molti degli elementi già esaminati come punti di vista generali della mentalità del movimento.

        Due premesse inconsapevoli, come fondamento di molti princìpi estetici.

La arazionalità del fatto artistico.  Il primato del sentimento, di cui l’arte è figlia  privilegiata, facilmente induce nell’errore che l’arte sia fatto prerazionale od arazionale od irrazionale (sono gradazioni che ciascun artista priviligerà a suo genio). Umberto Bosco, giustamente, afferma che il canone fondamentale, anche se inconscio, dell’estetica romantica è proprio la arazionalità dell’arte.[56] Maestro, naturalmente, in Italia è il Vico. Da una simile premessa, si noti, può discendere ogni corollario il più impensabile, se non ci fossero altri princìpi, magari altrettanto inconsapevoli, che ne privilegiano alcuni rispetto ad altri. Eccone uno.

La  tensione verso i valori spirituali è un altro fondamento non del tutto conscio, presente come reazione a tutto quanto il razionalismo e la rivoluzione avevano tentato di demolire.  Ecco allora che il sentimento conduce, nel romanticismo non solo manzoniano, a sottolineare, nel lavoro letterario, la funzione educativa, morale e patriottica (e, di conseguenza, anche all’impegno  della rievocazione storica), piuttosto che quella del divertimento o addirittura dell’erotismo. Ancora possiamo  vedere in tale premessa una  causa della simpatia verso il popolo ed i diseredati: il superbo disprezzo illuminista cede il posto alla umile fraternità e senso di solidarietà. Il popolo è formato da gente amica e “consorziale” (“che condivide con noi la stessa sorte”).

Gli altri punti programmatici della poetica romantica,  sia pur connessi ai due ora elencati, hanno radici più dichiarate e consapevoli.

 

        La spontaneità. L’arte non ha modelli da imitare nè  canoni da seguire. Canta  ciò che le detta il cuore; esprime quanto le suggerisce il sentimento; inventa  quello che la fantasia immagina, da quello solo guidata. Il genio non ha nè  regole nè paradigmi. “No” deciso, quindi, al classicismo, alla schiavitù al passato; l’arte è sempre spontanea e, quindi, romantica.

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L’arte deve essere sempre in qualche modo contemporanea, proprio perchè la spontaneità si ispira a quanto è sentito dal poeta, che non può prescindere dalla sensibilità del suo tempo e della sua società. Ecco, allora, la impossibilità di tener conto della mitologia  pagana, che può essere appresa sui banchi di scuola, ma non condivisa od amata da popoli che  si riconoscono   nel Medioevo cristiano; che ivi trovano la propria origine, e la sorgente della propria mentalità, gusti e costumi. E’ la interpretazione “italiana” di cui si è già parlato. Alle proposte di Herder di distinguere una “Naturpoesie” (spontanea) ed una “Kunstpoesie” (studiata ed imitata sui modelli: raffinata, retoricamente sofisticata, ma pur sempre poesia); ed alle proposte di Schiller di distinguere la poesia ingenua  degli antichi da quella  sentimentale dei moderni;  ed a quelle dei fratelli Schlegel (con Madame de Stael e Sismondo de Sismondi) di distinguere una poesia classica (che  imita –e talora validamente- i modelli greco-romani) ed una “romantica” (che si ispira alla spontaneità del sentimento e dello spirito cristiano della’Europa medioevale), il Berchet risponde facendo della poesia “classica” una espressione del passato, non più comprensibile nè gustabile dai  fruitori del Milleottocento (sicchè essa risulta addirittura “non-arte”); e della poesia “romantica” la poesia del presente, ispirata a motivi  vivi della nostra cultura e psicologia  (unica forma di arte davvero valida per noi moderni).

 

        Il popolo, portatore del sentimento spontaneo più della sofisticata classe colta, deve essere ascoltato, amato e tenuto presente nelle opere letterarie: sono le “genti meccaniche e di piccol affare” a divenire protagonisti nei romanzi di Manzoni e di Hugo.

 Fra gli elementi della spontaneità popolare possiamo elencare anche la soluzione nuova al problema della lingua: non più il “canone” del Bembo, che vuol fissarne il vocabolario nel Milletrecento, ma la nuova impostazione manzoniana (e già del Machiavelli), che la lega all’uso del fiorentino contemporaneo, alla lingua parlata dal popolo toscano: lingua non da studiare sui libri, ma da imparare dalle mamme di Firenze. E Manzoni, benchè fosse in favore dell’uso fiorentino delle persone colte, tuttavia non esisterà a servirsi abitualmente della popolana Emilia Luti (presa in casa come dama di compagnia delle ultime figlie, ma in realtà  come suggeritrice del linguaggio fiorentino), per la revisione della edizione “ventisettana” (1827) verso la perfezione di quella definitiva (1840).  E’, questa, la riconquista del principio che la lingua è uno strumento umano, che obbedisce alla legge di Dante “Opera naturale è ch’uom favella;| ma, così o così, natura lascia| poi fare a voi, secondo che v’abbella.”[57]   Essa non ha nulla di assoluto o di immutabile, non ha parametri definitivi in una certa età o produzione letteraria, ma deve sottostare all’uso, cioè alla evoluzione imposta dalla scoperta di nuovi prodotti od operazioni, che  esigono nuovi vocaboli; e dalla musicale genialità del popolo, che conia in una forma congruente con il resto della lingua i nuovi termini. La lingua, che rimane evidentemente un prodotto essenzialmente razionale, dipende in parte anche da facoltà che razionali non sono e che sono invece emozionali, spontanee: musicali, appunto.

Lorenzo Stecchetti (pseudonimo di Olindo Guerrini) così scriverà all’amico Felice Cavallotti nel 1878: “Sai, sessant’anni fa, quanto spavento,| che vaticìni orribili e diversi,| perchè si disse  in versi| barba alla barba e non l’onor del mento!|| -L’arte- si disse- casca a ruzzoloni:| tornano i Goti, i Visigoti e il resto!| E dopo tutto questo| che cosa capitò? Venne il Manzoni!”. Esempi di  mutamenti concreti del linguaggio li accenneremo nell’esame dello Stile. 

Affiora qui, dalla popolarità e dal linguaggio parlato dei romantici, una tendenza realista che trova, poi, non rare applicazioni nele concrete opere letterarie. Dice in proposito U. Bosco: “Il sempre bifronte Romanticismo presenta... due aspetti fra loro in lotta lungo l’Ottocento: da una parte tende alla massima concretezza, alla parola-cosa; dall’altra, alla massima approssimazione, alla parola-nota musicale. Naturalismo, romanzo sperimentale, verismo sono gli sbocchi dell’uno: decadentismo simbolista, lo sbocco dell’altro”[58] Nè solo dalla spontaneità come anticlassicismo e popolarità, ma anche da un altro canone del romanticismo nasce questa propensione al realismo: anche l’amore per la storia educava al senso del vero e, quindi, del reale. Anzi vi è chi vorrebbe vedere nell’opzione dei romantici per il romanzo storico (o per la ballata pseudostorica) una specie di compromesso tra inclinazione al realismo (che esigerebbe argomento addirittura contemporaneo) e nostalgia di un decoro e dignità che sono residui della scuola classica, non disattendibile di punto in bianco. Così la “verità” è collocata non al presente, ma in un passato  ancora lontano, dove la medioevalità conferisce pur sempre una patina di infinità ed eternità, secondo il canone di Novalis: “Tutto in lontananza diventa poesia: monti lontani, uomini lontani, eventi lontani, tutto diventa romantico”. [59]

 

La poesia e la prosa letteraria deve ispirarsi al Medioevo. Il corollario che proprio il Medioevo, dunque, sia “in qualche modo” contemporaneo, anzi sia l’epoca da privilegiare per soggetto di romanzi e ballate, è dedotto più  per considerazioni psicologico-sentimentali che propriamente razionali: ma non si può negare una certa coerenza col complesso delle idee. Ma il Medioevo evoca e richiama in vita una sua mitologia, quella germanica che introduce folletti e gnomi, spettri e coboldi, fantasmi ed eroi, che si mescolano in nuove avventure di donzelle sfortunate e cavalieri erranti. Avremo  “Eleonora” e “Il cacciatore selvaggio” di Gottfried August Buerger (ne dovremo riparlare),  “Ildegonda” e “Marco Visconti”  di Tommaso Grossi, “Ettore Fieramosca” e “Niccolò de’ Lapi” di Massimo d’Azeglio, “Rodolfo” e “Armando” di Giovanni Prati, “Margherita Pusterla” del Cantù, ecc. [60] E avremo soprattutto i romanzi di Walter Scott.

 

CONCLUSIONE DEL PENSIERO ROMANTICO: LA ESPLOSIONE POETICA E MUSICALE

Una mentalità razionalistica coerente era riuscita, nel secolo XVIII, ad  impedire che continuasse in Francia  l’intensità lirica del “grand siècle”, cioè del Milleseicento: le opere di Voltaire non attingono certo l’altezza di quelle di Pierre Corneille e di Jean Racine. E l’aveva in parte  frenata anche in Italia, dove  le regole  classicistiche  non avevano certo aiutato l’arte pur grande di un Alfieri e di un Parini. Viceversa, una mentalità  che metteva al centro della vita intellettuale e morale la spontaneità del sentimento, cioè che  giungeva a proclamare la emotività compartecipe del processo conoscitivo e della direzione morale dell’uomo, non poteva che favorire,  al di là della media prevedibile, la produzione poetica e il suo successo. E’ certo che la prima metà del Milleottocento fu in Italia una delle età liricamente più felici: non si tratta solo di Manzoni e Leopardi, ma di un numero senza numero di poeti minori riusciti, perchè la  gioia di far versi dilagò a macchia d’olio.[61] D’accordo: in parte, ciò dipendeva ancora uan volta dal fatto del diffondersi della culturalizzazione, che permetteva di farsi avanti ad aspiranti poeti  da strati sociali sempre più vasti.. Ma  se molti di tali intellettuali si consacararono a scrivere volumi di poesia e di prosa letteraria, ciò dipese certamente anche dalle dottrine estetiche dominanti, che incoraggiavano ognuno a far uso del sentimento, cioè ad esprimersi secondo che il cuore dettava spontaneamente, senza più regole classicistiche. Ci fu una vera esplosione poetica, cui abbiamo accennato nel testo e nelle note precedenti per Germania e Francia, Inghilterra e Spagna.  Della scuola romantica italiana e delle tre epoche in cui tradizionalmente viene distinta, parleremo presto.[62] Per ora, dopo il pensiero, dobbiamo renderci conto della sensibilità o gusto della società e letteratura romantica.

 

LA SENSIBILITA’ O GUSTO DEL ROMANTICISMO.

 

Atteniamoci ad un paio di caratteri generalissimi, perchè non è facile generalizzare: ci si domanderà se le indicazioni più solite, che anche noi ripeteremo  e che sembrano abbastanza adeguate ad un Foscolo e ad un Leopardi, ad un Byron e ad un Hoffmann, a Novalis, a De Musset e ad un Poe, valgano anche per Manzoni ed i manzoniani (dal Porta al Pellico, da Tommaso Grossi ad Ippolito Nievo) o per un Victor Hugo ed un Walter Scott. Si tratterà dunque di un paio di qualità che non si ritrovano, almeno così frequenti, in alcun altro movimento precedente e che hanno prevalso nella memoria dei contemporanei e dei posteri come peculiari del romanticismo: DISARMONIA  e PESSIMISMO.

 

LA DISARMONIA.

La possiamo costatare sia nella vita di  vari scrittori romantici (già sopra elencati): nella loro costituzione fisica, per il fatto solo che non godono di grande salute e muoiono giovani (Foscolo a 49 anni, Alfred de Musset a 47, Hoffmann a 44, Poe a 40, Leopardi a 39, , Byron a 36, Novalis a 29...), essi rivelano una disarmonia che è biologica prima che psicologica. Anche la vita movimentatissima di molti di questi letterati (ed occorrerebbe aggiungere, allora, almeno Hoelderlin e Mazzini) testimonia una instabilità interiore che parla di turbamento come  forma abituale di sentire.

Ed ovviamente le espressioni in versi od in prosa risentono di questa psicologia  burrascosa: estremismi, eccessi, patetismi, enfasi raramente  sfociano nell’epicità (V. Hugo) o nell’idillio  (come in Eichendorff, Brentano e Tieck); più solitamente, lavorano in senso opposto: sfiducia, elegia, malinconia, tenerezza patetica, agitazione, inquietudine... Compaiono anche il lugubre, il tetro, il cupo, il notturno e cemeteriale, il macabro, lo spettrale... Manzoni, che accetta il romanticismo con beneficio d’inventario, nella sua lettera al marchese Cesare d’Azeglio (1823)  prende le distanze da quel  “guazzabuglio di streghe, di spettri”, dal “disordine sistematico”, dalla “ricerca dello stravagante” che caratterizzavano la produzione letteraria di molti tra gli scrittori romantici, fin dall’inizio.[63]

 

IL PESSIMISMO 

Non era l’ottimismo il sentimento più diffuso nell’età beata del Millesettecento illuminista? Era  abbastanza scontato che, precipitato il secolo nella catastrofe rivoluzionaria, il pessimismo soppiantasse l’antica euforia:[64] Nella più parte dei letterati romantici la vena elegiaco-tragica prevale. A loro non è più consentito nè lo scetticismo irridente e gaudente di un Voltaire, nè la serenità di un Manzoni che, sul fondamento della fede nella Provvidenza, ritrova spazio per la gioia idillica, per l’epopea vivace e per l’umorismo amabilmente canzonatorio: non avevano la chiarezza mentale nè la coerenza volitiva per ritornare alla alleanza, al patto, al testamento di Dio, dopo aver rifiutato l’atteggiamento prometeico della irrisione e della ribellione. I romantici dal temperamento più risentito, sostituiscono la elegia delusa con la drammaticità ribelle: sarà V. Hugo in Francia e G. Berchet in Italia, ad esempio. Ma la linea prevalente è quella della delusione e della sfiducia, tanto che il Carducci potrà permettersi (nel 1881) di ironizzare così su di loro: “Quelle forme crepuscolari di salici piangenti, che erano i romantici, dovevano pur diventar uomini e uomini ragionevoli; e avevano, poveretti, tutte le voglie di rifarsi della quaresima”.[65]

 

TECNICA STILISTICA DEL ROMANTICISMO

 

Premessa. A comprendere la tecnica stilistica degli autori romantici, aiuta il conoscere  la “Poetica”, che abbiamo già delineata  nel contesto del Pensiero del movimento. 

 

Dalla spontaneità  nascono frutti di miele e di tossico.

 

POSITIVAMENTE.

 A livello di motivi ispiratori, si allarga la cerchia dei soggetti di canto: dagli argomenti medioevali a queli popolari. Ne riparleremo subito.

 A livello di lirismo, essendo, per sè, esatto il principio della spontaneità  come essenza dell’arte, il romanticismo finì per promuovere la creazione di opere valide in tutta Europa:  si è detto che la “esplosione poetico-musicale” del Milleottocento lo si deve a tale principio. Ma un altro fenomeno va sottolineato: nascono toni lirici “di risultanza”, ossia fusioni di emozioni, di cui il Foscolo è stato maestro: dall’estasi (idillio ed epicità) alla commozione (elegia ed epicità), dalla tenerezza (idillio ed elegia) alla comicità (anche nelle opere serie, da Manzoni a  Tommaso Grossi. Queste “sinergie liriche” sono assai rare nei poeti di sicura classicità (i greci, in genere; Dante), mentre  una tale presenza in Virgilio e in Manzoni, garantisce la loro sensibilità romantica.

 A livello di tecnica stilistica, dapprima si raggiunsero traguardi semplicemente ragionevoli e di buon senso: si rifiutarono le regole classicistiche (per il teatro, soprattutto); si abbandonò il principio del “modello”, come se l’arte greco-romana avesse esaurito il campo della inventività estetica;  si  emarginò la mitologia pagana. Per il vocabolario, parleremo subito nel contesto della “popolarità”.

 

NEGATIVAMENTE.

Ma, purtroppo, non essendo stata precisata la parte della ragione nel processo di creazione artistica, con la “spontaneità” nasce anche, a livello di motivi ispiratori,  il trionfo della fantasia pura, che può divenire inverosimiglianza, arbitrio, capriccio o malattia. Il surrealismo di Ernst Theodor Hoffmann ed il mistero dei “racconti” di Edgar Allan Poe sono solo i frutti sconcertanti più noti (ma alcuni momenti delle opere di Coleridge vi accennano; e la parabola finale dell’attività poetica di Hoelderlin va ancora al di là, verso la pazzia che lo raggiungerà a soli 36 anni).

A livello di lirismo, diventano di moda tonalità stridenti, come il grottesco (riso sopra il dolore, la malvagità, la bruttezza) ed il macabro (umorismo nero, sopra la morte).

A livello di stile, sono effetti negativi (a nostro parere) anche le “sinestesie” che compaiono al seguito di Rousseau. Si tratta della caratterizzazione, attraverso aggettivo esprimente qualità sensoriale,  di un sostantivo che si riferisce obbligatoriamente ad un senso  diverso: il “fremito argenteo” ed i “dolci raggi della luna” di  Rousseau fioriscono nell’ “appetito vermiglio” e nella  “lotta ardente e nera”  di V. Hugo; e nell’andirvieni tra note cromatiche e tonalità musicali dei romantici tedeschi.[66] Ma il peggio sarà  la giustificazione, su tale principio,  del liberoparolismo proclamato dai futuristi; e  delle libere analogie nei poeti ermetici, che  emuleranno il secentismo,  perchè crederanno  di far poesia sorprendendo il lettore con ogni stranezza di combinazioni o scombinazioni intellettuali. La maggior raffinatezza ed intellettualismo, la minor platealità e banalità dei moderni marinisti  sono resi altrettanto sgradevoli che  i barocchi dalla incomprensibilità del dettato,  dalla conseguente insignificanza dell’espressione (oltre che dalla  abituale assenza anche del ritmo metrico,  dopo il rifiuto della rima).  

 

 

 

        Il principio della popolarità-nazionalità comanda anch’esso conseguenze benefiche e  discutibili. Fra gli stimoli positivi, avremo la fondazione del “romanzo storico” (W. Scott,  T.Grossi...) col ricupero della stima a quegli aspetti del Medioevo che sono stati “acquisti per sempre”: fondazione dell’Europa (come unità religiosa nella Chiesa cattolica;  giuridica, nel diritto romano; politica, nel sacro romano impero; linguistrica, nel latino come lingua diplomatica, liturgica ed universitaria); ricupero-superamento del livello demografico,culturale, tecnologico, economico  e militare dei secoli più evoluti dell’impero romano; capolavori dell’arte gotica e della poesia epico-religiosa, dalla Chanson de Roland fino a Shakespeare, attraverso la Divina Commedia; ecc.

Altra deduzione positiva è stato la rinuncia alla lingua retoricamente sofisticata dei classici e l’adeguamento dello scritto al parlato, mediante il principio che l’uso è il dittatore della lingua: in Italia, l’uso del fiorentino parlato dalle persone di una certa cultura. Le conseguenze si fanno sentire prima nella prosa dei romanzi e dei giornali; solo più tardi anche nel linguaggio delle scene teatrali: le stesse tragedie del Manzoni conservano l’uso di termini classici o latineggianti (anche per esigenze di metrica). Ecco alcune trasformazioni tra le più significative: aita diventa aiuto;  brando, spada;   destriero, cavallo; cimiero, elmo;   coppa,   tazza; ara, altare;  tempio e delùbro, chiesa; fiata, volta; ostello, albergo; calle, sentiero; ulto, vendicato; Progne e Filomena ritornano la rondine e l’usignolo ...  B. Migliorini  ricorda che “vengono di moda, con la voga del Medioevo, trovatori e menestrelli; castelli e monasteri; fate, streghe, geni,  folleti, silfi, spettri, larve; pugnali e veleni; carnefici e patiboli; danze macabre, cadaveri, scheletri, teschi; burroni, valanghe, camosci; brezze e rugiade, bufere e uragani...”. Circa la “gradualità” del rinnovamento, denuncia che “Il Conciliatore” adopera un “pria”; che il Pellico, in una lettera usa ancora “aere” e che lo stesso Manzoni, sempre in una lettera, si lascia scappare “appo” (presso).[67]

Tra gli esiti  discutibili della popolarità nello stile avremo, nel giro di tre generazioni, l’uso del dialetto locale (Giovanni Verga, moderatamente; Fogazzaro, spudoratamente); e il rischio che la metrica si perda nella  improvvisazione del dire. Per ora essa è salva, ma la fiducia data alla immediatezza  e spontaneità, come segno della genialità, sono le premesse per quel libertinaggio metrico che imperverserà nel decadentismo, anche se , a dir il vero,  il cattivo esempio lo daranno due grandissimi poeti, Leopardi, estremamente romantico (totale liberalizzazione della “Canzone”); e Carducci, estremamente classico (“Rime nuove”; “Rime e ritmi”).

 

 

IL COSTUME NELLA CULTURA ROMANTICA.

 

 Denunciamo subito le manifestazioni più studiate: individualismo e soggettivismo, vittimismo e titanismo, patriottismo ed eroismo, corruzione e degenerazioni, alle quali ci limiteremo anche noi.

 

        Soggetivismo ed individualismo.Una volta affermata la predominanza del sentimento sulla ragione, viene a  mancare il criterio universale ed oggettivo di giudizio: come al poeta non si possono imporre leggi nè modelli, così nella vita pratica non esiste nessuna regola morale universale, ma la coscienza di ciascuno diventa criterio insindacabile di azione. Ugo Grozio  (1583- 1645) si era illuso  di poter costruire un “diritto narturale” valido per tutti, con la sola ragione, prescindendo dalla rivelazione ebraico-cristiana; Kanto aveva insegnato che le leggi morali sono quelle sentite dall’individuo come “imperativo categorico”, cioè come obbligazioni detttate dalla coscienza a prescindere da ogni ricompensa; gli “Stuermerunddraenger” hanno compiuto il passo ulteriore: la legge morale è solo quella che la coscienza individua sente come tale. In realtà è la trasposizione trasgressiva dalla attività artistica, dalla vita fantastica ove il sentire del singolo è sovrano, alla  attività esistenziale, alla vita reale, dove sovrana è invece la “natura”  che, derivando da “nascere”, si ritrova già perfetta   al nostro apparire al mondo e non può, perciò, venir  mutata da interpretazioni soggettive. Qui valgono le leggi “naturali”, cioè quelle obbligazioni che derivano dalle tendenze fondamentali della natura[68], che è uguali per tutti, indipendentemente dalla interpretazione della coscienza dei singoli.

E siccome nel sentire della coscienza dei singoli uomini, il finalismo, da noi inteso nell’agire, tende a contare più del valore intrinseco dell’azione ( lo scopo nobile –poniamo patriottico- prevale sulla  criminalità del terrorismo o di una guerra aggressiva), ecco ritornare in campo il machiavellismo, per cui il fine giustifica i mezzi. Non per nulla i romantici italiani esaltarono l’amore del  segretario fiorentino per l’Italia e chiusero un occhio (nonostante gli intenti moralizzatori ed educativi del movimento) sul principio corruttore che sta alla base del suo Principe.[69]

 

        Eroismo e patriottismo. L’individualismo, specie in animi educati al primato della vita spirituale da una famiglia o società religiosamente viva, conduce spesso anche all’eroismo ed allo spirito di sacrificio, di servizio ai più derelitti e di donazione a cause nobili. Tutto il Risorgimento italiano è costellato da un dispiegamento di forza morale che giunge a disprezzare la propria vita ed a metterla a rischio di morte per le due “cause” patriottiche supreme: la libertà  dallo straniero e la conquista dei diritti democratici. Il momento “leggendario” di tale atteggiamento fu la “spedizione dei Mille”, guidata da Giuseppe Garibaldi, con l’apporto di uomini come Nino Bixio, Giacomo Medici del Vascello e di E. Cosenz, che misero assieme più di quindicimila volontari, oltre ai “picciotti” sbucati fuori da ogni parte della Sicilia. Anche i quattro fratelli Cairoli (Ernesto, Luigi, Giovanni ed Enrico) sono degni di ricordo, come i molti carbonari e mazziniani espostisi alle pene estreme per l’amore alla patria.[70]

Ed il patriottismo trovò espressione in molta parte della letteratura romantica. Dopo Alfieri e Foscolo, si incontrano Alessandro Manzoni, Giovanni Berchet, Giacomo Leopardi, Arnaldo Fusinato, Luigi Mercantini, Ippolito Nievo e tutta la serie dei poeti minori della prima metà dell’Ottocento.

In Germani si ha Theodor Koerner (muore a 22 anni, combattendo volontario contro Napoleone: Manzoni gli  dedica l’ode “Marzo 1821”); in Ungheria, Sàndor Petoefi (muore a 26 anni combattendo contro gli Austro-Russi); in Polonia,  Adam Mickiewicz (morto di colera a Costantinopoli nel 1855, mentre preparava reparti d’intervento contro la Russia, nella guerra di Crimea: aveva 57 anni). Si possono qui citare anche musicisti famosi, come Giuseppe Verdi in Italia e Federico Chopin in Polonia.

 

        Titanismo e vittimismo. Affine all’eroismo pratico, è quello teoretico. Si postulano, in questo, personalità faustiane, titaniche, indipendenti dala moralae tradizionale per potersi lanciare in avventure sovrumane, in gesti di forza eccezionali. Ed in spietatezze senza precedenti: il Saint Just (Louis-Antoine-Léon, 1767-94: a fianco di Massimiliano Robespierre fu responsabile del “grande terrore” e fu ghigliottinato alla caduta dell’amico il 9 termidoro, cioè il 27 luglio 1794), il marchese de Sade (Donatien-Alphonse-François, conte detto: 1740-1814) e Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) sono i primi a considerare la pietà (compassione) come una deboleza ed un danno anzichè una virtù. Incarnazione nei paesi latini di tale atttitudine prometeica è solitamente don Giovanni: ebbene, nel Milleottocento se ne hanno tre rielaborazioni poetico-musicali, ad opera di Wolfgang  Amadeus Mozart, Hoffman e Byron. Purtroppo i fatti confermeranno in breve le dotrrine sbandierate. La vita del Byron anticipa le vicende sconcertanti e disgustose dei decadenti alla Charles Baudelaire (1821-76); Hoelderlin si rivela pazzo;  Poe finisce alcoolizzato a 40 anni nel 1849; Thomas de Quincey (1785-1859) scrive nel 1821 le autobiografiche “Confessioni di un mangiatore d’oppio” e nel 1827 “L’assassinio come una delle belle arti”.

Fenomeno inverso del titanismo, ma sempre collegato all’atmosfera romantica, è il vittimismo, cioè il complesso psicologico, per cui una persona si sente perseguitata dalla sfortuna cieca, esclusa da una società ingiusta, destinata a fine penosa. Da “Atala” di Chateaubriand a Jacopo Ortis di Foscolo, da Isabella del Balzo nel romanzo “Marco Visconti” (Tommaso Grossi) ad “Ildegonda”, nella novella in versi omonima (idem).

 

IL ROMANTICISMO ITALIANO

 

LA DATA DI NASCITA

 

Vi sono in realtà date diverse, a seconda che si intenda l’origine di fatto, ma inconsapevole; oppure quella cosciente fino ad essere polemica.

Nella realtà inconscia, il romanticismo nasce in Italia con la prima edizione delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis”,  nel 1802. Prima delle scritture del Leopardi, nessun’opera ha così profondi caratteri della nuova aura letteraria, anche se il Foscolo non sapeva di aver scritto un’opera intonata alla nuova scuola artistica che stava nascendo a Berlino,, attorno ad “Athenaeum” ed ai fratelli Schlegel,  proprio mentre lui (1797) stava stendendo il testo del suo romanzo epistolare.

 Altri[71] pensa che si debba porre la data d’inizio nel gennaio 1809, quando il Foscolo pronunciò la famosa prolusione all’anno accademico dell’università di Pavia  sul tema “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura”. Difatti la visione estetica che egli proponeva come sottofondo ai temi particolari prescelti (origine e ufficio o finalità della letteratura) faceva riferimento alla fantasia come all’unica facoltà poetica. Inoltre,egli rivelava una stima e  passione per gli studi storiografici, che erano molto più peculiari del nuovo movimento che della mentalità illuministica.  D’altra parte, però, si obietta che il Foscolo non volle mai  riconoscersi nel movimento romantico, neppure negli ultimi anni di vita, quando la nuova poetica  si era rivelata non poco affine alla sua  e  la  conseguente produzione letteraria, diffusa sino a dominare ormai la scena italiana ed europea,  molto vicina all’Ortis. In realtà, anche nel discorso di Pavia, il Foscolo non aveva mai rinunciato a collegare l’attività letteraria con la tradizione classica, che doveva incarnare ed esprimere l’affettività intima dello scrittore.

 

GLI  SCRITTI DELLA STAEL E DEL BERCHET(1816)

E’ giocoforza, allora, ripiegare sull’anno 1816, quando si sviluppò un dibattito sulla nuova scuola letteraria, diffusasi dalla Germania da quasi un ventennio, sicchè la assunzione dei nuovi canoni poetici divenne cosciente, fino al punto da scendere in polemica con la tuttora dominante tradizione classica. In quell’anno la “Biblioteca italiana”, che  cominciava ad uscire mensilmente sotto l’egida e la sponsorizzazione del   governo austriaco, pubblicò un articolo di Madame de Stael dal titolo: “Sulla maniera ed utilità delle traduzioni”. La rivista era al suo primo numero e l’autrice al penultimo anno di vita! La Stael invitava gli Italiani ad uscire dallo splendido isolamento della letteratura indigena, per aprirsi alla letteratura europea: era una esortazione ad aggiornarsi. Si noti: alla “Biblioteca” cooperavano, sotto la direzione di Giuseppe Acerbi[72], il Monti, Pietro Giordani, S. Breislak e, dal 1818, Paride Zaiotti[73]. Fu quest’ultimo ad imprimere al periodico la svolta reazionaria in letteratura come in politica. In risposta all’articolo della Stael comparvero vari scritti: alcuni, favorevoli; altri, critici.  Nello stesso anno 1816 comparvero scritti in favore da parte di  Ludovico di Breme[74] col suo discorso “Intorno alla ingiustizia di alcuni giudizi letterari italiani”; di Pietro Borsieri[75], con le sue “Avventure letterarie di un giorno”; e di  Giovanni Berchet con l’opuscolo “Sul –Cacciatore feroce- e sulla-Eleonora- di G. A. Buerger: Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo”: di questo contributo dovremo parlare più a lungo, perchè fu quello che diede la spinta maggiore al sorgere della scuola romantica italiana.  Nel 1818 Carlo Porta scriverà in dialetto “El romanticismo”, mentre Manzoni, dopo lo scherzo in versi riuscitissimi “L’ira di Apollo” (composto 1816-18; edito nel 1829), scrive la “Lettera al marchese Cesare d’Azeglio” nel 1823 (redazione corretta ed edita nel 1870).

Non mancarono i difensori del classicismo. Carlo Giuseppe Londonio[76] (1780-1845), moderato, pubblicò due lavori a sostegno del classicismo e critica delle nuove idee, polemizzando con Ludovico di Breme e con la Stael: “Risposta di un italianao ai due discorsi di Madame de Stael” (1816); “Cenni critici sulla poesia romantica” (1817). Pietro Giordani, pur ardente patriota, dapprima collaborò con la “Biblioteca”, di cui, anzi, fu condirettore (anche il Pellico vi collaborò). Ebbe così modo di rispondere agli articoli della Stael , difendendo il classicismo, di cui fu coerente sostenitore anche con l’esempio di uno stile controllato ed equilibrato.[77] Ma la difesa più ampia ed azzeccata (o, se si vuole, la critica più ragionevole e ragionata alla poetica romantica) venne da un giovane ancor sconosciuto, Giacomo Leopardi. Il suo scritto (“Discorso intorno alla poesia romanica”) non  venne però pubblicato dalla “Biblioteca”, non senza buoni motivi: anzitutto la prolissità, che si perde in una analisi eccessivamente pignola; inoltre, il tono polemico e ingenuamente canzonatorio della controparte; infine, lo stile scialbo e ripetitivo. Ancor oggi si fa fatica a leggere l’articolo. Il che non toglie che alcune osservazioni siano attinenti e trafiggano con troppa esattezza gli elementi estremi del romanticismo. Due, soprattutto: non si può ridurre la poesia a verità, pena il farla coincidere con la filosofia;  i diritti della fantasia vanno, dunque, difesi, tanto più che i romantici, contraddicendosi, propongono la sostituzione del mondo fantastico della mitologia classica con quello, più inverosimila ancora, del mondo germanico.

Il Monti interverrà più tardi ed in versi, in tale “aringo” di nobili intelletti: nel 1825 pubblica il “Sermone sulla mitologia”, in cui sostiene il concetto di poesia come decoro, come illustrazione della realtà, che si ottiene (anche) ricuperando quanto di bello hanno già detto i poeti precedenti (ecco i”modelli”, i “canoni” o regole, ecc.).[78]

La vittoria andò, come sappiamo, al Romanticismo e ciò avvenne, in Italia, specialmente grazie all’opuscolo del Berchet. In esso si finge che un certo Grisostomo, spedisca la figlio (studente in collegio) la traduzione  di due ballate del Buerger[79], raccomandandogli i princìpi romantici come criteri per scegliere le sue letture letterarie. Poesia vera è quelal che nasce dal popolo e ne ha la adesione; che ne interpreta gli ideali e gli stati d’animo. “Popolo” è il ceto medio, posto fra gli “ottentotti” (analfabeti) ed i “parigini” (gli intellettuali sofisticati): quello si deve tener presente, trattando argomenti seri ed educativi (intendeva soprattutto la formazione all’amor patrio, attraverso l’accostamento alla storia), con uno stile semplice, che arrivi al cuore, non lambiccato dalla retorica o dalla mitologia. Erano le idee degli Schlegel, filtrate attraverso Vico, Foscolo, Sismondo de’ Sismondi e la Stael. La “semiserietà” della lettera nasceva dal fingere  un carattere ironico in tutta la lettera, quasi fosse una canzonatura della nuova moda, tanto da terminarla inculcando ancora il classicismo al figlio,  come era sicuro gli stessero insegnando a scuola.

Manzoni, nella lettera al marchese Cesare d’Azeglio, da una parte rifiuta  “la mitologia” in nome della fede: essa è una forma di idolatria (e si è visto che il Foscolo  porta all’estremo, nelle Odi e nelle Grazie, questa tendenza già sviluppatasi nel Millesettecento classico). Rifiuta le “regole drammatiche” ed il canone della classicità come imitazione. Ma, del Romanticismo, non accetta quel “guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, una abiura in termini del senso comune”. Approva invece il canone di adesione alla verità storica e psicologica, che educa dilettando: “Dove poi l’opinioni de’ Romantici erano unanimi, m’è parso e mi pare, che fosse in questo: che la poesia deva proporsi per oggetto il vero, come l’unica sorgente d’un diletto nobile e durevole...”. Ma non era disposto a giurare che gli elementi positivi e costruttivi del movimento fossero così chiari e lampanti, come lo erano le critiche mosse ai classicisti: “Il positivo non è a un pezzo nè così preciso nè così diretto nè sopra tutto così esteso”.

 

IL CONCILIATORE

Dal fermentare di queste idee, nacque “Il Conciliatore”, foglio bisettimanale, in colore azzurro, durato dal 3 Settemre 1818 al 2 Ottobre 1819, quando la censura austriaca lo soprresse. Già il titolo era significativo: esso indicava il confluire di personalità, che si trovavano sì d’accordo su princìpi della poetica romantica, ma non sulla interpretazione della vita e dell’uomo. Si vuol dire che non tutti erano cristiani convinti. Il Manzoni, pur non partecipe direttamente all’inpresa, la seguiva con tutto il cuore ed aveva in Ermes Visconti[80] l’uomo di  collegamento fra quanti erano a lui vicini (oltre il Visconti, Giovanni Torti[81], Gaetano Cattaneo, Giuseppe Arconati, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet  e, talora, Carlo Porta, erano di casa in via del Morone, dove abitava il Manzoni)  e quanti (col Pellico, che era il redattore capo, Pietro Borsieri, Ludovico di Breme, Federico Confalonieri, Luigi Porro-Lambertenghi, che era il finanziatore dell’impresa, Gian Domenico Romagnosi[82])  non condividevano la fede cattolica. Tutti, però, erano patrioti e non riuscirono a nasconderlo abbastanza da farsi tollerare dal governo austriaco che, prima di proibire del tutto “Il Conciliatore”, l’aveva già censurato più di una volta. 

“Il Conciliatore”, accettando l’invito della Stael, segnalò, anche con traduzioni, opere spagnole , tedesche, persino indiane; divulgò conoscenze scientifiche e pedagogiche; ebbe un vivace senso della storia, come strumento per  far conoscere la cultura, anzi la “civiltà” del proprio popolo; e sostenne la necessità che la letteratura servisse a destare l’impegno civile e sociale. Portava come sottotitolo “foglio scientifico-letterario”.

Con loro, nasce la prima delle tre generazioni romantiche in Italia. Ad essa vanno cooptati non solo il Manzoni, caposcuola riconosicuto, ma anche Tommaso Grossi, Giuseppe Giusti, Massimo Taparelli d’Azeglio (genero del Manzoni), [83]Niccolò Tommaseo, Goffredo Maméli, Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo, Giuseppe Gioachino Belli, Vincenzo Gioberti, Luigi Settemrbini, Francesco De Sanctis, Ippolito Nievo, Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Cesare Abba...[84]

 

LA SECONDA GENERAZIONE ROMANTICA

La seconda generazione,  non solo si distingue per l’epoca della fioritura (attorno al 1850)[85], ma soprattutto per lo spirito che la anima. La caratteristica di questa nuova ondata romantica è una ispirazione più intimistica ed un lirismo patetico, agitato. Due sono i rappresentanti principali: Aleardo Aleardi e Giovanni Prati.[86] Vi si potrebbe aggiungere il Tommaseo, per una sua inquietudine interiore, che prevale sul patriottismo nella espressione poetica. Questa corrente romantica sarà quella che il Carducci  avrà specialmente di mira, quando entrerà in polemica, in stile non  propriamente da gentiluomo (più vicino alla   satira ostile di Rabelais che all’umorismo amico di Manzoni), contro il Romanticismo.

 

LA TERZA GENERAZIONE

La terza generazione è costituita da quel “guazzabuglio” che fu la “Scapigliatura[87] e che comprese Emilio Praga (Gorla, Milano, 1839-75), Giuseppe Rovani (Milano, 1818- 1874), Carlo Dossi (Alberto Carlo Pisani Dossi: Zenevredo, Pavia: 1849-1910), Arrigo Boito (padovano, 1842-1918), Camillo Boito (romano, 1836-1914), Igino Ugo Tarchetti (nato a San Salvatore Monferrato: 1841-1869), Antonio Ghislanzoni (Barco di Maggianico –Como- 1824-1893), Giovanni Camerana (Casale Monferrato: 1845-1905).

Quali sono le loro caratteristiche? Essi reagiscono al secondo romanticismo di Prati ed Aleardi,  riprendendo alcuni filoni storico-realistici del romanticismo manzoniano; e svolgono una critica contro il conformismo borghese, accusato di essere ipocrita e filisteo (meschino, egoista). Ma  la loro contestazione fa ricorso frequente ai liquori (assenzio) ed ad altri comportamenti abnormi, scandalosi. Anche la malattia (etisia, specialmente) è sentita come invito alla ribellione  ed alla condotta sbandata, oltre che come tragedia personale, non rasserenata dalla fede  religiosa.

 

GIUDIZIO SUL ROMANTICISMO

 

ASPETTI NEGATIVI.  Negativo è il nostro giudizio complessivo sul fenomeno romantico, visto in rapporto al progresso o regresso  di tutta la storia umana.  D’accordo: se teniamo presente solo il romanticismo manzoniano,  dobbiamo vedere nel movimento una ripresa di valori religiosi, morali, culturali. Ma il “manzonismo” è così poco romanticamente ortodosso, che Gina Martegiani, basandosi sul caposcuola ed i suoi seguaci, ha potuto scrivere nel 1908 che “Il romanticismo italiano non è mai esistito”. Bisogna leggere i libri sia di Mario Praz (“La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica) e di Mario Puppo (Il romanticismo) per accorgersi di quanta decadenza intellettuale e morale sia stata foriera la nuova cultura, a livello europeo.

Il romanticismo nasce, come si è visto, in  complessiva opposizione alla ideologia illuminista, ma in realtà  aggrava  di essa le basi  teoretiche. Anzitutto passa   dal deismo all’ateismo, sia pure sofferto. E’ stato scritto con intuizione felice: “Quello illuministico è un Dio che, dopo aver commesso il misfatto della creazione, si è dato alla latitanza”.[88] Ebbene, i romantici ne han tratto le ocnseguenze peggiori: pur con  dolore, hanno optato per l’ateismo. Sembrano dire: -Di una simile divinità astratta e lontana, non vediamo proprio che cosa farcene; tanto vale liberarci da essa e vivere al riparo dalle sue esigenze e  minacce-. Il romanticismo è la conghia di trasmissione dalla seconda tappa[89] di demolizione del cattolicesmo (1717: rifiuto del Cristianesimo da parte del deismo illuminista e massonico) alla terza (1917: ateismo militante del marxismo sovietico), dopo che Lutero aveva realizzato la prima ( negazione della Chiesa come dimensione sociale della religione).

Ancòra: se nel pensiero illuministico esisteva già la riduzione del principio morale dalla legge oggettiva alla coscienza individua,  questo era fatto valere solo per la “morale personale”: in società  si pensava ancora che esistessero leggi oggettive che la ragione poteva dimostrare valide per tutti (si  ricordi la fede nel “diritto naturale”). Ora, i romantici riconducono alla coscienza  la sorgente di ogni obbligazione morale, anche a livello socio-politico, finendo per professare un “relativismo etico” che condurrà ad attribuire ai vari “parlamenti nazionali” il potere di stabilire il lecito e l’illecito.

Quanto poi alla “gnoseologia” o dottrina del conoscere,  essa è la sorgente di tutte le devianze  e gli errori romantici. Affidando al sentimento il timone del giudizio sulla verità o meno della vita intellettuale e sul bene o male della vita pratica, significava affidarsi ad un pilota orbo in partenza e destinato, nel caso di burrasche emozionali, a divenire cieco, cioè a far prevalere la passione sulla ragione, a lasciar predominare la componente emotiva su quella razionale pur presente nel complesso fenomeno del sentimento. Difatti, il passo dal primato del sentimento nella vita al principio di “spontaneità” nella condotta personale e sociale, anzi nella stessa sistemazione del pensiero (abbiamo cercato di dimostrare come il “divenire” e la “dialettica” dell’idealismo sono figli naturali del sentimento), è ovvio e naturale: è un passaggio “spontaneo”. Ed è da tale spontaneità che nascono tutti i rischi di pensiero ed azione, tradottisi in tragiche realtà in qualche protagonista del movimento e su scala sempre maggiore, sia quantitativa che qualitativa, nelle generazioni  successive,

 ASPETTI DISCUTIBILI.  Lo sono, ci sembra, alcuni  dei motivi ispiratori  per le opere letterarie romantiche, come, ad esempio,  l’uso della mitologia medioevale al posto di quella classica (sia Manzoni che Leopardi ne presero le distanze) o come la moda dei romanzi “pseudostorici”, quali quelli dello Scott. Difatti, i motivi ispiratori non decidono della validità estetica: nel complesso, si  può e si deve dire che una tematica vale l’altra.

Più sconcertante è il pessimismo e la disarmonia del sentire: conseguenza inevitabile dell’assenza di certezze metafisiche (e, perciò, fattore negativo), ma anche sorgente di momenti poetici autentici, di complicazioni emotive sorprendenti (tenerezza, commozione): che è una componente positiva. Nella vita pratica, vi è l’eroismo patriottico che, almeno a livello di intenzioni e di spirito di sacrificio, in molti fu davvero un comportamento ammirevole. Ma, colla nostra mentalità, educata, oltre che dal Vangelo, anche dal Mahatma Gandhi,[90]  potremmo approvare il metodo violento con cui fu fatta la unificazione dell’Italia (e della Germania), quando non erano in questione valori di sopravvivenza fisica o morale (come, invece, in Grecia  e nei Balcani sottoposti al dominio turco), ma solo di benessere politico?  Non ci pare.

 

ASPETTI POSITIVI. Sono  sostanzialmente quelli da noi già esposti nella “Conclusione” all’esame del “Pensiero”: la “esplosione letteraria e musicale”. L’intronizzazione del sentimento a facoltà primaria dell’uomo, non poteva non favorire l’attività artistica, visto che   la dimensione emotiva del sentimento stesso è la componente formale od essenziale dell’attività artistica, cui la ragione subserve come facoltà espressiva.

Anche la cooptazione del quarto stato, il popolo dei poveri, alla dignità di protagonista in molti romanzi in prosa, nonchè  ballate o novelle in versi, è una conquista: ora tutta l’umanità ha il suo posto nell’arte della parola. Le “genti meccaniche e di piccol affare”   diventano  coprotagonisti con Dio nella storia umana, generando quell’“epopea della divina Provvidenza”, che   diventa, così, contemporaneamente “epopea degli umili”[91].

 

 

INDICE ROMANTICISMO.

DEFINIZIONE:                                   pp. 1-4

PREMESSE  (AMBIENTE)                pp. 4-18:   1) Socio-politico-militari: pp. 4-5

                                                                               2) Letterarie straniere:      pp. 5-7

                                                       3)Fondazione e fioritura all’estero:  pp.7-17

IL PENSIERO DEL R.                      pp.17-32:    1) Il primato del sentimento:pp. 18-19    

                                                       2) Senso storico, storiografia e storicismo: 19-23

3)    Spiritualismo e religiosità: pp. 23-26

4)    Individualismo|soggettivismo: pp.26-28

5)    Popolarismo|Nazionalismo: pp.28-30

6)    Il pensiero estetico:        pp. 30-32

7)    Conclusione: esplosione poetico-musicale: 32

SENSIBILITA’ E GUSTO:  pp. 33-4                   1) Disarmonia; 2) Pessimismo

TECNICA STILISTICA:      pp.34-5        

IL COSTUME:                     pp. 36-7                   1) Soggettivismo| individualismo

                                                       2) Eroismo| patriottismo    

                                                       3)Titanismo-vittimismo

IL ROMANTICISMO ITALIANO: pp. 37-41     1) La data di nascita

                                                       2) Stael e Berchet

                                                       3)Il Conciliatore

                                                       4) La seconda generazione romantica

                                                       5) La terza generazione

GIUDIZIO SUL ROMANTICISMO   pp.41-3                     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] In realtà,  ogni grande movimento culturale-artistico-letterario presenta personalità così geniali, che l’accomunarle con  gli altri grandi rappresentanti dell’epoca induce a sottodistinzioni e talvolta a forzature, di cui il Rinascimento è forse l’esempio più clamoroso.   Ma nel Romanticismo, alle solite difficoltà di agglutinare in un’unica struttura culturale   personalità ed opere spesso notevolmente differenti, per ottenerne una definzione soddisfacente, si aggiungono ostacoli peculiari. Un movimento che fa perno sul sentimento, anzichè sulla ragione, come sorgente di verità, di bene e di bellezza, finisce per sfuggire ad ogni precisione e chiarezza. Il sentimento, infatti, prende bensì le mosse dalla ragione ma, comprendendo anche la dimensione animale dell’emozione, tende a disorientare e confondere i concetti da cui  è nato, rendendoli tanto più imprecisi quanto più  prepotente è la carica emozionale. Si prendano i due sentimenti fondamentali della religione e dell’amore (affetto sessuale): tutti intuiscono in che cosa, genericamente, consistono; tutti si debbono meravigliare che essi finiscano nell’avallare un numero senza numero di forme religiose  e comportamenti non solo diversissimi, ma contrastanti (per la religione, l’eroismo del martirio e il fanatismo della guerra santa; per la sessualità, l’estasi e la gelosia, la adorazione e l’assassinio).

[2] Dalla “Enciclopedia letteraria Garzanti”, 1997, alla voce “Romanticismo”. Va aggiunto che fu Herder a usarlo come sinonimo di “medioevale”.

[3] Visto che l’Illuminismo si rivela una forma di “razionalismo”, cioè di uso improprio, sofistico (eccessivo per alcune applicazioni, insufficienteper altre) della ragione, non si potrebbe definire “SENTIMENTALISMO” il romanticismo, vista la centralità in esso del sentimento?. Lo si potrebbe e dovrebbe, se il linguaggio fosse univoco e non equivoco, dettato dalla ragione   e non dall’uso. Nel nostro caso  l’ USO ha prevenuto gli studiosi del fenomeno romantico dando al termine “sentimentalismo” un senso più generale e spregiativo: è definito dai vocabolari, infatti, come  tendenza ad un’eccessiva sentimentalità, cioè ad un comportamento dettato da un eccesso di eomozioni ed insufficientemente controllato dalla ragione. Non si tratta, cioè, dell’atteggiamento intellettuale puro (dare più importanza al sentimento che alla ragione), ma di un modo disequilibrato di gestire l’attività concreta della vita, per la prevalenza indiscreta dello  stato emotivo. A dir il vero, esiste nel Millesettecento una scuola di “sentimentalisti” che vanno da lord of Shaftesbury (Anthony Ashley Cooper, conte di: 1671-1713) a David Hume: essi attrubuiscono al sentimento un potere consocitivo pari a quello della ragione, ma in settori specifici: religione, morale, estetica. I sentimenti (feelings) non sostituiscono la ragione, ma vi si affiancano, come guide sicure in campi particolarmente importanti del conoscere umano, troppo fondamentali per essere soggetti alle incerte indagini e ricerche della ragione! Eppure vi sono almeno due autori romantici he  rischiano di definire la vita o la letteratura  come sentimentalismo.  Li  vedremo  subito nella nota (5).

[4] Eppure il Millesettecento ebbe storiografi di non poca importanza come il Voltaire in Francia (“Le siècle de Luois XIV”: Il secolo di Luigi XIV, edito nel 1751), Edward Gibbon, in Inghilterra (“History of the decline and fall of the roman empire”: Storia del declino e della caduta dell’impero romano, edito fra il 1776 ed il 1788 in sei volumi) e L. A. Muratori in Italia.

[5] Il termine  cultura” ha un senso largo e generale ed uno più ristretto e proprio. Il primo è sinonimo di “attività umana” ed indica l’insieme di espressioni comuni ad una determinata società in una determinata epoca, caratterizzata da qualche fattore peculiare che la distingua da altre culture e la unisca nelle diverse manifestazioni (mentalità o pensiero, gusto o sensibilità, condotta o costume, tecniche espressive per l’arte, l’eleganza, la vita sociale...).  In questo senso ampio, siccome anche l’errore e la colpa sono attività unicamente umane, il presentare l’insieme delle espressioni di una società come “cultura” non è dare un giudizio positivo piuttosto che negativo, ma neutro. In senso stretto e più solito, la “cultura” è l’insieme delle attività intellettuali, delle espressioni filosofiche, letterarie, scientifiche, artistiche, tecniche, cioè di quelle attività che coinvolgono più specialmente la intelligenza che non il libero arbitrio o la volontà interiormente libera dell’uomo (per queste attività si parla più propriamente di “costume” ). Per “civiltà” intendiamo una cultura che contenga dei valori considerati positivi per sempre; il termine, esclusivamente italiano, si applica specialmente a quelle culture antiche che per prime hanno introdotto delle manifestazioni che poi sono risultate fondamentali per le  età successive: la irrigazione, la scrittura, la  estrazione dei metalli dai minerali e le loro leghe (rame, bronzo, ferro...); la costruzione di monumenti architettonici giganteschi come le piramidi o la introduzione dell’arco e della volta nell’architettura; l’inizio di scritti filosofici, storiografici, teatrali, ecc.  E’ chiaro che parlare di “civiltà” per le espressioni di una data società, è darne automaticamente un giudizio di approvazione e di celebrazione. E’ pure chiaro che  sostituire il termine  “civiltà” a quello di “cultura” è operare un tradimento dell’intenzione dell’autore. E’ quello che è  capitato quando, nel 1927, la editrice Sansoni (Firenze) tradusse il titolo neutro “Die Kultur der Renaissance in Italien” di Jakob Burckhardt (del 1860) col titolo “La civiltà del Rinascimento in Italia”: la casa editrice Sansoni, proprietà allora di Giovanni Gentile, attribuì un senso di approvazione al complesso fenomeno preso a studio dallo storico svizzero, contro la intenzione di questi, che aveva voluto solo rappresentarne i molteplici aspetti, fra i quali molti anche negativi. Più difficile è parlare di “civiltà” per epoche recenti, perchè l’aspetto ideologico, che  diviene sempre più centrale, è ancora lungi dall’aver ricevuto un giudizio univocamente positivo. Si parlerà più facilmente, perciò, di una “cultura” che non di una “civiltà” illuministica, romantica, positivistica o decadente.  

[6]  Esiste in Baviera, in un bosco  annesso al Nynphenburg  (la sede di campagna dei Wittelsbach, già re della regione o Land tedesco), una chiesa costruita appositamente fatiscente e  immersa  nella selva, con alberi che quasi vi si addossano, onde realizzare una architettura romantica. Ci si accorge, quando la si contempla sconcertati, che i languori ed i patetismi del movimento romantico fanno a pugni con la stabilità e solidità,  essenziali all’arte architettonica. In realtà gran parte delle costruzioni del Milleottocento, in Occidente, sono ancora di stile (neo)classico.

[7] Che il sentimento sia al centro del nuovo movimento culturale-letterario, è affermato dal famoso detto di Goethe “Gefu”hl ist alles” (“Il sentimento è tutto”); ed è riecheggiato da Ludovico (Arborio di Gattinara, dei marchesi) di Breme nel saggio (a suo tempo famoso) sul “Giaurro” di Georg Gordon Byron, che afferma la sinonimia di “romantico con “patetico”, nel senso di profondamente commosso, cioè caratterizzato dalla “vastità dei sentimenti”. Ccon ciò  il Di Breme esclude che “patetico” coincida necessariamente con “lugubre”, triste, tetro, funereo, melanconico...  Anzi nel secondo articolo sullo “Spettatore”, il Di Breme parla esplicitamente di “sentimentalismo”, in opposizione all’ideologismo (che si lascia sospettare facilmente come il razionalismo illuministico). I due articoli comparvero nel 1818 in volumetto, a Milano, presso l’editore Pirotta. Noi citiamo dalla ristampa laterziana (1975) di una raccolta di documenti del Romanticismo dal tittolo “Discussioni e polemiche sul Romanticismo”, già edito nel 1943 a cura di Egidio Bellorini (cfr. pp. 260, 263, 264). Ne discende che definire il Romanticismo come “sentimentalismo” è  teoricamente corretto, anche se concretamente infelice.

 

[8] Bruno Migliorini, nella “Storia della lingua italiana”, Firenze, Sansoni, 1966, al c. 11, afferma che all’inizio del secolo XIX, quello romantico appunto, solo il 20% ( cioè un quinto) degli Italiani era alfabetizzato.

[9] La Stael morirà l’anno dopo, nel 1817: essa aveva dato inizio anche al Romanticismo francese con la pubblicazione De l’Allemagne (La Germania) nel 1813.

[10] J. Addison incarnò lo spirito della borghesia, cui si doveva la rivoluzione del 1688 contro Giacomo II Stuart,. Fu collaboratore di Roberto Steele al “Tatler” e fondatore, poi, con lo stesso, del famoso periodico “The Specatator” (marzo 1711-12 : riprese le pubblicazioni per sei mesi nel 1714, a cura del solo Addison). Illuminista, ma moderato, diede al periodico un viraggio letterario, filosofico e moralistico, con una vena di ironia amabile che ne costituì la nota artistica.. Fu il modello per Gaspare Gozzi (“Gazzetta veneta| Osservatore veneto” degli anni “Sessanta” ) e dello stesso “Caffè”, dei Verri). In sede morale rappresentò il puritanesimo e, in campo religioso, lo spirito anticattolico (Remarks on several parts of Italy: 1705). Per Anthony Asley Cooper, conre di Shaftesbury (1671-1713), si veda la nota (2) a p. 1: fra le sue opere, ricordiamo Ricerca sulla virtù| Lettere sull’entusiasmo| I moralisti. Per lui il “sentimento” che fonda la morale è un istintivo senso di “simpatia” fra gli uomini.

[11] “Le fils naturel” è una delle due opere teatrali del Diderot (l’altra è “Le père de famille”: 1758). Codirettore, assieme a Jean-Baptiste Le Rond, dit d’Alembert, della “Enciclopédie” vi collaborò con moltissimi articoli. D’altro, lui vivente, oltre le due pièces teatrali e i “Discorsi”, pubblicò solo il primo dei quattro romanzi scritti ( “Les bijouts indiscrets”: 1747), che è il meno interessante (improvvisato in  quindici giorni per cinquanta luigi d’oro). Il suo “Essai sur les régnes de Claude et de Néron uscì l’anno della sua morte (1784).  Ovviamente, però, le recensioni ai “Salons” che iniziano la critica  d’arte moderna, uscirono man mano stampate.  Postumi uscirono gli altri tre romanzi (La réligiuese| Le neveu de Rameau| Jacques le fataliste); “Il sogno di d’Alembert” (Le réve de d’Alelmbert), espressione del materialismo diderotiano, uscirà solo nel 1830, assieme al “Paradoxe sur le comédien” (Paradosso sull’attore). Recente la edizione della sua vastissima Corrispondenza.

 

[13] “Lezioni sulla bella letteratura e l’arte”, “Lezioni sull’arte drammatica e la letteratura”. Di Guglielmo Augusto sono importanti anche le note alle “Elegie romane”  e ad “Hermann und Dorothea” (“Arminio e Dorotea”: idillio in esametri del 1797), di Goethe. Egli tradusse anche da Dante, Calderòn e da Shakespeare (in collaborazione con il poeta L. Tieck ed altri). Dal 1808 al 1817 peregrinò con la Stael in Europa, per diffondere la nuova concezione della poesia. Morta la Stael, egli ebbe la cattedra a  Bonn di storia dell’arte e della letteratura (prima, aveva insegnato ad Jena). La grande cultura nelle lingue e produzione letteraria antica e moderna fa da contrasto alla pochezza del valore  artistico delle sue opere (ballate, liriche, il dramma “Ione”), che d’altronde rivelano un equilibrio notevole tra classicismo e romanticismo, tra regole e spontaneità, non propriamente in sintonia con le sue teorie.. 

[14] Il Wackenroder non fece in tempo a cooperare ad Athenaeum, ma aveva condiviso le idee del gruppo che poi lo avrebbe edito. Nei venticinque anni di vita, scrisse “Herzensergiussungen eines kunstliebenden Klosterbruders”, “Phantasien ueber die  Kunst fuer Freunde der Kunst”.

[15] Ludwig Tieck (1773-1853), oltre che collaborare all’Athenaeum ed alla traduzione di Shakespeare con i fratelli Schlegel, fu autore di romanzi (“Storia del signor William Lovell:1796) e di drammi ispirati al Medioevo (Vita e morte di santa Genoveffa: 1799; L’imperatore Ottaviano: 1804), ma trovò la sua misura migliore di arte nelle “Novelle”, spesso di argomento medioevale o di impostazione fiabesca ( Il biondo Eckbert| Il fedele Eckart| Il gatto con gli stivali| Il principe Zerbino). Più tardi egli si avvicinò ai Biedermeier (scrittori della prima metà del Milleottocento, caratterizzati da sentimentalismo ed intimismo e dalla satira bonaria verso il mondo piccolo-borghese), dando ancora opere pregevoli, come le novelle “Il fidanzamento” e “L’erudito”;  una storia gentile d’amore (Il superfluo della vita: 1839) ed un  romanzo di ambiente rinascimentale: Vittoria Accorombona (1840).

[16] Il von Arnim scrisse il “Des Knaben Wunderhorn” (1806-8: La cornucopia del fanciullo), raccolta di canti popolari tedeschi che, senza avere il valore filologico delle  raccolte dei Grmm, esprimevano però l’entusiasmo per i valori di cristianità e di popolarità medioevale (germanica, in questo caso) propri del romanticismo; lasciò incompiuto il roamnzo “Die Kronenwaechter” (I custodi della corona:  1857); e numerosi racconti, dei quali si ama ricordare specialmente “Isabella von Aegypten” “per il complicato intreccio e per una sorta di anticipazione del surrealismo” (Encicl. d. lett. Garzanti, 1997).

[17] Il Brentano era figlio di un commerciante italiano. Nato presso Coblenza, soggiornò a Jena tra il 1798 ed il 1800: ivi strinse amicizia con il gruppo dei primi romantici e con il von Armin. Ebbe vita familiare infelice, per la morte dei tre figli e della stessa moglie con l’ultimo; anche un secondo matrimonio fallì. A Berlino partecipò al moto antinapoleonico con Armin, Heinrich von Kleist e A. H. Mueller e conobbe la poetessa Luise Hensel che lo riavvicinò al cattolicesimo, sicchè passò cinque anni  (1819-24) al capezzale della monaca stigmatizzata Caterina von Emmerich, descrivendone le visioni (“Das bittere Leiden unseres Herrn  Jesu Christi”: 1833) e passò gli ultimi anni in una intensa attività di apologeta della fede. Incominciò a scrivere ad Jena, nel clima di romanticismo surriscaldato: il suo romanzo “Godwi” (1801) è definito “bizzarro ed esuberante” , sebbene contenga liriche di valore: la più nota è la balata della Loreley. Assieme alle liriche, le sue cose ritenute più suggestive sono la rielaborazione delle fiabe del Pentamerone (G.B. Basile) e le “Fiabe del Reno” (2Rheinmaerchen”), edite nel 1846-7, dopo la sua morte. Ma anche la commedia d’ambiente spagnolo   “Ponce de Leon” (1804) è piena di humour e di garbata  ironia. Assieme al von Armin pubblicò La cornucopia del fanciullo. Del 1815 è il poema drammatico “Die Gruendung Prags”; del 1817 i racconti, di cui si ricorda più volentieri la “Geschichte vom braven  Kasperl und dem schoenen Annerl” (Storia del valoroso Gasparino e della bella Annetta”). Incompiuto rimase “Chronika eines fahrenden Schueler”, del 1818: Cronaca di uno studente vagante.   

[18] Jakob Ludwig Karl (1785-1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859) collaborarono nella pubblicazione delle “Deutsche Sagen” (Leggende tedesche: 1816-8); e delle Fiabe (“Kinder- und Hausmaerchen”: 1812-22), raccolte dalla viva voce del popolo. Come teorico, domina invece Jakob, il maggiore, cui sono da attribuirsi la Deutsche Grammatik (1819-37), la Geschichte der Deutschen Sprache (1848: “Storia della lingua tedesca), la Deutsche Mitologie (1835) ed il grandioso Deutsches Woerterbuch (vocabolario in 32 volumi: 1852-61). A lui va attribuita la scoperta della prima “Lautverschiebung” (spostamento dei suoni) nelle lingue indoeuropee (legge di Grmm). Egli fu sostenitore dello “spirito poetico” di un popolo, cioè della anonimità di molte poesie, quasi prodotte dal popolo come tale (Omero, Chanson de Roland, ecc.): un mito che sarebbe durato sino all’inizio del secolo XX.

Adalbert von Chamisso. A parte il suo “viaggio intorno al mondo” (Reise um die Welt: 1836) ed i suoi interessi scientifici (fu direttore dell’Orto botanico di Berlino), egli deve la sua fama al romanzo surrealista del 1814 “Peter Schlemihls wunderbare Geschichte” (La meravigliosa storia di P. S.): in esso è adombrata l’amarezza del suo sentimento patriottico, diviso fra patria di origine (Francia) e di adozione (Prussia); e il senso di solitudine, per la sua vita di sradicato, di uomo dedito unicamente alla poesia. Naturalmente tali sentimenti sono anche lo specchio della situazione  di tutti gli uomini, come sono concepiti dal Romanticismo  europeo, cioè della insoddisfazione  esistenziale che nasce dalla incapacità di credere religiosamente e, quindi, di dare un senso alla vita. E’ degno di nota che lo stile riequilibra l’opera attraverso una certa dose di realismo e di umorismo. Ma anche le sue poesie  (“Gedichte”: edizioni del 1831 e 1841) ne salvano la fama: alcune ballate (“Salas y Gomez”; “Die alte Waschfrau” –la vecchia lavandaia) hanno una notevole efficacia drammatica, mentre molti Lieder (canzoni) hanno eccezionali doti di grazia musicale (Deutsche Volkssagen –Leggende tedesche-; Das Schloss Boncourt, rievocazione autobiografica della nativa Champagne; il ciclo “Frauenliebe und Leben” è stato musicato da Robert Schumann).

Ernst Theodor Amadeus Hoffmann fu scrittore e musicista. Dopo una poco riuscita carriera giudiziaria (intrapresa, nonostante le sue inclinazioni musicali, artistiche ed.... alcooliche), col 1814 iniziò la sua  vicenda letteraria. Incontrò Chamisso e Friedrich Heinrich Fouqué e si dedicò a scrivere racconti che risultano fra i più misteriosamente originali e suggestivi di tutta la letteratura europea. Nella sua vita pratica, strano era già stato. “Ritter Gluck” (Il cavaliere Gluck) del 1808, seguìto dai primi frammenti del ciclo Kreisler (un compositore e direttore d’orchestra immaginario che impersona l’autore), col titolo “Johannes Kreislers, des Kapellmeisters, musikalische Leiden” (Le sofferenze musicali del direttore d’orchestra J. K.) sono degli schizzi, appunti, fantasie di un musicista che sa  la virtù purificatrice, redentiva e le vertigini  seducenti, corruttrici della musica. Nel 1815 uscirono “Famtasiestuecke in Callots Manier” (Fantasie alal maniera di Callot), fra le quali emerge “Der goldene Topf”, ove streghe e forze preternaturali sono all’origine della perdita dello studente Anselmo. Dello stesso 1815 è il romanzo “Die Elixire des Teufels” (Gli elisir del diavolo), dove frate Medardo, che ha bevuto uno strano elisir,  è soggetto a strani innamoramenti, sdoppiamento di coscienza attraverso un sosia, fenomeni di follia e telepatia, sostituzioni e salvataggio dal patibolo...) Del 1817 sono i “Nachtstuecke” (Notturni), tra i quali è compreso “Der Sandmann” (L’uomo della sabbia o Mago Sabbiolino), uno dei racconti più angoscianti. “Die Serapionsbrueder”  (I  fedeli di San Serapione: accennano al club dell’autore con Chamisso e Fouqué a Berlino) è una raccolta di novelle a cornice del 1819-22, che comprende il capolavoro “Rat Krespel” (Il consigliere K., ove è dato incontrare fusione fra patetico e grottesco, allucinazione ed ironia) e, inoltre, Das Fra”ulein von Scudéry  (Madamigella di Scudéry). Sul compositore Kreisler, Hoffmann ritorna con “Lebens Ansichten des Katers Murr nebst fragmentarischer Biographie des Kappellmeisters Johannes Kreisler” (1820-2: Punti di vista e considerazioni  del gatto Murr sulla vita nei suoi vari aspetti  e biografia frammentaria del maestro di cappella J. K.). Del 1821 è il racconto “Prinzessin Brambilla”; del 1822, l’anno della morte, “Meister Floh” (Maestro Pulce). In Hoffmann, i valori della vita vengono capovolti: l’irreale, l’allucinante, il sortilegio, il magico, il folle, l’inverosimile diventano norma di vita. Forse dovute anche alle frequanti ubriacature, comunque le fantasie impossibili di Hoffmann trovarono ammiratori e seguaci (Edgar Allan Poe, Charles Baudelaire, Charles Nodier, Honoré de Balzac e persino il giovane Fiòdor Michailovic Dostoievski).

Joseph Karl von Eichendorff incontrò Arnim e Brentano ad Heidelberg e Friedrich Schlegel  a Vienna. I “Tagebuecher” (Diari) documentano questo periodo di apprendistato poetico (1808). Il romanzo “Presentimento e presenza” (Ahnung und Gegenwart: 1815) è ambientato nella Germania che si prepara alle guerre antinapoleoniche. “Das Marmorbild” (La figura di marmo) è un racconto imbevuto da un senso quasi pagano della natura. Il suo capolavoro  “Aus dem Leben eines Taugenichts” (La vita di un buono a nulla: 1826) ci offre l’ideale di vita come lieta Wanderschaft, senza meta nè scopi: il protagonista abbandona famiglia e mulino, per vagabondare fra musica, amore e nostalgia, entro un paesaggio consenziente, idillico, armonioso. Come si vede, Eichendorff non partecipa del pessimismo e della tristezza romantica: è sereno come un mitico incosciente pagano, al di qua del bene e del male. La commedia “Die Freier” (I pretendenti: 1833) e il romanzo “Dichter  und ihre Gesellen” (La poetessa e i suoi compagni) offrono occasione per ironia sulla vita di goliardi ed artisti, liberi e libertini cittadini del mondo. Ma la grandezza di Eichendorff sta soprattutto nelle opere in versi: i suoi “Lieder” sono fra i più belli della letteratura tedesca e celebrano la misteriosa armonia fra sentimenti e natura, nonchè le gioie pseudoreligiose della vita immediata dei sensi e della spontaneità.

Di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher, avremo modo di parlare più avanti.

[19] Samuel Taylor Coleridge ebbe una intelligenza aperta anche ai problemi filosofici, ma un sovrappiù di fantasia. Visse una esistenza romantica, in quanto fu tormentato da malattie, si diede al vizio dell’oppio e finì con la separazione dalla moglie e la solitudine.  In gioventù  ipotizzò una conciliazione di materialismo, platonismo e cristianesimo  e prese posizioni radicali in sede di politica; nell’età adulta  approdò alla fede anglicana ed al conservatorismo politico. Fu il teorico principale del romanticismo inglese: egli studiò il rapporto fra intelletto, fantasia e volontà, dimostrando interesse  per una visione organica della estetica.  Ma naturalmente egli ci interessa soprattutto come poeta e scrittore. Nel 1796 pubblicò “Poems of various subjects” (Poesie su vari argomenti).  Col Worsworth collaborò alle “Lyrical ballads” del 1798: tra quelle scritte da lui, la migliore è quella del vecchio marinaio (“The rime of the ancient mariner”: è la composizione più romantica della collezione); a questa vanno aggiunte “Kubla Kahn| Christabel| Ode to dejection” (ode allo scoraggiamento). Per suo conto pubblicò ancora, in versi, “Christabel” (1816) e “Sybilline leaves” (foglie sibilline: 1817). Tra le opere in prosa, la migliore è “Biographia literaria” che conferma la versatilità e stranezza della sua mente, “che spazia con estrema agilità dall’estetica alla metafisica” (Encicl. d.lett. Garzanti, 1997). Altre opere in prosa: conferenze su vari poeti inglesi (Shakespeare, Milton...); “The statesman’s manual (Il manuale dello statista: 1816); “Aids to reflection” (Aiuti alla riflessione: 1825).

[20] Thomas Carlyle, fu soprattutto uno storiografo. Calvinista scozzese, abbandonò la carriera ecclesiastica per  lo studio della letteratura e della filosofia, ma mantenne una visione strettamente religiosa (anzi “teistica”) e moralistica della vita, che cercò di conciliare con l’idealismo tedesco.  Nel 1833 uscì con il romanzo “Sartor resartus” (zibaldone autobiografico e allegorico, intriso di forte satira), dopo di che scrisse unicamente libri di storia, interessandosi della rivoluzione farncese, di Oliviero Cromwell, di Federico II di Prussia, ma con meno preoccupazione della obiettività e documentazione dei fatti che del loro valore ed insegnamento morale: egli è un profeta di stampo biblico, che evoca gli avvenimenti storici con una carica di partecipazione emozionale e con una eloquenza avvincente. Alcuni studi sono sul significato generale dei protagonisti e delle vicende storiche: “On heroes, hero-worship and the heroic in history” (1841: Gli eroi, il mito degli eroi e l’eroico nella storia); “On past and present” (Passato e presente), ecc.

[21] Per P. B. Shelley, v. Neoclassicismo. Quanto a G. G. Byron, fu figlio di padre dissoluto ed ebbe un temperamento infelicissimo che, non  corretto da un’educazione morale nè compensato da una fede religiosa, lo trascinò in una vita avventurosa: dovette ritirare dal mercato il suo primo libro (“Fugitive pieces”, Brani fugaci: 1806), per lo scandalo suscitato;  viaggiando, dalla Spagna all’Oriente negli anni fra il 1807 ed il 1812, in cerca di libertà maggiori che non in patria, divenne famoso con la pubblicazione dei primi due canti del poema “Childe Harolds’s pilgrimage”: Pellegrinaggio del giovane Aroldo: 1812) e di altri due poemi (The giaour: Il giaùrro, 1813) e “The corsair” (Il corsaro: 1814) Si sposò nel 1815, ma la moglie lo  lasciò dopo un anno, con  orrore della società londinese (si parlò di una relazione incestuosa con la sorella!). Abbandonò allora definitivamente l’Inghgilterra e, dopo aver soggiornato in Svizzera, Venezia e Ravenna, con una produzione poetica notevole, fu attratto dalla causa di indipendenza greca e volle aiutarla, seguendo una spedizione a ciò destinata: ma le febbri malariche lo stroncarono a Missolungi (1824). La sua produzione poetica può essere divisa in due periodi: quello romantico, fino al 1816; quello comico-satirico che prevale negli ultimi anni, ad imitazione die poeti italiani del Millequattrocento (Luigi Pulci, soprattutto). “Hours of idelness” (Ore d’ozio) è una raccolta di versi del 1807; dopo “Il Giaùrro” ed “Il corsaro”, comparve “Parisina” nel 1816; i libri  terzo e quarto del “Pilgrimage” del giovane Aroldo furono pubblicati nel 1816 e 1818; ancora seri e romantici sono i drammi “Manfredi” (1817) e quelli in versi “Cain” (1822) e “Werner” (1823). La vena burlesca, fra  il divertimento e la satira, era già esplosa in gioventù contro la recensione negativa della “Edinburgh review” ai suoi versi di “ Hours of Idleness”: egli vi scagliò contro il poema satirico “English bards and scottish reviewers”: Poeti inglesi e critici scozzesi: 1809). Pura satira ricomparve nello stroncamento del poeta romantico Robert Southey, amico del Coleridge  e del Wordsworth) nel 1822 (“A vision of judgment”: La visione del giudizio).  Ma l’accostamento al Morgante del Pulci lo indusse a scrivere anche cose grottesche, per puro diletto, sebbene sempre compaia la zampa del leone: nacquero così Beppo (1818), Mazeppa (1819), “Don Juan” (don Giovanni: 1819-24). Quest’ultimo lavoro ha anche momenti epici e grotteschi.

[22] Walter Scott, poeta e romanziere scozzese, tradusse dapprima ballate di Buerger e di Goethe, poi  pubblicò antiche canzoni popolari  (Canti giullareschi  della frontiera scozzese: “The minstrelsy od the Scottish border”: 1802-3). Il successo del poemetto narrativo Il lamento dell’ultimo menestrello (“The lay of the last ministrel”: 1805) gli permise di lasciare la carriera forense  e di vivere come signorotto feudale, scrivendo e guadagnando anche come socio dei suoi editori. “Waverley” è il primo dei romanzi d’ambiente  scozzese (1814) e fu un altro successo. Ma l’improvviso fallimento degli editori lo coinvolse nei debiti e fu costretto ad  un’attività letteraria logorante per pagare i creditori. Malato di cuore, morì a soli 61 anni. Aveva fatto un viaggio sul continente ed aveva incontrato anche Manzoni. Alla protesta del “gran lombardo” che lui, lo Scott, era il vero autore del suo “romanzo storico”,  l’inglese rispose: “Allora i P. S. sono il più bel romanzo che io abbia mai scritto!”. Numerosissime le opere pubblicate. In versi, i poemi epico-lirici: “Marmion” (1808) e “The lady of the lake” (La signora del lago: 1810), collegate alla materia delle antiche ballate. In prosa, sta la serie dei romanzi pseudostorici di materia scozzese: “Guy Mannering” (1815), “Old morality (1816: tradotto  “I puritani di Scozia”), “The antiquary” (L’antiquario: dello stesso anno),  Rob Roy (1817), The heart of Midlothian (1818: Il cuore di M.), “The bride of Lammermoor” (1819. La sposa di L.), The legend of Montrose” (1819: La leggenda di M.). Benchè ambientato in Inghilterra, al tempo di Riccardo Cuor di Leone e delle crociate, ha lo stesso spirito anche il famosissimo “Ivanhoe” (1820): questo, assieme al successivo “Quentin Durward” (1823: ambientato nella Francia di Luigi XI), lanciò la moda del “romanzo storico”, nel quale erudizione “antiquaria” e fantasia si danno la mano. Seguirono “The monastery”, (1820) “The abbot” (L’abate:  dello stesso anno: entrambi sono ambientati all’epoca di Maria Stuarda), “Kenilworth” (1821: epoca di Elisabetta d’Inghilterra), The fortunes of Nigel (1822: Le avventure di N. : epoca di Giacomo I). Di ambiente scozzese è di nuovo “The redgauntlet” (1824); di ambiente moderno e tragico è “St. Roman’s well” (Il pozzo di S. Romano: id.). Si ritorna all’età di Riccardo Cuor di Leone ed in  Terra santa con “The Talisman” (1825). Dopo la rovina finanziaria del 1826, egli dovette produrre romanzi a getto continuo per far fronte agli impegni capitatigli addosso. Scrisse anche una impegnativa “Life of Napoleon” (1825: Vita di N.: 9 volumi). Egli divulgò gli aspetti più esteriori del Romanticismo: amore della storia medioevale, dello spirito nazionale, del folclore locale, del pittoresco e dell’esotico. Evitò gli aspetti tormentati e misteriosi della sensibilità romantica e le componenti macabre e terrificanti, facendosi amare per il senso dello humour e il realismo di spiegare il misterioso surreale (soprannaturale!) con il groviglio di circostanze normali. Ragionevolezza e buon senso che lo aiutano a diffondere “il più innocente piacere” (Wordsworth), mentre sono elementi discussi lo stile (spesso sciatto),  le situazioni (ripetitive), la psicologia (non inverosimile, ma superficiale). Oltre che offrire uno spunto al Manzoni (che si fece leggere Ivanhoe tradotto in francese, mentre era a Parigi nel 1820-1) stimolò anche l’ispirazione di Alexandr Sergeevic Puskin.

[23] William Wordsworth,  nato nel Cumberland, sentì il fascino della natura in cui visse fino alla giovinezza (distretto dei Laghi). Egli che rimane uno dei poeti inglesi più grandi, si trovò, dopo la laurea, in Francia  nel 1792 e rischiò di  venirne coinvolto (simpatizzò per i Girondini, ma  fece anche in tempo a divenire un fervente seguace del compatriota William. Godwin, sostenitore del comunismo anarchico ), se non fosse stato richiamato perentoriamente in patria dagli zii tutori (era rimasto orfano di padre e madre molto presto). Nel 1795 si incontrò col Coleridge, stabilendo con lui un sodalizio leggendario: il Wordsworth riuscì a dargli una carica di umanità e realismo, che stabilizzasse almeno in parte l’umanità traballante di lui; il Coleridge lo compensò facendogli intuire la sua vocazione poetica e dandogli direttive estetiche di stampo romantico. Il sodalizio, dopo l’annus mirabils del 1797-8 che vide la composizione ed edizione delle Lyrical Ballads, finì per interrompersi nel 1815: a parte la differenza dei temperamenti (concreto e razionale quello di W., fantastico e confuso quello del C.), stava la deriva di questi verso l’alcool e la droga. Wordswoeth, più ancora di Coleridge, finì conservatore; fu impiegato statale e fu proclamato poeta laureato. Dopo aver iniziato con moduli settecenteschi (“An evening walk”: Una passeggiata serale| “Descriptive sketches”, Scene descrittive: 1793), si rese, dunque, famoso pubblicando le “Lyrical Ballads” (sono in blank verse, cioè senza rima; diciannove sono sue, fra cui  famosa è “Lines written above Tintern Abbey”: L’abbazia di Abbey). E’ il “manifesto” del Romanticismo inglese. Scrisse il poema autobiografico “The prelude” (completato nel 1805, ma edito postumo), che doveva servire da Introduzione al poema filosofico “The recluse”, di cui pubblicò nel 1814 una parte (“The excursion”). Tra le altre poesie, importanti sono quelle intitolate “Poems in two volumes” (1807: Poesie in due volumi): vi si trovano composizioni famose , come “Ode to immortality” (Ode all’immortalità), “Ode to duty” (Ode al dovere), “The solitary reaper” (La mietitrice solitaria) e “The white dove of Rylstone” (La bianca colomba di R.). Quest’ultima è il primo esempio della maniera tardiva del W. (quella degli “Ecclesiastical sonnets”: 1821-2): è poesia narrativa, divisa in sette canti. Innovatore nei motivi ispiratori come l’amico Coleridge, a lui è dovuta specialmente la innovazione del linguaggio della poesia: senza di lui non  ci sarebbe stata la poesia moderna inglese. Questo dipese dalla maggior concretezza delle definizioni di poesia rispetto al romanticismo continentale: al termine “sentimento” egli sostituisce   quello di “emozione”., definendo la propria poesia come “emozione rivissuta in tranquillità” e avvicinandosi molto alla perfetta definizione di “arte” (solo la precisazione di  “tranquillità” è ciò che vi si desiera, sebbene se ne possa intuire il distacco dalla passionaalità della vita pratica).

[24] E.A. Poe, figlio di attori girovaghi ed orfano presto di madre, lasciato dal padre ad un ricco mercante (John Allan, onde il suo secondo cognome, anche se egli non fu mai ufficialmente adottato). Interruppe  presto gli studi all’università; fu espulso dalla accademia militare di West Point, dove si era iscritto illudendosi della sua adattabilità alla carriera militare; sposò nel 1836  una cugina non ancor quattordicenne, che gli premorì dopo undici anni, aggravando la sua solitudine ossessionante e, di conseguenza, la sua schiavitù all’alcool; economicamente sempre in difficoltà, fu trovato privo di sensi in una strada di Baltonora e morì pochi giorni dopo all’ospedale, con delirim tremens. Scrisse il romanzo “Gordon Pym” e, sulla scia di Hoffmann, è famoso per   “Tales” (racconti) del terrore, metafisici, polizieschi, dell’orrore, del mistero, del  grottesco, dell’arabesco (il capolavoro, in materia, è “Lo scarabeo d’oro: The gold bug”). A parte trascurabili scritti teorici sulla poesia (“The rationale of verse”: Fondamento del verso| “The philosophy of the composition”: La filosofia della composizione, ecc.), rimangono due raccolte di versi (byroniana quella  giovanile: “Tamerlane and other poems”; più riuscita la tardiva “The raven and other poems” che lo rese famoso: 1845).

[25] Madame de Stael, figlia del banchiere ginevrino JacquesNecker, chiamato da Luigi XVI come ministro delle finanze nel 1788,  aprì nel 1797 un famoso salone politico-letterario, in rue de Bac, a Parigi, da cui si ritirò durante gli anni napoleonici (si veda  “Dix années d’exile”: postumo, 1821), stabilendosi presso Ginevra e  viaggiando in Germania, in Italia., in Inghilterra ed in Russia. Si ristabilì a Parigi, una volta caduto Napoleone. In realtà essa non fu una grande scrittrice nè ebbe una grande mente filosofica: De l’Allemagne  rivela  il valore di Novalis, accanto a quello di Goethe e di Schiller, ma tratta con superficialità di Kant, Fichte, Schelling, non intuendo la svolta gnoseologica e metafisica  della loro filosofia. Ebbe, però,  prontezza ad intuire il valore dei nuovi poeti (Novalis, ad esempio) e le urgenze dei problemi  antropologici (letteratura, morale, politica: “Delphine” tratta della condizione della donna, precorrendo i movimenti per la sua promozione; un’altra sua opera, del 1813, tratta del suicidio: “Considérations sur le suicide”); chiarezza  nel coglierne le idee di fondo e capacità di ridurle a semplicità e ragionevolezza, così  che venissero prontamente comprese e condivise dall’opinione pubblica (che è la vocazione, nel bene e nel male, della Francia di fronte alle complesse e spesso confuse proposte  del mondo germanico, in sede filosofico-ideologica).

I suoi primi contributi alla storia letterario-filosofica sono di stampo  illuministico: “Lettres sur les écrits et le caractère de J.J. Rousseau” (Lettere sugli scritti ed il carattere di J.J.R.: 1788);  “De l’influence des passions sur le bonheur des individus et des nations” (Dell’influenza delle passioni sulla felicità degli individui e delel nazioni: 1796). Le vicende della Rivoluzione e di Napoleone la  indussero a scrivere “Considérations sur les  principaux événements de la révolution française” (Considerazioni sui principali avvenimenti della r. f.: edito postumo), dove confluiriono molti dei princìpi che avevano occupato gli scritti del periodo napoleonico: essa opta per un sistema liberale  di tipo inglese. La sua fama fu dovuta a due romanzi di carattere autobiografico: “Delphine” (Delfina: 1802), che accusa il trattamento della donna, schiacciata da condizionamenti emarginanti; e “Corinne ou l’Italie” (Corinna o l’Italia: 1807), frutto del viaggio in Italia e degli incontri col Monti, il Pindemonte, il Cesarotti, il Canova e P. Verri. La trama d’amore è poco più che un pretesto per descrizioni  di paesaggi e di opere d’arte, romanticamente sentite e  presentate. Ben più importante, ovviamente, risultò l’altro lavoro, “De l’Allemagne”, prima opera di esposizione e diffusione  dei princìpi romantici nell’Europa latina. Nelle quattro parti, essa dapprima mette a confronto le diverse concezioni di amore, onore, cultura; poi, espone le  concezioni estetiche di Lessing, Goethe, Schiller e Novalis (la parte più riuscita); quindi espone come può le idee di Kant, Fichte e Schelling; infine espone riflessioni sui rapporti fra cultura e vita morale. Pur in assenza di originalità nelle idee, il libro ebbe risonanza meritata per la chiarezza con cui l’autrice raccoglie in un sistema ordinato i princìpi più ovvi del romanticismo (no alle regole, sì alla spontaneità, sì alla fantasia, sentimento e passionalità, sì all’arte popolare e, quindi, al Medioevo come luogo di formazione dei popoli europei). Sulle discussioni che essa suscitò nel 1816 in Italia con la pubblicazione, nella “Biblioteca italiana”, dell’articolo “Sull’utilità delle traduzioni” (con cui si fa iniziare il movimento romantico italiano)  parliamo nel testo.

[26] Veramente il Leopardi mandò due scritti di polemica antiromantica: “Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca italiana” e  “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”. Nessuno fu pubblicato, anche per la loro prolissità. Eppure, nel secondo scritto, il giovanissimo poeta aveva individuato i due maggiori equivoci della “poetica romantica”.  Ne dovremo riparlare.

[27] Lo Chateaubriand nell’ “Itinéraire de Paris a Jérusalem (Itineario da Parigi a Gerusalemme: 1811) si dimostra descrittore interessante e vivace e si rende capocordata di molti scritti sull’Oriente, che diventa un soggetto letterario di moda. Nei “Mémoirs d’outre-tombe” (Memorie d’oltretomba: 1848-50) narra la sua vita come se già fosse morto, con impeto lirico di partecipazione appassionata, specie là dove è in gioco la sua fede e religiosa e politica (era un conservatore di coerenza inesorabile) o dove la sua sincera ammirazione ha occasione di esprimersi per uomini e avvenimenti eccezionali. Egli scrisse anche “La vie de Rancé”, la biografia di una religiosa del Milleseicento, che gli offre occasione per rintraccciarvi molte linee della sua personalità, vita, illusioni e delusioni. Anche l’autobiografismo fa parte dell’aura romantica, come  testimoniano le molte autobiografie dell’epoca.

[28] Vicino al classicismo ed al razionalismo rimase Charles-Augustin de Saint Beuve (1804-1869), nonostante la sua amicizia con V. Hugo e la giustificazione del romanticismo come vicino alla Pléiade e, quindi, dentro nel filone della tradizione letteraria nazionale. Scarso è il suo  valore come poeta e romanziere, mentre ebbe un successo straordinario nella critica storico-letteraria, fino ad  esser chiamato a  far parte dell’Accademia di Francia. Egli, però, è più un finissimo psicologo ed un informatissimo sociologo che un vero critico d’arte: egli fa rivivere un’epoca ed un personaggio, ma non  non punta a definire la poesia nell’opera di uno scrittore. Henry Beyle, detto “Stendhal” (1783-1842) non è scrittore romantico, ma precursore del realismo: non è, dunque,  qui il luogo per parlarne.

[29] Alphonse Lamartine di famiglia benestante, dopo gli studi soggiornò a Napoli, che gli lasciò un’impronta decisiva per la sua opera letteraria ( 1813: Le golfe de Baia”; 1849: “Graziella”) e vita sentimentale. A Napoli ritornò,  quando intraprese la carriera diplomatica, che gli permetteva vita mondana ed amori, facilitati dal suo fascino personale. Dopo un soggiorno diplomatico a Firenze,  volle passare alla carriera politica, dopo essersi sposato con la inglese Elisa Birch. Entrò allora, verso il 1830, in quella crisi di spiritualità di cui si è detto e che procurò i versi migliori dello scrittore nelle opere citate. Eletto deputato, Lamartine tenne una linea liberaleggiante, ma con forti interessi sociali: al discorso sulla libertà di stampa, vanno accostati quelli  sulla pace universale e sui trovatelli. Con l’opera  “Histoire des Girondins” (1847: Storia dei Girondini) egli vuol riabilitare i fondatori della repubblica, padri della nuova Francia. Appoggiò la repubblica del 1848, entrando nel suo governo e finendo così emarginato da Napoleone III. Dovette, allora, scrivere per guadagnarsi da vivere, lui che era vissuto di rendita nella sua giovinezza. Il “Cours familier de littérature” (1859-69) fu scritto nel silenzio dell’emarginazione.

[30] Alfred de Vigny era un nobile ed aveva intrapreso la carriera militare. La tensione ortosimpatetica, che noi sospettiamo dai suoi scritti in prosa, lo  predisponeva alla forma espressiva del dialogo-dibattito sulla scena, anche se lo precludeva dalla dolcezza della musicalità e del linguaggio. La prosa dei racconti (le tre novelle edite col titolo “Stello” (1832: uno dei tre racconti diverrà  la tragedia “Chatterton”);  di  “Servitude et grandeur militaire”: 1835), dei  romanzi (“Cinq Mars” –Il Cinque marzo-) e del diario (“Le journal d’un poète”: 1867), resta limpida,  precisa, ma austera e fredda. Si è accennato alla ambivalenza anche della vita pratica: nel 1830 non seppe decidersi tra la fedeltà alla casa regnante e le tendenze umanitarie e solidaristiche; in séguito si accostò alle idee di Saint-Simon e del cristianesimo sociale di Hugues-Félicité-Robert de Lamennais e nel 1848 si decise per il liberalismo e la repubblica, ma fu bocciato alle elezioni. Si ritirò allora nella tenuta avita di Maine-Giraud, attendendo agli studi ed alla moglie ammalata (aveva abbandonato l’amante Marie Durval). Anche sul piano letterario la sua indecisione del 1830 finì per fargli rompere l’amicizia con V. Hugo, al cui cenacolo romantico si era avvicinato. Quanto al teatro, oltre Chatterton, scrisse “La maréchale d’Ancre” (1831: La marescialla d’Ancre) e l’atto unico “Quitte pour la peur” (1833: Cavarsela con un po’ di paura).

[31] Alfred de Musset, di famiglia benestante, si rifiutò di laurearsi in nome della propria vocazione poetica. Ma finchè visse il padre (1832) la letteratura gli serviva solo come passaporto per salotti mondani e relazioni amorose. Dopo i vent’anni la letteratura divenne per lui sorgente di guadagno e dovette lavorare con impegno. Aveva tradotto il Quincey (Confessioni di un mangiatore d’oppio) e scritto in versi i “Contes d’Espagne et d’Italie” (1830: “Racconti di S. e d’I.) e una commedia di non grande interesse (“La nuit vénitienne”: La notte veneziana: 1830). Ora pubblica il poema “Rolla” (1833). Nel contempo inizia la relazione d’amore tempestoso (rotture e ricongiunzioni plurime) con George Sand, la donna emancipata, che scandalizzava per le sue relazioni variabili, dopo la rottura del matrimonio. Ne nacquero “Les Confessions d’un enfant du siécle” (Confessioni d’un figlio del secolo: 1836). L’amore per la Sand lo stimolò al lavoro poetico e teatrale: ne ncquero il poema in quatro parti “Les Nuits” (1835-7: Le notti) e  vari pezzi  teatrali, destinati però alla lettura, editi nel 1834 col titolo del primo di essi “Un spectacle dans un fauteuil” (Uno spettacolo in poltrona), “Lorezaccio” (tratto da un abbozzo della stessa Sand), “Andrea del Sarto”, “Les caprices de Marianne” (I capricci di Marianna), “Fantasio”, “On ne badine pas avec l’amour” (Con l’amore non si scherza). Sono  considerati i lavori  più rilevanti del periodo romantico, nella produzione per le scene. Nel 1840 egli pubblica le sue “Poésies complètes”, ma , benchè malato e ostacolato dall’alcool, egli deve ancora lavorare. A parte racconti dove l’interesse è tutto nel contenuto di personaggi o di ambienti  equivoci –la corte libertina di Luigi XV, ad esempio-, nascono quelle che sono ritenute da qualche critico le sue opere migliori, per la leggerezza del tocco nel coniugare candore e malizia, così che conducono ad una comicità sicura: sono ancora per il teatro, perchè una relazione con l’attrice Rachel lo aveva avvicinato alle scene (dove aveva  dimostrato fantasia e gusto per innovazioni di successo). Sono commedie e “proverbi”, cioè atti destinati a documentare appunto il contenuto di alcuni detti sapienziali: “Le chandellier” (Il candelabro), Il ne faut jurer de rien” (Non bisogna mai giurare), “Un caprice”(Un capriccio), Il faut qu’une porte soit ouverte ou fermée” (Bisogna che una porta sia aperta o chiusa), Louison, “On ne saurait penser à tout” ( Impossibile pensare a tutto),Carmosine, Bettine...

[32] Victor Hugo (seguiamo i dati della “encicl. lett. Garzanti, 1997”) era figlio di un ufficiale che aveva combattuto  per la rivoluzione francese e sotto Napoleone. Enfant prodige, fu educato dalla madre nel culto delle lettere e del proprio affermarsi mondano. Si avvicinò così alla restaurazione borbonica,  della cui famiglia divenne il cantore ufficiale, stipendiato: fu lui a comporre i versi per la incoronazione di Carlo X (1825). A diciassette anni fondava la rivista “Le conservateur littéraire” e nel 1822 pubblicava “Odes et poésies  diverses”. Sposandosi con Adèle Foucher, si riavvicinò momentaneamente alla fede religiosa, guidato da Féicité-Robert de Lamennais. Ora lo scrittore deve lavorare per mantenere la famiglia (ne nascerà una figlia, che però muore nel 1842): in versi, pubblica “Nouvelles odes” (1824) e “Odes et ballades” (1826); in prosa, i romanzi “Han d’Islande” (1823) e “Bug Jargal” (1826: su una rivolta di negri in San Domingo).  Ma col 1830 il matrimonio era in crisi e Hugo trova in Juliette Drouet la nuova compagna dei suoi giorni: ad essa sono ispirate le raccolte poetiche “Les voix intérieures” (Le voci interiori:1837) e “Les rayons et les ombres” (I raggi e le ombre: 1840); e la relazione “Le Rhin” (Il Reno: 1842), dopo un viaggio con lei lungo il fiume. Ma il poeta ha più forti centri di interesse, almeno sul piano letterario, che non l’amore.  Sul significato profondamente innovatore del dramma “Cromwell” (1827) si è detto; vi fece seguire “Les Orientales” (1828), in cui rivela il suo interesse per l’esotismo che sta venendo di moda. Se con “Odes et ballads” evoca per la prima volta Napoleone, con il dramma “Marion Delorme” (1829) si fa bocciare dalla censura borbonica. E’ dello stesso anno “Les derniers jours d’un condamné” (Gli ultimi giorni di un condannato a morte), in cui la pena capitale viene presentato nella sua problematicità, grazie ad un senso sociale (vicinanza alla gente povera o sventurata) che prende piede nel poeta. Se “Marie Delorme” era stata bocciata, “Hernani”(1830) riesce a trionfare sulle scene della Comédie française, segnando anche qui una svolta nel gusto del pubblico. I successi sulle scene continueranno con “Le roi s’amuse” (1832), “Lucrèce Borgia” (1833), “Angelo, tyran de Padoue” (1835) e “Ruy Blas” (1838). La serie teatrali si ferma dopo la caduta sulle scene de “Les burgraves” (I burgravi), lo stesso anno della morte della figlia 1842, l’anno che segna una frattura nella vita dell’Hugo. Egli aveva intanto edito anche le raccolte di poesie “Feuilles d’automne” (1831) e “Les chants du crepuscule” (1835) e continuerà con “Les voix intérieures” (1837),  “Les rayons et les ombres” (1840), “Le retour de l’Empereur” (Il ritorno dell’Imperatore, quando la salma fu riportata da S. Elena: 1840). Il grande poema “La legende des siècles” lo occupò a lungo e costituisce il suo testamento poetico, come “Les misérables” lo sono per la prosa.

Il 1848 diede inizio ad una partecipazione più decisa alla vita politica, anche se  egli ha abbastanza realismo  per non prendere una posizione politica precisa di fronte alla repubblica utopistica del 1848  (e tanto più  durante la “Comune” del 1870, quando, rientrato trionfalmente a Parigi, egli divenne il simbolo del progresso politico-sociale), ma non ha abbastanza senso politico per prendere una posizione partitica e concreta.  Egli è, così, chiaro e deciso nella opposizione a   Napoleone III, in nome della libertà di stampa, del suffragio universale e dei poveri, dei non privilegiati, ma rimane il rappresentante di ogni movimento progressista, proprio per la ragionevolezza che gli mostrava gli eccessi di ogni parte. Dall’esilio, scrisse contro “Napoléon le petit” (1852), in maniera particolarmente forte negli “Chatiments” (Castighi: 1853) e ne “Les contemplations” (1856), opera che coinvolge però non solo il nipote del “grande Napoleone”, ma un po’ tutta l’umanità.

Dei romanzi, dopo  “Les misérables”, scrisse “Les travailleurs de la mer” (1866) a confermare le sue tesi  in favore dle proletariato, ma  sostenendo la insuperabilità delle circostanze che determinano  la vita dell’uomo, siano esse dovute a forze  esterne  (il mare, la natura), sia interiori a lui (il cuore, i sentimenti: come  nelle “Ultime lettere” di  Foscolo). Della “Comune” fece una rievocazione fra lo storico ed il mitico ne “L’année terrible”: 1872). Un nuovo romanzo creò, stimolato dai fatti contemporanei, con “Quattrevingt-treize” (Il Novantatrè; cioè il 1793), che rievoca la rivoluzione francese nell’anno della repressione vandeana, cui aveva partecipato il padre.

[33] Per tale natura dell’arte, si può vedere la prima sezione del nostro libro “Musica in parole”, Varese, 1983).

[34] Jean-Baptiste de Monet de Lamarck (1744-1829) fu il primo a proporre una spiegazione razionale dell’evoluzionismo dalla materia alla vita. Egli affida il passaggio in meglio, nella scala degli esseri, alla ereditarietà dei caratteri acquisiti, attraverso interazione con l’ambiente (adattamenti, reazioni alle circostanze ambientali). E’ fautore della generazione spontanea,, grazie ad un principio vitale che, immesso dal Creatore (era deista), costringe la natura ad uno sviluppo continuo. Sua opera principale fu la “Filosofia zoologica” (1809). Quanto a Charles Robert Darwin (1809-1882; “L’origine delle specie” e del 1859), egli elimina ogni principio non sperimentale e, quindi, ogni forza innata e divina nello sviluppo della materia; e interpreta in senso positivo il principo della “lotta per l’esisetnza”, come fattore selettivo della specie migliore, più adatta a sopravvivere col mutare delle condizioni ambientali. La scoperta dei cromosomi, del DNA e dei “geni”  tende a riunire le due proposte evoluzionistiche.

[35] Nell’interpretazione del pensiero umano proposta da Kant, entra in scena una componente “a priori”, cioè presente e offerta  nel processo conoscitivo dalla mente umana,  elemento che non è presente della realtà oggettiva fuori di noi (singolare, concreta, effimera), ma imposto dalla ragione che finisce per informare-trasformare-deformare la realtà quale è veramente (“noumeno” : astratto, universale, immutabile), per farci conoscere soltanto un suo surrogato (“fenomeno”). La mente così non conosce la verità ma approda al dubbio sistematico, all’agnosticismo. In Kant, la “Critica della ragion pratica” (1788) ricupera la certezze fondamentali della tradizione classico-cristiana e ritrova la fede in Dio e nell’immortalità dell’anima attraverso l’assolutezza del comandamento morale, che si impone a noi al di fuori di ogni ragionamento (“fa il bene| evita il male| fa il tuo dovere perchè è tuo dovere) con i suoi corollari di istintiva fede nella esistenza di un premio per i buoni, di un castigo per i malvagi e di un giusto Rimuneratore, cioè di Dio.  La conseguenza è il ricupero della fiducia nel valore della conoscenza in generale ( il ragionamento è pressappoco questo: Dio, infinitamente buono ed onnipotente,  non può farsi beffa degli uomini e lasciare che si ingannino o vivano nella ignoranza della realtà propria e dell’universo). Accettando solo la sbalorditiva “Critica della ragion pura”, l’Idealismo ha fatto del pensiero umano (forme “a priori”) la sorgente stessa dell’essere tutto, il creatore della realtà, fino alla dialettica hegeliana.

[36] Il Niebuhr era danese, nato a Copenaghen, ma fu professore a Bonn e, poi, ambasciatore di Prussia presso la Santa Sede a Roma.

[37] Le “Lettres” sono caratterizzate da questa dottrina: le classi diseredate, le  folle degli umili contano nel costruire le vicende storiche quanto e talora più dei capi geniali ed avventurieri,  ora come massa inerziale, ora con ritorni rivoluzionari. I sanculotti potevano essere i discendenti degli indigeni (celti) di Francia, che si vendicavano di secoli di dominazione franco-germanica. Ma l’ipotesi poteva essere estesa più in là: la rivoluzione aveva tentato di sradicare la fede e la tradizione cristiana in Francia, ma aveva finito per venire sconfitta per la resistenza e attiva (Vandea, clero non giurato) e passiva delle masse anonime: Napoleone si era inchinato a tali “maggioranze silenziose” firmando un concordato con la santa Sede. Le idee dominanti delle “Lettres” erano già note nellla loro essenza fin dagli anni 1819-1820, quando Manzoni giunse a Parigi. Possono perciò essere state una delle fonti dell’interesse del Manzoni per gli “umili” (“la gente meccanica e di piccolo affare” della Introduzione al romanzo), la cui anonima attività nel bene e nel male non fa meno storia di quella famosa  dei “potenti”  (i nati dalla “costola di Adamo”, per dirla con le parole del  barocciaio, nel c. IX).

[38] I primi due volumi della “HIstoire de France (1833) sono dedicati al Medioevo francese: preparati da pubblicazione di materiale documentario, mantengono un atteggiamento di simpatia sia per il popolo che per la sua religiosità, nonostante che egli fosse su posizioni ben diverse in materia: egli vede, romanticamente, nelle vicende medioevali, il sorgere della coscienza nazionale. Nei quattro volumi seguenti, meno documentati e più infarciti di filosofismo e di ideologia, egli è polemico ed unilaterale nei confronti della religione cattolica. Egli prepara, così, la storia della rivoluzione, in cui prende un abbaglio che il grande sindacalista Giovanni Jaurès (1859-1914) gli rimprovererà nella sua “Storia socialista della rivoluzione francese”: il Michelet vede nella rivoluzione la miseria, prima, e il trionfo, poi, del popolo, mentre fu, in definitiva, il trionfo della borghesia e dei suoi interessi. Dal 1855 al 1862 egli portava avanti la storia di Francia dal Medioevo alla vigilia della rivoluzione.

 Quanto al problema del rapporto fatalità-lbertà, è naturale che non gli riuscisse di risolverlo: egli è interessato solo alla “libertà” fisica ed esteriore, che è comune agli animali ed all’uomo ma non è garantita per nessuno dei due; è la libertà interiore (libero arbitrio) della volontà sulla sfera istintivo-emozionale che è propria dell’uomo ed inviolabile.

 Trovo indicate, nella solita Enc. della Lett. Garzanti, 1997, altre opere socio-psicologiche che confermano “la sua sete di giustizia e i suoi princìpi democratici”: “Le peuple” (Il popolo: 1846); “La Bible de l’humanité” (La Bibbia dlel’umanità”: 1864). Ma van ricordate altre pubblicazioni che confermano, oltre alla sua passione per i diseredati e sfruttati, anche i suoi pregiudizi anticattolici ed anticlericali: “Les Jésuites” (1843); “Du pretre, de la femme, de la famille”: 1845), “L’étudiant” (1848), “L’amour” (1858), “Nos fils (1869). Quanto alla “Bible de l’humanité” essa è di ispirazione russoiana: la religione naturale, basata sul senso innato (ma generico) della religiosità, anzichè essere giudicata come il “minimo comun denominatore”  della religione, ne diventa il massimo comune multiplo, una specie di superreligione che esige anche una filantropia, in sostituzione della carità cristiana.

L’articolo della stessa enciclopedia conclude: “La prosa di M. si caratterizza per un andamento impetuoso, tanto da giustificare l’opinione critica, solo apparentemente paradossale, secondo la quale egli è uno de –più grandi poeti romantici- di Francia.  Un corollario è, allora, questo: i suoi giudizi sono sentimentali e, perciò, quanto mai discutibili.

[39] Egli causò, però, la caduta della stessa monarchia “Orléans”, nel 1848, con la opposizione inflessibile alla modifica della legge elettorale.

[40] Meno imoprtante è lo storico polacco Ferdinand Gregorezwski, noto con il nome tedesco “Gregorovius” (1821-91), perchè egli si considerò sempre un prussiano. Protestante, fu a Roma nel 1852 e si innamorò talmente della città, da scrivere una “Storia di Roma nel Medio Evo”  con una impostazione epicizzante: dalla conquista dei Visigoti, con a capo Alarico, nel 410, al sacco del 1527” (1855-1871). Fu messa all’indice dei libri proibiti per le tendenze anticattoliche e filoprotestantiche. Il che non gli impedì di ottenere la cittadinanza onoraria dell’Urbe. Il suo era un amore romantico per la città, che egli potè ammirare nelle sue stratificazioni epocali prima della occupazione del 1870. Scrisse anche, ma con ancor minor validità, una “Storia di Atene nel Medio Evo”.

[41] Il Cantù scrisse anche opere educative: “Carlambrogio da Montevecchia (1836), “Il buon fanciullo” (1837), “Il giovinetto drizzato alla bontà” (id.), “Il galantuomo” (id.). Altre opere storiografiche riguardano “La storia di cento anni” (1851), completata, poi, con “Gli ultimi trenta anni” (1879), “Storia degli Italiani” (1854), “Gli eretici in Italia” (1865-6), “Della indipendenza italiana”.

[42] La distinzione fra “was (irgendwie) gewesen ist” (ciò che è comunque accaduto) da “was eigentlich gewesen ist” (ciò che è veramente accaduto) è di Leopold Ranke, uno storico protestante che critica aspramente il relativismo dello storicismo hegeliano. Ma ve n’è già un presentimento nella espressione di Tucidide,  il quale vuole che il suo studio storico sia un “Ctèma èis aèi” (acquisto per sempre), cioè una verità che non dipende da opinioni e mode di età o popoli diversi.

[43] E’ la tipica concezione liberale: non l’idividuo è arbitro dei “valori” (il vero, il bello, il buono) ma la società in cui egli vive e cui egli contribuisce con il suo “voto politico” o col suo  apporto di pensiero e di esempio comportamentale, salvo ad accettare poi il volere dlela maggioranza democratica. Questa può stabilire lecito l’aborto oggi, anche se fino ad ieri era considerato delitto e, come tale, punito.

 

[44] Non è che tutti gli intellettuali d’Europa si siano ricreduti o si siano staccati dal classicismo paganeggiante. In Francia, ad esempio, vi era un circolo degli intellettuali  immanentisti, opposti sia al viraggio russoiano della rivoluzione  che al suo ribaltamento  nel regime imperiale. Napoleone li definì per disprezzo col nome con cui la storia li ha poi recepiti: gli “ideologi”. Stretti attorno  a Sophie, vedova di Marie-Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet, vittima della rivoluzione, vi era il suo amante Claude Fauriel, Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy, Pierre-Jean-George Cabanis, Marie-François-Pierre Gonthier, Maine de Biran e, amico del Fauriel, Alessandro Manzoni.

[45] Joseph de Maistre (savoiardo: 1753-21) dapprima si aggregò alla massoneria ed alle idee illumnistiche, ma proprio dagli orrori della rivoluzione fu portato all’estremo opposto di uno spirito conservatore fino alla reazione, di una fede sino al fideismo irrazionale del tradizionalismo (condannato da Gregorio XVI, nel 1832, con la enciclica “Mirari vos”)  ed a qualche concessione al gallicanesimo. Ambasciatore del Piemonte a Pietroburgo  dal 1803 al 1817, vi fece propaganda cattolica ed antiortodossa, sicchè finì per esserne richiamato.  Tra i suoi scritti principali vi sono “Les soirées de Saint-Pétersbourg “ (Le serate di Pietroburgo: 1821) e “Du Pape” (Il  papa: 1819).

[46] F.P. de Biran era stato membro del “Consiglio dei Cinquecento” sotto il Direttorio che seguì al “terrore” (1795-99) e questore della Camera, dopo la restaurazione borbonica. Nel “Journal intime” narra la storia del suo passaggio dall’ateismo degli ideologi alla fede cristiana.

[47] “Felix qui potuit rerum cognoscere causas| atque metus omnes et inexorabile fatum| subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari.| Fortunatus et ille, deos qui novit agrestes,| Panaque Silvanunque senem Nymphasque sorores.| Illum non populi fasces, non purpura regum| flexit et infidos agitans discordia fratres| aut coniurato descendens Dacus ab Histro,| non res Romanas perituraque regna, neque ille| aut doluit miserans inopem aut invìdit habenti”.

[48] Ricito da “Il romanticismo” di Mario Puppo, Roma, Studium (data)????????????????

[49] Molti suggerimenti di questo paragrafo le imprestiamo dal libro citato di M. Puppo sul Romanticismo.

[50] Friedrich Hoelderlin (1770-1843), nel corso sofferto di studi che lo portarono a diventare pastore evangelico (ufficio che, per altro, mai esercitò, avendo concepito, dall’educazione troppo severa per le sue povere forze psichiche, un senso di rigetto per lo stesso Cristianesimo), ebbe modo di avvicinare Hegel e Schelling (compagni di studi), Fichte e Schiller, Goethe ed Herder. Ma lo stato mentale, che lo avrebbe portato alla schizofrenia e ad una mite demenza dal 1806 al 1843, gli impedirono di accedere ad una occupazione fissa e visse come precettore, innamorandosi della moglie del banchiere Gontard, presso il quale ebbe il primo incarico per i figli. Suzette divenne la “Diotima” del suo canto, ma egli dovette abbandonare la casa, passando precettore in Svizzera ed in Francia e, infine, bibliotecario in Germania. Dopo il 1803, la sua coscienza non riuscì più a dominare l’attività neurovegetativa della emotività e, ospite di un falegname sulla riva del fiume Noeckar, visse per 37 anni suonando il pianoforte e scrivendo versi indecifrabili. Il romanzo “ Hyperion oder der Eremit in Griechenland”  (Iperione o l’eremita in Grecia: 1793-97) finisce per essere una condanna della società sia greca (ove la guerra per la indipendenza lo disgusta) sia della Germania, ove Iperione crede di potersi rifugiare, ma dove viene a trovarsi in una società frenetica ed  incongrua, alienata.  Iperione, come verrà esplicitato nell’ode “Hyperions Schicksallied”  (Canto sul destino di I.) è lo stesso poeta, che sente di avere un destino tragico (lo stesso espresso nella incompiuta tragedia “Der Tod des Empedokles”, dove il suicidio del filosofo è presentato come espiazione per le colpe dell’umanità e come aspirazione ad essere ammesso fra i celesti). La grandezza poetica di H. sta nelle sue liriche. Ivi il proprio destino viene identificato non con quello di Apollo, ma di Dioniso (“Wie wenn am Feiertage”: Come in un giorno di festa); viene celebrata la natura come garante della liberazione dell’uomo (“Dem Sonnengott”: Al dio Sole| “Natur und Kunst oder Saturn und Jupiter”: Natura ed arte ossia Saturno e Giove); vengono cantati l’amore, l’arte,  personaggi decisivi per la umanità (Cristo e Napoleone, il Poeta) e si auspica una palingenesi universale, che deve portare l’umanità alla redenzione, nella festa di una risurrezione perenne.  In conclusione: dopo aver seguito Schiller come modello (“Hymne an die Menschheit”| ...an di Liebe”|: Inno all’Umanità|... all’Amore), egli inizia ad usare i metri, la mitologia, la simbologia classica (a Schiller aveva chiesto inutilmente che gli ottenesse una cattedra di greco a Jena): come il Foscolo, egli è un enigma, perchè unisce in sè classicità e romanticismo: i contenuti    si aggrovigliano e confondono dionisiacamente, ma la forma è quella apollinea; lo stile incarna nella perfezione classica l’entusiasmo romantico.

[51] Per comprendere la gravità dell’errore di elevare la “coscienza” a canone (regola) ultimo di moralità, si  tenga presente il machiavellismo (“il fine giustifica i mezzi”) ed i suoi corollari (utilitarismo.... marxismo e brigatismo rosso, fino al  terrorismo islamico). Ecco come si esprime Berthold Brecht: “Chi combatte per il comunismo| deve saper combattere e non combattere;| dire la verità e non dirla;| rendere un servizio e rifiutarlo;| tenere una promessa e neon teenrla;| esporsi al pericolo ed evitarlo;| farsi riconoscere e nascondersi.| Chi combatte per il comunismo| di tuttele virtù ne ha una sola:| quella di combattere per il comunismo”. E si veda il mio libro “Ragione, religione, morale”, Milano, NED, 1989, vol. II, pp. 101-112.

[52] Il progresso sia economico che culturale va inteso in misura diversa per l’Italia e per paesi come Inghilterra, Francia e Germania, dove le cose camminavano più celermente. Bruno Migliorini  (Storia della lingua italiana, Firenze Sansoni, 1966, p. 552-3).ricorda che “i quattro quinti degli Italiani erano ancora analfabeti” alla fine del periodo romantico!

[53] Non che la “carità cristiana” non si occupasse del popolo analfabeta e diseredato fin dall’inizio della Chiesa, sull’esempio e gli ammonimenti  del suo Maestro e fondatore.. Ma si trattava di un interessamento basato sulle “opere di misericordia spirituali e corporali”, in cui il popolo era passivo, perchè le sue condizioni di miseria non permettevano di pensare alla possibilità di elevarlo al rango di coprotagonista  in uno sforzo di crescita economica, culturale e politica. Mancavano le condizioni obiettive: mancava il tempo libero dal lavoro di sussistenza, sicchè la gran parte della gente  era impegnata a sopravvivere materialmente, non a progredire spiritualmente.

[54] A questo punto ci si può chiedere se la (eccessiva, estrema) valorizzazione del “sentimento” sia una delle cause della valorizzazione del popolo o non, per caso viceversa. Ci pare di dover rispondere (per semplice intuizione e, quindi, senza basi scientifiche di ricerche e studi specifici) che la reazione al razionalismo illuminista, visti i suoi effetti nella catastrofe della rivoluzione, debba mantenere il primato nella eziologia della esplosione “sentimentale” nell’epoca  susseguita, ma che   una delle cause importanti, anche se secondarie,  dell’importanza assunta dal sentimento nella scala delle facoltà umane non sia stata la irruzione del popolo sulla scena socio-culturale. Chè non si può negare che più tipico della classe colta (seriamente colta) è il pericolo di  tener troppo conto della ragione  nel giudicare di una persona, di un’epoca, di una società (“troppo” rispetto, ad esempio, ai valori morali), mentre è proprio del popolo procedere per spontaneità immediata, cioè per impuslo razional-emotivo, per giustificazioni sentimentali. L’ingresso della massa popolare nella prima metà del Milleottocento europeo nell’interesse letterario, aiutò la formazione di una cultura basata sul primato del sentimento. E’ un processo a “feed back”, cioè ad azione e reazione, in cui causa ed effetto si scambiano le parti di volta in volta.

[55] Perchè la distinzione del Berchet è errata? Per questo fatto: l’arte è  valore assoluto e, quindi, per sempre; non ha senso, perciò, parlare di un’arte valida come tale per un’epoca od una società, scaduta a non-arte (a “kitsch”) in un’epoca successiva e culturalmente diversa. Il Berchet avrebbe dovuto domandarsi seriamente se riteneva davvero ormai “non più arte” opere come Iliade ed Odissea di Omero, Eneide di Virgilio, Odi di Orazio, tragedie di Sofocle...

[56] Storia della letteratura italiana, Garzanti, 1976, L’Ottocento, p. 418: “come nota il Bosco, quel principio medesimo del Vico sull’arazionalità della poesia, -nascosto punto di partenza della marcia degli italiani-"“

[57]  D. C. Paradiso, 26, 130-132.

[58] Ricito da  Vincenzo Courir,  Autori e correnti, ediz. Remo Sandron, Firenze,  1965, p. 73.  Cfr.  M. Puppo, Il romanticismo, Roma, Studium, 1967, p. 236.

[59] Vedi St. Lett. it., L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1976, p.417.

[60] A dir il vero, Ettore Fieramosca  del d’Azeglio (come tutti i romanzi del Guerrazzi) sono o del Millecinquecento o posteriori. Del Buerger avremo modo di parlare quando tratteremo del Romanticismo italiano, perchè la traduzione delle sue ballate da parte del Berchet inizia ufficialmente il movimento romantico in Italia.   Contro la irrazionalità della nuova mitologia germanica, abbiamo già letto la protesta di Manzoni. Ma anche il Leopardi, lo vedremo, noterà subito la incoerenza di  rifiutare la mitologia  classica, per poi finire a coltivare quella germanica.

[61] I  primi due dei quattro volumi curati d Ettore Janni per la Biblioteca Universale Rizzoli sui “Poeti minori dell’Ottocento”  (Milano, 1955-8) sono una testimonianza bastante delle nostre affermazioni. Assieme alla pubblicazione degli scritti letterari di Leonardo da Vinci (a cura di A. Marinoni. Milano,  1974),  le 1600 pagine dello Janni sono stati l’apporto non solo ripetitivo, ma propriamente innovativo per la conoscenza  dell’Ottocento italiano, benchè la B.U.R. sia stata una impresa editoriale fatta a favore di lettori poveri e, quindi, senza   alcuna pretesa di salvare la dignità  della presentazione esteriore (paper books in formato “trentaduesimo”!).   

[62] Ci si potrebbe aspettare una esplosione in senso romantico di tutte le arti. Ma, a parte la difficoltà, di cui si è detto, a coinvolgere architettura e scultura nell’aura romantica, resta il fatto che anche la pittura ebbe difficoltà a tenere il passo: solo attorno o dopo la  metà del secolo con l’impressionismo (Cluade Monet: 1840-1926, Pierre-Auguste Renoir.: 1841-1919...), i macchiaioli (Giovanni Fattori: 1825-1908) e divisionisti (Giovanni Segantini: 1858-1899) si può parlare di una sensibilità e forma romantica. Invece, nel campo della musica si ebbe la stagione “operistica” (produzione di opere “liriche” od interamente cantate) più grandiosa nella storia della umanità (almeno fino a tutto il secolo ventesimo): da Gioachino Rossini (1792- 1868) a Gaetano Donizetti (1797-1848), da Giuseppe Verdi (1813-1901) a Giacomo Puccini (1858-1924), per non parlare di Ruggero Leoncavallo (1857-1919) e di Pietro Mascagni (1863-1945). La seconda e terza stagione del grandissimo Ludwig van Beethoven (1770-1827) possono pure considerarsi romantiche. Ma il musicista che più aderì al romanticismo è il tedesco Richard Wagner (1813-83), che della musica tentò una interpretazione subfilosofica e rappresentò nelle sue opere (di cui scrisse sempre anche il testo letterario) lo spirito nazionalistico germanico, da riscoprire nelle tradizioni leggendarie del popolo (la tetralogia “L’anello dei Nibelunghi” è la espressione più nota ed esplicita in proposito).

[63] Per farsi un’idea della vastità di questa galleria degli orrori, si leggano le pagine di Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, ?????1950.

[64] La sensazione che l’abbandono della fede religiosa avesse una parte notevole nel creare il precipizio non era evitabile: quello che mancò fu la intelligenza  nel ricercare e proporre prove della verità cattolica in maniera adeguata ai bisogni di questi intellettuali disorientati;   e, presumibilmente,  ancor di più la coerenza degli spiriti smarriti a dedurre fino in fondo le conseguenze della loro impressione. Quanti, tra i nomi famosi, si convertirono, lo si è detto: si deve supporre che dietro loro stia una scia  numerosa di anime “al duro mondo ignote”, che operarono la svolta ad “U” del ritorno alla fede. Ma la più parte dei romantici tenne quella “via media” che era un compromesso penoso: dichiarare simpatia per il Medioevo cristiano; per la Chiesa cattolica in specie, che della cultura medievale era stata l’anima; per i valori di ordine che la religione portava con sè, ma senza la capacità di dichiarare vero un sistema di pensiero che tanti mali avrebbe evitati e che tanti beni, a suo tempo, aveva prodotto. Il bene è frutto della verità! Una cosa si fece, invece: favorire il restauro della “Compagnia di Gesù” (soppressa nel 1773), convinti che dei consiglieri gesuiti alla corte francese avrebbero saputo evitare l’ingenuità di certe mosse iniziali  “dell’ancien régime” e la  enormità di certe  leggi successive nel regime democratico, instauratosi dapprima pacificamente.

 

[65] La frase è nella Prefazione all’edizione di “Levia Gravia” del 1881. La “quaresima” di cui si parla è il decennio 1848-1859, che deluse le loro speranze di vittoria nella prima guerra del risorgimento e li costrinse al silenzio o, comunque, cambiò notevolmente il sentimento prevalente nella terza generazione romantica, la Scapigliatura.

Si noti anche il termine “crepuscolari”: quando il Decadentismo si impose in Italia, la prima generazione fu chiamata col nome di “Crepuscolarismo” da parte di Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), che ricollegò così i nuovi letterati colla  tradizione romantica.

 

[66] M. Puppo, Il Romanticismo, Roma, Studium, 19 67, pp. 94-7.

[67] B. Migliorini, o. c. p. 558.

[68] Che la “natura” debba essere letta nella sua perfezione od integrità, sicchè la tendenza a bere e mangiare va vista nel finalismo della dissetazione-nutrimento e non senza (o, almeno, non contro) di esso, lo abbiamo spiegato in “Ragione, religione, morale, Milano, NED, 1989-90, vol. II.

[69] Inutile dire che di tali “fini” nobili o creduti e predicati come tali, se ne possono fabbricare secondo le individualità o le circostanze. Hitler voleva far giustizia conducendo la “razza ariana” e il popolo germanico- ritenuti i più evoluti, intelligenti ed atti al comando- alla guida del mondo intero: riteneva lecito, a tale scopo, eliminare o schiavizzare le altre razze e nazioni, fino a guerre aggressive con decine  di milioni di morti. Marx, Engels, Lenin e Stalin  si proponevano come meta della loro azione il rendere tutti eguali economicamente –fine da loro ritenuto giustizia fondamentale per l’umanità:  ritenevano, così, lecite guerre e rivoluzioni che finirono per costare   morti ancora più numerosi.  

[70] Ma che in questa disponibilità al sacrificio della vita stesse qualcosa di non moralmente eroico, lo dimostrano molti fattori: essi andavno più disposti ad uccidere che ad essre uccisi: erano, dunque, dei crociati, non dei martiri; molti di loro erano avventurieri, avanzi di galera (specie tra i primi volontari  dei “Mille”, che avevano barattato la libertà personale dalle prigioni colla partecipazione al rischio, come i galeotti messisi a disposizione di C. Colombo nella rischiosissima prima spedizione verso il “nuovo mondo”;  una volta pervenuti alla realizzazione del’Italia, il comportamento di molti degli uomini usciti da simili avventure si dimostrò di un egoismo e  fragilità morale tale, da dar inizio a quella danza   politica, per cui i governi italiani dopo il 1861 non riuscirono a superare  quasi mai la durata di un paio d’anni di lavoro.

[71] Di questo parere è Mario Puppo nella sua pregevole sintesi intitolata appunto “Il romanticismo”,  edita a Roma da Studium, nel 1967.

[72] Diamo notizie di scrittori che abbiano un minimo di valore nella storia letteraria, ma che non incontreremo più nella esposizione del movimento romantico. Giuseppe Acerbi, nato a Castelgolfredo (Mantova) nel 1773, si rese noto per la relazione in inglese di un viaggio fino al Capo Nord (1802). Diresse dal 1816 al 1825 la “Biblioteca italiana”, che dava conto puntuale delle opere uscite nella nostra lingua (“Proemi”). Fu poi console d’Austria in Egitto (1826-34) e morì nel 1846.

La “Biblioteca italiana” si fece forte della inimicizia al Romanticismo, divenendo la roccaforte del Classicismo, ma, col trionfo di quello e la scomparsa del Monti (1828), perse di mordente e dal 1838 al 1859 uscì col titolo “Giornale dell’Istituto lombardo di scienze, lettere e arti e Biblioteca italiana”.

[73] Paride Zaiotti (1793-1843), fu soprattutto un magistrato, ligio al governo austiaco (presiedette l’istruzione del processo contro gli affiliati alla Giovine Italia). Conservatore in letteratura,  trova buoni argommenti nell’opporsi al romanzo storico (“Del romanzo in generale ed anche dei –Promessi Sposi”: 1828). In campo linguistico è più aperto e le sue osservazioni contro i puristi furono accolte dal Monti nella “Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca” nel 1817.

[74] Ludovico Arborio Gattinara dei marchesi di Breme (1780-1820). Era di nobile famiglia ed abate, ma sostenne idee liberali (aveva collaborato col Regno italico,  sotto Napoleone) e difese brillantemente la scuola romantica. Le sue lettere furono edite solo nel 1966, ma è interessante anche il suo “Grand commentaire sur un petit article” (1817), che sostiene l’uso del parlato, fino alla inclusione dei dialetti.

[75] Pietro Borsieri (1788-1852),  tra i fondatori del “Conciliatore”, dovette passare 12 anni allo Spielberg come complice di Federico Confalonieri (1824-36). Esiliato, dopo due anni di povertà negli Stati Uniti quale insegnante di italiano, rientrò in Italia e partecipò alle Cinque giornate, rifugiandosi in Piemonte dopo la fine infausta della prima guerra del Risorgimento. L’unico suo scritto importante è quello del 1816, in cui insiste sul fine educativo dell’arte, attraverso il  diletto; ma ha un monito anche per i lettori, che si augura “giudiziosi”. 

[76] C. G. Londonio, milanese (1780-1845) aveva già scritto una “Storia delle colonie inglesi in America” (1812-3).

[77] P. Giordani (piacentino: 1774-1848), dopo contrasti con i parenti in gioventù, fu prosegretario dell’Accademia di belle arti a Bologna, con Napoleone. Stette, poi, cogli Austriaci fino al 1824, quando fu imprigionato e, poi, esiliato. Preferì Firenze; rivelò il Leopardi come grande poeta; collaborò con l’Antologia di Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863) e si strinse in amicizia con Gino Capponi e con Pietro Colletta (l’autore della “Storia del reame di Napoli”, uscita postuma nel 1834, per cura del Capponi) e fu presente all’incontro del Manzoni con le personalità del “Gabinetto Vieusseux”, ove si raccoglievano importanti personalità e donde uscirono iniziative intelligenti, come la edizione della “Antologia” (1821-33) e dell’ “Archivio storico italiano” (1842): Oltre all’epistolario ed ai “Discorsi ed elogi” (editi nel 1830),  poco si può additare da lui scritto: giov “A un giovane italiano. Istruzioni per l’arte di scrivere” (1821); “Sul vero nelle arti della parola e del disegno” (1827).

[78] Inutile dire che entrambe le scuole teorizzavano delle mezze verità e dei mezzi errori. Nè la ragione classicistica (senza l’emotività) nè il sentimento (creduto altro dalla ragione) erano la sorgente della poesia, ma lo era la emotività espressa razionalmente  ossia il sentimento  purificato da ogni funzionalità pratica. Il dibattito non poteva schiarirsi che in un’estetica vera e sistematizzata; ma per un risultato esauriente in tale campo, occorreva l’apporto  di una neurobiologia  più progredita di quanto lo fosse all’inizio del XIX secolo. 

[79] Gottfried August Buerger, assieme a Theodor Koerner, è uno dei poeti minori del romanticismo tedesco. Il Koerner (1791-1813) compose liriche patriottiche (“Leyer und Schwert”, cioè Lira e spada) edite postume nel 1814; ed anche tragedie sul modello di Schiller (come “Zriny”: 1814) e commedie. Morì volontario nelle campagne contro Napoleone. Manzoni gli dedicò l’ode “Marzo 1821”. Il Buerger (1747-1794), pur nella sua vita irrequieta e moralmente sconsiderata, ridiede vita alla ballata nella forma antica, seguendo gli inizi operati in tal campo da Herder  e dal poeta inglese Thomas Percy, la cui opera  “Reliques of ancient English poetry” (Reliquie dell’antica poesia inglese: 1765) ebbe notevole influsso nel preparare lo spirito della poesia romantica, con il suo gusto per il primitivo e le saghe degli antichi popoli germanici. Il capolavoro del Buerger è “Lenore”, canto di amore e di morte. “Der wilde Jaeger” (Il cacciatore selvaggio) è un’altra delle sue belle ballate. Si cimentò anche in altre forme metriche, ma con minor successo; sono per altro riuscite due elegie di amore per la cognata Molly; e sono notevoli anche i sonetti, che riecheggiano talora il Petrarca. La ballata, però, era lo schema che più apriva al suo temperamento irruente la via agli effetti  tragici, attraverso forme popolari (ritornelli, onomatopee, esclamazioni...)

[80] Ermes Visconti (1784-1841) pubblicò due articoli importanti su “ Il Conciliatore” (“Idee eleementari sulla poesia romantica” e “Dialogo sulle unità drammatiche di luogo e di tempo”) e, più tardi, “Saggi filosofici” (1829) e “Saggi intorno ad alcuni quesiti concernenti il bello” (1833).

[81] G. Torti (1774-1852) era milanese. Aveva avuto una formazione classico-pariniana, ma l’amicizia col Manzoni ed il Porta lo avvicinò al romanticismo. Nel 1818 mise in versi la poetica  romantica, con quattro “Sermoni della poesia”;  prima, aveva scritto una “epistola” in versi  “Sui –Sepolcri- di Ugo Foscolo e di Ippolito Pindemonte” (1808: è critico   verso entrambi i poeti). In seguito, scriverà la novella in ottave “La torre di Capua” (1825), il poemetto in terzine “Scetticismo e religione” (1836) e, infine, l’inno “Le cinque giornate di Milano” (1848). Era così intimo col Manzoni, che questi gli regalò alcuni versi per i “Sermoni” (i vv. 4-15 del secondo) e gli affidò la istruzione delle figlie Sofia e Cristina.

Si noti: degli autori di cui non si danno notizie qui, o si è già detto o si parlerà  più avanti.

[82] G. D. Romagnosi (Salsomaggiore, 1761-1835) fu il maggior continuatore delle idee illuministiche in Italia durante il periodo della restaurazione. Aderì alla Massoneria. Giurista; pubblicò opere di filosofia del diritto (“Genesi del diritto penale”, ecc.); sostenendo la naturalezza della socialità nell’uomo, fu “giusnaturalista” ed avevrsario di ogni forma di   “contrattualismo”; criticò il giacobinismo in  opuscoli del 1792-3 (“Cosa è eguaglianza”| “Cosa è libertà”), così come fu contrario al sensualismo; giunse, però, all’agnosticismo subkantiamo, per cui sappiamo solo che esistono l’io ed il non io,  ma non siamo sicuri di poterne conoscerne la natura, l’essenza. Collaborò nel Regno italico al tempo di Napoleone (stesura dei codici di diritto e procedura penale) ed insegnò  alle università di Parma e di Pavia. Irriducibilmente liberale moderato, non solo fu emarginato dall’Austria, ma ridotto alla miseria, colla proibizione di dare lezioni anche private, dopo che si scoperse essere lui l’autore dell’opera, edita anonima a Lugano, “Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa” (1817).  Tra i suoi discepoli, si contano Carlo Cattaneo e Cesare Cantù.

[83] Dobbiamo ribadire: questi esponenti della prima generazione romantica sono tutti “manzoniani” come linea letteraria, ma non  tutti come ideologia esistenziale (in pratica, come fede religiosa e morale). Non ci si meravigli, perciò, di trovare fra loro Mazzini, Cattaneo, Guerrazzi, notoriamente lontanissimi dalla visione cattolica della vita ed eventualmente fondatori (il Cattaneo, per l’Italia) od iscritti alla Massoneria.

[84] Al seguito del De Sanctis, questa prima generazione si può suddividere in due correnti o scuole: quella manzoniana (neoguelfa) e quella mazziniana (neoghibellina). Alla prima appartennero o finirono per appartenere (solitamente attraverrso conversioni religiose) D’Azeglio, Grossi, Visconti, Pellico, Giusti, Balbo, Tommaseo, Porta; alla seconda, Mameli, Cattaneo, Settemrbini, De Sanctis, Guerrazzi, Nievo...

[85] Ippolito Nievo e G. C. Abba sono ancora più tardivi, ma hanno  l’entusiasmo e la sofferenza per i grandi ideali, per la patria e per la problematica morale, nonchè il realismo, della prima generazione

[86] L’Aleardi, in verità, aveva nome Gaetano, ma assunse lui stesso il nuovo nome derivato dal cognome. Veronese, visse dal 1812 al 1878.  Giovanni Prati era di di Campomaggiore (Trento) e visse dal 1814 al 1884. Di entrambi dovremo riparlare.

[87] “La scapigliatura e il 6 febbraio” era il titolo di un romanzo di Cletto Arrighi (1861), da cui il movimento derivò il nome.

[88] Giacomo Biffi: dove?????????

[89] La prima tappa nella demolizione della religione perfetta in tutte le sue dimensioni (razionalità, storicità, socialità dei   rapporti con Dio), era stata la  dottrina di Lutero nel 1517, che aveva rifiutato la Chiesa come  dimensione sociale della vita religiosa: le tappe successive si realizzarono sorprendentemente a distanza di duecento in duecento anni (1717| 1917)!

[90] Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma (1869-1948)  ottenne la libertà per l’India (nel 1947), favorendo  la disubbidienza civile di massa come mezzo per liberarsi dal dominio inglese, al riparo da ogni violenza.

[91] La definizione de “ I promessi sposi” come epopea della Provvidenza è di Attilio Momigliano; quella di “epopea degli umili” è di Natalino Sapegno.