Don Marcello De Grandi
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DATI STORICI ED
ARTISTICI SULLA CHIESA PARROCCHIALE
DEI SS. MAMETE E AGAPITO IN VALSOLDA.
Parte prima Ve
n’era una più piccola prima del Mille: nei secoli dell’arte romanica, fu
costruita l’attuale, con facciata a capanna, campanile massiccio ma lievitato
dalle archeggiature cieche che si rincorrono di piano in piano e dalle feritoie
che si vanno allargando fino a sfociare nella cella campanaria. Tutti ci si
ferma a guardare in su, per vagheggiare l’armonia che
si sprigiona dall’equilibrio tra la imponenza della mole massiccia e quel
tanto di leggerezza e dinamismo che sono
comunicati dagli archi ciechi e sospesi (senza pilastri nè colonne) e
l’aprirsi delle spaccature nel muro, a distanza regolare, ad ampiezza sempre
crescente. Siamo inconfondibilmente nel secolo XII. Ma, ahimè!, la facciata e
la struttura complessiva della chiesa risultano poi una delusione. Erano opera
romanica: facciata a capanna, unica navata, parete di fondo rettilinea, nessun
altare laterale. Ma il fastigio della facciata fu poi innalzato (per non
sfigurare di fronte al campanile risultato sproporzionatamente imponente?); il
campanile fu unito tettonicamente alla chiesa per funzionalità pratiche
(rendere accessibile il vano a pianterreno per il suono delle campane e la
regolazione dell’orologio, anche in caso di pioggia); al campanile, in pietra
calcarea locale, fu imposto dagli architetti barocchi un coronamento a cono in
mattoni (“ein Zauberhut”, cioè un cappello da mago: l’espressione è
nientemeno che di Franz Kafka, che lo potè contemplare dal lago Ceresio in una
sua venuta a Lugano). Ma, se entriamo dentro la chiesa, al di là del
“pronao” (portichetto davanti al portale d’ingresso), allora le
“deformazioni barocche” possono essere criticate nei dettagli, ma non nella
impressione d’insieme: al di sopra di uno zoccolo di un metro e mezzo, non vi
è un decimetro quadrato della struttura che non sia od affrescata o ricoperta
da quadri ad olio, dipinti sulla misura dello spazio da riempire. E la luce
misurata che piove dalle finestre quadre (pardon! il lato superiore è ad arco
rabbassatissimo, cioè “scemo”) impedisce che sorga l’impressione del
museo e costringe invece a pensare alla “chiesa”. Una chiesa ideata romanicamente, trasformata poi e decorata baroccamente.
Dove però il raccoglimento è congeniale e, l’invito alla preghiera, ovvio. La decorazione iniziò dal dipinto sull’altare che
era appoggiato direttamente sulla parete di fondo: sopra, esiste ancora un
affresco tardogotico (circa il 1390), che è la pittura più bella della chiesa: la Madonna tiene dritto
sulle ginocchia Gesù fanciullo, che benedice il patrono principe, da cui la
frazione di Valsolda ha preso il nome: San Mamete (questi, martire della
Cappadocia nell’odierna Turchia, è in lunga veste
di tipo bizantino, a pieghe). La dolcezza idillica, benevola e
pacificatrice delle figure è sorprendente. Manca invece ogni senso della
prospettiva: neppur il trono su cui siede Maria santissima riesce a creare
spazio e plasticità. Il Cinquecento e la prima metà del Seicento videro i
maggiori interventi, sia murari che decorativi. Quando San Carlo venne per la
prima visita pastorale (1570) vi erano già altari laterali, fra cui uno
dedicato alla Immacolata, che egli volle riordinato e reso degno (od era questo
un modo per cercare di cambiare la titolarità dell’altare stesso- il primo a
destra vicino all’altare maggiore- perchè il santo era “macolatista” e
non “immacolatista”?). Comunque oggi gli altari laterali sono quattro: di
fronte alla Immacolata (in statua moderna, ma con pareti e volta affrescati nel
Seicento), sta l’altare della Deposizione (o di S. Pietro martire) con la pala
ad olio ed il resto affrescato; a destra, in fondo alla chiesa, sta lo
Sposalizio della Vergine con S. Giuseppe (quadro ad olio: affreschi su tutte le
pareti e la volta); di fronte, vi è l’altare dell’Angelo custode
(affrescato tutto l’altare). Il Concilio di Trento apportò anche un’altra
struttura: il dorsale dell’altare maggiore, staccato dalla parete di fondo e
costruito come trono per la esposizione del SS. Sacramento (Corpus Domini e
sante Quarantore), con un tempietto in miniatura al centro sopra il tabernacolo
e lo spazio ai lati per posizionarvi candele e fiori. Vi sono pure le statue dei
due santi protettori in atto di adorazione. Dei dipinti della chiesa, ci pare meritino una parola
anche alcuni altri. Si è detto sull’inabilità del pittore del mirabile
affresco gotico a rendere la illusione della terza dimensione e della
prospettiva: subito sopra tale affresco, uno a destra ed uno a sinistra, stanno
i due profeti Geremia ed Isaia. In color ocra, l’uno piangente sulle rovine di
Gerusalemme, l’altro serenamente additante l’avvento del Messia liberatore,
essi sono un capolavoro della tecnica prospettica: sembrano statue. Entrambi
situati in finte nicchie, in esse sembrano o troneggiare imponenti (Geremia) o
addirittura da esse sporgersi verso l’osservatore (Isaia). Sicura è stata la
mano che presenta figure plastiche eppure morbide: ma esse non convincono nella
espressione dei loro sentimenti pur lasciati
pesantemente intendere. Geremia, benchè tenga
in mano un fazzoletto e pianga, non commuove affatto; Isaia è così sereno nel
volto... che non esprime nulla. I sentimenti si indovinano dalla lettura della
Bibbia e dai gesti: ma non diventano emozioni che si trasmettano al fruitore, il
quale rimane uno spettaore ammirato dell’abilità tecnica, ma non diviene mai
un “contemplatore o vagheggiatore” che si perda nel rapimento degli stati
d’animo espressi. I barocchi si credevano uguali a Michelangelo perchè ne
conoscevano a perfezione la tecnica prospettica: non s’accorgevano che mancava
loro l’unica cosa che, prospettiva o no, costituisce l’opera d’arte:
l’espressione della emotività ( o del lirismo).
Parte seconda:
San Mamete, capitale della Valsolda. San Mamete si stende sui lati della foce del Soldo,
che sfocia nel lago di Lugano (o Ceresio). Specie durante l’estate, molti sono i
turisti che vengono (anche in pullman con guida) a visitare la chiesa di San
Mamete, salendo i quasi novanta gradini per arrivare sul sagrato. Noi oggi
pensiamo anzitutto alla funzionalità (accessibilità) del tempio, per
facilitare ai fedeli, anche anziani, il recarvisi. Ed amiamo di più vedere Dio
fattosi uomo per noi e abitante quindi fra le nostre case, allo stesso piano.
Nei secoli di grande fede, la chiesa doveva, invece, essere in alto, visibile da
lontano, per richiamare Dio e la Sua onnipotenza: la fatica per salirvi
faceva parte della penitenza cristiana, necessaria nel pellegrinaggio verso il
Paradiso. S’intende
che i turisti non vengono solo per la parrocchiale di San Mamete, ma per vedere
un po’ tutte le molte chiese
della Valsolda, perchè tutte, pur costruite dopo la nostra, sono o in stile
romanico (le più antiche: Albogasio e, sulla sponda opposta del Ceresio, la chiesetta di Santa Margherita) o, anche
architettonicamente, barocche (Loggio, Puria...). La decorazione è invece
sempre barocca. Abbiamo accennato alla frazione-parrocchia di Puria. Essa diede
i natali a Pellegrino Tibaldi, il grande architetto di San Carlo, che diresse i
lavori del Duomo, costruì (fra le molte altre) la chiesa di S. Fedele in Milano
e i santuari di Rho e di Saronno; il collegio Borromeo a Pavia. Fu
in Spagna a dirigere i lavori dell’Escuriale, la residenza del re Filippo II. La Valsolda, con solo duemila abitanti, ha sei
parrocchie, frutto delle distanze scomode lungo la valle e della fede degli abitanti, che finanziarono
la costruzione della casa parrocchiale e il mantenimento del sacerdote. San
Mamete si staccò da Porlezza nel 1546 (era stata consacrata nel 1470 dal
cardinal Nardini); le altre parrocchie si formarono staccandosi da San Mamete
lungo il 1600 (la prima fu Castello, nel 1603; l’ultima a staccarsi fu
Cressogno, nel 1682). La chiesa di Castello è da visitare, perchè ha la volta
tutta coperta da un solo affresco: lo dipinse Paolo Pagani (nativo del luogo)
nel 1697 ed è caratteristica per una padronanza così geniale della tecnica
prospettica, che le figure sembrano sospese nel vuoto, a grappoli penduli. La
Valsolda, dopo il Tibaldi, ebbe molti architetti e pittori, che giunsero fino in
Polonia, Cecoslovacchia, Spagna ecc. Tornando per le ferie natalizie ed estive,
portavano offerte o dipingevano le loro chiese: delle numerose pitture della
chiesa di S. Mamete, una sola è firmata, perchè la fede faceva scegliere
l’umiltà e il lavoro era per la maggior gloria di Dio. Ma chi era S. Mamete? Fu un pastore-eremita, presso
Cesarea di Cappadocia, che morì martire (pare) nel 272, nella persecuzione di
Aureliano. Un secolo dopo, esisteva
un santuario a lui dedicato in Cesarea ed il grande vescovo Basilio vi
tenne una omelia in suo onore. Ci è giunta, ma non dà particolari di vita
(parla del martirio in generale). Il grande affresco del 1630 (parete laterale
sinistra del presbiterio) lo sorprende mentre si confessa cristiano al capo del
plotone di soldati inviati ad arrestarlo: ma questi si prosternano in
venerazione, quando vedono che egli alleva in pace animali domestici e feroci.
Una tradizione senza documentazione storica. Di fronte sta affrescato il
martirio (per fuoco) di S. Agapito. Questo santo è, invece, storicamente
sicuro: era uno dei sette diaconi
di papa Sisto II, compagno quindi di San Lorenzo: l’imperatore Valeriano,
irritato che la persecuzione decretata nel 257 non avesse sortito effetto (per
il buon senso dei giudici civili, che avevano risparmiato i cristiani nonostante
l’editto imperiale), affidò nel 258 l’esecuzione all’esercito, con
l’ordine di decapitare sul posto gli ecclesiastici. Il 6 agosto del 258
sorpresero il papa con quattro dei sette diaconi e vari sacerdoti, mentre
celebravano la Messa nelle catacombe di San Callisto: li uccisero tutti,
riuscendo a decapitare la chiesa di Roma , con l’arresto e uccisione
anche dei tre diaconi mancanti. San Lorenzo fu l’ultimo, il 10 del mese.
Nell’affresco, Il fuoco, gli spettatori in vesti orientali (turbanti, ecc.)
dicono, da una parte, il desiderio di avvicinarlo di più al l’arcidiacono S.
Lorenzo, che fu davvero bruciato vivo; dall’altra, rivelano l’atmosfera di tensione con i Musulmani, che ancora (e per tutto il
Milleseicento) minacciavano l’Europa cristiana.
Ma se i due affreschi del presbiterio sono i più grandi, non sono le
migliori pitture della chiesa. Tra i quadri ad olio, piacciono per la loro
naturalezza e per i colori meno caldi e sfarzosi, i ritratti di S. Ambrogio e
Carlo, posti in alto, di fianco all’arco del presbiterio. La pala ad olio
della Deposizione ha figure degne di ammirazione: soprattutto il corpo di Cristo
abbandonato sulle ginocchia della Madonna è dipinto
bene. Ma anche i due santi che affiancano la scena (S. Domenico, fondatore
dell’ordine dei Predicatori o Domenicani) e S. Pietro da Verona, suo
discepolo, sono stati eseguiti da
un pittore dotato di vivo senso cromatico e plastico Gli angeli che volano sopra
la croce sono caratterirstici per colori rosa delicati, più propri delle
raffinatezze del Millesettecento
che della pesantezza barocca. Purtroppo la figura meno riuscita è la Madonna,
il cui dolore è patetico, il cui pianto non commuove, la cui struttura è
troppo matronale.
Ci si chiederà come mai ci siano le pitture di San Domenico e del
discepolo S. Pietro martire (da Verona). La curiosità aumenta quando, a
sinistra dell’altare, in alto, si
scorge il quadro ad olio di San Tommaso d’Aquino, il più famoso dei frati
predicatori. C’è una ragione storica interessante. Gli
albigesi (o càtari o bulgari o patarini) non era scomparsi del tutto con la crociata del 1208, che li snidò
dal sud della Francia, ma ne lasciò per qualche generazione residui anche in
Italia. Capo dei “Patarini” lombardi era Stefano Confalonieri, che possedeva
un castello in Valsolda, là dove ora sorge la frazione-parrocchia detta appunto
“Castello”. Inquisitore contro di loro era un ex eretico ed ora frate
domenicano: Pietro da Verona. Il Confalonieri lo fece assassinare da un seguace,
detto Carino, nei boschi vicino a Seveso. Il Carino si convertì (come
l’uccisore di S. Maria Goretti). Da questo legame tra Castello di Valsolda e
il martirio di uno dei più famosi domenicani nasce la pittura e la devozione:
esiste ancora San Mamete qualche libretto con l’uffico che recitava la
“Confraternita di S. Pietro martire”.
Un’ultima notizia storica: la Valsolda fu principato degli Arcivescovi
di Milano a datare (almeno) dal 1127, quando Milano e Como cessarono una guerra
decennale per l’intervento appunto del pastore della Chiesa milanese. Regalo
e, quindi, possesso allodiale (privato), ma esercitato in maniera feudale
(dipendente dal potere politico). Valsolda si resse come comune libero, sotto
l’alta sovranità degli arcivescovi di Milano, fino al 1782. Ebbe
“Statuti” che fissavano diritti e doveri: all’arcivescovo pagavano
trecento lire all’anno, almeno per metà abbonati in caso di siccità o di
allagamenti ad opera del fiume Soldo e del lago. Il “governatore o podestà”
era eletto il giorno di S. Stefano dai capifamiglia della Valle, radunati nella
chiesa di San Mamete. C’era la sala del Consiglio, il tribunale (ora
trasformato in cappella feriale) e la prigione (odierna sacrestia). Non fu mai
pronunciata pena di morte che, in ogni caso, richiedeva la conferma
dell’arcivescovo. Nel 1515 la Valsolda ebbe il
suo momento storico. Vinti a Marignano dai Francesi di Francesco I, i soldati
svizzeri al soldo di Massimiliano Sforza si ritirarono oltralpe, esigendo però
il “soldo” dei cinque anni non pagati dal ducato milanese, che avevano
difeso. Si ebbero il Canton Ticino, che per
orografia appartiene all’Italia
fino al Gottardo. Il Cantone, geograficamente, giungerebbe fino al displuvio dei
due laghi di Lugano e Como, cioè al di sopra di Menaggio. Ma l’esistenza del
possesso-feudo ecclesiastico di Valsolda costrinse i contraenti a fermarsi a
Gandria-Oria, lasciando diviso anche il lago Ceresio, il cui lato nord-est, così,
rimase all’Italia. La “Vallis solida” (valle rocciosa?) aveva avuto la sua
funzione storica, nonostante che il suo figlio adottivo, Antonio Fogazzaro, la
considerasse “Piccolo mondo” per il suo isolamento nel secolo XIX. Ora esso
è culturalmente superato dai mezzi di comunicazione sociale e, materialmente,
dalle strade e statali e comunali costruite a cominciare dal 1910. Fino ad
allora le vie di comunicazioni erano il lago (in barca) ed i sentieri (a piedi).
Come finì il “Comune libero” di Valsolda? Per volontà
dell’imperatore Giuseppe II. Morto il cardinal Romilli nel 1782,
l’imperatore massone e sacrestano (quat’ultimo appellativo glielo affibbiò
il cugino Federico II di Prussia) non rinnovò il feudo ed impose un arcivescovo
(Federico Visconti) che accettò l’arbitrio.
Per il comune fu la fine della libertà, dell’esenzione dal servizio militare,
del governo paterno e soccorrevole della Chiesa, delle tasse simboliche. Ma
entrava nella vita movimentata di una grande nazione. Non c’è rimedio: non
esiste condizione ottima, ma solo un miscuglio di bene e di male nella esistenza
dei singoli uomini come delle comunità e delle nazioni... |
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