Don Marcello De Grandi
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Capitolo V: LA
LETTERATURA NEL MILLEQUATTROCENTO PREMESSA: LA CULTURA RINASCIMENTALE (1400 ca-1550 ca) NOTE
INTRODUTTIVE A)
I FATTORI
POLITICO-SOCIALI
E LA CULTURA RINASCIMENTALE
Nel complesso ci
sembra di dover affermare che le vicende militari e politiche del
Millequattrocento ebbero un impatto
marginale sul pensiero (Umanesimo) del Rinascimento: le condizioni
ecclesiastico-politiche del Milletrecento in tutta Europa (ed in Italia in
particolare) avevano già agito così
profondamente, da farne procedere la componente intellettuale per una specie di
forza inerziale. L’ambiente dei nuovo secoli ebbe, invece, più peso nel
definire il tono emotivo (il gusto o sensibilità) e morale (costume) che completano le caratteristiche
dell’epoca. Per questo rimandiamo alla trattazione di tali componenti
della cultura rinascimentale l’esame delle condizioni militari, politiche e
sociali del periodo 1400-1550 circa. Con questo non si vuol negare che la quasi
cessazione, nella seconda metà del secolo, delle guerre che avevano straziato
l’Italia nella prima metà non abbia influito anche sul pensiero (dunque,
sull’Umanesimo): ma si tratta di conferme, di consolidamenti, di
sfumature. Quali le conseguenze concrete sul pensiero umanistico?
Si potrebbe affermare che le vicende politico-sociali favorirono la prevalenza
del Platonismo in filosofia, con Marsilio Ficino? la distensione psicologica,
assieme al benessere economico, furono elementi favorevoli ad una mentalità
meno precisa e più accomodante che non l’aristotelismo? E’ certo che una Theologia platonica non
poneva difficoltà a credere nella
spiritualità-immortalità dell’anima personale e addirittura (col
neoplatonismo) poteva illudere l’uomo circa una sua padronanza sulle forze
naturali, attraverso la magia. La pace, il benessere potevano insinuare un tale sogno di onnipotenza o quasi? La
condizione socio-politica del secondo Millequattrocento favorisce
invece sicuramente il trionfo
di quella serenità ed ottimismo, che è la atmosfera emotiva più
consona all’idea che noi ci facciamo del Rinascimento (“Salve, o serena,
dell’Illisso in riva,| o intera e dritta a i lidi almi del Tebro| anima
umana...” canta il Carducci
in “Alle fonti del Clitunno”). Se, come vedremo, in molti degli Umanisti
fino alla metà del secolo (Poggiolini, Leon Battista Alberti, papa Pio
II ), entusiasmo per l’uomo e delusione per la vita si alternano (Bartolomeo
Facio, il primo a scrivere un De dignitate hominis et praestantia, un libro che celebra la dignità e grandezza dell’uomo,
conclude però che solo nella vita eterna tale dignità si potrà
realizzare davvero), con la seconda parte del secolo, invece, il sorriso
sboccia dalle descrizioni paesaggistiche ed amorose nelle Stanze del Poliziano;
e il riso spiegato trionferà nel poema del Pulci e
nei canti carnascialeschi di Lorenzo. A Ferrara, intanto, il Boiardo
evade beato dalle amarezze della realtà con la favola dell’ Orlando
innamorato ed ironizza sulle vicende dei suoi cavalieri erranti. Tale ottimismo,
con il mito del “secolo d’oro”[1],
non si arrenderà davanti alle guerre
d’invasione che, dopo il 1494, caratterizzano la vita italiana
per oltre un trentennio. Continuerà nel riso sornione di Ariosto ed in
quello farsesco del Berni: ci vorrà il sacco di Roma (1527) per spegnere
l’allegria del Rinascimento
italiano. Quanto al costume, si sa che il danaro apre tutte le porte ed
è un po’ come le brache degli uomini: serve a nasconderne le vergogne. Così
fu della crescita economica dell’Europa tutta, dell’Italia in particolare
nella seconda metà del secolo XV. Prevalenza, dunque, della vita libertina: ci
vorranno Calvino e il concilio di Trento a tentare di rimettere in sesto la vita
etico-religiosa della Europa.
Ne riparleremo più partitamente a suo luogo. B) CHE COSA E’ IL RINASCIMENTO Come già
detto, B. Croce ha affermato che dal 1370 al 1470 scorre “il secolo senza
poesia”[2].
L’affermazione è vera, (si è risposto), se si sottintendono
due specificazioni: la “poesia” che manca è quella in lingua
toscana, perché fra i molti versi
scritti in lingua latina, qualche composizione sufficiente si può trovare (ad
esempio, nei versi di Giovanni Pontano); in secondo luogo, poesia, forse migliore di tali versi, se ne
può leggere in lingua volgare, ma
scritta in prosa (ad esempio nelle prediche di San Bernardino da Siena e nelle
settantadue lettere di Alessandra Macinghi-Strozzi). Dobbiamo
ammettere, però, che, almeno sul piano della coscienza italiana comune, tale
secolo conta più per la affermazione piena del fenomeno rinascimentale, che non
per la qualunque quantità e qualità della
parole poetiche venute alla luce. Sono questi gli anni, infatti, in cui
il culto della classicità, in scrittori che discendendo dal Lovati e dal
Salutati, dal Petrarca e dal Boccaccio, giunge alla
piena coscienza e
maturazione, connettendo le sparse tessere in un mosaico coerente e
imponente: la cultura rinascimentale. Si
completa e consolida, cioè, un
nuovo modo di pensare (Mentalità rinascimentale od umanesimo), di
sentire (gusto), di esprimersi (tecnica stilistica), di operare (costume
morale): alla cultura o civiltà Medioevale, di S. Francesco e di Innocenzo
terzo, di Giotto e dell’Antelami,
del Dolcestilnovo e di Dante,
succede la cultura o civiltà Rinascimentale
di Pio II e di Leone X, di Bramante e di Raffaello, del Poliziano e del
Bembismo. Cominciamo a tentare una definizione
di “Rinascimento”.
E’ la cultura (civiltà) prevalente nel Millequattrocento e nella
prima metà del Millecinquecento in Italia, caratterizzata dall’Umanesimo nel
campo della mentalità; dall’ottimismo nel campo del sentimento (del gusto);
dalla imitazione degli antichi (latini, specialmente) nel campo dello stile
(moda espressiva); da un’accentuata spregiudicatezza di costumi nel campo
della vita pratica.
Definendo il Rinascimento come Cultura o Civiltà, intendiamo affermare
che non si trattò soltanto di un fenomeno letterario, ma di una concezione,
sentimento e prassi della vita intera: fu una prospettiva (Weltanschauung) che
interessò tutte le manifestazioni della società italiana in quei secoli, dal
pensiero alla emotività, dal costume alla tecnica espressiva. Se si vuole,
perciò, comprendere tutta la portata di questo happening (che ebbe
ripercussioni europee), si devono tener presenti tutti e quattro questi punti di
vista: razionale, emozionale, etico, stilistico.
Non si deve però
credere che il Rinascimento abbia costituito l’unica forma di cultura
in quel secolo e mezzo. Anzitutto la cultura rinascimentale interessò solo una
minoranza di dotti e di benestanti, mentre la civiltà medioevale aveva proprio
trovato sostanzialmente concordi nobili, borghesi e plebei.[3]
Tale “maggioranza silenziosa”, di popolo ancora integralmente cristiano,
continua ad esistere (almeno si può sospettarlo), trovando
difensori forti e polemici anche tra qualche dotto (Giovanni Dominici,
morto nel 1419; e Gerolamo Savonarola, morto nel 1498: entrambi domenicani; il
primo, anche cardinale e beato). [4]
Un’ultima osservazione. L’Umanesimo, in questa prospettiva, non
costituisce un fenomeno distinto dal Rinascimento, quasi ne fosse la parte
prima, quella della riscoperta ed appropriazione del pensiero antico, senza però
produzione originale propria; periodo che andrebbe dalla morte del Petrarca
(1374) al 1441, anno del certame coronario di cui si parlerà (oppure sino alla
morte del Poliziano (1494). No: l’umanesimo è la dimensione intellettuale
del Rinascimento, il pensiero, la mentalità e ne accompagna tutto il
manifestarsi, dalla preparazione
coi preumanisti, col Petrarca
e col Salutati, alla piena fioritura con i loro discepoli e continuatori.
L’umanesimo rinascimentale è diverso da quello medioevale, come diverso sarà
l’umanesimo illuminista: ma in ognuna di queste culture forma il nucleo
ideologico di fondo, che le differenzia e specifica.
Interessante è anche seguire la origine e diffusione dei due termini
Rinascimento e Umanesimo. “Rinascimento”,
nella forma parallela di “rinascita” ed usato in senso parziale, si trova già
in Giorgio Vasari, che parla appunto di una “rinascita delle arti”, nelle
sue “Vite” (1550). In senso totale, cioè come denominazione dell’età che
segue il Medioevo (già Gioachino Watt nel 1518
fa uso del termine “Media aetas”), lo si trova forse la prima volta
in Jules Michelet (Histoire de France, 1855) ed ottiene largo successo con
l’opera di Jakob Burckhardt “La cultura del Rinascimento in Italia” (Die
Kultur der Renaissance in Italien: 1859). Già Leonardo Bruni, però, ne
esprimeva il concetto quando afferma che “il Petrarca fu il primo il quale
ebbe tanta grazia d’ingegno che riconobbe e rievocò in luce l’antica
leggiadria dello stile perduto e spento”. Sono naturalmente i rinascimentali a
creare il mito delle tenebre medioevali, che con Flavio Biondo intitolano lo
studio dal 500 al 1400 d. C. “Ab inclinatione Romanorum decades”, cioè
“Decadi di libri sulla storia dal declino dell’Impero romano” Il
Medioevo è età di decadenza. “Umanesimo”
nasce a seguito del termine (h)umanista: la
forma latina (con l’h) è stata scovata da Nicola Zabughin in un epigramma
dimenticato della seconda metà del secolo XV; la forma italiana la si incontra
nel 1531 in Ariosto (sesta satira, v. 25: “Pochi sono i grammatici e umanisti|
senza il vizio per cui Dio Sabaòt| fece Sodoma e i suo vicini tristi”).[5] L’UMANESIMO(cioè la MENTALITÀ’ DOMINANTE NEL RINASCIMENTO)
Già si è detto che vi sono almeno tre
componenti del fenomeno umanistico: filologica, storiografica,
filosofica.
L’umanesimo filologico: è la stima ed amore per le opere latine e greche e, di conseguenza, la loro ricerca,
ricostruzione esatta, studio critico ed imitazione. La ricerca e scoperta
di opere classiche era già cominciata col Petrarca (scoperta
di orazioni e lettere ciceroniane a Liegi ed a Verona) e col Boccaccio (scoperta
di Tacito, a Montecassino). Ora la ricerca si fa sistematica: il più fortunato
è Poggio Bracciolini che, al seguito della curia papale, a Costanza, al
servizio del Concilio (1414-1418) per la soluzione dello scisma d’Occidente,
può concedersi l’esplorazione di biblioteche nei conventi e cattedrali
di Svizzera, Francia, Belgio e
Germania. Riporta alla luce, fra le altre opere, nove orazioni di Cicerone (due
a Cluny e sette a Langres)[6],
le Silvae di Publio Papinio Stazio, i
17 libri dei Punica (Guerre puniche)
di Tiberio Silio Italico, il De rerum
natura di Tito Lucrezio Caro, gli otto libri degli Argonautica di Gaio Valerio Flacco.
Ma il Bracciolini non fu l’unico scopritore di opere classiche sparite
dall’orizzonte degli studiosi: a Lodi, il vescovo Gerardo Landriani
riportava alla luce il Brutus ed
integrava i solo parzialmente noti (e confusi tra loro) Orator e De oratore (tutte
opere di Cicerone). Il cardinale Giovanni Orsini rimetteva in
circolazione dodici commedie di Plauto, mentre Giovanni Aurispa, già
segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo a Costantinopoli, portava in
Italia 238 volumi di autori greci, fra cui Aristofane, Demostene, Eschilo,
Sofocle, Senofonte. D’altronde, come il Concilio di Costanza era stato
occasione, negli anni 1414-7, a scoperte di classici latini, così quello di
Ferrara-Firenze (1338-43) mise in contatto così frequente e vivo personalità
eminenti nella cultura filosofico-teologica del mondo orientale ed occidentale,
da accelerare notevolmente la padronanza della lingua e delle opere greche da
parte di questi ultimi. Durante il concilio si misero in luce due grandi
umanisti occidentali: Ambrogio Traversari, generale dei Camaldolesi, gran
traduttore di opere greche e intermediario di primaria importanza nella
(precaria) riunione fra Ortodossi orientali e cattolici romani (sancita nel
1339); e Tommaso Parentucelli, futuro papa Niccolò V (1447-55). I greci
che più ebbero influsso sull’umanesimo italiano furono Giovanni Bessarione
(poi fatto cardinale) e Giorgio di Trebisonda (o Trapezunzio), Giorgio
Gennadio (o Scholarios od anche Scolarcos) e Giorgio Gemisto Pletone.[7]
Diciamo qui una parola sul rientro della cultura greca in Italia. Sono lontani i
tempi in cui bisognava rifarsi alle traduzioni che, attraverso l’arabo, gli
spagnoli fornivano all’Europa cristiana; oppure occorreva trovare un monaco eccezionale come Guglielmo di
Moerbecke per avere una traduzione diretta (e sia pur imperfetta) di Aristotele,
come dovette fare S.Tommasod’Aquino. Dopo Barlaam di Seminara, che fu in
contatto con Petrarca, il quale ne determinò anzi la conversione al
cattolicesimo(morì vescovo di Gerace); dopo Leonzio Pilato, che insegnò un
po’ di greco al Boccaccio ed a Firenze, lasciando traduzioni in latino (sia
pur rozze) dei due poemi omerici, ora inizia un insegnamento che stabilizzerà
la cultura greca classica nel mondo occidentale. Anzi avviene anche il fenomeno
opposto: giovani studiosi italiani si recano a Costantinopoli per apprendervi il
greco alla perfezione: così Guarino Guarini di Verona (dal 1403 al 1408); così
Francesco Filelfo (dal 1420 al 1427), entrambi alla scuola del Crisolora.Questi
aveva insegnato a Firenze dal 1397 al 1400 a spese del comune, per suggerimento
di Coluccio Salutati; poi era passato nell’Italia del Nord a diffondere la
padronanza della lingua e della letteratura greca.[8]
Alla fine del secolo, Aldo Manuzio (1450-1515) iniziava le edizioni
"aldine” e nel 1498 pubblicava tutto Aristotele.[9]
Alla fine del secolo, a Venezia, si costituì l’accademia dei Filélleni, che
parlava e scriveva in greco. Lo studio critico dei testi per
una loro ricostruzione esatta, era
una preoccupazione ben presente al Manuzio ed alla Accademia della Fama, ma
urtava nella difficoltà di non poter “collazionare” (confrontare) tutti i
codici di un’opera, per risalire alla lezione originaria.
Molto suppliva la acutezza intellettuale dei singoli studiosi. LORENZO
VALLA riuscì a dimostrare su
basi stilistiche la falsità della Donatio Constantini, cioè del documento con
cui l’imperatore avrebbe rinunciato al potere sulla parte occidentale
dell’impero in favore del papato (papa Silvestro I lo avrebbe guarito dalla
lebbra!).[10]
Lungo questa linea di intuizioni geniali circa la interpretazione di testi
antichi, farà grandi passi il Poliziano (Agnolo Ambrogini), che raccoglierà
nei Miscellanea le sue conclusioni.
Dopo il Valla, solo nel corso del sec. XVI comparirà il primo notevole caso di
filologo, Pier Vettori (1499-1585): egli si occuperà delle diverse
lezioni di testi classici, alla luce non di intuizioni personali, ma della
collazione di vari codici, discutendone la “lezione”, per scegliere quella
autentica (Variarum lectionum libri triginta tres: 33 libri di
varianti nella lettura di codici). Ma già il Valla, dopo il 1450,
collazionava codici del Nuovo Testamento in greco ed in latino, annotandoli e
preparando, così, l’edizione che ne avrebbe fatto Erasmo da Rotterdam
(Basilea, 1516). L’umanesimo
storiografico: è
la stima, la fiducia, l’amore per gli uomini, le istituzioni, le realizzazioni
delle età passate (di Grecia e Roma, con
Pericle ed Augusto, specialmente), benchè fossero prive dei valori
soprannaturali del Cristianesimo. Petrarca ne è l’iniziatore, sia pure
equivoco, come si è detto. Con lui, i nuovi umanisti ritengono che non vi è
continuazione ma frattura tra Impero romano e Medioevo; soffrono di
un complesso d’inferiorità verso l’età antica, ritenendola senza confronti
superiore alla barbarie del “tempo di mezzo”; desiderano far “rinascere”
quella civiltà, specialmente nelle arti figurative e nelle opere letterarie e
storiografiche e nel senso critico della loro lettura; disprezzano la lingua
volgare, persuasi della superiorità della lingua latina, propria dei dotti,
l’unica con un futuro sicuro: anche
il fiorentino lo ritengono un dialetto, destinato a
scomparire con il diffondersi della istruzione. Dominando una tale mentalità, non fa meraviglia che
anche San Bernardino pubblicasse in un latino smorto le magnifiche prediche che
teneva al popolo in volgare: solo la splendida
idea del cimatore di panni Benedetto di Bartolomeo di fissare il testo preciso
delle parole del santo con una sua stenografia, ci ha conservato il tesoro
letterario, il plus-valore lirico di un’oratoria appassionata e scintillante,
cordiale e razionalissima. Il culto
stesso dei grandi Trecentisti entra in crisi e il Bruni deve intervenire a
stendere una vita di Dante in volgare, per arginare il disdegno verso il grande
poeta. Quando, verso il 1433, Matteo Palmieri osa scrivere in volgare un
trattato per i dotti (Della vita civile), è conscio dell’audacia e vi polemizza con i
colleghi umanisti che disdegnavano la lingua del popolo...; e a buon conto non
editerà l’opera (pubblicata solo nel 1529). Così Leon Battista Alberti dovrà
lanciare un “certame coronario” (gara con in premio una corona
d’argento), nel 1441, sul tema dell’amicizia, per ridestare l’amore
per la poesia in volgare. Ma dei molti
partecipanti in Santa Maria del Fiore, nessuno sarà ritenuto degno del premio;
la prova viene archiviata. Segno più positivo dell’interesse per la storia
delle “epoche-modello” sono gli studi di archeologia e di costume romano. Il
più famoso cultore di tali materie è il forlivese FLAVIO BIONDO (1392-1463), dal 1433 segretario apostolico
nella curia romana, con importanti incarichi diplomatici. Egli scrisse, in tre
libri, una ricostruzione topografica di Roma antica (Roma instaurata) ed una illustrazione in dieci libri delle forme di
vita (istituzioni) pubbliche e private dei Romani (Roma triumphans). Anche la sua più nota opera, le “Historiarum
ab inclinatione Romanorum decades
” (decurie di storia dal declino dei Romani), è bensì il primo studio
sistematico sul Medioevo (dal 412 al 1443), ma denota nel titolo la mentalità
umanistica: la storia dell’epoca che Giacomo Watt chiamerà “media aetas”
(età di mezzo) è storia di decadenza, di “declino”, rispetto alla civiltà
raggiunta da Roma.[11]
Negli studi storici di LEONARDO BRUNI (Historiarum
florentini populi libri XII, cioè 12 libri di storia del popolo fiorentino:
dalle origini al 1404) e di Poggio
Bracciolini (come già detto, con la Historia
florentina, riprese la storia del Bruni dal 1350 al 1454) spira la stessa
aura di ammirazione per l’antico, almeno nel tentativo di utilizzare
criticamente le fonti e di esprimersi in un latino retoricamente costruito sul
modello di Tito Livio.[12] L’Umanesimo
teoretico o filosofico. Come si è detto, è la stima, la fiducia, l’amore per l’uomo ed i
valori terreni, anche a prescindere dalla elevazione alla vita divina per la
Redenzione di Cristo. Rimandiamo in nota i nomi dei principali teorizzatori
(e delle loro opere) su questa mentalità innovatrice e (potenzialmente,
almeno) rivoluzionatrice.[13]
Qui segnaliamo i punti cardinali della dottrina. Al centro degli studi e degli interessi
culturali non sta più Dio, ma
l’uomo; non la teologia, ma la storia e la morale: per convincersene, basta guardare i titoli delle
opere in latino ed in volgare di questo secolo, in Italia. Non che manchi in
molti la coscienza che il primato è di Dio: il laico Cristoforo Landino, nelle
“Disputazioni camaldolesi” non esita a concedere alla vita contemplativa
(dei monaci, ma non solo) il primato fra le attività umane. E si pensi alla
prospettiva coerentemente cristiana del beato Giovanni Dominici, dei santi
Bernardino da Siena (1380-1444) e Giovanni da Capestrano (1386-1456).
Eccessivo fu addirittura l’ascetismo
del tormentato e tormentatore Gerolamo Savonarola (1452-1498). Mai, però, fino
ad allora, si erano visti tanti libri sul problema “uomo”. Senza pretendere
di essere esaurienti, ecco i principali autori ed opere. Tre sono i trattati
sulla dignità dell’uomo: inizia Bartolomeo Fazio, umanista ligure
(1400 ca-1457) con il De dignitate hominis
et praestantia, che
non è però tanto entusiasta dell’uomo terreno, quanto del cristiano
destinato al premio eterno. Alfonso d’Aragona
ne fu scontento ed invitò il Manetti a farvi una risposta:
è il famoso trattato De
dignitate et excellentia hominis
(del 1451-52: edito solo, però, nel 1532), che nel quarto libro confuta
minutamente il De contemptu mundi di Innocenzo
III. Alla fine del secolo vi sarà l’Oratio
de hominis dignitate di Pico della Mirandola (scritta nel 1486, edita
postuma nel 1496). Il Salutati
aveva scritto sulla famiglia in Epistolario, 8, 3; e, in più,
trattati sul fato e la fortuna,
sulla nobiltà delle leggi e della medicina, sul tiranno, sulle fatiche di
Ercole, in difesa degli studi letterari; il Bruni, un Isagogicon
moralis disciplinae (Introduzione alla educazione morale:
interpretazione della morale su basi aristoteliche) e il De studiis et litteris liber (sostiene la istruzione letteraria
anche per le donne: 1422); Francesco Filelfo, il De morali disciplina; rivelatrice dello spirito della morale
stoicizzante dell’Umanesimo è la Defensio
Epicteti del Poliziano (1479).Francesco Barbaro, il De re uxoria (1416); Leon Battista Alberti, in volgare, Della
famiglia; Campano Giannantonio, De
dignitate matrimonii (Guiniforte Barzizza scrive nel 1439 una lettera in
proposito ; si noti che invece Ermolao Barbaro scrive il De
coelibatu, nel 1472); G. Pontano scrive trattati morali innumeri: “De oboedientia, De prudentia,
De fortitudine, De liberalitate, De beneficientia, De magnificentia, De splendore,
De convenientia, De magnanimitate, De immanitate, in cui è ripreso da
Aristotele il concetto di “misura” (ma, ahimè! ognuno la può collocare poi
dove gli sembra bene). Opere pedagogiche scrivono P. P. Vergerio
che nel 1402-3 compone il De ingenuis moribus et
liberalibus studiis adolescentiae; Maffeo Vegio, De educatione liberorum et eorum claris moribus (1445-8); Pio II, De eruditione puerorum (1444); Giovanni Pontano, Ad
Alfonsum, Calabriae ducem, de Principe liber); Sacchi Bartolomeo detto il
Platina[14],
il De principe (1470). Con il Platina
si passa dalla pedagogia alla politica. Se essa è ancora concepita come
parte della morale in G. A. Campano, il De
regendo magistratu; in Matteo Palmieri, La
vita civile (1430-2: in volgare!); in Uberto Decembrio (1370 ca- 1427), De
re publica (inizio del secolo), nel Bracciolini (Historia
tripartita disceptativa convivialis)
si fa avanti il machiavellismo: la politica è equiparata alla forza. Ermolao
Barbaro scrive un De officio legati,
sulla vita del diplomatico, come il Bruni aveva scritto sulla vita civile il De
militia. In proposito aveva avuto grande importanza nei primi umanisti la questione
del primato fra vita attiva e vita contemplativa: Cristoforo Landino, nelle
Disputationes camaldulenses (1475) era ancora per il primato della
contemplazione, come il Salutati nel De saeculo et religione e come Marsilio un
po’ ovunque nelle sue opere; al contrario, al seguito dello stesso Salutati
nel De tyranno, il Bruni e soprattutto il
Bracciolini (Contra hypocritas) ed il Valla (De professione religiosorum) stanno
per il primato della vita attiva. La vecchia tesi guinizelliana della nobiltà
coincidente con la virtù è ripresa in dialoghi da Bonaccorso da Montemagno
(De nobilitate:
anteriore al 1429, ebbe traduzioni e diffusione nel secolo), Bracciolini,
Platina, Landino, Pio II
Piccolomini (De vera nobilitate; De nobilitate animae...), dal Bruni e dal Filelfo (nelle loro
lettere: ma, nelle invettive, si rinfacciano poi i bassi natali...) e nel
Galateo (Antonio De Ferraris: De
distinctione et nobilitate humani
generis). Del problema del rapporto fra libertà, influssi astrologici e
caso, nella vita, si interessano Bracciolini (De varietate fortunae) e L. B. Alberti (Fatum et Fortuna...), Giovanni Pontano (De rebus coelestibus; De
Fortuna).Di problemi morali e
religiosi, gran parte delle opere dell’Alberti (Philodoxus, Virtus, Felicitas, Defunctus, Nummus,
Religio...), molte del Bracciolini (De
avaritia, De nobilitate), di Giovanni Pontano (De prudentia, De fortitudine, De liberalitate, De beneficentia, De
magnificentia, De splendore, De hospitalitate) oltre al già citato Isagogicon
del Bruni. Satira contro i costumi degli uomini, specie del mondo ecclesiastico,
è il dialogo lucianeo Charon, del Pontano,
di cui si possono ricordare gli altri dialoghi, Antonius,
Aegidius, Actius, Asinus, che non riescono ad evitare i temi religiosi e
morali, toccati spesso con audacia inedita. Al Charon del Pontano si può
avvicinare l’Eremita di Antonio De Ferrariis, (detto il Galateo):
questi, nato in Terra d’Otranto nel 1444 e morto a Lecce nel 1517, fu medico e
risultò un ambidestro, appassionato tanto delle scienze (De podagra, De situ
elementorum, De situ terrarum ad
Leonicenum apologeticon) quanto
delle questioni morali (De distinctione et
nobilitate humani generis, De inconstantia
humani generis, De beneficio indigne collato, De gloria contemnenda, De morte
fratris, De hypocrisi, De educatione). Ma quello che sorprende maggiormente
è che anche Marsilio Ficino,
che pensò e visse per la conciliazione della fede cristiana con la filosofia
(platonica) e per l’affermazione dei valori spirituali, manifesti un
entusiasmo candidamente rinascimentale per l’uomo e le sue opere.[15]
Egli ha espressioni di profonda ammirazione per l’essere umano e per le facoltà
che ne fanno l’anello di congiunzione fra spirito e materia nella scala degli
esseri plotiniani. Le espressioni, inoltre, sono tanto più significative, in
quanto inserite in opere per sé specificamente religiose (De christiana religione| e Theologia
platonica: le dichiarazioni più entusiaste sono in questa seconda opera,
oltre che in alcune lettere). Questo non toglie che il Ficino testimonia anche
che l’interesse religioso permaneva il primo in alcuni umanisti come lui o
come Cristoforo Landino (Disputationes
camaldulenses), o Giannozzo Manetti (cfr. l’opera apologetica Adversus
Judaeos et gentes -i pagani, le genti infedeli- pro
catholica fide);o almeno costituiva pur sempre un centro di interesse
altissimo (come nell’ultimo Valla, quello del De
mysterio Eucharistiae e dell’Encomium
S. Thomae Aquinatis). All’ideale dell’ascetismo che predica la penitenza, la rinuncia ed
il chiostro, si sostituisce quello della felicità (anzi
della “voluttà”, nella terminologia di L. Valla) e dell’impegno
nell’attività terrena della società. In particolare all’ “ozio dei
religiosi” che il Petrarca aveva elogiato, invidiando il fratello Gerardo, si
oppone l’operosità della vita pubblica. Con poche eccezioni (Cristoforo
Landino e Marsilio Ficino), si esalta ora l’impegno nella vita sociale:
Coluccio Salutati aveva dato l’esempio nella
prassi e nella teoria (lettere a Squaro Gaspare dei Broaspini; a ser Andrea
Giusti da Volterra...; scrisse anche un opuscolo intitolato significativamente De
vita associabili et operativa, anche se non pervenutoci). Con i discepoli
del Salutati, all’elogio della vita nel secolo si aggiunge il disprezzo e la
condanna di quella dei religiosi, insolentiti come ipocriti, fannulloni e
peggio. In tal senso, scrivono
Bracciolini (Contra hypocritas:
1447-8; De avaritia, contro i frati
questuanti), Lorenzo Valla (De professione
religiosorum: 1442) ed il Bruni (Oratio contra hypocritas). In
opposizione alla coscienza delle “miserie umane” ed all’invito del
“contemptus mundi” (disprezzo del mondo), atteggiamenti propri del Medioevo,
si sostituisce una coscienza esultante
per la grandezza, la potenza, la
dignità dell’uomo. Egli, infatti, non è solo destinato all’immortalità (criterio religioso e cristiano, ancora presente), ma
è altresì capace di determinare la
propria vita con la libertà del volere e l’iniziativa dell’operare,
vincendo la fortuna e i casi avversi (L.B. Alberti); ha
il potere di dominare il mondo e di metterlo al proprio servizio. Si
abbandona la fede nella astrologia (salvo rari casi, come quello di Giovanni
Pontano); anzi si può cadere nell’errore opposto, quello della magia, che
pretende di dominare l’andamento delle vicende anche umane con poteri
misteriosi e preternaturali (credenza presente in Marsilio Ficino e Pico della
Mirandola). L’uomo è insistentemente celebrato come “copula dell’universo”,
cioè come anello di congiunzione fra materia e spirito, fra anima e corpo.
L’espressione, si noti, è di origine persiana ed il concetto lo abbiamo già
trovato in S. Ambrogio (l’uomo è “la più eccelsa opera di questo mondo..
come il compendio dell’universo e la bellezza suprema delle creature del
mondo”: Exameron, VI, 10, 75) ed in San Tommaso d’Aquino: “nell’uomo vi
sono in qualche modo, tutte le cose...l’anima intellettuale è detta quasi
orizzonte e confine delle cose corporee ed incorporee, in quanto è sostanza
incorporea e tuttavia forma del corpo”[16]
Tale formula corrisponde all’altra di Niccolò Cusano (Nikolaus
Chryppfs o Krebs von Cues (Treviri): “l’uomo
è un microcosmo” (Congetture) e al concetto di Pietro Pomponazzi :
“l’uomo è il centro dell’universo”
(L’immortalità dell’anima). Ma la espressione precisa di uomo “copula
mundi” è in Marsilio Ficino, Theologia
platonica. Ecco alcune espressioni che adeguano questi stessi concetti. Da Marsilio
Ficino: “L’uomo ha un posto intermedio tra la feritas dei bruti e la
divinitas del Creatore: ma egli partecipa della natura divina, tanto che può
comprendere ciò che Dio stesso ha creato. Infine, l’uomo imita tutte le opere
della natura inferiore. Dunque, senza dubbio, l’essenza dell’uomo è di
natura divina, dato che l’uomo da se stesso, cioè con la sua mente e la
sua attività, governa se stesso, per nulla limitato dalla natura corporea e può
imitare le singole opere della natura divina.... Questo...bisogna anzitutto
tener presente, che un uomo qualsiasi non può capire pienamente in qual modo e
con quali arti sia stata costruita un’opera ingegnosa da un artefice abile, ma
soltanto lo può un uomo che abbia un’eguale capacità creatrice. Nessuno
infatti potrebbe comprendere in che modo Archimede abbia costruito le sue sfere
di rame e abbia con esse insegnato i movimenti che son propri degli astri, se
non fosse fornito di pari ingegno. E chi le comprende, perché è fornito di una
capacità di ingegno (adeguata) potrebbe certo fabbricarle uguali, dopo averne
avuto cognizione, purché non gli mancasse la materia. E perciò, quando
l’uomo sia riuscito ad intendere l’ordinamento dei cieli, donde essi
traggano moto, la loro direzione, le
loro misure e che cosa producano, chi negherà che esso abbia lo stesso
ingegno (per dir così) che ha il Creatore dei cieli? e che, in certo senso,
egli potrebbe costruire i cieli, se trovasse gli strumenti e la materia celeste,
dato che egli ora li crea, sebbene in altra materia, ma tuttavia quasi identici
quanto all’ordinamento?”[17]
Quest’altra (dall’Epistolario, l. I, p. 611) porta la rigenerazione
cristiana ad un estremo di espressione che rimani incerto se ritenerla fervore
di un mistico o aberrazione di un panteista: “Egli (Dio) si fa incontro
all’anima che tende verso lui, la abbraccia, ne pervade le midolla, la
alimenta, la rigenera, la riforma in un angelo, la converte in Dio”.
E’ l’anelito ad essere come Dio che si legge nella Teologia platonica:
“Non si sforza l’anima di diventare tutte le cose, come l’uomo è tutte le
cose?... Essa vive la vita delle piante, nella funzione vegetativa; la vita dei
bruti, nell’attività sensibile; la vita dell’uomo, quando con la ragione
tratta gli affari degli uomini; la vita degli eroi, investigando le cose
naturali; la vita dei demoni, nelle speculazioni matematiche; la vita degli
angeli, nell’indagare i divini misteri; la vita di Dio, facendo per grazia
divina tutte quelle cose...Il genere umano nel suo complesso tende a diventare
il tutto, perché vive la vita del tutto. Perciò ebbe ragione Trimegisto di
chiamar l’uomo un grande miracolo... Egli si serve degli elementi, misura la
terra e il cielo, scruta le profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra
troppo alto né il centro della terra troppo profondo. Gli intervalli dei tempi
e dei luoghi non gli impediscono di correre da per tutto in qualunque tempo.
Nessuna parete gli impedisce di sentire. Nessun confine gli basta. Dovunque si
sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come Dio”. Ed ecco Pico
della Mirandola (Orazione sulla dignità umana): “Perché vi sia qualcuno
capace di intendere la ragione dell’universo da Lui creato, di amare la
bellezza, di ammirare l’immensità... (Dio ha creato) l’uomo libero artefice
e costruttore di se stesso: non lo ha fatto ne celeste ne terreno perché si
foggiasse da sé, libero di degenerare verso i bruti o di rigenerarsi fino
all’altezza delle cose divine”. Nonostante
una maggior concretezza, non meno estatico è Giannozzo Manetti:
“Infatti nostre, e cioè fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono,
le case, i villaggi, le città; tutte, infine, le costruzioni della terra che
sono tante e tali, che per la loro eccellenza dovrebbero a buon diritto essere
ritenute opere piuttosto di angeli che di uomini; nostra opera sono tutti
i generi delle varie lingue e delle varie lettere... Nostri, infine, sono
tutti i ritrovati, che ammirabili e quasi incredibili di potenza , che
l’ingegno umano, o piuttosto divino, volle costruire ed edificare... Queste ed
altre simili cose si vedono da ogni parte tanto numerose e belle, che il mondo e
i suoi ornamenti, trovati e stabiliti da Dio...., appaiono molto più belli,
adorni e di gran lunga più perfetti”. Finiamo con Leon Battista Alberti.
La natura fece l’uomo “composto parte celeste e parte divino, parte sopra
ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo; concessegli forma e membra
accomodatissime a ogni movimento...; attribuìgli discorso e giudicio a seguire
e a prendere le cose necessarie e utili...; donògli ingegno, memoria e ragione,
cose divine e attissime a investigare, distinguere e conoscer qual cosa sia da
fuggire e quale da seguire per ben conservare se stessi”. Da qui l’Alberti
deduce che l’uomo ha in sé la ragione della sua sorte e che “tiene giogo la
fortuna solo a chi sé gli sottomette” e non le contrasta con la sua virtù,
cioè con l’avvedutezza e la sapienza, perché, tutto considerato, conta assai
più “nelle cose civili e nel viver degli uomini... la ragione che la fortuna,
più la prudenzia che alcuno caso”. E la virtù dipende solo dal suo
volere: la preghiera non serve ad ottenerla (cfr. Baldesar Castiglione). La novità sta in vari particolari: anzitutto
l’entusiasmo con cui vengono espresse le affermazioni; in secondo luogo, la
frequenza delle stesse; in terzo luogo l’inconscia emarginazione della colpa
originale (ne riparleremo) che permette tale euforia; in quarto luogo è
l’ardimento di certe dichiarazioni che rasentano il panteismo o la
identificazione dell’uomo con Dio. Ad un certo punto potrebbe sembrare che,
non essendoci corpo materiale in Dio, l’uomo riassuma l’essere tutto, in
modo più completo del Creatore. Oppure ci si domanda se il paralogismo di M.
Ficino, secondo cui chi sa rifare un marchingegno, è pari al suo inventore, non
conduca a fare dell’uomo un altro dio o ad identificarlo con Lui (tanto che
egli non esita a dire che “l’essenza dell’uomo è di natura divina”). E
forse più vicino all’eresia fu ancora Pico della Mirandola, che dice l’uomo
uguale agli angeli; l’uomo che si fa uno con Dio... Non per nulla Giorgio
Scholiarcos denuncerà come eretico
il Ficino, mentre Pico della Mirandola avrà fastidi
grossi con la Chiesa, che lo farà incarcerare.
Considerato
quasi onnipotente come Dio, l’uomo rinascimentale può attuare pienamente il
proprio essere, la propria aspirazione ad una vita che armonizzi spirito e
materia, ragione e istinti, virtù e piacere, forza e intelligenza, onestà e
successo. Quest’ultimo punto sarà particolarmente caro alle generazioni del
primo Millecinquecento e avrà la sua risposta uguale e contraria nel pessimismo
fideistico di Lutero ed in quello miscredente di Machiavelli. Ma pel momento,
permetterà a Lorenzo Valla di fare del piacere (De Vuptate) un genere di
esperienza perfettamente integrabile con la
felicità cristiana.[18]
Si può porre a questo punto la questione:
il Rinascimento fu, nel suo spirito più profondo, un neopaganesimo,
consapevole od inconsapevole, mascherato ipocritamente o ingenuamente accolto?
La prima risposta è questa: il problema va dibattuto a livello di valori
coscienti, perché altrimenti si dovrebbe vedere, a ragione di stretta logica,
un implicito rifiuto del cristianesimo (e di Dio stesso) in ogni peccato grave
consapevole. Stando ai dati da noi conosciuti con certezza, vi è un solo caso
di alienazione totale dal cristianesimo: Carlo Marsuppini (1398-1453:
genovese, docente nello Studio fiorentino e successore, nella cancelleria, al
Bruni), che rifiutò i sacramenti sul letto di morte. Gli altri casi clamorosi
di neopaganesimo e peggio, noti tra il Millequattrocento ed il Millecinquecento,
sono solo “indiziari” e costringono
a fare “processi alle intenzioni”.Anzitutto vi è quello del culto pagano
instaurato a Roma da Giulio Pomponio Leto (1428-98) e dalla sua
“Accademia romana”. In proposito va, infatti, detto che
può davvero essersi
trattato di fanatismo per la vita di Roma classica (di cui volle rievocare
vocaboli, calendario di giorni fasti e nefasti, con libagione agli dei nelle
feste, celebrate dall’Accademia),
piuttosto che di adesione alla religione pagana: tale fu, ad ogni modo, la
interpretazione accettata dal processo inquisitoriale che liberò il Leto nel
1469. E così il “fatto” diventa semplice “sospetto” e la “prova”
solo un “indizio”. Qualcosa del
genere si può dire del Valla, il cui infelice tentativo di armonizzare
il piacere epicureo con la fede cristiana deve
essere stato errore conseguente alla ingenuità (e magari anche al malcostume)
giovanile, con un eccesso di ottimismo circa la facilità di metter d’accordo
esigenze istintive ed obbligazioni morali: il duplice rimaneggiamento
dell’opera De voluptate (Il piacere, del 1431, divenuto De vero bono nel 1433
e De vero falsoque bono nel 1439), mentre ancora era con gli Aragonesi, può ben
essere un indizio che una vera
maturazione intellettuale lo costringeva a limare e correggere le sue posizioni
iniziali. E veniamo a Pietro
Pomponazzi (1462-1525). Egli ripresentò dalla cattedra di Bologna
la dottrina di Alessandro di Afrodisia, un interprete di Aristotele del
III secolo d. C.: solo l’intelletto agente, cioè la parte dell’anima che
astrae gli universali dalle sensazioni, è spirituale ed immortale; esso, però,
non è personale, come lo è invece l’intelletto passivo (che però,
limitandosi a percepire le sensazioni, è materiale e mortale).Egli scrive
un’opera intitolata “De immortaliate animae” solo per antìfrasi, cioè
per dimostrare “a livello filosofico” la mortalità delle anime (passive)
personali; l’anima agente e spirituale è unica per tutta la umanità. Eppure
egli si riteneva cattolico ortodosso in base
alla dottrina della duplice verità, con cui si difese dalla condanna del
concilio Laterano IV (1516): come cristiano, egli accettava la rivelazione e,
quindi, la tesi della immortalità personale! Che tale posizione, se sincera,
sia almeno ridicola, non v’è dubbio. Ma chi non sa che il Pomponazzi era
ridicolo in altre sue idee (difesa dei dialetti contro l’unità della lingua)
e persino nel pronunciare una lingua toscana così maldestra (era mantovano), che “pareva un giudeo
tedesco che volesse imparare a parlare italiano”? E’ parola di Matteo
Bandello, un bello spirito che ritroveremo
fra gli scrittori del Millecinquecento. D’altronde, vari docenti del sec. XVI
all’università di Padova seguivano
la dottrina di Averroè (tutta l’anima è impersonale, una sola per tutta
l’umanità: la immortalità è impersonale) e si difendevano con l’appello
alla duplice verità (Alessandro Achillini e Agostino Nifo, ad esempio).
E venature averroistiche alla università di Padova erano esistite già
durante i secoli XIII e XIV:
e già allora si distingueva tra verità di ragione e verità di fede! La seconda risposta è più positiva:
per rimanere nel solo Millequattrocento, troppi membri del clero
(vari papi, Niccolò V e Pio II), un cardinale, Niccolò da Cusa,
sacerdoti irreprensibili (come Luigi Marsili, AmbrogioTraversari, Ermolao
Barbaro ...) e cristiani esemplari (Giannozzo Manetti,
Vespasiano da Bisticci, Vittorino da Feltre, Marsilio Ficino, Pico della
Mirandola) ebbero parte da protagonisti o comunque molto attiva nel movimento,
perché si possa ridurlo ad una forma di immanentismo ateo o di sincretismo,
genericamente religioso ma non più cristiano. Nel secolo XVI avremo umanisti
come i papi Giulio II e Leone X, il cardinale
Pietro Bembo ed Erasmo da Rotterdam; ed anche due santi (in Inghilterra)[19]:
il vescovo John Fisher ed il cancelliere del regno, Tommaso Moro. Eppure è
impressione persistente che ci fosse qualcosa che non combaciava con la fede cristiana.
Cominciamo da alcune affermazioni
autorevoli. Erasmo da Rotterdam, testimone e partecipe del movimento negli stati
tedeschi, accusava gli umanisti italiani di nascondere il loro disinteresse pel
cristianesimo dietro l’entusiasmo per Cicerone (nell’opera Ciceronianus). Il non credente Francesco De Sanctis, nella
Storia della Lett. It. (1870-1) scrive: “ La quale (arte della vita,
insegnata da L. B. Alberti) si può ridurre in questa sentenza: che l’uomo dee
tener lontane da se le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e
modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace
che Dante cercava nell’altro mondo e che (Leon) Battista (Alberti) ti offre in
questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi umanisti e che
Lorenzo Valla chiama argutamente –voluttà-. Il concetto ascetico: che
l’uomo non può conseguire vera felicità in terra è alieno dal Quattrocento,
che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista (sempre L.
B. Alberti) non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere
un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non
sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva
quell’indirizzo” (c. 11).Il grande storico cattolico Ludwig Pastor
(1854-1928) nella sua monumentale Storia
dei papi dalla fine del Medioevo,
inizio del primo volume) giunge a distinguere un Rinascimento cristiano ed uno
pagano: che è una formula un po’ semplicistica di risolvere l’ambiguità di
molti (non di tutti) scrittori ed attori del movimento. In realtà, se si
eccettuano il card. Dominici ed il Savonarola, vi è un’aura specifica che
accomuna tutti gli umanisti rinascimentali, , un filo rosso che li lega, siano
essi ortodossi od eretici, peccatori o santi. Tutti denunciano un minimo comun
denominatore, che è vero “segno dei tempi”. Tentiamo di esemplificare
questo spirito rinascimentale cogliendolo in personaggi, che ne dovrebbero
essere i più sospettosi e ritrosi: un santo ed una mamma cristiana del secolo.
Il primo è San Bernardino da Siena. Ebbene, in una dottrina di fede e di
morale sicuramente cattolica, vi è un tono, uno “Schwung” (estro, slancio)
sia negli argomenti affrontati, sia nella confidenza sbarazzina con cui li
tratta. Le sue prediche paiono cosa nuova e affascinano per la fusione di fede
ed esperienza, di ragione e rivelazione, di severità e lietezza. Sarà la
disinvoltura nel parlare “chiarozzo chiarozzo” sugli argomenti più
scottanti (le giovani e il matrimonio), garantendo di uscirne pulito e netto,
come il “gallo (che incede nel pollaio) in feccia”. Sarà la sua insistenza
sul valore della cultura e sulla conseguente necessità pel comune di Siena a
finanziare l’apertura di uno Studio, come una delle colonne della vita
cittadina, accanto alle arti del cuoio e della lana. Sarà ancora la
celebrazione della bellezza femminile e l’invito agli uomini “amate le
vostre mogli”, senza che questo gli impedisca di condannare “madonna saragia”
(sardella o saracca), cioè la donna seduttrice, che lusinga gli uomini al
peccato. Che più? Nella sua predicazione troviamo la celebrazione della
Commedia di Dante, accanto alla condanna ovvia del Decameron. Egli raccomanda la
lettura di San Girolamo (che si permette chiamare
in causa con l’attributo sbarazzino di “barbacanuta”) come equilibratore
(non surrogato) del troppo Ciceronianesimo; e conclude “Così vo’ dire a voi
che studiate...fate che voi non diventiate cotali pecoroni” cioè seguaci
scriteriati della moda imperante nel culto per la classicità pagana. Ed ecco Alessandra
Macinghi, sposata Strozzi e perciò invisa ai Medici vincitori, che
condannano all’esilio la famiglia: morto il marito Matteo nel 1428, poté
rientrare in Firenze, ma per vedere esiliati i tre figli maschi, man mano che
raggiungevano la maggior età. Essa, madre di sette figli a 27 anni e vedova a
ventotto, segue Filippo, Lorenzo e Matteo, che esercitavano la mercatura a
Napoli, con lettere dettate da un amore materno
che trova non solo serenità e forza, ma ottimismo, fiducia e anche senso di
tolleranza verso i peccati dei figli, seguendo bensì una innata carica vitale
di stampo virile, ma anche il senso
di concretezza acquisita da una esperienza disincantata della vita, pur nella
certezza della fede e della legge morale. Ed eccola prevedere con rassegnata
serenità la “serqua” di nipotini
illegittimi che il libertinaggio sessuale dei figli le procureranno a Napoli. Ed
ecco la avvedutissima considerazione dei pro e dei contro nella scelta della
sposa per il figlio Filippo. Parte bensì dal principio morale “Ora el minor
defetto che sia di questo (bilanciare i vari partiti) si è e danari”, ma per
esplodere poi nella umanissima conclusione: “Essendo bella (la ragazza) e di
Filippo Strozzi, è di bisogno di belle gioie; ché come tu hai l’onore
nell’altre cose, en questo non vuol mancare”. Se dei santi e delle donne sagge e cristiane parlano
in tali termini, ciò vuol dire che essi non considerano la “voluttà”
terrena del tutto estranea alla beatitudine evangelica: si tratterà di
mantenere i criteri della temperanza morale, ma non è più proibito celebrare
anche simili valori tipicamente terreni. E’ riflettendo sulle relazioni tra le
due felicità e sulla esistenza o meno di difficoltà ad unirle e subordinarle
che salta all’occhio una disarmonia. Il Rinascimento ha troppa fiducia nella
facilità di armonizzare il successo terreno
con la salvezza eterna: il cristianesimo (non solo medioevale) è molto
più cauto ed esigente. Confrontando tale ottimismo colla Weltanschauung
medioevale, ci si accorge che vi è
un fattore antropologico caduto
dalla coscienza dell’umanesimo rinascimentale, che lo rende troppo
spontaneamente aperto al sorriso ed all’allegria. Se la nota più sorprendente
è questa della fiducia, dell’emozione esultante (e la riprenderemo in esame a
proposito del “gusto” rinascimentale), le sue radici, le premesse saranno
bene di natura conoscitiva, apparterranno, cioè, alla mentalità o pensiero,
alla filosofia od ideologia, cioè al suo tipo di “Umanesimo”.[20] E, a priori, la spia più
sicura andrà cercata in teologi e
filosofi del tempo. Tanto Guglielmo Occam
(1290-1349 o 1350), quanto Gabriele Biel (1468 ca - 1495) sostengono la perfetta libertà
dell’uomo (quella interiore, di fronte alla tentazione, cioè quella
riguardante il rapporto fra razionalità ed istintività dell’uomo), anche
dopo il peccato originale. Vi sarebbe la piena possibilità di attingere la
perfezione morale anche al di fuori della Grazia venutaci dalla Redenzione di
Cristo. Una simile posizione teologica ricorda quella dell’eresia pelagiana
(Pelagio fu un monaco inglese dei secoli IV e V) e lascia presagire quella
dell’Illuminismo razionalistico e del sentimentalismo russoiano del
secolo XVIII. Noi abbiamo già insinuato,
circa l’affievolimento del cristianesimo percepibile nel corso del
Milletrecento, che non si tratta (come
per Pelagio e per gli Illuministi), di un rifiuto cosciente della colpa
originale o delle sue conseguenze nefaste nella psiche umana, ma solo di un
oblio, di una emarginazione inconscia, di una obliterazione implicita,
di un accantonamento ai margini della coscienza di questa verità di fede
o almeno (lo abbiam visto in Petrarca) della percezione delle sue implicazioni
negative in sede di capacità
morale, di autonomia nel realizzare il bene, della potenza a dominare la sfera
emotivo-istintiva, a realizzare la statura autentica dell’uomo concreto e
storicamente connotato. Non è proprio che
manchi del tutto nei libri degli umanisti dopo Petrarca un riferimento al
peccato originale, ma il suo ricordo non è messo in relazione con la morale
debolezza dell’uomo. Certo Giannozzo Manetti ricorda la colpa originale (De
Dignitate et excellentia hominis, libro IV), ma solo in rapporto ai danni
conseguiti nella vita fisica, corporale dell’uomo, non nella sua vita
spirituale. Il Pontano la ignora invece del tutto nel dialogo “Caronte”:
proprio nel finale ha questa affermazione di sapore stoico-pelagiano:
“Tu sai quanto Dio è distante dall’uomo, non solo di spazio ma anche per
natura: ebbene, la Virtù è la sola che in vita concilia Dio all’uomo e, dopo
la morte, unisce l’uomo a Dio. Poiché, siccome la Virtù sta nel mezzo, e
fugge gli estremi, così anche fra Dio e l’uomo sta unicamente la
Virtù; ne senza di essa è possibile conoscere Dio o salire a Dio. Tutti
gli altri beni sono fragili e passeggeri: la Virtù sola è stabile ed eterna. E
mentre essa non ha bisogno di alcuno, tutte le altre senza di lei
sono manchevoli”. L’uomo fa a meno della mediazione di Cristo: non ha
bisogno della sua Redenzione: basta il volere dell’uomo all’acquisto della
Virtù, che direttamente ci unisce a Dio. L. B. Alberti esclude esplicitamente
la preghiera in ordine all’acquisto della virtù: siamo su posizioni stoiche o
pelagiane, certo al di qua del senso del peccato originale. Nel secolo XVI., il Cortegiano
del vescovo Baldesar Castiglione come l’Utopia
di San Tommaso Moro sono altrettanto
indicativi. Il primo esce a dire (ne Il
Cortegiano) che per essere onesti non occorre altro che la volontà del
singolo “quello solo è vero filosofo morale che vuol esser buono: ed
a ciò bisognano pochi altri precetti che tal volontà” (libro I,
41) svuotando così la necessità ed il valore della croce di Cristo (S. Paolo I
Cor. 1, 17). Il secondo, scrivendo l’Utopia (1516: praticamente contemporanea
al Cortegiano, dunque), attribuisce il male della società al sistema della
proprietà privata, cioè sposta l’origine del peccato dalla volontà umana
all’ordinamento sociale (marxismo in agguato!). Solo verso la fine
dell’opera l’orgoglio umano appare come causa ultima del disordine
dell’umana convivenza. Ma che la superbia umana dipenda dalla caduta dei
progenitori non si sospetta minimamente: era proprio una verità di fede caduta
dalla coscienza degli ottimisti rinascimentali. Verrà Lutero due anni dopo a
dare la sveglia a questa “generazioncella di cristianucci tiepidi e
disorientati”. Ed ingenui. Il
Castiglione si lascerà ingannare da Carlo V e non saprà prevedere la discesa
dei lanzichenecchi su Roma: morto ben presto, verrà (ironicamente?) lodato dal
suo turlupinatore come “el mejor cabajero del mundo”. Il martirio del Moro
purificherà, invece, nel sangue i
limiti di una antropologia puramente razionale e, perciò,
astratta e nebulosa.[21] Una controprova
che la radice della differenza tra Cristianesimo intero ed interpretazione
edulcorata e sfuocata data dal Rinascimento sia proprio la dottrina del peccato originale e delle sue conseguenze negative sull’uomo (oltre la lettera di San Paolo ai
Romani, 5, 12-21, il richiamo alla coscienza di tale pilastro del cristianesimo
è in S. Agostino) la si può trovare negli
scritti del beato Giovanni Dominici che si
appella esplicitamente ed insistentemente alla colpa originale per
mettere in guardia contro i pericoli di una cultura di stampo pagano e di una
educazione troppo affettuosa e liberale (si veda in “Regola del governo di
cura familiare”: edito solo nel 1860). Nell’altro grande
figura di stampo medioevale, Girolamo Savonarola, il richiamo non
compare, ma doveva almeno implicitamente timoneggiare il suo pessimismo
sull’uomo e la sua severa esigenza ascetica (distruzione di ogni immagine
impudica, di oggetti di lusso: bruciamento, insomma, delle vanità) anche per i
laici. Inutile ripetere che fan parte di questa controprova e, anzi, la portano
ad una forza dimostrativa insuperabile,
le figure dei riformatori evangelico-protestanti: Martin Lutero, Ulrico
Zunglio e Giovanni Calvino, che delle conseguenze del peccato primo fanno il fondamento
della loro dottrina di (non) salvezza. Essi
riducono di fatto
l’estensione della redenzione di Cristo: essa non è più per tutti gli
uomini, ma si limita agli “eletti”, cioè ai prescelti nella massa di
dannazione, quale appariva loro l’umanità in seguito alla caduta dei
progenitori. Essi reagivano sì ad un andazzo permissivo nei costumi, ma che
aveva il suo fondamento nell’obliterazione di un principio religioso
dogmatico, tanto che per riparare alla prassi corrotta, essi non trovano nulla
di meglio che esasperare l’importanza di
quella verità di fede, praticamente emarginata se non ancora
intellettualmente rinnegata. La loro ossessiva insistenza sulle conseguenze tragiche della
colpa originale è la cartina di tornasole che rivela dove stava il punto di
divaricazione fra Cristianesimo e Rinascimento, fra Umanesimo cristiano ed
Umanesimo rinascimentale. Aggiungiamo che i princìpi della politica
machiavellica, nella loro crudezza disperata, sono anch’essi indizio della
fatuità di un ottimismo che non aveva giustificazione nella realtà
socio-politica italiana (e l’Elogio
della pazzia di Erasmo e l’Utopia di
More allargano purtroppo gli orizzonti della cancrena a tutto l’Occidente
cristiano).Ma le stesse posizioni permissive del santo cancelliere
d’Inghilterra, Tommaso Moro appunto (ripetiamo: divorzio ed eutanasia, sia
pure in casi estremi), non sono già indizio che, senza la reazione del
rigorismo calvinista e della severità del Concilio di Trento cattolico, ci si
stava avviando ad un Illuminismo anticipato? E che dire di M. Ficino e Pico
della Mirandola che scadono nella magia e nella cabala? E del disorientamento
dei teologi che consentono a Pomponazzi di insegnare la mortalità dell’anima
individua, sotto l’usbergo del principio della duplice verità? Vogliamo un
altro segno? Si prenda quel capolavoro di arte editoriale che fu, nel 1499 e per
i tipi di Aldo Manuzio (con 168 xilografie che si lasciano sospettare
addirittura del Mantegna o almeno della sua scuola), l’Hypnerotomachia
Poliphili (battaglia d’amore nel sogno di Polifilo)
di Francesco Colonna:
tra amore ed allegoria, tra stile
opulento e contenuti eruditi, fra lingua padana tendente al toscano ed a forme
latineggianti, tra sogno e realtà vien inculcata
una religione naturale (“Ex labore Deo naturae sacrifica liberaliter”:
fa volentieri sacrifici dal tuo lavoro al Dio della natura) ed un amore
disinvolto e gaudente, con molti riferimenti pagani. L’autore è un
domenicano, cioè un confratello di quel cardinale Dominici che
nel 1405 scriveva la Lucula noctis
per esorcizzare l’umanesimo rinascimentale! Ma il Dominici era uomo che
conosceva che cosa c’è nel cuore umano: la sapienza cristiana, posseduta fino
in fondo, gli lasciava facilmente prevedere l’abisso che si intravedeva al
termine dei piccoli passi fuori della fede cristiana.
Circa un secolo dopo, neppure un confratello di San Tommaso d’Aquino
riusciva più a distinguere fra cristianesimo e paganesimo: era
un progresso logico dell’abbandono della fede nel peccato originale.
Nel frattempo, la spregiudicatezza critica del Valla e il suo filoepicureismo,
il latente materialismo antropologico del Pomponazzi preparano il terreno a
Michele Montaigne (1533-92), scettico e ironico, che non crede nella capacità
dell’uomo ad attingere la verità e che non mette l’uomo al culmine dell’universo: l’umanesimo non
più cristiano completava presto il
suo ciclo e perveniva ad una antiumanesimo, che riduceva la moralità oggettiva
alla coscienza soggettiva, l’honnète homme ad un gentiluomo dotato solo più
di virtù sociali (non ruba, non danneggia il prossimo, è fedele alle leggi
civili...), che oscilla tra aspirazioni stoiche e tentazioni epicuree. Ci pare di avere così delineata e documentata la
mentalità dominante, il pensiero prevalente, il viraggio intellettuale più
caratteristico della società rinascimentale. Ma è ovvio che sussistano, dentro
o accanto o contro di essa, altre ideologie, inclinazioni psicologiche e studi
differenti da quelli grammaticali e letterari, storici e filologici, filosofici
e teologici. Ne accenniamo i tratti principali. ASPETTI
RECESSIVI O MINORITARI DELLA CULTURA RINASCIMENTALE. E’ vero: benché escluso dal proscenio e dalle luci
della ribalta, il pensiero scientifico e l’interesse tecnologico continuano e
progrediscono, anche se gli interessati a tali settori del sapere sono ridotti
ad una minoranza silenziosa, senza l’impatto sulla opinione pubblica
degli studi umanistici. E’ vero: Leonardo da Vinci (1452-1519)
è “uomo solo” non per l’indirizzo tecnico della sua mente, ma per
la mancanza della lingua latina. E’ vero: come
sarebbe stato possibile la crescita delle iscrizioni in tutte
le università, senza un aumento anche di medici e, quindi, di gente
inclinata più alle scienze che alle lettere? Padova era interessata agli studi
di astrofisica, oltre che alla medicina; e lo stesso va detto di Salerno.
D’altronde le guerre erano frequenti e, di conseguenza, anche le invenzioni
tecniche, chimiche e meccaniche, per le armi da fuoco. La stessa invenzione
della stampa è, prima ancora che una
spinta alla circolazione del pensiero astratto, un prodotto della tecnologia che
mette in opera la lega di piombo ed antimonio... E le scoperte
geografiche (Capo di buona Speranza ed America) sono rese possibili dal
progresso nella tecnica delle costruzioni navali. E’ vero: fra gli stessi umanisti si trovano
personaggi ambidestri, simpatizzanti cioè per l’indirizzo anche matematico e
geometrico degli studi. Vittorino da Feltre (lo si è visto) fa
conoscere Euclide, agli alunni della Ca’gioiosa, direttamente sul testo
greco. Guarino Veronese si può dire che prediliga tale tipo di
interessi, visto che traduce Plinio (Gaio Secondo, detto “il Vecchio”, 23-79
d.C.: è l’autore della Naturalis Historia, non mancante di errori marchiani, ma pur sempre
la fonte più ricca di sapere scientifico fino alle scoperte di fine
Millecinquecento), Celso (Aulo Cornelio,sec. I d. C.: autore di
un’enciclopedia , di cui restano gli otto libri De medicina), Strabone (Amasia,
sul Ponto: 64 ca a. C.- 24 ca d. C.: geografo greco), più che non Cicerone od
Orazio. Nello “studio” di Pavia, trasferito momentaneamente a Piacenza,
figurano nomi famosi per la competenza matematico-scientifica: Biagio
Pelacani da Parma e Ugo Benzi da Siena. Giovanni Pontano, poi, scrive
il più lungo e impegnativo dei suoi poemi, l’Urania, sulla astronomia ed
astrologia. E Matteo Palmieri, filosofo e poeta, ci è tramandato anche come
uomo, il quale “abbaco sua paene natura deditus...numerorum disciplinam
accuratissime didicit” (dedito al calcolo quasi per la sua stessa natura,
apprese con ogni cura la scienza dei numeri”). Di Paolo del Pozzo
Toscanelli, cosmografo, tutti conoscono la proposta di “raggiungere
l’Oriente navigando verso Occidente”. Con Ermolao Barbaro (il
giovane, 1453|4-1493 umanista,
filosofo e uomo politico che, ambasciatore presso la S. Sede, fu eletto
patriarca di Aquileia nel 1493) scrisse le Castigationes plinianae
accanto a Carmina (poesie in latino), Orationes (discorsi
ufficiali) ed alla traduzione delle Parafrasi aristoteliche
di Temistio: mente scientifica, ci teneva ad aggiornare e correggere
l’antico Plinio. Della congenialità di Niccolò Cusano con la scienza
si è già parlato. Dobbiamo aggiungere Leon Battista Alberti,
scrittore in volgare di cui tratteremo: uomo dalle molte anime, ha scritto anche
un’opera intitolata “Ludi (giochi,
esercizi) mathematici”. In realtà Leonardo non sorge dal nulla e non è
uomo oggettivamente solo: egli si sente tale, perché emarginato dal mondo della
cultura dominante, la cui tessera
di ingresso era la lingua latina, che gli mancava. A meno che la sua solitudine
non debba essere intesa nel senso che egli supera tutti gli altri per genialità
inventiva. Ma resta il fatto che mentre nel Milleduecento
l’interesse per la natura è presente anche nei poeti (del Dolcestilnovo, ad
esempio) e signoreggia in Dante senza alcun senso di inferiorità rispetto alla
cultura filosofico-letteraria
(umanistica), man mano che trionfa il petrarchismo e l’umanesimo
rinascimentale, il sapere scientifico sparisce dalla opinione dominante, dalla
circolazione libraria e dalla mentalità della
più parte degli scrittori. Ecco: gli studenti universitari che snobbano il
grande Petrarca a Venezia, provocando la sua polemica risposta (De sui ipsius et
multorum ignorantia), sono un “segno dei tempi”: la cultura
medico-astronomica, matematico-scientifica sussiste e cammina, ma è sommersa
dalla maggioranza vocale (anzi stentorea e battagliera; anzi litigiosa: fino al
ridicolo ed al disgusto) che la riduce a minoranza silenziosa. In pratica,
accennando alle componenti minoritarie della cultura rinascimentali, noi stiamo
anche dando, contemporaneamente, un giudizio sugli aspetti positivi e su quelli
negativi del fenomeno. Il paragrafo che ora
segue completa, dunque, quello ora
sviluppato. GIUDIZIO
SULLA CULTURA UMANISTICA RINASCIMENTALE Se si affrontano lealmente tutte e tre le dimensioni
dell’Umanesimo rinascimentale, ci si accorgerà che va limitato il giudizio più solito circa l’approfondirsi del senso
critico in questa epoca. Si deve, invece, operare una distinzione. Non v’è
dubbio che l’acribia (senso critico) filologica e storiografica sia cresciuta
eccezionalmente; ma è altrettanto certo che il senso critico filosofico è in
perdita. Si vuol dire: dopo il
vuoto di cultura storica operato dalle invasioni barbariche, finalmente l’uomo
occidentale ricupera il senso preciso delle sue radici greco-romane, oltre che
cristiane; si rende capace di documentare il proprio passato e di ricostruire un
quadro delle epoche precedenti col senso della diversità di idee, costumi,
condizionamenti ed ambiente, rispetto alla propria cultura. Tale acquisto di
verità sul passato è proporzionale all’altro campo di giudizio finalmente
ricuperato alla coscienza scientifica: la capacità di leggere i documenti nel
loro valore di autenticità o meno, nella esigenza di mettere a confronto le
stesse testimonianze filologicamente sicure, per
distinguerne la loro maggior
o minor attendibilità storiografica e la conseguente forza probativa. Ma cade qui quanto denuncia Manzoni circa i limiti della
psicologia umana: quel che va nelle maniche non può andare nei gheroni
(triangoli di stoffa messi sui fianchi di camicie od altre vesti, per renderle
più larghe, comode o vistose). La concentrazione,
che gli studiosi del Rinascimento posero nel riscoprire la verità sul proprio
passato, la sottrassero allo sforzo per meditare sulle dimensioni
onnipresenti (essenziali) della realtà: l’attenzione delle menti si è
spostata dallo studio dell’essere
tutto (Dio e il cosmo,
inanimato o vivente ma infraumano: si pensi alle “Somme od enciclopedie” del
sapere nel Milleduecento, da S. Tommaso d’Aquino ad Alberto Magno)
alla analisi dell’uomo
e del suo operare individuo (psicologia) o sociale (politica, storia). Dalla
metafisica alla antropologia, dunque. Ed anche
nell’interesse per l’uomo, è come se si fosse passati dallo
studio della sua anatomia essenziale, alla
indagine sulla sua fisiologia accidentale: dall’essere all’azione, dalla
sostanza al dinamismo, dalle cause
costitutive (materia e forma) a quelle
accidentali (cause efficiente e finale), dalle componenti sostanziali
dell’uomo universale (in contrapposizione all’animale ed alle altre
“cose”) alle forze sentimentali che muovono i singoli individui, in
contrapposizione alle altre singole persone.
Ecco, in una parola: il Medioevo studiava
L’ESSERE E L’UOMO; il Rinascimento studia L’INDIVIDUO E LA
PSICOLOGIA. Tutti sanno che i secoli della “tarda scolastica” sono tempi di
povera filosofia: un vero tracollo della certezza
nella verità del reale e nella capacità della ragione umana ad impadronirsene,
dando loro un nome che ne indichi la sostanza, il “quod quid est” (ciò che
ogni cosa è): il nominalismo riduce la ragione a pura potenza
utilitaria, che si fabbrica schemi (idee, concetti) e dà loro un nome secondo i
propri interessi e necessità, ma che nulla garantisce corrispondano alla
comprensione autentica dell’essere, alla essenza delle cose. E credevano,
abbassando ed umiliando la ragione, di dar più importanza alla Rivelazione;
credevano che annullando il potere filosofico della mente, sublimassero la fede
e la religione. Stolti a non comprendere che tutte queste pretese di rivalutare
Dio e la Bibbia e la teologia era ancor un atto di pensiero,
erano ancora idee, concetti, ragionamenti: era una filosofia della
conoscenza anche teologica. Distrutto il valore della conoscenza umana, non
avevano nessun senso le affermazioni fideistiche di adesione alla Scrittura ed
all’insegnamento della Chiesa! Quello che filosofi autolesionisti operano a
livello di riflessione razionale in genere, i letterati rinascimentali operano
nel campo dell’interesse per
l’uomo in particolare. Il soggettivismo del sentimento confuso e della
psicologia mutevole sostituisce la oggettività della ragione chiara, organica e
della ferma, precisa volontà. Non che si neghi esplicitamente la forza
della ragione, come fanno i colleghi filosofanti e teologizzanti: di fatto, però,
interessano loro più i sentimenti dei singoli individui (le lettere del
Petrarca sono spesso espressione di
buoni sentimenti, senza grandi notizie da comunicare) o gli avvenimenti storici
(e qui i Rinascimentali sono maestri). Ma di grandi verità filosofiche non si
parla. In realtà, avendo lo sguardo rivolto a Platone (ed a Petrarca), di
progressi in sede di ragionamenti sulla natura degli esseri non si può
aspettarsene molti. Neppure, si potrebbe dire,
erano in grado di cadere in gravi errori: viaggiavano nella nebbia della
retorica, del bello stile, del colloquio amichevole. Le opere dialogiche
sono spesso annoianti e diluite, fino ad attutire l’importanza delle verità
esposte e ad edulcorare il veleno degli errori insinuati; le opere
in trattati sono lapalissiane od assiomatiche: non c’è una gran
preoccupazione o forza dimostrativa. C’è la tendenza a far prevalere la
sincerità sulla verità, il cuore sulla testa, la letteratura e la poesia sulla
filosofia e sulla scienza. Il platonismo, che mescola poesia e
filosofia; e il plotinismo, che rischia il panteismo, concorrono a ridurre la
religione ad una generica teosofia, che convalida (con Pico della Mirandola)
ogni forma di sentimento religioso. D’altronde, il primo sfaglio raziocinativo
i Rinascimentali lo commisero a livello di autocoscienza: essi si
immaginarono di “FAR RINASCERE”
la civiltà di Atene e
di Roma, non solo ignorando (in
linea di principio) che la storia umana non è in grado di ripetersi su così
vasta scala; ma non accorgendosi neppure (in linea di fatto) che la cultura che
essi andavano edificando a livello di pensiero, di costume, di gusto e di
tecnica espressiva era in gran parte creazione nuova rispetto a quella dell’età di Pericle e di Augusto e, in particolare, che la
letteratura prodotta era altra cosa rispetto a Cicerone e Virgilio, ad Omero e
Sofocle. Gran scavatori dell’animo umano e
storiografi appassionati, erano
filosoficamente sprovveduti.[22] IL
GUSTO ( LA SENSIBILITÀ’
PREVALENTE NEI RINASCIMENTALI). Lo si può riassumere coi termini “Ottimismo|
Serenità| Sorriso”:
dall’ottimismo della mente nasce la serenità del cuore, che si manifesta nel
sorriso del viso. In contrapposizione alla medioevale
tristezza per la “miseria” della
vita, il Rinascimento ripone
nell’uomo ogni fiducia, appellandosi alla sua dignità e grandezza, nobiltà e
bellezza, attività e progresso. Non improvvisamente, ma gradualmente. Fino alla
metà circa del secolo XV (lo abbiamo già visto) si trovano ancora umanisti che
in proposito rimangono incerti, con
l’impressione tutta medioevale del fallimento complessivo della vita umana: da
Bracciolini (De miseria condicionis humanae) a Leon B. Alberti (Intercoenales:
dialoghi conviviali; e Momus: romanzo satirico sul principe) a Pio II (De
curialium miseriis). Ma, dopo la metà del secolo, il canto della vita e
la celebrazione dell’uomo diventano una dimensione acquisita della cultura.
Dal “Paradiso degli Alberti” alla Hypnerotomachia Poliphili è un
susseguirsi di opere inneggianti al valore della persona umana, a stento
inferiore a Dio. La genesi di questo stato d’animo
non è univoca. [23]Intanto
vi è la pace garantita in Italia dalla minaccia del pericolo turco in
Jugoslavia: accordo di Lodi
(1454) e Lega italica. In secondo luogo, va tenuto presente che i corifei
dell’Umanesimo rinascimentale erano gente benestante: sono una élite di
ecclesiastici o di impiegati di
alto livello presso signori (Milano e Napoli),presso liberi comuni (Firenze) o
presso la curia romana, che conducono una vita agiata e possono dedicare tempo
ai sogni letterari od alla ricerca storica. La sicurezza del vivere in lavori
congeniali, gli onori che spesso derivavano loro assieme agli stipendi, il
potere politico che qualche volta riusciva loro di influenzare (facilmente,
anche, la vita libertina che il disorientamento religioso e morale della società
tollerava) permetteva loro di godere soddisfazioni concrete e sognarne di
“progressive ed immancabili” per le future generazioni. La crescita
economica dell’Italia nella seconda metà del Millequattrocento e il progresso
tecnico che conduce alla invenzione della stampa (1455) ed alla scoperta
dell’America (1492) sono anch’essi fattori di euforia e di autocelebrazione
per le capacità imprevedibili dell’essere umano. Ma una radice di una tale
aura di fiducia e di gaudio, per questi dominatori dell’opinione pubblica (
per mezzo della penna, prima e, poi, della stampa), fu certamente l’illusione
di aver finalmente rinnovato l’età di Pericle e di Augusto. Giocava, in
proposito, l’ancora imperfetta conoscenza di quelle epoche (che, per gli
Ateniesi, segnarono l’inizio
della fine alla loro epoca dorata,
fatta esplodere dalla guerra del Peloponneso; e, per i Romani, significò un
apice di pace-benessere-cultura-produzione poetica, che doveva durare
non più del secolo a
cavallo della nascita di Cristo), sicché la esaltazione di quelle società
ignorava la breve durata e la parabola discendente che le aveva seguite.
Era, di nuovo, una storia incompleta e, a suo modo, acritica, rivissuta cioè obliterando i parametri dei disordini e guerre e sciagure e decadenza in cui tutto quello splendore
era ben presto precipitato. I filosofi platonici furono i più fiduciosi
celebratori della umana fortuna. Marsilio Ficino giunge a pensare ad una magia
che sottometta il cosmo all’uomo; Pico della Mirandola esalta gli uomini alla
pari con gli angeli e li dice capaci di divenire una sola cosa con Dio. L. B.
Alberti, nel primo libro del Dialogo della famiglia,
esalta la forza dell’amore sopra quella del timore nella educazione. Ben
presto Baldesar Castiglione celebrerà programmaticamente i giovani sui
vecchi nel Cortegiano (II, 1-3); affermerà possibile la attuazione della
dottrina stoica che non tende tanto a dominare le passioni, ma addirittura a non
sentirle più (IV, 17); connette a tal punto bellezza e bontà che i due
concetti rischiano di confondersi (IV, 57-8) e l’amore naturale tende ad
identificarsi con quello soprannaturale e, quindi, a rendere partecipi della
Persona dello Spirito santo (IV, 70). E, mentre ripete come verità ovvie la
dottrina dell’uomo microcosmo, copula dell’universo, ecc., si esprime come
ignaro della colpa originale e della necessità della Grazia redentrice per
giungere ad una vita di piena onestà. Difatti, come abbiamo visto, egli dice:
“quello solo è vero filosofo morale che vuol esser buono: ed a ciò
bisognano pochi altri precetti che tal volontà”. [24]
Più impegnato a livello teologico è Jacopo Sadoleto che nel Commentarius
in Pauli epistolam ad Romanos (1535) inclina ad una posizione
simile a quella di Erasmo (subpelagianesimo: sottovalutazione della colpa
originale e complessiva sufficienza morale dell’uomo). Redarguito dal teologo
del papa (maestro dei sacro palazzo), egli scrisse un’Apologia (difesa)
ma corresse, nella edizione dell’anno successivo, la sua posizione. Lutero
aveva suonato la sveglia e questo cardinale e teologo umanista doveva, a fatica,
mettersi in sintonia con la fede cattolica.[25]
Ci siam dovuti ripetere sulle premesse intellettuali
del “sentimento” prevalente nel pieno rinascimento, perché i due fattori
non sono separati: posta una ideologia ottimistica, ne nascerà una atmosfera
lieta, un gusto, una sensibilità festosa, che tenderanno a produrre, poi, opere
idilliche od epiche o scherzose (o “piacevoli” in senso anche deteriore) nel
campo artistico o solamente culturale. Queste
opere si aggirano su temi di tutta consolazione e pace: dalle molte opere
sulla famiglia e sull’educare i figli (dall’Alberti al Sadoleto); sulla
“amicizia”, tema del “Certame coronario” tenutosi in Firenze , S. Maria
del Fiore (22 ottobre 1441), auspice L. B. Alberti; sulla dignità dell’uomo;
sulla formazione del gentiluomo nel Cortegiano o nel Galateo; sull’amore più
o meno platonico; sull’armonia della bellezza femminile (Agnolo Firenzuola).Pretendono
all’arte o la raggiungono i libri di novelle e commedie che tengono allegri, a
costo di ritornare alla oscenità del Decameron: dal Momus e dagli Intercoenales
dell’Alberti a Lorenzo de’ Medici (Giacoppo
e Ginevra); dalle Novelle del
Grasso legnaiuolo a Masuccio Salernitano, col suo Novellino; da Sabadino degli Arienti, con Le Porretane a Le piacevoli
notti di G. F. Straparola; dalle rime scherzose -del Magnifico Lorenzo, del
Poliziano, del Berni, del Folengo- ai romanzi in versi (il Morgante maggiore del Pulci, l’Orlando
innamorato| e furioso; le Stanze
di Poliziano) o misti di versi e prosa (Arcadia
di Sannazaro); dagli scritti esplicitamente comici come il Liber facetiarum del Bracciolini (1438-52), le Facetiae di
Ludovico Carbone da Ferrara, i Motti e
facezie del piovano Arlotto: edizione a Firenze verso il 1514) alle commedie
del Bibbiena, dell’Ariosto, dell’Aretino... E la pittura, scultura,
architettura facevano bordone con le statue di Donatello, le costruzioni di
Bramante, le Stanze di Raffaello... Decisamente, bisogna riconoscere che la “giocondità”
era una componente congeniale al
Rinascimento. Solo che questi uomini giocondi, questa “élite
intellettuale” di sognatori non previde ne si accorse che l’Italia
stava per essere travolta in un quarantennio di guerre, il cui risultato
sarebbe stata la soggezione a potenze straniere per più di tre secoli; e non
intuì che, in base alla legge dell’azione e reazione, presto o tardi
tale sconsiderata e sregolata allegria avrebbe sollevato una furia di
rivolte spirituali, da quella di Lutero che ruppe l’unità dell’Europa ed
aprì la strada a nuove guerre religiosamente motivate, a quella di Machiavelli
che, cadendo nell’estremo opposto di un pessimismo tragico, vedeva nelle masse
soltanto un volgo bestiale, da trattare conseguentemente senza scrupoli morali,
pur di rimettere quell’ordine e disciplina, che la religione aveva assicurato
fino al 1300 nella società europea, ma che, incrinatosi quel pilastro, solo la
tirannia di un principe spietato poteva, almeno provvisoriamente, trattenere
sull’orlo della anarchia. Non si accorse che, obliata le fede nella colpa
originale, si apriva la via alla illusione di una felicità senza fine “ici et
maintenant” (già qui in terra, qui e adesso), ma anche, necessariamente, alla
realtà del caos morale e sociale: era davvero la nave dei folli che,
tessendo l’elogio della pazzia, navigava verso il paese di Utopia,
ignorando la cateratta che li attendeva a metà
percorso. Sembra la brutta copia dell’avventura affine
nel Settecento illuminista: dalla fiducia nelle magnifiche sorti e
progressive dell’umanità agli orrori della rivoluzione francese.
LO STILE
(LA TECNICA ESPRESSIVA) DEL RINASCIMENTO E’ o si propone di essere CLASSICO Uno stile classico è quello misurato sull’esempio di “auctoritates”,
sulla imitazione di modelli,
considerati perfetti e, perciò, paradigmatici. Dapprima
la ricerca di un “exemplar” obbligatorio avviene per la lingua
latina: finirà per trionfare Cicerone, nella interpretazione di Quintiliano,
come regola per la prosa classica. Segue poi la ricerca di un canone per la
classicità del “toscano”, una volta che questo si è imposto come lingua
anche scritta per gran parte
d’Italia. Perché da lingua “volgare” (popolare, rozza) possa essere
considerata “classica”, occorrono modelli di opere, sentite come
“migliori, di classe superiore” a quella plebea: fu il Bembo ad additare Petrarca come modello insuperato
di poesia e Boccaccio come esemplare per la prosa. Dante, per la
generazione rinascimentale del Bembo era, come
contenuto di pensiero, troppo elevato;
come forma musicale, troppo urtante. Già, il Rinascimento platonico e
giocondo, non era proprio all’altezza dell’autore della Commedia,
aristotelica ed anche verista.
Così, la prosa rimane legata ad una impostazione latineggiante, con
periodi lunghi e contorti, che si va liberando, però, da anacoluti e disarmonie
sintattiche. Poco a poco, lo studio degli autori latini e greci viene
subordinato allo scrivere “classico” toscano: “E’ necessario esser
latino chi vuol esser buon toscano” (C. Landino, Miscellanea di cose inedite o
rare..., Firenze, 1853, p. 28). Lo studio del greco per
completare la conoscenza del latino e questo in funzione del bello
scrivere e parlare il toscano: Bembo si fa banditore di questo ideale di
classicità volgare, con tanto più di autorità, in quanto è un veneziano che
privilegia il dialetto di Firenze.
A parte l’exploit di Matteo Palmieri che, con il trattato Della vita civile (1433, anche se pubblicato solo postumo nel 1529),
precede di pochi anni la riabilitazione fra i dotti dell’uso del volgare, è
il “Certame coronario” del 1441
che segna il giro di boa nella gara fra lingua latina e dialetto toscano.
Lanciato da L. B. Alberti e Piero de’ Medici per ridare la coscienza della
capacità del toscano a trattare temi elevati, ebbe come argomento “La vera
amicizia” e come premio una corona di foglie
di lauro in argento. Ci fu in S. Maria del Fiore, quel 22 ottobre, un buon
numero di partecipanti, ma nessun premiato: i dieci segretari apostolici, che
componevano la giuria, non ritennero nessun componimento degno della corona.
Benché l’Alberti ne rimanesse amareggiato, tuttavia l’effetto fu ottenuto:
a poco a poco la produzione di scritture letterarie in lingua fiorentina prende
il sopravvento su quelle in latino. Altro momento importante per il trionfo del
fiorentino come lingua della penisola può essere considerato l’invio
(1476-7) della “Raccolta aragonese” da parte di Lorenzo de’ Medici a
Federico d’Aragona: con tale atto, una vastissima antologia
(messa assieme dal Poliziano, a quanto pare) dei lirici volgari dal
Milleduecento al Millequattrocento veniva ad assumere particolare diffusione in
un’area a rischio, perché meno disponibile ad accogliere, come propria, una
lingua così lontana dal parlare vulgato tra il popolo. Se dal puro affermarsi del toscano come lingua
nazionale, passiamo alla sua evoluzione nel senso della logicità sintattica ed
uniformità di scrittura e pronuncia, allora evento fondamentale per la
accelerazione del processo regolarizzatore ed uniformato è la invenzione della
stampa, che in Italia trova a Venezia il centro più efficiente di operatività.
La stampa segue la via più commerciabile: la edizione tipica di 200 copie deve
garantire la vendita e , per trovare un mercato di lettori adeguato a simile
produzione standard, deve adattarsi alla lingua toscana, l’unica che
possa fornire un simile numero di lettori. Il processo del toscano
nell’elevarsi a lingua nazionale, per altro già ben delineato, subisce
un’accelerazione per le leggi economiche messe in atto dal nuovo strumento
tecnico per l’edizione del libro. Gli altri linguaggi regionali si abbassano
sempre più a dialetti locali, mentre il dialetto fiorentino si innalza sempre
più a lingua italiana. Che la
varia dialettalità meridionale
si stia ormai adeguando, è segnalato con certezza da Jacopo Sannazaro
che, membro dell’accademia pontaniana e gentiluomo di corte con Federico III
d’Aragona (ma la famiglia aveva radici lombarde) scrive l’Arcadia, in tutto
subordinata ai due dioscuri, Petrarca e Boccaccio, romanzo allegorico misto di
prose e versi, rielaborandolo dal 1480 fino alla seconda edizione del 1504. Il
successo di quest’opera in Italia (66 edizioni nel Millecinquecento!) ed
all’estero fu tale da divenire punto di riferimento per la letteratura
nazionale, che non era più, dunque, un puro fatto tosco-settentrionale. La
Padania, intanto, si sprovincializzava essa stessa e l’ultimo poeta con
risvolti emiliani è il Boiardo alla fine del XV secolo: l’Ariosto è invece,
all’inizio del secolo XVI, il segno del definitivo trionfo del toscano anche a
Ferrara e nell’Altitalia.
Ma l’affiatamento col latino classico non lascia di segnare il suo
influsso benefico: Il dittongo “au”, mal digerito dalla sensibilità
musicale toscana, finisce per imporsi: le voci “arora, altore” diventano
definitivamente “aurora, autore”, mentre van scomparendo
altri ipertoscanismi (rispuose, triema...). L’accento si modella su
quello latino, in artéria ed àureo
(prima oscillanti con “arterìa|auréo”); il “che”, pronome o
congiunzione, ritorna ad essere sentito come necessario e perciò da esprimersi
obbligatoriamente, mentre si stava introducendo (come riuscì nella lingua
inglese) una certa moda a sottintenderlo. La terminologia
artistico-architettonica è derivata dal latino e dal greco attraverso le
compilazioni dell’Alberti (Della pittura| Della statua) e del Filarete[26]
(Trattato di architettura: anche l’Alberti
aveva scritto sull’architettura, ma in latino: De re aedificatoria). Tutto questo travaglio sfocerà nella purezza
linguistica di Poliziano ed Ariosto, poeti; e di Guicciardini e Machiavelli,
prosatori. Chi volesse conoscere
le parole nuove introdotte dal latino in lingua toscana nel secolo XV,
veda il capitolo settimo della “Storia della lingua italiana” di Bruno
Migliorini (ed. Sansoni, Firenze): da “aggetto ed amaranto” fino a “vivido
e vitreo”). IL COSTUME (LA VITA PRATICA E MORALE DEL MILLEQUATTROCENTO)
Sul piano militare,
il secolo XV pare proprio divisibile a metà, per quanto riguarda le incisive “cause” militari rispetto all’evolversi
(anche) dei fattori culturali ed
artistici, ma soprattutto morali e religiosi. La prima metà vede la
Chiesa assorbita dalle
vertenze per la chiusura dello scisma d’Occidente (concili di Costanza:
1417-8; concilio di Basilea-Ferrara-Firenze: 1431-1449); l’Europa, turbata
dalla seconda parte della guerra dei cento anni tra Inghilterra e Francia
(1328-1453) e dalle lotte intestine fra le potenze delle varie signorie
regionali italiane, soprattutto tra Venezia-Milano-Firenze per il primato a
Nord, mentre all’est premono i Turchi
ottomani, fino ad invadere gran parte della Jugoslavia. Più in particolare,
Milano è sconvolta
dopo la cessazione della linea maschile dei Visconti (1447) e sino alla
vittoria della dinastia degli Sforza, con Francesco capitano di ventura e sposo
della figlia di Filippo M. Visconti (1450); Napoli è
impacciata dalle lotte tra eredi angioini-durazzeschi
e pretendenti aragonesi, sino all’imporsi, nel 1442, di Alfonso d’Aragona.
La seconda metà del secolo vede invece l’Europa favorita da
decenni di relativa pace, dopo che la caduta di Costantinopoli in mano a
Maometto II (1453) ha gettato lo sgomento nella cristianità europea e, in
particolare, ha fatto convenire nella pace di Lodi (1454) gli stati regionali
italiani tutti. Firenze si rassegna, dunque, a lasciar Siena e Lucca
indipendenti; Milano rinuncia alla corsa per il primato in Alta Italia contro
Venezia e Firenze; Venezia è proiettata verso la difese delle isole egee e
delle coste dalmate; in Napoli si stabiliscono gli Aragonesi nel 1442, mentre il
papato non è più combattuto da scismi ed eresie, organizzate anche
politicamente. Le cinque potenze principali (Milano, Venezia, Firenze, papato e
Napoli) si uniscono, anzi, in una lega antiturca ed antifrancese (1455) con un
esercito collettivo. La Francia si raccoglie in una opera di ricostruzione
che, alla fin del secolo, la vedrà dotata del parco maggiore d’artiglieria in
Europa; l’Inghilterra vede consolidato il potere del re, dopo la falcidia
della nobiltà nella guerra delle “Due rose” (1455-85), seguita alla
sconfitta nel conflitto dei Cento
anni contro la Francia; l’Italia rimane divisa, ma progredisce commercialmente
e culturalmente, ottenendo il primato in Europa per l’ultima volta nella sua
storia. Non
che mancassero, in Italia, guerre locali (basti pensare che gli eserciti erano
quelli mercenari: dove si attendavano, stabilivano automaticamente un ambiente
di prepotenze e di bottino sulle popolazioni circostanti...): ma si trattò
sempre di fatti marginali. Così Venezia occupò il Polesine a danno degli
estensi (1484); e Cipro, a danno di Genova (1489): ma non le riuscì di
scacciare Piero de’ Medici da Firenze, sconfitta ad Imola nel 1468. Napoli fu
messa sottosopra dalla congiura dei baroni (1485), ma l’intervento di papa
Innocenzo VIII portò ad una rappacificazione almeno apparente e dette modo,
poi, a Ferrante d’Aragona di punirne con la morte alcuni e di costringerne
altri all’esilio. Lo stato meno quieto era quello papale: sia perché meno
fornito di soldati ( e, quindi, alla mercé della buona volontà dei vicini, che
non impedivano però le scorrerie nel territorio vaticano delle compagnie di
ventura); sia perché suddiviso da principotti locali (Estensi a Ferrara,
Bentivoglio a Bologna, Malatesta a Rimini, Montefeltro ad Urbino...); sia per la
politica nepotistica od imprudente di alcuni papi (Sisto IV si inimica con gli
Estensi per favorire il nipote Girolamo Riario; fa guerra ai Medici per favorire
le famiglie dei Palla e dei Salviati, che avevano
ordito la congiura del 1478 (in cui morì Giuliano e fu ferito Lorenzo: il
popolo insorto a favore dei Medici, uccide il Salviati, mentre la signoria di
Firenze tiene prigioniero il nipote del papa, cardinale Girolamo Riario,
complice nella congiura); rompe con
l’Aragonese che, invocato contro Lorenzo de’ Medici, si lascia invece da
questi convincere a cessare ogni ostilità ed a
rafforzare ulteriormente l’alleanza italica. Ma
tutte queste sono piccole galanterie, rispetto alla prima metà del secolo, quando Venezia e Milano erano ai ferri corti per la
supremazia in Padania, mentre Firenze era spesso coinvolta per equilibrare le
parti e tener lontana una unità politica nell’Italia settentrionale; quando
il papato era straziato dallo scisma d’Occidente e il regno di Napoli era
conteso fra Angioini e Durazzeschi (prima), fra Angioini ed Aragonesi (poi),
fino al 1442 (entrata di Alfonso d’Aragona in Napoli). Sul piano politico-sociale,
sottolineiamo due fatti emergenti. Col
1434 anche Firenze si regge a “signoria” con Cosimo de’ Medici, arbitro
ormai della situazione. Come già fecero Cesare e gli imperatori a Roma, le
cariche tradizionali (gli otto priori ed il gonfaloniere di giustizia) vengono
mantenute, ma la designazione dei candidati è a sua discrezione. Divenuto
“ducato” (1530) e “granducato” (1569), anche la Toscana si trova ad aver
percorso il cammino comune al resto delle città d’Italia: da comune libero a
dominio personale di una famiglia, a potenza politica ufficialmente riconosciuta
nell’ambito del sopravvivente Sacro romano impero.[27]
Questa situazione (la signoria od il principato) crea una
condizione di vantaggio per i letterati: il mecenatismo. Lo scrittore, il poeta diventano dipendenti ed alleati del
potere civile. Occorrerà attendere Vittorio Alfieri nel Millesettecento e, poi,
il fenomeno del Romanticismo per sciogliere tale legame, che per altro darà
modo alle muse di Ariosto e Berni, di Tasso e di Metastasio di dedicarsi alla
poesia a tempo pieno, con
tranquillità e successo. L’altro
fatto è la indubbia crescita economico-sociale dell’Italia nella seconda metà
del secolo, specie dopo la pace di Lodi. E’ una vera “belle époque”
anticipata (s’intende: solo per una ristretta élite, che era però quella che
pagava gli scrittori col mecenatismo).Venezia non ha perso del tutto i commerci
con l’Oriente, armeggiando a stabilire rappacificazioni e trattati col vicino
impero turco, guerrafondaio ma pur bisognoso di prodotti che, pel momento,
solo la flotta cristiana può
procurare. E poi ha ancora in mano le forniture all’Europa centrale e la
Germania è un mercato redditizio. Milano e Firenze, non più dissanguate dalle
guerre, sono grandi centri industriali e finanziari, mentre Genova,
politicamente bisognosa di protezione (dopo la sconfitta contro Venezia, e la
pace del 1381, si affidò di volta in volta ai Francesi, al marchese di
Monferrato, alla Milano dei Visconti e degli Sforza, per finire, con Andrea
Doria nel 1528, sotto la protezione spagnola), fioriva però nei commerci. Solo
l’Italia meridionale stagnava in una miseria insolubile, per mancanza di
iniziative a sfruttare le sue risorse, anche perché la esosità dei baroni non
fu mai eliminata dal potere centrale angioino od aragonese. Alla
fine del secolo XV due decisivi
avvenimenti internazionali toglieranno il primato commerciale del
Mediterraneo e la libertà politica all’Italia: quello,
definitivamente; questa, per lunghi secoli. La scoperta dell’America (1492)
tolse alle potenze marinare italiane ogni possibilità di concorrenza sulle
nuove rotte della espansione commerciale; l’aggiramento del Capo di Buona
Speranza (1498), aprendo una via nuova per l’India, tolse a Venezia il
monopolio nel commercio con l’Oriente estremo. Ma gli effetti non si fecero
sentire immediatamente e l’Italia poté
conservare ricchezze ed illusioni, euforia ed ottimismo
per oltre un secolo. La discesa di Carlo VIII in Italia (1494) e le successive
contese tra Francia e Impero, fino al 1535 (morte di Francesco II Sforza e
devoluzione del Milanese agli Asburgo) non guastarono subito la festa
rinascimentale: erano troppo distratti per accorgersi di quanto stava accadendo,
anche a causa della loro disorientata concezione dell’uomo. Ci vollero
l’occupazione del Napoletano nel 1500 da parte degli Spagnoli, la sconfitta di
Venezia nella guerra santa (1508-12), la rivolta di Lutero (1517), il sacco di
Roma (1527) e la stretta del
Concilio di Trento (1545-63) per scuotere
l’orgogliosa fiducia nella grandezza
divina dell’uomo e la sicurezza della felicità nella condizione umana sulla
terra. Gli è che i letterati vedevano chiudersi, una dopo l’altra, le fonti
dei loro stipendi, sparire od impoverirsi le borse dei loro sponsorizzatori:
Alfonso d’Aragona muore nel 1458; Federico da Montefeltro nel 1482; Venezia è
tagliata fuori dal mecenatismo dalla guerra della Lega santa nel 1511-2;
il papato è dapprima impoverito dal sacco di Roma nel 1527 e, poi,
immerso nei problemi della Riforma tridentina. Sul piano religioso. Si
presenta anche a questo livello la dicotomia caratteristica del secolo XV.
Dapprima una cristianità travagliata dallo scisma d’Occidente, che cessa solo
nel 1449, con il ritiro in convento dell’antipapa Felice V (era iniziato nel
1379, sia pure con la parentesi, dopo il concilio di Costanza, del pontificato
di papa Mertino V, dal 417 al 1431). Con l’anno santo del 1450 ed il papato di
Niccolò V (Parentucelli: 1447-55), di Callisto III (Borgia: 1455-8), di Pio II
(Piccolomini: 1458-64), Paolo II ( il veneziano Pietro Barbo: 1464-1471), Sisto
IV (Della Rovere: 1471-84), Innocenzo VIII (il genovese G. B. Cybo: 1484-92), la
Chiesa parve avviarsi a tempi più serenissima solo sul piano politico:
ridimensionata a potenza italiana, come tale era accettata e perciò- a livello
militare e politico- avrà davanti a sé secoli di declino graduale e, tutto
sommato, abbastanza pacifico: ma inesorabile. Ma i problemi di fondo
–formazione del clero, scelta dei vescovi, acculturazione dei fedeli- non
vengono ancora affrontati. E’
vero: c’è qualche problema pesante che al momento sembra più urgente:
fermare i Musulmani nella penisola balcanica (si aggiungerà, poi, quello delle
loro scorrerie nel Mediterraneo). Ma nobiltà
e clero ce ne aggiungono altri, del tutto impertinenti. I primi non vogliono
recedere dalla interferenza nella elezione dei vescovi (e non solo al di là
delle Alpi: si pensi al rifiuto dei Medici ad accettare un
Salviati a vescovo di Pisa nel 1478, onde nacque la congiura de’ Pazzi)
e dall’accaparrare i vescovadi più ricchi per i propri cadetti (quello
di Milano diviene una specie di feudo della famiglia Estense di Ferrara). Il
clero non osserva sempre la residenza ed il celibato; i papi si permettono il
nepotismo più sfacciato, ritagliando feudi per i parenti nei territori della
Chiesa. Pio II riedifica Corsignano, sua patria natale, come città, col nome di
Pienza e riempie la curia romana di concittadini senesi. Callisto III fa
cardinale il nipote Rodrigo, futuro Alessandro VI (e basti il nome!). Sisto IV
fa altrettanto e prepara il papato a Giulio II (Della Rovere anche lui).
Innocenzo VIII pensava a sistemare i due figli naturali con matrimoni
principeschi, mentre arte e immoralità si davano la mano in Vaticano, con spese
che inducevano poi a vendere i vescovadi anche ad indegni, pur di avere i soldi
per il fasto e le costruzioni: non esente dal sospetto di aver comprato la
elezione papale, concederà il cardinalato a Giovanni de’ Medici, per
riconoscenza al Magnifico Lorenzo che l’aveva sovvenuto finanziariamente. E il
peggio deve ancora venire, con Alessandro VI Borgia.[28]
Non che manchino santi nella Chiesa e bravi papi od ecclesiastici fedeli e,
anzi, severi. A Martino V si potrebbe
rimproverare un certo favore al suo casato, i Colonna: ma ne aveva assolutamente
bisogno per tenere in pugno la città e lo stato pontificio che, dopo Avignone,
era diventato di ben difficile governo. Eugenio IV fu pontefice esemplare, anche
se poco abile nei rapporti politico-sociali, con la popolazione di Roma e coi
potenti del suo tempo. Niccolò V fu bensì umanista ma, cresciuto alla scuola
del cardinal Nicola Albergati, fu ecclesiastico del tutto degno. Pio II non fu
certo esemplare in giovinezza ma, riconosciute le intemperanze morali e gli
errori disciplinari, fu papa integro. Paolo II (cardinale “nipote” di
Eugenio IV) fu tanto scrupoloso che vide negli umanisti (quelli che egli
conosceva, anche se non tutti) degli uomini pericolosi all’educazione dei
giovani e sfrondò la curia di parecchi di loro, attirandosene l’odio. Quanto
a santi, ve ne sono –di famosi- più che nel Milletrecento (anche se i
“beati” sono molto meno): S. Bernardino da Siena (1380-1444), S. Lorenzo
Giustiniani (patriarca di Venezia: 1381-1455), S. Rita da Cascia (1381-1357), S.
Francesca Romana (1384-1440), S. Antonino, vescovo di Firenze (1389-1459), S.
Francesco da Paola (1416-1507), S. Caterina da Genova (1447-1510)... Sul piano morale.
Come potevano questi santi influenzare adeguatamente la vita sociale, quando S.
Bernardino era espulso dal ducato di Milano, perché parlava “chiarozzo
chiarozzo” anche contro il duca; quando Girolamo Savonarola, giovane
ventiduenne, scappava da Ferrara e andava a chiudersi
nel convento domenicano di Bologna, perché (col nonno e con il padre al
servizio di corte) conosceva il libertinaggio di buffoni scurrili e di
prostitute numerose che caratterizzava la vita del duca Borso d’Este, cui il
popolo assentiva giocondamente, dimentico delle prediche di S. Bernardino, fino
a dichiarare “un dio” il proprio signore, alla sua morte nel 1471? Come non
pensare ad uno scadimento dei valori etici, quando Ludovico Ariosto (verso il
1530), volendo iniziare il figlio Virginio alla cultura, deve raccomandare al
Bembo di scegliere per lui un umanista non omosessuale, costretto come è a
costatare che “pochi sono i grammatici umanisti| senza il vizio per cui Deus
Sabaòt| fece Gomorra e i suoi vicini tristi”? (Satira sesta). Nella satira
quinta, lo stesso Ariosto parla
contro la nuova moda di educare le ragazze più “in canto e suono” che “al
fuso (ed) all’ago”. E sì che
non era uno stinco di santo neppure lui: era il solito tonsurato, cioè
chierico, votato al celibato per interesse, ma non alla castità per il regno di
Dio. Però in Dio ci credeva e protestava contro l’eresia di Lutero e
l’averroismo di Nicoletta Vernia, collega del Pomponazzi[29]
a Padova, condannato anche dal vescovo locale. Gli esempi di Vittorino
Rambaldoni da Feltre e di Guarino Veronese, educatori sostanzialmente cristiani,
impallidiscono nel contesto denunciato dall’Ariosto: sono eccezioni in un
pelago di fango. E, a parte costoro, cui vanno aggiunti Coluccio Salutati,
Giannozzo Manetti e Pico della Mirandola, è difficile trovare umanisti
rinascimentali coerenti nella vita pratica al Vangelo, specie tra i laici. (che
comprendono anche i “tonsurati per convenienza”, ma non destinati a
diventare preti: da Petrarca e Boccaccio al Bracciolini
ed Ariosto...). Niccolò Niccoli ha in Bartolomea una governante
che tutti sanno (o almeno sospettano) sia la amante. Poggio Bracciolini
ha lettere compiaciute sul nudismo dei bagni di Baden (dove si è recato al
tempo del Concilio di Basilea) e barzellette oscene nel Liber
facetiarum; si sposerà vecchio con una donna molto più giovane di
lui (con queste premesse, non c’è poi da meravigliarsi che si scagli addosso
ai frati nel Contra Hypocritas...). Aveva avuto tre figli naturali e ad un
cardinale che gli rimproverava di aver donna e figli pur essendo chierico (per
poter percepire quelle benedette rendite ecclesiastiche!), egli cinicamente
rispose “Potrei rispondervi che ho figli come si conviene a un laico e non ho
moglie come è costume clericale fin dal principio del mondo”! Al Filelfo
non rimprovereremo di aver avuto tre mogli regolari e due dozzine di figli, ma
il fatto che alcuni di questi erano extramatrimoniali, figli naturali.
Il Valla non pare si accontentasse di legare equivocamente assieme
cristianesimo ed epicureismo, visto che il Bracciolini gli rinfaccia colpe turpi
oltre alle eresie. E peggio si deve dire di Giovanni Pontano (Hendecasyllaborum
seu Baiarum libri) e Antonio
Beccadelli, detto il Panormita (nell’Hermaphroditus
celebra anche l’omosessualità...).D’altronde lo stesso futuro Pio II
scrisse una novella in prosa (De duobus
amantibus) e una commedia in versi (Chrisis)
licenziose. Peccatori sessuali ce ne furono sempre, anche fra i cristiani ed il
clero: ma questa nuova generazione giustifica
teoricamente le sregolatezze della condotta immorale. E la scostumatezza
sessuale è solo la punta dell’iceberg: vi è tutta una astiosità, un abito
polemico, una invidia, un diffamarsi a vicenda, una meschina ambizione, che
rende squallidi troppi umanisti (ambiguamente laici) del Millequattrocento.
Lingua mordace fu il Bracciolini, che ebbe polemiche col Filelfo, col Valla, col
Guarino. Quest’ultimo fuggì da Firenze, sgomento per l’ambiente disumano
esistente nei rapporti fra molti dotti umanisti: le invettive si sprecano e sono
quanto mai maligne. Ecco le sue parole: “Io chiamo a testimomio Iddio e i suoi
santi, che nel tempo che fui a Firenze non sorse giorno in cui non fossi
tormentato da brighe, da insulti, da litigi”; e ancora: “Ma queste non sono
amicizie, queste sono cospirazioni!”. Benché scritte in latino, le accuse e
insolenze del Bracciolini, del Bruni, del Niccoli, del Valla, del Filelfo, del
Panormita, di Pier Candido Decembrio e di Bartolomeo Fazio toglievano più che
il tinto: laceravano la pelle! E
ci sono deviazioni morali che danno nel grottesco. Gli umanisti giungevano a
credersi creatori (e non solo divulgatori) di fama, autorizzati, perciò, a
mentire. Esplicito (lo si è visto in nota) il pensiero di Teodoro Gaza,
secondo il quale le lodi spettavano di diritto ai prìncipi, come i premi e gli
elogi spettavano ai dotti, i quali potevano inzaccherare di contumelie i prìncipi
avari, che non li pagassero. Questa teoria, clamorosamente contraria ad ogni
moralità, divenne principio di vita per qualche umanista, che si riduceva così
ad accattone, intento a procacciarsi danaro, onori e privilegi attraverso una
penna nemica della verità, intinta solo nel proprio egoistico tornaconto. Più
che il Gaza, in proposito è famoso il Filelfo (padre), che si schierò contro i
Medici ed in favore degli Albizzi, perché quelli appoggiavano il Marsuppini,[30]
suo concorrente alla cattedra di greco e latino nello Studio fiorentino.
Allontanatosi da Firenze nel 1434, per il rientro di Cosimo, si portò a Siena,
rifiutando ogni riconciliazione, unicamente perché attratto dalle offerte dello
Studio di Bologna, dapprima; dei Visconti a Milano, poi. Per non lasciarsi
sfuggire l’invito milanese, neppure terminò le lezioni convenute con il
comune di Bologna. E mentre scriveva un’opera contro i Medici, nel tempo che
gli Albizzi tentavano con l’aiuto dei Visconti di rientrare in Firenze,
essendo state le truppe viscontee sconfitte ad Anghiari (1440) da quelle
fiorentine, eccolo interrompere lo scritto ingiurioso per stendere una lettera
di consiglio e di preghiera a Cosimo... Finirà per farsi richiamare nella
sognata Firenze dal nipote Lorenzo il Magnifico, nel 1481, giusto in tempo per
morire nell’ambiente tanto bramato dal cuore, quanto disprezzato nelle parole
e scritture. L’incidente con Firenze dovette renderlo più prudente nella
crisi di passaggio tra i Visconti e gli Sforza a Milano: qui fu il suo
concorrente P. C. Decembrio a compromettersi con la Repubblica ambrosiana, sicché
dovette sgombrare all’avvento di Francesco Sforza nel 1450, lasciando il campo
libero al Filelfo. Ed eccolo a scrivere il poema “Sphortias”
(Sforziade) ed a mendicar denaro per vivere nel lusso abituale e sistemare i non
pochi figli e figlie. Il mezzo? Le lodi promesse ai signori cui chiedeva con la
impudenza dell’accattone e la sicumera del creditore! Ma dovette rimettersi
sul mercato universitario e trovò pietosa accoglienza presso lo Studio romano
sotto Sisto IV. Morto assassinato Galeazzo Maria Sforza nel 1476, rieccolo a
Milano, ma sospirando Firenze, dove, tolto il bando, potrà ritornare per
morirvi. Se si fosse trattato di manovre imposte da condizioni estranee al suo
capriccio (ce n’erano anche di queste: la numerosa famiglia era pur sempre un
problema oggettivo e gli stipendi sforzeschi non arrivavano così puntuali come
quelli viscontei!), ci sarebbe solo motivo di commiserazione: non era altro che
la situazione descritta da Enea
Silvio Piccolomini come la “miseria dei curiali”. Torna qui a proposito
ricordare che lo stesso Teodoro Gaza dovette vendere i suoi libri per campare; e
morì in miseria... Ma è invece l’alterigia con cui disprezza, quando non ha
bisogno; è la viltà con cui elemosina, quando è in difficoltà, da quelli che
fino al giorno prima ha disonorato; è l’invidia che lo oppone ai concorrenti
umanisti; è la violenza da cui non arretra per condurre le lotte professionali
(subì, ma anche mise in campo vendicatori e pugnalate); è la supponenza con
cui crede di essere superiore a
Virgilio e Cicerone, perchè non sapevano scrivere in greco come lui poteva
fare; è la insolenza con cui aggredisce il morto Pio II,
reo di non averlo beneficato (il successore, Paolo II, lo fa mettere in
prigione), salvo a strisciare elogi allo stesso pontefice, quando si presenta la
occasione di sfruttare la magnanima generosità del nipote, il cardinal
Piccolomini...: è un insieme di atteggiamenti che sconcertano e danno un saggio
anticipato di quella che sarà la professione del ricattatore in Pietro Aretino,
che camperà tutta la sua vita elogiando i “generosi” e oltraggiando gli
“avari”. Sarà il frutto del Rinascimento giunto alla ultramaturazione
autunnale, prima di scomparire. Il guaio è che una simile possibilità di
guadagni non denuncia solo colpe
personali, ma uno stato di disordine in tutta la società. Un simile stile di
comportamento implica l’esistenza di una serie di personalià
“ricattabili”, perchè sprofondate nel fango; ed implica potenze politiche
disposte a proteggerti ad ogni costo contro querele per diffamazione e calunnia.
E’ tale dimensione sociale che fa dell’accattonaggio umanista un brutto
segno dei tempi. Il Gaza ed il Filelfo (e poi l’Aretino) sono solo punti
nodali dell’arcipelago “corruzione rinascimentale”, dilagante per il
declino della energia di
contenimento civile nello Stato e della forza di persuasione e dissuasione
morale nella Chiesa. Gli esempi si possono moltiplicare. Giovanni Pontano
(ne parleremo fra non molto) passa dagli Aragonesi benefattori ai Francesi
invasori nel 1494 e, poi, rimane a disposizione degli Aragonesi, rientrati ma
così indeboliti che non riescono neppure a punirlo. Già, rimaner fedeli!
Sembra, nel Rinascimento, di assistere alla materializzazione
del ragionamento di Guntigi
nel famoso soliloquio dell’Adelchi (Atto, 4, sc. 3: “Fedeltà?.. Fedeltà!...”),
in cui decide di tradire il suo re Desiderio. I baroni si ribellano a Ferdinando
I (Ferrante) di Napoli; questi, mediatore Lorenzo il Magnifico, promette il perdono, ma solo per ucciderne o imprigionarne a
vita i colpevoli. Il povero umanista Cicco Simonetta, per troppa fedeltà al
legittimo G. Galeazzo Maria Sforza, verrà decapitato da Ludovico il Moro
(1480), quando gli riuscì di soppiantarlo nel ducato milanese. E questa vicenda
comprende anche la piaga più
feroce dei secoli XIV e XV: quella degli eserciti di ventura. Non tanto la loro
esistenza ( i vari stati dovevano pur difendersi e, per un signore, dare il
vantaggio al popolo dell’esenzione dal servizio militare rappresentava pur
sempre un gran pilastro del proprio potere), quanto la loro origine ed il loro
comportamento sono una infamia per quei secoli. Non erano “volontari”
della nazione: non avevano, quindi,
alcun legame ideale con il territorio ed il popolo da difendere: unica
motivazione era la paga e il bottino. La loro stessa esistenza, perciò, era una
anomalia morale: rischiavano la vita per una manciata di soldi e, per aumentarne
il valore, si prendevano il diritto di saccheggiare le città conquistate. Era
una vita di cinismo, sorgente di ogni scelleratezza. Dice bene il Manzoni di un
tale soldato: “e venduto ad un duce venduto,| con lui pugna e non chiede il
perché”. Non era così escluso il tradimento, cioè il passaggio al nemico,
per danaro. Fu questo il caso del Carmagnola? Lo nega Manzoni nella tragedia
omonima; ma lo credette il senato veneziano, che operò in conseguenza. Gli
effetti più crudeli di un tale stato di cose li dovette subire Milano, alla
morte di Filippo Maria Visconti, nel 1447. Francesco Sforza, capitano avveduto e
intraprendente, si fa beffe dell’ “aurea repubblica ambrosiana”, cioè del
libero comune ricostituitosi in tali circostanze e, chiamato a servire la libertà
della istituzione, si allea coi Veneziani nemici giurati di Milano, marcia sulla
città e la prende per fame (1450). D’altronde
Jacob Burckhardt ( Die Kultur der Renaissance in Italien, 1860)[31]
informa, per quei secoli, di opere empie, libertine ed assassine. Si può
cominciare dai figli naturali nelle casate principesche: si dubita che il
grande, celebrato Federico, duca di Urbino, fosse un Montefeltro; ed è certo
che illegittimo fosse Ferrante, il
successore di Alfonso d’Aragona a Napoli (col nome di Ferdinando I). E si può
continuare con le uccisioni di prìncipi eseguite in chiesa: ci pare questo il
colmo della disinibizione morale. Non si ha notizia di simili fatti presso i
pagani. La congiura dei Pazzi che vede assassinato Giuliano de’Medici e ferito
Lorenzo, non è l’unico caso. Galeazzo Maria Sforza fu ucciso durante funzioni
religiose due ani prima, a Milano, nel 1476. La morte di Gian Galeazzo Sforza
nel 1494 pare segnata dall’intervento dello zio Ludovico il Moro, che si aprì
la via alla successione al ducato. Congiure (sia pure non coinvolgenti la
pratica religiosa) si avranno anche nel secolo XVI. Sicuramente due altre
congiure furono tramate contro i Medici: quella del 1513, fallita, e
quella del 1537, riuscita (Lorenzino uccide il cugino Alessandro). Questi
delitti preparano o accompagnano la condotta spietata di Cesare Borgia, a
cavallo tra i due secoli: a sua volta egli darà spunti alla teorizzazione del
Machiavelli del fine che giustifica i mezzi. I modelli di colui che governa
diventano, coerentemente, due animali: la “golpe” e il “lione.” Così,
l’allegra disinvoltura, lo scettico carnevale di Lorenzo e dei
“compagnacci” si tramuteranno nella vita viziosa e violenta di Benvenuto
Cellini (1500-1571), che vive ed è onorato da pontefici, imperatori e re,
nonostante la rionsciuta omosessualità e due omicidi sulla coscienza, mentre
Pietro Aretino (1492-1556) traduce in stampe di ricatti la licenza (concessa così
magnanimamente ai dotti dal Gaza) di lodare o diffamare i grandi, a seconda
della generosità od avarizia nei loro
riguardi. Le strofe goderecce dei canti carnascialeschi
possono ben sembrare giustificabili:
l’invito a godere l’attimo che fugge (il “carpe diem”, cioè “afferra
l’attimo” del pagano Orazio) è una specie di rivalsa contro
l’inesorabilità del tempo che fugge; ha il sapore amaro, in fondo,
della sua effimera fragilità.
“Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni triste pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò ch’ha a essere, convien sia:
di doman non c’è certezza...” In realtà sono solo compassionabili: non è chiudendo gli
occhi, non è “di-vertendosi” (cioè “allontanandosi dalla realtà,
volgendo lo sguardo altrove per non vedere il danno più o meno imminente”)
che si affronta la vita e la si rende sopportabile, serena, persino gioiosa. Così,
dopo un paio di generazioni di ebbrezze metafisiche (platonizzanti) di ottimismo
antropologico (inebriante) e di volontà di potenza (insolente),si giungerà
all’inizio della fine per la libertà italiana, con almeno trent’anni di
guerre devastatrici, con il sacco di Roma, l’insorgenza di Lutero, la
disperazione di Machiavelli, il richiamo all’ordine del Concilio di Trento.
Era tempo, chè altrimenti l’anarchia avrebbe
riprecipitato l’ Italia nella foresta delle guerre endemiche. La mano
forte delle potenze ispanica od austriaca e il controllo della Inquisizione
garantiranno due secoli e mezzo di ordine e di pace in Italia, dal 1530 circa
all’invasione napoleonica. Di quest’ordine morale, di questa disciplina
civile, di questa severità di costumi probabilmente sono derivate, fino al secolo ventesimo, la possibilità di
convivere, lontani dal comunismo
illuministico-volterriano e dall’anarchia romantico-russoiana. In realtà
il Rinascimento è come la prova generale del razionalismo settecentesco:
come il deismo nasce dal rifiuto
della religione cristiana, non solo in quanto alla redenzione di Cristo, ma
anche in quanto al suo presupposto (peccato originale), così quello si spiega con l’oblio della colpa prima e con l’estenuazione
del valore della Croce di Cristo. Entrambi concludono la loro corsa passando
dall’ingenua esaltazione, in
tempo di prosperità e di pace, alla realtà crudele della guerra e della
tirannia.[32] APPENDICE:
LA PRODUZIONE LATINA
RINASCIMENTALE. A) LA PROSA. Distinguiamo fra prosa e poesia, perchè non v’è
dubbio che è nel campo della espressione versificata che gli umanisti
hanno raggiunto i risultati lirici migliori. Questo non vuol negare il
valore anche letterario di molte prose quattrocentesche in latino: ma la vivacità
di qualche lettera o di interi espistolari, la chiarezza delle scritture
storiografiche, la forza logica
o la amabilità dei dialoghi, la virulenza dele invettive non
assommano a quella trasfigurazione poetica per cui l’interesse pel contenuto
ceda di fronte alla commozione che ne traspira. Insomma, le prose latine del
Millequattrocento valgono quasi unicamente per le notizie che ci danno, come
documenti genericamente culturali, non specificamente artistici. Si legge per
sapere ed imparare, non per godere ed estasiarsi. Basterà quindi segnalare le
migliori opere tra i generi indicati. Gli epistolari più significativi sono quelli di Coluccio Salutati,
Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Guarino Guarini, E. S. Piccolomini (o Pio II:
alcune sono dei piccoli trattati, come il De eruditione puerorum e il De
curialum miseriis), Francesco Barbaro, Ermolao Barbaro[33],
Marsilio Ficino (non solo notevole per la quantità ma anche perchè, pure lui,
allarga certe lettere a saggi e trattati).
Raccolse le sue lettere anche Lapo da Castiglionchio, segretario della curia
romana al concilio di Ferrara (morto ivi a soli 33 anni, nel 1438); ce ne ha
lasciate Gasparino Barzizza, maestro del Filelfo e amico del Guarini (bergamasco:
1359-1431), Francesco Filelfo (ne sono l’opera più notevole in prosa, anche
se la realtà descritta è
deformata dalle varie passioni dell’uomo avido, ambizioso, capace di odiare),
L. B. Alberti, G. A. Campano (1429-1477: al servizio dei Baglioni di Perugia,
prima, e di Pio II, poi, scrisse la vita di Braccio di Montone e del papa di
Corsignano e ci lasciò nove libri di lettere, interessanti più dei suoi versi
latini), Pico della Mirandola (di contenuto critico-estetico e, dopo la crisi
del 1486, di tono mistico, scritte al nipote), il Poliziano (ma si tratta per lo
più di lettere a lui scritte da amici, rivelatrici per altro anch’esse sulla
cultura del tempo). I dialoghi ed i trattati.
Ne abbiamo già dato titoli e contenuto documentando
il primato della tematica antropologica alle pp.8-10. I dialoghi del Pontano
saranno citati nel paragrafo a lui dedicato
tra i poeti. Le invettive. Si è parlato della litigiosità di molti
Umanisti rinascimentali. Rivediamo i casi più clamorosi, escludendo le dispute
condotte secondo pura argomentazione razionale, come la risposta di Coluccio
Salutati alla Lucula Noctis del card. G. Dominici. Resta compresa invece, dello
stesso Salutati, la Invectiva
contro Antonio Loschi[34],
che ne aveva scritta una “adversus
Florentinos” a servizio della politica viscontea. Ma il re delle invettive
è il Bracciolini, che ne scrisse tre violente conro il Filelfo, in
difesa del Niccoli e quattro contro il Valla (in forma di favola sarcastica: i
diavoli lo rifiutano e lo rispediscono sulla terra a fornir anime all’inferno)
e continuò contro l’antipapa Felice V, Giorgio di Trebisonda (il Trapezunzio),
Tommaso Morroni (docente di retorica a Bologna), Niccolò Perotti (un discepolo
del Valla), il Volpi. Le conseguenze peggiori di queste polemiche le subì il
Trapezunzio, che dovette lasciare il posto di segretario pontificio per le
notazioni del Poggio sulla
grossolanità del suo latino. A sua volta il Valla, nel rispondere alle
invettive del Bracciolini, immaginava che
lo stalliere ed il cuoco del
Guarino fossero in grado di scovare gli errori di Poggio, tanto erano marchiani.[35]
Ma le accuse di eresia attirarono al Valla un processo inquisitoriale, dal quale
per altro uscì assolto. Contro il povero Niccolò Niccoli si scatenarono
il Bruni e persino il mite Guarini; ebbe screzi anche col Crisoloroa e qualche
altro umanista. Inutile dire che nel conto venne
coinvolta anche la Benevenuta, non accettata come semplice fante ma
ritenuta sua amante. Chi entrava a metter pace fra i dotti scatenati era
Francesco Barbaro, che riuscì a sedare (con l’aiuto del Bracciolini) anche la
scandalosa querela tra il Bruni ed il Niccoli. Questi aveva difeso Cesare
(ideale politico monarchico) contro Scipione (ideale repubblicano) sostenuto dal
Bracciolini: nuove dispute che coinvolgono Ciriaco d’Ancona[36]
ed il Filelfo, sceso in campo (da Siena: siamo nel 1435: egli era
uscito da Firenze al rientro dei Medici) a difesa del Niccoli con due furenti
invettive. Ecco, col Filelfo, siamo ad un altro polemista “aspro e senza
freni” (Eugenio Garin): nè solo colla lingua, chè intervennero anche i
pugnali, fatti usare contro di lui e da lui. La sua polemica fu contro i Medici
(Commentationes florentinae de exilio),
che la sconfitta del Piccinino ad Anghiari (1440) attenuò, interrompendo
l’opera al terzo dei dieci libri programmmati. Polemizzò poi con Pier Candido
Decembrio a Milano. Anche Lorenzo Valla sapeva scorticare gli avversari:
lo abbiamo visto col Bracciolini. Bartolomeo Facio ne dovette sentire le unghie,
quando si lasciò sospingere dal Panormita a inveire contro l’opera del Valla
su Ferdinando d’Aragona (1445): ne nacquero i quattro libri Recriminationes
in Facium . E contro il già amico Antonio da Rho, si diverte a spulciare
gli errori dell’opera De imitatione
latinae eloquentiae, salvo ad accusarlo di palgio per le parti indovinate (In
errores Antonii Raudensis adnotationes): si noti che il frate di Ro era stato a
Pavia parte viva del gruppo disputante sulla precisione delle
regole di grammatica e del
lessico latino. Antonio Beccadelli (il Panormita) non tanto scagliò
invettibve, quanto ne subì: da p. Antonio da Rho, da P. C. Decembrio, dal
francescano Alberto da Sarteano: il libro Hermaphroditus era uno scandalo
intollerabile alla coscienza di molti ancora cristiani (il Guarino ritrattò la
sua lode al libro). Gli scritti storici.
A parte il lavoro filologico sulle fonti storiche, di cui il più famoso è
quello del Valla sulla falsa donazione di Costantino, il più fecondo scrittore
di storiografia fu Flavio Biondo (Forlì 1392- Roma 1463), colle sue Historiarum ab inclinatione Romanorum decades (1453), con i tre
libri della Roma instaurata (1446), i
dieci della Roma triunphans (1457-9) e
con l’Italia illustrata (1448-53).
Dei suoi pregi e limiti si è già detto nella nota a lui dedicata (p. 7). Il più
acuto degli scrittori di storia è invece Leonardo Bruni (Arezzo 1370 o
–74 – Firenze 1444). Cominciò a compilare seguendo autori greci: Commentarius
de bello punico (1421: da Polibio), Commentarius
de bello italico adversus Gothos
(1442: da Procopio, stroico bizantino del VI secolo d. C.), Commentarius rerum graecarum (dalle Elleniche di Senofonte). Fu
orinale invece nella storia della sua patria adottiva, Firenze: Historiarum
Florentini populi libri XII. E’ il suo capolavoro, perchè
narra i fatti prescindendo da processi alle intenzioni della Provvidenza
(del tipo di Dante e di G. Villani) e non mettendo in conto, quindi, un
presunto legame causale tra valore etico e successo-insuccesso immediato[37]
di personaggi e vicende. Questo non toglie che anch’egli, narrando l’origine
della città ed i tempi non confortati da memorie scritte, debba fidarsi di
tradizioni per lo meno discutibili. L’opera si estende infatti dalla
fondazione all’anno 1404. Si noti che, più del testo latino, ebbe diffusione
vastissima la traduzione in volgare fatta fare dalla Signoria a cura di Donato
Acciaiuoli.Egli riuscì a riprendere e continuare la narrazione dal 1378 al 1440
(Rerum suo tempore gestarum),
prevenendo il Bracciolini che per suo conto stava scrivendo la Historia
florentina dal 1350 alla pace di Lodi (1454). Anche queste opere ebbero più
diffusione nelle traduzioni in volgare, procurate da Girolamo Pasqualini per il
Bruni e dal figlio Jacopo per il Bracciolini. Il Bruni pubblicò anche una Vita
Aristotelis e una Vita Ciceronis,
nonchè, in volgare, una Vita di Dante.
Ottimo storiografo fu anche Giovanni Pontano, che nel De bello napolitano
(1494) espone le vicende della guerra di Ferdinando d’Aragona contro Carlo
d’Angiò. Opere minori di
storiografia ci lasciarono i
biografi (come Giannozzo Manetti, che scrisse
la vita di papa Niccolò V; e la vita De
illustribus longaevis; il Platina che fu il principale biografo del
tempo: oltre alle vite di Neri Capponi, di papa Pio II, di Vittorini Rambaldoni
da Feltre, e del card.G. B.
Mellini, stese un Liber de vita
Christi ac omnium pontificum (cui va aggiunta la Historia
urbis Mantuae); o gli occasionali narratori di eventi limitati (come Enea
Silvio Piccolomini che scrisse e riscrisse le vicende del concilio di
Basilea, prima come conciliarista, poi come sostenitore del primato papale: Commentarii
de gestis Basiliensis Concilii, del 1440 e De
rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio,
del 1450; la Cosmographia, che è un
ampliamento dell’Italia illustrata del Biondo
ed i Commentarii rerum memorabilium,
diario delle cose più clamorose accadute durante la sua vita; L. B. Alberti
per la storia De coniuratione porcaria,
la congiura del Porcari (468) contro Paolo II; Angelo Poliziano: Commentarium
Pactianae coniurationis, oltre alla narrazione della morte di Lorenzo il
Magnifico, nella lettera all’Antiquario.[38]
In volgare, notissima è l’opera di Vespasiano da Bisticci Vite
di uomini illustri: affidabilissima quanto a sincerità dell’autore e
preziosa per molti dati singoli, manca però di organicità e di completezza:
l’analisi supera di troppo la sintesi. Opere inventive. E’ difficile talora separare gli scritti di
carattere critico da quelle creative, specie negli epistolari: certe lettere
possono contenere pagine
letterariamente valide... o addirittura un intero romanzo (come la lettera a M.
Sozzini, in cui Enea S. Piccolomini, nel 1444 narra la boccaccesca Historia
de duobus amantibus). Ma è indubbio che gli unici
prosatori letterariamente rilevanti nella prima metà del
Millequattrocento italiano sono Bernardino da Siena e Alessandra Macinghi
Strozzi, cioè due autori in volgare. In prosa latina abbiamo poche cose e
ricordate perchè appartementi ad umanisti noti per altre scritture di carattere
storico-critico, come la “Storia dei due amanti” del futuro Pio II or ora
citata. Enea Silvio scrisse anche una commedia, sempre in prosa e sempre in
spirito allegramente libertino,
Chrysis: è sulla scia di Plauto. Nei suoi Commentarii,
si trovano momenti di drammaticità propria di un distonico, cioè di un
temperamento nervoso che sussulta di fronte ai fatti ed ai personaggi
in cui si imbatte e che, capace solo di riprodurre la storia esperita
personalemente, questa la sa far rivivere però al lettore con i suoi stessi
sentimenti. Si legga la vicenda al conclave che lo vide eletto papa, grazie alle
sue mosse e parole davvero ispirate. Altri autori di scritti nuovi sono quelli delle facezie,
sia di Bracciolini (Liber facetiarum), sia di Ludovico Carbone da Ferrara. Anche L. B. Alberti compose una commedia
latina (Philodoxeos, cioè l’innamorato della gloria). In realtà cose più
geniali sono negli Intercoenales, che sono dialoghi sempre di carattere
investigativo (più o meno filosofici), ma scritti con vivacità giovanile, con
fantasia ispirata, con cuore partecipe. Lo stesso spirito è nel dialogo Momus
(De principe). Le cose più vive si ritrovano però nei dialoghi del
Pontano, dal Charon all’Antonius, dall’Aegidius all’Actius, ma
soprattutto nell’Asinus. Non sono capolavori, ma ci si accorge che il suo
autore ha i capricci fantastici e la genialità del poeta. Difatti egli è lo
scrittore di versi latini più riuscito del secolo, come vedremo subito (il
Sannazaro pubblicò il De partu Virginis nel 1526). B)
LA PRODUZIONE IN VERSI. Elenchiamo i quattordici scrittori in versi più
notevoli, secondo le notizie che ce
ne danno la “Ricciardiana”, nel volume “Poeti latini del Quattrocento”
(1964) e gli studi sul Quattrocento
della Vallardiana o della Garzantiana. Daremo
gli estremi biobibliografici là dove non
ancor fatto.. Antonio Beccadelli detto
il Panormita (1394-1471).
Fu reso famoso dalla prima pubblicazione, impudentemente oscena, come annuncia
il titolo Hermaphroditus (1425). Fu perciò combattuto da religiosi (il
francescano Alberto da Sarteano indusse il Guarino a ritrattare le lodi, che il
Beccadelli aveva messe a prefazione dell’opera)
e da papi, ma fu protetto da
i Visconti (cattedra a Pavia) e da Aragonesi (segretario di Alfonso d’Aragona
e del figlio Ferdinando). Compose anche le Epistolae
gallicae (da Pavia: in prosa, con inserite composizioni in versi) e nel 1432
ottenne la corona di poeta laureato dalle mani dell’imperatore Sigismondo.
Passato a Napoli nel 1434, scrive la Epistolae
campanae e il De dictis et factis
Alphonsi regis (1455). Non era un gran lavoratore, ma era un maestro delle
relazioni sociali: le molte amicizie fra i dotti gli raccolsero attorno una
specie di consorzio letterario, che fu poi detta Accademia pontaniana, dal suo
maggior rappresentante, Giovanni Pontano. Benchè i versi del Beccadelli siano
tra i migliori come “musicalismo” e spontaneità nel secolo, tuttavia è
proprio la mancanza di idee che gli rubano il primato rispetto al Pontano: c’è
impeto ed allegria, anzi impudenza e spavalderia nelle sue rievocazioni di
persone ed ambienti perversi, ma l’epopea rimane frustrata dalla
banalità e insignificanza
delle tematiche.[39] Francesco Filelfo
( Tolentino
1398-Firenze 1481)
è autore di Satyrae
(10 libri, 10 satire per libro, 100 esametri ciascuna); di Odae
(solo cinque dei dieci libri progettati: ispirazione politica antiplebea,
filoprincipesca; del De iocis et seriis
(10 libri di 1000 versi ciascuno: sono poesie occasionali, epigrammi) e del
poema incompiuto Sphortias (doveva
avere 24 libri come l’Iliade). Si noti che scrisse anche, in volgare, una Vita
di san Giovanni Battista (48 capitoli di 14 terzine l’uono). Il figlio
Gian Mario, natogli a Costantinopoli: 1426-1480) scriverà poi Felsineis
(in onore di Bologna), Martias (in
onore di Federico da Montefeltro) e Cosmias|
Laurentias (in onore dei Medici. Giannantonio Pandone detto il Porcel(l)io:
(Napoli 1405-85) scrisse un poema
anche lui per il Montefeltro (Feltria),
ma, nel suo girovagare per le corti dei potenti d’Italia, elogiò anche l’Aragonese
con il Triumphus Alphonsi (poema in
esametri) e Sigismondo Malatesta con la sua amante (dapprima: poi sposata in
terze nozze) Isotta degli Atti (De Amore
Jovis et Isottae). Maffeo Vegio (Lodi 1407- Roma 1458). Dapprima al servizio dei
Visconti; poi, abbreviatore a Roma e, infine, religioso agostiniano. Scrisse un
tredicesimo libro per l’Eneide (Supplementum:
esequie di Turno, sposalizio e trionfo di Enea: 1427); Astyanax, Vellus aureum e Antonias
(Vita di sant’Antonio). Basinio Basini di Parma (1425-Rimini 1457). Le sue opere
furono pubblicate tutte dopo la morte: Hesperis
(tredici libri in onore del Malatesta, presentato come portainsegna della gens
latina contro i Goti iberi, cioè gli Aragonesi di Napoli); Meleagris (tre libri, che risentono dei poeti classici, da Omero a
Virgilio ad Ovidio), Cyris (canzoniere
di dodici elegie amorose, che risente di Ovidio e Tibullo, ma anche del ritmo
della ballata e delle “giustiniane”, ossia delle canzonette amorose
introdotte da Leonardo Giustinian: 1388-1446); Argonautica (tentativo di rifacimento dell’opera di Apollonio
Rodio, interrotto al terzo libro dalla morte precoce). Non si è ancora riusciti
a risolvere il dilemma della attribuzione del Liber Isottaeus (a lui? a Tobia del Borgo? ad entrambi?), romanzo
epistolare in versi, sul modello delle Heroìdes ovidiane. Cristoforo Landino pubblicava nel 1458 tre libri intitolati alla
sua donna : Xandra. Giovanile il primo
libro, di elegie ed epigrammi, libro di amore con riecheggiamenti petrarcheschi;
tramato di amore e di temi
autobiografici (rimpianto della giovinezza e della libertà perdute), il
secondo; inteso a celebrazioni di motivi più alti e più universali (elogi
funebri, epitaffi, guerra con Napoli, origini di Firenze, lodi di Cosimo e di
Poggio...), il terzo libro. Ugolino di Vieri ( detto
il Verino,fiorentino: 1438-1516):
scrisse versi amorosi per Flametta, cose
giovanili che valgono più di
quelli dell’età matura, in lode di Cosimo de’Medici (Paradisus:
influssi danteschi, elementi platonizzanti,
dal Somnium Scipionis), Epigrammata
(7 libri: di ispirazione morale) e Silvae
(19 libri: ispirazione religiosa: si avvicinò al Savonarola). Scrisse anche un
poema in volgare, la Carliade, sulle
imprese di Carlo Magno. Tito Vespasiano Strozzi
(Ferrara, ma di famiglia fiorentina: 1424-1505), allievo del Guarino ed al
servizio di Borso ed Ercole d’Este, zio del Boiardo, scrive la sua storia
amorosa nei libri di Eroticon,
che canta la sua donna Anzia, fino alla scoperta dell’indegnità e dei
tradimenti), rivelando influssi petrarcheschi accanto a quelli latini (specie di
Tibullo). Dopo il matrimonio, scrive i quattro libri di Aeolostica (poesie varie), Sermones
(modello è Orazio: a sua volta darà occasione alle Satire ariostesche in
volgare), un Bucolicon liber, degli
epigrammi. Del poema epico Borsias non
rimangono che frammenti. E’ verseggiatore poco personale, che riflette
continuamente gli esemplari classici profondamente assorbiti. Le sue opere
furono pubblicate dal figlio Ercole con le proprie (Strozii poetae pater et filius: 1514). Giovannantonio Campano
(nativo di Cavelli, Caserta, nel 1429, fu al servizio dei Baglioni a Perugia e,
poi, di Pio II, Paolo II e Sisto IV, vivendo molto a Roma, pur essendo vescovo
di Crotone e di Termo; morì a Siena nel 1477). Già si è detto delle sue
Lettere, degne talora di quelle
di Pio II; e delle biografie di Braccio da Montone e dello stesso amico
Pio II. Una parola sui suoi versi latini: risentono poco dei modelli latini e
sono molto personali (in questo, egli è l’opposto dello Strozzi), con spunti
autobiografici e paesaggistici molto sinceri e vissuti, potenzialmente spunti di
poesia viva, ma impoveriti poi dal susseguirsi di impressioni diverse che si
elidono a vicenda. Egli ha ben
presenti nella fantasia le situazioni e gli aneddoti, i paesaggi e le scenette,
ma descrive i particolari con
atteggiamenti emotivi diversi, che si accavallano e non hanno modo di imporsi.
E’ ben cosciente di quello che vuole dire; non è consapevole degli
stati d’animo da esprimere. Battista Spagnoli (detto il Mantovano: 1447-1516). Studente a Bologna, vi insegnò
teologia dopo essere entrato nell’ordine
carmelitano (1464). Aveva composto, giovanissimo,
otto egloghe, edite solo nel 1498, col titolo Adolescentia,
con emendamenti e l’aggiunta di altre due. La lettura delle poesie di Paolino
da Nola lo indusse a comporre poesie religiose, a cominciare dai tre libri Parthenicae
(o Parthenice Mariana: 1481: inaugura la poesia umanistica cristiana che
tanto sviluppo avrà nel Millecinquecento). Seguirono sei
poemetti in onore di vergini martiri: Caterina d’Alessandria, Margherita,
Agata, Lucia, Apollonia e Cecilia. Nel 1489 stampa il poema in tre libri De
calamitatibus temporum (Le calamità dei tempi: peste, guerre, minaccia dei
Turchi, corruzione dei costumi anche dentro la curia romana). Come il Verino,
compose otto libri di Silvae. E, fra
le settanta opere in 55.000 versi, si trova anche un Alphonsus, in onore del
duca di Calabria (non del grande avo); ed un Trophaeum pro Gallorum ex Italia expulsione, in onore dei Gonzaga,
presentati come artefici dell’espulsione di Carlo VIII nel 1494 (era molto
legato al cardinale Scipione della famiglia Gonzaga). Nel frattempo egli giunse
a coprire la carica di priore generale dell’ordine e morì, quando era stato
eletto vicario apostolico, con l’incarico di tentare una pacificazione fra il
ducato di Milano e la Francia. Nuoce a questo autore, che pure fu famosissimo
fra i contemporanei e fece parlare di lui come di un Virgilio cristiano (Erasmo
da Rotterdam: “christianus Maro”), la vastità della sua opera. Egli
precorre il Sannazzaro e gli è vicino come livello poetico, risultando superiore al Verino, che gli suggerisce fantasie
poetiche. Nella sua mente l’armonia del verso latino classico si fonde con
visioni medioevali o romantiche, con un gusto cioè realistico e popolareggiante, predantesco: il De
calamitatibus temporum introduce
personaggi trapassati
(Romolo, Cicerone, Pompeo...) a discutere un eventuale intervento dei celesti
nella difesa dell’Italia dal pericolo turco, mentre fra le cause del morbo
pestilenziale sono introdotti i sette vizi capitali, descritti come mostri
infernali, orridi o ridicoli; nell’Alphonsus, il protagonista è condotto attraverso il Purgatorio ed
il Paradiso terrestre (ma l’ispirazione è mediata dal Paradisus del Verino). Michele Marullo Tarcaniota
(1453 a Costantinopoli-1500, annegato nel fiume Cecina). Non si sa come e dove
studiasse, nella vita movimentata che ebbe (esule coi suoi a Ragusa, fu poi ad
Ancona, dove pare ci siano sue epigrafi nella chiesa di san Damiano; e combattè
poi assoldato). Si sa con certezza che visse a lungo a Napoli, in amicizia col
Pontano e col Sannazaro, ma non con gli Aragonesi. Si pensa, quindi, che nel
1486 lasciasse Napoli, quando il principe di Salerno, Antonello Sanseverino, suo
protettore, fu costretto all’esilio in Francia dopo la congiura dei baroni, in
quanto l’altro protettore, Antonello Petrucci, fu condannato a morte. Da Roma,
dove lo troviamo in dignitosa miseria nel 1488, passa a Firenze. Qui, nel
1489,ha una disputa letteraria col
Poliziano (contro i Miscellanea?): la violenza è inaudita: egli vorrebbe
risolvere le questioni con le armi, tanto ne è appassionato.
Nel 1494 raggiunge il suo mecenate Sanseverino, presente con molti altri
fuorusciti napoletani nell’esercito di Carlo VIII (per rientrare in Napoli e
poi, chissà, proseguire contro i Turchi fino
a Costantinopoli). Fallita la spedizione, egli continua il doppio impegno di
soldato e poeta: nel 1500 è alla difesa di Forlì contro i Borgia, accanto a
Caterina Riario Sforza, madre di Giovanni dalle Bande Nere. L’undici aprile
annega nel fiume Cecina in Toscana. Egli fu esperto filologo, tanto che potè
azzuffarsi col Poliziano per diversità di lettura di testi e, in particolare,
migliorare quello del De rerum natura di Lucrezio (il poeta da lui prediletto,
per la comune Weltanschauung immanentistica e panteistica). Di suo compose
quattro libri di Epigrammata (in realtà
raccolta di elegie, odi ed epòdi: 1497), quattro Hymni naturales (1497: è la
celebrazione in versi della sua filosofia): postume uscirono le Neniae (1532).
Se, intellettualmente, il
suo maestro è Lucrezio, poeticamente
egli predilige Catullo, nel senso,
almeno, che nelle poesie d’amore segue i metri del poeta latino di Verona Ma
sia i versi d’amore che quelli idealmente impegnati degli Hymni naturales
hanno lo stesso difetto: sono troppo ragionati, con
rarità di aggettivi od avverbi rispetto ai verbi e sostantivi, che
tradiscono il filosofo prevalente sul poeta. Nei canti d’amore ripete i soliti
concettini: Neera, la donna amata, lo sta uccidendo col suo rifiuto. Nei canti
celebrativi le domande retoriche non mancano. Tutto sommato, convincono un po’
meglio i versi degli Hymni, proprio
perchè la celebrazione dei vari
elementi del mondo tende spontaneamente all’epopea e, quindi, al prevalere
delle parti forti (verbo e sostantivo) del discorso. Ma non sono gran che
neppure quelli. A questo punto dovremmo trattare anche di Jacopo
Sannazaro,
che, dopo il Pontano, è il miglior poeta latino del Rinascimento. Ne parleremo
però in sede di produzione italiana, perchè è più importante la sua opera in
volgare che non quella in latino. Qui basterà ricordare che il suo capolavoro
latino è il poema De partu Virginis,
in tre libri e 1500 versicirca: sulla Annunciazione, la nascita di Cristo e
l’adorazione dei pastori. GIOVANNI (Gioviano) PONTANO. Nato
a Cerreto (presso Spoleto) nel 1429 e rimasto presto orfano di padre, fu
allevato dalla madre,dalla nonna materna e dalla zia, tutte donne esemplarmente
cristiane. Studiò a Perugia e, nel 1448, seguì il re Alfonso a Napoli,
partecipando alla vita politica del regno e divenendo, dopo la morte del
Panormita, principe di quella “Porticus Antoniana”, di cui aveva dettato gli
statuti e che da lui prese il nome di “Accademia pontaniana”. Segretario di
stato dal 1487, si mostrò politico fin troppo accorto: all’arrivo di Carlo
VIII nel 1494, seppe salvare se stesso passando al nuovo padrone, che però durò
pochissimo. Fu emarginato ovviamente dal re Ferdinando II (Ferrandino) al suo
rientro a Napoli. Si aggiunsero lutti familiari: la moglie Adriana
era morta nel 1490 e il figlio Lucio Francesco muore, a neppur
trent’anni, nel 1498, pressappoco quando scompare anche la seconda moglie
(Stella di Argenta,nel ferrarese) ed il figlioletto da lei nato. Trascorse
appartato e triste gli ultimi anni
di vita,rifinendo e publicando le proprie opere.
Morì nel 1503, facendo in tempo a dedicare il trattato De fortuna
a Consalvo de Cordoba, che aveva vinto l’ultimo aragonese (il re Federico) e
scacciato i francesi, assicurando alla Spagna il regno. Anche la sua vita
privata non fu esemplare. Aveva iniziato cantando il libero amore, in una società
sessualmente comunistica (1443). Con
Adriana Sassone non fu sposo
fedele; dopo il secondo matrimonio, ebbe amori senili e si espresse con
impudenza nella descrizione dell’erotismo, sia parlando del malcostume sulla
spiaggia di Baia, già famosa al tempo del Boccaccio (Hendecasyllabi seu Baiae: libri scritti tra il 1490 ed il 1500), sia
nei tre libri De amore coniugali (le
scene di gelosia di Adriana
saranno addirittura fatte narrare dal figlio Lucio nel dialogo
Antonius, intitolato a quell’altro galantuomo di un Panormita...). Sul
piano religioso, il minimo che gli si deve riconoscere è un anticlericalismo
viscerale. Ma c’è altro. Egli
trasgredisce nel determinismo antropologico: l’uomo è sotto l’influsso o
degli astri o dell’ambiente in cui si trova ad operare. Egli non nega del
tutto il libero arbitrio, ma lo riserva per poche anime privilegiate; la massa
oscilla tra gli influssi astrologici sul temperamento e il determinismo
ambientale, costituito dai fattori educativi, fisico-geografici e sociali. Non
nega, quindi, del tutto la possibilità di fare predizioni, astrologicamente
fondate, sul futuro uomo
(astrologia giudiziaria o congetturale), ma solo la limita, perchè la spinta
dei cieli viene a scontrarsi con le
pressioni delle circostanze esistenziali.
L’unico spazio di manovra per il volere dell’uomo è quello di
adattare le tendenze dell’indole congenita (astralmente imposta) alle
cause modificatrici dell’ambiente (De fortuna, 1500-1: egli vedrebbe, in tale
possibilità di scelta fra i due campi di sollecitazione, la prova della
spiritualità dell’anima: in realtà questa via non convince, di fronte al
duro fatalismo rivelato nel complesso
dei suoi scritti). Questo,
nonostante che il Caronte difenda la
libertà del’uomo. Una frase (sempre nel Caronte)
fa dubitare della sua fede nella resurrezione dei morti. Anche di quella di
Cristo? Forse non voleva giungere fino a tal punto lo scrittore e, quando fa
dire ad Eaco “Lascia stare...lascia che lo credano! Ci sono tante cose
misteriose che non sappiamo, nel mondo! Così si accresce la
religione...”,voleva solo mettere in dubbio racconti non documentati di
resurrezioni, circolanti nel Medioevo ed ancora ai suoi tempi. Egli è
fortemente contrario ad ogni superstizione, anche a quelle diffuse fra i
cristiani di troppo facile fede. Sulla ingenua autosufficienza dell’uomo circa
la virtù (stoicismo, pleagianesimo, ignoranza del peccato originale) si è già
detto a suo luogo (ancora in Caronte) Per
amore di ordine, riportiamo tutte le sue opere,
anche se i trattati e dialoghi sono già stati citati assieme a quelli
degli altri umanisti. Poesie.
Amorum libri (Parthenopeus
sive Amores): vi sono cantate scene di natura della sua Umbria che
rimpiange; e le prime esperienze d’amore, anche in versi voluttuosi. Vi si
sente particolarmente la imitazione di Catullo, da cui prende e dilata
l’uso dei diminituvi-vezzeggiativi (Amabo, mea cara Fanniella, ocellus
Veneris decusque amoris).
Eclogae (di cui Lepidina,
la più nota, del 1496, è una specie di poemetto in esametri: vi canta le nozze
del dio fluviale Sabeto con la ninfa Partenope, introducendo in qualità di
Nereidi località di Napoli e della marina (Posillipo, Mergellina, Vesevo,
Capri, Amalfi, Miseno, Capodimonte, Procida, Nisida); anche
la propria villa di Antignano, chiamata Antiniana, è cantata in un
epitalamio che profetizza l’avvento di un
pastore straniero, che sarà poeta).
Hendecasillaby sive Baiae
(1490-1500):vi si descrive la spiaggia, già fatta conoscere dal Boccaccio.
De amore coniugali: capolavoro
in versi. Sono tre libri di elegie in cui canta il suo amore per la sposa (Ariadna
è Adriana) e per il figlioletto Lucio. Qui cadono (nel secondo libro, VIII-XIX)
le composizioni più note, le Neniae dai molti vezzeggiativi: “Somne veni;
tibi Luciolus blanditur ocellis...”
Jambici: in morte del figlio
Lucio.
Eridanus: canta Stella da
Argenta, la seconda moglie del poeta.
Tumuli: epitaffi per familiari
(Lucio, Adriana), per amici (il Panormita, Pomponio Leto), per se stesso; più
della metà sono per donne.
Urania:
poema astrologico in 5 libri (favole di metamorfosi di astri:1476) e Meteororum Liber (1490) affermano l’influsso degli astri sul
temperamento, sulla cultura e costume degli uomini. Su questo egli polemizza con
la “Confutazione” di Pico della Mirandola, che tale influsso nega radicalmente.
De hortis Hesperidum sive de cultu
citriorum (due libri, finiti nel 1501): Adone morto è trasformato in pianta
di cedro da Venere ed Atlante la trasferisce sulle coste dell’Italia
meridionale.
De laudibus divinis: sono
alcune elegie sacre: iniziate in gioventù e completate con l’aggiunta di inni
a S. Benedetto ed a S. Agostino, sono composizioni di sicura ortodossia nella fede, anche se mancanti di calore
religioso. Prose
De rebus coelestibus: sono 14
libri di astrologia, finiti nel 1494. Di astronomia scrisse anche un De
luna e, non finito, un Libellus de
mundi sphaera e le Commentationes
super centum sententiis Ptolomaei
De prudentia
(in cinque libri: finito nel 1499): la virtù della prudenza, intesa come
mediazione del libero arbitrio fra indole di derivazione astrologica e
componenti ambientali. In realtà, egli cerca
di librarsi fra un determinismo astrologico
ed uno ambientale.
De Fortuna (due libri, dedicati
a don Gonzalo de Cordoba, non rifiniti). Vi insegna il fatalismo, che per altro
non esclude la Provvidenza (creatrice degli astri e preordinatrice dell’anima)
ed il libero arbitrio, cui riconosce la possibilità di contrastare il
temperamento (frutto dell’influsso astrale) con l’adattarsi alla educazione,
al clima, alle pressioni sociali.
De magnificentia, De splendore (splendidezza),De
liberalitate, De beneficentia,De hospitatlitate, De immanitate, De conviventia,
De oboedientia, De fortitudine (1481), De magnanimitate: sono tutti trattati
morali (di un libro ciascuno, eccetto i due ultimi, di due libri), che svolgono
il De prudentia, cioè propongono la virtù singole come aurea
mediocritas, giusto mezzo tra dati congeniti e sollecitazioni ambientali, come
detto. Gran parte di tali trattati hanno come tema il danaro!
De Principe : sulla vita
politica (i consigli sono quanto mai morali, basati su onestà, bontà, prudenza
e moderazione: nulla di premachiavellico, dunque, contro quanto afferma Eugenio
Garin, nel volume ricciardiano sui prosatori latini del Quattrocento, p.1021: a
meno che non si voglia vedere malizia nel sapientissimo consiglio “Sarai con
gli uni severo, con gli altri mite, secondo le cause, i caratteri, i tempi, i
luoghi, consapevole che somma giustizia è talora somma ingiustizia e che non di
rado conviene agire secondo equità e bontà invece che secondo il diritto.
Talune cose conviene piuttosto perdonare che non punire, altre far finta
d’ignorare o differire a tempi più opportuni”.
De bello neapolitano, sei libri
sulla guerra tra Ferdinando e
Giovanni d’Angiò: finito nel 1494, più che indagare i motivi profondi della
guerra, egli si sofferma su aneddoti pittoreschi: il poeta supera lo studioso.
Più vivaci e più vicini all’arte sono
i dialoghi,
di cui alcuni rappresentano al vivo la vita morale dell’epoca. Su di essi
mettiamo qui anzitutto osservazioni generali. Lontano
ne è l’ottimismo di certo umanesimo: la dura esperienza
della vita propria e “l’inizio della fine” per la pace e libertà italiana
(oltre alla sua credenza nella astrologia) lo riportano al tono amaro ed al
pessimismo, circa il rapporto tra virtù e fortuna, del più deluso Alberti e
del Bracciolini. Sul piano
della filologia e critica letteraria eccellono i
dialoghi Actius ed Antonius per le regole di retorica (stile di
prosatori); e il trattato De
sermone ( che tratta invece della lingua parlata, familiare): qui si propone l’ideale di un uomo che abbia il senso dello
humour, (urbanità, facezia). In
realtà, sono tanti gli aneddoti
comici addotti (proprio mentre espone le regole di Aristotele, Cicerone e
Quintiliano sulla conversazione arguta, in cui la “facetudo” si distingue in
“comitas” e “salsum acumen” e “lepiditas”) che il libro può essere
avvicinato alla Facezie di Bracciolini. Vi è anche una trattazione (De
aspiratione) sulla funzione e l’uso dell’h in latino (e sì che in vari
dialoghi egli si scaglia contro gli eccessi di regolarizzazione unilaterale
-quintilianea più ancora che ciceroniana- dello scrivere latino). Ma questi
studi linguistici, dalla filologia alla retorica e metrica, hanno un loro
fascino su chiunque abbia una vera vocazione letteraria, cioè qualche “grillo
poetico” per la testa. Come, appunto, il Pontano. Vediamo ora singolarmnete i
dialoghi.
Charon (iniziato nel 1467 e
terminato nel 1491) è un dialogo lucianesco, anticlericale come spirito.
Caronte fa il suo mestiere di traghettare i morti. Ed ecco che arrivano la
meretrice con l’amante cardinale, il frate girovago e donnaiolo, il vescovo
ghiottone, il prete seduttore...
Antonius (1487 ca) prende il
nome da Antonio Beccadelli, il Panormita, cui è dedicato. E’ uno sfogo polemico contro i grammatici (leggi:
il Valla) e contro la situazione di corruzione in cui versa l’Italia nelle
corti, nei comuni, nella curia. Anche in casa del Pontano succedono scene di
gelosia, raccontate spudoratamente da Lucio, il figlio che assiste alle vicende.
Vi trova posto anche la rappresentazione di una compagnia di saltimbanchi, con
scene goffe e lazzi sguaiati, ma anche con oltre 600 versi sulla guerra fra
Sertorio e Pompeo in Spagna...
Actius (1499): è dedicato al
Sannazaro (il cui nome in Accademia era appunto Actius Sincerus): vi si parla di
poesia e di versificazione.
Aegidius (1501): è in lode
dell’ agostiniano Egidio da Viterbo, religioso colto sia nelle scienze sacre
che in quelle letterarie. I vari
personaggi disputano amabilmente di
molti problemi filosofici e teologici: dai sogni alla astrologia, dal Paradiso
alle dottrine di Ermete Trismegisto sui dogmi cattolici.
Asinus
(1487). Qualcuno lo vorrebbe il
capolavoro del Pontano, che supererebbe anche i versi migliori (cfr. V. Rossi,
nel c.IX del Quattrocento vallardiano). Uscì postumo (sebbene composto
poco dopo il 1486, data della pace fra Innocenzo VIII e gli Aragonesi), proprio
per un significato allegorico ostile, che era in contrasto con i privilegi che
il re Ferdinando I gli manteneva e che nel corso di qualche anno sarebbero stati
aumentati, con il conferimento della carica di cancelliere e segretario di
stato: cariche che, però, egli pretendeva subito. Difatti il dialogo è uno
sfogo carnevalesco, per la ingratitudine del re di fronte al lavoro diplomatico
dell’autore che era sfociato nella rappacificazione. L’asino rappresenta così
o lo stesso re od il figlio Alfonso, duca di Calabria (già suo discepolo e
comandante della spedizione contro Roma, a seguito dell’appoggio dato dal papa
alla congiura dei baroni). Il Pontano, impazzito per il mancato riconoscimento,
ha comprato un asino di cui si è invaghito, lo ha addobbato fastosamente e vuol
andare per le strade intonando
canzoni amorose. Lungo il percorso vengono introdotti a parlare osti e turisti,
mentre gli amici del poeta cercano di condurlo a salvamento. Sarà, invece,
proprio l’asino che guarirà lo scrittore-diplomatico, con la sua ingratitudine:
morde le mani del padrone e scalcia
contro il servo. Il Pontano allora, rinsavito, lo cede al fattore in cambio
(ahimè!) delle prestazioni della moglie. Lo scritto si fa leggere una prima
volta per la audacia con cui sono esposte, fra le conseguenze più concrete
della pace, i guadagni degli osti alle spalle della ghiottoneria della gente e
lo spasso di prostitute e loro clienti, al di là di processioni e
ringraziamenti a Dio, di ornamenti ed altre ingenue
manifestazioni di giubilo. Ma
una seconda volta non si legge con gusto. Difatti la situazione grottesca,
per sè indovinata come sorgente di comicità, non è poi sfruttata
adeguatamente: il riso rimane potenziale e non bastano i giochi di parole latine
a far sprizzare allegria dai particolari realistici ma non comici, balordi ma
non ironici, volgari ma non farseschi. Per noi, sono decisamente meglio i versi.
Non per nulla le edizioni dell’opera sono state di numero irrisorio. Versificato
o prosastico, comunque, il suo è un latino molto disinvolto, personale ed
inventivo, che sa adeguarsi alle ninne-nanne pel figlioletto, all’idillio per
i paesaggi e la vita dei campi, alla elegia per la morte della sposa Adriana e
del figlio Lucio, alla amarezza per la solitudine
degli anni avanzati. Si sentono gli echi non solo di Ovidio, presente
maggiormente nelle composizioni amorose,
ma anche di Virgilio (il De hortis
Hesperidum finisce per essere
un poemetto georgico sulla coltivazione degli agrumi). Ma perchè, allora, anche il nostro giudizio sui
versi latini del Pontano non è propriamente entusiasta?
Ci pare che vi siano dissolvenze incrociate per almeno due cause. Da una parte
vi è un continuo mescolarsi di motivi contrastanti. Ad esempio,
nei Tumuli, l’elegia per la
assenza dei suoi morti si alterna con il ricordo dei momenti di piacere
trascorsi assieme; e l’aspirazione alla gioia non si rifà all’affetto del
cuore, ma al bisogno dei sensi, sia del latte e dei seni materni pel bimbo, sia
delle effusioni erotiche per lui, previste anche nei campi Elisi. A livello
di tecnica stilistica, dall’altra parte, la imperfezione dei versi
pontaniani si ha sia nel contrasto fra i temi idillici (che gli sono più
consoni, come rivela anche
l’uso frequente di diminutivi-vezzeggiativi) e il ritmo drammatico (che gli
riesce più solito): la musica della sua metrica è troppo eterodinica[40]
ed il contrasto fra accento tonico ed ictazione ritmica
attenua l’incanto dell’idillio, senza riuscire a costruire l’impeto
dell’epopea o il dolore della tragedia. In parole povere: Pontano
raramente affronta temi epico-tragici od elegiaci (il motivo
autobiografico è il più frequente e la sua visione della vita è quella del
gaudente) e rovina quelli idillici coll’uso di un ritmo drammatico. Viceversa
capita quelle volte che egli canta
argomenti grandiosi: allora le ictazioni eterodiniche sono troppo rare per un
livello di grande poesia. Spirito disarmonico, le sue idee non trovano una
musicalità pertinente ed il suo musicalismo incerto non è adeguato nè alla
mollezza nè alla sostenutezza delle sue idee. Si vedano, per la prima
sproporzione, tutte le Neniae, nel libro secondo degli Amori coniugali. Qui ne
riportiamo la prima,
grassettando l’ictazione metrica delle sillabe eterodiniciche: che non
sono poi frequentissime, ma abbastanza numerose
per estenuare l’idillio:
Somne, venì; tibi Luciolùs
blanditur ocellis;
somne, venì,
veniàs, blandule somne, venì.
Luciolùs
tibi dulce canìt, somne, optime
somne;
Luciolùs
vocat in thalamòs te, blandule somne,
somnule dulciculé,
blandule somniculé.
Ad cunàs
te Luciolùs vocat; huc age, somne,
somne, veni ad cunàs,
somne, age, somne, venì.
Accubitùm
te Luciolùs vocat, eia age,
somne,
eia age, somne venì,
noctis amice, venì.
Luciolùs
te ad pulvinùm vocat, instat ocellis;
somne, venì,
veniàs, eia age, somne, venì.
Luciolùs
te in complexùm vocat, innuit
ipse,
innuit; en veniàs,
en modo, somne, venì.
Venistì,
bone somne, bonì pater alme soporis,
qui curàs
hominùm corporaque aegra levàs. Quando il tema autobiografico si riferisce a momenti
esaltanti della sua vita (la nascita del figlio maschio, dopo le tre bambine; il
ritorno dalla guerra e la euforia
per la pace fatta: cfr. sempre in De amore coniugali), allora mi pare che,
raggiungendo momenti altrettanto validi che
nei migliori idilli, attinge però risultati non sublimi: benchè la musica
eterodinica aiuti l’impeto epico, tuttavia stavolta essa è insufficiente,
perchè la sua frequenza è quella solita. Il Pontano ha una musicalità rigida,
non adattabile ai diversi stati d’animo. E il successo anche delle cose
epicizzanti è solo mediocre. Ne riportiamo alcuni versi dall’Amore
coniugale, I, X e dai quasi 700 versi che concludono l’Antonius (riguardano la
guerra civile fra Sertorio e Pompeo, in Spagna):
Ite procùl,
curae insomnès; sint omnia laeta;
cretensì
lux haec more notanda mihi est;
ite iterùm,
curae insomnès, procul ite, dolores;
fulserit haec nitidò
sidere fausta diès,
qua mihi vitalès
genitùs puer exit in auras!
Spargite nunc variìs
atria tota rosìs;
spiret odoratìs
domus ignibus, aemula lauro
myrtus adornatòs
pendeat ante Larès.
Ipse deòs
supplèx tacità venerabor acerra
et reddàm
sacrìs debita tura focìs:
sancte Genì,
tibi solemnès prostratus ad aras
fundo merum et multò
laurus in igne crepàt.
Vota manént:
sua signa deùm testantur, et omen
clara dedìt
celerì flamma voluta gradù,
ipse et pacatò
movìt sua vertice serta,
et fragilìs
cecidìt crine decente rosà;... Ecco il turbine, suscitato da Euro in presenza di un
inizio di incendio: interrompe la battaglia
dopo episodi tragici, con eroi travolti dal fuoco, finchè non scende la
sera. Ma neppure qui la poesia rapisce: se ne sente la forza ed i limiti
contemporaneamente. E sempre si accompagna il fenomeno di ictazioni omo- ed
eterodiniche. Citiamo i passi che ci son sembrati i migliori, tra gli ultimi 150
versi circa:
Involvìt iactàtque furéns
incendia ventus.
Tolluntùr coelò fumì
glomerataque flamma
pervolitàt,simul absorbéns
stirpésque viròsque,
et quamvìs trepidùm canerént
iam signa receptum
telaque proiicerént dextrìs clypeòsque
sinistris,
flammatùs tamen ante aciés
evadere non est....
Pervolitàt turbo involvéns silvàsque
feràsque;
densatùr coelùm fumò,
caligine montes
conduntùr fluitàntque atrae
per summa favillae
mox saevi erumpùnt ignés flammaeque
coruscant,
et coelùm lambìt rutilàns
et sidera vortex.
Hinc rursùs torquente Eurò per
inane volutus
incumbìt campìs, truncòsque
ambustaque versat
robora, candentemque rapìt
sese ante procellam... Ed ecco il paragone con la eruzione dell’Etna:
Ut cum Trinacriae campìs de vertice
summo
Aetna vomìt rapidòs aestùs,
it turbine denso
sullatus coelò fumùs,
mox rumpit in auras
post iactante notò agglomeràns flectìtque
rotàtque
huc illùc; ea lapsa facès
iaculatur et altis
illisa arboribùs silvàs saltùsque
vagatur
incensòs; ruit intereà,
miserabile visu,
flammarùm torréns rapidùs
liquefactaque saxa
praecipitàt, simul involvéns
stirpésque feràsque
tectaque pastorésque; furìt Vulcanius
amnis
per vallès, per culta; ingéns
metus urget agrestes
vicinaeque suis diffidunt moenibus urbes;
haud alitèr pavor invasìt, fuga
coepta per omnis
est aciés. “Ite, exclamàt
Sertorius, ite,
ite citì, vada nota citì
pervadite”; et amnem
primus obìt. Sequitùrque ducèm
sua quemque inventus
et circùmstetit armatùs
trans flumina miles”... Il contrasto negli utlimi due versi (“Signa canùnt
reditùm. Sequitùr tum
ferrea pubes,| Oceanòque egressa polùm
nox occupat atra”), fra squilli di guerra per la gioventù rivestita di ferro
e la pace pel calar della notte, può essere la sintesi del contrasto nei versi
del Pontano fra musicalità drammatica e musicalità contemplativa: nessuna
prevale; si elidono in una espressione equilibrata ma
sciapa. D’altronde la battaglia non vede nè vincitori nè vinti: per
chi parteggia il poeta? Per Sertorio seguace di Mario, il
popolare; o per Metello e Pompeo, seguaci di Silla, l’aristocratico? Le
dissolvenze incrociate dello stile hanno radice
nella oscillazione incerta del pensiero. Come promesso, del Sannazaro tratteremo
una sola volta, dando uno sguardo anche ai suoi versi latini
quando ne parleremo come poeta e scrittore in volgare. LA LETTERATURA IN VOLGARE DEL SEC. XV (MILLEQUATTROCENTO) Prospetto
generale
Poeta veramente grande nel Millequattrocento è solo
Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, che nelle Stanze per la giostra di
Giuliano de’ Medici ha scritto dei
versi davvero estasianti. Altri discreti
scrittori non mancano, ma non incantano: Lorenzo il Magnifico, Matteo Boiardo,
Jacopo Sannazaro. Forse neanche sufficienti –a nostro avviso- sono il Pistoia,
il Pulci il Boiardo e altri rimatori del secolo: sono poeti di quarta scelta.
Tra i prosatori spicca su tutti Bernardino da Siena (Prediche), seguito a
distanza dal Sannazaro (Arcadia) e da Alessandra Macinghi Strozzi (Lettere).
Molto inferiori si collocano altri lavori, come i dialoghi di L. B. Alberti, le
Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, il Paradiso degli Alberti di Giovanni da
Prato, ecc. Sarebbe coerente interessarci solo dei poeti e
prosatori almeno sufficienti: Ma, a parte la loro pochezza per questo secolo, il
moto complessivo del Rinascimento
è troppo importante alla
comprensione della storia culturale d’Italia, anzi dell’ Europa tutta, perchè
si possano trascurare gli autori che hanno valore soltanto per il pensiero, per
la testimonianza di un gusto, per l’esplorazione di nuove tecniche o la
riconquista di quelle classiche (poemi, teatro). In base, dunque, a criteri
genericamente culturali ci è sembrato logico riunire e distinguere così gli
scrittori tutti della letteratura volgare nel secolo XV:
I)
Scrittori antirinascimentali (Giovanni Dominici, Gerolamo Savonarola) II)
Scrittori solo marginalmente interessati alla civiltà rinascimentali:
gli autori dei “Cantari”, delle facezie del Piovano Arlotto, delle
Buffonerie del Gonnella; Tommaso Guardati (Masuccio Salernitano: Il Novellino),
il Burchiello (Domenico di Giovanni: I sonetti), il
Pistoia (Antonio Cammelli, detto: I sonetti faceti), Leonardo Giustinian,
Feo Belcari (Laudi| Sacre rappresentazioni| Vita del b. Colombini), Rinaldo
degli Albizzi (Le Commissioni), S. Bernardino da Siena (Prediche volgari),
Alessandra Macinghi Strozzi (Lettere). III)
Scrittori profondamente connessi con la classicità rinascimentale:
Vespasiano da Bisticci (Vite di uomini illustri), Giovanni Gherardo da Prato (Il
Paradiso degli Alberti), Luigi Pulci (il Morgante), Matteo Maria Boiardo
(L’Orlando innamorato), Lorenzo il Magnifico (Poesie: d’amore, di scherzo,
di spiritualità). IV)
Scrittori di piena classicità rinascimentale:
Leon Battista Alberti (Dialoghi, Trattati), Jacopo Sannazaro (Arcadia), ANGELO AMBROGINI (POLIZIANO): STANZE PER LA GIOSTRA DI
GIULIANO DE’ MEDICI. V)
Scrittori al di là della civiltà rinascimentale:
Cariteo (Benedetto Gareth, detto il: Endimione, canzoniere), Aquilano (Serafino
de’ Ciminelli, detto l’A.:Rime), Tebaldeo (Antonio Tebaldi, detto il: Rime),
Leonardo da Vinci (Scritti letterari), Fr. Colonna (?: Hypnerotomachia Poliphili). Prima però di affrontare i singoli autori della
lingua toscana, diamo uno sguardo all’apparente tramonto ed alla inarrestabile
ripresa della scrittura volgare, a cominciare dalla morte del Petrarca. La lunga marcia
della maggioranza loquace ma non scrivente: la vittoria della lingua volgare
toscana. Nonostante il sussiego di vari umanisti, giunti a definire Dante un “poeta da
ciabattini e da fornai”[41],il popolo fiorentino e
toscano mantiene vivo l’uso sella parlata materna e, poco a poco, ricupera
anche la fiducia nella capacità del volgare a veicolare per scrittura concetti
filosofico-scientifici, in forme espressive nobili e dignitose. L’uso del
latino rimaneva un fenomeno artificiale : era la prima lingua straniera imparata
dai maestri, normalmente non utilizzata nel parlare più solito, non foss’altro perchè, delle donne,
erano rarissime quelle che giungevano a padroneggiare con sicurezza la lingua di
Roma, sicchè anche quanti erano addetti per ufficio a scrivere ed a discorrere
con i colleghi nella lingua di Cicerone, la casa rappresentava il ritorno
obbligato alla lingua nativa. La stessa crescita quantitativa del numero di
studenti universitari finiva (legge psicologica insuperabile!) per andare a
scapito della qualità dell’apprendimento: una percentuale sempre più grande
acquisiva il minimo necessario per la laurea e l’ufficio,
disinteressandosi alle finezze di un uso pervasivo della
“grammatica”. Nel frattempo diventavano sempre più “pervasivi” i
commercianti toscani e sempre più “persuasivi” i loro tre grandi scrittori
del Milletrecento, sicchè il fiorentino era sempre più diffuso come lingua
parlata. Gli organismi di governo veneziani mantengono imperterriti la
tradizione di usare il loro linguaggio, sicchè anche le “relazioni” degli
ambasciatori alla “serenissima repubblica” sono scritte in pretto veneziano,
mentre soltanto i messaggi alle potenze estere (anche d’Italia!) sono vergati
nella lingua “franca” od internazionale di Roma. Filippo Maria Visconti
vuole scritti in volgare i documenti del suo governo, mentre Firenze rende
obbligatorio il fiorentino per le scritture di “mercatanzia” (1415) e di
cancelleria (1451). Mai, d’altronde, venne meno un manipolo di
intellettuali convinti del valore definitivo del volgare. Si può, infatti,
sospettare che il card. Dominici scrivesse in toscano la Regola del governo
di cura familiare, solo perchè indirizzato anche alle donne non
addottorate; ma non si può invece dubitare della fede nel futuro della lingua
toscana in un Cino Rinuccini, in un Gherardo da Prato, in Matteo Palmieri ed in
L. B. Alberti. Che più? Il Bruni, nei citati Dialogi
ad Petrum Histrum propone le posizioni
opposte (estimatori e sprezzatori della lingua fiorentina e dei tre
grandi trecentisti) solo apparentemente alla pari: l’ultima parola
è agli esaltatori ed il Niccoli ritira come pretestuose le accuse mosse
a Dante, Petrarca e Boccaccio. E chi li difende sarà proprio quel Coluccio
Salutati, considerato il maestro dell’Umanesimo
nella loro città. Lo stesso Bruni è autore di una preziosa Vita di
Dante (1436) in lingua fiorentina e, sia pure in latino, Giannozzo Manetti
scriverà la biografia delle tre “corone” del Trecento volgare. La
stessa strana opinione del Bruni (condivisa da altri umanisti), pel quale anche
ai tempi di Cicerone a Roma la
lingua parlata appresa in casa differiva sostanzialmente da quella scritta ed
imparata a scuola, è spia acutissima di questa mentalità pluralistica. Così
entrambi i linguaggi han diritto di cittadinanza, visto che il bilinguismo è
sempre esistito e sempre esisterà. Un passo innanzi è fatto dalla sua
affermazione nella Vita di Dante: “ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo
suono e suo parlare limitato e scientifico”, tanto che la differenza tra
latino e volgare non è diversa da quella tra latino e greco! Da queste
posizioni del Bruni all’altra di Cristoforo Landino: “E’ necessario esser
latino chi vuol esser buon toscano” ed a quella di Pietro Bembo che stabilisce
una classicità anche per il toscano (Prose della volgar lingua: 1525)
i passaggi sono coerenti e prevedibili. I)
SCRITTORI ANTIRINASCIMENTALI Giovanni
Dominici
(1357-1419). [42] Ponendo il beato Dominici
fra gli antiumanisti, non dobbiamo immaginarci un fanatico insensato. Egli si
mostrò personaa intelligente e
saggia, che apprezzava molto la istruzione, quella umanistica (filosofico-letteraria)
in specie., proprio per il fine terreno di assicurarsi una posizione di onore e
di guadagno. Così troviamo in Governo di
cura familiare suggerimenti di sapienza realistica che dimostra la
conoscenza dei propri tempi e il coraggio della verità: a parte il vivo senso
della giustizia, egli esprime attaccamento alle libertà comunali e stima per le
arti tecniche; denuncia come ovvia la diversa condizione con cui uomini e donne
arrivano al matrimonio (quelle, normalmente vergini; questi, normalmente
fornicatori); predica il dovere di lasciar scegliere lo stato matrimoniale
piuttosto che religioso-ecclesiastico ai giovani; non tace il pericolo per la
salvezza dell’anima rappresentato da certi conventi corrotti, dove ragazze
ingenue trovano un covo di vipere perfide
anzichè un ovile di candide pecore; invita a dimenticare i nomi di
“parte” (guelfi|ghibellini) per scegliere quello solo di onestà civile e
professionale (“iusto fiorentino”); insegna la prudente armonia fra castighi
e premi, fra amore e timore nell’opera educatrice; ecc. Ciò detto, bisogna
riconoscere che sussiste in certi angoli del suo pensiero un sapore
ultramedioevale, che si concretizza in un sospetto eccessivo verso i valori
puramente umani. Questo (sia pur
solo parziale) antiumanesimo si rivela nel sottolineare piuttosto le divergenze
che le analogie fra pensiero greco-romano e
cristiano; nel sospetto eccessivo verso gli scrittori pagani (oltre che da
Ovidio, egli mette in guardia anche da Virgilio, come suggeritore di
idolatria!); nella preoccupazione eccessiva di fronte alle manie femminili di
mode, vanità, cerimonie di galateo mondano;
nello scoraggiare i genitori
non solo da moine e sdolcinature verso i figli, ma persino dal racconto di
favole; nella convinzione “occamista e nominalista” che il pensiero al di
fuori della rivelazione non possa giungere che a probabilità e ad opinioni, non
a certezze scientifiche. Dante, il
medioevalissimo, cristianissmo ma anche umanissimo Dante, sarebbe inorridito di
fronte a tanto pessimismo disumano. Egli cita, ovviamente, il peccato originale,
ma ne deduce motivo per una serie di scrupoli che
fanno da simmetrico contraltare alla noncuranza e disinvoltura educativa
dei rinascimentali, che delle conseguenze della colpa prima si sono dimenticati.
Pure, non si può dimenticare la umanissima e
tenera poesia alla Madonna che inizia “Di’,
dolce Maria”. Pure, se è davvero suo il Libro
d’amore di carità, avremmo una prova di una visione meno oscurantista e
rigorista della vita cristiana: difatti l’opera è
indirizzata a quella
Bartolomea, sposa di Antonio degli Alberti, che è al centro del Paradiso degli
Alberti, scritto (probabilmente) di Giovanni Gherardo da Prato, che esprime già
–alla fine del secolo XIV- lo spirito rinascimentale armonizzato con quello
cristiano, totalmente rispettoso dei valori del Vangelo e della morale, quale si
esprime nella lieta brigata raccolta attorno alla mecenatesca famiglia degli
Alberti, ospiti generosi per molti
maestri laici ed ecclesiastici della Firenze di Coluccio Salutati. D’altronde
la questione dello studio degli autori pagani era già stata risolta
positivamente sia in oriente, da San Basilio (“Lettera ai giovani sulla
lettura degli autori pagani”), sia in occidente, da San Gerolamo (lettera
70: a Flavio Magno). E, ancora, per secoli e secoli (dall’invasione dei
barbari nel sec. V all’aprirsi del secolo XI) uomini ed istituzioni di Chiesa
erano stati i quasi unici ricopiatori degli autori classici (i monaci di Cassiodoroo,
vissuto tra il 490 ca e il 583- nel monastero da lui fondato in Calabria col
nome di Vivarium) o loro studiosi sistematici
(i “Libri di Etimolgie” di Isidoro di Siviglia, il convertitore dei Visigoti:
560 ca- 636), nonostante la coscienza del pericolo che essi rappresentavano per
il contenuto non conforme nè alla fede nè alla morale evangelica (si vedano i
testi addotti in proposito da Aurelio Roncaglia nel volume “Le origini e il
Duecento” della Garzantiana). L’atteggiamento prevalente del Dominici, che
rifiuta in blocco, senza le dovute distinzioni la cultura umanistica, è
reazione esasperata di un animo timido e scrupoloso, in tempi in cui un Luigi
Marsili (1342-1394) ed un Ambrogio Traversari (1386-1439)- frate agostiniano il
primo, camaldolese il secondo- partecipavano serenamente e con equilibrio ad una
cultura umanistica ancora profondamente cristiana, come quella appunto del
Salutati o dei frequentatori della villa degli Alberti. Eppure il pessimismo del
Dominici, irrazionale in alcuni suoi aspetti, doveva purtroppo rivelarsi
profetico: l’Umaneismo avrebbe finito per perdere la sua armonia colla fede e
la morale e si sarebbe inclinato verso una implicita forma di eresia (oblio del
peccato originale) ed ina condotta esplicitamente paganeggiante. Già il
Salutati aveva ammonito Poggio Bracciolini e Giovanni d’Arezzo: “Nimis
defertis et ceditis vetustati”: troppo vi inchinate e concedete alla antichità
pagana...”. Non ci meraviglieremo più, allora, dell’opera sua
più famosa, la LUCULA NOCTIS, scritta in latino perchè indirizzata ai
dotti umanisti. Passando all’estremo opposto, egli combatteva una moda di
pensiero pericolosa. L’opera uscì probabilmente nel 1405: la
“lucciola” o “piccola luce nella notte” fece scalpore e indusse
il Salutati a tentare una risposta adeguata (che la morte interruppe nel 1406).
Anche il Bruni e Ciriaco d’Ancona ne combatterono
le idee. In tale opera il Dominici, in 47 capitoli (secondo il numero delle
lettere che ne compongono il motto, tratto da Vangelo di Giovanni), mette in
guardia contro lo studio degli autori pagani, perchè sorgente di corruzione.
Per lui, unica sorgente di luce vera è Cristo e gli autori pagani non ne sono
una preparazione ma un offuscamento, secondo il Vangelo di Giovanni “Lux in
tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt” (la Luce brilla nelle
tenebre, ma le tenebre non la vollero accettare). Proprio per questo, ogni suo altro scritto è di
natura esclusivamente religiosa ed evangelica: oltre il Governo di cura familiare (la più diffusa), stanno Il
libro dell’amore di carità; il Trattato
delle dieci questioni; e lettere e
poesie, fra cui quella (attribuitagli non del tutto sicuramente) che inizia “Di’,
dolce Maria”. Gerolamo
Savonarola.[43]
Se il Dominici interferisce umilmente e scolasticamente contro l’astro
dell’umanesimo, ascendente al principio del secolo XV, il Savonarola tuona
possentemente contro la corruzione, di cui quello era causa nella stessa
Firenze, alla fine dello stesso secolo. Entrambi inutilmente, almeno a livello
tattico, cioè come risultato immediato. Testimonianza macroscopica dell’attituidne
savonaroliana è il “bruciamento delle vanità” sulla pubblica piazza della
signoria, nel carnevale del 1497 e 1498, quasi a riparazione delle feste più
meno paganeggianti in voga finchè era stato in vita il Magnifico Lorenzo. Vi si
bruciavano infatti anche statue e dipinti di valore artistico, ma impudenti,
libri latini e volgari dello stesso genere. E’ vero che il gran frate
domenicano non era contro la cultura e lo studio in sè: basti ricordare
l’acquisto della biblioteca medicea da parte del convento di S. Marco, voluto
da lui perchè non fosse dispersa, dopo la morte del Magnifico e la cacciata del
figlio Piero al sopraggiungere dei francesi nel 1494. Ma scrivendo l’operetta Apologeticus
sulla divisione ed utilità delle scienze, egli pone la poesia all’ultimo
gradino del sapere e ne sminuisce l’utilità per la formazione intellettuale e
morale, consigliando l’uso degli autori profani agli anni maturi, quando una
formazione cristiana ha preceduto e preparato il terreno ad accogliere il buono
ed escludere il male. Ancora: egli raccomanda spesso ai genitori l’istruzione
dei figli. Scrive infatti: “Io non ho mai avuto in animo di condannare
l’arte del poetare, ma solamente l’abuso che taluni ne fanno...” Eppure,
nella stessa operetta, continua: “Vi è una falsa genìa di pretesi poeti, i
quali non sanno far altro che correre dietro alle orme dei greci e dei Romani:
vogliono la medesima forma, lo stesso metro; invocano i loro medesimi dei nè
sanno usare altri nomi, altre parole che quelle usate dagli antichi. Noi siamo
uomini al pari di loro ed avemmo da Dio uguale facoltà di dar nome alle cose
che vanno mutando ogni giorno. Ma costoro si resero schiavi degli antichi, in
maniera che non solamente non vogliono parlare contro la loro sostanza, ma
neppure vogliono dire ciò che essi non dissero. E questo non è solo un falso
poetare, ma è anche una peste perniciosissima della gioventù. Io certo mi
affaticherei a provarlo, se non fosse più chiaro del sole: l’esperienza che
è l’unica maestra delle cose, ha reso così manifesto, agli occhi di tutti, i
danni che nascono da questo modo falso di poetare, che è vano ormai fermarsi a
condannarlo”. Si possono accostare, alle citate, altre espressioni del
domenicano ferrarese; queste, ad esempio, tratte dal De
simplicitate christianae vitae: “...increduli...uomini di cultura profana
–cioè filosofi, oratori, poeti e altri, tumidi di superbia intellettuale-
gente questa che classifica il cristianesimo tra le superstizioni e scambiano
l’intrinseca sua semplicità con la stoltezza... la triste condizione in cui
versa l’epoca nostra, adesso che la fede è vanificata e la visione
soprannaturale della realtà pare essersi spenta.... Neppure quei maestri e
sommi rappresentanti del mondo filosofico –nei quali, come s’usa dire, parve
che la natura avesse fatto ogni sforzo per crearli perfetti, al di sopra dei
comuni mortali: vedi Socrate, Platone e gli altri maggiormente celebrati dai
pagani- nemmeno costoro poterono acquisire quel tanto di virtù e di santità
che basti a collocarli alla pari con i fanciulli cristiani”.[44]
Unico “segno dei tempi” in questo religioso (congenialmente platonizzante,
anche se aristotelico-tomista per la formazione ricevuta nel suo ordine) è la
mancata correlazione tra insufficienza pagana alla virtù integrale, e il dato
rivelato del peccato originale. Questo oblio della ferita additata dalla rivelazione come causa della
sproporzione fra doveri e poteri della volontà umana, è il tributo pagato (ben
inconsapevolmente) dal Savonarola alla mentalità umanistica che egli combatteva
con tanto fervore. Al tentativo di risanamento etico fallito nel Savonarola,
succederà il cinismo sofferto di Machiavelli e quello pacato di Guicciardini,
che vedranno in un potere sfrenato al vertice degli stati il rimedio unico alla
sfrenata bestialità della massa popolare. Poi verrà Lutero a pretendere di
purificare il mondo ecclelsiastico e
religioso, abolendo il celibato ed i voti di povertà ed ubbidienza, ritenuti
impraticabili. Ma solo la teocrazia di Calvino e l’alleanza fra trono ed
altare riuscita, almeno in parte, al Concilio di Trento riusciranno a rimettere
in sesto (per qualche generazione) la vita morale della Europa rimasta cattolica
o divenuta calvinista. Ecco le opere del Savonarola. TRIUMPHUS CRUCIS (Il trionfo della croce: 1497).
PREDICHE: Sopra
l’Apocalisse e la Genesi (1490
e 1494); Sopra (il profeta) Aggeo (avvento
1493); Sopra i salmi (1495: feste);
Sopra Giobbe (1495: Quaresima); Sopra
(il profeta) Amos ( Quaresima 1496: prediche fra le più forti e belle,
tenute su comando della signoria, avendo il papa concesso il permesso a voce,
senza ritirare il divieto scritto); Sopra
Michea (Maggio 1496); Sopra Ezechiele
(Avvento 1496); Sopra l’Esodo (11
febbraio 1498).
APOLOGETICUS
DE RATIONE POETICAE ARTIS (1490?)
De simplicitate christianae vitae (1496);
TRATTATO
DEL REGGIMENTO E GOVERNO DELLA CITTA’ DI FIRENZE (1497). Trattato contro gli astrologi; De veritate prophetica; Solatium
itineris mei; Lamentatio Sponsae Christi adversus tepidos; Loqui prohibeor et
tacere non possum;Dieci regole de orare (pregare) nel tempo di grandi tribolazioni; Meditazione sopra il salmo
“Miserere mei, Deus; e sopra “In te, Dominne, speravi”; Regola del Ben
vivere cristiano; Della vita viduale; Dell’umiltà; Dell’amore di Gesù
Cristo.[45]
II)
SCRITTORI SOLO MARGINALMENTE INTERESSATI ALLA CULTURA RINASCIMENTALE In genere, di questi scrittori si può dire che la
tematica e la tecnica stilistica sono sostanzialmente ancorati alla tradizione
medioevale. L’argomento sarà religioso ed edificante in Feo Belcari,
Bernardino da Siena, ecc.; oppure sarà fantastico e profano nei “cantari”
(avventure cavalleresche, di guerra e d’amore); oppure si farà portavoce
della fronda politica (Domenico di Giovanni, detto il Burchiello) o della
estrosità popolaresca (ancora il Burchiello e Antonio Cammelli detto il
Pistoia). Quanto allo stile, essi si esprimono
con libertà sintattica (in prosa) o con schemi metrici tipici del
Trecento. Eppure anche in essi i tempi nuovi
e le nuove tendenze si fanno sentire: sarà il senso di vergogna per farsi
perdonare la pubblicazione di strambotti e versi popolareschi; sarà la parte
che vi ha la mitologia; sarà la preoccupazione di risalire alle fonti per opere
di agiografia; sarà la spregiudicatezza stessa nella casistica morale di S.
Bernardino da Siena o di Alessandra Macinghi Strozzi... Nessuno è davvero
immune dall’ambiente in cui vive: se ben si riflette, anche Savonarola e
Giovanni Dominici ne risentono marginalmente, pur reagendovi nella sostanza.
Tanto più questi autori, per i quali lo stile interessa sempre meno del
contenuto e delle finalità pratiche (di edificazione o di contestazione;
accontentare il popolino o guadagnarsi il pane per vivere).
Gli autori dei “CANTARI” Ci interessano soprattutto per introdurci ai loro
prosecutori più letterati: da Luigi Pulci, a Matteo Maria Boiardo, a Ludovico
Ariosto. Si tratta di versificatori di poemi cavallereschi, detti “cantari”
perchè destinati ad esser recitati
da “canterini o cantabanchi” sulle piazze delle città o dovunque vi fosse
gente disposta ad ascoltare. [46]
La loro composizione inizia verso la caduta del secolo XIII e si prolunga
abbondante nel secolo seguente. Dobbiamo ora aggiungere che, secondo studi più
recenti, cantari già attribuiti al Milletrecento (Rinaldo di Montalbano, Uggeri il danese, Orlando, La Spagna in
rima) appartengono più probabilmente al nostro secolo. Sicuramente del
Millequattrocento sono l’anonima Regina
Ancroia. A cavallo dei due secoli sta il prosatore Andrea di Jacopo de’
Mengabotti da Barberino (in Val d’Elsa: 1370 ca-dopo il 1431), che
ridusse e modificò in forme facili e gustose molte composizioni francesi. Il più
noto dei suoi lavori è quello intitolato “I
Reali di Francia”,
che ebbe prosecuzioni nei romanzi Aspramonte,
Storie narbonesi, Aiolfo del Barbicone, Ugone
d’Alvernia... Accanto ai “Reali di Francia” il suo romanzo più famoso
è il “Guer(r)in meschino”,
storia fantastica a sè stante. Queste due opere sono state diffuse, in sunti per ragazzi e no, ancora nel secolo XX; fino al secolo XIX hanno goduto di un
largo favore popolare (si ricordi il sarto manzoniano nel capitolo 24
dei Promessi) e non è detto che abbiano finito il loro giro di
lettori... Dai “Reali di Francia” gli eroi carolingi -e Carlo Magno stesso-
sono ricondotti alla discendenza da Costantino il grande, dividendosi in due
partiti opposti: la casa di Chiaramonte che presenta gli eroi puri e fedeli; e
la casa di Maganza, composta di furbastri, infidi e traditori. I sei libri in
prosa coinvolgono anche la materia di Bovo d’Antona, che circolava già nel
secolo XIV sia in prosa che in versi. Ma soprattutto l’attenzione va
concentrandosi su Orlando, nato da Milone e dalla sorella di Carlo Magno, Berta:
il loro amore è a lungo contrastato, sebbene alla fine l’imperatore accoglierà
ed onorerà il nipote come il suo miglior paladino. Andrea da Barberino, da buon
toscano dalle idee chiare e distinte, infonde nella materia ingarbugliata e
vastissima un principio di unità e chiarificazione,
ma pagando il prezzo di una semplificazione troppo
elementare, persino infantile: l’interesse verte sulle vicende
guerresche spettacolari e sugli amori contrastati: manca ogni approfondimento
psicologico e non vi è raffinatezza stilistica. E’ vero che anche Il
Morgante del Pulci come versificazione è faticoso (nonostante tutte le cure
del poeta), ma almeno le vicende hanno una loro verosimiglianza e l’autore è
interessato all’animo dei personaggi (anzi negli ultimi canti, il diavolo
Astarotte introduce problematiche religiose sottili e pericolose). D’accordo
che anche nel Furioso vi è la libertà della fanatasia, che costruisce castelli
fatati (quello del mago Atlante) e inventa cavalcature surreali (l’ippogrifo),
ma, concessi spazi sia pur larghi alla invenzione gratuita e magica, una volta
definito il carattere di un personaggio, questo resta fedele ad una propria
psicologia, semplicistica se si vuole, ma sufficiente a distinguerlo da altri
eroi: per un solo tratto caratteristico, magari, ma un tratto coerente e
specifico. L’Entrè de
Spagne e La
Spagna in rima contaminano il ciclo arturiano
e carolingio, epico ed avventuroso, religioso ed amoroso. A questo modo
la figura degli eroi si approfondisce o almeno si complessifica: occorreranno
scrittori più geniali per dominare la materia e condurla ad esiti accettabili
dal lettore smaliziato e, più in là, a risultati lirici. Il Boiardo ed il
Pulci riusciranno nel primo intento: razionalizzare la trama e dare
verosimiglianza, cioè parvenza di realtà non tanto alle vicende, ma almeno
alla psicologia degli eroi; occorrerà aspettare il più dotato Ariosto ad
infondere un’aura sia pur solo
incipiente di poesia in una materia così vasta, varia, gratuita e arbitraria. L’anonimo autore
delle Buffonerie del Gonnella Pietro Gonnella, fiorentino della prima metà del
secolo XIV, fu uomo di corte presso il marchese di Ferrara, Obizzo III d’Este.
Franco Sacchetti ne fece la figura di un buffone mariuolo e furfantesco. Un
anonimo del secolo seguente (Millequattrocento) tentò di scriverne la vita e le
birbonerie facete e divertenti. Ma, ahimè! il biografo non è all’altezza del
compito e sciupa malamente le “buffonerie del Gonnella”, rendendole
irrilevanti. Occorre il senso del comico anche nel riferire le trovate altrui.
Se ne fece anche una traduzione in ottave: fallita ed insulsa come la redazione
in prosa.
L’anonimo autore delle “Facezie del piovano Arlotto” Anche il piovano Arlotto Mainardi, parroco a San
Cresci a Maciuoli (diocesi di Fiesole) è personaggio storico, vissuto fra il
1396 ed il 1484. Il libro “Motti e
facezie del Piovano Arlotto” apparve a stampa nel secondo decennio del
Millecinquecento (1514 ca), ma si pensa che il testo sia stato composto prima
della fine del secolo. L’anonimo compositore cerca di far rivivere il buon
umore della comicità arlottiana e non si può negare che una traccia del
profumo originario permane nel libro. Ma è un ben esile indizio che non basta a
spiegare il mito di un uomo, che ancor dentro nel Cinquecento, chi lo aveva
conosciuto vivo, ricordava con spassosa allegria e rimpianto. Il personaggio è
ricordato persino dal Magnifico Lorenzo, dal Pulci, dal Poliziano, per cui si è
costretti a pensare che il volonteroso ma inadeguato riesumatore dell’humour
arlottiano abbia disperso gran parte della spassosità con la imprecisione delle
battute, con il pressappochismo della memoria. La statura comica del
“piovano” ne scapita e, con la sua fama, va dispersa gran parte
dell’aspettativa del nostro bisogno di riso
spiegato o di sorriso sornione. Restiamo in ogno modo nella sfera della popolarità
estrosa ma estemporanea: l’improvvisazione e la singolarità avrebbero escluso
con tutta probabilità le
stesse battute originarie ( e non soltanto il povero libro che le ricorda) dalla
raffinatezza e dalla dignità di una modellazione su esempi
paradigmatici, necessari per ogni classicità e particolarmente per
quella rinascimentale.
Masuccio Salernitano e il Novellino Tommaso Guardati, detto Masuccio salernitano (1415
ca-1475 ca). Nato a Sorrento (od a Salerno?), visse alla corte degli Aragonesi e
fu amico del Pontano. Dopo il 1463 lo troviamo a Salerno, segretario del
principe Roberto di Sanseverino. Partecipò solo negli ultimi anni alle
innovazioni umanistiche, promosse dal suo signore. Fuori di tale evoluzione
culturale rimane l’unica opera di Masuccio, che rinnova il nome dell’anonima
opera duecentesca: Novellino. Pur
ispirandosi al “vetusto satiro Juvenale” ed al “famoso commendato poeta
Boccaccio”, l’interesse delle sue cinquanta novelle discende solo dal
contenuto: mancano il lirismo, l’
approfondimento psicologico, le novità culturali. Pure non convengono al
Medioevo nè la truculenza, la spudoratezza di certi fatti di cronaca, nè la
polemica antifratesca ed antifemminista (la donna è la istigatrice e la causa
di ogni male): questo Novellino
assorbe sì dall’ambiente un realismo ed un anticlericalismo maggiori, che lo
dicono figlio del secolo XV, ma non è coinvolto nella grande avventura
dell’Umanesimo. Nuova,
ma pedantesca, è anche l’ impostazione tecnica delle novelle, che pure avrà
seguito. Nessuna cornice boccaccesca, ma un annuncio dell’argomento, una
lettera dedicatoria, la narrazione, un commento finale. Sarà fatta propria da
Matteo Bandello nel Millecinquecento e, poi,
in novellieri del sec. XVII. La frase è meglio costruita che in
Boccaccio e la sintassi è più limpida, ma
i vocaboli non sono sempre toscanamente puri. E purtroppo l’espressione
raggiunge una retorica che anticipa la ridondanza secentista, specie
nelle parti non narrative (si veda il Prologo generale
e la dedica ad Ippolita Sforza Visconti d’Aragona). Il racconto vero e
proprio è più sobrio e lineare, inserendo espressioni popolaresche e bizzarre
che danno un guizzo di vita alla novella. Ma le stesse scene che dovrebbero
risultare spassose, rimangono solo potenzialmente comiche, non riuscendo a
sfruttare adeguatamente il personaggio ridicolo o la situazione grottesca.
Crudezza di ferocia e di vita
sessuale, di polemica e di
moralismo sono, purtroppo, le cose che più rimangono in mente dalla
novellistica di Masuccio.
Il Burchiello (Domenico di Giovanni) Fiorentino, visse fra il 1404 e il 1449. Barbiere a
Firenze con bottega in Calimala (centro prestigioso della lavorazione delle lane
straniere), il suo negozio divenne
luogo di ritrovo per letterati ed artisti. M anche, ahilui! di politica
antimedicea. Nel 1434, al ritorno di Cosimo de’ Medici in Firenze, dovette
sfrattare dalla città: a Siena venne più volte imprigionato per furto. Tentò
infine la fortuna a Roma, dove riaprì bottega di barbiere. Benchè simpaticone
e sempre desiderato come compagno allegro e bizzarro, fu perseguitato anche qui
dalla povertà e dalla malattia (sifilide), morendo a 45 anni. Egli era
noto per un “animoso poetare senza senso, per slegate frasi e immagini,
ma assai preciso nel verso e molto calzante di suono e accento” (Pietro
Pancrazi). Tale modo di comporre fu detto “rimare alla burchia” dal
soprannome del suo inventore. Il quale, però, compose anche sonetti
autobiografici sensati e sofferti. Il suo verso più famoso è l’inizio del
sonetto “Nominativi fritti e mappamondi”. Ma ecco una
composizione intera burchiellesca:
Un gioco d’ali”ossi in un mortito (ossicini da gioco in uno
spezzatino con spezie)
rocchi, cavalli, dàlfini e pedoni,
e la reina Saba e Salomone
ed un babbion che rifiutò l’invito,
erano in su’n asino smarrito
che facevan due navi d’un popone,
andando le formiche a processione
però che carnasciale era sbandito.
Mugnon, vedendo tanta gente in frotta,
disse: -Andate in là in ora spagnola,
che voi andrete ancora alla pagnotta.
Allora una farfalla marzaiola
ch’aveva abburattato allotta allotta
a tutti infarinò la berraiuola:
ed una ciriuola
s’era posata in sul veron di Ripoli
per poter me’ veder giostrare i zipoli. Ci si accorge facilmente che i punti di riferimento
di fondo (motivi ispiratori?) sono particolari realistici di un mondo umano
vicino a quello animale; e di un mondo infraumano analogo nella assurdità a
quello degli uomini., cui esso accenna. Le singole frasi hanno –di solito- un
senso, ma si uniscono poi fra loro “alla bizzarra”, al fine di affogare ogni
significa esplicito, tranne quello implicito di fondo: l’intento di gabbare il
mondo, l’umanità, gli ascoltatori mediante il suo vagabondaggio paralogico.
Sulle prime,tale modo di esprimersi illude sulla razionalità del discorso
complessivo e la mente si mette in tensione per scovare il misterioso
significato: in seguito, esperta del gioco, l’animo del lettore si distende in
pace, mettendosi in una disposizione umoristica. Si tratta di una comicità
precaria e, in ogni caso, lieve, nonostante alcuni grevi ingredienti, perchè
questi finiscono per rimanere senza senso, spersi nella nebbia del non-senso.
E’ un riso fra compiaciuto e compassionevole, che oscilla cioè tra il
divertimento e la disapprovazione: se
non ci fossero i sonetti seri, si potrebbe dubitare dell’ingegno
nell’autore. Si deve concludere invece per una notevole intelligenza, ma
sprecata; di un talento esistente, ma distorto; di un senso musicale tanto
singolare quanto sciupato. Ma, come detto, il Burchiello quando “fa da
senno” e parla della propria miseria, non solo è chiaro nelle singole frasi,
ma logico in tutto il sonetto e liricamente riuscito nella elegia dolente.
Al di sotto delle notazioni grottesche, che nascono
dallo sforzo di superare il pudore di mettere a nudo se stesso e finirla
di evadere nell’insensatezza per decidersi a parlare
di cose reali ed angosciose, emerge una sofferenza che si cominica al
lettore. Ma è una vittoria sulla vergogna che riesce a metà: permane in parte
l’autoironia, la voglia forzata di ridere sulle proprie sventure (il
grottesco, si è detto), sicchè vengono a galla
sia la volontà di deridersi che quella di compiangersi, le quali
rischiano di elidersi fra loro. La dissolvenza incrociata fra i vari sentimenti
ispiratori non è però totale; la elegia si salva anche se rimane mediocre, non
si sublima in univoco lirismo, in emotività fascinosa. La forma metrica è quella del sonetto caudato (dopo
la seconda terzina si inserisce un settenario rimante coll’ultimo
endecasillabo e, poi, due endecasillabi rimanti fra di loro). La fortuna fu
notevole: oltre al Cammelli (Antonio, detto il Pistoia, che vedremo subito come
suo continuatore), lo ebbero ben presente il Pulci, il Magnifico ed il Berni,
cioè tutti i poeti scherzosi toscani dei secoli XV e XVI. Il Pistoia (Giovanni Cammelli) Nativo di Pistoia (onde il soprannome), visse fra il
1436 ed il 1502.
Fu alla corte dei da Correggio (a Correggio di Reggio Emilia) e, poi, a
quella degli Estensi a Ferrara. Fatto capitano della porta di S. Croce a Reggio,
ne fu destituito e sprofondato nella miseria assieme alal famiglia, sicchè
dovette vagare di corte in corte. Morì anche lui di malattia venerea. La
tragedia Pamphila (1499: detta anche
Filostrato e Pasitea, Filostrato e Panfila) testimonia dell’aura
rinascimentale in cui gli toccò di vivere: la tragedia, infatti, benchè
ispirata a Boccaccio IV, 1[47]
è scritta in terza rima ed è trasposta in ambiente classico. Ma non sta qui la
grandezza del Pistoia, che non è riuscito a infondere lirismo alla vicenda.
Scrisse anche un “Dialogo dei morti”
che introduce i suoi sonetti: esso è di impronta lucianea ed è ulteriore segno
dei tempi rinascimentali. Egli è noto invece per i 533 sonetti, una parte dei
quali (il primo gruppo) sono “alla burchia”. I motivi ispiratori sono vari e
strambi come quelli del suo maestro, il Burchiello: è tutto il mondo guardato
“sub specie dementiae” (sotto l’angolatura della follia), cioè scorciato
nei suoi aspetti deliranti.[48]
Ma, accanto alla descrizione di un abito logoro, di un ubriacone, di un
crocefisso rappresentato in atteggiamento disperato, di una rozza sfiancata, di
giudici corrotti, di magistrati venali, di sordidi poeti contemporanei, di
cattivi alberghi e peggiori cene, trova anche posto la descrizione delle miserie
d’Italia nell’ultimo ventennio del secolo XV; e della tragedia della sua
vita (che trova spazio anche in altre sue composizioni, le “disperate”). Più
facile parlare del suo stile che non del lirismo. Niente retorica nè giochi di
parole: è sbandito ogni bamboleggiamento (preteso) petrarchesco come ogni
anticipo di barocchismi sbalorditivi. Ma, anzichè la ricerca
del sorprendente attraverso i concettini verbali, vi è un continuo
divertirsi con la ambiguità di un pensiero che
si mostra e si nasconde, in una specie di gibigiana maliziosa, alla
maniera del Burchiello. Oppure vi è, nei sonetti più sensati, una aderenza così
immediata al sentimento esistenziale, da avvicinare l’espressione al grido,
all’insulto volgare, alla arrabbiata imprecazione, (ad esempio nel sonetto
contro i comuni a regime popolare, come Firenze). Il realismo della descrizione
è ovunque ma, provvidenzialmente, non è ovunque così etsemporaneo e disumano.
Difatti la sua brutalità e volgarità nause ed allontana; viceversa, in altri
casi, il suo disimpegno è di un tale scettico cinismo, che la realtà
messa in versi lascia incerti fra compassione
e derisione,fra dramma e comicità: dissolvenze incrociate totali elidono una
emozione con l’opposta e la espressione risulta, alla fine, stolidamente
inerte.[49] Vi sono bene composizioni in cui tali estremi o di
passionalità o di scettico disinteresse sono evitati: e allora la sua polemica
diventa impaziente ma pur convincente; la sua amarezza rimane risentita, ma
ragionevole. Così è del famoso sonetto “Passò il re franco, Italia, a tuo
dispetto”; o dell’altro su un crocefisso rappresentato come un disperato
malfattore, pel quale protesta fra divertito e corrucciato “Colui che questo
Cristo ha fabbricato| ha dato un gran favore all’eresia...” Con una certa
misura di lirismo in cui la collera personale almeno in parte si eleva a
protesta universale, stanno più o meno tutti i sonetit politici: e sono più di
cento. Il Pistoia non è dunque fra gli ultimi poeti del secolo XV (o, se si
vuole, è uno dei pochi tollerabili fra i minori), anche se rimane nel suo mondo
popolaresco e trecentescamente violento, inconsapevole
o disinteressato, nei sonetti, della corrente innovatrice del Rinascimento.[50]
Feo Belcari Fiorentino, visse tra il 1410 e il 1484. Di famiglia
borghese, partecipò alla vita politica fino alla carica del priorato, essendo
uomo di fidata parte medicea. Ma fu soprattutto un’anima ammirevole, per la
capacità eccezionale di coniugare la vita degli affari e della politica alla
fede religiosa, con un vivissimo senso non solo della onestà, ma anche dello
spirito evangelico. Qui, ovviamente, ci interessa come letterato: più come
portainsegna di una tradizione perseverante dal secolo precedente, che per
particolari plusvalori lirici. Scrisse Rime (serie e facete), Laudi (ballate di
argomento sacro, da cantare su musiche in voga per lo più profane). Volgarizzò,
dalla traduzione in latino di Ambrogio Traversari, l’opera greca “Il prato
spirituale dei Santi Padri”, parafrasando, all’occorrenza. Così fece per la
vita di S. Egidio. Più in là andò con la Vita
del beato Colombini, per la quale usufruì dell’opera esistente del beato
Giovanni Tavelli da Tossignano e delle Lettere del Colombini stesso, ma consultò
altresì documenti notarili. Questa preoccupazione di risalire alle fonti è
l’unica vera nota di modernità del nostro: che, per altro, non riesce a
distinguere quanto di fantastico la leggenda aveva accumulato sulla attività
del pur grande senese del Milletrecento. La lingua in cui scrive è così limpidamente
fiorentina e la sintassi così scorrevole che i romantici esaltarono questo
scrittore popolare come una gemma della nostra “letteratura spontanea”. In
realtà vale quanto scrive C.
Varese nella introduzione ai passi del Belcari nei “Prosatori volgari del
Quattrocento (Ricciardiana, 1955): “ La Vita
del Belcari è frutto di devota e letteraria pazienza, di una mente non fervida
nè sottile e più corretta e composta che viva. All’opposto di quanto è
stato osservato a proposito dei “Fioretti di S. Francesco” o dello
“Specchio di vera penitenza”, talvolta le fonti dalle quali egli deriva- il
Tavelli e il Colmbini- sono più dense e più efficaci” (p.4). Altre opere del Belcari sono le Laudi drammatiche (Il
dì del giudizio| Annunciazione di Nostra Signora|
S. Giovanni nel deserto| Abraam e Isaac). Abraam
ed Isaac, oltre ad essere la migliore delle sacre rappresentazioni, contiene
anche la “laude” lirica più valida, da mettere a fianco alle due Orazioni della monaca| a Chi
cerca Gesù con mente pia|; a Gesù,
Fesù, Gesù! Ognun chiami Gesù|; a
Laudate Dio, laudate Dio, col cuor lieto e giulìo.
S. Bernardino da Siena (1380-
1444) Nato a Massa Marittima nel 1380 dalla nobile famiglia
degli Albizzeschi di Siena, rimase presto orfano e fu educato da parenti molto
religiose (la zia Bartolomea e la cugina Tobia). In giovinezza ebbe l’eroica
carità di servire volontario gli appestati
nel lazzaretto (la peste era stata introdotta da pellegrini diretti a
Roma per l’anno santo 1400). Dopo un tentativo di vita eremitica ingenua e
paradossale, bussò al convento dei francescani, di cui sarebbe divenuto vicario
pel gruppo della Osservanza. Ma egli è conosciuto come il predicatore più
ascoltato ed influente nell’Italia della prima metà del Millequattrocento
(muore all’Aquila, nel 1444). Non riuscendo la gente a “capire” nelle
chiese, era costretto a predicare sulle pubbliche piazze, molto presto al
mattino, prima che, verso le sette, aprissero le botteghe degli artigiani e si
drizzassero le bancarelle dei mercanti. Le prediche, tenute in volgare, erano
poi redatte in latino e così pubblicate, a tutto scapito della carica lirica,
estemporanea ed intraducibile di un uomo del genere. Provvidenzialmente,
stenografi fiorentini e senesi ci han conservato quattro corsi di predicazione:
i quaresimali fiorentini del 1424 e 1425; la predicazione in Siena
dell’aprile, maggio e giugno 1425; ed il testo eccezionalmente completo della
predicazione estiva nel 1427 a Siena (fino alle parole dette incidentalmente per
ammonire un ritardatario o per aiutare lo stenografo a ordinare la materia che
stava per esporre, dopo che , la prima volta, lo aveva redarguito, chiedendogli
che stesse facendo invece di ascoltare la predica...). Lo stenografo genialmente
veloce e fedele era il cimatore di panni Benedetto di maestro Bartolomeo. Queste
47 prediche danno la misura della vena poetica del santo, della sua eccezionale
fantasia immaginifica (nel coniare
parole nuove per i suoi concetti morali) e musicale (nel deformare i vocaboli
per un gusto eccezionalmente attento al loro suono). Timore
di Dio e amore del prossimo sono i temi fondamentali della sua predicazione, i
motivi ispiratori più suggestivi della sua musa. Egli trova la maniera di
esprimerli genialmente. I tesori di Siena? Eccoli: Siena ha due occhi:
l’occhio destro è l’arcivescovado; l’occhio sinistro è l’ospedale.
Egli morde i mediocri? Oppone “monna pìgara” a “monna sollìcita”. Egli
deve fustigare i malvagi? Eccolo chiamare “manigoldi e saccomanni” i
soldatacci che depredano ed ammazzano. La donna di malavita si finge pudica per
ordire meglio le sue trame? “Ecco qui madona Saragia (sardella), che si mostra
così schifa e fassi tanto alla longa, che si fa una coniglia; et è una
porca!” Contro la sodomia minaccia i castighi di Dio, gridando nè più nè
meno: “Al fuoco! al fuoco!”. A Milano dovette sbrattare, perchè
Filippo M. Visconti non era riuscito a tacitare i rimproveri
all’amministrazione, con il regalo di un calice d’oro pieno di monete: il
prezioso regalo era servito subito a liberare prigionieri, altrimenti destinati
alla uccisione. Egli non esita a presentare la guerra come la conseguenza dei
peccati ed il castigo di Dio. Egli parla allora di “frate Màzzica”, cioè
del manganello, che è il meno che ci si possa aspettare da eversori di città.
Entra con candida audacia in problemi sessuali, invitando le mamme a portare le
giovani e le adolescenti loro figlie, assicurando che farà come “il gallo in
feccia”, cioè tratterà la materia con pudore pari alla chiarezza.
D’altronde, quando arriva ad esemplificazioni scabrose, le accenna bravamente
e poi precipita la chiusura del discorso con un arguto “ecceterà ecceterone”.
Se ha fatto una digressione, ritorna in argomento con un disinvolto “A casa! a
casa!”. Se ricorda l’inferno, è capace di inviarvi i seminatori di
discordie chiamandoli “scardiccioni” e mutando la finale del Requiem
aeternam (“requiescant in pace: riposino in pace”) con la minaccia
“requiescant in pece” , subito spiegando “in pece, in pece, a casa
calda!”, affrettandosi a concludere “Loro, però” (cioè i malvagi, non
noi). Se metteva in guardia contro religiosi che si spacciavano per profeti e
predicavano in favore del divorzio e di altre allegre novità del genere, allora
parlava di “fumo di Pentecosta”, bastandogli un mutamento di vocale per
suggerire l’azione del demonio anzichè quella dello Spirito santo. Spiegava
la uniformità di abbigliamento di cotali seminatori di errori con molto
realismo: “ e conviensi che ogni persona si debba vestre di bianco, e così si
vestono alcuni e alcune che lo credono, e fanno insieme maschi e femmine uno
brodetto, e va la cosa come ella può”. I detrattori li chiama “piombatori
di paglia”, in quanto fanno pesare come il piombo i difetti altrui, magari
leggeri come paglia. I furbi impostori li scolpisce con la favola della volpe e
del lupo al pozzo: “Oh! questo mondo è fatto a scale: chi le scende e chi le
sale...”. I toni lirici più frequentati da san Bernardino
variano dal drammatico (ispirato dal timor di Dio) al commosso (ispirato alle
sofferenze del prossimo da soccorrere), ma in genere sono conditi
dall’arguzia, con cui egli rende accettabili rimproveri e richieste di opere
di miserciordia. Così la minaccia dei castighi è attutita nella forma da quel
“frate Màzzica” che è il bastone in pugno al “saccomanno”,
cioè all’alemanno che mette a sacco
le città. Il dramma dei rimproveri è alleviato dal gusto per l’aneddoto
scherzoso: oltre al lupo ed alla volpe, egli introduce una specie di arca di Noè
nella predicazione (scorpione, locuste, api, vespe, bue e giovenco...). Oppure
vi sono giochi di parole di sua invenzione: il “sensale”
è facilmente un uomo grossolano e materialone: difatti, è “senz’ale!”.
O prove storico-biblico-psicologiche che non stanno nè in cielo nè in terra,
ma che elogiano in teoria per colpire meglio in concreto. Ecco un esempio. Le
donne sono di una loquacità che va moderata, perchè eccessiva. Ma che volete?
esse sono più nobili dell’uomo, perchè non derivano direttamente dal fango:
Dio le ha tratte dalla “costola di Adamo”. Questa dignità maggiore si paga,
però. Difatti, tratte dalle ossa, come quelle le donne sono irrequiete: fan
fracasso e rotolano giù dal mucchio, incapaci di stare ferme. Così,
Bernardino, “ridendo castigat mores”: facendo ridere, canzonando, correggeva
i costumi ( e non ... delle donne soltanto!). Ma quando teneva il suo
Quaresimale più prezioso, detto “Seraphim” perchè trattava della carità,
allora si infervorava e s’accendeva di sentimento.
Allora, il soldato di ventura era visto come prigioniero di guerra, esposto
all’arbitrio del vincitore ed era chiamato “il povaro saccomanno”,
che egli non finiva di ricordare con compassione alla carità dei milanesi,
perchè fosse assistito e liberato. Diceva a se stesso, per commuovere la gente:
“Doh! frate Bernardino, sievi raccomandato il povaro saccomanno!”. A Siena
(lo si è visto) l’ospedale diventa il secondo occhio della cittadinanza, dopo
il vescovado. E quando parlava del “nome di Gesù”, si commoveva e
commoveva. La devozione al nome di Gesù trova in lui, si può dire, il suo
inizio od almeno il divulgatore più efficace: il dipinto colle iniziali latine
del nome si trova su antiche case non solo di Siena, iscritto in un sole di
gloria: era la riproduzione delle tavolette in legno, che egli metteva a
disposizione dei fedeli che potevano permettersi di fare l’acquisto, dopo ogni
predica. Le lettere scambiate fra cristiani, prima di frate Bernardino
cominciavano “Al nome di Dio”; dopo la sua predicazione iniziavano più
facilmente “Al nome di Gesù”, come già aveva fatto santa Caterina e come
continuerà a fare Michelangelo Buonarroti, nonostante le proteste di qualche
umanista (peccatore e razionalista, d’altronde) come il Bracciolini, che
avrebbe preferito il termine “Cristo”, perchè più intellettuale e meno
cordiale, meno devoto... Dal timor di Dio, nasce dunque la carica drammatica;
dalla carità cristiana, la tenerezza e la commozione; dallo spirito umanistico
è aiutato il senso di humour congenito:
sono queste le virtù liriche che rendono interessante ancor oggi la
predicazione del simpatico francescano senese del Millequattrocento. Le caratteristiche di stile sono in parte tipiche del
“dialetto” di Siena e le abbiamo viste per le scritture di Santa Caterina.
Ma egli “vi marcia sopra” e ne ricava effetti sorprendenti. Egli parlerà
dunque “chiarozzo chiarozzo”, seguendo anche la parlata delle varie regioni
dove è chiamato a predicare. Invita così gli ascoltatori a “rugumare”
(ruminare) ben bene la predica; ammonisce le donne a non girare per le vie con
l’occhio “bàdolo” (curioso,vagante); chiamerà “cicèrbita”l’erba
selvatica di cui egli, aspirante eremita, pretendeva di nutrirsi per
assomigliare ai padri del deserto; i fischi, li chiama “sùffili”; la zuffa
diventa “meschia”; la gloria, “grolia”; l’urlare si tramuta in
“burbicare” e la confusione della vista interiore diventa un “lasciarsi
imbarbagliare”. Inutile dire che si mantiene in lui la tendenza a rafforzare
la musicalità degli infiniti sdruccioli, nei verbi della seconda coniugazione
col sostituire una “a” alla “e” fiorentina: “èssare, inténdare, vìvare,
cognòsciare, crédare, cuòciare, pònare, rìdare, mèttare...” Ma la cura
del musicalismo si allea con la deformazione del nome delle cose: lo
spaventapasseri diventa “sparavicchi”; la donna pigra si ingentilisce in
“monna pìgara”; la peste si intristisce nella “pistolenza”; il povero
vecchio è “rincitolito” (tornato “cito”, cioè bambino), mentre lo
svagato uditore ridendo sgangheratamente “sta a sgrifalare”. Il frate
smemorato può prender sonno solo dopo aver recitato “Compieta” (l’ultima
parte del breviario o libro delle pregheire obbligatorie per religiosi e clero
in genere):allora comincia subito a “sarnacare” (russare). La
moderazione nella fatica fisica è raccomandata con termini forti: “non
entrare in “anfània” (affanno): tèmpara il vizio (la salute vale più del
guadagno). Di qui il decollo verso immagini-dimostrazioni: basta una
osservazione della vita concreta, per risolvere una questione. “Ma io ti
domando: che ci bisognano questi denari? Questa fadiga, perchè? Io non credo
che ci fusse mai niuno di voi, che ne toccate cotanti, che mai ne mangiasse per
poter meglio vìvare. Io mi credo che nè secolare nè frate mangino mai denari:
io non ne mangiai mai niuno, e così mi credo che aviate fatto voi. E che
bisognano questi denari se l’uomo può avere ciò che li bisogna?”. E,
viceversa, non bisogna esagerare neppure nelle cose dello spirito:
“Sai che ha fatto questa tale (che si è proposta di fare pratiche
religiose, impossibili poi a realizzarsi)? Ella ha fatto il volo dell’oca: fa
el busso (tonfo) grande, e in fine non ha fatto nulla”. E così,altra volta,
morde l’ignoranza di certi profeti fantastici, chiamandoli “dottori da
Grosseto “(dal cervello grosso, zotico), mentre gabba bonariamente le
superstizioni popolane come sarebbe il versare il vino a tavola (segno di buona
fortuna!) piuttosto che l’olio (malaugurio!): “ Uh! e voi donne, quando voi
versate una lucerna d’olio, voi non dite a quello che è buona astificanza
(augurio di benessere); del vino, voi volete dire che è buona astificanza. Doh,
pazzerelle, quanto vi chioccia il capo” (manda rumore incrinato, insano di
fessura). Così Bernardino univa la popolana sapienza
medioevale all’arguta letterarietà rinascimentale, nel connubio ideale
raccomandato dal Vangelo, che paragona lo scriba sapiente ad un uomo che trae
dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove. Ma era un equilibrio che solo una vita
evangelica poteva garantire in tanta disarmonia tra il furore della cultura
mentale e la corruzione o tiepidezza dell’operosità morale.[51]
Alessandra Macinghi Strozzi (1407-1471) Appartenente a famiglia borghese di spicco ,salì,
col matrimonio, fra le primarie della città, ma si attirò l’inimicizia dei
Medici, cui gli Strozzi non furono favorevoli, pur senza mettersi loro contro.
Matteo, il marito che l’aveva sposata a 16 anni, dovette esulare: essa rimase
con cinque dei sette figli avuti da
lui; e l’anno seguente 1435 era vedova! Man mano che i maschi giungevano alla
maggior età, dovevano andare anch’essi in esilio: Filippo, Lorenzo, Matteino
(nato quando il padre era già morto) dovettero rifarsi una posizione
economico-sociale, entrando in ditte commerciali gestite da parenti e poi, via
via, facendosi strada a Napoli come a Bruges, in Catalogna come a Venezia.
Alessandra intanto custodisce il focolare, sposa le figlie, trova moglie per i
figli esuli, piange su Matteino che parte anche lui e morrà giovane senza che
lei lo possa rivedere od assistere; si batte tenacemente perchè sia levato il
bando, riuscendoci alla vigilia dlela sua morte. Non potendo parlare loro da
vicino, mette mano alla penna, scrivendo più di settanta lettera fra il 1447 e
il 1470. Accenna, con bonaria ironia e secondo un frasario concordato, ai
potenti di Firenze, d’Italia e d’Europa, ma effondendo invece senza ritegno
tutto l’ amore di un cuore di madre e tutta la sapienza di una mente
intelligente ed educata, in uno stile tanto estemporaneo e popolare, quanto
vivace e seducente. Essa parla al di fuori di ogni preoccupazione letteraria
(“ Non guardate al mio bello scrivere; s’io fossi presso di voi, non farei
di queste letteracce, che direi a bocca i fatti mia e voi e’ vostri”), ma
possiede un’anima sulla linea di quella di santa Caterina e, anche se non ha
la Sua elevatezza di intenti spirituali
e di prospettive apostoliche, pure la fede religiosa è così viva, la volontà
di combattere e di sperare contro ogni indizio è così tenace, che davvero
trascina ed affascina. Alla prima lettura, specialmente: meno resiste ad una
seconda. Si tratta infatti di una emotività epicizzante che tende al patetico:
enfasi di immediatezza e fervore di vita pratica non abbastanza decantati.
L’espressione urge ai risultati pratici, alla esecuzione di piani di vita terrenamente concreti: manca il tocco ultimo della
sublimazione pura, della proiezione universale, che trasformi in grande poesia
il calore appassionato di un affetto materno. La cordialità risulta così un
poco affannata, sminuendo lo splednore artistico delle lettere, pur lasciando
intatte la ammirazione e la simpatia per la donna eccezionale.[52]
Leonardo Giustinian (1388-1446). Fu un patrizio veneziano, anzi fratello di S.
Lorenzo, patriarca della città (meglio: vescovo di Castello, ufficialmente,
essendo il patriarca ancora residente ad Aquileia). Leonardo ricoprì incarichi
eminenti e fu anche procuratore di S. Marco, ma è noto soprattutto per il suo
amore alla poesia ed alla musica. Componeva versi che poi rivestiva egli stesso
di melodie: un vero cantautore: musica in parole, prima; parole in musica, poi.
Le sue composizioni tendono a forme più brevi: praticamente egli fu lo
stabilizzatore e diffusore della “canzonetta”, cioè dela “canzone in
versi minori” (ottonari, settenari) ed in strofe più semplici che non la
complicata stanza della canzone
siculo-petrarchesca. Compose, per altro, anche sirventesi, laudi, strambotti e
poesie in terza rima. I suoi Motivi ispiratori sono per lo più amorosi:
celebrazione della donna, supplica perchè accetti l’amore, disperazione pel
rifiuto, ecc. : tutte le vicende di ipotetici rapporti affettivi quali una
poesia ormai plurisecolare, dalla
provenzale alla petrarchesca, avevano rese di moda. Ma nel Giustinian ci sono
anche altri temi di canto: l’amore per la madre, per gli amici, ecc. Quanto ai Toni lirici,
occorre tener presente che Leonardo è un’anima introversa, che partecipa alla
vita pratica e politica della sua città per un senso di dovere, ma ama il
ritiro nella casa, ove attendere a letture erudite dei classici e dare sfogo
letterario e musicale ai propri sentimenti: è (un po’ meno del Petrarca) un
uomo che ama più vedersi vivere che vivere intensamente. Per questo non ci
aspetteremo nulla di drammatico (epico-tragico) in lui: l’idillio e la lelegia,
talvolta colorati da una sottile vena di voluttà o di galanteria, sono le bande
liriche da lui più frequentate. O, almeno, “tentate”: chè la intensità
lirica è limitatissima, anzi stentata. L’accoppiamento con la musica forse le
elevava ad arte discreta: ma in sede musicale, non letteraria. Per la Tecnica stillistica, si è già detto
della metrica. Va aggiunto che egli usa un linguaggio che è a mezza strada fra
toscano e veneziano. E sembra quasi che la patina di dialettalità regionale che
appesantisce le sue rime sia il segno della poca acutezza intellettaule, del
poco calore della sua emotività. Nessuna sublimità o sorpresa poetica, proprio
per il convergere coerente di poca luce mentale, di poca carica cordiale, di
poca purezza linguistica. Siamo di fronte ad una luminescenza tiepida, ad
un lirismo aurorale. Quei vocaboli duri (inzenochiarmi| ziglio| piazér| casòn=
cagione, causa); quei pronomi troppo affilati (mi=me;| de mi| mal per mi che te
vidi...); quelle doppie toscane retratte ad una sola consonante (povereto| ochi|
fato= fatto...); quegli iati scempiati (to=tuo); quelle abbreviature infelici
(‘sto=questo) sono tutti “lapsus” di una personalità poco poetica. Sono
circostanze che ritroveremo (se non andiamo errati) nel Boiardo: è la lingua
letteraria della Padania, che attende il Bembo per decidersi a risciacquare i
propri panni in Arno. III) SCRITTORI AVVIATI ALLA CLASSICITA’
RINASCIMENTALE Prenderemo contatto in questa sezione con autori che
presentano una gamma di motivi ispiratori chiaramente relativi e funzionali alla
civiltà rinascimentale, ma “formalmente” ancor impastoiati in remore
medioevali, con schemi metrici e pressapochismo espressivo generale che li
collega al popolaresco Trecento.
Vespasiano da Bisticci (1421-1498) Nato a Bisticci (in Rignano sull’Arno, Firenze) nel
1421, morì a Firenze nel 1498. Fu un organizzatore di cultura, curioso ed
innamorato di quei personaggi che ne erano portatori ai suoi anni e coi quali
aveva rapporti privilegiati. Diresse una libreria nella Firenze dei Medici, che
impiegò fino a 45 amanuensi, procurando a Cosimo 200 volumi manoscritti in soli
due anni. Nella sua bottega di libraio passarono personaggi illustri, già
famosi o destinati a diventarlo, a cominciare da quel Tommaso Parentucelli, che
diverrà papa Niccolò V. Erano i tempi in cui la presenza a Firenze del
Concilio ecumenico per l’unione con gli Orientali, aveva fatto di Firenze
l’ombelico del mondo. L’invenzione della stampa fu per quest’uomo
(geniale, ma solo per una certa tecnica scrittoria) un duro colpo: come avrebbe
potuto esserlo negli anni Millenovecentosettanta l’invenzione della
fotocomposizione per gli stampatori incapaci di superare la tradizionale (ed
apparentemente intramontabile) linotype; come lo sarebbe stato, dieci anni più
tardi, per lo scrittore schiavo della macchina da scrivere ed inabile a passare
alla tecnica del computer... Nel 1490 si ritirò nella sua villa presso Firenze
(Antella) ed attese la morte, compilando le Vite
di uomini illustri del secolo
XV.
Scrisse anche altre opere, profane (Libro delle lodi o commendazione delle
donne) e religiose (Lamento per la presa di Otranto, fatta dai Turchi nel 1480):
ma interessano meno. Vespasiano è un entusiasta della cultura e ne fu un
diffusore convinto, ma egli rimase ai margini del movimento rinnovatore. E ne è
un po’ cosciente: non sentendosi all’altezza di scrivere in latino le sue
Vite, egli ne stende il materiale in lingua toscana, quasi con compassione per
se stesso: egli spera che qualcuno, più dotto di lui, completi le notizie e le
volga in latino per assicurare
ai suoi personaggi la immortalità! C’è
in lui ancora tanta popolaresco candore, tanta semplicità di fede, tanta
soggezione ai personaggi addottrinati di cui traccia la vita, che non bastano
tutti i riferimenti classici, i paralleli colla storia di Roma per dare un volto
rinascimentale alla sua opera. Nell’essenza essa rimane scritta con inchiostro
medioevale, anche se materilamente ricca di erudizione umanistica. Sta ben
accanto alla Macinghi Strozzi ed all’Albizzi, se non ci fosse l’ammirazione
per un mondo che egli non si appropria nello spirito ma solo in conoscenze
esteriori. Egli, infatti, rimane l’onesto “cartolaro” di provincia,
piovuto nella superba metropoli toscana; rimane il cristiano tutto d’un pezzo,
fors’anche per una minor duttilità di mente, ma certo per una spontanea
ricerca della coerenza morale dell’agire, per una integrità di coscienza che
stanno al di sopra, nella sua coscienza, allo splendore della forma e alla
vastità della cultura. Certo per lui “cultura” non è inventare, ma solo
tradurre, comporre, abburattare la sapienza antica in
sillogi, in interpretazioni, in imitazioni che la faccian rinascere ma
non innovare. Eppure egli non è così succube della fama dei suoi personaggi da
non saperne dare un giudizio morale, conscio che tale valore è ancor quello
supremo. Quando egli tace sui risvolti religioso-morali di qualche umanista è
un ben brutto segno, chè, dove si presenta l’occasione, egli non esita a
dilungarsi sulle virtù cristiane ed etiche degli uomini illustri. E, oltre
tutto, lui così legato ai Medici e loro collaboratore ed amico, non esita a
difendere l’innocenza degli Strozzi nella faccenda del loro esilio ed il loro
contributo decisivo (anche se indiretto) al loro richiamo in Firenze. Si
potrebbe dire che ben gli si addiceva l’elogio “amicus Plato sed magis amica
veritas” : questo simpatico, candido, umile ammiratore di una cultura di cui
non riuscì ad intuire i pericoli e la implicita disarmonia colla sua fede e con
i suoi parametri di giudizio sugli uomini e sul mondo, metteva la verità al di
sopra di ogni altro valore.
LUIGI PULCI (1432-1484) La vita. Nacque
a Firenze nel 1432, da famiglia nobile ma economicamente
decaduta. Si impiegò
per qualche tempo presso Franco Castellani, che fu forse colui che l’additò
ai Medici. Il fatto è, comunque, che dopo il 1461, “Gigi” è parte della
casa del Magnifico ed in tale confidenza da esser definito “il quinto
elemento” dell’ambiente mediceo e da scambiare lettere e sonetti, di scherzo
e di spasso, con Lorenzo. Sia presso il Castellani che in casa Medici potè
farsi una cultura, ma da autodidatta. Giunge a scrivere in latino, leggendo
Virgilio ed Ovidio, ma preferisce decisamente Dante ed i poeti popolari,
scherzosi, burchielleschi della tradizione toscana. Un po’ meno congeniale e
solo parzialmente assorbito è il Petrarca, che pure è presente alla sua
cultura e versificazione. La sua facilità a comporre in rima, suggerì alla
madre del Magnifico, Lucrezia Tornabuoni, l’idea di ottenere dal Pulci un
poema celebrativo su Carlo Magno. Ma il temperamento dell’uomo non era facile;
forse ci fu di mezzo anche l’invidia di qualche altro letterato addetto a casa
Medici (il sacerdote Matteo Franco, ad esempio); soprattutto la piega presa dal
Pulci in campo religioso-filosofico finirono per attirargli la inimicizia di
Marsilio Ficino e la ostilità di altre persone ancor più intime al Magnifico,
sicchè dovette cercare altrove fortuna. Si mise al servizio di Roberto
Sanseverino, uno dei principali condottieri di eserciti del tempo. Morì mentre
lo accompagnava a Venezia: fu sepolto a Padova, fuori della terra consacrata per
la fama delle sue dottrine eterodosse (reali, ma ritrattate pienamente, come
diremo). Le opere. Il MORGANTE
(poema epico-scherzoso in 28 cantari). La prima edizione (1478) constava di soli
23 cantari: essi seguono la traccia di un poema anonimo del secolo XV, che
il critico ottocentesco Pio Rajna rintracciò, ma privo dell’inizio e
della finale, sicchè il titolo “Orlando”
è solo una ipotesi dello scopritore. La edizione definitiva aggiunse
altri cinque cantari, che però seguono la trama di un diverso poema
popolaresco: La Spagna in rima. Il risultato non è però armonioso: se il canto
24 aderisce ancora allo spirito canzonatorio e scherzoso prevalente nella prima
parte, gli ultimi quattro canti costituiscono in realtà un nuovo poema, con
ispirazione e stile notevolmente diversi. Ne riparleremo.
Abbiamo di lui 52 Lettere: esse servono soprattutto a rivelarci la
personalità fin troppo spassosa dell’autore, le sue idee in materia
religiosa, i suoi rapporti confidenziali con il Magnifico mecenate. La lettera
più nota è quella che narra la caduta di una volta in una chiesa di Foligno:
piena di popolo, ma senza gravi conseguenze, sicchè egli può sbizzarrirsi
sulla singolarità della vicenda e sui particolari della confusione conseguita.
La Beca da Dicomano è una composizione parallela alla Nencia da
Berberino, scritta dal Magnifico: entrambe sono una caricatura scherzosa di un
amore campagnolo, ma le stanze (ottave) del Pulci sono una parodia meno
raffinata, più pesante delle presunte espressioni del popolano innamorato.
Rifacimento dei canti 2-5 del Ciriffo Calvaneo, scritto dal
fratello Luca (o frutto della collaborazione tra i due?): è opera anteriore al
1469.
Versi vari: sonetti scherzosi, frottole, un poemetto sulla Giostra di
Lorenzo (1469). La personalità.
Non
aggraziato nel corpo e triste nel volto: lo si può arguire dal ritratto che ne
fece Filippino Lippi (pitture della cappella
Brancacci, nella chiesa del Carmine a Firenze) e
da un sonetto di Matteo Franco, che gli attribuisce “leggerezza, colore
e piccin occhi”. La malferma salute di tutta la famiglia è purtroppo
attestata dalla morte in età giovane di lui e dei fratelli.[53]
Le opere tutte, invece, offrono prove continue di un temperamento allegro,
ridanciano. Ma che la sua psiche avesse risvolti seri e tormentati, lo dimostra
non solo la stranezza delle dottrine accettate ad un certo punto della
vita (astrologia, magia), ma soprattutto il fatto che non riesce a comunicare
quasi mai quella comicità mille volte ricercata, mentre è poeta sufficiente
nelle poche stanze scritte in tonalità elegiaca ed epico-drammatica. Era, cioè,
un uomo fin troppo serio, anzi melanconico, che cercava nello sfogo con gli
altri una gioia di vivere che sentiva mancare alla sua psiche. Era socialmente
spassoso, perchè la compagnia di amici dotti e buontemponi gli davano quel
sovrappiù di vitalità, di energie nervose che non trovava in se stesso, nella
solitudine. Era quello che oggi diremmo un nevrotico: distonico ed esauribile,
amletico e donchisciottesco, vicino alla costituzione di Gelsomina (La strada,
di Federico Fellini) e di Nazrin (film omonimo di Luis Bunuel); era un tipo
pirandelliano, come il “padre” dei “Sei personaggi in cerca d’autore”.
Imprevedibile, ingovernabile: eppure non del tutto inaffidabile, con un
bisogno sincero della verità, con una immediatezza della proposizione
del suo punto di vista, ma anche con una prontezza umile a ricredersi, ad
accettare modi di pensare più ragionevoli del proprio. Motivi
ispiratori.
Ci riferiamo unicamaente al Morgante[54],esaminando
a parte gli ultimi quattro canti, che sono troppo diversi, nello spirito
complessivo, dai precedenti, costituendo praticamente
un poema diverso.
Nei primi 24
“cantari”,
il motivo ispiratore prevalente è quello stesso che predomina nei
sonetti e nelle Lettere: è il sensazionale e, più in particolare, il
sensazionale ridicolo. E’ l’amore per il meraviglioso, lo straordinario,
l’eccezionale, l’anormale, il fantastico, lo strano, il paradossale o
paranoico, l’abnorme, l’assurdo. O, se si vuole, è l’amore per il
furfantesco, la violenza, l’ingordigia, l’inganno e la beffa: per la
ribalderia forzuta o furbesca, in
sede morale; per il gigantesco e mostruoso, in sede fisica. Ma il tutto
è pensato in funzione di una espressione umorale, capricciosa, ridicola
che vorrebbe riuscire umoristica, cioè benevolmente comica. Quello che nelle
sue lettere egli ama raccontare, scegliendo fra le tante vicende della vita
reale, nel poema egli ama inventare per lo stesso fine di allegria e di spasso.
L’esame dei toni lirici ci darà occasione a riportare esempi concreti: qui
basti ricordare la figura di Margutte, invenzione totale del Pulci, sintesi di
enormità fisica (“ ed ebbi voglia anch’io d’esser gigante,| poi mi pentii
quand’a mezzo fui giunto;| vedi che sette braccia sono appunto”) e di
anormalità morale (“io non credo più al nero che all’azzurro,| ma nel
capone, o lesso o vuogli arrosto|... E credo nella torta e nel tortello|... Io
n’ho settanta e sette de’ mortali (vizi o peccati)| che non mi lascian mai
la state o’l verno|... I sacramenti falsi e gli spergiuri| mi sdrucciolan giù
proprio per la bocca|... E carità, limosina o digiuno,| orazi”on non creder
ch’io ne faccia...” (Morgante, XVIII, 112-fine). Che proprio questo sia il
motivo di fondo del poema, lo si può dedurre dal fatto che il Pulci ha
rimaneggiato le sue fonti, passandole dalla prospettiva seriosa ed eroica
(semmai, involontariamente ridicola, per le gaffes del povero “canterino”)
al viraggio comico-paradossale; e, dal realismo complessivo, al fabuloso
programmatico. Il tema militare e carolingio, religioso e storico
(la lotta fra cristiani e musulmani o pagani in genere) è presente, ma secondario.
Sebbene Orlando predomini su Morgante come importanza teorica (Morgante è al
suo servizio) e come presenza di fatto, tutttavia lo spirito dei primi 24 canti
è morgantesco-marguttiano: le stesse avventure di Orlando, se non tendono
propriamente al comico, trascendono però la sfera del verosimile , per invadere
quella del mirabolante, del sovrumano, del sensazionale, del semidivino.
L’eroe chiaramontese sfugge di solito alla comicità, ma non alla fabulosità.
In parallelo alla figura di Orlando andrebbe
giudicata la “religiosità” del poema: presente sempre all’apertura
dei 28 cantari, non è però tema molto sentito e vissuto: rimane un puro
omaggio alla tradizione canterina. Decisamente secondario è il tema amoroso:
il caso di Florinetta liberata da Morgante (cantare 19) è l’episodio più
notevole. Sebbene la presenza di Antea, innamorata di Rinaldo, poteva costituire
un caso importante ( occupa i cantari dal 15 al 24 ed è
la situazione che si rovescerà nel poema dell’Ariosto, ove il
musulmano Ruggero ama la cristiana Bradamante: qui saracena è la donna), di
fatto prevale in Antea il dovere a vendicare la morte del padre, soldano di
Babilonia, ucciso da Orlando. Ella lo insegue in Francia, dimentica d’ogni
suggestione affettiva. Altri amori (Chiarella, Luciena, Meridiana, ecc.) sono
del tutto marginali, occasione in ogni caso di lotte fra eroi, non di effusioni
sentimentali fra innamorati. La stessa Alda, promessa sposa di Orlando, non ha
risalto nel poema del Pulci. Giustamente Attilio Momigliano ha sottolineato,
invece, il tema delle invidie, delle beghe, anzi dei tradimenti nella
corte di Carlo, ad opera di Gano di Maganza. L’argomento non è solo
presupposto e accennato qua e là, come avviene in Boiardo ed Ariosto, ma
sviluppato fino al tormento di
coscienza nel traditore (cantare 24, 48).
Negli ultimi
quattro cantari,
il motivo ispiratore muta chiave: l’eroismo prende il sopravvento,
la serietà della lotta fra maomettani e cristiani si insedia al centro delle
vicende, la probelamatica religiosa si amplifica anzi inaspettatamente. Dei
momenti eroico-militari più importanti (la rotta di Roncisvalle) avremo modo di
occuparci in sede di toni lirici. Qui
diamo invece uno sguardo alla complicata posizione religiosa dello
scrittore, che trova in questi ultimi cantari la sua decantazione definitiva.
Dobbiamo cominciare un po’ da lontano. Forse fin dal 1453 il Pulci si era
iniziato alle pratiche della magia: aveva visitato la grotta della Sibilla
presso Norcia e, scrivendo a Lorenzo, più di una volta accenna a Salay’.
Questo personaggio prende nome dall’arabo “salla^(y) che, premesso al nome
di Maometto significa “profeta”, ma nella scienza magica si riferisce alla
potenza dell’inferno. Nel poema se ne parla al cantare 21,47, ma in senso
spregiativo, essendo la sua invocazione messa in bocca ad una donna pagana
chiamata “demonio” ed a danno dei cristiani, naturalmente favoriti dal
poeta. Più esplicite sono le strofe 112-113 del cantare 24, ove il Pulci si
confessa già seguace di magia ed astrologia e ne esprime il pentimento. In
proposito si sa che fu accusato pubblicamente dal pergamo e che compose un
sonetto,solitamente detto
“Confessione”, ma che meglio diremmo “il credo del Pulci”, perchè
ritratta posizioni eterodosse precedentemente tenute. Tale conversione avvenne
per l’intervento di un frate domenicano, p. Mariano da Gennazzano,
presumibilmente nel 1479. La vicenda è dichiarata in 28, 42-46. Altra occasione per discutere problematiche religiose
e filosofiche è la introduzione , nel c. 25, del diavolo Astarotte: la sua
esposizione teologica, per quanto sbrigativa, tutt’altro che esauriente e
soprattutto non motivata ma solo asseverativa, è tuttavia ortodossa. E’
Malagigi a proporgli domande di teologia: circa la SS. Trinità, la Provvidenza
(nei confronti dei popoli cui la rivelazione non è stata portata: come possono
accedere alla salvezza?), la bontà di Dio (in rapporto agli uomini che si
dannano: come accordare onnipotenza e carità di Dio con la
punizione eterna di alcuni che Dio sa da sempre, prima ancora di crearli,
essere avviati all’inferno?). Sono problemi che si trovano anche nel grande
Dante (ad es. in Paradiso, 17, 40-2). Astarotte risponde, costretto, da buon
teologo: confessa la Trinità uguale nelle Persone
(ritrattando così l’errore espresso nelle strofe precedenti 136- 141);
sostiene la libertà interiore dell’uomo, che decide della sua salvezza o
perdizione, così che non si possa incolpare Dio che vuole tutti salvi (strofe
148-52) ed esclude la salvezza dei demoni e il ricupero dei dannai (errore di
Origene: str. 155). Quando Rinaldo espone il dubbio se la sola religione
cristiana sia vera, perchè ciò renderebbe Dio ingiusto verso quanti sono nati
fuori della fede cattolica, Astarotte risponde esattamente, distinguendo fra
colpa morale oggettiva e
responsabilità soggettiva: religione oggettivamente vera è solo quella
cattolica, ma Dio giudica sulla coscienza
soggettiva dei singoli uomini. Di qui la affermazione che si possono salvare
anche gli uomini dell’emisfero australe (previsto abitato prima che Colombo lo
scoprisse, forse attraverso i contatti della corte medicea con Paolo del Pozzo
Toscanelli). Questo impegno critico-teologico non riuscì ad ottenere al Pulci
la sepoltura ecclesiastica solo perchè, morto fuori di Firenze, la sua
ritrattazione non era conosciuta a Padova. Tutta questa vicenda interiore è un segno forte
della appartenenza del Pulci alla mentalità rinascimentale, appartenenza che si
farebbe fatica a stabilire in base al solo poema, troppo legato alla tradizione
canterina. Siccome del suo valore poetico dovremo parlare più in male che in
bene e, dello stile potremo solo notare la infelicità metrica ed il
pressapochismo espressivo in generale, soltanto la duttilità di mente, il
tormento intellettuale, la curiosità acuta, la casistica sottile e complessa di
queste problematiche ci garantiscono circa il suo spirito umanistico. Se non la
tecnica stilistica e la forma espressiva, però
questi motivi ispiratori del Pulci “fanno” sicuramente Rinascimento. Tonalità
liriche
Diciamo subito che il MORGANTE non è grande opera poetica. A stento può essere
considerata poetica per alcuni brani nelle ultime aggiunte. In realtà se esso
non fosse un ponte storicamente rilevante fra la peggior rozzezza dei canterini
da piazza e la perfezione (almeno formale) dell’Ariosto, si potrebbe scrivere
uno storia della letteratura italiana dedicando al Pulci non più attenzione di
quanto se ne dedica al suo concittadino di un secolo prima, Antonio Pucci.
Motivi linguistici e stilistici, che lo fanno superiore anche all’Orlando
innamorato del Boiardo, hanno creato il mito della grandezza del Morgante. Ma in
sede estetica, il Pulci è un re, se non nudo, almeno in sole mutande, che è
riuscito ad entrare nella storia letteraria della nazione, pur mancando,
quasi del tutto, dell’unum necessario all’arte, cioè la capacità di
comunicare emozioni o lirismo. Premessa questa svalutazione globale,[55]
riteniamo di poter dire che, se due
sono le tonalità ricercate dai critici nel
Morgante, quella epica e quella
comica, nessuna si impone nei primi 24 cantari, mentre negli ultimi quattro è
dato rintracciare qualche brano di sufficienza lirica nel viraggio del dramma
epicizzante, mentre ancor più convincente risulta qualche passo elegiaco.
Vediamo di provare questi nostri assunti, contrari a tutta la tradizione critica
successiva al romantico Francesco De Sanctis. Quanto
ai toni dell’epopea e della comicità nel “primo Morgante” (anzi, fino al
canto 24 canto compreso), avviene una puntuale “dissolvenza
incrociata”, già a livello di idee, di motivi ispiratori. Il Pulci
non ha saputo decidersi fra la serietà militare e religiosa della trama
originaria (la “Chanson de Roland”) e le esigenze del suo spirito, che
tendeva a privilegiare le deformazioni in chiave caricaturale,
come egli poteva, d’altronde, già trovare in molti “romanzi”
epico-cavallereschi precedenti
il suo. La madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, aveva suggerito un poema in
onore di Carlo Magno, difensore dell’Europa cristiana contro i Mori: il tema
era evidentemente serio e solenne; per di più, anche il poema da lui scelto
come guida immediata (l’Orlando) era scritto sulla stesso registro epico-
tragico. Ma il temperamento di “Gigi” Pulci era abbrivato in tutt’altra
tonalità: superficiale quanto estemporaneo inventore, facile quanto trascurato
verseggiatore, egli provava un gran bisogno di creare, colla fantasia, quella
gioia di vivere, quella spassosità socievole, di cui sentiva il bisogno per le
carenze della sua psicologia esaurita e distonica. La ambiguità non fu mai
risolta: egli oscillava fra l’una e l’altra dimensione della sua storia,
sospinto da forze contrastanti. Egli tenta la corda dell’allegria o della
epopea, mentre le uniche voci che trovano eco nella sua emotività sono quelle
della elegia o del dramma. La ricerca della comicità soffoca così la vena
triste o sofferta, melancoinica o risentita che sono quelle a lui congeniali. La
dissolvenza incrociata dei motivi ispiratori trascina con sè quella fra i toni
lirici. La caricatura fallisce per la grandiosità della missione affidata ai
personaggi e da loro perseguita; l’intenzione nobile, eroica che sta in fondo
alle imprese cavalleresche mortifica la sproporzione e fisica e morale di certi
suoi personaggi (Morgante e
Margutte) o la inverosimiglianza delle imprese di altri (Orlando) ed impedisce
di concentrarsi sulla balordaggine degli uni e la incredibilità degli altri. A
sua volta la elevatezza delle intenzioni e la grandiosità di alcuni
protagonisti e di alcune vicende muoiono nella banalità di personaggi di
contorno o nella iperbolicità delle loro stesse avventure. La solennità si
lascia smagare dallo sganbetto della volontà caricaturale. I primi 23 cantari
risultano così una mescolanza deludente di scherzo e grandiosità, di farsa e
tragedia, di eroismo e ciurmeria, di serietà e balordaggine.
Limitando il giudizio ai primi 23 cantari, dunque,
dobbiamo riconoscere tristemente l’assenza di poesia, pena
l’offendere le muse, disonorare Dante e Petrarca, Poliziano e Tasso. Anzichè
comico, il Pulci riesce ridicolo: anzichè soggetto creatore di riso,
egli diventa oggetto di commiserazione e il suo poema, motivo di derisione
(pressappoco come vedremo per la pubblicazione di Giovanni Prati “Osiride”,
che critici malevoli, ma non poi troppo, commentavano sillabando il titolo:
O-si-rìde!). Talora, leggendo il Morgante, viene la tentazione di guardarsi
attorno per vedere se qualcuno si accorga di come stiamo perdendo il tempo in
sciocchezze indegne dell’uomo adulto: una persona seria, matura, educata alla
fruizione dell’arte poetica come lirismo riuscito, non
può senza vergogna (o dispiacere pel tempo sprecato) continuare la
lettura di simili fanciullaggini, espresse in forma così approssimativa da non
smuovere minimamente la sfera emotiva del lettore. Noia, disdegno, rifiuto, pur
di fronte ad un testo sessualmente immacolato: “chè perder tempo a chi più
sa più spiace!(Purgatorio, 3, 78). La situazione si fa diversa nei canti 25-28. Almeno
la impostazione è univoca: Pulci ha optato per la serietà e solennità della
impresa: morto è Morgante fin dal c. 20 e Margutte nel c. 19, sono scomparsi i
personaggi-incarnazione, le “iconi” della componente grottesca del poema. E
Orlando si avvia a morire, pel tradimento di Gano, nella rotta di Roncisvalle.
Ecco allora farsi la via ad
esprimersi per la vena connaturale al Pulci; ecco che, emarginato il bisogno
esistenziale della ricerca di allegrezza
ad ogni costo, sotto la veste del verseggiatore “Gigi” esce fuori il poeta
Luigi; ecco che questi non impone alla sua fantasia di creare quello che la sua
psicologia non ha in dono, il riso, ma dà invece quello sprazzo di emozione di
cui è ricca la sua anima. Nel cantare 27, le strofe 224-288 (che descrivono la
battaglia di Carlo Magno per vendicare la morte di Orlando) rappresentano ci
pare, ci pare, il brano drammatico
più convincente di tutta l’opera. Siamo sempre a livello di sufficienza come
intensità lirica, ma almeno ci si sente un afflato emotivo. La tonalità è
drammatica sempre, ma svaria fra epopea e tragicità, fra esaltazione
dell’eroe e pianto sulla sua morte.
La guerra è finalmente guerra, non occasione di evasione nel mirabolante o di
commento scherzoso. A parte
queste strofe (che, se è lecito paragonare la spigolatura alla messe, richiama
al finale foscoliano nel descrivere la battaglia di Maratona: “ed inni e
pianti e delle Parche il canto”), troviamo qua e là, quasi violette nascoste
e timide nel prato o margherite pallide e modeste a primavera, note di elegia
(7, 70-71; 8, 3-4; 11, 62-4; 12, 67-70). Sono piccole perle che si accordano
con quelle che occhieggiano nella prima parte della rotta di Roncisvalle (27,
100-223), dove addirittura troviamo il profumo dell’idillio (27,
154-8). Ecco come Manfredonio, re di Siria, si accomiata dalla vita (che
sente ormai perduta, assieme all’amore per Meridiana), rivolgendosi ad
Ulivieroelegiacamente:
“Per Dio, ti priego, baron d’alta fama,
tu lasci me come amante
fedele
perdere insieme la vita e la
dama.
Cercato ho quel che cercar
suol chi ama:
trovato ho tòsco per
zucchero e mèle;
e poi che la mia morte ognun
la vuole,
per le sue (di Meridiana)
man morir non me ne duole. So ch’io non tornerò più nel mio regno; so che mai più rivedrò Soria; so ch’ogni fato m’avea prima a sdegno; so che fia morta la mia compagnia (gente); so ch’io non ero di tal donna degno; so ch’aver non si può ciò ch’uom desia; so che per forza di volerla ho il torto; so che sempre, ove io sia, l’amerò morto”. (7,
70-71) Non sono
grandi versi, ma almeno sono univoci e sinceri. L’influsso della nuova fonte
(La Spagna in rima, al posto dell’Orlando)
avrà agito certo nel senso di incoraggiamento alla espressione di questi
stati d’animo più consoni al poeta. Ma forse più decisiva è stata la
chiarificazione interiore, con la conversione religiosa, l’anno dopo la
ppubblicazione dei primi 23 cantari. Il Pulci usciva dall’equivoco; accettava
davvero la intenzione della Tornabuoni e si poneva al lavoro per un’opera
epica, in celebrazione di Carlo Magno e dei suoi paladini. Caduto l’intento
caricaturale o scherzoso, cadeva l’incerta
ambivalenza che impediva alla vera natura del Pulci di farsi avanti. Egli
ritrova la sua congeniale ispirazione, abbandonando la maschera che la sua
psicologia gli faceva trovare desiderabile
e che la società si era abituata a riconoscere falsamente come sua. Era nato
triste; per un bisogno (pirandelliano?) di convivere in società si era
travestito da pagliaccio, forzando la sua individualità a ridere e far ridere:
solo rientrando nei panni congeniali della sua prospettiva drammatico-elegiaca
egli poteva sperare di comunicare qualcosa di veramente suo, anche se son
pagliuzze d’argento e non pepite d’oro. Note
stilistiche.
Raccogliamo le note tecniche sotto tre granbdi categorie: la popolarità, la
rinascimentalità, la singolarità del Pulci.
Popolarità
delo stile pulciano.
Si potrebbe parlare di pesanti residui realistico-medioevali. Egli risente della
tradizione toscana del Milleduecento (da Rustico di Filippo a Folgòre a Cecco
Angiolieri), di quella canterina del Milletre- e Millequattrocento (Antonio
Pucci e autori di poemi cavallereschi come l’Orlando e La Spagna in rima),
della corrente burchiellesca e degli autori contemporanei (come un Antonio di
Guido, riscontrabile in 28,144 o le composizioni scherzose dell’amico Lorenzo,
quali La caccia col falcone, I Beoni, la Nencia da Barberino). Ma non va
dimenticato l’Inferno di Dante, luogo tipico del realismo crudo non senza
qualche distrazione comico-grottesca. La documentazione di questa dimensione
popolaresca nel Pulci è stata così ben documentata da Franco Ageno nella
edizione ricciardiana del Morgante (pp. XVI-XXIX), che copieremo dalle sue
pagine qualche particolare interessante. Per cominciare, i veri protagonisti,
invece che l’austero ed eroico Orlando, rimangono “di volta in volta Gano,
subdolo e molle, o Morgante, manesco e grossolano, o il furfante Margutte o
l’avventuriero Rinaldo...” Di Orlando il Pulci “ha fatto un po’ il tipo
del forte ingenuo”. Ma il “tema del Morgante è quello della vitalità
esuberante e puramente fisica, della violenza primitiva e passionale (2,46, 6-8|
7,40,4-41,8| ib. 49,1-51,6| 10, 46-7| 19,168-176)... Soprattutto in riferimento
a Morgante, la fame e la voracità hanno nel poema figurazioni di alta e accesa
fantasia (18,196,1-5| 19, 82,1-6; 95, 1-2)” E, via esemplificando la rozza
vitalità, l’Ageno elenca gli atti di violenza assassina (col “battaglio”,
che è l’arma sua propria), di volgarità bestiale o di furberia furfantesca,
il linguaggio picaresco, la celebrazione del vizio, le esagerazioni e vanterie
ciarlatanesche. Altro fattore del “realismo popolaresco” è la
mancanza di approfondimento psicologico e, quindi, di coerenza fra ideali
astratti e comportamento pratico dei personaggi: sarà solo nei cantari 24-28
che una più meditata analisi della coscienza affiorirà in qualche personaggio,
come nel traditore Gano (25,48). Anche il lessico è tratto dalla plebe di
Firenze, sopra la quale lo elevano solo le coscienti esagerazioni,
intenzionalmente ironiche. Insulti brillanti,
coniazione di vocaboli più o meno simbolici, definitori, canzonatori.
Fra queste invenzioni , citiamo la trovata del demonio Farfarello, che allo
stalliere della corte di Saragozza si presenta come “l’Arcifànfan di
Baldracco” per sbalordirlo e poter continuare il suo gioco di allegre
prepotenze. Dalla Ageno togliamo due fra i molti giochi di parole, che sono
simpatici anche se non propriamente poetici: “E sbuffan beffe con ischerno e
scorno” (11, 96); e “La casa cosa parea bretta e brutta” (23,47:
“bretta”= sordida). Ma questa “popolarità” tavolta significa solo
trascuratezza e pressapochismo, fretta e abburattamento: ecco allora le deformazioni
lessicali per comodità di rima o di metrica (“il re Carlone| Carlo Mano:
sono frequenti| in 27,206 la “mano” diventa “la mana” per rimare con
“durlindana”...). Altra volta non riesce a chiarire il senso logico,
a spiegare bene in rima quello che intende dire (25, 4| 7-9| 12| 33| 46...).
Anche il frequente mutamento del tempo di fondo nella frase reggente (dal
passato remoto al presente storico) è causato dal mancato dominio del verso e
contribuisce a vanificare il lirismo, anzi un qualsiasi interesse alla lettura.
Il che si può dire anche della mancata caratterizzazione e coerenza psicologica
nell’agire dei vari personaggi del poema. La musicalità è poco felice:
consonanti dure e vocali larghe prevalgono togliendo dolcezza contemplativa ai
versi, senza riuscire a creare un’aura drammatica. La metrica è rabberciata
maldestramente, faticosamente. Mentre è quasi sempre sicuro l’accento sulla
quarta sillaba, troppo spesso è assente quello sulla sesta, privilegiando il
poeta la settima o la ottava: l’endecasillabo risulta regolare, ma non
scorrevole, perchè viene a mancare il ritmo giambico che
gli è connaturato; e sembra davvero scazonte, zoppicante. Quando
l’accento trova la posizione della sesta sillaba, spesso esso è sopportato da
una enclitica (articolo, particella pronominale, congiunzione): il che rende
ancora più impastoiato il verso, che finisce per avere un “mezzo” accento
sulla sesta e, poi subito dopo, anche un accento sulla settima sillaba! E ciò
che sbalordisce in proposito (e conferma le nostre tesi
circa la congenialità o meno di motivi ispiratori seri piuttosto che
scherzosi) è il fatto che tale impaccio metrico perdura anche nel primo dei
canti tardivi (il ventiquattresimo), mentre diminuisce fin quasi a scomparire
nei cantari 25-28, ove cessa la deformazione caricaturale e il motivo serio
domina univoco: allora, anche l’ictazione metrica si fa
molto più regolarmente giambica (accenti sulla 4-6-10 sillaba). La
chiarificazione intellettuale delle intenzioni porta ad una semplificazione
dei motivi e questa ad una coerenza
univoca dell’attitudine affettiva, che a sua volta, permette una distensione
nell’elaborare la forma espressiva. Pare innegabile, cioè, che il raggiunto
equilibrio musicale sia il frutto della liberazione dall’equivoco
intellettivo circa il significato delle imprese versificate :
sbarazzatosi dagli equivoci e dalle oscillazione fra serio e scherzoso, fra
esaltazione e caricatura, il Pulci non scrive grandi versi, ma almeno versi
decenti con uno spiraglio per un’emotività almeno incipiente. Il passo
falso, zoppicante degli endecasillabi pulciani nella prima stesura del poema (e
ancora nel primo dei cinque canti aggiunti) è il lapsus clamoroso del tormento
interiore, della insincerità di una letizia imposta al poema contro le tendenze
innate della propria anima, contro la sua tempra neurovegetativa: uscito
dall’equivoco si normalizza il musicalismo, si apre la strada al lirismo
accessibile alla sua statura artistica.
Rinascimentalità
dello stile pulciano.
Abbiamo trovato, a livello di motivi ispiratori, un sicuro parametro
umanistico-rinascimentale, soprattutto nella modernità della problematica
religiosa. Se ne possono trovare segni anche nella tecnica stilistica? Sì e no.
Franca Ageno giunge a negare che il Pulci sia poeta umanista (p. XXI), ma poi
rimedia a questo estremo, affermando che vi è in lui un umanesimo alla
rovescia (forse, sarebbe meglio dire “negativo”, implicito cioè
nella demolizione della fede ingenua dei poeti di piazza nei loro eroi):
consiste nella attitudine alla parodia o canzonatura di fronte ai propri eroi o
almeno di fronte ai poeti cantabanchi. Ci sembrano vere entrambe le
affermazioni. Da una parte, il Pulci lavorò troppo in fretta: a un anno e mezzo
dall’invito della madre di Lorenzo, nel 1462, aveva già steso i primi 15
cantari.Troppi, per così breve spazio di tempo. Era un “buttar giù” alla
cerrettana, un imrpovvisare alla maniera dei suoi predecessori popolareschi. Era
un escludersi dalla raffinatezza rinascimentale per aggregarsi allo maniera dei
poemi cavallereschi medioevali. D’altra parte è da sospettare che, a parte il
suo bisogno temperamentale di afferrare la gioia di vivere almeno nelle
creazioni fantastiche, abbia agito su di lui la mentalità critica,
razionalistica del Rinascimento: vogliamo dire che lo spirito di canzonatura era
anche frutto di una coscienza storiografica più esigente e moderna. Troppe cose
nella tradizione carolingia e cavalleresca erano infantili surrealismi,
mistificazioni della realtà in
quello che era stato lo scontro fra le due culture, cristiana e musulmana.
Piuttosto che operare una rettificazione delle vicende (opera immane di tempo e
fatica) per scrivere un “poema sostanzialmente conforme alla storia”, egli
ha espresso lo spirito dei tempi con la ironia, la caricatura, il viraggio
scherzoso. Il suo poema è rimasto “marguttesco”, nel senso che in Pulci
c’erano le premesse mentali per una correzione della tradizione canterina, ma
non la resistenza alla fatica per condurla a termine: ha preferito demolire
psicologicamente il materiale fantastico, lasciando il lavoro a metà, senza
ricostruire la verità intera. Per
questo ci sembra che lo stravagante compagno
di Morgante, il già citato Margutte possa rappresentare la relazione del poeta
collo spirito rinascimentale: da una parte vi è in lui lo spirito critico che
lo porta a riflettere con acutezza ed esigenza viva su problemi filosofici e
teologici; che lo induce a seminare scetticismo
a spese delle avventure dei
suoi eroi; dall’altra, vi è il limite di fermarsi ad un’opera di
demolizione sia nei confronti della fede cristiana
che del mondo cavalleresco, senza la capacità di operare una
risistemazione scientifica
dell’una (attraverso una teologia aggiornata) e dell’altro (attraverso una
ricerca storica documentata). Il ritorno finale alla ortodossia religiosa ed
alla ammirazione per il mondo carolingio, nella sua lotta per la libertà
d’Europa e la difesa della cultura cristiana (ultimi cinque cantari), segna un
rientrare dell’uomo nei confini adatti alla sua costituzione e preparazione.
Avrebbe voluto essere un protagonista della cultura e dell’arte verbale della
sua generazione, ma “non eran da
ciò le proprie penne”: si perse in scelte fallite in partenza, salvo
a pentirsi, rientrando nella armonia della tradizione religiosa e storica
e, guarda caso, anche estetica.
Singolarità
dello stile pulciano.
Anima impulsiva e semplice, il Pulci adotta d’istinto la paratassi:
frasi coordinate e brevi; nessuna complessità di pensiero, di espressione. A
questa osservazione della Ageno, vorremmo aggiungere un risvolto complementare.
Al verseggiatore manca pazienza e gradualità: egli precipita le cose
alla fine. Esagerando un poco, si potrebbe dire che gli eroi muoiono prima di
esser colpiti, le battaglie son decise prima di essere combattute, i duelli non
presentano svolte impreviste, ma corrono alla sconfitta di uno dei due
contendenti... Vi è un’urgenza alla conclusione che costringe, poi, a
moltiplicare i personaggi ed a complicare la peripezia per offrire materiale al
poema; ma impedisce di soffermarsi su particolari paesaggistici o su
introspezioni psicologiche; di introdurre immagini e paragoni, così frequenti e
spontanei nei grandi poeti; di inventare situazioni
dall’esito imprevedibile, che generano suspense e, pur non
costituendo arte, introducono almeno interesse per il contenuto, per la
trama. Il temperamento del Pulci si rivela anche qui:
o accettare una vita regolare e mediocre o veder fallire in breve ogni tentativo
di volare alto; vedersi perennemente sconfitto; moltiplicare gli sforzi
senz’aver successo. Era una incarnazione di Amleto. Una distonia di fondo, con
una probabile prevalenza vagotonica, ne faceva per costituzione un imprudente
nel giudicare le situazioni, un indeciso nell’orientarvisi, un impulsivo
nell’agire, un impaziente nel procedere, un debole di fronte agli ostacoli,
uno fallito nei risultati.
L’unica via per diventare grande era quella della eroicità nella condotta
morale (via aperta a tutti gli uomini sani di mente, anche se
malandati nel fisico e persino, come lui, fortemente nevrosici, cioè col
sistema neurovegetativo instabile).
Non ebbe la fortuna di una saggia guida nell’esistenza; l’insperato successo
presso il Magnifico lo tentò a cose e pensieri più grandi di lui: era la
trappola in cui non doveva cadere. Forse aveva bisogno di una moglie forte e
di buon senso, che compensasse i suoi difetti costituzionali.
Ebbe invece amici che lo incoraggiarono nelle sue aspirazioni alla
grandezza. Colla fretta che lo incalzava a procedere celermente, colla voglia di
vivere bruciando le tappe, egli precipitava verso la fine senza concludere gran
che. Non solo morirà a 52 anni, fuori di ogni sistemazione definitiva e di
prospettiva pacifica per la sua esistenza, ma sarà così sfortunato da venir
ritenuto eretico e sepolto fuori della terra consacrata dei cristiani, quando la
sua devianza dalla fede era stata momentanea e ritrattata pienamente. L’uomo,
il più normale, è libero solo quando la coscienza lo pone chiaramente di
fronte alla scelta tra un’obbligazione morale e la sua violazione: pel resto
tende a procedere in forza di una spontaneità che è
ubbidienza al proprio temperamento. Nel caso di Luigi Pulci, tale
temperamento lo predisponeva
all’insuccesso umano. In altri, succede di peggio: son nati per vincere ed
aver sempre ragione; ma ne usano poi per fare della propria vita un capolavoro
di errori ascoltatissimi, di
delitti applauditi, di disastri monumentati. Sono molti personaggi che la
storiografia chiama grandi perchè hanno movimentato il cammino dei popoli, non
importa se in senso antiorario e regressivo; uomini di successo, non importa se
nel male; uomini simpatici, non importa se incuranti dei valori spirituali.
MATTEO MARIA BOIARDO (1441-1494) Vita e ambiente familiare. Nato a Scandiano (reggio Emilia) nel 1441, morì governatore
di Reggio nel 1494. La sua vita (era conte di Scandiano) presenta un episodio
oscuro, la cui soluzione ne segna anche un giro di boa. Nato da una sorella
dell’umanista e poeta Vespasiano Strozzi (Lucia o Livia) e rimasto presto
padrone del feudo paterno, lo amministrò di fatto anche a nome del cugino
Giovanni. Da parte di questi ci fu, ad un certo punto, il tentativo di
avvelenarlo attraverso un dipendente. Sventato il pericolo, ottenuta piena
ragione in tribunale, dovette assistere però ad una serie di provvedimenti in
favore del cugino e di sua madre (Taddea dei Pio, signori di Carpi) a livello di
divisione di eredità del padre e dello zio. Questo avvenne, senza che i
parenti, chiaramente mandanti dell’attentato, fossero minimamente molestati a
livello penale; e senza che lo stesso Matteo Maria protestasse minimamente per
il procedimento sfavorevole. Se si aggiunge che, avvenuta la divsione dei beni e
tenutosi Scandiano, il poeta dovette scendere in corte a Ferrara, onde aver
uffici e stipendi perchè non riusciva più a vivere di rendita, allora i
sospetti di disonesta amministrazione della comune eredità si fanno pesanti. Ma
non tutto il male vien per nuocere: egli, che per un paio d’anni (1469-71)
aveva avuto una vicenda amorosa con
Antonia Caprara, si decise a sposarsi a 38 anni. E, dopo vari incarichi
sporadici, fu governatore di città: a Modena, prima; poi, a Reggio. Quivi la
morte lo raggiunse a soli 53 anni, mentre scendeva Carlo VIII in Italia:
l’ultima strofa del poema è un lamento per l’invasione straniera. Il
Poliziano era morto tre mesi prima; Pico della Mirandola, un mese soltanto. Non
era ancora il tramonto, ma certo erano i prodromi del crollo
di un mondo... allegro a spese della società, artificialmente ottimista
a scapito della vita morale (nel Boiardo, siamo ormai al furto, oltre che al
libertinaggio sessuale...). Ambiente di formazione. Potè
usufruire, nella sua formazione umanistica, della atmosfera che il Guarino
ancora impartiva a Ferrara (fino al 1460). E’ così che le sue prime
composizioni sono latine, latini gli epigrammi scritti dopo il 1476, latino in
parte l’epistolario. Dal latino tradusse per il suo duca: da Cornelio Nepote
(Vite degli eccellenti capitani), da Apuleio (L’Asino d’oro), da Lorenzo
Valla (le “Storie” di Erodoto),
da Bracciolini (la “Ciropedia” di Senofonte), di Riccobono da Ferrara (Chronicon
imperatorum: cronaca degli imperatori). Ma dopo il 1476 rare sono le
composizioni in latino: Petrarca sostituisce Virgilio; i poeti canterini,
Ovidio. Del resto, cresciuto nella valle del Po, egli si trova a metà strada
fra Toscana e Lombardia. Gli influssi dell’epopea francese e dei romanzi
cavallereschi della Tavola rotonda erano ancora vivi, mentre le vicende
militari, i rapporti economici facevano di Ferrara un crocevia fra i due mondi
di Venezia e di Firenze. In sede linguistica il Boiardo rappresenta l’ultimo
capitolo significativo del “compromesso padano”, che sta per esser superato
in favore del toscano, mercè la presa di posizione
del veneziano Pietro Bembo in favore di Petrarca e di Boccaccio, quali
modelli per un processo di classicizzazione della lingua fiorentina. Rispetto a
Leonardo Giustiniàn, il Boiardo segna un passo innanzi verso l’imminente futuro tutto e solo fiorentino. Ma anche al suo continuatore-
Ludovico Ariosto- la meta della purezza nella lingua costerà la fatica di tre
redazioni, con 16 anni di lavoro di
lima per cancellare ogni traccia di “padanità” nel Furioso. Personalità. diamo uno schizzo induttivo, prendendo le mosse
dalle opere letterarie e dalla condotta di vita. L’imitazione di Virgilio e
Petrarca è puramente contenutistica, non lirica, emotiva. Ciò si accorda colla
differenza di temperamento fra i modelli ed il Boiardo: quelli erano personalità
introverse ed umbratili; lui era nato per l’azione. La espressione dei suoi
versi latini ce lo confermano: è troppo mossa ed esteriore, manca di
delicatezza contemplativa e di
intuizione psicologica, così caratteristicche di Virgilio e Petrarca. Anche la
sua raccolta di liriche (Amorum
libri tres) in volgare (latino è solo il titolo, imitato da Ovidio)
è troppo poco intima, perchè protesa all’esterno, cioè a narrare alla
natura od agli uomini le proprie vicende amorose. Egli si appella alle cose che
possono tetsimoniare della propria fedeltà e dell’altrui tradimento; egli
chiede agli uomini fiori e canti per celebrare la sua donna.. Nessuna analisi
del proprio spirito innamorato, nessuna introspezione dei propri sentimenti.
Questa superficiale esteriorità fa da parallelo alla “disinvoltura” con cui
amministrò i beni dei parenti ed al “successo” come uomo di corte e di
governo. E’ documentato che si interessò con equità e senso di responsabilità
alle popolazioni a lui affidate. Egli si conferma così uomo di attitudini
pratiche e di dinamismo
sociale, doti che rendevano più difficile il possesso delle virtù opposte, di
raccoglimento poetico ed introspezione psicologica. Se preferenze emotive
si possono arguire dalla sua vita pratica, saranno piuttosto lungo la linea
della serenità e dell’esultanza, dell’idillio, dell’arguzia,
dell’epopea: l’allegra (egoistica, disonesta!) amministrazione dei beni
comuni ai parenti; l’inserimento felice nella corte estense, da cui in quegli
anni “Settanta” fuggiva il Savonarola; l’intraprendenza nella vita
amministrativa e la sicurezza in quella diplomatica, fanno supporre
un’affettività gioiosa e dinamica, lontano dalla tristezza e dalla tragedia.
D’altronde la stessa organizzazione delle
sue poesie, con simmetria di composizioni e numero di versi, rivela un senso
razionale che prevale su quello emotivo (a meno di essere ambidestro e geniale
in ambedue i settori della intelligenza: ma è quasi solo Dante che arriva a
tanto!). Dunque, un temperamento più attivo che emotivo,
stabile: ha lasciato 35.400 versi solo nel poema!. Lo definiremmo volentieri un flemmatico,
con residui di passionato; od un passionato, con carica emotiva debole.
Un’anima fin troppo serena; uno spirito prevalentemente attivo: lo si
può ricavare tanto dalle opere, quanto dalla esistenza sociale: un canzoniere
amoroso senza affetti, un poema di ispirazione
ambivalente, dove si mescolano le materie di
Francia (milizia cristiana attorno a Carlo Magno) e di Bertagna
(sic! avventure d’amore prese dal ciclo di Artù): “le donne, i cavalier,
l’arme e gli amori/ le cortesie e l’audaci imprese” sono il tema del suo
canto, come dirà l’Ariosto in apertura del Furioso, che dell’Innamorato
vuol esser la continuazione e conclusione. Si può già prevedere che dei due
temi, quello amoroso sarà liricamente soccombente, se pur riuscirà ad
esprimersi in qualche rara strofa. Un altro indizio? Il titolo previsto dapprima
era “L’innamoramento di Orlando”: l’attività posta in prima posizione e
la persona in obliquo: decisamente, il dinamismo aveva il sopravvento
nell’animo del Boiardo. Le opere: in
latino: Pastoralia
(sono dieci egloghe di cento esametri ciascuna; inoltre ve ne sono altre dieci
in volgare, di cento endecasillabi ciascuna in terzine dantesche);
Carmina
de laudibus Estensium (quindici composizioni di vari metri latini, non tutte
finite);
Epigrammata
(otto composizioni brevi, in distici elegiaci);
Lettere:
parte delle 192 rimasteci sono in latino.
in volgare: Oltre
le “lettere” e le dieci “Pastoralia” in volgare, ci ha lasciato
una commedia, inttolata
Timone (5 atti, sul tema della
ricchezza e avarizia, prodigalità e povertà: è in terzine dantesche);
Capitoli
del gioco dei tarocchi (spiegazioni e interpretazioni sulle carte dei
tarocchi: terzine dantesche);
Amorum
libri tres: titolo latino del suo “canzoniere in volgare”, diviso,
petrarchescamente, in tre parti: amore fortunato; amore infelice; amore
rievocato come sogno del passato. Ogni libro comprende 50 sonetti e 10
composizioni di altro schema metrico (canzoni...). In tutto sono 180 poesie.
L’opera fu riordinata nel 1476, ma risale al 1469-71, anni 28-30 del poeta.
ORLANDO
INNAMORATO: poema eroico-cavalleresco, incompiuto, diviso in tre libri di 60
canti (29| 31| 9), per un totale di 35.400 endecasillabi in
4.425 ottave. La poesia
Giudizio
generale: Imponente
il numero dei versi, ma quasi introvabile il plus-valore lirico.
Eccetto rari versi (e quasi mai strofe intere) si tratta di prosa versificata,
di composizioni che non trasmettono emozioni di sorta. Ecco dei versi fra i migliori degli Amores:
“Datimi a piene mani e rose e zigli,
spargete intorno a me vi”ole e fiori;
ciascun che meco pianse e’ miei dolori
di mia letizia meco il frutto pigli.
Datime fiori e candidi e vermigli,
confàno a questo giorno i bei colori;
spargete intorno d’amorosi odori
che il loco alla mia voglia s’assomigli” Accanto a queste due quartine del 36° sonetto degli Amores,
si possono leggere anche altri versi tollerabili nelle composizioni 6| 39| 107. Quanto al poema, si potrebbero trascrivere i versi
liricamente significativi senza ingombrare troppe pagine. Ecco l’unica battuta
che davvero “tien botta”, scritta alle spalle dell’inglese Astolfo, figlio
del re d’Inghilterra, che cavalca un “ferrante”, cioè un destriero color
grigio-ferro:
“La forza sua non vedo assai palese
chè molte volte cadea dal ferrante.
Lui solea dir che gli era per sciagura,
e continuava a cader senza paura”. (I, 1, 60) Altri pochi versi “emotivogenetici” citeremo
esaminando i singoli toni lirici. Qui, al nostro giudizio sostanzialmente
negativo, aggiungeremo alcune osservazioni di conferma. La prima è di
Vittorio Rossi a proposito delle frequenti
pitture di paesaggio: “Di tali descrizioni forse non ce n’è una che
possa dirsi artisticamente finita” (Il Quattrocento della Vallardiana, 1956,
p. 458). Quest’altra è ovvia: tra i molti nomi inventati da lui, quelli
rimasti nel linguaggio vivo della gente colta (come simboli di caratteri
diffusi) non suonano come li ha disarmonicamente inventati il Boiardo (Rodamonte,
Rugiero, Fiordelisa, Brandiamante[56],
Ranaldo, Malagise, Ferraguto, Frontalate...), ma
come Ariosto li ha rimodellati con orecchio ben più intonato al genio toscano
della nostra lingua (Rodomonte, Ruggero, Fiordiligi, Bradamante, Rinaldo,
Malagigi, Ferraù, Frontino...). Boiardo, signore feudale di Scandiano, faceva
suonare a festa le campane quando gli pareva di aver scoperto un nome
appropriato ai suoi eroi: in realtà i posteri hannno dato retta solo a un
paio di quelle scampanate,
approvando: quelle per Sacripante e per Gradasso. Anche Agricane e Mandricardo
sono stati ripresi intatti dall’Ariosto e non dispiacciono all’orecchio
toscano, ma non sono pervenute alla lingua parlata dal popolo. E infine: non una
sola espressione in versi è rimasta nell’orecchio della italica gente come
proverbiale, come icastica definizione di una situazione
di vita, di uno stato d’animo, di un tipo singolare... Quando si pensa
alle decine di versi che si citano da Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, persino
Metastasio... come sintesi di giudizio su uomini e circostanze esistenziali,,
c’è da rimanere stupiti che il Boiardo sia riuscito a rovinare anche i
proverbi già in uso.In I, 24,55 assomma due effati rimici felicissimi (“chi semina vento| raccoglie
tempesta”; e “chi è causa del suo mal| pianga se stesso”) in due versi in
cui la musicalità è migliore, ma il senso meno perspicuo: “Ma colui pianger
debbe a doppie doglie| che per mal seminar peggio raccoglie”.
Qualcosa di simile gli capita in III, 9, 23: “Ben si suol dir: non
falla chi non fa” che è molto meno significativo del popolare “chi fa,
falla; che non fa, sfarfalla”.[57]
Se paragonato a Purgatorio, (8, 76-8: “Per lei assai di lieve si comprende|
quanto in femina foco d’amor dura,| se l’occhio o il tatto spesso non
l’accende”), od alla icastica sentenza di Shakespeare (“Woman, your name
is frailty!), diventa ben scialba l’ottava sulla “mobilità dell’amore
femminile” espresso in II, 11, 18, dove Origilla, infedelissima, trova pronta
scusa alle sue colpe presso Orlando innamorato:
“E ben ne fece presto dimostranza,
come a lei gionse, con dolci parole.
Essa piangendo, o facendo sembianza,
sì come far ciascuna donna suole,
al conte dimandava perdonanza,
e tanto invilupò frasche e vi”ole,
come
colei che a frascheggiar era usa,
che al suo fallire aritrovò la scusa”. Di nuovo (sebbene un po’ meglio rispetto al Pulci)
ci troviamo di fronte ad un re quasi nudo, ad un re in mutande, ad un mito
impostosi per motivi storici e accettato ad occhi chiusi da una critica che,
anzichè la poesia e l’arte, cerca la storia della cultura e del costume.
Anche in questo caso ci assale il
sospetto che il lettore, incuriosito forse della trama, ma annoiato dalla
maniera di esprimerla in versi, stia vegognosamente perdendo tempo in fantasie
assurde, al più adatte a bambini. Una seconda lettura è fatica da lasciare a
studiosi, a critici letterari di professione. Per dovere puro. Difatti, a parte
i non molti passi che segnaleremo, che colla poesia sono imparentati sia pure
lontanamente, il poema presenta interessi filologici e culturali : segna il
passaggio faticoso ma ascendente dal dilaetto della Padania alla lingua di
Firenze; e segna un ingentilimento metrico-musicale rispetto alla tradizione
canterina ed allo stesso Pulci, che prepara l’Ariosto del “Furioso”.
Questa, almeno, è la nostra povera
opinione.
MOTIVI ISPIRATORI. Non manca nel Boiardo la chiarezza di intenti e di
componenti: armi,
amori, magia
si rivelano subito come i tre filoni macroscopici della sua ispirazione. Il
primo è quello derivante dalla Chanson de Roland e dal ciclo carolingio, che
tende a raccogliere i cavalieri sotto Parigi, attorno all’imperatore
per difenderlo e, con Carlo Magno, difendere la fede ed il regno di Francia
contro i Musulmani e tutta la “paganìa”. Il secondo motivo è la molla
passionale che tende ad allontanare i paladini dal loro dovere e dal loro
signore, per rincorrere Angelica, la figlia del re del Catài, venuta alla corte
di Carlo proprio con l’intento diabolico di far prigionieri o di trascinare
dietro a sè gli eroi cristiani. Quando cala, precoce, il sipario sull’ultima
strofa del c. nono nel terzo libro, i campioni di Carlo sono appena rientrati a
Parigi (assediata ed in parte invasa dai saraceni), dopo aver fatto il giro del
mondo allora conosciuto, ubbidendo all’amore più che all’onore, teneri
paladini di una donzella più che strenui difensore di una civiltà, di un
regno, di un signore cui pure li lega il giuramento di fedeltà. Si potrà
discutere quale dei due temi abbia il primato nel Boiardo, ma è certo che
entrambi devono fare i conti con il “meraviglioso”. Sebbene non così
permeante come in Pulci, tuttavia anche nell’Innamorato il surreale è così
ovvio, il preternaturale così pervasivo, il magico così continuo da divenire
badiale, ridicolo, assurdo: l’eccezionale diviene la forma normale di essere,
agire, vivere. Abbiamo, infatti, maghi e fate: Malagise, in favore dei
cristiani; Alcina e Morgana, Atlante e Branzardo (vate di Apollo) in soccorso
dei Mori. Si danno personaggi invulnerabili, perchè fatati in tutta la persona
(uno per parte: Orlando per i cristiani; Ferraguto, per i Musulmani). Ci sono
armi incantate che si possono levare ma non rompere nè perforare (ne hanno
Argalìa, il fratello di Angelica, Serpentino, Sacripante, Marfisa). Sono
introdotti libretti di incantesimi, anelli fatati (che rendono invisibili). Vi
è, nella selva delle Ardenne, la doppia sorgente dell’amore e dell’odio,
che soggioga inesorabilmente, nell’uno o nell’altro senso, chi vi si
disseta. D’altronde, a sottolineare l’importanza di questo motivo
ispiratore, basterebbe contare le innumeri volte che compaiono le parole
derivate dal verbo latino “miror” e che significa “meravigliarsi,
ammirare”, con lo strascico di “meraviglia, mirabile, meraviglioso”, dalla
prima strofa del poema alla
quattordicesima del canto nono nel libro terzo.[58] Il primo risultato dell’intreccio dei tre motivi
militare, amoroso, favolistico (ciascuno adatto a svilupparsi all’infinito) è
quello di fornire un materiale pressochè inesauribile all’ordito del poema.
Le divagazioni, poi, delle novelle minori entro la trama di fondo, sono di fatto
senza numero. La peripezia è intricata, ma disinvolta: il Boiardo sa reggere
lucidamente le fila di ogni episodio–sia della trama principale che di quelle
estemporanee- con la stessa avvedutezza con cui stabilisce la costanza del
numero delle poesie che compongono
le sue raccolte e dei versi che dipanano le sue poesie: Boiardo è un ragioniere
nato e ha saputo mettere assieme una “telenovela” a misura della
mentalità ambidestra, che era quella della società italiana nel secolo
XV: una cultura che pescava ancora
nelle radici del Medioevo ma era già impregnata della linfa del Rinascimento. Un secondo risultato della convergenza dei tre
argomenti di fondo è, però, quello dell’urto e della difficle convivenza fra
loro. E’ facile indovinare come l’amore tenda alla dolcezza e si ponga in
contrasto con la militanza bellica; tenda al capriccio e si scontri con gli
obblighi di religione, i doveri di fedeltà, gli impegni dell’onore... E’
anche intuibile che il “meraviglioso” tende di sua natura alla sproporzione
e che questa produce più
facilmente la comicità[59] od almeno, la sua
premessa che è il ridicolo (per ricavarne tragedia, occorre
una serietà sofferta; per
produrre il rapimento dell’idillio, necessita di un eccezionale bisogno di
sogno ed evasione). La intenzione
comica mina la epicità, il tono eroico, il canto della vittoria o della
battaglia grandiosa, così come emargina
l’idillio o il dramma che
accompagnano le vicende d’amore, coinvolte nella non-serietà della magia. Ammesso da tutti che l’Ariosto non prenda sul serio
la vicenda tutta, anzi la guardi con occhio ironico, da vero
rinascimentale emancipato dalle fiabe care al popolino analfabeta del Medioevo,
si è voluto da certi critici attribuire al Boiardo una fede complessiva nel suo
mondo, non nel senso impossibile che egli credesse alle favole, ma nell’altro
che egli aderiva alla grandiosità eroica della età carolingia ed allo
straordinario valore dei suoi paladini. Intanto anticipiamo qui che almeno
alcuni episodi del Furioso sono cantati con
spirito drammatico: basterà citare l’azione di Rodomonte
nell’assalto a Parigi (canti 14-18) e il duello fra Rodomonte e Ruggero
(Orlando Furioso, c. 46). Viceversa, sono
continui anche nell’Innamorato i sintomi dell’attitudine umoristica ed
ironica. Il Boiardo si appella non meno di sessanta volte a Turpino,
uno dei presunti cavalieri di Carlo Magno e arcivescovo di Parigi: egli sarebbe
stato lo storico della strage di Roncisvalle. Da quando però la fiaba ed il
surreale si insinuarono nei poemi (degeneri ed imbastarditi) succeduti
alla Chanson, il povero arcivescovo divenne il preteso testimone di tutte le
corbellerie che il poeta inventava, esigendo che la clientela analfabeta le
accettasse sulla parola di tanto garante! Ancora: il Boiardo inventa nomi per i
suoi eroi, che risentono di un significato psicologico: Gradasso, Rodamonte
hanno già nel suono qualcosa di
forzuto e di forzato; Grandonio è la supponenza in persona.... Di più:
egli usa la tecnica della interruzione, ripresa e sviluppo dell’ episodio in
corso, per passare ad altro, che verrà a sua volta smozzicato in più
“puntate” a distanza...di curiosità: egli, pel solo fatto che organizza la
materia in funzione di suspense e di eccitazione del pubblico, denota la
coscienza delle assurdità inventate per divertire e del disinteresse per la
storicità o meno di tutti gli aspetti della sua cantafavola. Infine ogni
canto si chiude invitando l’ideale platea a tornare per sentire il progresso
delle vicende nel canto successivo od il giorno dopo. Egli, a questo modo, si fa
gabbo del “rispettabile pubblico”, stuzzicandone la curiosità quasi fossero
bambini in attesa della conclusione della fiaba. L’ironia è talora così
esplicita da costituire uno dei molti passi di comicità intenzionale (anche se
non riuscita):
“Ora il canto al presente è qui finito,
ed è gionto Ranaldo tanto tardo
che non può far battaglia questo giorno:
doman la contarò: fati ritorno” (II, 14, 68). A nessuno sfugge la sovrapposizione, stavolta, del
tempo della battaglia col tempo di lettura che farà il poeta. Sproporzione,
dunque, e ridicolaggine: se il poeta non ne ha saputo spremere la comicità, ciò
non vuol dire che egli non abbia piena coscienza che il suo cantare “è uno
scherzo, è uno scherzo, è tutto uno scherzo” (Elsa Morante, La Storia,
Torino, Einaudi, 1974, passim). E’
da questo particolare, a nostro parere, che è nata la illusione che il Boiardo
“creda al suo mondo cavalleresco”, mentre l’Ariosto lo ironizza alla
maniera con cui, in prosa, lo farà alla fine del secolo XVI Miguel de Cervantes nel suo Don Quijote: in Ariosto l’ironia non
rimane solo intenzionale e potenziale, ma diventa spesso vero umorismo; nel
Boiardo, tale sublimazione artistica fallisce abitualmente (l’unica
battuta pervenuta all’umorismo è stata citata). Ma la assenza di canzonatura
di valenza lirica non coincide con la assenza di una coscienza critica e
snobbatrice verso il proprio mondo fantastico. Intellettualmente, Boiardo non
è meno scettico coi suoi eroi di quanto lo siano Ariosto e Cervantes. Dimostrato, dunque (almeno ci pare) l’intrecciarsi
e corrodersi reciproco dei tre motivi ispiratori fondamentali, accenniamo ora
alle tematiche secondarie. Il
motivo della fede religiosa è
presente e trova in I, 18, 41-45 e 19, 12-16 la sua massima espressione:
Orlando, in una pausa del duello mortale con Angricane, ne tenta la conversione che, rifiutata al momento, si verificherà
colla richiesta del battesimo da parte del pagano ferito mortalmente da Orlando.
Ma per il resto, è un tema che va scomparendo: ad esempio non vi è più
l’invocazione, comune ai poeti canterini, del Signore (o della SS. Trinità,
addirittura) all’inizio dei singoli canti, come ancora avviene nel Pulci; ed
anche nel resto del poema, il problema della
religione è quasi del tutto assente. Salvo quell’episodio, nessuno si accorge
che si tratta infine di una guerra anche (se non soprattutto) religiosa, per
salvare la civiltà cristiana d’Europa, contro un nemico che proclamava di
voler conquistare il mondo colla scimitarra per estendere la propria credenza a
tutti i popoli. A questo livello, lo spirito rinascimentale agisce a fondo nel
Boiardo, che opera ulteriormente l’umanizzazione di una epopea divina,
sostituendo la magia abituale agli eventuali miracoli eccezionali, la fedeltà
feudale al proprio signore alla obbligazione morale della difesa contro il
nemico aggressore, la obbedienza agli impulsi dei propri istinti erotici
all’amore per per la
famiglia. E’ notevole che di bambini e di figli piccoli non si parli mai:
siamo lontani da Ettore ed Andromaca col figlioletto Astianatte alle porte Scee,
nell’Iliade di Omero: siamo vicini ai
princìpi delle riviste porno come “Playboy”, ove i bambini sono del tutto
esclusi per non turbare l’erotismo degli adulti...[60] Descrizioni di paesaggio sono frequenti nel Boiardo,
specialmente in connessione al tema amoroso; è però un tema svolto più
volonterosamente che liricamente: abbiamo sentito, in proposito, Vittorio Rossi. Il
motivo encomiastico, assente nel primo libro, prende un posto notevole ad
iniziare dall’apertura del secondo. E’ argomento anch’esso senza poesia e,
perciò, lo consideriamo qualitativamente secondario.[61] TONALITA’
LIRICHE
Difetti
generali.
Dai tre motivi ispirtori discenderebbero, presuntivamente,
toni emozionali a quelli, psicologicamente, congeniali: l’epicità (mescolata
con la tragedia) dall’argomento militare; l’idillio (salvo drammaticità per
gelosia, ecc.) dal tema amoroso; la comicità dell’ironia o l’idillio della
fiaba dalla sproporzione del magico, del surreale, del miracolistico. Ma
occorrerebbe che l’autore, genio poetico dantesco, abbia una intelligenza
proteiforme e sappia adattare lo stato d’animo ai singoli motivi ed alle loro
sfaccettature complesse. Diversamente (ed è il caso più solito del Boiardo,
purtroppo), i tre motivi interferiscono fra loro, si mescolano e
sovrappongono, generando “dissolvenze incrociate”, elidendo cioè un
registro lirico con l’opposto od il diverso. Con terminologia
psicoanalitica, potremmo dire che la cosciente volontà epica viene
continuamente frustrata dalla latente velleità comica; o che, viceversa,
l’aspirazione all’evasione fantastica, al gioco onirico,ad un mondo di pura
libertà e onnipotenza viene inibita in radice dal “superego” di una trama
eroica, guerriera, ove l’onore e il dovere rompono ogni incanto di pace e
distensione, la “censura” di una missione etico-religiosa soffoca ogni
esigenza di gratuità e
soddisfazione. Il risultato di questi incontri e scontri psicologici, fra
intenzioni intellettuali ed istanze sentimentali, è quel surrogato della poesia
che, nel Boiardo come nel Pulci, è costituito dalla versificazioone più o meno
sciolta e scorrevole, ma arida quasi sempre, quasi sempre liricamente
insignificante. L’opera che viene prodotta è come una “supernova” che
sbalordisce un momento nella costellazione della letteratura italiana per la
esplosione di luce e l’attesa che ne deriva di chissà quale astro in
formazione, mentre si tratta dell’ultimo sprazzo di una stella in estinzione,
che s’irradia per decine di migliaia di versi, ma senza il calore e
l’energia, senza la forza di sintesi ed il fuoco di rinnovamento che
acquisisca alle idee la complicazione emotiva e sublimi l’espressione
verbale in musicalità emotivogenetica. Ci troviamo di fronte ad una
versificazione azima, senza lievito di emozioni; asettica, senza fermenti di
vita; piatta, con l’emotivogramma azzerato. Nel suo poema romanzesco, il
Boiardo ha unito tutte le materie ipotizzabili; ha preteso di cucinarle con ogni
ingrediente stuzzicante o
saporifico; ha preparato un cocktail di motivi intellettuali e di situazioni
sentimentali che riassumessero tutte le esperienze della letteratura rinata dopo
il Mille, nell’Europa acculturata da Roma ed innestata dallo spirito
germanico. Vuol far vibrare la corda della crociata contro i musulmani;
titillare l’istinto amoroso in contrasto col senso del dovere e dell’onore;
tentare l’ascesa al sovrumano con il magico più fantasioso... e finisce per
ridurre l’interesse del lettore alla curiosità pungente di sapere come
si concluderanno vicende così complesse e fuori da ogni verosimilglianza;
finisce per animare il suo operato della sola suspense del crime-book, del
poliziesco, del romanzo giallo. E’ l’attesa dello scrittore al varco
finale: quale via sceglierà per trarre d’impaccio i suoi paladini e le sue
donzelle; quale soluzione riserverà alla molto bramata e molto contesa
bellissima Angelica; come organizzerà le battaglie fino alla “carica
finale” che assicurerà la vittoria
dei “nostri”, che è scontata ed aspettata fin dal principio?...
Tutto sarebbe andato, comunque, a finire per il meglio, se la morte non avesse
troncato lo stame della vita all’autore, a poco più che cinquanta anni: nel
terzo libro qualche eroe musulmano o pagano di troppo è già eliminato e le
cose si riducono sotto Parigi, per avviarsi alla cacciata dei Mori dalla
Francia. Sì, ma nel frattempo ti ha ripreso quella certa vergogna di leggere
una fiaba di 35.400 versi, come ti vergogneresti (se sei uomo maturo e non solo
adulto) di stare alla televisione a guardare per
ore ed ore le telenovele o i cartoni animati. E non si capisce bene come
la critica sia andata avanti per generazioni a celebrare come un mezzo
capolavoro un libro di versi che solo raramente
raggiunge una stentata sufficienza lirica. Cerchiamo
delle prove alle nostre critiche. Schifato dalla rozzezza linguistica
dell’opera (ne riparleremo a proposito dello stile) il toscano Francesco
Berni, ebbe il coraggio di
riscrivere il poema tutto: fu la sua versione
ad assicurare fino al Romanticismo (cioè per tre secoli) la sua
diffusione. Antonio Panizzi, esule italiano a Londra fece ristampare
l’edizione originaria, ma solo per amore di
letteratura popolare, in base (forse) all’assioma vichiano che il
popolo è veramente poeta, nella sua ingenuità prefilosofica...:E la critica
riprese in mano il poema del Boiardo, emarginando quello del Berni, per
motivi subfilosofici,
pseudoestetici, genericamente culturali.[62]
D’accordo: il Berni aveva intuito la insufficienza del poema boiardiano,
ma non aveva compreso che il suo difetto non stava nella veste linguistica: era
l’anima inferma che andava ravvivata. Occorreva una iniezione di carica
emozionale, più che una risciacquatura in Arno della forma espressiva. Per
rendere emotivogenetici i versi, bisognava
rivivere interiormente e non solo rabberciare linguisticamente l’opera. Nè il
Berni era poeta così verasatile: spirito troppo unilateralmente scherzoso, non
era l’artista capace di comunicare una carica solennemete epica ad un poema
carolingio; od un’aura graziosamente idillica ad una storia d’amore. Dal
mondo magico-surreale il Berni, individualità
quanto mai realistica, era poi lontano le mille miglia. Ancora:
vi sono passi del poema in cui la incertezza interiore diviene materia di
canto, senza soluzioni o con
risoluzioni arbitrarie: questo è la conferma che nell’animo del Boiardo si
agitavano ed urtavano più intenzioni e più emozioni contemporaneamente; e che
egli era indifferente ad ognuna di
esse: “Il conte (Orlando) a quel parlar nulla rispose,
stando sospeso e
tacito a pensare,
chè il core ardente
e le voglie amorose
nol lasciavan se
stesso governare;
l’amor, l’onor,
il debito (dovere) e il diletto
facean battaglia
dentro dal suo petto” (II, 9, 46). Ecco ancora Orlando nel dubbio (stavolta la spunta
amore):
Ranaldo e Astolfo s’ebbe a proferire
alla difesa de cristianitate,
per la sua fede e legge mantenire,
insin che in man potran tener le spate.
Seco non volse Orlando allora gire,
nè so dir la cagione in veritate,
se non ch’io stimo che superchio amore
li desvi”asse da ragione il core”. (II, 13,51) Vi sono,
poi, strofe che iniziano in una tonalità idillica sufficiente, che viene però
dissipata dal passaggio al tema militare:
“Quando la terra più verde è fiorita e
più sereno il cielo e grazi”oso, alor
cantando il rosignol s’aìta la
notte e il giorno all’arboscello ombroso; così
lieta stagione ora ne invita a
seguitare il canto dilettoso, e
racontare il pregio e ‘l grande onore che
donan l’arme gionte con l’amore” (II, 8, 1). Parallela
è la frattura in II, 8, 13 fra ivv.1-5 e 6-8:
“La bianca ripa che girava intorno
non lasciava salire il monticello,
(la)qual era verde e de arboscelli adorno,
tutto fiorito a meraviglia e bello.
E dalla parte ove apparisce il giorno
era intagliata a punta di scarpello
una porta patente, alta e reale:
più non ne vidde il mondo un’altra tale”. Gli effetti devianti dell’ironia e del ridicolo
sulla epicità
si possono vedere in I,24,53; II,11,9
e 18. Per la dissoluzione dell’idillio ad opera dello
stesso conato di comicità, si veda III, 5, 41. Ma veniamo ai singoli toni lirici. IDILLIO. Nella povertà generale del lirismo boiardesco, i
versi idillici sono i più numerosi tra quelli che attingono una qualsiasi
sufficienza artistica. E il tono può sostenersi anche per due strofe di
seguito! Riportiamo le strofe I, 3,
69-70 (Orlando contempla Angelica dormente):
“La
qual dormìa in atto tanto adorno,
che
pensar non si può, non ch’io lo scriva.
Parea
che l’erbe a lei fiorisse intorno,
e
d’amor ragionasse quella riva.
Quante
sono ora belle, e quante forno
nel
tempo che bellezza più fioriva,
tal
sarebbon con lei, qual esser suole
l’altre
stelle a Diana, o lei col sole.
Il conte stava sì attento a mirarla,
che sembrava omo de vita diviso,
e non attenta ponto di svegliarla;
ma fiso riguardando nel bel viso
in bassa voce con se stesso parla:
- Sono ora quivi o sono in paradiso?
Io pur la vedo, e non è ver ni”ente,
però ch’io sogno e dormo veramente”- II, 19, 1, che ci sembra la migliore:
“Già mi trovai di maggio una matina,
intro un bel prato adorno d’ogni fiore,
sopra ad un colle, a lato alla marina
che tutta tremolava de splendore;
e tra le rose d’una verde
spina
una donzella cantava de
amore,
movendo sì soave la sua bocca
che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca”. E diamo i riferimenti delle altre, con qualche breve
commento: II, 8, 1-2 (entrambe le strofe sono idilliche nei primi versi: la
conclusione ripropone toni epicizzanti); III, 5, 41-2 (idillio d’amore
abbastanza convincente, con qualche notazione drammatica nella 42esima: Rugiero
vede in viso Brandiamante e ne è smarrito). Si noti che questi versi sono tra i
più scorrevoli del poema, molto più sciolti e fluidi che non quelli dedicati
alle vicende militari. Si veda, ad esempio, tutto il canto II, 13, canto più
contemplativo che drammatico: almeno intenzionalmete, cioè come esigenza delle
vicende trattate: se il risultato lirico è deludente, però almeno i versi
camminano più speditamente. ELEGIA: Se il Boiardo rivela una aliquale congenialità per l’idillio, cioè per la
gioia contemplativa, altrettanto non si può dire della elegia (in parallelo,
nel campo delle emozioni drammatiche, il conte-poeta è più accessibile
all’epopea che alla tragedia): come visse lietamente, per fas et nefas, così
canta allegramente, sentendo della vita più i
cori di carnevale che le laudi penitenziali, più gli squilli della
vittoria che il pianto delle morti sul campo. E glielo perdoneremmo volontieri,
se almeno il suo fosse un sentire artisticamente intenso, liricamente alto,
emotivamente sublime.... Comunque, accenni di elegia si trovano anche
nell’Innamorato. Ecco in I, 19, 13-16 il battesimo e la morte di Agricane per
le mani di Orlando:
“Batteggiame, barone, alla fontana
prima ch’io perda in tutto la favella;
e se mia vita è stata iniqua e strana,
non sia la morte almen de Dio ribella.
Lui che venne a salvar la gente umana,
l’anima mia accolga tapinella!
Ben me confesso che molto peccai,
ma la sua misericordia è grande assai.
Piangea
quel re che fo cotanto fiero,
e
tenì il viso al cel sempre voltato....
Io non me posso ormai più sostenire:
levame tu de l’arcion, baron accorto.
Deh non lasciar quest’anima perire!
Batteggiami oramai, chè son già morto.
Se tu mi lasci a tal guisa morire,
ancor n’avrai gran pena e disconforto.-
Questo diceva e molte altre parole:
oh quanto al conte ne rincresce e dole!
Egli
avea pien de lacrime la faccia,
e
fo smontato in su la terra piana;
ricolse
il re ferito nelle braccia,
e
sopra il marmo il pose alla fontana;
e
de pianger con seco non si saccia (sazia),
chiedendogli
perdon con voce umana.
Poi
battizzollo a l’acqua della fonte,
pregando
Dio per lui con le man gionte”. Si possono veder anche II, 13, 40-41 (e anche le
strofe 30-44, come contesto): si tratta di un caso patetico che si esprime in
una levità umbratile: nasce dalla gioia per il ricomparire dei due figli del re
Monodante, smarriti da gran tempo. In realtà uno di essi, Brandimarte, è
tenuto prigioniero dal padre stesso, che lo ha condannato a morte e rinchiuso in
una orribile torre. Una simile situazione avrebbe
suggerito all’anima di un Metastasio la trama per un melodramma intero:
qui, invece, l’episodio è breve, non sfruttato; è risolto in poche strofe
(quelle indicate) come uno dei tanti episodi marginali del poema. E la
inverosimiglianza psicologica di smarrimento ed anamnesi è tale, nel caso
concreto, da impedire una partecipazione profonda da parte del lettore.De Amicis
avrebbe ricavato pagine strappalacrime irresistibili, proprio per la maggior
abilità a collocare i casi patetici in un contesto che li rende verosmili al
sentimento, anche se incredibili alla ragione. E va
segnalata infine anche l’ultima strofa del poema: III, 9, 26.
“Mentre ch’io canto, o Iddio redentore,
vedo la Italia tutta a fiama e a foco
per questi Galli, che con gran valore
vengon per disertar non so che loco;
però vi lascio in questo vano amore
de Fiordespina ardente a poco a poco;
un’altra fiata, se mi fia concesso,
racontarovi il tutto per espresso”. EPICITA’ E DRAMMA. Abbiam già detto che questa tonalità,
intenzionalmente predominante,viene in concreto smascolinata dalla confluenza di
altre intenzioni di lirismo (idillico, o
comico), cioè da altri motivi ispiratori (amoroso, fiabesco): così, come si è
visto che la interferenza di momentanei respiri drammatici disturba ed offusca
talora lo spunto idillico (II, 8,
1-3). Più frequente, però, è la allegria delle avventure o l’intervento
della coscienza ironizzatrice ad elidere la forza dell’epopea. Questa tenta di
esplodere nella figura di Rodamonte, modellato sul personaggio del superbo
Nembrot della Babele biblica, sui giganti della mitologia greca
in lotta contro Giove, sulla psicologia del Virgiliano Mezenzio
“contemptor divorum” (II, 14, 32-33: cfr.Eneide, 7, 648 e 10, 880). Ma il
risultato è un furore più pensato che sentito, o più sentito che espresso.
Certo la sua navigazione verso la Provenza ha tutto il potenziale di epopea che
la figura di Margutte, nel Morgante del Pulci, possiede in sede di comicità: ma
in entrambi, la materia mal
escogitata dalla mente, non trova scioltezza di verso nè energia di immagini nè
vigore di stile adeguato. Ecco gli episodi principali della presenza ed azione
di Rodamonte: II, 1 (le parti del canto ove è presentato e parla l’eroe);
ivi, 6, 1-15 e 28-65 (Rodaamonte attraversa il mare nonostante la burrasca e
sbarca in Provenza a dispetto della opposizione cristiana); ivi, 7, 1-30
(abbatte principi e re, fa strage di truppe, mentre anche il suo esercito è
decimato); ivi, dal canto 14, 11 al canto 15, 41(scontro fra Rodamonte e
Ranaldo; fine della battaglia per il sopravvenire della notte; duello fra
Rodamonte e Ferraguto). Anche Orlando detta pagine mediocremente epiche, come
nella semina dei denti del drago, da cui nascono guerrieri armati, smaniosi di
battaglia (I, 24, 53-56: ma non senza sogghigni ironici sulla storicità dei
fatti, pur testimoniati, diamine!, da “Turpin, che mai non mente in alcun
loco” (str. 53, v.7). COMICITA’-IRONIA
Intenzionalmente
è molto frequente: ad esempio, quando si cita Turpino (almeno 60 volte) come
teste fededegno delle pappolate messe in versi; quando si congedano, alla fine
di ogni canto, i cortesi ascoltatori, rimandando il seguito delle avventure già
avviate, anzi nel bel mezzo del loro svolgersi, ad altro canto, con la scusa
della stanchezza propria o della ormai eccessiva lunghezza del canto. Altro
discorso, però, è quello sulla riuscita della comicità programmata: per lo più
la volontà di riso desta un senso di pena o, comunque, riesce inetta: al posto
del comico risulta il ridicolo. Ecco, comunque, passi almeno tollerabili (il
primo, già citato, è l’unico davvero efficace): I, 1, 60 (“Lui solea dir che gli era per sciagura,|
e tornava a cader senza paura”); I, 7, strofe 38, 39, 55, 61; II, 3, 55
(Orlando taglia i nemici in modo tale “che dove è un pezzo, l’altro non se
trova”); II, 9, 25 (“Da poi che per ragione avea veduto| che mal si trova
alcun sotto la luna| che adopri ben la chiave di Fortuna”: è Orlando che
pensa; “mal” va inteso “a stento, a fatica”); II, 10, 50 (Ranaldo,
prigioniero “Tre onze avrà Ranaldo e non già più| de biscottella che è
senza fenocchi,| vivendo a pasto come un Fiorentino| nè briaco serà per troppo
vino”); II, 11, 18 (Origilla imbroglia di nuovo Orlando “come colei che a
frascheggiare era usa| che al suo fallir aritrovò la scusa”); II, 12, 2...10
(“per verità de l’arme dir vi posso| che è meglio il ragionar che averle
indosso””; ironia sulla infedeltà delle donne: solo, si intende, di quelle
antiche!; Orlando addormentato mediante un sonnifero e incarcerato, invoca i
santi tutti “quanti n’ha il celo e poi molt’altri ancora”!); II, 13, 58
(una balena- garantisce Turpino, “che
la pone due miglia di lunghezza”). NOTE
STILISTICHE La
semplice lettura del testo sorprende per la piattezza della espressione,
per una banalità verbale così pervasiva che non si può attribuire solo alla
“padanità” della sua lingua nativa: si tratta di vocaboli approssimativi,
di versi scazonti nella metrica e nelle rime, di un musicalismo così infelice
che il fenomeno va fatto risalire piuttosto ad una insufficienza poetica della
fantasia, cioè alla disarmonia del rapporto tra centri neurovegetativi (della
emotività) e centri verbali (della razionalità) nel suo cervello. Da tale
sfasatura nella “individualità” discendono, come corollari, l’amalgama
mal dosato di Motivi ispiratori eroico-fabuloso-amorosi, lo stento dei singoli
toni lirici e la loro dissolvenza per il sovrapporsi dell’uno sull’altro.
Che, a livello di tecnica
espressiva, la stonatura risalti continua e fastidiosa lo conferma il
rifacimento del Berni: ma, lo si è detto, il difetto della lingua era solo
l’ultima manifestazione di una carenza di estro poetico alla sorgente, nella
personalità. Ed a questo vuoto
neppure il Berni seppe por rimedio. Prima di segnalare i singoli difetti dello
stile, riconosciamone e la facilità versificatrice e la maggior duttilità dei
versi stessi rispetto al Pulci, anche se due poeti liricamente smorti come
Ovidio, per i latini, e d’Annunzio, per gli italiani, abbiano padroneggiato la
metrica e la musicalità del verso molto più signorilmente.[63]
Concretizziamo le critiche alla tecnica stilistica in
maniera succinta, chè la critica letteraria si deve occupare degli aspetti
positivi (poetici) delle opere, non dei difetti. Ma ci pare che il nostro
giudizio molto e molto limitativo nei confronti del Boiardo esiga una qualche
giustificazione attraverso concrete citazioni. Esaminiamo
anzitutto il
vocabolario.
Vi è una prevalenza così assorbente di verbi e sostantivi rispetto ad
aggettivi ed avverbi, da suggerire la eventuale riuscita di espressioni
drammatiche, non certo contemplative. In realtà il risultato è solo nella
linea della pesantezza greve e prosaica. Ecco due strofe: “Una logia ha il
palagio verso il mare,| davanti vi passarno e duo guerrieri;|quivi donzelle
stavano a danzare,| chè vi avean suoni diversi e ministeri.| Grifon passando
prese a dimandare| a duo che tenìan cani e sparavieri,| di cui fosse il palagio;
e l’un rispose:| Questo si chiama il Ponte delle Rose.|| Questo è il mar del
Baccù, se nol sapeti.| Dove è il palagio adesso e’l bel giardino,|era un
gran bosco, ben folto de abeti,| dove un gigante, che era malandrino,| stava sul
ponte che là giù vedeti;| nè mai passava per questo confino| una donzella o
cavalliero errante,|che lor non fusse occisi dal gigante”. (II, 2, 38-39) E veniamo al dilettantismo linguistico,
incerto fra lombardismi padani e fiorentinità pura.In questo assomiglia a L. Giustinian. Si è già detto dei nomi
degli eroi, che non si innestano armoniosamente nella sapienza musicale
della lingua toscana. Ci si può accorgere dalle strofe citate per
esemplificazioni di vario tipo, come il linguaggio del Boiardo faccia
rima con “vagabondaggio” dall’una all’altra area fonetica. Ecco
la ottava strofa del poema, che incarna in mnaniera più dissona tale mescidanza:
bisognerebbe mettere dei “sic!” ad ogni piè sospinto: “Lassiam
costor che a vella se ne vano,| che sentirete poi ben la sua gionta;|
e ritorniamo in Francia a Carlo Mano,| che e soi magni baroni provede
e conta;| imperò che ogni principe cristiano,| ogni duca e signore a lui
se afronta| per una giostra che aveva ordinata| allor di maggio, alla
pasqua rosata”. (I, 1, 8). Per altri
casi, ecco le doppie che vengono scempiate: mez(z)o; ab(b)atte) e
viceversa (vella=vela; callare=calare=scendere; cavalliere:
sempre); la palatale “c” che diventa “z” (faccia=fazza) e viceversa
(pazzo=paccio); la “g” palatale o velare che diventa “z” (giglio=ziglio)
ovvero “s” (incantagione=incantasone; cacciagione=caggiasone): e così
“zuffa=ciuffa;angolo=cantone; precipitare=trabuccare; scioccone=giottone;
cinghiale=cingiale; figlio=fio; ringraccia; alciò (=alzò); piaccia (piazza);
prodecia, frezza (fretta), gionto (giunto), ponto (punto),zanzare|zanza
(cianciare, ciancia), tenitorio (territorio), pavaglione (padiglione), feritte|
uscitte (ferì, uscì),Qual (il quale: sempre, se il pronome relativo è ad
inizio di verso!), zuffellare (zufolare=fischiare della spada nell’aria), anci
(anzi), accia (ascia), da dovero (davvero). Banalità e volgarità: il vescovo
Turpino diventa “il gran pritone” (accrescitivo di “prete”); “non
stimare per niente” è tradotto in “non stimare una paglia, un vil bottone,
un fico”; Carlo Magno, fuori di sè per l’ira, chiama Orlando “bastardo”
e “figlio di p......”[64] La
situazione attinge il grottesco, se si pensa che il Boiardo è il primo a
chiamare “italiano” la lingua volgare (Timone, Prologo, v. 12). Ma quale
“italiano” usava mai? Per i versi si è dato un “assaggio”. Quanto alla
prosa delle sue lettere, basta leggerne qualcuna
tra quelle scritte in volgare. Qui non si tratta solo di confusione tra
forme toscane ed emiliane, perchè interviene anche la memoria di frasi
ufficiali latine, tradotte alla brava in “italiano”, estemporaneamente, a
disorientare la espressione. Ma c’è ben di peggio: egli non sa esprimere con
chiarezza il suo pensiero, rivelando il punto dolente radicale della sua carenza
poetica. Si rivela cioè, la presenza di una mente superficiale, di una
intelligenza mediocre, che non riesce ad imbrigliare in formulazioni chiare il
proprio pensiero e, di conseguenza, non riesce a dare formulazioni artistiche
allo slancio dei propri sentimenti. Se si confrontano le prose di Bernardino da
Siena o di Alessandra da Firenze con quelle del conte di Scandiano, ci si può
accorgere che la differenza fondamentale
sta in un dislivello intellettuale a sfavore
del Boiardo. Egli aveva una buona spinta emotiva a livello di centri
neurovegetativi, ma non possedeva una base biologica (zona di Wernicke, cioè la
parte del lobo temporale sinistro,
nella corteccia cerebrale, sopra l’orecchio) adeguata, da mettere a
disposizione della ragione, dell’anima, per tradurre in emozioni pure ed
assolute gli impulsi emotivi animali. Di tutte le sue rime, si potranno salvare
un centinaio di versi sufficienti, diremo.. di quarta categoria... Ci si può
chiedere, allora, se valeva la pena di sciupare tanta carta e inchiostro, tanto
tempo di vita per simili risultati? Se avesse consacrato il proprio tempo
all’impiego delle sue doti pratiche, notevoli,
in favore della società a lui affidata, certo che avrebbe potuto operare molto
più beneficamente. Così invece, si è divertito lui certamente, ma ha annoiato
i lettori, ha fatto perder tempo a Francesco Berni per rabberciarlo in pretto
toscano; ed ha finito per scrivere solo corbellerie, che non valgono certo la
fatica e il tempo di una persona consapevole che “perder tempo a chi più sa
più spiace” (Purg., 3, 78). E’ vero: il Boiardo non ha avuto il tempo di
rivedere e rifinire il suo lavoro: ma almeno la sintassi aveva il dovere
di osservarla, pena il denunciare di essere poco intelligente ( la sintassi è
esigenza del pensiero, al di qua di ogni lingua e dialetto; è segno di
scioltezza e coerenza di pensiero!). Ecco alcuni svarioni imperdonabili:
Angelica sfida, a nome del fratello Argalia, i cavalieri
alla corte bandita di Carlo Magno:“...fuor della terra lo venga a
trovare,| nel verde prato alla Fonte del Pino| DOVE SE DICE AL PETRON DE
MERLINO” (I, 1, 27); agli uditori il poeta cerca di spiegare in che stato
d’animo sia Ricciardetto, dopo che Ranaldo ha
disertato l’impegno del duello col re Gradasso: “De l’animo che
egli è, voi lo pensati;| ma non lo abatte già tanto il dolore,| che non abbia
i Cristian tutti adunati,| E DEL SUO DIPARTIR CONTA IL TENORE;| E QUELLA NOTTE
SE NE SONO ANDATI.” (I, 6, 56); in II, 16, 25, il pensiero si riesce ad
indovinarlo, sotto una espressione discutibile sia per la sintassi che per la
logica: “La schiera d’Agramante ebbe il peggiore,| perchè atterrati furno
al primo passo| da (circa) venti cavallier de la sua gente,| e de questi
altri sette solamente” (chi sono “questi altri”? d’accordo, sono i
nemici Agramante, cioè i cristiani: ma bisogna indovinarlo a orecchio;
l’espressione non impone chiaro il senso); inoltre la “e” iniziale implica
una coordinata alla causale (“perchè”) precedente, sicchè occorre
sottintendere tutta una frase, pressappoco così: “e, invece, erano stati
buttati a terra solo sette cavalieri delle schiere cristiane”. In II, 13,
27 per dire l’onnipotenza del Demogòrgone, scrive: “e quel che piace a lui
può di lor fare” mentre esatto è “e quel che piace a lui...”.
?????? Trascuriamo il frequente passaggio dal presente
storico al passato remoto (e peggio), secondo la necessità della metrica
(esempi: I, 7, 11; ivi, 23; ib., 25...). Ed eccoci alla metrica, dove le anomalie sono più di una. La
disarmonia metrica più solita ed urtante dell’Innamorato è quella stessa del
Morgante: lo spostamento della seconda ictazione dell’endecasillabo dalla
sesta alla settima sillaba (anche all’ottava). La disarmonia è
pure spesso riparata solo a metà, con il posizionare in sesta sillaba
una proclitica, come articolo o congiunzione: il lettore non sa se
forzare l’accento sulla proclitica (di regola atona) o spostarsi di nuovo sul
verbo-sostantivo che segue. Vengono così
impedite sia la dolcezza di un vagheggiamento idillico che la forza di un canto
epico. Il fenomeno è così frequente, che quando si incontra una strofa intera
senza una sola forzatura del secondo accento, ci si accorge immediatamente con
sorpresa e sollievo. Così ci sono apparse delle felici isole di scorrevolezza
piacevole le strofe 32-36 di I, 5; la strofa 13 di II, 12; e le strofe quasi
esemplari di I, 5, 27-31 e di II,
2, 38-39, che hanno pochissimi versi scazonti. Rime forzate e stiracchiate:
“il re Carlone” (I, 1, 32 e altrove); Carlo Mano (I, 1, 8 e passim);
l’imperieri (=l’imperatore: I, 1, 33); zoglia (gioia: II, 15, 61).... Versi di dieci sillabe:
I, 7, 45 (“Di fuor del campo manda uno araldo”); I, 8, 28 (“che altra al
mondo mai fu tanto bella”); II, 12, 21 (“Il conte Orlando diceva niente”:
a dir la verità si regolarizza il verso con la dieresi in “ni”ente”: ma
bastava scrivere “non
diceva niente”!); “disarmando e baron; da ogni lato...”; Sinéresi (è il contrario di “iato” e significa
“contrazione di due sillabe in una sola”): in II, 2,38 ve ne sono due in un
solo verso, il che toglie una sillaba allo stesso, che deve essere integrata con
una “epéntesi” (aggiunta) ulteriormente stonata: “A dùe che tenìan
cani e sparavieri”. Altre stonature
metriche e logiche: II, 11, 9 (“E ben che a ponto io non
sappia dir chiaro”: quattro accenti di seguito); II, 11, 15 (“con
l’altra, come io ho detto pur mo’”: squattro accenti di
seguito!); II, 12, 16 (“Gua^rti che non errasti ragionando”: guardati
dall’errare nel parlare”); II,
11, 45: “Segnori, io so che ve meravigliati,| che da meravigliare è ben
ragione, | de questo loco ove seti arrivati,| quando per forza de
incantazi”one| se facea Balisardo transformare,| ch’è quivi occiso e
gettarenlo in mare”; II, 11, 49: “se un cavallier gli può donar pregione,|
che Orlando è nominato, il Cristi”ano”; e si vedano anche I, 4,
25-26-27-28; I, 7, 45; II, 2, 2... Il surrealismo dell’Innamorato.
Dal momento che uno dei motivi ispiratori fondamentali del poema è la magia, il
preternaturale, è ovvio che tutta la cantafavola sia intrisa di surrealismo.
Inutile, perciò, sottolineare ulteriormente la gratuità di tutte le vicende,
che assumono un andamento imprevedibile, perchè al di fuori delle leggi fisiche
più ovvie. Ma questo evadere nel fiabesco è concesso dal lettore come ovvio
scotto da pagare, iniziando a leggere un romanzo, in versi od in prosa. Quello
che però urta e non si riesce a concedergli è la inverosimiglianza
psicologica che pare invece condizione necessaria a far scattare la
eventuale potenza lirica della trama e della sua espressione. Tale
verosimiglianza psicologica si riduce (posto il permesso all’autore di
fantasticare contro le leggi fisiche) alla mancata coerenza dell’azione
nei singoli personaggi con il carattere che l’autore ha fissato (con ogni
arbitrarietà di invenzione) all’inizio della sua entrata in scena. Pochi,
troppo pochi sono i personaggi che assumono una fisionomia interiore distinta e
coerente. L’amletico Astolfo, allegro e presuntuoso, cui non manca un
pizzico di pazzia giovanile e generosa (come si addice, secondo Shakespeare, ad
ogni buon anglosassone) e sempre favorito da una sfacciata fortuna, è forse il
tipo più convincente, pur nell’assurdità delle sue peripezie: è diverso
dagli altri e sempre uguale a se stesso! Altri personaggi un po’ più curati
sono Marfisa, bella, forte e casta fino all’orgoglio (è la sorella di
Rugiero, dal quale discenderanno gli Estensi); e Rodamonte, cafonesco,
sprezzante di uomini e di Dio, orgoglioso e prepotente nella sua forza e
coraggio disumani. La donna ha in sè reminiscenze virgiliane (Camilla), così
come il re di Sarza, Rodamonte, risente di Mezenzio. Gli altri eroi cristiani
(con molti dei pagani) sono intercambiabili senza gravi problemi. Da questo
punto di vista, l’Orlando innamorato sembra uno di quei libri a schede, di cui
si possono rimescolare le pagine,dando differente svolgimento alla trama, ma
senza disturbo per il senso-non senso generale del libro: perchè esso non è
legato da alcuna esigenza di senso. Vediamo qualche esempio: Orlando si
lascia ingannare per la terza volta
dalla pefida Or(r)igille, dopo che già in
due occasioni ne era stato tradito. Tale ingenuità incredibile può essere
spiegato dall’amore di cui il conte è preso per lei? Ammettiamolo pure: ma
l’amore per Angelica, dove va a finire, allora? Si veda II, 3, 60 e II, 11,
16. Altri casi spudorati. Quando non basta magia o altra forza o destrezza a
spiegare un accadimento che ha dell’impossibile, Boiardo si accontenta di
dichiarare che neppur lui sa come si siano svolte le cose. Così Brunello,
ladro prestigiatore, riesce a rubare l’anello incantato ad Angelica, la
spada a Marfisa, il cavallo a Sacripante, spada e corno ad Orlando. Come avrà
fatto? Non domandatelo all’autore: “E ben che a ponto io non sappia dir
chiaro| come passasse il fatto su quel piano,| pur vi concludo senza diceria|
che il ladro tolse il corno e figgì via”: II, 5, 26-48; e II, 11, 1-10. Questo surrealismo deve andar d’accordo con un
iperrealismo di becera popolanità o di bruta volgarità di altre parti. Come
fa? Non domandatelo all’autore: pare che, anche a lui, “basta aver dei fatti
da raccontare” (Manzoni, c. 6). Soltanto che i due estremi non convincono la
mente e, di conseguenza, non commuovono il cuore.
FORTUNA DELL’INNAMORATO E’
stata singolare, nel suo andamento sorprendente. Ci fu un successo immediato del
poema, con una ventina di edizioni fino alla metà del XVI secolo. Intanto
Francesco detto il Cieco da Ferrara (ma, probabilmente, un fiorentino) imitava
il poema scrivendo il Mambriano, che oettenne- esso pure!- scadente come è,
undici edizioni entro il 1509. L’Ariosto poi lo continuò, superando il
maestro di Scandiano, dandoci le tre edizioni dell’Orlando Furioso
(1516-1521-1532). Nello stesso inizio del Millecinquecento l’Innamorato ebbe
il rifacimento in pretta lingua toscana da
parte di Francesco Berni: ed ebbe fortuna anch’esso. Nel Milleseicento tutte queste opere furono coperte
dall’oblio totale. Il secolo XVIII, razionalista, preferì e rimise in
circolazione il testo del Berni, mentre –per la legge degli oppposti- il
romanticismo rilanciò il testo del Boiardo, con l’edizione londinese a cura
di Antonio Panizzi. Ora la sua fama è legata quasi unicamente all’essere il
precursore dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, di cui anzi costituisce
la prima parte di avventure: il “Furioso” inizia infatti là dove finisce
l’Innamorato. Nell’edizione dell’opera omnia, nei Classici Mondadori
(1936) il curatore Angelandrea Zottoli non è neppure lui (come si è visto
dalla citazione) entusiasta del poema. IL
MAGNIFICO LORENZO DE’ MEDICI (1449-1492) LA VITA. Figlio
di Piero e nipote di Cosimo de’ Medici il vecchio, alla morte del padre nel
1469 giunse, appena ventenne, al potere della signoria fiorentina, cui si era
preparato con la partecipazione attiva e intelligente agli affari
politico-amministrativi della città accanto al padre, mentre il fratello
Giuliano si teneva lontano dalle
pubbliche faccende. Fautore convinto della politica di equilibrio in Italia,
conscio della minaccia non solo turca ma anche francese, riuscì a salvaare la
pace, anche quando la congiura dei Pazzi divise l’Italia in due. Ucciso
Giuliano durante la Messa in duomo (e ferito lo stesso Lorenzo) per la congiura
de’Pazzi nel 1478, il popolo insorse contro i nemici dei Medici, appendendo
per ludibrio ad una finestra della signoria l’arcivescovo eletto di Pisa
Francesco Salviati, cui Lorenzo impediva di prender possesso della sede, perchè
suo oppositore in politica. Duecento nemici dei Medici furono tolti di mezzo, ma
il papa (Sisto IV Riario) scomunicò Lorenzo per aver lasciato scatenare la
folla e lanciò l’interdetto sulla città, chiamando poi le altre potenze
italiane a far guerra contro Firenze. Alleato del papa fu solo Ferdinando di
Napoli (detto anche Ferrante), mentre Venezia e Milano stavano con Lorenzo, sia
pure tiepidamente. Poco aiutato dagli alleati, Lorenzo decise di giocare la
carta di un suo personale viaggio a Napoli: riuscì a convincere Ferrante a non
proseguire una guerra assurda, che attentava al dominio dei Medici in Firenze
solo per sostituirvi il potere del nipote del papa, Girolamo Riario. Il successo
della missione a Napoli non fu l’unica opera di pacificazione da lui portata a
termine, chè anche nella guerra per la congiura dei baroni (1485-6) egli fu un
personaggio chiave. Tali successi gli crearono la fama di arbitro (“ago della
della bilancia”, lo dirà il Guicciardini) della vita
politica italiana. La congiura avviò inotre la legalizzazione del potere
mediceo, che fino allora era soltanto tale di fatto. D’altronde Lorenzo sapeva
alternare la mano forte (contro Volterra ribelle, nel 1472, che fu conquistata,
saccheggiata e disonorata dalle truppe mercenarie; e contro i Salviati, come si
è visto per il 1478) con lo splendore della vita cittadina.
Il suo mecenatismo aprì la carriera a Michelangelo e stimolò i lavori
di Sandro Botticelli, di Domenico
Bigordi (il Ghirlandaio), di Giuliano da Sangallo; favorì poeti come Luigi
Pulci e Angelo Ambrogini (il Poliziano), cui si unì alla pari quasi collega;
protesse filosofi come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola; finanziò feste
popolari, specie quelle connesse col secondo carnevale di Firenze, che dalla
Pasqua porta fino alla festa del 24 giugno,
S. Giovanni Battista, patrono della città. A tali feste egli prendeva
parte, imitando e surclassando i verseggiatori popolareschi, onde tener allegra
la gente e far dimenticare la libertà perduta. La sua scomparsa ancorr giovane
(1492, a 43 anni) si pensa abbia facilitato la conquista dell’Italia da parte
degli stranieri. L’AMBIENTE. Per quanto riguarda l’ambiente culturale in
genere, politico etico e sociale in particolare, basterà quanto si è detto
parlando delle varie facce dell’Umanesimo rinascimentale. Qui vogliamo invece
accennare alla atmosfera religiosa in cui fu allevato ed alla formazione
letteraria. Per l’ambiente religioso,
occorre tener presente la presenza della madre e della moglie. La prima,
Lucrezia Tornabuoni, fu all’origine della rottura con Luigi Pulci, quando
diede i segni della sua devianza dalla fede; la seconda, Clarice Orsini, fece
allontanare da casa il Poliziano, quando si accorse che questi iniziava ad
insegnare il latino al figlioletto Giovanni (il futuro Leone X) da Cicerone,
anzichè dal Pater noster, come era tradizione cristiana. Che se il Pulci
introdusse presso Lorenzo l’atmosfera fin troppo allegra che conosciamo, va
tenuto presente che Marsilio Ficino influiva con un insegnamento platonico di
stampo spiritualista eccezionale: non per nulla, dopo il 1470 gli scritti di
Lorenzo si avviano piuttosto verso meditazioni filosofiche e religiose; e, nelle
terzine dantesche della Altercazione,
Marsilio è introdotto a mostrare Dio e la virtù come sorgenti della
vera felicità. Marsilio Ficino rimarrà fedele ai Medici anche durante
l’esilio dei figli di Lorenzo e la rinnovata signoria, auspice il Savonarola.
Ci si può domandare se abbia alla fine prevalso in lui lo spirito
religioso che lo portò a comporre nel 1491 la sacra Rappresentazione
di Giovanni e Paolo (1491) oppure quello dei “compagnacci”, che lo
avevano impegnato, giusto un anno prima, a comporre la Canzone di Bacco. Anche sulla sua norte esistono due versioni:
quella di Pico della Mirandola (presente al letto dell’infermo) che lo vuole
assolto dal Savonarola chiamato al capezzale; e quella di p. Pacifico
Burlamacchi, che lo vorrebbe morto senza assoluzione, per aver negato di
restituire la libertà ai Fiorentini (sebbene la Vita, attribuita al
Burlamacchi, non pare sua; e in ogni caso egli era lucchese nè mai mise piede
in Firenze, sicchè il suo discepolato savonaroliano fu di seconda mano ed egli
non può, perciò, esser preso come storicamente degno di fede). Per la formazione letteraria,
va tenuta presente un tirocinio completo di lingua latina (Virgili-Ovidio),
l’assenza di accostamento del greco e il predominio indiscusso della tradizine
volgare: dai poeti popolari-realisti al Petrarca, dai Dolcestilnovisti a Dante.
Le novelle maliziose della giovinezza sono di impronta boccaccesca. Non va
trascurata la “Raccolta aragonese”, da lui fatta approntare nel 1476-7 (fu
il Poliziano a concretare il suggerimento) per Federico, il figlio di Ferdinando
d’Aragona. Dopo il “Certame coronario” del 1441, questa antologia segnò
un’altra tappa fondamentale per il rilancio della lingua volgare rispetto al
latino. Tutti gli scritti del Magnifico sono comunque in volgare e l’influsso
rinascimentale –sicuramente recepito- si lascia sorprendere solo in alcune
composizioni, sentendosi egli più vicino al realismo dei poeti giocosi e
popolareschi che non ai raffinati discepoli dell’Umanesimo
contempoeraneo classicheggiante. LA PERSONALITA’. Dal ritratto incluso da Domenico Ghirlandaio
in un affresco della chiesa di Santa Trìnita a Firenze, le fattezze di Lorenzo
non risultano amroniose: robusto, ossuto, angoloso, con un viso poco attraente:
ma l’cchio è vivido, intelligente. Il temperamento che vi si può intuire è
quello di una persona attiva, dinamica, intraprendente, geniale nella vita
pratica, nell’operosità. Il Magnifico sottrae l’iniziativa agli
interlocutori od avversari inducendoli o costringendoli alla sequela: in genere
per la pace. Blandisce il popolo con feste e spettacoli, rendendo accetto il suo
governo, nonostante la soppressione della libertà. Egli dà il tono di “belle
époque” al suo periodo di governo, alla società fiorentina. In una simile
individualità, la poesia- opus contemplativum maximum, se si prescinde dalla
sfera religiosa- non potrà occupare il posto assorbente come nella vita di un
professionista, ma solo quello di hobby, di relax, di riempitivo marginale in
un’esistenza sostanzialmente attivistica, politica ed estroversa. Definirlo più
specificatamente riesce difficile: un passionato con una forte carica emotiva? LE OPERE . Si lasciano raccogliere in tre gruppi, diversi per
i motivi ispiratori ed il tono lirico: Scritti giocosi; Scritti d’amore;
Scritti spirituali.[65]
Scritti
giocosi: Nencia da Barberino (dubbi sulla autenticità)
Caccia
col falcone (od Uccellagione di starne)
Simposio
(ovvero I Beoni)
Canti
carnascialeschi (Canzona di Bacco)
Novelle
(in prosa: Giacoppo| Ginevra: questa non è finita).
Scritti
d’amore: Rime
(sono 122, tra cui 109 sonetti, 8 canzoni, 4 sestine, 1 ballata)
Comento
(opera mista di prose e di versi: vi sono 41 sonetti diversi dai 109 delle Rime,
con parti in prosa che li commentano da vari punti di vista: allegorico, morale,
estetico...)
Egloghe: Corinto| Apollo e Pan (questa seconda non è finita:
terzine dantesche) Ambra (poemetto in ottave, eziologico, come il Ninfale
fiesolano: vuol spiegare l’origine della rupe su cui sarà costruita la villa
medicea di Poggio a Caiano: Ambra è la ninfa, ritrosa al dio del fiume Ombrone)
Amori
di Venere e Marte: terzine sugli amori adulteri delle due divinità
pagane, che il Sole svela a Vulcano.
Selve
d’amore (sono due composizioni di 32 e 142 ottave rispettivamente:
cantano la bellezza e i cori di un gruppo di donne, fra le quali vi è anche
quella amata dal poeta; la partenza della donna del cuore, con rievocazioni di
incontri e speranze di rivederla. I versi sono tanto insolitamente scorrevoli
quanto freddi e poeticamente insignificanti).
Scritti
spirituali. Laudi
(nove scritti religiosi, composti col metro vario e la musica di ballate
profane)
Capitoli: sono sette composizioni in terzine di
argomento religioso, consolatorio, in forma di preghiera.
Altercazione:
dialogo di sei parti o capitoli (terzine dantesche) sul problema della vera
felicità, che il Magnifico ripone nella vita semplice della campagna; e il
pastore, nella vita fastosa delle città e delle corti, ma che
il Ficino, ultimo interlocutore, invita a cercare
nella virtù e in Dio.
Sonetti (due) a Ginevra de’ Benci, per confortarla a
perseverare nella vita ascetica intrapresa. Rapprsentazione
di San Giovanni e Paolo: dramma sacro in ottave, che mette in scena
avvenimenti della Chiesa nel secolo IV, dal martirio di S. Agnese alla
conversione di Costantino imperatore..sino alla morte di Giuliano l’apostata
(363). LA POESIA. 1)
Giudizio generale. La produzione di Lorenzo de’Medici
presenta un certo numero di versi che la rendono più significativa,
esteticamente superiore a quella del Pulci e del Boiardo. Poeta talora più che
sufficiente, diffonde un’aura artistica che fa rileggere alcune sue
composizioni e induce il desiderio di conoscerne a memoria qualche passo.
Indichiamo qui quelle che ci sembrano le cose migliori, ricordando anzitutto che
suo capolavoro può essere considerato
La
canzone di Bacco
(“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia”). [66] Tra
gli scritti giocosi: Nencia da Barberino (“Ardo d’amore e convienmi
cantare”): se ne discute la paternità, data la esistenza di molte redazioni
di dimensioni molto diverse.
Caccia
col falcone (“Era già rosso tutto l’ori”ente”)
Canti
carnascialeschi (Canzona
di Bacco o Trionfo di Bacco e Arianna) Tra gli scritti d’amore: Rime,
sonetto 58 (“Bastava avermi tolto libertade”)
Comento, sonetto 33 (“Ove madonna volge gli occhi belli”)
Egloghe:
Apollo e Pan (anche se non finita) Tra gli scritti spirituali: Altercazione
(capitolo
I: “Da un più dolce pensier tirato e scorto”); capitolo II: “Eran gli
orecchi a sue parole intesi”); capitolo V (“Era il mio cuor sì di dolcezza
pieno”); capitolo VI (O venerando, immenso, eterno lume”).
Laudi: la VI (“O Dio, o sommo Bene, or come fai| che Te sol
cerco e non ti trovo mai?”; e la VIII
(“O peccator, io sono Iddio eterno”)
Sonetti
a G. de’ Benci: il
primo (“Segui, anima devota, quel fervore”
Rapprsentazione di san Giovanni e Paolo (tutta) I limiti della poesia del Mgnifico discendono anche
dalla improvvisazione e impazienza del rifinire (tutti i critici lo rilevano),
ma prima ancora dalla sua personalità: tanto è vero che là ove egli dedicò
più tempo per una rifinitura (nelle Selve
ed in molti scritti spirituali), la caratura
lirica decresce con il migliorare della scorrevolezza dei versi e della
proprietà nella espressione. LA
POESIA: 2. I
motivi ispiratori
I tre gruppi in cui sono state distinte le poesie del Magnifico Lorenzo de’
Medici sono in realtà stabiliti in base ai loro motivi ispiratori di fondo: l’amore,
lo scherzo, i problemi etico-religiosi.
L’Amore: La
donna amata da Lorenzo aveva un nome: Lucrezia Donati. Essendo essa già
fidanzata con Niccolò Ardinghelli, può essersi trattato di un affetto del tipo
dolcestinovistico della donna amata
da lontano (Beatrice per Dante) o inutilmente desiderata da vicno (Laura per
Petrarca). Nei suoi versi, Lorenzo esprime sia l’affetto idealisticamente puro
ed elevante sia quello sensualmente impudente: quello, nelle Rime e nel Comento;
questo, nei canti carnascialeschi. Dante
nella Vita Nova ed i Dolcestilnovisti sono il modello per il primo tipo; la
poesia realistica e popolaresca, per i secondi.. Ecco ad esempio i due sonetti
citati come i migliori (Rime, 58; Comento, 33). Nei canti carnascialeschi si
insinuano invece atteggiamenti boccacceschi, realismo equivoco ed erotico: così
come nelle due novelle in prosa. Questo secondo tipo di composizioni
può essere assegnate tanto al motivo ispiratore amoroso quanto a quello
scherzoso.
Lo scherzo e la caricatura.Volgere
al riso situazionie, canzonare garbatamente persone amiche (non escludendo se
stesso); accennare o sottolineare comportamenti maldestri, goffi o vicende
sfortunate o casi comunque ridicoli, tali sono i motivi ispiratori della Caccia col
falcone, del Simposio, della Nencia
da Barberino, e di molte poesie composte per il carnevale fiorentino. Nella Caccia,
oggetto del riso è la psicologia dei vari cacciatori (ognuno ha bene qualche
piccolo difetto, diamine!) o le disavventure della giornata (due falchi si
azzuffano fra loro, anzichè assalire la preda: immaginarsi la reazione del
padrone di quello che ha la peggio!). Nel Simposio vengono accusati bonariamente
come “Beoni” impenitenti molti personaggi della città: fra essi, il piovano
Arlotto. Nella Nencia viene messa in burletta sia la bellezza della pastora (non
tutta... classica: che i denti siano più bianchi di quelli del cavallo, passi:
ma che la Nencia ne abbia “da
ogni lato più di venti”, via! è un po’ troppo!);
sia l’innamoramento del povero contadino Vallera che, poveretto, dato
il gran sentimento, stravede e straparla... Ma i canti carnascialeschi introducono nell’invito
a godere, una di malinconia che, pur isolata, impronta però i versi più belli
del poeta: “Quantè bella giovinezza| che si fugge tuttavia!| Chi vuol esser
lieto, sia:| di doman non v’è certezza”. Anche da questa constatazione
sulla precarietà dell’umano vivere, nascono le meditazioni spirituali della
poesia etico-religiosa di Lorenzo.
La religione e i problemi dello spirito.
Dal pensiero della morte, duqnue, alla meditazione sul senso della vita. Ma l’Altercazione si ampia alla esigenza della felicità, che è tormento
dell’uomo anche a prescindere dall’ombra del tramonto. Nel dialogo a tre,
Marsilio Ficino ha l’ultima parola, proponendo la nobilitazione della vita
nella virtù e la sua sublimazione nello eterno godimento di Dio. E la ricerca
di Dio si esprime sinceramente nella Laude
sesta (“O Dio, o sommo Bene, or come fai| che Te sol cerco e non ti trovo
mai?”); porta ad un senso vivo del peccato, al pentimento (“O peccatore, io
sono Iddio eterno”: Laude ottava);
ascende con le
esortazioni alla perseveranza nel sonetto per Ginevra de’ Benci che
entra nella vita religiosa (“Segui, anima devota quel fervore”) e si dilata
nelle candide ottave su fatti e leggende cristiane, dal martirio di Agnese alla
morte dell’imperatore Giuliano, con la libertà definitiva della Chiesa (sacra
Rappresentazione di san Giovanni e Paolo).
Si è già detto che la ispirazione poetica ed i
traguardi definitivi del pensiero nel Magnifico non hanno un ordine di
evoluzione coerente e ben definita. Se la canzone di Bacco è del 1490, non si
può dedurre che la sacra rappresentazione dell’anno successivo ne sia un
superamento: indica soltanto che l’animo di Lorenzo era aperto alle varie
dimensioni della vita e pronto a
riviverle tutte estemporaneamente, con una sincerità di adesione che era la
virtù e il limite della sua intelligenza nativa e della formazione acquisita
dalla volontà. Fu anche lui (come si dice di Leon Battista Alberti e di
Leonardo da Vinci) un “Uomo dalle molte anime”, che solo
la morte cosciente e cristianamente preparata ridusse ad armonia ed unità.
Sarebbe più edificante sorprenderne un’ascensione più uniforme e
trasparente, aver a che fare con un uomo più ideale: ma Lorenzo era fatto così.[67] LA POESIA. 3. I toni lirici. Se il Magnifico era uomo anzitutto di azione e di
vita pubblica, si intuirà facilmente che anche la sua vena poetica abbia
frequentato preferibilmente le zone cinestesiche e vivaci della sensibilità, le
fasce mosse e drammatiche dello spettro emotivo, i registri danteschi e
risentiti della musicalità poetica.
E tale appare bene la più solita versificazione. Ma se egli era, poi, un animo
versatile e disponibile alla
tematica del momento, si potrà comprendere che interferenze di natura (possiamo
dire) petrarchesca si faranno presenti, interferendo e dissolvendo spesso la più
genuina inclinazione. E’ del tutto probabile che egli non si conoscesse fino a
questo punto, anche perchè non aveva una introspezione psicologica molto
profonda; ma anche se si fosse concentrato su temi più affini alla sua genialità
artistica, dobbiamo temere che non gli sarebbe riuscita una produzione di valore
molto superiore. Difatti anche quando il tema è movimentato e brioso (La
caccia| Il Simposio), la espressione di Lorenzo persiste nella mediocrità..
D’altronde i grandi poeti finiscono per scoprire d’intuito o per essere
attratti spontaneamente verso un tema congeniale alle proprie doti, facendone
strumento di sollecitazione ottimale alla propria sfera emozionale; e di
espressione adeguata agli stati d’animo così istigati. E’ per questa
plasticità polivalente che il Magnifico ha poesie valide in ogni
tonalità lirica, ma tutte pervicacemente mediocri. Quantitativamente, il
tono lirico che rimane più impresso nella memoria, associato al nome del
Magnifico, è quello scherzoso: della Caccia, del Simposio, dei canti
carnascialeschi. E uno di questi, la
Canzona di Bacco, è da tutti ritenuto il componimento con maggior spessore
lirico, che nel ritornello attinge il momento di maggior intensità ed anche
nelle strofe è superiore alla solita sufficienza. Un breve cenno ad ognuna delle poesie valide per
cercare di leggerne il registro lirico. Tra le Rime, il sonetto 58
alterna elegia e tragedia (dramma triste): la donna, già amata dal duca
di Calabria, protesta per l’abbandono. Il sonetto 33 del Comento è
idillico (armonia di bellezze naturali con la bellezza della donna amata). Apollo
e Pan ha brani idillici nella prima parte; il finale si distribuisce fra
elegia e dramma (Venere viene rimproverata per la morte di Dafni). La Nencia
da Barberino è comico-scherzoso, con versi idillici puri, affioranti qua e
là. La caccia col falcone: è tutto drammatico-comico (vivace e brioso
all’inizio, finisce per declinare nel comico-grottesco: alla rabbia per il
falcone ucciso dal compagno, si mescola il riso
dell’errore: il falcone vincitore è proprio quello che si credeva
perdente e il cacciatore già insolente risulta ora schernito). CANZONA DI BACCO Trionfo di Bacco e Arianna): è
dunque il capolavoro: le strofe tentano
addirittura l’epopea della festosità, mescolandovi idillio vibrante, allegria
vivace; il ritornello invece è
attediato dalla malinconia per la coscienza
della fugacità della giovinezza e della vita. Dietro il carnevale di Lorenzo e
dei suoi “compagnacci” sta in agguto il bruciamento delle vanità del
Savonarola ( se non si vuol vedervi addirittura un lontano prodromo al “Sabato
del villagio” leopardiano: “Garzoncello scherzoso...”). L’Altercazione
presenta, nella prima parte del primo capitolo, un lieve idillio, pel senso del
riposo campestre diffuso dall’idealizzazione della vita georgica fatta dal
poeta; nella parte ultima dello stesso capitolo iniziale succede invece un
elegia umbratile. Il capitolo secondo tenta tonalità maggiori (epopea e
dramma), ma sempre con risultati modesti. Dopo il III e IV capitoli, aridi, il
quinto ripropone l’idillio in simbiosi con la epopea (estasi), come gaudio
esultante per la verità posseduta ed amata: ma l’enfasi sta in agguato e
corrode la purezza della liricità complessa. Il capitolo VI avvicenda, in una
preghiera a Dio, epopea, dramma, enfasi, nel tentativo di rievocare
l’atmosfera del Paradiso dantesco, per esprimere il senso della miseria umana,
della misericordia di Dio, della sua onnipotenza paterna. Ma, dei versi del
Paradiso, si sentono di più i
limiti, il senso dello sforzo, i conati di qualche momento faticoso e meno
felice, che non le virtù delle parti alte ed intense. Delle Laudi, la
sesta esprime sofferenza per la impossibilità di sperimentare Dio (dramma,
tristezza insofferente); la ottava mescola il dramma del rimprovero e della
minaccia nei primi tre versi di ogni strofa, con la elegia dolce, dimessa
del’ultimo. Dei due sonetti per Ginevra
de’Benci, il primo è quello liricamente meno smorto: ha un tono leggermente
drammatico, con affioranti tentazioni
idilliche. La Rappresentazione di san Giovanni e Paolo versifica accenni
di dramma e di epopea. Si tratta di piccole schegge poetiche. Non ci si lasci
illudere dal candore della messinscena
e del linguaggio (è stata scritta per la recitazione da parte di adolescenti):
l’idillio e la commozione che lo stile ingenuo suggerisce, rimane una velleità
non realizzata: di quei sentimenti ci sono le situazioni, i motivi ispiratori,
persino qualche termine o singole
parole, ma non la traduzione in espressioni, in frasi e periodi e strofe e
musicalità convincenti. LA POESIA. 4. Note stilistiche. Anzitutto
rileviamo alcuni dati di fatto; poi ci porremo il problema della classicità e|o
popolarità del Magnifico. Vi sono troppi più sostantivi che aggettivi,
troppi più verbi che avverbi nelle sue composizioni. Più sostanza, dunque, che
accidenti; più idee che impressioni? Non necessariamente. In realtà i
sostantivi ed i verbi prevalenti denunciano solo una disponibilità maggiore
alle emozioni drammatiche (epopea|tragedia) che non a quelle contemplative
(idillio|elegia). In pratica l’analisi del vocabolario rivela piuttosto un
uomo del concreto e del dinamismo, della vita attiva e del realismo: egli non
era propriamente nè un filosofo nè uno psicologo. E’ un poeta che si ispira
alla vita vissuta: cronaca di campagna o di città, amore, caccia, vino,
paesaggi... L’Altercazione è filosofia esistenziale, cioè riflessione su un
problema che tocca la sfera emotiva, la ricerca della felicità: una filosofia
del cuore più che della mente, un platoneggiare romantico, non un tomistizzare
razionale. La metrica prsenta ancora troppo frequenti accenti
sulla 4-7-10,
che rallentano, inacerbiscono l’endecasillabo. Sono una eccezione le Selve,
con ictazione regolare, giambica su 4-6-10. La musicalità tende alla energia,
allo stridore, alla dissonanza che si sposa meglio con il dramma (quando non si
arena nella scabrosità della versificazione arida, impoetica). Predominano le
vocali larghe (a|o) e le consonanti forti (esplosive o labiali, gutturali,
dentali), che conferiscono movimento e non
estasi, nerbo e non dolcezza. La forza diventa dissona nella combinazione
del gruppo consonantico R+ affricative (sibilanti s, v, f), dentali o gutturali
(str| spr| sgr| ecc.), col risultato di un senso di ruvidezza. Tale tripletta è
la spia più acuta della psicologia complessiva e (in particolare) di emotività
impaziente, impulsiva, collerica, anche se vivace, esuberante, dinamica del
Magnifico. Anima non del tutto serena, quindi (come si
addice a temperamento passionato): vi è una striatura nervosa che
incrina la fisiologia della sua mente, il dinamismo del suo spirito. Si vedano
la caccia col falcone, La Nencia, Bacco ed Arianna... Qui riportiamo, invece, il
sonetto 41, scritto mentre si recava in Maremma, seguendo il litorale toscano:
“Co’ passi sparti e colla mente vaga,| cercando vo per ogni aspro
sentiere| l’abitazion dellle silvestre fiere,| presso ove il mar Tirren
bagna ed allaga;|| sol per provar se si quieta ed appaga| l’alma per cose
nove, qual vedere| sempre li pare e innanzi agli occhi avere,| quegli
occhi che li fèr l’antica piaga.|| Se da sinistra in qualche oscuro
speco| guardo, la veggio lì, tra fronde e fronde,| nuova Di”ana che ogni
oscuro allieti;|| a destra rimirando le salse onde,| parmi che tolto abbi
il suo imperio a Teti:| così sempre è mia dolce pena meco”. Come si
indovinerà facilmente, le due Selve sono
eccezione anche a questo tipo di armonizzazione scabrosa: purtroppo, senza
risultati lirici significativi. CONCLUSIONE.
Lorenzo de’ Medici fu poeta popolareggiante (realismo, spontaneità,
concretezza, asprezza, dissonanza, persino brutalità) o poeta classico (eleganza,
studio,raffinatezza, armonia, spiritualismo)? La domanda potrebbe
essere chiarita da un paragone illustre ma caro al fiorentino Lorenzo: la prima
cantica della Commedia di Dante è poesia classica? la risposta è negativa:
classico è il Paradiso, la terza cantica, mentre l’Inferno è realistico (è
commedia, non tragedia). Ma nel Magnifico non si trova solo versificazione
“infernale”, ma anche “paradisiaca”. Allora la risposta
sta nel negare la disgiuntiva (o popolare|o classico) e nel proporre una
doppia copulativa (e| e). Nella sua produzione, infatti, stanno I
Beoni (Simposio) e le Selve, La caccia
e l’Altercazione, la Canzona di Bacco ed i Sonetti
a Ginevra de’ Benci, i Canti
carnascialeschi e i sonetti del Comento.
Non v’è dubbio che la cura degli scritti spiritualistici e di quelli
d’amore prossimi al Dolcestilnovo ed alla Vita nova rivelino una cura
stilistica che li assegna alla sfera classica, pur nella
minor perfezione del risultato finale: non v’è dubbio che vi si nota
una ascesa a temi universali ed ideali, una cura formale notevole, una chiarezza
di visione ed uno sforzo di armonizzazione della musicalità verbale che
avvicinano queste composiizioni alla terza cantica di Dante. Almeno per
l’altezza dei Motivi ispiratori e la tecnica stilistica e nonostante la
modestia dei risultati lirici. Ma, a questo punto, la domanda riaffiora in forma più
stringente: la classicità del Magnifico ha quel carattere particolare che profuma di umanesimo e di
rinascimentalità? La risposta non lascia dubbi. Il Magnifico è rinascimentale, perchè (
pur non avendo lasciato alcun verso o prosa in lingua latina) nelle due Egloghe
(Corinto| Apollo e Pan) e negli Amori di
Venere e Marte egli affronta decisamente tematiche di
ispirazione greco-romana, dimostrando una conoscenza non superficiale
della mitologia.. E si noti che la “incompiuta” seconda egloga non è da
disprezzarsi: Lorenzo, allenatosi alle terzine dantesche ed alla tematica
non poco complicata delle favole
religiose antiche, vi raggiunge una patina lirica
sufficiente. Non è, questa, nè il Magnifico letterato più solito e più
riuscito, pure le non molte cose che egli ha tentato lasciano sorpresi per la
padronanza della materia che egli rivela e per la capacità di far trasparire in
Apollo e Pan dei riflessi emozionali al di là della sicurezza nei particolari
mitici e nella versificazione non facile della terzina. Inoltre il Magnifico è
rinascimentale per l’impegno ad
elevare la propria produzione in volgare ai livelli
di nobiltà, dignità, regolarità propria delle opere che si prefiggano
la imitazione di modelli esemplari: solo che, pur
non ignorando il Petrarca ed il Boccaccio, egli tiene fede al
troppo più grande Dante. Così, mentre precorre le teorie del Bembo e la
pratica del Rinascimento nel Millecinquecento, con l’aspirare ad una
classicizzazione del volgare, egli rivela un gusto ed un senso critico-estetico
di gran lunga superiori alla intelligenza media dei letterati cinquecenteschi,
devoti ai due minori del Trecento, perchè incapaci di comprendere (non parliamo
di imitare) la sublime altezza del poeta primo e sovrano di ogni letteratura. [68] III)
SCRITTORI DI PIENA CLASSICITA’ RINASCIMENTALE LEON
BATTISTA ALBERTI
(1404-1472) LA VITA
E LE OPERE Nasce
a Genova nel 1404, figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, fiorentino in esilio.
Ebbe a soffrire da parte di parenti, che lo volevano avviato alla mercatura,
mentre studiava a Bologna ed a Padova fra difficoltà di salute e di danaro.
Laureatosi in diritto canonico, entrò nell’ordine ecclesiastico,
mettendosi al servizio della Chiesa come scrittore ed artista, mentre a
Firenze veniva tolto il bando contro la sua famiglia (1428). Uomo dalle molte
anime, fu artista della parola (letterato) e della costruzione (architetto).
Conosceva bene gli autori latini e si dedicò anche allo studio del greco (col
Filelfo). Ma ben più garnde egli fu come ideatore di strutture architettoniche,
in cui ebbe presente gli antichi, ma con una capacità d’inventiva geniale. Lo
testimoniano il tempio malatestiano di Rimini (rifacimento della chiesa di San
Francesco), la basilica di S. Andrea a Padova (che sarà ispiratrice al Vignola
per la chiesa del Gesù a Roma), il palazzo Rucellai a Firenze, la facciata di
S. Maria Novella, il campanile del duomo di Ferrara... Ma egli si è reso
benemerito anche come teorico dell’arte figurativa,
per i trattati sulla architettura (in latino) e sulla scultura e pittura (in
volgare). Fu studioso di questioni matematiche (vi si dedicò dal 1428) , fu
musico, fu archeologo, fu indagatore appassionato di problemi filosofici
riguardanti l’uomo (il fine e la felicità, la morale e la libertà, la
famiglia e la vita pubblica...). Nel 1441 organizzò a Firenze il certame
coronario, cioè una gara di versi in volgare sul tema della vera amicizia,
proprio per rilanciare la stima e
l’interesse per la lingua fiorentina.
Notevole la sua confidenza col latino, ma più importanti le sue opere in
volgare. Ecco un panorama della sua vasta produzione.
Opere latine.
De commodis litterarum atque incommodis.
Intercoenales:
sono dialoghi (conviviali: a cena) per lo più; dei 17 a noi pervenuti, diamo
alcuni titoli significativi: Virtus|
Felicitas| Nummus (il danaro)|
Defunctus| Religio| Fatum et fortuna| Pupillus... Son stati scritti in
gioventù.
Momus:
(scritto fr ail 1430 e il 1450): è un romanzo mitologico-allegorico, che ha
come sottotitolo “De principe Gelasto”.
Caronte si rifiuta di trasportare all’altra sponda Gelasto, erudito che non ha
saputo far servire il sapere al ben vivere.
Amatoria: opuscoli d’amore (Amator,
Deifira, Ecatonfilea)
Philodoxeos:
commedia giovanile (1424?) che fa preferire, alla giovane Doxa, corteggiata ed
ambita in sposa, l’uomo saggio all’uomo fortunato. Opere in volgare: Della
tranquillità d’animo (1439)
Teogenio
(invito a disprezzare i beni terreni e ad attendere alla virtù, non soggetta al
variare della fortuna)
Della famiglia: è il capolavoro delle opere in volgare; scritta
fra il 1437 e il 1441, è in 4 libri che trattano dela educazione dei
figli, dell’amore e del matrimonio, della economia familiare, dell’amicizia
(quest’ultimo libro aggiunto in occasione del “certame coronario”, nel
1442).
De iciarchia (governo della famiglia: solo il titolo è in greco): è
opera del 1470 e tratta in tre libri sul
modo migliore per reggere una famiglia e lo stato, con una autorità basata
sulla superiorità intellettuale e morale, non su altri fattori di forza bruta,
economica, ecc. IL PENSIERO ED I MOTIVI ISPIRATORI.
Ci interessano anche le opere latine, per avere una sintesi meno incompleta del
pensiero dell’Alberti, che occupa una posizione particolare nel quadro
dell’umanesimo. Infatti egli è il più tormentato fra i pochi pessimisti del
Rinascimento quattrocentesco e presenta una problematica che è vicina a quella
esistenzialistica, quella, cioè, del divario radicale fra esigenze innate
all’uomo e realtà concreta della vita. Una tale
profondità della sua prospettiva di riflessione
fa perdonare al grande artista il
variare delle sue proposte di soluzione. Egli non è propriamente un filosofo,
ma uno psicologo: il suo ragionare si concentra sull’uomo: il suo è un pensiero antropologico, esistenziale:
la ragionevolezza della vita, la libertà dell’uomo, i rapporti con
l’ambiente e le forze che si scatenano attorno a lui. Ebbene solo le opere in
volgare presentano una chiara visione ottimistica, la convinzione cioè che la
“virtù umana” è in grado di far fronte alle sfide dell’ambiente,
all’avversità ed alla fortuna. Invece, nelle opere latine egli non trova
risposte univoche: momenti di scetticismo e di fiducia si alternano
incoerentemente. Vi si trova persino un pizzico di cinismo imprestato da
Luciano, alla cui visione
scanzonata e irridente, perchè delusa, si ispirano gli Intercoenales
e il Momus. Ecco il problema primo: quello religioso. Da una parte egli spende la vita intera a servizio della Chiesa
(fu membro del clero, anche se non
sacerdote; e fu “abbreviatore” presso la curia romana) e parla di Dio in
modo che, normalmente, non lascia supporre una concezione diversa da quella
cristiana. Ma vi sono, poi, espressioni che
possono far sospettare un pensiero
differente, a cominciare dalla questione del peccato originale. Quando nel
dialogo egli
chiude i singoli libri “A Dio (siano rese) grazie e lodi”; oppure, nel primo
libro, afferma: “Et chi non teme Dio, chi nell’animo suo àve spenta la
religione, questo in tucto si può riputare cattivo”, sotto la veste
latineggiante di un umanista potrebbe sospettare la persistenza della fede
imperterrita di Dante, di Dino Compagni o di Giovanni Villani. Forse non è così.
Nel dialogo Religio, si nega
l’utilità della preghiera, avendo Dio stabilito un ordine immutabile fin
dall’eternità, che le nostre preghiere non possono cambiare: l’uomo è
quello che vuol essere; la virtù non viene dall’esterno e diventa virtuoso
che virtuoso vuol diventare.[69]
La posizione mentale è così contrastante con tutta la dottrina e la prassi
cristiana, che il lettore si mette allora in sospetto che il processo di
riduzione della
fede sia molto più
esteso nello scrittore. A pensare
così induce anche il fatto che l’Alberti
abitualmente si esprime in
termini di religiosità generica, secondo una religione puramente naturale. Che
egli precorra implicitamente l’uomo illuministico, perchè non si appella alle verità
della rivelazione (Trinità delle Persone divine; necessità della
redenzione per una vita moralmente ìntegra; la Chiesa, istitutita da Cristo
come roccia vicaria , come via inevitabile per giungere a
Lui e, quindi, alla salvezza)? Francesco De Sanctis lo afferma. Certo che
più un pensatore era acuto, più era soggetto
a passare dall’incompletezza inconscia
del cristianesimo rinascimentale (oblio del peccato originale) alla
presa di posizione esplicita
sulla autosufficienza dell’uomo e
sulla superfluità della Redenzione e della preghiera: a ridurre, cioè, il
cristianesimo alla religione puramente
razionale, quale il deismo illuministico proclamerà apertamente. Se Lorenzo
Valla si avvicina a simili tesi nel campo della vita morale ( preoccupato del
rapporto fra piacere e felicità), l’Alberti ( pensatore dilettante come
quello, ma molto più serio e profondo) vi si sente attratto dalle questioni più
propriamente teoretiche. Che vi sia
approdato sicuramente, è dubbio. Comunque, va ribadito: la ribellione di
Lutero, costringendo la Chiesa a riprendere coscienza della colpa originale e
delle sue conseguenze funeste, ha
rimandato di tre secoli l’approdare
del Rinascimento, illusoriamente
cristiano, nella religione russoiana. Di fronte a questo atteggiamento ambiguo, risultano
meno significative le puntate
anticlericali delle opere giovanili, che probabilmente non distinguevano fra
persona e persona e tendevano a generalizzare, quindi, la corruzione del clero.
Comunque può dare un’idea dello spirito caustico e sardonico dei suoi scritti
latini, il sapere che nel dialogo Nummus
(Il denaro) egli si congratula con il clero, perchè ha mantenuto il giuramento
fatto nel tempio di Apollo di esser fedele alla somma divinità: che, però,
finisce appunto per essere il danaro. Circa il problema antropologico
(pensiero sull’uomo), l’Alberti muove dal dualismo di anima e corpo:
ulteriormente egli si interroga circa il bene ed il male, la virtù e il vizio,
il dominio di se stessi, l’amabilità, la socialità,la possibilità o meno
della felicità per l’uomo sulla terra; il rapporto interpersonale fra
parenti, fra amici, ma soprattutto all’interno della famiglia, fra i coniugi e
coi figli e, nell’ambito dello stato, fra cittadini e autorità; il governo
dei beni economici e le virtù in genere necessarie a guidare la casa o la
comunità civile, nel giusto mezzo fra avarizia e prodigalità fra arbitrio e
trascuratezza. Di tutte le questioni, etico-socio-economiche, quella che è al
centro delle sue preoccupazioni rimane la capacità o meno dell’uomo a
costruire la vita nel successo o almeno nella serenità dello spirito,
nonostante le circostanze ambientali o comunque da noi indipendenti. E’ il
problema tra fortuna e virtù, tra senso razionale della vita e casualità: il
percorso della vita è determinato dal libero volere dell’uomo o da fattori
esterni alla sua libertà? La soluzione non è univoca nel corso dei suoi anni,
nelle diverse sue opere. La morte
del padre quando egli era diciassettenne, le tribulazioni per i dissensi coi
parenti, le difficoltà economiche, la malferma salute segnarono il suo animo
giovanile, lasciandolo disorientato sulla condizione dell’uomo nei confronti
della fortuna. Nelle operette latine prevale
il pessimismo: “anche Giove ha paura della Fortuna; ed alla Virtù, esclusa
dalla Terra e dal Cielo, non resta se non nascondersi, finchè la Fortuna non
cessi di perseguitarla...il che non vuol dire che dovrà star nascosta in
eterno” (Intercoenales: Virtus).
Ma già in uno dei più tardivi Intercoenales (Defunctus)
prevale la convinzione della capacità per la Virtù ad infrangere il potere
della Fortuna. Della Famiglia afferma
decisamente “Tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette” (Proemio).
L’equilibrio è raggiunto nel Teogenio (del 1442), dove si distingue
tra beni esterni (soggetti alla Fortuna, ma da disprezzare) e quelli
interiori (come la virtù: questi sono in potere dell’uomo). Una cartteristica dell’Umanesimo dell’Alberti è
l’attivismo. D’accordo che il principio è già esaltato dal Salutati
(contro gli ideali intimistici del maestro Petrarca) e da gran parte dei
rinascimentali del secolo XV. Ma in lui tale motivo non solo ritorna molto più
insistentemente (non è relegato ad una opera soltanto), ma assume svolgimenti
di portata pedagogica. Non si tratta della opposizione tra vita monacale e vita
civile, ma di una esaltazione dell’ “exercitio” come principio di crescita
interiore e fisica. Intanto,
la sua convinzione che la “contemplazione” , il ritiro, lo studio non sono
fine a se stessi, ma sono strumenti che devono preparare all’azione per
riuscire utili all’umanità attraverso il lavoro, la prassi, l’esercizio
della volontà, giunge a far condannare il principe Gelasto, che ha sprecato la
sua vita in studi inutili al “bene beateque vivere” della umanità (nel Momus,
Caronte si rifiuta di traghettarlo
sull’altra riva del fiume Acheronte, nel regno dei morti).[70] Corollario di tale concezione etico-psicologica è,
dunque, la
concezione pedagogica, cioè educativa. Il problema della formazione dei figli è vivissimo
in Alberti e non solo nell’operetta sulla Famiglia. Non solo l’exercitio vi
ha gran parte, ma vi è qualcosa che va al di là della visione stessa del
Guarino e di Vittorino da Feltre: occorre coinvolgere l’educando nell’opera
di formazione. La raccomandazione ad allenare anche il corpo alla fatica, allo
sforzo, all’esercitazione con animali ed armi diventa un particolare in un
orizzonte ben più vasto e sorprendente: rendere il ragazzo cooperatore e, in
qualche misura, protagonista dell’opera educativa. Non si
deve credere per questo che gli studi propriamente detti passino al secondo
posto. Anzi, da buon umanista, egli punta sugli studi letterari e storici come a
sorgente di illuminazione per la mente e di guida per la vita: “Et voi,
giovani, quanto fate, date molta opera agli studi delle lectere, siate assidui,
piacciavi conoscere le cose passate e degne di memoria; giòvivi comprendere e
buoni et utilissimi ricordi; gustate el nutrirvi l’ingegno di leggiadre
sententie; dilèctivi ornarvi l’animo di splendidissimi costumi; cercate
nell’uso civile abondare di meravigliose gentilezze; studiate conoscere le
cose umane et divine, quali con intera ragione sono accomandate alle lectere.
Non è sì soave, sì consonante coniunctione di voci et canti che possa
aguagliarsi alla concinnità et elegantia d’uno verso di Omero, di Virgilio o
di qualunque degli altri optimi poeti. Non è sì dilectoso nè sì fiorito
spatio alcuno, quale in sè tanto sia ameno et grato quanto la oratione di
Demostene, o di Tulio, o Livio, Xenofonte, o degli altri simili soavi et da ogni
parte perfectissimi oratori: niuna è sì premiata fatica, se fatica si chiama
piu tosto che spasso e ricreamento d’animo et d’intellecto, quanto quella
del leggere et rivedere buone cose assai: tu n’esci abundante de’exempli,
copioso di sententie, ricco di persuasioni, forte d’argumenti et ragioni: fai
ascoltarti, stai tra cittadini udito volentieri, mìranoti, lòdanoti, àmanoti...”
(Della Famiglia, l. 1). Che l’Umanesimo poi sia un indirizzo di pensiero più
cordiale che razionalistico, più platonico che aristotelico, più francescano
che tomistico, ci è confermato dalla insistenza su un atteggiamento esigito
nell’educatore: una amorevolezza che è frutto di sentimento e di spirito
evangelico, che è simbiosi tra benevolenza spontanea e carità cristiana: “Et
ricordisi ciascun padre et maggiore che llo imperio recto per forza sempre fu
manco stabile che quella signoria quale è mantenuta per amore. Niuna paura può
durare troppo: l’amore dura molto assai: la paura in tempo scema: l’amore
di dì in dì cresce” (Della Famiglia, ib. : si confronti questa
affermazione con il Principe di Niccolò Machiavelli, c. 17, par. 2: “E li
uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che si fa amare che uno che
si faccia temere...”). Notevole e simpatico l’ammonimento: “Chi
l’altrui famiglia non guarda, la sua non mette barba”! (Della Famiglia,
ib.): un bell’anacoluto, degno di entrare nel giro di quelli citati, dal
Principe ai Malavoglia di Verga. TONI LIRICI E NOTE STILISTICHE. Purtroppo l’Alberti letterato non sta al confronto con
l’architetto. Se egli passa per il più grande prosatore toscano del
Millquattrocento è per un entimema o reticenza: egli è bensì il maggiore,
ma tra gli scrittori di linea classica, cioè impegnati ad imitare gli
scrittori latini, con un vocabolario raffinato ed un giro di frase elegante,
persino retorico. Ma a livello di arte vera, di intensità lirica, un Bernardino
da Siena, una Macinghi Strozzi lo superano di più che una lunghezza. Quei due
scrittori popolari si fanno rileggere: Alberti annoia già alla prima lettura,
anche nel (suo) capolavoro “Della Famiglia”. Se le novità concettuali ci
sono, non sono poi frequentissime. E la loro proposizione è lenta: troppo
analitico, fa precedere la discussione di un argomento da una “salva di
cerimonie”, cioè di proteste di incompetenza a trattare l’assunto, cui
corrisponde l’altra “cerimonia” dei corali
riconoscimenti degli interlocutori in senso opposto. La dimostrazione,
poi, delle proprie tesi –scontate per lo più- procede con esemplificazioni
dall’antico (con la “memoria degli altri”, malignerebbe Leonardo da
Vinci), anzichè con argomentazioni proprie. Solo talora sorprende per la
concretzza delle posizioni assunte: ad esempio nel raccomandare gli esercizi
fisici o lo studio o la amorevolezza verso i figli e (cosa notevole in un celibe
del Rinascimento) nell’elogiare la castità e l’amore familiare. Il vocabolario mantiene qualche raro residuo
simpaticamente popolaresco (“Gnaffe” sbotta un iterlocutore, Lionardo, verso
la fine del primo libro Della famiglia).
Ma la norma è la trascrizione la più fedele al latino, mutando solo le le
desinenze finali secondo l’uso toscano: basta rileggere i brani riportati per
constatarlo. E vi è di peggio: egli ha delle incertezze anche nella sequela
della lingua fiorentina, dovute alla tradizione italica tutta, con cui egli
aveva avuto contatto e che non sa superare di genio. Ad esempio egli mantiene le
doppie consonanti all’inizio di monosillabo (ttu, lli, cchi, ll’amicizia,
mme, nnoi) ed anche in taluni polisillabi (llaude, lloro...). Incertissima la
grafia di “Non”: si trova “none| non| nom”). Aggiungiamo qui un altro
brano, per accrescere l’ammirazione per le sue buone intenzioni educative e la
sapienza da cui nascono, ma anche per deplorare
ancora i difetti segnalati: “Nè guardate, figliuoli miei, che la virtù in
vista sia forse durecta et asprecta (mentre) gli altri disviamenti in primo
aspecto siano proclivi et dilectosi. Imperò che adentro vi si truova questa
grandissima differentia: nel vitio abita più pentimento che contentamento, più
vi surge dolore che piacere, più vi trovi perdimento da ogni parte che utile.
Nella virtù tutto contra: lieta, gratiosa et amena, sempre ti contenta, mai ti
duole, mai ti satia, ogni dì più et più è grata et utile... Et se conoscerai
te non essere non uomo e non vorrai umanitate alcuna esser da te lontana, certo
arai non pochissima parte di vera felicità in te stessi...” (sempre nel libro
primo Della famiglia). Ma se lo stile
è mescidato ed incerto fra antiquariato latineggiante e modernità fiorentina,
resiste al di sotto di tutto un sapore di vena lirica inconfondibile: quando si
sono lette, diciamo, cinquanta pagine dell’Alberti, si può essere certi di
distinguerne le altre di lui in mezzo a mille autori. Egli, infatti, ha un
tono alto, da tenore pieno che canti a voce spiegata, anche quando la melodia
non è poi gran cosa. Si impone al
lettore, dalla scrittura albertiana, una attitudine epicizzante, che non
raggiunge mai la poesia intera, ma lascia il suo profumo in ogni frase, con una
perseveranza di tenuta che rivelano una costituzione atletica, un temperamento
passionato, una statura michelangiolesca. Che egli, a livello intellettaule,
risulti perplesso ed oscillante tra ottimismo e pessimismo, ci si accorge quasi
solo nelle opere latine: quelle
volgari sono “solari”, piene di certezze
ed entusiasmo, di fede nei propri princìpi e dottrine, di voglia di vivere e di
lottare. Ecco un brano sulla funzione del gioco nella educazione: “Et non
credere però, Adovardo, ch eio voglia ch’e padri tengano e figliuoli
incarcerati al continovo tra i libri, anzi lodo ch’e giovani spesso e assai,
quanto per ricrearsi basta, piglino de’ sollazzi. Ma siano tucti e loro giochi
virili, onesti, senza sentire di niuno vitio o biasimo. Usino que’ lodati
exercitii a’ quali e buoni antichi si davano. Gioco ove bisogni sedere quasi
niuno mi pare degno di uomo virile; forse a’ vechi se ne permecte alcuno,
scachi, et tali spassi da gottosi, ma niuno di quegli giuochi senza exercitio et
fatica a’ robusti giovani mi par lecito. Lascino e’ giovani non desiderosi
(=pigri) lascino sedersi le femine et impigrirsi; loro in sè piglino exercitio
colla persona e ciascun membro; saectino, cavalchino et seguano gli altri virili
giuochi et di fatica. Gli antichi usavano l’arco, et era una delicateza de’
signori uscire in publico colla faretra e l’arco, et era loro scripto a llaude
bene adoperarli. Truovasi di Domitiano Cesare che fu sì perito dell’arco, che
tenendo uno fanciullo la mano per segno aperta, faceva saettando passare lo
strale fra tutti gli intervalli di que’ diti. Et usino i nostri giovani la
palla, giuoco antichissimo et proprio della destrezza quale si loda in persona
gentile...” (ib. ib.). Purtroppo di una simile solennità di espressione fan
parte anche le domande retoriche, il rafforzamento dei superlativi con il “più”
comparativo od il loro raddoppaimento con la desineza “issimo” preceduta da
un “molto”. “Non essere inverso di loro (figli, di parenti od amici,
rimasti orfani) animato come a’ propri figliuoli (amorevole come con i propri
figli), veramente, Lionardo, non sarei buono parente, nè vero amico, anzi mi
giudicheresti spiatato, fraudolento et bene di molta cattivissima
condictione, saréne biasimato, infame. Et chi non dovesse (!) de’ pupilli
avere piatà? Et chi non dovesse (!) aver sempre inanzi agli ochi quel
padre di questi orfani, quel medesimo tuo amico et quelle ultime parole scripte
nel cuore, quali coll’ultimo spirito quel tuo parente et amico ti raccomanda
la più carissima cosa sua, e figliuoli, fìdasi di te, lasciali nel
grembo, nelle braccia tue?” (ib.ib.). Difetti ed eccessi che possono ben essere spie a
comprendere come l’enfasi più che l’epopea sia il risultato di tale modo di
esprimersi, ma che non cessano, per questa imperfezione lirica, di rimanere
sintomi e indizi di una tensione grandiosa, che non trova nella parola la stessa
intensità espressiva, cui il
disegno e l’architettura, le forme spaziali e volumetriche, i contrasti tra
vuoti e pieni (squadrati gli uni e gli altri in ritmi massicci)
sono invece approdati nella mente e nell’opera di questo rappresentante
del nostro Rinascimento, “uomo dal multiforme ingegno”.[71] IACOPO
SANNAZ(Z)ARO (Napoli 1456- 1530) LA VITA. Nato a Napoli (ma con ascendenze lombarde, nella
Lomellina) da nobile famiglia,fu umanista gradito a corte: ebbe dagli Aragonesi
incarichi anche politici e fu accolto dal Pontano nella Accademia col nome di
Actius Syncerus. Egli aveva scrito delle Ecolgae
piscatoriae, delle poesie sui pescatori: in latino, spiaggia si dice
“acta” onde il nome accademico di Actius. Tenuto tra gli ufficiali di casa
da Alfonso, duca di Calabria, egli rimase fedele (diversamente dal Pontano) ai
suoi signori, seguendo il re Federico in Francia, quando gli Spagnoli occuparono
definitivamente il regno nel 1501. Morto il suo re, nel 1504, egli rientrò a
Napoli, vivendo nella sua villa di Mergellina il resto dei suoi giorni, in
modesta fortuna ed in attività letterarie. Queste furono prevalentemente in
volgare prima dell’esilio; dopo il rientro a Napoli, egli pubblicò unicamente
in latino. Morì ad 85 anni nel 1530, famoso, non solo in Italia, sia per il
poemetto latino De partu Virginis;
sia per il romanzo Arcadia, misto di
versi e prose, imitato poco a poco
in tutte le nazioni d’Europa. LE OPERE: le raccogliamo
nei due gruppi di scritti in latino ed in volgare.
Opere latine: Eclogae
piscatorie:
sono cinque composizioni in esametri, in cui dei pesactori (e non più dei
pastori) cantano i loro amori (infelici, per lo più); e cantano le bellzze del
mare e della pesca. Fu l’opera che gli dischiuse le porte dell’Accademia
pontaniana.
Elegiarum
libri tres (tre libri di elegie): poesie in distici elegiaci (esametro e
pentametro alternati): gaie, quelle scritte in giovienzza; tristi, quelle
dell’età avanzata. Tratta di amori, imprese con Alfonso (di cui era
gentiluomo di corte), feste di amici. Esprime anche la coscienza della sua
limitatezza come poeta (III, 2).
Epigrammata
libri tres : componimenti molto brevi e di vario argomento e tono:
velenosi quelli contro il Poliziano, papa Alessandro Borgia, Leone X; pungenti
anche quelli contro Bracciolini storiografo.
DE PARTU VIRGINIS:
(1526): sono circa 1500 esametri in tre libri, editi nel 1526. Si descrive
l’Annunciazione, la nascita di Cristo a Betlemme, la adorazione dei pastori;
sorge poi la divinità del fiume Giordano a ricordare una profezia di Proteo su
Cristo, battezzato in quelle acque, re non per armi o danaro, ma per miracoli e
bontà.
Salices: poemetto sulla
trasformazione di ninfe in salici, lungo il fiume Sarno, per sfuggire alla
persecuzione dei satiri.
De
morte Christi Domini ad mortales lamentatio (lamento all’umanità per
la morte di Cristo Signore)
Opere in volgare: Rime: sono
101 composizioni d’amore, divise in due parti: è il canzoniere del Sannazaro,
che risulta il miglior petrarchista del suo tempo. Vi sono, infatti, anche
note personali, con qualche
momento felice. Uscite tre mesi
dopo la sua morte nel 1530, col titolo “Sonetti e canzoni”, fan riferimento
ad una Carmosina, in gioventù; ed a Cassandra Marchese
in età più matura. La migliore potrebbe esser “Or
son pur solo e non è chi m’ascolti”.
Frottole o Gliommeri
(gomitoli, grovigli): monologhi recitativi, di argomento festoso,
capriccioso, comico. Scritte forse per il principe Federico, a noi è
giunto un solo testo: La presa di Granada.
Farse: ne restano sei, ma sono povera cosa, perchè
prevaleva la gioia degli occhi e dei suoni (scenografie, danze, fuochi
d’artificio, musiche) che non il testo verbale.
ARCADIA:[72].
E’ il capolavoro in volgare e consta di un Prologo, di 12 prose e 12 fra
egloghe, canzoni, sestine, con un epilogo (intitolato La Sampogna). E’ un
romanzo pastorale, misto di prosa e di versi, edito definitivamente nel 1504
(per la edizione minore del 1501, cfr. nota). Il protagonista è la controfigura
dell’autore (si chiama “Sincero” come il Sannazaro nell’Accademia
pontaniana) e, per fuggire le pene d’amore, anzi la tentazione stessa del
suicidio per la mancata corrispondenza della donna (Carmosina Bonifacio) amata,
fugge in Arcadia (nel Peloponneso). Ma anche qui egli è perseguitato dalla
tristezza e viene consolato dal pastore Carino, che gli narra i propri casi:
anch’egli, dapprima rifiutato dalla propria ninfa, viene alla fine ricambiato.
Sincero partecipa a varie manifestazioni della vita pastorale (funerali e giochi
di stampo classico-pagano), finchè non vince il desiderio della patria
e allora da una ninfa è ricondotto, per antri e grotte, fino a Partenope
(Napoli), in tempo per udire che la fanciulla amata è morta. L’opera ebbe 66
edizioni nel Millecinquecento, 17
nella prima metà del secolo successivo ed altre ancora nel Millesettecento.
Ebbe imitazioni ovunque in Europa: dal Portogallo (I sette libri della Diana:
1558-9), in Spagna (Garcilaso de Vega: Egloghe), in Inghilterra (Philip Sidney:
Arcadia, 1590), in Francia (Astrea:
1607-27), in Germania (La ninfa Egeria: 1630). Influisce sulla nascita del
melodramma e sul Tasso (specialmente nell’Aminta). E (lo diremo a nostro
rischio e pericolo) accenna anche al linguaggio fidenziano, che Camillo Scroffa
(1526 ca-1565) inventò per mettere
in berlina il modo di parlare del
“pedante”, pubblicando i Cantici di Fidenzio (Glottocrisio Ludimagistro: 17
sonetti, una sestina e 2 capitoli). Solo il movimento romantico, con le esigenze
di verosimiglianza storica (e, quindi, di un minimo di realismo), segnò la fine
della sua fortuna (il Manzoni la
definì una “scioccheria”) e preparò gli animi ad un giudizio più equo sul
suo valore, i suoi limiti e difetti. Nell’analisi della poesia del Sannazaro, ci
limitiamo all’esame dell’Arcadia.[73] I MOTIVI ISPIRATORI. L’opera
interpreta una componente della cultura letteraria del suo tempo; esaudisce un
bisogno lirico della sua società: in Inghilterra il Sidney scriveva pochi anni dopo un poema dalla stesso titolo, mentre le
edizioni in Italia, le traduzioni e le imitazioni all’estero riecheggiavano il
tema con una persistenza sorprendente. E’ l’aspirazione ad un mondo di
sogno, di semplicità primitiva, di pace campestre. Orbene, l’ozio immaginato
come proprio della vita pastorale, lontana dagli affanni (dal nec-ozio) della
vita urbana; l’evasione fantastica nell’asilo della natura non intaccata
dalla civiltà, la gioia semplice, la festosità ingenua dei popoli a contatto
colla natura... sono tutti motivi di carattere prerussoiano, eterne aspirazioni
dell’animo umano, nostalgico del Paradiso terrestre, oblioso della colpa
originale. TONI LIRICI Esiste nel libro una tenue ma autentica vena
emozionale, che per lo più si aggira nell’aura elegiaca: altro è
l’aspirazione alla serenità idilliaca che vorebbe il titolo e altro è la
privilegiata tendenza dello
scrittore, che propende per la vena flebile. Momenti di idillio, per altro,
esistono, ma sono recessivi rispetto alla dominanza elegiaca. Si tratta di una
tristezza che ha una sua dignità e consistenza: vogliamo dire che è bensì
meno convincente di quella del Petrarca, ma non scende al patetismo
deamicisiano, al lacrimoso dolciastro. Assicurata la
presenza di un lirismo lunare
e la sua verosimiglianza complessiva, bisogna però
riconoscere che l’uno e l’altro carattere sono ai limiti
minimi della sufficieza. Anzi, spesso occorre la buona volontà del
lettore per contiunare la lettura con...interesse e vincere la tentazione, che
affiora ogni tanto, di ironizzare
sulle vicende o sulla loro forma
espressiva. In verità, l’invenzione e la irrealtà sono troppo evidenti:
Sannazaro non ha l’impeto lirico di Dante o di Tasso da farci accettare come
ovvi i momenti fantastici della trama. Se si attenuasse l’impegno culturale
del lettore, la percezione del ridicolo finirebbe per
spuntarla. Siamo cioè sul crinale tra serietà e scherzo, tra dolorosa
confessione e grottesca invenzione. A seconda dell’atteggiamento con cui si
legge, l’uno o l’altro versante prevale. NOTE STILISTICHE. Il Proemio ti mette di fronte ad un caso di
scrittura presecentista (affine a quella che il Manzoni definisce “rozza
insieme ed affetatta” e che canzona dapprima sornionamente e, poi,
esplicitamente nella Introduzione ai “Promessi”). Presecentismo non
significa barocco pieno: qui, in luogo della supponenza burbanzosa ed
arbitrarietà goffa, degli eroici
pennacchi e rimbombo di oricalchi, propri di certo stile
diffuso nel Milleseicento italiano, sta una umiltà sincera ed una
tenerezza sofferta che dà al discorso quel viraggio tra il serio ed il comico,
fra la pena di vivere ed il ridicolo, di cui si è parlato a proposito dei
Motivi ispiratori. Cerchiamo di documentare. L’uso
delle litoti (attenuazioni)
o comunque di espressioni inutilmente negative è pervasivo: non meno| non una
volta| non umile monte| ordine non artificioso| senza nodo veruno| non piccola
parte| non che Ciparisso| ma...esso Apollo non si sdegnarebbe esser
transfigurato| Nè sono le dette piante sì discortesi...| rara è quella
erbetta che da quelli (raggi solari) non prende grandissima ricreazione|| non
senza pregio e lodo del vincitore| non altrimenti che se una pietra o un tronco
stato fusse... (esempi tratti per lo più dalla Prosa prima). L’aggettivazione è sproporzionatamente frequente
rispetto alla norma del parlare solito, equilibrato. Sempre nella Prima prosa
(“Giace nella sommità di Partenio...”) abbiamo contato 65 aggettivi contro
un centinaio di sostantivi. Se si aggiungessero i participi passati ed i
numerali, detraendo dai sostantivi quelli in qualche modo aggettivati dalla
forma diminutiva, allora la densità aggettivale
sfiora i tre quarti. E’ questa una via per attutire la forza ed
insinuare la dolcezza, per togliere drammaticità e tormento, sostituendovi
contemplazione e tenerezza. Nel nostro caso, delle forme contemplative, la
elegia ha il sopravvento per la maggior congenialità con la mestizia
nell’animo dello scrittore. Ecco, sempre dalla Prosa prima, un periodo: il
Partenio è un “non umile monte della pastorale Arcadia”; sulla sua cima
giace un “dilettevole piano, di ampiezza non molto spaziosa... ma di minuta e
verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi
non vi pascessero, vi si potrebbe in ogni tempo ritrovare verdura..” La musicalità è pure univoca: coerente nel senso
della dolcezza e tendente alla tonalità minore.
La vocale media (e) e quelle strette (i| u) sono in frequenza ben eccedente la
norma del parlato medio. La “u” si rende ancor più sensibile per la
frequenza della consonante “v”, che la imita da vicino; le liquide (l| r) e
le nasali (m| n), le fricanti (s| f| v) sono prevalenti; le altre consonanti
dure, forti (gutturali, dentali od esplosivo-labiali) sono attenuate mediante il
loro inserimento in parole sdrucciole, ottenute anche con frequenti superlativi
assoluti in “-issimo”; talvolta la durezza della “z” è sostituita
infelicemente dalla più carezzevole “s” come in
“Sampogna” (Epilogo).
Pure la dolcezza complessiva del linguaggio non discende alla sdolcinatura, non
si deforma nel patetismo: conserva una sua dignità e sobrietà. Crediamo che
questo (a livello stilistico) sia ottenuto mediante un impiego spontaneamente
frequente di vocali larghe (oltre le pur attutite consonanti forti sopra
ricordate): l’impasto musicale risultante supera addirittura in piacevolezza
quei parametri di stentata serietà razionale e sufficienza lirica già
segnalati. E’ come se una poesia d’amore, scialba ma non misera, fantastica
ma non impossibile, trovi
un geniale musicista che la rivesta di una melodia superiore e
cattivante. Il musico, in sede letteraria, è lo scrittore stesso che, se solo
talora scrive parole per musica,
sempre scrive “musica in
parole”. Anche i versi (elegie, canzoni, sestine), specie
nella seconda parte, sembrano umiliarsi ad una forma discorsiva, dimessa, da
prosa confidenziale,
leggermente ictata metricamente, ma senza grandi pretese: sembrano quasi non
voler umiliare la “sorella prosa” che li introduce. La realtà è
un’altra. La musa del poeta non aveva ali per volare oltre una certa (modesta)
altezza di intensità lirica: la poesia
vi giunge con forme leggermente più complesse (quelle della metrica), ma non
supera i limiti della prosa. Non si tratta cioè di calcolo o di pianificazione,
ma di una spontanea disposizione d’animo: quale è il poeta, tali risultano i
suoi versi nella elevatezza dei motivi, nella misura del lirismo, nelle opzioni
tecnico-espressive. Si legga, per tutte, la seconda egloga (“Itene all’ombra
degli ameni faggi”) in cui il pastore Montano conduce al rezzo le pecorelle,
con una cantilena mesta, tenera, rassegnata, ma di intensità appena rilevabile. E prendiamo in considerazione anche una componente
stilistica che non ha direttamente a che vedere con i risultati lirici, ma che
interessa per la rivelazione di quell’atmosfera umanistica, che è la
componente centrale della cultura in cui nasce
(anche) la poesia del Sannazaro. Si tratta della “integrazione”
continua di autori classici nella sua espressione letteraria. Nelle
composizioni latine, Sannazaro non riflette soltanto i grandi poeti da
tutti conosciuti (Virgilio, Orazio, Ovidio), ma anche i minori artefici, sia
pagani che cristiani: Calpurnio siculo, M. Aurelio Nemesiano, Claudio Claudiano,
P. Papinio Stazio, per i primi; Sedulio, Giovenco, Aratore, Prudenzio,
Draconzio, Paolino da Nola (ed anche il contemporaneo Pontano), per i secondi.
Gli autori cristiani sono riecheggiati nel De Partu Virginis. Per le rime
volgari, succede un fenomeno parallelo: naturalmente egli “integra”
anzitutto Petrarca e il Bocaccio poeta, ma ancora i classici latini ed altri
autori toscani fino al poco più anziano Pietro di Jacopo De Jennaro
(1436-1508), le cui “Pastoralia” (4 egloghe in volgare), circolavano ben
prima della loro pubblicazione (1508) e, come subirono influssi dalle egloghe
sannazariane manoscritte, così sull’Arcadia influirono a loro volta. Questo
processo di ricordo-riecheggiamento-citazione-variazione è così abituale, che
talora viene il sospetto che il motivo ispiratore primo della poesia del
Sannazaro non sia la espressione di propri ideali affettivamente colorati, ma la
utilizzazione di uttto un bagaglio di reminiscenze poetiche da collocare in
nuove sentenze e giacenze metrico-ritmiche. La “forma” rischia di diventare
essa stessa, inconsapevolmente, il primo tema di canto dello scrittore. Almeno
talora si può avere questa impressione da quei critici che (come il De Robertis
della Garzantiana) conoscono a fondo la produzione del Sannazaro.
Saremmo a quella condizione che, dalla metà del secolo XX, la
televisione ci impone abitualmente: come ha insegnato
Herbert Marshall Mcluhan, il messaggio conta meno del mezzo di
comunicazione; la connotazione è meno importante del sistema denotativo; la
sostanza cede di fronte alla accidentalità della sua forma di trasmissione: the
medium is the message! Nihil sub sole novi: quel che la tecnologia televisiva,
elettronica ha esasperato e reso potenzialmente abituale, era un fenomeno già
realizzabile con la semplice parola: creare un alone musicale
che conti più dei concetti; amare talmente l’espressione felicemente
inventata da altri scrittori, da risentirla in sè e farla riecheggiare
nell’animo dei lettori più che le cose concrete dei fatti o le verità
teoriche del pensiero cui essa è, per natura, subordinata. La parola che conta
più delle idee! ANGELO
AMBROGINI (detto
il) POLIZIANO (1454-1494) Vita. Il
più grande degli scrittori in lingua volgare del Millequattrocento ed uno dei
maggiori in lingua latina, nacque a Montepulciano nel 1454 e, dal nome latino
(Mons Politianus) del paese nativo, trasse il soprannome poi passato a cognome.
Vissuto povero in gioventù, amò talmente gli studi che riuscì ben presto a
divenire lo scolaro prediletto degli umanisti di Firenze. Nel 1473 conosceva il
latino ed il greco fino a scrivere nelle due lingue con la stessa facilità del
toscano ed a poter inviare in omaggio a Lorenzo la traduzione in esametri latini
del secondo libro dell’Iliade (dopo aver ultimato il primo, avviato da Carlo
Marsuppini). Fu allora preso come segretario dal Magnifico, che gli affidò la
formazione intellettuale del secondogenito, Piero. Urtatosi con la famiglia
Medici per motivi pedagogico-religiosi (aveva iniziato l’approccio al latino
partendo da Cicerone anzichè dal Salterio), dovette lasciare Firenze nel 1479
per le pressioni di Clarice Orsini, la moglie di Lorenzo. Si fermò a Mantova e, per i Gonzaga, compose la favola
pastorale Orfeo. Ma potè l’anno seguente rientrare a Firenze come docente di
eloquenza latina e greca allo "Studio" (università). Morto il grande
protettore nel 1492, subì fortemente l’influsso del Savonarola e,
convertitosi dalla sua condotta scorretta (canonico
della cattedrale e priore di S. Paolo, era noto per costumi e versi
impudenti) e volle essere sepolto in San Marco con l’abito del
terziario domenicano, quando una febbre violenta lo portò via in pochi giorni
(28 settembre 1494), due anni dopo il Magnifico. D’altronde l’amicizia con
Pico della Mirandola e con Marsilio Ficino l’avevano già avviato ad una
visione più cristiana della vita. Personalità.
Certamente emotivo, come poeta riuscito, doveva avere un temperamento non
attivo e primario (mutevole, non persistente, fragile, esauribile): timido,
introverso, contempaltivo e facilmente influenzabile, dunque. Di qui il
“nervosismo” della sua attività letteraria, occupata per troppa parte in
polemiche astiose con scrittori anche a lui troppo inferiori, su questioni di
stilistica e filologia. (inerpretazione di singoli passi di opere greche e
latine). Di qui la versatilità, che lo portò ad occuparsi più di filosofia
che di poesie nei suoi ultimi anni; di qui la discontinuità delle sue opere (le
“Stanze” non finite; molte delle
sue lezioni raccolte come “Miscellanea”, cioè come collezioni di argomenti dispersi, di
lezioni non organiche; di qui la facilità con cui seguiva il più forte, dopo
aver tentate vie personali: il passaggio dal Magnifico al Savonarola è il caso
estremo di una “gregarietà” che giunge alla adulazione (Stanze, I, 4 e 5:
“E tu, ben nato Laur, sotto el cui velo| Fiorenza lieta in pace si
riposa|...accogli all’ombra del tuo santo stelo| la voce umìl tremante e
paurosa...”); di qui la sua vanità quasi infantile ed ambizione,
sorprendenti in un uomo che non aveva davvero bisogno di posti elevati per
onorarsi, quando era lui ad onorare i posti (almeno nel campo culturale) a lui
affidati.; di qui la superficialità che per lungo tempo distinse la sua vita:
il pensiero ovviamente cristiano e la condotta scostumata fino ad aver fatto
pensare a fosche circostanze nella sua morte precoce ed improvvisa. Un
temperamento nervoso è il più facilmente poetico: ma paga con limiti
rischiosi la genialità di cui può essere investito.
Non parliamo dell’ambiente, perchè è quello stesso dell’umanesimo fiorentino di fine secolo:
quello stesso del Magnifico. Le opere.
In versi
latini:
Tradusse dall’ Iliade, in esametri,
giungendo almeno fino al canto quinto:
il cardinal Angelo Mai ne scoprì quattro. Compose Odae et Elegiae: una ventina di poesie, di cui la più famosa è
quella per morte di Albiera degli
Albizzi (In Albieram Albitiam puellam
formosissimam morientem); ma bellissima è anche quella In vìolas (Alle viole). Le Sylvae
sono la raccolta delle
introduzioni in versi al corso accademico del nuovo anno (Manto: 1482: su
Virgilio; Rusticus: 1483, su Virgilio ed Esiodo; Ambra: 1485: su Omero;
Nutricia: 1486: in lode di poeti antichi e moderni). Compose epigrammi
e ci fu spazio anche per versi sacri (In
divam Virginem).
In prosa latina: scrisse
la storia della congiura dei Pazzi (De
pactiana coniuratione) , che manca però del nerbo di quel Sallustio che
egli voleva imitare e di cui ha imitato il titolo (De coniuratione Catilinae);
le lezioni universitarie, raccolte col nome di Miscellanea (sono 100, edite nel
1489: hanno carattere filologico, di correzione o spiegazione dei testi presi in
esame: dalla ortografia, alla
archeolologia, alle istituzioni romane, come i giochi secolari...); i 12 libri
di Epistolae (edite nel 1498, postume: gli interessi precipui sono ancora quelli
dei Miscellanea); sintesi delle lezioni filosofiche su testi di Aristotele
(Organon ed Ethica Nicomachaea), che tenne dal 1489 alla morte; che è un
commento più filologico che filosoficoe e che intitolò Làmia
(civetta: l’uccello di Minerva e di Atene), Panepìstemon
(l’onnisciente) e Dialectica
(Dialettica).
Opere poetiche in volgare: Canzoni a ballo| Canzonette: le più poetiche sono “Ben venga maggio| e il
gonfalon selvaggio!” “Io mi trovai, fanciulle un bel mattino” (Ballata
delle rose);
Rime varie: le migliori: “Io son costretto, poi che vuole amore”| “Vergine
santa,immaculata e degna”
Rispetti continuati| Rispetti
spicciolati.
Della fabula di Orfeo
(1480): in questa opera scenica, la cosa più interessante esteticamente ci
sembra la canzone di Aristeo: “Udite, selve, mie dolci parole”.
LE
STANZE PER LA GIOSTRA DEL MAGNIFICO GIULIANO DE’ MEDICI: (1475-78):capolavoro
del poeta, scritto fra l’avvenimento della “Giostra” o vittoria di
Giuliano in combattimento pacifico nel 1475 e la morte di Simonetta (1476) e
dello stesso Giuliano (1478: congiura de’ Pazzi).
In prosa volgare: Sermoni
(religiosi: Del sacramento della Eucarestia; Della passione di Gesù Cristo;
Dell’umiltà di Gesù Cristo (1467-78). LA POESIA. Giudizio generale. Non è solo il migliore
poeta, ma anche l’unico poeta davvero grande del secolo. Questa
classificazione ad alto livello nasce anzitutto, ma non solo, dalla lettura
delle “Stanze” Le sue ballate carnascialesche sono ben superiori alle pur
non spregevoli del Magnifico; anche altre sue composizioni, tra quelle che
diremo normali e perciò neppure citate da noi, sono più valide della stessa
Nencia da Barberino e della Canzona di Bacco. Anzi, a nostro parere, è molto più
poeta dell’Ariosto: in verità, fra il Petrarca ed il Tasso non c’è alcuno
che gli stia a pari. Qui ci limitiamo però alla sola analisi del
capolavoro: per le altre poesie e
per lo stessa trama delle Stanze,
rimandiamo in nota.[74] LA POESIA: Le
Stanze. MOTIVI
ISPIRATORI. Dal mondo poetico del Poliziano esulano i grandi temi della
religione e della morale, dell’eroismo per la difesa della patria,
dell’ardore filosofico o storiografico (si pensi alla Commedia di Dante).
Quattro ci sembrano invece i temi che fanno vibrare la emotività del poeta
mediceo: l’amore, la forza, il sogno del mitico e del surreale, il paesaggio
naturale come ambientazione ai precedenti valori.
L’Amore è facilmente individuabile come il motore
primo di tutto il mondo poetico del Poliziano, anche al di fuori delle Stanze:
eccettuate alcune cose sacre in latino ed in volgare, pel resto la sua fantasia
è a rimorchio del sentimento amoroso. In particolare si deve qui sottolineare
come un argomento, di per sè eroico e quasi militare come è appunto una gara
fra armati, viene invece subordinata e immersa in un’atmosfera di conquista
amorosa: vinto dovrà essere il cuore della donna amata. Il primo libro del
poemetto presenta addirittura la “conversione” dalle armi (della caccia)
all’amore, nel protagonista; il secono libro presenta la riconversione alle
armi, ma solo apparente: esse sono ormai strumento docile di
Cupido.
La forza. Se l’uso delle armi, nella caccia e nella
giostra, è subordinato alla vicenda affettiva, non scompare però
dall’orizzonte poetico del Poliziano, che doveva sentire tanto più il fascino
dell’energia combattiva e del dinamismo esteriore, della robustezza e della
vitalità fisica, quanto meno ne possedeva come costituzione biologica. C’era
in lui la spontanea aspirazione a valori, perduti ma tenacemente esigiti dalla
natura, quasi complemento ad un
organismo debole e fragile. Non però consapevolmente, forse: il motivo
ispiratore della virilità combattiva resta così implicito nella
lotta per un amore
difficile; si manifesta solo come modulazione subordinata alla emotività
dolce di fondo; si lascerà intuire in soluzioni stilistiche non univoche
ma complesse. Il bisogno di energia ed agilità fisica diverranno un’onda
interferente nella melodia della dolcezza amorosa. Il dispiegamento di forza e
destrezza sono vagheggiate con ammirazione e godimento sia pur relativizzati
all’amore: si ha così una specie di memoria-nostalgia del paradiso terrestre,
la tensione gioiosa verso la vita idealizzata che il Rinascimento propone come
possibile, dove viene assicurato all’uomo bello e buono la pienezza della vita
esuberante, la felicità dell’amore immortale,
la costruzione del “calòs kài agathòs anèr” che era stato l’ideale
affascinante del miglior mondo greco. Non si ricerca però l’eroismo, ma il
gioco; non l’ardimento, ma la
destrezza; non il pericolo, ma il successo: è una concezione molto
rinascimentale, cioè materiata di sogno più che di realtà. Rivelatrici di
questa prospettiva di una vitalità di tutta
gioia possono essere le strofe 23-26 del primo libro: Julio, sorpreso e
ritratto quasi al teleobiettivo, si scatena in un primo piano movimentatissimo,
ma al tempo stesso rilassante: sono le “fatiche oziose” della caccia per
divertimento. Conferma della congenialità di questo senso e bisogno della
energia fisiologica, della componente animale della vita è anche il realismo
della Sylva “Rusticus” (mondo
georgico, contadino) e l’ode “In
scabiem”, contro la scabbia.
Il sogno, la fantasia, il mito. La inconscia aspirazione alla forza ed al vigore fisico
diventano mito: diventano la spia di una carenza biologica, ma anche di
un’aspirazione spirituale ad una vita senza difficoltà, senza limiti, senza
sofferenza. E’, come si è detto, il sogno di un ritorno all’Eden, all’età
dell’oro, dove il desiderio (sintetizzato nell’amore) diventa realtà,
mentre la realtà si modella sui desideri. Come nei romanzi cavallereschi, ove i
giganti operano imprese meravigliose (il Morgante del Pulci); o la magia
introduce in un mondo di onnipotenza (l’Innamorato del Boiardo), anche nelle Stanze il principio elementare di vita è “tutto, subito, senza
fatica”, quasi in un carosello televisvo. Spie di questa tensione verso
l’infinito ed eterno sono le proiezioni di personaggi ed avvenimenti in un
mondo che riprende il preternaturale pagano, la mitologia e le divinità
onnipossenti del pantheo classico. Giuliano diviene così Juilio (nome di Cesare
e del figlio di Enea); Simonetta diviene una ninfa o, almeno, così viene
chiamata; l’amore si impersona in Venere o nel figlio Cupìdo; nelle armi di
Julio son richiamate Medusa e Minerva... La vicenda vive in un’aura panica,
non certamente cristiana, anche se il paganesimo è puro strumento alla
dimensione fantastica della vicenda, senza difficoltà vere e senza rimosro
alcuno per l’amore adultero.
La natura, il paesaggio.
Benchè anch’essi di fatto
relativi alla avventura amorosa ed al dispiegamento dell’energia dei
protagonisti, tuttavia costituiscono un polo consapevole e indipendente della
ispirazione polizianesca. Difatti
il motivo è ben presente al di fuori delle “Stanze” (Sylvae, Elegiae) ed
anche in queste ha uno sviluppo tale (descrizione dell’isola di Cipro) che
lascia sospettare facilmente essergli sfuggito di mano, perchè nel suo animo
costituisce un fattore forte ed assoluto di attrazione e di emotivizzazione. TONI LIRICI. Il lirismo su cui è tramato la melodia delle Stanze
è duplice:l’idillio
e l’epopea. Le due tonalità normalmente si alternano con una felicità
sorprendente, perchè l’idillio non è privo di vigore e di forza nè la
epopea è senza una accentuata gentilezza. E già in tali stanze (cioè nella
grande maggioranza) ben più che
sufficiente è la poesia, affascinanti i versi, pungente il piacere di leggerli.
Basti citare l’inizio della azione, dopo le prime sette (e un po’ faticose)
stanze di introduzione (proposizione del tema, invocazione ad Amore e Venere,
dedica del poemetto a Lorenzo): ci si accogerà che l’idillio prevale nei
primi cinque versi e la epopea negli ultimi tre, pur con una affinità di tutti,
che rende non facile la selezione: “Nel vago
tempo di sua verde etate, spargendo ancor
pel volto il primo fiore nè avendo il
bel Julio ancor provate le dolci acerbe
cure che dà Amore viveasi lieto
in pace e in libertate, talor frenando
un gentil corridore che gloria fu
de’ ciciliani armenti: con esso a
correr contendea co’ venti;” (I, 8) Ma dove il Poliziano assurge alla sua arte più
garnde e induce un rapimento più profondo, ivi i due toni si fondono, epopea ed
idillio si sposano, avviene quella mirabile sintesi che è l’estasi, sinergismo
della gioia tenue e forte, simbiosi dei due stadi di piacere spirituale che
costituisce un presentimento di felicità completa:
“Quanto è più dolce, quanto è più sicuro
seguir le fere fuggitive in caccia
fra boschi antiqui fuor di fossa o muro,
e spi”ar lor covil per lunga traccia!
Veder la valle e ‘l colle e l’aer puro,
l’erbe e’ fior, l’acqua viva chiara e ghiaccia!
Udir gli augei svernar, rimbombar l’onde,
e dolce al vento mormorar le fronde!
Quanto giova a mirar pender da un’erta
le capre, e pascer questo e quel virgulto;
e ’l montanaro all’ombra più conserta
destar la sua zampogna e ’l verso inculto!
Veder la terra di pomi coperta,
ogni arbor da’ suoi frutti quasi occulto;
veder cozzar monton, vacche mugghiare,
e le biade ondeggiar come fa il mare!
Or delle pecorelle il rozzo mastro
si vede alla sua torma aprir la sbarra:
poi, quando move lor co ’l suo vincastro,
dolce è a notar come a ciascuna garra.
Or si vede il villan domar col rastro
le dure zolle, or maneggiar la marra;
or la contadinella scinta e scalza
star con l’oche a filar sotto una balza.” 1, 17-19) L’estasi è un esito raro in ogni storia
letteraria: da noi, lo si potrà ritrovare in Carducci (ed anche più riuscito),
ma non in molti altri. Neppure in Poliziano la “fusione” avviene
abitualmente od avviene a fondo: ma tali strofe rappresentano sempre la
vetta della sua poesia ed una sorpresa gratificante per il fruitore. Ecco
l’impeto dell’ira nella tigre, frenata dal vagheggiamento sia pur illusorio
dei figli rapiti:
“Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli;
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli;
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra che ai suoi nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.” (1, 39)
Ecco la figura di Simonetta:
“Candida è ella e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba:
lo inanellato crin dell’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Ridegli attorno tutta la foresta,
e quanto può sue cure disacerba.
Nell’atto regalmente è mansueta;
e pur col ciglio le tempeste acqueta.” (1,43) Citiamo
ancora la descrizione di Cipro (1,70): “Vagheggia Cipri un dilettoso monte
che del
gran Nilo i sette corni vede
e’l primo rosseggiar dell’orizzonte
ove
poggiar non lice a mortal piede.
Nel giogo
un verde colle alza la fronte;
sott’esso
aprico un lieto pratel siede;
u’
scherzando tra’ fior lascive aurette
fan
dolcemente tremolar l’erbette”
Il canto di Polifemo per Galatea: “E dica
ch’ell’è bianca più che il latte
ma
più superba assai ch’una vitella;
e
che molte ghirlande gli ho già fatte,
e sèrbagli
una cervia molto bella,
un
orsacchin che già col can combatte;
e
che per lei si macera e flagella;
e
che ha gran voglia di saper notare”
per andare a trovarla in fin nel mare” (1,117). E’ naturalmente da intuire che in molti casi più
numerosi, prevalga talmente l’epopea oppure l’idillio (sebbene mai del tutto
separati), che le singole stanze si lasciano definire liricamente in una
direzione abbastanza univoca; oppure che ritorni la situazione della strofa
ottava, in cui alcuni versi risentono maggiormente di una tonalità ed altri
della seconda. Ebbene, per l’idillio puro, basterà
riferirsi alla descrizione dell’alba in 1, 25 (strofa imitata e messa in
burletta da Alessandro Tassoni, La secchia rapita, 1, 26):
“Zefiro già di be’ fioretti adorno
avea de’ monti tolta ogni pruina:
avea fatto al suo nido già ritorno
la stanca rondinella peregrina:
risonava la selva intorno intorno
soavemente all’o^ra mattutina:
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore” Invece per una forte prevalenza di epicità,
scegliamo come esemplare la strofa 27, una delle più belle fra le molte mosse,
drammatico-epicizzanti di tutta la scena di caccia (1, 26-36):
Già
circundata avea la lieta schiera
il
folto bosco; e già con grave orrore
del
suo covil si destava ogni fera;
givan
seguendo i bracchi il lungo oodore.
Ogni
varco da lacci e can chiuso era:
di
stormir, d’abbaiar cresce il romore:
di
fischi e bussi tutto il bosco suona:
del
rimbombar de’ corni il ciel rintruona”. E’ facile accorgersi come questi due toni di
fondo traducano a livello emozionale quella duplicità di motivi ispiratori che
si presentano come non del tutto slegati e non del tutto subordinati fra
loro: l’aspirazione all’ amore e il culto della forza. E’
normale in ogni poeta classico che i registri lirici siano quelli adeguati,
armonici alle idee che li ridestano. Il
paesaggio, più indipendente, suggerisce più facilmente l’idillio (come nella
citata stanza 1, 25). Esclusi, invece, l’elegia e la tragedia: sarebbe
stato adeguato il poeta al pianto ribelle sulla descrizione eventuale dell’uccisione di Giuliano? Ci pare
cosa difficile. NOTAZIONI STILISTICHE . La classicità della espressione.
Per classicità intendiamo, dopo la visione positiva, seppur sognata, della
esistenza (classicità dei motivi ispiratori); e dopo l’armonia fra idillio ed
epopea nei toni lirici, l’equilibrio dei vari fattori espressivi: nei
vocaboli, nel musicalismo, nelle immagini, nella cadenza metrica e nella
coincidenza di periodo logico e ritmico. La mitologia e la retorica presentano
un’altra componente classica: l’imitazione dei modelli antichi, il
riferimento alle “auctoritates” esemplari.
I vocaboli sono scelti d’istinto o trasformati di genio con una
sapienza che è anzitutto nella
proporzione tra sostantivi e verbi prevalenti rispetto agli aggettivi
significativi ed avverbi pertinenti. In questa equilibrata scelta filologica,
spiccano le dominanti vocali larghe, rotonde, forti, che emarginano
quelle tenui, strette., delicate. Viceversa sono le consonanti dolci,
tenere, carezzevoli (nasali, liquide, fruscianti) che prevalgono e si alleano
alla dentale media (d) proprio nei punti in cui la vena lirica del Poliziano
raggiunge lo zenit del suo estro. Ecco, ci pare, un segreto tecnico della
complessità fra epica ed idillio nel poemetto: la cooperazione tra una forte
struttura di vocali solide portanti e una splendida ala
di lievi consonanti sublimanti;
la simbiosi fra una base formidabile di vocali larghe e la guarnizione
consolante di consonanti tenere, ovattanti. L’esemplificazione seguirà
presto.
Le immagini del Poliziano sono forse
il segno più rivelatore di
quel confluire di forza e dolcezza, idillio ed epopea, vigore e flessuosità,
potenza e morbidezza, energia
e duttilità, massa e velocità, solidità e dinamismo... Ecco alcune di queste
immagini, lapsus ed iconi:
1, 14 (la donna) “segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde
e vanne e vien come alla riva l’ONDE”
1, 17: “Udir gli augei svernar, rimbombar l’ONDE,
e dolce al vento mormorar le fronde”
1, 18: “veder cozzar monton, vacchie mugghiare,
e le BIADE ONDEGGIAR come fa
IL MARE”
1, 25: “Risonava la SELVA intorno intorno
soavemente all’o^ra mattutina”
1, 43 (Simonetta) “nell’atto REGALMENTE E’ MANSUETA
e pur col ciglio le TEMPESTE ACQUIETA”
1, 81: “L’ACQUA DA VIVA POMICE ZAMPILLA”
1,89: “E’ muti pesci in fretta van notando
drento al VIVENTE E TENERO CRISTALLO”.
1,93: “Muove dal colle mansueta e dolce
la schiena del bel monte”. Si possono riscontrare nel solo libro primo i
paragoni con fiere e belve che, tutte, hanno in comune la duplice caratteristica
di una muscolatura possente e di una pieghevolezza suprema, di un corpo robusto
e di una snellezza elegante: orso, tigre, leone: I, 8, 9, 17,
24, 26, 30, 32, 39, 98, 111, 114, 117... Queste immagini, espresse nella
musicalità sopra descritta lasciano la impressione di una massa magmatica in
lento ma inarrestabile progresso, di una tigre in magnifico balzo aggressivo, di
una colata di metallo fuso che proceda fluida e possente, dell’oceano che alzi
le sue onde liquide ma formidabili. Solidità ed elasticità, saldezza e
morbidezza, muscolosità ed eleganza: nulla di rigido o duro, ma anche nulla di
molle o di debole. Armonia, simbiosi, sinergismo di
paterna mascolinità e di femminilità matronale.
Al risultato di evasione nel sogno, fuori dal reale disarminoco, dalla
concretezza scabrosa, agisce anche la metrica del giambo catalettico quasi
perfetto, con l’ictazione cioè che tende a cadere sulla 2| 4| 6| 8| 10
sillaba: gli accenti puntuali cullano in attitudine contemplativa, obliosa
degli impegni, assorta in un mondo di beatitudine onirica (sognante).
Spia sicura di classicità è pure la facilità a far terminare il
pensiero (e, quindi la frase od il periodo) con la fine del verso, evitando
solitamente l’enjambement o scorrimento della frase da un verso alla metà
dell’altro. Coincidenza di periodo logico e ritmico, ecco (poniamo il
caso più facile: una frase termina alla fine del secondo verso; alla fine del
quarto, un periodo). E’ un indice
di razionalità chiara e di intelligenza ordinata, perchè le eccezioni sono
davvero rare. Ecco Julio che padroneggia il suo cavallo: “Or a guisa saltar di
leopardo| or destro fea rotarlo in breve giro:| or fea ronzar per l’aer un
lento dardo,| dando sovente a fere agro martìro.| Cotal viveasi el giovane
gagliardo:| nè pensando al suo fato acerbo e diro,| nè certo ancor de’
suo’ futuri pianti,| solea gabbarsi degli afflitti amanti” (1,9). La
mitologia pare
volere ingigantire questo fenomeno di improbabile
ma non impossibile connubio fra qualità diverse e praticamente opposte: così
rara e precaria è la loro coniugazione nella vita reale degli uomini! Ma la
favole rende possibile gli incontri più sublimi, ideali e inverosimili: essa
allontana nel regno della fantasia gli eventi; circonda di luce magica i
personaggi; confonde i contorni e attenua i contrasti: ecco che il sogno si
insinua nell’animo come realtà raggiungibile, come meta non più impervia. Si
leggano ad esempio i versi
sull’età dell’oro (1, 21-22); e quelli sull’isola di Cipro (1, 70-119).
La retorica la si ritrova specie nel secondo libro. A noi, delle
varie sue sfaccettature, qui interessa il gioco delle contrapposizioni, per due
ragioni. La prima sta nel fatto che i contrasti concettuali e di parole
ribadiscono l’ambivalenza della ispirazione (amore-forza) e del lirismo
(idillio-epopea). In questo caso,
il calcolo e il gioco sono subordinati ad una verità psicologica complessa,
sottilmente analizzata: è la condizione che distingue il secentismo arbitrario
dal concettismo realistico (o, almeno, verosimile). Il risultato è ben spesso
artistico. Credere o non credere, si leggano questi versi sulla donna: “e
mille volte al dì vuole e disvuole:| segue chi fugge, a chi la vuol
s’asconde;| e vanne e vien, come a la riva l’onde”.(1, 14).
Quest’altro verso sull’amore dei pesci nelle acque (“Ogni lor atto
sembra festa e gioco| nè spengon le fredde acque il dolce foco”:1, 89) ci
porta invece ormai al displuvio fra verità e forzatura, fra sottigliezza
psicologica e freddura barocca. In quest’ultima categoria di realtà si
cade nella impacciata introduzione delle prime sette strofe: “dolce desir,
d’amaro pensier pieno” (1, 2); “di roco augel diventi bianco cigno?”
(1,5). Il Tasso sarà vicino al Poliziano anche in questa tecnica rischiosa. Il valore, i
limiti, il significato del Poliziano nel Rinascimento.
Poliziano è grande poeta, ingiustamente poco
conosciuto ed amato. D’accordo, il suo è il destino della “Incompiuta” di
Franz Schubert, che è sfortunata perchè rimasta sospesa a mezz’aria. Un
poema di 171 strofe e 1364 versi, ammettiamolo, è poca cosa quantitativamente:
eppure Ariosto con più che 38.000 versi, non ne ha tanti paragonabili
qualitativamente a quelli riusciti delle “Stanze”.
Perchè la prima rivendicazione da fare è questa: fra tanti poeti famosi che,
visti da vicino, risultatno dei “re nudi o con troppo poche vesti addosso”,
il Poliziano risulta un genio quella fama popolare (fra studenti, almeno) che
meriterebbe. Il primo libro delle Stanze, come ha fatto scuola per un paio di
secoli, così meriterebbe di esser letto, riletto, studiato da ogni generazione
di Italiani. Fino a Carducci, un timbro lirico così ricco e raro, l’amalgama,
cioè, fra idillio ed epopea nell’estasi o
la loro alternanza ravvicinata nella stessa strofa, sarà un dono che non
ritroveremo più. Ma una parte di colpa, per la sua emarginazione dai
poeti amati e riletti, va attribuita anche a lui. Vale anche per lui la sentenza
troppo vera: l’origine prima (anche se non unica) dei nostri guai è dentro di
noi. Stiamo parlando dei suoi
limiti intellettuali, morali, umani. Il suo poema prende le mosse da un fatto di cronaca rosa-argento: gli
amori giovanili di un cadetto di famiglia signorile, anche se fossero risultati
vincenti, sarebbero sempre stati un argomento da adolescenti
o sfaccendati; e il persistere al livello estetico del primo libro in un
argomento ben presto scontato nei suoi risultati da cronaca scandalistica, era
un’impresa non facile neppure ad
un Poliziano: le strofe del secondo libro sono ben lontane dalle vette di molte
del primo. Inoltre egli si escludeva da sè da quei motivi ispiratori che, lo si
voglia o no, costituiscono le vette dell’interesse umano: la vita religiosa,
il dovere morale, le questioni di filosofia antropologica od esistenziale, le
grandi imprese storiche sono una sfida all’intelligenza davvero ardua: ma se
il tentativo riesce, si avrà un poeta o prosatore davvero universale: se anche
il fascino artistico della parola si perde
abitualmente nelle traduzioni,
rimane, in un letterato famoso come
tale in una nazione, il fascino della sua ideologia, del suo porporsi come
rivisitatore di problematiche comuni a tutti gli uomini che pensano. Virgilio e
Dante, Omero ed Eschilo, Sofocle ed Euripide, Skakespeare e Goethe, Dostoiewski
e Tolstoi, Foscolo e Leopardi, Ibsen e Cervantes devono la loro fama oltre i
confini della loro lingua alla loro visione universale e sommamente umana dei
loro motivi. Non fu così per il Poliziano: e per limiti personali e per
la mentalità dell’umanesimo della sua epoca. Che è quella
rinascimentale. Orbene Poliziano è poeta completamente rinascimentale anche
perchè manca di una tale pienezza di intelligenza, che lo renda avvertito della
presenza inesorabile del male, come peccato e come dolore, nella vita umana: non
sa accorgersene per i limiti di virilità che facevan da contropartita, nella
sua sfera intellettiva prima ancora che in quella volitiva, al grande dono della
genialità poetica Non accorgendosene, egli, cristiano ovvio
ma superficiale ed ecclesiastico infedele ma senza rimorsi (salvo gli
anni ultimi, col Savonarola), non comprende la funzione della redenzione di
Cristo nè sospetta della importanza del
dogma, apparentemente ingenuo ed
iirazionale, della colpa originaria. Conferma, dunque,
l’astigmatismo dell’Umanesimo rinascimentale: guardare ad una sola
dimensione della vita, quella idealizzante della piena stima, fiducia, felicità
della condizione umana; ignorare quella faccia penosa e umiliante dell’umana
realtà concreta, che la Rivelazione giudeo-cristiana sottolinea nella concretezza dei suoi dati e nella radice
della sua genesi. A fianco di Sandro Botticelli (pittore idillico se ce ne fu un
altro); accanto a Pico della Mirandola (che nella ragione filosofica si illudeva
di poter trovare la soluzione di ogni problema dell’uomo, unificando le
religioni tutte e assorbendo anche i dati della magia) ed a Marsilio Ficino (che
nel candido platonismo sognava una
via facile ad accordare classicità greca e valori cristiani), il Poliziano
segna il culmine della poesia rinascimentale, ma tradisce i difetti di una
cultura, che ben presto Savonarola, Machiavelli e Lutero
condanneranno esasperati o disperati, preparando la fine
del sogno, troppo bello
per essere vero, in cui si era cullato oltre un secolo di gente studiosa e di
borghesia benestante, trovando il suo apogeo nella generazione fiorentina
pilotata dal Magnifico. V)SCRITTORI AL DI LA’ DELLA CIVILTA’
RINASCIMENTALE
Si tratta di scrittori poeticamente poco significativi e, culturalmente,
di valore disparato: Leonardo è un gigante della scienza; altri (Aquilano,
Tebaldeo, Francesco Colonna) precorrono il fenomeno secentista. Nessuno
partecipa attivamente della cultura rinascimentale, anzi Leonardo vi polemizza
contro. Leonardo è rimasto poi indedito fino al secolo XX,
salvo le sue notazioni sulla pittura pubblicate nel 1656. Pure, egli ha in mano
le chiavi del futuro, presagendo Copernico e Keplero, Galileo e Newton. Gli
altri tre scrittori sono dei poveri untorelli, che precorrono non la verità
(estetica) ma o l’artificio del barocco o la scrittura mista di latino e
volgare (Francesco Colonna) che verrà ripresa, in versi,
da Teofilo Folengo e da
Camillo Scroffa (Teofilo, rivestendo di desinenze e di sintassi latine il
toscano o il dialetto: latino maccheronico; Camillo, rivestendo di desineze
italiche un vocabolario sostanzialmente latino: linguaggio fidenziano).
Cominciamo dai poeti. Serafino de’
Ciminelli detto l’Aquilano. La
vita. Nato
all’Aquila nel 1466 e morto a Roma nel 1500, egli fu musico ed improvvisatore
o almeno eccellente recitatore delle proprie poesie, che accompagnava col suono
del liuto. Festeggiato come novello Orfeo, ma instabile di temperamento, fu al
servizio di vari signori italiani: del cardinal Ascanio Sforza a Milano
(1484-93), di Ferrandino d’Aragona, governatore d’Abruzzo e, dopo aver
girovagato per Urbino, Milano e Mantova, del duca Valentino: al cui servizio morì,
stroncato a Roma da una terzana fulminante. Le Opere. Sonetti,
strambotti e frottole (o barzellette), egloghe (due in terzine sdrucciole e
un polimetro, come nel Sannazaro) e un “Atto
scenico del Tempo". Caratteristcihe delle sue composizioni: superò in prodezze
prebarocche i poeti cortigiani del suo tempo: le arguzie concettistiche, negli
altri, scoccano alla fine, mentre lui apre i suoi versi con una “agudéza”
che poi sviluppa fino alla esasperazione. Ad esempio, nel sonetto 53, la neve
diventa in lui fuoco: per amore; nello strambotto “Se drento porto” , fuoco
e acqua, lacrime e amore stanno in lui senza consumarsi; nell’altro “Se
salamandra in fiamma viva” si domanda: -come mai la donna amata non bricia,
accanto a lui così infuocato?; in “Spesso questi arsi panni”, si getta nel
mare, perchè i panni gli bruciano per fuoco d’amore: e anche il mare si
accende! Se non bastano i concettini a renderlo mirabile (“Ricco m’ha fatto
di tre cose Amore: vento in bocca, in gli occhi l’acqua e foco in core”),
eccolo a inventare artifici metrici che sono vere prodezze tecniche: inizio dei
versi con la stessa parola; strambotti a dialogo, incatenati dalla rima tra
l’ultimo verso dell’ottava precedente e il primo della seguente... Di vera poesia non è il caso di parlare.
Eppure chi l’udì recitare ha testimoniato sul fascino delle sue prestazioni.
Da vero attore, comunicava un fluido che noi cerchiamo invano nella parola
stampata e che proveniva dalla voce, dal gesto, dalla persona tutta (era
piccolo, robusto, forte ed agile, con gli occhi neri vivissimi). Era un artista
del rapporto umano, delle human relations a livello di spettacolo: prestigiatore
ed incantatore di platee, di corti, di comizi, dalla forza psicologica di un
domatore di bestie feroci, ma senza un valore eterno da consegnare all’umanità:
quanto -nel bene e nel male- poteva
fare, si esauriva nella sua presenza fisica. Tale fu Serafino Aquilano: un
personaggio dell’avanspettacolo, precursore di divi e stars di ogni tempo
(...esclusi, si intende, i nostri giorni,
geni garantiti dalla televisione!...). Non gli mancarono però
contesatori (e meno male!). Antonio Tebaldi
(detto il Tebaldeo: 1463-1537) Ferrarese, fu precettore alle corti degli Estensi e
dei Gonzaga (seguì Isabella d’Este, sposa dei Gonzaga, a Mantova); poi fu
segretario papale alla corte di Leone X e fu rapinato di libri e di robe nel
sacco di Roma nel 1527. Ecclesiastico e arciprete della chiesa di S. Pietro in
Verona, passò nella meschinità gli ultimi suoi anni. Le poesie in volgare le
aveva scritte da giovane e se le era trovate edite da un cugino indiscreto, nel
1499: entro il secolo seguente, ebbe 11 edizioni!. Ciononostante, rimangono una cosa arida e
compassionevole: immagini balorde, vecchie come la poesia occidentale tutta e
sofisticate già dai Provenzali e dal Petrarca, vengono dedotte alle ultime
conseguenze, diciamo pure ridicole. Egli è così zeppo di strali d’amore, che
il cieco Cupìdo potrebbe servirsi di lui come faretra. Flavia è scivolata
sulla neve e si è slogata un piede: è stata la neve, invidiosa del poeta; e se
la donna ardesse d’amore per il poeta e come il poeta, avrebbe sciolta la neve
stessa!. Scende sangue dal naso di Flavia? E’ uno strale d’amore: Cupìdo ha
sbagliato bersaglio... Benedetto
Gareth, detto
il Cariteo
(1450- 1514). La vita. Catalano, nato a Barcellona (1450 ca), sbarcò a
Napoli verso i 17 anni al servizio degli aragonesi e divenne amico del Pontano e
del Sannazaro, che lo ribattezzarono “Cariteo”, cioè “alunno delle
Grazie” (“Chàrites”, in greco). Rimase fedele agli Aragonesi durante la
occupazione di Carlo VIII, ma passò agli Spagnoli vinciori, dopo la pace di
Blois (1504). Morì dieci anni dopo, a Napoli. Le opere. Nel 1506 pubblicò “Endimione alla Luna”, il
suo canzoniere (“Luna” è il nome della donna amata), di tipo petrarchesco. Però contiene anche molte poesie
occasionali, politiche o popolaresche (strambotti). Ripubblicando l’opera nel
1509, ne abbreviò il titolo nel solo “Endimione”,
escluse gli strambotti ma vi aggiunse due poesie: “Pascha” (di argomento
religioso) e “Metamorfosi” (di adulazione alla dinastia catalana, con elogi
a casate napoletane e spgnole). Il titolo prende lo spunto dal nome della donna
amata, che è lo stesso del satellite terrestre, di cui, appunto, il personaggio mitologico si innamora . Come
la luna, essa è volubile e incostante. Il significato dell’opera poetica del Cariteo
è molteplice. Egli è il segno più sicuro
che anche l’area
meridionale della penisola si è inserita definitivamente nella sfera
linguistica di Firenze. Egli approda a Napoli diciassettenne ed apprende la
lingua e la tradizione poetica italiana: il risultato è che egli parla e scrive
in volgare toscano. Ancora: egli conferma l’indirizzo classico della
letteratura dominante a Napoli . Difatti egli non riecheggia solo Petrarca,
ma Virgilio, Ovidio, Catullo, Properzio. Nella canzone “Aragonia” riaffiora
anche il pensiero platonico. Nè mancano Dante ed i Provenzali: a proposito di
questi ultimi, occorre dire che fu lui a riportali in auge nella sua
generazione. Purtroppo, però, sono rari i versi in cui la “langue” si
“connoti” di un plus valore lirico, divenendo “parole” che comunica
emozioni (emotivogenetica). Ecco due terzine, che profumano di elegia: “Qual
roscigniuol sotto popolea fronde| piange i suoi figli, che’l duro aratore| gli
ha tolti, insidi”ando al caro nido,|| lui repetendo il miserabil grido| chiama
la notte e nullo gli risponde,| empiendo i boschi e’l ciel del suo
clamore...”. Ed ecco un brano della canzone “Natività” (non compresa
nell’Endimione), brano che resta incerto (ci pare) fra idillio ed elegia:
“Lieto inverno genial, ch’a’ dolci giochi| inviti e, stanchi, in la magion
tranquilla| mentre ogni nocchier porto desia...”. Estroverso e superficiale,
forzato e retorico, egli talvolta lascia il sospetto che la lingua straniera
(pur maneggiata con più scioltezza dei contemporanei Francesco Galeota e Jacopo
De Gennaro) gli faccia ostacolo. Non gli riesce di raggiungere quella
disinvoltura con cui si possiede ed usa la lingua materna e che sola permette la
scorrevolezza del ritmo e la piena adeguatezza della parola al senso voluto.
Talora il suo vocabolario sembra peccare di astigmatismo, per attributi
sproporzionati od altre imprecisioni. Vi è, inoltre, anche in lui il
presecentismo letterario. E siccome poco è il riflesso lirico, abbiamo
preferito considerare anche lui in questa prospettiva di passaggio dal
Petrarca meno riuscito al concettismo marinista del secolo XVII. Forse egli,
spagnolo come Seneca e Lucano, l’arguzia l’aveva nel sangue. E’ un fatto,
comunque, che talora il ridicolo affiora in luogo della emozione: Luna, nome
della donna e del satellite, si presta ad equivocare: essa è “sola ed una”,
cioè “sole e luna” contemporaneamente. Bella battuta di spirito: che non può,
però, pretendere di essere presa in seria considerazione per un giudizio di
poesia! Hypnerotomachia
Poly’phili:
La “Battaglia d’amore in sogno” venne pubblicata a Venezia da Aldo
Manuzio, nel 1499, in edizione elegantissima, con 168 litografie di scuola
mantegnesca. Lo presentava, dedicato al duca d’Urbino, un certo Leonardo
Grassi: ma l’autore va (com buona probabilità) ricavato da un acrostico, cioè
dalle lettere iniziali dei 38 capitoli dell’opera, divisa in due libri. Frate
Francesco Colonna dimorò a lungo nel convento dei SS. Giovanni e Paolo in
Venezia ed ivi morì novantenne nel 1523. Era di Treviso. La “battaglia d’amore” inizia con il sogno di
uno smarrimento nella selva; prosegue con l’ascolto di una voce che lo conduce
per visioni di bellezze naturali ed architettoniche alle soglie dei regni di
Dio, del mondo e di Venere. Quivi incontrerà l’amata Polia, benchè
scoraggiato ad entrarvi dalla ragione (Logistica) e dalla volontà (Telemia).
Nel regno di Venere, egli passa di giardino in giardino, tra consessi di ninfe,
iniziazione mitologica, trionfo di feste, ecc.: finchè giunge alla
contemplazione della mater amoris, alle soglie della sensualità sempre
sollecitata e mai appagata. Il secondo libro spiega le casue della non
corrispondenza precedente di Polia all’amore di Pacifico, con il racconto dei
loro tormentati rapporti, ora
conclusi felicemente seppur solo in sogno. La gratuità della trama; la molteplicità degli
interessi (ad esempio la futile insistenza con cui si dimostrano conoscenze di
architettura antica, al punto di fare di tale esibizionismo un motivo parallelo
a quello amoroso fondamentale); la lungaggine delle esposizioni, lente,
penose... sono questi solo una parte degli artifici del libro, che vuol
riprendere le allegorie non solo della Conmmedia, ma anche del Roman de la Rose,
del De Amore di Andrea Cappellano e, indietro indietro, fino da Marziano
Cappella, per giungere di nuovo a Dante (Vita Nova), a Boccaccio, a Petrarca. Il
tutto nell’intenzione di trasformare in religione l’amore profano... Lungo questa mentalità dell’ambiguo o almeno
dell’ambivalente, si potrà anche non meravigliarsi dell’artificio
linguistico: un vocabolario madido di latinismi (con qualche infioratura veneta:
bellecia, rigidecia, piagia, sencia fallo, malvasia=malvagia, asucte...), che
pretende di creaare un linguaggio adolescenziale, dolce-tenero, con
numero di parole sdrucciole ben oltre la norma e con diminutivi operati
anche su aggettivi e verbi. Ecco
dei brani di controllo. Titolo del primo capitolo: “Poliphilo incomincia la
sua Hypnerotomachia ad descrivere et l’hora, et il tempo quando gli apparve
nel sonno di ritrovarsi in una quieta et silente piagia, di culto deserta (priva
di abitanti). Dindi poscia disaveduto con grande timore entrò in uuna invia
(impervia) et opaca silva”. Ed ecco l’inizio dello stesso capitolo:
“Phoebo in quel hora manando, che la fronte di Matuta Leucothea candidava,
fora già dalle oceane unde, le volubile rote sospese non dimostrava, ma sédulo
con gli sui vòlucri caballi Pyroo primo, et Eoo alquanto apparendo, ad
dipingere le lycophe (luminose) quadrige della figliola di vermigliante rose,
velocissimo insequéntila, non dimorava. Et corruscante già sopra le cerùlee
et inquiete undule, le sue irradiante come (chiome) crispulàvano”. E
godiamoci un altro squarcio di questa intollerabile eloquenza: “Conciosia cosa
che ad gli ochii mei quivi non si concedeva vestigio alcuno di videre, nè
diverticulo (sentiero). Ma nella dumosa silva appariano sì non densi virgulti,
pongente vepretto (roveto), el silvano fraxino ingrato alle vipere, ulmi ruvidi,
alle foecunde viti grati, corticosi subderi (sugheri) apto additamento muliebre,
duri cerri, forti roburi (roveri) et grandulose querce et ilice, et di rami
abondante, che al roscido solo non permettevano gli radii del gratioso sole
integramente pervenire, ma come da camutato culmo (curvo tetto) di densate
fronde coperto, non penetrava l’alma luce. Et in questo modo me ritrovai nella
fresca umbra, humido aire, et fuso nemorale(bosco)” Il tono serioso non permette di ritenere uno scherzo
questa balorda vicenda: siamo allora sulla soglia della paranoia o dentro un
infantilismo patologico. Il problema, allora, diventa quello di capire come mai
il Manuzio si sia deciso a stampare una simile scempiaggine... O il perchè
frate Colonna fosse un predicatore ricercatissimo ed occupasse cariche
importanti nel suo convento! Siamo, però, anche lungo la via per cui, partendo
dal tenerume sognante del Sannazaro (ancora entro la ragionevolezza...o quasi),
attraverso questo guazzabuglio mentale, si approderà, da una parte, a quelle
parole dai radicali italici ma con desinenze e grammatica latine, cioè al
latino “maccheronico” di Teofilo Folengo, autore capriccioso e neppur lui
propriamente poetico, ma intelligente stroncatore del genere cavalleresco in
voga; e, dall’altra, al linguaggio fidenziano che, sotto lo peseudonimo di
Fidenzio Glottocrisio, Camillo Scroffa inventerà con un congegno a rovescio:
mettere desinenze e grammatica italiche a radicali latini. Ed ecco allora il
significato unico (a nostro parere) della noia, immensa, invincibile che dà in
premio la lettura dell’opera di Francesco Colonna: se è veramente lui
l’autore (rimangono dei dubbi), siamo di fronte ad un frate perdigiorno e
sciupainchiostro, che però suggerisce lo spunto, ad altri scrittori più
dotati, per opere pervenute, o quasi, al segno della sufficienza estetica. Leonardo da
Vinci (1452- 1519).
La
vita e gli interessi del suo “multiforme ingegno”.
Nato a Vinci
(Firenze), è universalmente conosciuto come uno dei geni supremi dell’umanità
per l’apertura dei suoi interessi (pittura, architettura, scienza, tecnologia
ingegneristica, letterato): la sua fama più alta è legata alla operosità
pittorica, perchè essa giunse a capolavori definitivi (dal Cenacolo in Santa
Maria delle Grazie, a Milano, alla Gioconda del Louvre di Parigi) e ad altri
famosissimi lavori ( due Annunciazioni, ora agli Uffizi; un San Gerolamo, alla
Vaticana; un’adorazione dei Magi, incompiuto, agli Uffizi; la Vergine delle
rocce, al Louvre; i disegni per la
battaglia di Anghiari, ecc.). In tale campo, fu il creatore della tecnica dello
sfumato. I suoi studi sul moto, sui vortici, sul volo, sulla
statica (suo è il principio di inerzia), sulle proprietà dei vasi capillari,
sulle proprietà della camera oscura, sulla comprimibilità dei corpi, sulla
resistenza dell’aria, sulla vibrazione delle lastre, sulla formazione delle
onde liquide, ecc. sono stati un contributo singolare al progresso scientifico. Nel campo tecnologico,
ideò il dinamometro e il laminatoio idraulico e molte macchine per difesa ed
offesa militare. Nel settore idraulico, rese navigabile il Naviglio di Milano,
nonostante dislivelli impervi, con la introduzione delle chiuse; il duomo di
Milano usa tuttora un ascensore da lui creato per accedere alla rleiquia del
“sacro chiodo” della Croce, custodito in posizione elevatissima). In sede
specificamente letteraria, egli lavorò solo a momenti ed a spezzoni, non
esistendo un’opera sistematica neppure a livello di progetto (come invece
esiste un tentativo organico di Trattato della pittura). Un altro handicap della
sua produzione letteraria è il finalismo pratico che la originava: egli si
preoccupava (o aveva l’incarico, addirittura?) di intrattenere la corte
sforzesca di Milano con narrazioni sapienziali o divertenti: anche le favole
tendono quindi a scopi pratici che fan pendere
l’attenzione e l’impegno più
verso il fine istruttivo che verso
la emotività: si vuol dire che
l’interesse e il piacere di una favola possono nascere dall’insegnamento
prudenziale più che dalla narrazione liricamente affascinante; o possono
derivare da equivoci anche erotici. Capita anche quest’ultimo ripiego, quello
cioè di inventare facezie per soli adulti o per soli uomini, così come gli
avviene di rasentare la filosofia, quando presenta il senso della vita,
governata dalla natura con leggi fatali – quella che lui chiama la “mirabile
necessità”- che tendono a distruggere e rigenerare il materiale disperso,
eccetto che per l’anima umana che, disperso il corpo si ri(m)patria in Dio. Prima di approdare a Milano, era stato a scuola di
Andrea del Verrocchio e aveva poi lavorato a Firenze dal 1476 al 1482.
Si dice che abbia lasciato Firenze per aggirare, nella più liberale
Milano- la proibizione alla anatomia dei cadaveri. Di qualche capolavoro
pittorico e di qualche marchingegno ingegneristico ivi operato, si è detto.
L’invasione dei Francesi del 1499 lo portò presso molte corti e città
d’Italia (Mantova, Venezia, Firenze, Roma...). Nel 1517 accolse l’invito di
Francesco I a recarsi in Francia. Preparava disegni per un castello; organizzava
feste a corte; completava i manoscritti (circa 5.000 fogli), ora sparsi fra
Italia, Francia, Inghilterra. Morì ad Amboise nel 1519. Gli scritti e il pensiero.
Scriveva da destra a sinistra, come gli Ebrei. La più parte dei suoi fogli
interssano gli studi scientifici e la pittura. Questa è da lui ritenuta un modo
di vedere le cose e scoprirne la natura, se non addirittura di entrare in gara
con Dio e ricrearle: la pittura è una specie di filosofia della realtà che, in
tanto è riprodotta, in quanto conosciuta nella su intimità. Un “Trattato
della pittura” fu ricavato dai suoi appunti nel 1656. Per il resto, il pensiero di Leonardo fu una
riscoperta personale della natura, quasi completamente al di fuori delle
informazioni aggiornate. Queste erano scritte in latino che gli era ignoto:
doveva, dunque, servirsi di opere in volgare, arretrate nei singoli settori di
studio. Si pensi al suo “bestiario”, concepito alla medioevale, con finalità
moraleggianti o psicologiche: così, l’aquila è simbolo di liberalità; la
talpa, di menzogna (“busia”). Anche accetta alcuni errori degni della ingenuità e disinformazione del don Ferrante
manzoniano: il basilisco malvagio che dissecca le piante ed uccide gli animali
con lo sguardo; la sirena che addormenta i marinai... Ma se si sale dai particolari alle linee generali di
una intelaiatura filosofica e di una metodologia scientifica, allora vien fuori
l’uomo dalle molte anime, il genio, superiore nella vastità degli interessi e
profondità della indagine, all’Alberti, a Michelangelo, a Galileo. E’
convinto credente in Dio e nella immortalità dell’anima: si vedano i Pensieri
38| 108; le Profezie (=indovinelli) 27| 30| 36; i Proemi (frammenti d’indole
polemica) 18| 20; Il Diluvio (descrizione in funzione di disegni sulla fine del
mondo, con annessa una conclusione di critica biblica: il n. 6 testimonia in
Leonardo un credente nella Parola di Dio, che tenta spiegare le obiezioni che la scienza potrebbe muovere al sacro testo,
come appunto quello di Genesi, 6-8 sul diluvio). La affermazione sprezzante
verso i frati (“padri de’ popoli, li quali per inspirazione san tutti li
segreti”) nel Proemio 10, è bensì in rapporto a questioni riguardanti
l’anima, ma non circa la sua esistenza, ma circa la sua natura. Al di sotto di questi due punti fondamentali di
religione, esistono una serie di affermazioni che, senza lasciarsi ridurre ad un
organismo filosofico, suggeriscono però una mentalità platonica, se non
pitagorica. Egli, non si dimentichi, passò la giovinezza a Firenze, nel pieno
fiorire della “teologia platonica ficiniana”: forse di qui egli assorbì la
profonda convinzione della esistenza di una realtà spirituale al di sotto dei
fenomeni materiali, di un’arcana forza motrice al di là della inerzia della
materia sperimentabile. Era questo un dato presente anche nella fede, accettato
anche dalla teologia: ma la particolare insistenza con cui ritorna la
problematica sui due poli della realtà, che ipotizza un’anima presente anche
nei corpi infraumani, è più pervasiva ed assillante che non lo sia nella
tradizione cristiana, perchè sembra mettere sullo stesso piano l’anima del
mondo e quella umana, la “forma” della materia con lo spirito dell’uomo.
Ci si immette allora sulla scia del platonismo e del pitagorismo. La opposizione
poi fra materia e spirito è tale che, secondo
leggi puramente naturali, non parrebbero poter convivere: solo il volere del
Creatore tiene uniti e cooperanti il principio eterno dello spirito e quello
mortale della materia. Tale forza arcana diventa necessità: di leggi, di
armonie, di matematiche relazioni che solo lo spirito umano supera nella libertà,
ostacolata dalla materia finchè lo spirito non si sarà svincolato dal corpo,
che lo impriigona. Ecco il passo famoso sulla “divina necessità”: “O
mirabile Necessità, tu con somma ragione costringi tutti gli effetti a
partecipare delle lor cause e con somma e inrevocabile legge ogni azione
naturale con la brevissima operazione a te obbedisce...O magna azione, quale
ingegno potrà penetrare tal meraviglia? Certo, nessuna. Questo dirizza
l’umano discorso alla contemplazione divina” (Codice Atlantico, f. 34, v.
b.) Si discenda da queste intuizioni (magari
temerarie) ai capolavori
artistici, alle scoperte scientifiche, alle innovazioni tecnologiche e si avrà
una conferma a quanto si è enunciato: essere dotato Leonardo di una mente così
universale e geniale da superare i limiti della cultura del Rinascimento,
proiettandosi nel futuro, fino a precorrere con l’ingegno il volo umano,
fino a poter essere conisderato personaggio a noi contemporaneo, degno di essere
concittadino del “villaggio globale” reso possibile dagli aerei, dai nuovi
mezzi di comunicazione, fino ai viaggi spaziali. Leonardo, che si definisce
polemicamente, contro gli umanisti, “omo sanza lettere” è diverso e in
parte opposto al Rinascimento, perchè non era rivolto a ricuperare una civiltà
perduta come quella greco-romana, ma proiettato al futuro, oscuro profeta di un
tal cumulo di scoperte scientifiche, da figurare accanto a Copernico e Nicola
Tartaglia, a Keplero e Galielo, a Newton e ad Einstein. D’accordo, anche lo
spirito critico degli Umanisti preparava tali conquiste: ma indirettamente, da
lontano, senza nessun presentimento dei risultati impliciti solo genericamente
nelle precisazioni filologiche e
storiografiche dei migliori fra essi. In Leonardo c’è adirittura qualche
tessera razionale in più che nel troppo entusiasta Illuminismo: solo col
Positivismo si giungerà a quella
passione per gli esperimenti, a quella sete incontentabile di sapere ed a quella
serie indefinita di scoperte, che ha dato
spazio di rivelarsi a geni della sua misura: Leonardo meritava di vivere ai
nostri giorni. Nell’Umanesimo rinascimentale era spaesato, perchè troppo più
avanzato dei suoi cultori. Ecco alcune sue affermazioni a visiera alzata,
polemiche troppo assennatamente contro gli umanisti emunctae naris
(dall’odorato, dal gusto squisito), buongustai della parola più che delle
verità innovative: “Chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce
di confusioni e mai porrà silenzio alle contraddizioni delle sofistiche
scienze, quali s’impara in eterno gridore”; “Chi disputa allegando
l’alturità (autorità) non adopera lo ingegno ma piuttosto la memoria”;
“Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori (Aristotele? o chi
altro?), molto maggiore e più degna cosa è a leggere allegando la sperienza,
maestra ai loro maestri...”; “So bene che, per non esser io litterato, che
alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare
io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei,
sì come Mario rispose contra a’ patrizi romani, io sì rispondere dicendo:
-Quelli che dell’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo
non voglionoi concedere”.[75] Una comprensione
più adeguata della sua ansia di indagine e scoperta, la si può avere
anche leggendo il breve, famoso frammento sulla “Caverna”:
“E tirato io dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia
delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto
infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi
alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegate le mie
reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, (e) colla destra mi
feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là
per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la
grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due
cose: paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio
per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa” Le opere letterarie.
Benchè grafia, interpunzione, sintassi lascino molto a desiderare (Leonardo
doveva avere un cervello molto più sviluppato nell’emisfero destro, proprio
dell’uomo artefice, che non in quello sinistro, proprio dell’uomo sapiente:
è per questo, crediamo, che egli scrive da destra a sinistra), tuttavia
l’impeto di passione con cui egli partecipa alle sue scoperte, intuizioni o
convinzioni è tale che, attraverso una forma anomala brilla una nota lirica.
Anzi vi è un caso in cui, senza avvedersene, scrive in versi. Qualcosa di
simile (ma ben più fiocamente, veh!) accadrà nel Milesettecento a G. B. Vico. I brani di natura letteraria dei suoi fogli sono
stati distinti in questi gruppuscoli: Pensieri| Favole| Bestiario| Profezie
(indovinelli)| Facezie| Proemi|
Discorsi contro gli abbreviatori| Contro il negromante e l’alchimista| Disputa
pro e contro la legge di natura| Abbozzo per una dimostrazione| Il
primo volo| Il Diluvio| Caverna| Il mostro marino| Il sito di Venere| Il
Gigante| Al Diodario di Soria| Traduzioni e trascrizioni. Dal punto di vista letterario spiccano due di questi
gruppi. Il primo è quello dei PROEMI che è animato da tono polemico e, quindi,
drammatico: bastinoa dimostrarlo le brevi sentenze citate sopra, di
un’ira magnanima e ragionevole, ricuperata come emozione libera e pura da
finalismi pratico-egoistici. L’altro brano è una semplice nota posta
all’interno della copertina del Codice sul volo degli uccelli: la previsione
geniale del volo umano, della macchina che avrebbe elevato l’uomo dalla sommità
del monte Ceceri (presso firenze) nell’aria, nonostante che essa sia più
leggera dell’uomo, divenne commozione così intensa da dettargli 4
endecasillabi perfetti ed uno ancora ipermetro,ma riducibile alla regolarità
mediante la soppressione dell’aggettivo “tutte” (da noi posto fra
parentesi):
“Piglierà il volo il
grande uccello (macchina per volare)
sopra del dosso del suo magno Cecero,
empiendo l’universo di stupore,
empiendo di sua fama (tutte) le scritture:
e groria eterna al nido dove nacque”. Ci si permetta una osservazione.Questi versi rivelano
forse un caso parallelo a quanto capitò a San Tommaso d’Aquino: alla fine
della sua carriera filosofica, arida ma acutissima, se ne uscì con le strofe in
latino del “Pange, lingua”, dell’ “Adoro Te devote”
e di altri inni eucaristici: dalla riflessione sulla verità alla
commozione di fronte ad essa. L’arte (la poesia, anche) come splendore di
verità (la definizione è della Scolastica medioevale); la poesia come verità
del cuore (Manzoni). Essa ha toccato anche l’animo di Leonardo, che si rivela
un ambidestro, degno di una memoria anche nella
storia di quelle lettere, che egli credeva precluse a sè, cultore ed estimatore
della sola esperienza e matematica.
Eleno Vergili. San Mamete di Valsolda, , 9.02. 2000.
[1] E’ presente in Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, (Poggio Fiorentino, cioè Bracciolini, p. 295 della edizione Hoepli, Milano,1951). [2] B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza, 1957, pp. 209-38. I singoli UMANISTI CHE NON HANNO IMPORTANZA ARTISTICA ma solo culturale, li presentiamo in nota, possibilmente quando sono nominati nel testo, [3] Per “concordanza di cultura” si deve intendere la mentalità o pensiero (nel Medioevo, si trattava della fede integralmente cristiana): quanto alla pratica, non si deve pretendere una coerenza cristallina nella vita morale, che richiederebbe un ambiente socio-politico impostato univocamente in funzione di un costume sociale ispirato al Vangelo. Diciamo subito che la Cristianità non ha mai avuto in nessun secolo gli strumenti per estendere la formazione anche morale a tutta la Europa cristiana. Non nei secoli del “sacro romano impero” medioevale, per carenza di organizzazione di un’Europa ancora feudale; e neppure nel corso dei novanta anni che passano dal 1558 (pace di Castel Cambrese, favorevole alla Spagna, all’Impero absburgico ed alla Chiesa cattolica) al 1648 (pace di Westalia, favorevole alla Francia ed ai protestanti). Difatti nè il re di Francia nè l’impero degli Asburgo accettarono mai di far diventare legge di stato i decreti del Concilio di Trento; la stessa Assemblea generale dei vesvovi francesi solo nel 1615 li accettò; i vescovi di Germania non giunsero mai ad un simile atto di adesione. Comunque si debbano giudicare i provvedimenti disciplinari del Concilio di Trento, qui si vuol solo far notare che essi non poterono aver efficacia nella universalità della Chiesa cattolica, neppurein quei novant’anni così favorevoli alla costruzione di una società cristiana, anche nella prassi del costume morale. [4] A livello di sola cultura classica, sarà antiumanista anche Leonardo da Vinci, che si definisce orgogliosamente “omo sanza lettere” (che cioè non conosce il latino), ma che per il resto è uno spirito ultrarinascimentale, tanto è genialmente moderno. Del card. Dominici e di fra Gerolamo Savonarola parleremo alla fine dello studio sulla Letteratura del Millequattrocento. Qui vorremmo riassumere tutto il gran discutere che si fece fra il 1300 ed il 1400 sulla bontà o meno degli studi classici in rapporto alla educazione cristiana. Già Albertino da Mussato intervenne a difendere gli studi letterari contro il domenicano p. Giovannino da Mantova che obiettava contro la frequentazione degli autori pagani (1329). Petrarca nei Rerum familiarium, x, 4 afferma: “poco manca che io dica che la teologia è una specie di poetica su Dio” (parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo)”. Boccaccio continuerà tale giustificazuione in De Genealogiis deorum, nel libro XIV. Seguirà Francesco da Fano che scrive una invettiva contro i detrattori delle lettere, indirizzata al cardinale di Bologna (Invectiva ad rev.mum patrem dominum cardinalem Bononiensem contra riduculos oblocutores et fellitos detractores po”etarum ). L’autore è contemporaneo di Coluccio Salutati, che nel 1378 deve difendere lo studio di Virgilio contro l’amico Zonarini (Bologna). Con lettera del 15 settembre 1393, il Salutati celebra, poi, l’amore per i poeti, di fronte all’ex soldato Giovanni da Sanminiato, fattosi monaco camaldolese. Egli cita la lettera 70 di San Gerolamo, che accetta l’uso dei classici come cosa ovvia, praticata da un cumulo di padri della Chiesa e, con tale testo, mette a tacere l’episodio notissimo del sogno, da lui stesso riferito, in cui si sente rimproverare “ciceronianus es et non christianus”. Ricorda anche Sant’Agostino, che riconosceva nell’Hortensius dell’Arpinate un libro che lo aveva indirizzato al Cristianesimo. Anzi, egli scrive i quattro libri del trattato De laboribus Herculis, per dimostrare come Platone voleva esclusi dalla sua Repubblica ideale solo i commedianti volgari: per il resto, anche lui difendeva la poesia, come Aristotele. Ma la più appassionata difesa della poesia, Coluccio la scrisse in fin di vita, contro la Lucula noctis (Lucciola notturna) del card. Giovanni Dominici: la lettera (IV, 1) fu interrotta dalla morte. Il suo discepolo Leonardo Bruni si troverà di fronte a nuove opposizioni. Egli traduce, allora, la lettera di San Basilio ai giovani sullo studio degli autori pagani. Inoltre scrive il “De studiis et litteris” (1422-9) a Battistina Malatesta, per dimostrare la moralità ed utilità di tali studi. Oltre tutto, egli ricorda che anche la Bibbia contiene fatti poco esemplari, come i peccati di Davide (si dimentica, però, di notare che la Scrittura condanna tali colpe, il che non avviene negli autori pagani). Questo non toglie che anche il Bruni avrebbe meritato il rimprovero che il suo maestro Salutati faceva alla nuova leva di umanisti (“Nimis vetustati defertis et ceditis: Vi inchinate troppo e troppo cedete all’antichità pagana”). Alla fine del Millequanttrocento Marsilio Ficino dovrà confessare, lui che era un umanista consumato “La cultura per la più parte fa riferimento agli autori profani, sicchè, per lo più, è riuscita uno strumento di iniquità e di lascivia: Doctrina magna ex parte ad profanos translata est, unde, ut plurimum, iniquitatis evasit et lasciviae instrumentum...”). [5] A sua volta il concetto di Umanesimo lo si può rintracciare già in Cicerone, che parla di “studia humanitatis” . Si veda Vittorio Rossi, Il Quattrocento, Milano, F. Vallardi, 1956, c. I). Gli stessi umanisti distinguevano bensì fra “studia eloquentiae” (studi tecnici di lingua) e “studia sapientiae” (studi sapienziali, formativi), ma ne affermavano anche il nesso inscindibile. Ecco il Salutati: “Nelle lettere si celano insegnamenti di virtù e costumi e tutte quelle cose che non basta sapere, se esse non si attuino in opere” (“nisi et operibus impleantur”: Epistolario, ed. Novati, II, 430). Lo stesso Salutati definisce l’eloquenza come semplice “eloquendi ratio= arte del dire”, in opposizione alla “sapienza= rerum divinarum humanarumque scientia” (scienza delle cose divine ed umane), tuttavia chiaramente afferma che “studia litterarum sapientiae et eloquentiae prae se ferunt” (gli studi delle lettere presuppongono quelli della eloquenza e della sapienza). E aggiunge che è proprio la sapienza, cioè i precetti morali, ad educare la vita ed a fornire il massimo contributo alla gravità e ricchezza dell’oratoria, perchè comprende l’etica, la politica e la economia (“cum in ethicam, politicam et oeconomicam dividantur, et vitam instituunt et maximam dicendi tum gravitatem tum copiam subministrant”: Epistol. III, 602, 604). Qui gli studia litterarum e gli studia humanitatis tendoino a fondersi. Leonardo Bruni mantiene più distinti la perizia letteraria dagli studi che riguardano la vita e i costumi, che si chiamano studi di umanità, in quanto perfezionano e nobilitano l’uomo” (quae pertinent ad vitam et mores, quae propterea studia humanitatis nuncupantur, quod hominem perficiant atque exornent” (Epist. VI, 6), ma vuole che quella vada congiunta con questa (studium vero tibi duplex”). Anche Poggio tiene alla distinzione, ma dell’eloquentia e degli humanitatis studia parla come di cose indissolubili. (Epist. IX, 2; X, 23). Quando poi si dice che “omnis bene vivendi norma litterarum studio continentur” (Enea Silvio Piccolomini, cioè papa PioII, Briefwechsel, ed Wolkan, p.I, vol. I, p.226) è ben chiaro che le lettere e gli “humanitatis studia” sono considerati un sol tutto. [6] Trovò anche le Institutiones di Quintiliano: ma sappiamo che le aveva conosciute ed utilizzate già il Boccaccio, forse in edizione incompleta. Amico e maestro del Bracciolini era stato Coluccio Salutati, delle cui scoperte di codici (Epistolae ad familiares di Cicerone: 1392) ed opere originali si è parlato trattando dei Preumanisti. Della sua difesa dello studio dei classici si è detto in nota precedente. Quanto a POGGIO BRACCIOLINI ( nato a Terranova di Valdarno, Arezzo, nel 1380; morto a Firenze nel 1459), fu abbreviatore apostolico a Roma e segretario apostolico; partecipò al concilio di Costanza; dal 1418 al 1422 fu in Inghilterra, donde tornò a Roma con diversi incarichi in curia. Nel 1453 fu chiamato alla cancelleria di Firenze, venendo così a succedere al maestro Coluccio Salutati ed all’altro grande umanista Leonardo Bruni. Spirito collerico (temperamento emotivo, attivo, ma primario, coè instabile), egli ebbe una concezione attvistica dell’umanesimo, che vedeva sì come scoperta e cura delle opere antiche, ma soprattutto come produzione di nuove opere in lingua latina. La sua spinta emotiva, inoltre, lo portava a vivacizzare la esattezza sintattico-grammaticale con una inventività espressiva, che avvicinava il suo latino alla parlata fiorentina. Insomma era più un poeta che un filologo: aveva interesse più al valore artistico di un testo che alla cura formale per ricostruirlo con tutta esattezza; più che alle rigide norme ciceroniane, egli modellava il suo stile sul proprio pensiero e sentimento. Il gusto per l’attività, lo si può vedere nell’ alacre ricerca di opere classiche per mezza Europa; nella introduzione di un nuovo stile di scrittura libraria, detta “umanistica”; e fors’anche in un certo disimpegno ideologico: fu, infatti, indifferentemente al servizio di papi ed antipapi. La collera si manifestava anche nelle Invettive furenti contro altri umanisti, dal Guarino al Filelfo a Lorenzo Valla; ed anche contro l’antipapa Felice V. Ed eccoci alle sue opere. Scrisse trattati come il De avaritia; De infelicitate principum; Contra hypocritas (cioè contro i religiosi, che tali sono per lui); De varietate fortunae; De miseria humanae condicionis; De nobilitate. Ma scrisse anche un Liber facetiarum; gli otto libri delle Historiae florentini populi (continuano l’opera di Leonardo Bruni, dal 1350 alla pace di Lodi nel 1454: fu tradotto in volgare dal figlio Jacopo); Historia tripartita disceptativa convivialis. Sposatosi con una donna assai più giovane, scrisse per difendersi “An seni uxor sit ducenda” (Se un vecchio debba prender moglie). Col Bracciolini non siamo ancora nello spiegato Rinascimento: rimane in lui un fondo di pessimismo sull’uomo, che si manifesta specialmente nelle opere sulla “Infelicità dei prìncipi”, sulla “Variabilità della fortuna” e sulla “Miseria dell’umana condizione”. Il Bracciolini non era un filosofo sistematico, ma uno psicologo intuizionista: non gli si chieda eccessiva coerenza! Certo che l’uomo gli appare fragile, in balia della fortuna o del fato, sicchè la sua antropologia è incerta, oscillante fra l’ammirazione e la sfiducia. Egli è però un felice impressionista: è acuto nel sorprendere i particolari suggestivi anche se non dimostrativi; è un po’ poeta, nel narrare gli eventi e nel presentare i personaggi. Egli introduce nei suoi dialoghi personaggi coevi, colleghi umanisti a disputare fra loro. La grandezza dello scrittore sta nel farli parlare secondo una psicologia precisa e coerente: ci ha lasciato così il ritratto morale di certi protagonisti della cultura umanistica, che pure non hanno scritto quasi nulla, come Niccolò Niccoli e Carlo Marsuppini. [7] AMBROGIO TRAVERSARI, di Portico, in Romagna (1386-1439), camaldolese a S. Maria degli Angeli in Firenze, grecista e traduttore di padri della Chiesa orientale, sbalordiva lo stesso Niccoli, che lo vedeva dettare la traduzione a prima vista, avendo al suo servizio tre segretari... Nel 1431 venne fatto generale del suo Ordine e dovette trascurare gli amati studi che lo legavano ai migliori umanisti (oltre a Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Leonardo Giustinian, Tommaso Parentucelli, Francesco Barbaro), per intraprendere una visita a tutte le case dell’ordine da lui dipendenti, per controllo e riforma. La relazione minuta di tale missione, col titolo di Hodoeporicon od Itinerarium, ci lascia sgomenti sulla situazione morale dei conventi in quel secolo. L’altra sua opera scrittoria è l’Epistolario. Col 1435 inizia la sua attività al servizio del concilio di Basilea, per il cui successo operò efficacemente, non solo come interprete fra Greci e Latini, ma anche come teologo e come sapiente diplomatico (smussò le angolosità di papa Eugenio IV, meno prudente e meno felice come temperamento). Il Decreto di unione fra Chiesa latina ed ortodossa fu steso dal Traversari pochi mesi prima della sua morte. TOMMASO
PARENTUCELLI, da
Sarzana (1397- 1455) fu dapprima al servizio del vescovo di Bologna N.
Albergati, di cui divenne successore. Legato papale in Germania, gli riuscì
di riconciliare col papa la lega dei principi elettori: ottenne così la
porpora e nel conclave del 1447 fu eletto successore di Eugenio IV. Della
sua varia attività di riformatore e di politico ecclesiastico, a noi
interessano gli aspetti umanistici, quali il potenziamento della biblioteca
vaticana (la dotò di 807 codici latini, raccolti in tutta Europa) e il progetto per la ricostruzione della basilica di S. Pietro. La
caduta di Costantinopoli (1453) troncò la speranza di riunire stabilmente
la Chiesa orientale a quella di Roma. E la congiura di Stefano Porcari,
fiorentino da lui troppo benevolmente accolto, perdonato una prima volta e poi condannato a morte, gli
detrasse la simpatia di molti umanisti. Eppure Vespasiano da Bisticci (1421-1498), il
libraio fiorentino, che forniva l’Europa di elegantissimi codici, ma anche
autore di 103 Vite
sui personaggi più famosi alla sua epoca, si gloria di essere stato
amico di un tale gigante della cultura classica e cristiana. [8]
Gli uomini eminenti della Grecia, venuti in Italia per concilio di
Basilea-Ferrara-Firenze, introdussero addirittura alle loro divisioni ed
allo spirito spesso polemico con cui si affrontavano le scuole platonica ed
aristotelica. All’inizio si impongono due aristotelici, più preoccupati
della esattezza che della bellezza delle traduzioni: Giorgio di
Trebisonda, detto il
Trapezunzio (Creta, 1395-Roma 1484: nel 1455 pubblicò le Comparationes
philosophorum Aristotelis et Platonis, cioè “Il confronto tra A. e P.”,
per sostenere contro le accuse di Giorgio Gemisto Pletone una lettura
cristiana delle opere dello Stagirita); e Giorgio Gennadio (o Scholarcos
o Scholarios). Poi trionferà il platonismo con Giorgio Gemisto
Pletone (Costantinopoli 1355 ca- Peloponneso 1450) ed il neoplatonismo
di Plotino, con ricuperi da Pitagora e aggregazioni fin da Zoroastro, non
senza sfagli fuori della fdede cristiana. Così, mentre Marsilio Ficino se
ne fa maestro con la
dedica al Magnifico della traduzione di Plotino (1492), lo Scholarios lo
denuncia come apostata ed eretico! Comunque, l’opera di Gemisto Pletone Differenze
fra Platone ed Aristotele ( 1439 ca: Perì
òn Aristotèles pròs Plàtona diaféretai) inizia la lunga marcia e
trionfale del platonismo: esso si irradierà dall’Accademia fiorentina,
guidata dal Ficino, che scriverà anzi una Theologia platonica, da
contrapporre a quella tomistica che si rifà, filosoficamente, ad
Aristotele. Mediatore fra i due indirizzi, convinto assertore della
conciliabilità fra il pensiero dei due giganti del pensiero antico, fu il
grande vescovo di Nicea Giovanni Bessarione, che ebbe tanta parte
nella (effimera) riunificazione degli Ortodossi coi Cattolici, da
venir creato cardinale da papa Eugenio IV. Il Bessarione lascerà alla
biblioteca di San Marco la propria raccolta di codici: 482 greci e 264
latini. Il suo scritto più importante per il nostro studio è quello
intitolato “In calumniatorem
Platonis” (Contro il calunniatore di P.), in cui egli difende la
validità della filosofia di Platone
come propedeutica al Cristianesimo, contro l’unilaterale difesa di
Aristotele da parte di Giorgio di Trebisonda (1457-8). [9] Le pubblicazioni di ALDO MANUZIO erano notevoli per la eleganza dei volumi (sua invenzione è il formato “in ottavo”) e dei caratteri (preparati da Francesco Griffo: questi fecero definitvamente trionfare il carattere “romano antico” su quello “gotico” degli stampatori tedeschi; dal Manuzio e dal Griffo fu pure inventato il “corsivo od italico od aldino”). Ma esse erano ancora più pregevoli per la cura filologica, che era dovuta alla competenza di un Erasmo da Rotterdam, di un Pietro Bembo e di un Pico della Mirandola e degli altri dotti della Accademia della Fama od “Aldina”. Fra gli autori stampati vi era, oltre ad Aristotele, Omero, Platone, Aristofane, Virgilio, Euclide, Tolomeo, Archimede, Dante, Petrarca, Poliziano. [10] Il Valla dimostrò la falsità del documento in maniera ineccepibile, ma prima di lui già due ecclesiastici l’avevano intuita: il cardinale Niccolò Cusano ( di Cues in Germania, 1401-1464) ed Enea Silvio Piccolomini, poi papa Silvio II. [11] FLAVIO BIONDO è il nome latinizzato di “Biondo” ( Biondi). Opera preziosa per conoscere la nostra penisola nel XV secolo è Italia illustrata, che dà notizie geografiche ed economiche sule varie regioni., oltre che sui monumenti delle età passate. Quando fu occupata Costantinopoli da parte dei Turchi, nel 1453, egli scrisse una esortazione ai principi d’Europa perchè prendessero le difese della cristianità (De expeditione in Turchos). Sostenne inoltre, contro il bilinguismo del Bruni, la tesi che a Roma si parlasse un solo latino, essendo la lingua del popolo (il latino volgare) solo una forma più o meno imperfetta del classico, parlato dai dotti.(De verbis romanae locutionis: Le parole della lingua di Roma). Purtroppo le sue “Decades” sono opera di non grande valore critico, per le poche fonti consultate e la poca acribia nell’usarle. Tuttavia la scarsa profondità della ricostruzione è in parte compensata dalla attenzione alle isttituzioni culturali, religiose, sociali, ecc. delle varie epoche, con un orizzonte attento a tutta l’Europa. Vastità di interessi contro profondità di analisi. [12] LEONARDO BRUNI: aretino, visse fra il 1370 ca ed il 1444. Discepolo di Coluccio Salutati e di Manuele Crisolora, fu dapprima addetto alla curia romana (1405-15), seguendola al Concilio di Costanza. Schieratosi per l’antipapa Giovanni XXIII, abbandonò Roma e tornò a Firenze, occupando nel 1427 il posto di cancelliere della Signoria, già stato del maestro fino al 1406. Durò in carica sino alla morte, avendo parteggiato per i Medici; ed ebbe esequie solennissime. Della sua avarizia parlano le Facezie del piovano Arlotto (la XXX); ebbe altre magagne come il contegno superbo e sufficiente, nonchè lo spirito invidioso e litigioso, comune a molti umanisti. Opere latine: Historiarum populi florentini libri XII (ricostruisce la storia di Firenze dalle origini al 1404; sarà proseguita non solo dal Bracciolini, ma da lui stesso con i Commentarii rerum suo tempore gestarum, che arrivano al 1440 riprendendo dal 1378). E’ l’opera più importante, che usa i documenti con senso critico maturo ed evita ogni “processo alle intenzioni della Provvidenza”, trascurando di vedere nessi religosi con i fatti e le malefatte terreni. Esalta Firenze per il regime democratico e per l’egemonia che aveva saputo ottenere in Italia. In questo senso, e contro le dittature signorili, sul tipo di quella dei Visconti a Milano, aveva già scritto una Laudatio florentinae urbis (elogio della città di Firenze) fin dal 1401-3. Secondi in importanza sono i due Dialogi ad Petrum Histrum (Dialoghi a Pier Paolo Vergerio il vecchio): sottolineano il valore umanistico di Dante, Petrarca, Boccaccio e ne assicurano il culto anche in un periodo di latinità velleitariamente esclusiva. La conciliazione fra il primato del latino ed il fascino dei tre scrittori fiorentini rende però poco convincente l’oscillante ragionamento del Bruni. Scrisse un’opera didattica: De studiis et litteris, piano per un ordinamento delle scienze e l’educazione degli alunni. E stilò anche un lavoro pedagogico: Isagogicon moralis disciplinae, ove prende posizione moderata in favore di una educazione contemperata di morale cristiana e di etica classica. Traduzioni dal greco in latino: opere di Platone (Fedone, Gorgia, Fedro, Apolgia) e di Aristotele (Etica nicomachea, Economici, Politica); di Senofonte e Plutarco (storici), di Eschine e Demostene (oratori). Tradusse anche la “Lettera ai giovani” di S. Basilio, per contestare il card. Dominici e difendere gli studi classici. Opere in volgare: Vita di Dante (riconosce la grandezza della poesia di Dante, anche di fronte alle opere classiche); Vita di Petrarca. [13] Il primo a parlare della “Dignità dell’uomo” in senso rinascimentale (cioè a prescindere dalla Grazia soprannaturale, pur senza negarla) è GIANNOZZO MANETTI, un laico esemplare della Firenze quattrocentesca (1396-1459). Egli studiò latino e greco con il camaldolese Ambrogio Traversari ed imparò anche l’ebraico; fu amico del Bruni e del Niccoli. Tradusse i Salmi dall’ebraico e l’Etica nicomachea da Aristotele. Si occupò così di affari politici come della conversione degli ebrei. Nel 1453 preferì l’esilio alla vita di lotte e tensioni tra famiglie fiorentine, perduranti sotto la larvata signoria di Cosimo de’ Medici. Morirà a Napoli, dopo esser stato segretario di papa Niccolò V. Tra le sue opere stanno molti dialoghi, fra cui il principale è appunto intitolato DE DIGNITATE ET EXCELLENTIA HOMINIS (è del 1451-2). Si noti che l’opera fu scritta in risposta a lavoro di Bartolomeo Facio (De dignitate hominis et praestantia); che fu pubblicata solo nel 1532 e che fu messa all’indice dalla Inquisizione spagnola nel 1584, perchè ostile all’ascetismo medioevale. L’opera è ottimistica sull’uomo e il mondo, ma fedele ad un umanesimo fondamentalmente religioso.Così, di carattere apologetico-religioso è l’opera Adversus Judaeos et Gentiles pro catholica fide. Nello Specimen historiae litterariae florentianae saeculi XIII ac XIV, sive Vitae Dantis, Petrarchae, Boccaccii egli tradusse in latino le vite dei grandi trecentisti fiorentini, già illustrati dal Bruni in lingua volgare. Scrisse altre opere storiografiche : De Illustribus longaevis; Laudatio Genuensium; Chronicon Pistoriense; e la Vita di papa Niccolò V (Tommaso Parentuccelli). Nel 1475 compaiono le Disputationes camaldulenses di CRISTOFORO LANDINO (1424-1498). Era docente allo Studio fiorentino di poesia ed oratoria. L’opera è in quattro libri, secondo la divisione in quattro giornate dei colloqui immaginati come avvenuti, nella amena frescura di Camaldoli, fra il Landino stesso, Lorenzo e Giuliano de’Medici, Leon Battista Alberti, il Ficino ed altri personaggi della Firenze medicea. Vi si tratta anzitutto della “perfezione della vita umana”, che è fatta consistere nella armonia fra la contemplazione (attività interiore) e prassi (attività esteriore): la prima è, di diritto, superiore alla seconda, che pure è necessaria alla vita umana. La seconda giornata ricerca il Sommo Bene: è Dio, da attingere anzitutto con l’intelletto. La terza e quarta giornata offrono una interpretazione allegorica (morale) dell’Eneide: Enea è l’uomo che fugge la vita sensuale (rappresentata da Troia) e quella attivistica (rappresentata da Cartagine) per elevarsi alla vita contemplativa, raffigurata da Roma: a questo egli è chiamato da Dio. Scrisse anche trattati: De nobilitate aninae; De vera nobilittate. Scrisse versi in latino: Xandra (per Alessandra, la donna amata); e un commento alla Divina Commedia, in volgare. [14] Bartolmeo Sacchi, detto il Platina, nacque nel cremonese e morì a Roma (1421-1481) si formò in Firenze, nel circolo mediceo. Nel 1464 passa alla corte pontificia come abbreviatore, ma due volte viene carcerato: dapprima per aver protestato contro lo sicoglimento del collegio degli abbreviatori; poi, per essere implicato nella congiura di Pomponio Leto contro papa PaoloII. Riabilitato con Sisto IV, scrisse il Liber de vita Christi ac omnium pontificum, la sua opera maggiore. Ma van ricordati, oltre al De principe, il De optimo cive, il De vera nobilitate e il De falso et vero bono (cfr. l’opera quasi omonima del Valla), tutte opere su temi umanistici, ma pubblicate postume nel 1504. [15] MARSILIO FICINO nacque a Filigne d’Arno nel 1433; studiò a Firenze, Pisa e Bologna e trovò un mecenate in Cosimo de’ Medici, che gli donò la villa di Careggi e i mezzi per proseguire i suoi studi filosofici, tradurre Platone e pubblicare le proprie opere. A Careggi, egli costituì quella Accademia platonica, che ospitava anche Lorenzo de’ Medici e gli uomini più in vista della Firenze medicea. Ivi si elaborava quel tentativo di fusione tra filosofia e teologia, fra platonismo e religione che non si rifaceva solo alle opere di Platone, ma anche dei seguaci ed innovatori come i neoplatonici. Ficino, infatti, tradusse anche le Enneadi di Plotino ed ebbe conoscenza di Pimander (scrittore ermetico), Porfirio, Atenagora, Giamblico, Proclo, Psello, Senocrate, Sinesio, Seasippo, Alcinoo, Ermia, degli inni orfici e degli scritti pseudopitagorici. Oltre ai 18 libri di Theologia platonica seu de immortalitate animorum (1482) ed al De christiana religione (1474: vi combatte Giudaismo e Maomettanesimo) è notevole l’Epistolario (che rivela contatti con un numero insospettabile di dotti in tutta Europa) ed il giovanile De voluptate (Sulla felicità: si limita ad esporre le varie opinioni nei sistemi filosofici su tale problema, senza contrapporre una sua opinione personale). Il De Vita (1489) difende come almeno probabile l’opera della magia! Morto il Magnifico ed instauratasi la repubblica savonaroliana, egli ne fu dapprima entusiasta, ma alla fine si oppose al frate estremista e ribelle. Morì a Careggi nel 1499. [16] Si veda S.T. I, q. 29, a. 1 e q. 96, a. 2; e Summa contra Gentes, c. II, 68. Sono passi già citati nel c. primo, a pag. 29, sia nel testo che nella nota 29. [17] Tutti questi brani sono ripresi da varie fonti secondarie: da Salinari Ricci (Storia della Lett. it., Bari, Laterza, 1969); da Vittorio Rossi ( Il Quattrocento –Milano, F. Vallardi, 1956); da N. Sapegno (Compendio di Storia della Letteratura italiana); da Panozzo, III, 502; da G. Giovannini, Il pensiero filosofico nel Rinascimento e nell’età moderna, Firenze, Sandron, 1969. [18] LORENZO VALLA. Nato nel 1407 a Roma da famiglia piacentina (di cognome “Della Valle”), studiò sotto la guida di Giovanni Aurispa e di Ranuccio da Castiglion Fiorentino. Nel 1430-33 insegna a Pavia eloquenza; nel 1435 è segretario presso Alfonso d’Aragona a Napoli: è qui che, nell’atmosfera di ostilità della corte aragonese (schierata a favore dell’antipapa Felice V, conro Eugenio IV), scrive il De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio(1440), dando prove definitive ad intuizioni che erano già state espresse da Niccolò Cusano e da E. S. Piccolomini. Frutto del soggiorno napoletano era stato anche l’opera Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri tres (Tre libri di storia su Ferd. I, re d’Aragona); e soprattutto quegli “Elegantiarum linguae latinae libri sex” (1444: Sei libri di eleganze della lingua latina), che pongono le basi per la definitiva fissazione dei modelli per la lingua latina come classica, cioè Cicerone e Quintiliano. Lavorò ancora al giovanile De voluptate (1431:sulla felicità: tentativo di conciliazione fra epicureismo e cristianesimo) , ripubblicandolo due volte: nel 1433 col titolo De vero bono e, nel 1439, come De vero falsoque bono. Con il De libero arbitrio vuol sostenere che non si può pretendere di dimostrare le verità di fede con i ragionamenti dei teologi; con le Dialecticae disputationes (1440) si schiera contro l’aristotelismo e il sistema di dimostrazione sillogistica usato dalla scolastica; contro la vita monastica (non escluso il celibato ecclesiastico) polemizza con il De professione religiosorum (1442). Il tutto gli attirò un processo per eresia, da cui però l’Inquisizione lo assolse: egli scrisse allora una Apologia indirizzata a papa Eugenio IV. I libri delle “Eleganze” e quelli sulla emendazione di Tito Livio (Emendationes sex librorum Titi Livii de secundo bello punico) gli attirarono polemiche a non finire (egli era già partito dalla università di Pavia, a seguito di una violenta contesa con il giurista Bartolo di Sassoferrato). In realtà, egli non metteva in crisi solo il latino medioevale, ma quello stesso di molti umanisti raffinati. Il Bracciolini scese in campo una prima volta: una seconda volta lo farà con le Invectivae in Vallam, per l’atteggiamento irriguardoso con cui questi trattava il testo del Nuovo Testamento: il Valla rispose a lui con i Dialogi e gli Antidoti in Pogium . Ma questi lavori sul la Bibbia sono frutto dell’ultimo suo periodo, in cui ritorna alla sua Roma, chiamatovi come segretario potificio da Niccolò V (l’umanista Tommaso Parentucelli) nel 1448; tale rimarrà anche sotto il successore Callisto III. Le sue note sul Nuovo Testamento dedotte dalla collazione dei codici greci e latini (In novum testamentum ex diversorum utriusuqe linguae codicum collatione adnotationes: 1449) costituiscono un preparativo di edizione critica precedente la invenzione della stampa e rimangono opera superiore alla edizione che farà Erasmo da Rotterdam. A Roma scrive anche un sermone sulla Eucaristia (De mysterio Eucharestiae) e un Encomium sancti Thomae Aquinatis. Tradusse da Omero, Erodoto, Tucidide, Esopo e Senofonte. Venne sepolto nella basilica Lateranense, della quale dal 1455 era canonico. Che il Valla abbia portato molto avanti le virtù ed i limiti dell’Umanesimo rinascimentale, risultandone il campione più significativo, è indubbio. Vediamone i meriti indiscussi. Anzitutto la forza probativa contro la autenticità della “Donazione di Costantino”. Egli ne scova tutti i difetti, da quelli della diplomatica (analisi delle forme di stesura dei documenti antichi), a quelli di storiografia (dimostrazione della mancanza delle circostanze storiche- la lebbra di Costantino, ecc.), e di filologia (analisi del linguaggio in rapporto al latino del IV secolo d. C., età presunta della donazione). Con l’analisi di questo documento (e con le “Adnotationes” al testo del Nuovo Testamento, anche se il testo da lui previsto come originale è ora superato), egli deve considerarsi il fondatore della filologia scientifica. Così si deve dire della sua fissazione di un modello unico per la lingua latina (più ancora che non Cicerone, è per lui Marco Fabio Quintiliano: 35 ca-95 ca d.C.): mentre egli intendeva solo di definire per l’eternità la lingua classica per i dotti d’Europa, intuiva invero che il latino era da considerarsi lingua morta e, perciò, da stabilirsi pragmaticamente con regole convenzionali e univoche: il latino che si studia ancor oggi nelle scuole è quello additato dal Valla. Un terzo merito è l’estro lirico che si ritrova nel suo latino vivo, brillante, immaginoso, specie nella stesura della vita di Ferdinando d’Aragona. Diverso è il giudizio da dare quanto all’ideologia umanistico-rinascimentale, nella quale egli è così avanzato da lasciare l’impressione di essere ormai un illuminista o un precursore di Lutero: il suo anticlericalismo giunge a criticare il celibato ecclesiastico e ad accusare i teologi come mistificatori, capaci di inventare documenti inesistenti a loro favore; la sua critica del testo del Nuovo testamento ama mettere in luce le differenze (ed aggiunte) della edizione “Vulgata o di San Gerolamo” (quella ufficiale della Chiesa latina) rispetto al testo greco (quello autentico: unico da ritenersi sorgente di verità rivelate). La sua polemica antiaristotelica ed anzi antiscolastica sarà fatta propria dalla cultura seguente, dal Luteranesimo e aiuterà a creare quel vuoto filosofico che determinerà la fortuna del cartesianesimo. Soprattutto il suo tentativo di conciliare il “bene-piacere terreno” di Epicuro con il “bene-gioia-felicità eterna” del Cristianesimo lascia sconcertati e mette in tentazione di ritenere insincera la conclusione cristiana del terzo libro ( il vero bene è solo nel cristianesimo). Bisogna però guardarsi dal proiettare su di lui la mentalità luterana o quella neoilluministica che, come una tarantola, pizzica noi moderni e ci rende pregiudicati nell’interpretare il pensiero dei Rinascimentali. Che fosse polemico ed ambizioso (ahimè! bagaglio di quasi tutti gli umanisti rinascimentali) nessuno vuol negarlo. Che fosse anche propenso ad esagerare per accontentare i padroni del momento, lo si deve riconoscere anche per il periodo napoletano-aragonese, se non si vuol essere unilaterali, attribuendogli servilismo solo verso la Chiesa nel periodo romano. Che egli fosse eretico o peggio, non va desunto dalle invettive del Bracciolini o del Pontano, perchè le polemiche tra umanisti bastano a disonorare (anche in fatto di amore alla verità) tutto il movimento. Va tenuto conto che egli desiderava essere al servizio della Curia romana ben prima che il papa umanista Niccolò V ve lo chiamasse: aveva già fatto richiesta ad Eugenio IV, dopo la rappacificazione di questi con gli Aragonesi: domanda respinta per la pubblicazione della Declamatio sulla falsa donazione di Costantino. Le sue dichiarazioni di fede hanno un’aria di sincerità che non ci è lecito trascurare. L’encomio a San Tommaso suggerisce di restringere il senso della sua polemica antiaristotelica alla acrisia di chi riteneva Aristotele un’autorità apodittica, quasi infallibile, come poteva capitare nella squallida, tarda scolastica. La libertà di spirito con cui, baldanzosamente, aggrediva le autorità più riverite (anche Cicerone, posposto a Quintiliano, non si dimentichi!) può ben essere effetto soltanto del suo temperamento, invece che del “libero pensiero”, che non quadra con i molti elementi cristiani dei suoi scritti. Per la sincerità della sua coscienza circa la conciliabilità di epicureismo e cristianesimo, sta la giovane età della concezione- edizione (nel 1431 aveva 26 anni...) e la fretta nel rielaborarlo due volte nel giro di dieci anni. Certo occorreva della ingenuità nel confondere la liceità del piacere secondo il fine di natura (morale, dunque), con la liceità del piacere in contesto(anche omosessuale, per l’epicureismo), subordinato solo alla pace dell’animo, ottenuta appunto liberando il corpo dal tormento della pulsione inesaudita!... Ma se egli vuol dire solamente che il piacere è pur lecito se usato moralmente e che, quindi, alcuni atteggiamenti di assoluto rifiuto del piacere legato alla carne sono anticristiani, beh! sfondava usci aperti e dimenticava che proprio la Chiesa aveva condannata come eresia tale dottrina dei Catari. Che, in conclusione, egli possa essere considerato un pensatore ambiguo, non lo si può negare in base agli scritti: ma egli ha scritto troppo e di troppi argomenti (dalla filologia alla filosofia, dalla Scrittura alla teologia). Gli sarebbe stata necessaria più concentrazione. D’altronde, l’ambiguità morale è una taccia che lo ha perseguito anche da morto: gli è stato a lungo attribuito un figlio (Giorgio, vissuto dal 1447 al 1500) senza fondamento: ma che cosa non ci si può aspettare da un chierico, finito canonico, che scrive contro il celibato del clero? Un’ultima nota. Avrà due discepoli che lasceranno un piccolo ma significativo segno nella storia del Rinascimento: Giovanni Tortelli (1400 ca-1466) scrive una specie di enciclopedia: “Commentaria granmmatica de orthografia dictionum a Graecis tractatarum; Niccolò Perotto (i), 1429- 1480, scrive la prima grammatica latina dell’epoca rinascimentale: “Rudimenta grammatices” (la Cornucopia , inziata come commento a Marziale, è un repertorio di osservazioni grammaticali e filologiche, da potersi paragonare alle Elegantiae del Valla per il rigore scientifico). [19] Diamo uno sguardo ad altri protagonisti dell’Umanesimo rinascimentale, quelli tra i nominati sopra, che non dovremo studiare direttamente nel testo per qualche valore specificamente poetico. VESPASIANO DA BISTICCI (1421-1498: toscano, anzi quasi fiorentino). Fu il libraio più organizzato e raffinato dell’ultimo periodo dei manoscritti: la sua bottega provvedeva copie eleganti oltre che chiare. Ritiratosi, quando la stampa ridusse i suoi affari (1480), scrisse in toscano popolaresco 103 Vite degli uomini illustri del secolo XV, che risulta documento utilissimo per personaggi di primo piano del tempo. La sua mentalità umanistica gli fa considerare la sua opera come occasione per una traduzione latina da parte dei dotti! Sue opere sono anche un “Libro delle lodi e commendazioni delle donne illustri| e un Lamento d’Italuia per la presa d’Otrantro” (da parte dei Musulmani). Candido come Giovanni Villani, egli giudica “illustri” gli uomini, in base a due criteri: la onestà (anzi, la santità cristiana: elogia la verginità non solo di un Ambrogio Traversari, ma anche di laici, come Jacopo del Portogalo e Donato Acciaioli); e la buona conoscenza di almeno una delle lingue classiche, il latino (si vedano ad esempio i 16 umanisti schizzati da p. 517 a p. 538, nella edizione del 1951, Milano, Hoepli). VITTORINO RAMBALDONI DA FELTRE (1373 o 1378-1446). Nato da famiglia immiserita, ebbe una formazione lunga, perchè attardata dalla povertà, cui rimediò con lavori diversi, dando lezioni private, ecc. Divenne così discepolo di Guarino Guarini ( Guarino Veronese) per la lingua greca nel 1415-6, pur potendo egli essere lievemente più anziano di lui. Lasciata Padova dopo un paio d’anni di insegnamento (scandalizzato per la corruzione degli studenti), fu invitato dai signori di Mantova come precettore dei figli del duca Gianfrancesco Gonzaga. Egli ottenne che la villa di campagna fuori Mantova, detta la “Zoiosa” , diventasse un convitto aperto anche ad altri alunni, nobili e no, ai più poveri dei quali era data accoglienza gratuita. L’educazione era fondata sulla vita religiosa (vi si viveva poco meno seriamenteche in un monastero, con la Messa quotidiana) , sull’insegnamento (dato in latino, la lingua ufficiale della casa) del Trivio e Quadrivio, con l’aggiunta del greco (Giorgio da Trebisonda e Teodoro Gaza lo aiutavano) e con una forte accentuazione della parte matematico-geometrica, che veniva studiata direttamente sul testo greco di Euclide. La novità era la cura della salute fisica, attraverso esercitazioni e gioco, che cercavano di attuare lo sviluppo della mente come del corpo, in una atmosfera serena, degna del nome italianizzato di “Casa gioiosa”. L’insegnamento di pittura e canto completavano un’istruzione armoniosa, tendenzialemnte completa. Il Pisanello, che in onore di Vittorino coniò una medaglia, vi rappresentò un pellicano che si dissangua per nutrire i suoi piccoli. GUARINO (de’) GUARINI, detto G. VERONESE: (1370 ca-1460). Mentre Vittorino fu anche un educatore, il Guarini fu solo un maestro didatticamente insuperato. Alunno di Giovanni Conversino da Ravenna (familiare del Petrarca e suo anello di congiunzione colla cultura veneta), compiuti gli studi a Padova e Venezia, seguì a Costantinopoli Manuele Crisolora, rimanendovi cinque anni (1403-8). Al ritorno, insegnò dapprima a Firenze, donde dovette fuggire, non riuscendo a far fronte alle cospirazioni di un dotto contro l’altro (N. Nìccoli, P. Bracciolini, L. Bruni!!!), lui che aveva il culto dell’amicizia. e insegnava “Non basta vivere; bisogna convivere” e “Non si siede – a tavola- tanto per mangiare, quanto per discorrere”. E, tra Venezia, Verona e Padova riuscì a costituire un circolo di amicizie dotte, che gli facevano dimenticare anche di sposarsi. Ma gli amici gli fecero trovare moglie, ed anzi una donna assennata e ricca: egli affermava che a quarant’anni aveva piuttosto intenzione di far divorzio dalla donna che non si decideva a lasciarlo, cioè la povertà! Poi, dalla moglie ebbe dodici figli! Era in corrispondenza con un bel numero di umanisti: con Gasparino Barzizza, un bergamasco (1360 ca-1431), che insegnava a Padova ed organizzò conviti di scuola e di educazione a Padova, Pavia e Milano, con criteri educativi aperti ed innovatori e che, per uso degli scolari, scrisse un De compositione, per insegnare a comporre discorsi (orazioni), lettere, ecc.); conGiovanni Aurispa (1376-1459: siciliano di Noto) che, dopo esser stato segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo, insegnò greco a Bologna ed a Firenze; con Francesco Barbaro, veneziano (1390-1454), umanista e uomo politico, che collezionò testi classici, revsionandoli criticamente; e che, oltre ad un ricco epistolario, lasciò uno scritto sul matrimonio (De re uxoria); con Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), di cui approvò in un primo tempo -in nome della eleganza letteraria- l’Hermafroditus (raccolta di epigrammi che giungono ad esaltare la omosessualità): dovette, poi, scusarsi, perchè criticato da molti; e con il Valla, che gli omaggiava, il –De vero bono-. Gli riuscì, a questo modo, di stendere una rete di legami amichevoli fra le varie centrali di cultura del Veneto, così diverse dal covo di male lingue annidate in Firenze! Col 1429 venne la sua grande ora: passato a Ferrara, vi aprì una scuola privata e nel 1431 venne chiamato come istitutore del futuro duca Leonello, passando quindi ad insegnare allo Studio della città. L’umaneismo nel ducato estense, quello da cui usciranno un Boiardo ed unAriosto, inizia con Guarino: prima di lui, Ferrara era un “buco nero” nel campo della cultura italiana. Vi insegnò fino alla morte, dimostrando doti didattiche impareggiabili. Ma egli viveva nell’insegnamento: ci ha lasciato, di scritto, solo l’Epistolario: interessante per conoscere molti aspetti della vita umanistica, ma troppo poco per assicurare anche a lui un posto nella storia letteraria d’Italia. Ma anche come uomo era mediocre: “Era buono, affabile, remissivo, per quanto tutte le sue doti messe assieme non arrivassero a fare una virtù” (Piero Bargellini, S. Bernardino da Siena, Brescia, Morcelliana, 1945, p.144). Preparò grandi uomini (persino Bernardino da Siena andò a sentire il grande maestro!), senza essere lui stesso un grande uomo. NICCOLO’ DA CUSA, detto “il Cusano” (Nikolaus Chryppfs von Cues, presso Treviri: 1401-1464; il suo cognome corrisponde al tedesco moderno Krebs, che significa “granchio”).Ottenne la laurea di giurisprudenza in Italia; scoprì a Colonia le commedie di Plauto; rimase in rapporti con il Parentucelli, l’Aurispa, Il Traversari, il Piccolomini... A Basilea sostenne dapprima il conciliarismo, passando poi decisamente in favore dell’autorità papale. La sua legazione a Costantinopoli preparò la partecipazione dei Greci al concilio di Ferrara-Firenze e, quindi, l’unione dei cristiani ortodossi. Nel viaggio di ritorno da Costantinopoli, scrisse il suo capolavoro: De docta ignorantia. Fatto cardinale nel 1450, fu inviato legato papale in Germania, ove cercò di combattere disordini e corruzione nel clero e nei fedeli, come l’Hussitismo in Boemia. Ma si attirò odiosità per la rigidezza dei metodi, che gli alienarono l’imperatore Sigismondo d’Asburgo, intento a logorare i diritti politico-feudali del clero in Trentino, quando fu inviato vescovo a Bressanone. Richiamato a Roma da Pio II, non ebbe vita facile con i curiali di stampo rinascimentaale. Morì a Todi nel 1464. Ebbe una mentalità platonico-agostiniana, anzi plotiniana e, in ogni caso, antiaristotelica. Congeniale alla matematica ed alle scienze (stimato da Copernico, Galileo e Cartesio), era vago e generico, nebuloso nelle intuizioni filosofiche: aveva, in sede filosofica, più affermazioni che dimostrazioni, più intuizioni isolate che sistematicità organica. Ed ecco la sua filosofia. I molteplici esseri del mondo sono finiti e sono confusione: essi appellano all’infinito ed alla unità come a propria causa. Ebbene, Dio è la concordantia, anzi la coincidentia oppositorum, è l’ordine della confusione, è l’unità chiarificatrice del molteplice confuso. Dio è la complicazione del molteplice nell’Uno, come il molteplice delle creature è la explicatio dell’uno nel molteplice. Il mondo è così infinito anch’esso, ma disordinato, senza nessun centro, senza significato: è un dio creato, che dice ordine, si appella, esige un Dio creatore ed ordinatore. Egli ha quasi il presentimento della rivoluzione copernicana: mondo senza centro; relatività di luogo e di tempi. Riecheggiava Raimondo Lulli e presagiva il Bruno ed il Leibniz. Non si può dubitare della buona fede del Cusano nel credere conciliabile il suo pensiero con la rivelazione cristiana; non si può dubitare del valore di certe intuizioni fisico-matematiche: ma non si può neppure dubitare che, oggettivamente, il suo nebuloso progetto del mondo sia incline al panteismo. [20] Non si deve credere tuttavia che manchino voci discordi od almeno esistanti circa la “felicità” della vita terrena. Vi è ENEA SILVIO PICCOLOMINI (poi, papa Pio II), nato nel territorio senese che aveva nome Corsignano e che da lui ebbe nome di Pienza (1405: morirà nel 1464 ad Ancona, nella vana attesa delle navi cristiane per una crociata contro i Turchi, imperversanti nella penisola balcanica), che iniziò anche lui come allegro umanista, scrivendo opere lascive, ma dovette poi ripiegare amaramente sulla costatazione delle molte miserie della vita. Eccolo a scrivere il De miseriis curialium (1444), mordace considerazione sulla sorte degli addetti alle varie “curie”, ecclesiastiche o civili. Egli ne sapeva qualcosa, dapprima come partecipe del concilio di Basilea, anzi sostenitore della dottrina conciliarista (superiorità del Concilio sul papa) ; poi, al seguito dell’antipapa Felice V; quindi addetto alla cancelleria dell’imperatore Federico III d’Austria. Dall’imperatore venne incoronato poeta e si riconciliò con la curia romana nel 1445. Abbracciò allora decisamente la carriera ecclesiastica e, ordinato sacerdote (marzo 1447), divenne vescovo nell’aprile 1447 (prima di Trieste; poi, di Siena, nel 1450). Nel frattempo condusse a buon fine imprese non facili: riconciliare i tedeschi con Roma, dopo che avevano assunto una posizione di equidistanza fra papa ed antipapa; riportare gli Hussiti di Boemia alla fede cattolica; propiziare le nozze di Federico III con Eleonora di Portogallo; intraprendere un lavorio diplomatico per rappacificare i prìncipi cristiani, onde preparare una crociata, dopo la occupazione di Costantinopoli nel 1453... Nel 1456 è fatto cardinale da Callisto II e due anni dopo è papa, uscendo da un conclave in cui si era trovato costretto a rintuzzare indegni tentativi simoniaci da parte del cardinale di Rouen. La sua opera più sentita sarà in favore della crociata: e sarà inutile. Trasforma la sua città natale cambiandole il nome; porta in curia un cumulo di compatrioti, fino a facilitare l’accostamento del dialetto romanesco al toscano. E scrive ancora. Ai versi d’amore (tre elegie latine “Ad Cynthiam”), ai tre libri De gestis basileensis concilii (1440) le cui tesi conciliariste egli sconfessò nell’epistola De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio (1450), alla novella boccaccescamente oscena Historia de duobus amantibus (1444: storia di due amanti), alla commedia Chrysis (1444: plautina nell’impianto e nel lessico, libertina nel linguaggio) ed al citato libro sulle miserie degli uomini di curia, al De ortu et Romani auctoritate imperii (1446: origine e autorità dello impero romano), al De liberorum institutione (1447: educazione dei figli), alla Historia Bohaemorum (1458: Storia dei Boemi), ora, da papa, aggiunge una Asiae et Europae locorum descriptio (1463: Descrizione dei luoghi d’Europa e d’Asia) ed i tredici libri dei Commentarii rerum quae suis temporibus contigerunt (Appunti sulle vicende occorse ai propri tempi), rimasto incompleto nell’ultimo libro e pubblicato solo nel 1584, molto rimaneggiato. Nel 1460 scrisse personalmente una Epistola ad Mahometem ( ne auspica la conversione, promettendogli la corona imperiale), per risolvere pacificamente i contrasti fra cristiani e musulmani. .La gotta di cui soffriva lo stroncò nel 1464, la notte sulla festa dell’Assunta. Fu grande umanista, in contatto con Bracciolini, Bruni, Guarino e il Panormita. Tra gli scrittori cristiani ammirava soprattutto S. Gerolamo; tra quelli pagani, Giulio Cesare, da cui prese il titolo della sua ultima opera (“commentarii”). Ma è ben lontano dalla sicurezza e decisione del fondatore dell’impero romano. E’ pessimista non solo a proposito della vita travagliata dei curiali, ma di tutta la condizione umana: anche la “storia di due amanti” , benchè spregiudicata, ha un fondo di tristezza amara; nei Commentari, poi, nota con sofferenza la drammatica situazione di uomini corrotti e di nemici del cristianesimo che trionfano, mentre la Chiesa si trova in difficoltà sempre più gravi. Se il papa è così deluso, immaginarsi altri umanisti che non avevano la stessa forza di fede: il Bracciolini scrive un De infelicitate principum, un De varietate fortunae ed un De miseria humanae condicionis. Più complicato e sofferto è il giudizio di Leon B. Alberti sulla vita umana. Nella giovinezza ebbe a soffrire opposizioni da parte di parenti. Tali vicende segnarono talmente il suo pensiero, da rendegli faticoso e talora contradditorio il pensiero circa il dominio dell’uomo sul mondo e sul proprio destino. Ne riparleremo, studiando questo scrittore fra i classici nel volgare del secolo. Ma nel complesso, tali eccezioni non infirmano la impressione di ingenua fiducia ed euforia che comunicano gli uomini rinascimentali: quella che condurrà alla perdita della libertà di Italia, ai 65 anni di guerre europee (discesa di Carlo VIII. nel 1494- pace di Castel Cambrese nel 1559), al pessimismo disperato di un Lutero, ossessionato dalle conseguenze del peccato originale; e di un Machiavelli, furioso per la barbarie degli ingovernabili popoli italiani. [21] Di S. TOMMASO MORO (Thomas More: 1477 o –78- 1535), formatosi ad Oxferd e resosi padrone delle lingue latina e greca (fu lui ad istillare in Erasmo l’amore per il greco) divenne cancelliere (ministro della giustizia) sotto Enrico VIII, (1529), esercitando così seriamente il proprio ufficio che, dopo secoli, si giunse a non avere più gente che attendeva di avere giustizia dal tribunale del re! La pretesa del re a divorziare dalla legittima moglie Caterina d’Aragona, che non gli dava figli maschi; e lo scisma da Roma per farsi capo della chiesa d’Inghilterra, trovarono Thomas More su posizione di rispettosa, ma ferma opposizione: il che gli meritò il martirio. Questo è il titolo della sua maggior grandezza. Elenchiamo anzitutto le sue (non molte) opere secondarie. In latino, tradusse dai Dialoghi di Luciano e da poeti epigrammatici greci; scrisse una Vita di Pico della Mirandola. In inglese, redasse l’Apologia (per difendere il proprio rifiuto a staccarsi dalla obbedienza al papa); compose un Dialogo (di conforto a se stesso durante la prigionia). e vergò lettere molto interessanti, che ci fanno conoscere la sua fede ela profonda religiosità del suo spirito. Col suo inglese contribuì a costruire un “volgare illustre”, di valore letterario, modellando la lingua patria sulla eleganza di quelle classiche. Ma il suo capolavoro è scritto in latino. Il titolo è costituito, però, da una parola greca di sua invenzione, destinata ad avere vastissima fortuna: UTOPIA (che significa “il paese di nessun luogo”, cioè il paese introvabile, di sogno: ideale e perfetto, ma irrealizzabile). Qui troviamo espresso il suo pensiero: di critica alla società in cui viveva e di progettazione di una comunità ideale e perfetta...ma impossibile a trovarsi. Rinascimentale è il coraggio del sogno, che è crtica del presente (come l’Elogio della pazzia” dell’amico Erasmo), ma è anche progetto di una umanità migliore. Rinascimentali sono le componenti ideali della convivenza che lui stesso deve riconoscere essere al di sopra delle possibilità dell’uomo europeo: governo paternalistico da parte di una comunità di anziani (aristocrazia della saggezza); comunismo dei beni economici; tendenza alla esclusione delle guerre, anche a costo di impiegare l’astuzia, per premunirsi o difendersi dall’ingiusto aggressore; esclusione di persecuzioni a causa di fedi religiose diverse. Anche chi rifiutasse di credere nella Provvidenza di Dio e nella vita oltre la tomba con premi e castighi eterni, non andrebbe ucciso, ma soltanto allontanato dalla comunità. Addirittura già illuministiche, cioè di una disperazione non più cristiana, sono alcune concessioni alla debolezza della natura umana: seppur solo in casi estremi, è ammesso il divorzio e persino l’autoeutanasia (il suicidio per liberarsi dai dolori della malattia)! Tali opinioni sono indizio di quella legge inesorabile che governa il comportamento umano: la coerenza più inflessibile. Una volta dimenticato che l’uomo attuale o accetta la Grazia redentrice o sottostà al ricatto della concupiscenza, perchè colle sole sue forze soltanto in “Utopia” può rimanere integralmente onesto, poco a poco non solo la onestà prassica (delle azioni) tende ad azzerarsi, ma anche il pensiero sul bene ed il male (la scienza morale) viene ad offuscarsi e ad abbandonare un caposaldo dopo l’altro della onestà stessa (divorzio ed eutanasia attiva). Ma in San Tommaso Moro queste posizioni disorientate si perdonano per due motivi: Utopia non è tra popoli reali, ma, appunto, tra popoli ideali, di sogno ed inesistenti. E, poi, c’è stato il martirio: che lava colpe ed errori... Di solito si trascura un altro punto di originalità nel pensiero del More. E si capisce il perchè: non si tratta di un parametro rinascimentale, ma ulteriore, che previene TommasoCampanella (1568-1639) e Biagio Pascal (1623-1662), cioè il pensiero del Milleseicento. Si tratta di questo: Tommaso Moro ha innata la tendenza a mostrare come il Cristianesimo esaudisca le esigenze della religione naturale più pura e sincera. E’ una apologetica non più oggettiva, basata cioè su fatti esteriori (profezie avverate, miracoli storicamente accertati), ma soggettiva, fondata su argomenti interiori: l’esigenza dell’animo umano ad una religione retta e completa, non distorta o carente. E’ una teodicea (scienza puramente razionale su Dio) di stampo psicologico, non metafisico, che rischia di mettere al primo posto l’uomo, come analogato maggiore delle sue relazioni con Dio (che costituiscono appunto la religione), ma che è pur suggestiva e può ben essere ortodossa, accogliendo tale “discorso del metodo” per giungere a Dio come appunto uno strumento gnoseologico, che riconosce poi il primato ontologico (nella realtà dei rapporti) a Dio. [22] L’Italia, che nel Milleduecento dipendeva dalla cultura letteraria francese, ora detiene un primato che vede le altre nazioni seguirla con ritardo. Erasmo da Rotterdam scrive a Robert Fisher, già suo discepolo, venuto in Italia a perfezionarsi in giurisprudenza: “L’Italia è la terra dove anche i muri sono più dotti ed eloquenti di quanto non siano qui da noi gli uomini” (R.W.Chambers, Tommaso Moro, trad. Milano, Rizzoli, 1965). L’Inghilterra precede le altre nazioni europee nella acquisizione del greco: l’insegnamento della lingua di Omero approda al Canterbury college (ora Christ Church college) poco dopo il 1450, a mezzo del benedettino William Selling, che era stato in Italia a studiarlo. Nel primo Millecinquecento, Linacre, amico di T. Moro ed ecclesiastico, introduce per primo ad Oxford e Cambridge gli studi scientifici, perchè può contare sulla conoscenza del greco. Tommaso Moro (1478-1535), John Fisher (1469-1535) e John Colet ( un dotto teologo) sono i più grandi umanisti del tempo in Inghilterra. Sempre da R.W. Chambers si apprende che nella pittura, l’Italia era incomparabilmente superiore; nell’artigianato architettonico e nella oreficeria Italia e Inghilterra erano alla pari e forse l’Inghilterra era superiore; nel campo umanistico era in atto un buon inseguimento, stroncato dalla separazione e persecuzione di Enrico VIII. In Germania e nei paesi di lingua tedesca, vi è DESIDERIO ERASMO DA ROTTERDAM a guidare la cordata dei dotti: egli si specializza nella edizione critica del la Scrituura (Nuovo Testamento) e dei Padri della Chiesa, sia latini che greci. La spinta a studiare il greco gli viene dai viaggi in Inghilterra presso Tommaso Moro. Nato nel 1469( o 1466?) e morto nel 1536, era figlio naturale di un borghese, che poi si fece prete e lo lasciò orfano ancora ragazzo. I parenti-tutori lo instradarono sulla via dei voti religiosi, per poter impossesarsi dei suoi beni. Canonico regolare (cioè coi voti di povertà, castità e ubbidienza) ad Emmaus (Steyn), era abbastanza soddisfatto della vita religiosa, finchè non entrò a servizio del vescovo Enrico Bergen di Cambrai ed approdò a Parigi per studiare. Si laureò però a Torino nel 1506 e in Italia rimase fino al 1509. Lo attrasse specialmente la erudizione e lo spirito critico del Valla, che considerò suo maestro Allora si trovò così bene nelle vesti dell’umanista, pensatore solitario e viaggiatore, ovunque ammirato e festeggiato per la sua cultura, che detestò e criticò la sua vita religiosa, ottenendo da papa Leone X la dispensa dai voti di povertà e residenza (ubbidienza), rimanendo legato al solo voto del celibato (1517). Aveva iniziato come precettore privato, preparando per i suoi alunni quei sussidi, didatticamente felici e pedagogicamente sapienti, che divennero per secoli i primi testi della scuola in tutta Europa. Nel 1502 pubblicò l’Enchiridion militis christiani (Manuale del milite cristiano). Viaggiò per tutta Europa, dall’Inghilterra a Roma, dalla Francia ai Paesi Bassi, divenendo amico di Tommaso Moro e di John Fisher. In Inghilterra fu stimolato a conoscere anche il greco e, da Giovanni Colet, fu convinto a dedicarsi allo studio degli scrittori ecclesiastici nei primi secoli (i cosiddetti “Padri della Chiesa”) oltre e più che ai classici pagani. Fu quasi uno scoprire il punto di incontro della duplice vocazione, quella al servizio di Dio e quella della passione per la cultuira. Finì per prediligere S. Gerolamo sopra ogni altro scrittore. A Venezia, ospite di Aldo Manuzio, preparò una collezione di “adagi” o sentenze morali (Adagiorum collectanea), raggiungendo un successo eccezionale e collezionando, nelle ultime edizioni, 2500 proverbi. Li fece seguire dalle Parabolae e dagli Apophtegmata. Nel 1509, durante il suo terzo viaggio in Inghilterra, scrisse in sette giorni (ospite del Moro) il libro più noto: Encomion moriae seu Laus stultitiae (dove egli gioca amichevolmente sul termine greco, che deriva da “mòros”, il pazzo e, così, fa del libro un “Elogio di Tommaso Moro”, il rappresentante del buon senso e della virtù, in tanta follia e corruzione del mondo: fu edito nel 1511). Accanto ad alcuni dei Colloquia familiaria, l’Encomion è il capolavoro letterario di Erasmo, per la finezza dell’ironia e la forza della satira. Nel 1516 pubblica, contro il Principe di Machiavelli, la sua “Institutio principis christiani” (educazione di un principe cristiano), che vede della politica una parte della vita morale, soggetta alle sue obbligazioni. L’epistolario, con oltre 3000 lettere, conferma la sua vocazione di educatore morale, contribuendo a far di lui il più grande degli Umanisti cristiani del Rinascimento. Prima di esaminare il suo pensiero dobbiamo ancora allegare due gruppi di opere. Anzitutto quelle contro il Luteranesimo, da lui in un primo tempo appoggiato: De libero arbitrio (La libertà di volere: 1524). Erasmo si staccò nel 1521 da Lutero per princìpi ed ecclesiastici (ad esempio, la negazione del primato del papa e la abolizione del sacaerdozio celibatario) ed umanistici (“ubicumque regnat Lutheranismus, ibi litterarum est interitus” :ovunque regna il luteranesimo, ivi vi è la morte delle lettere”). Lutero risponderà con il “De servo arbitrio”, sostenendo la schiavitù della volontà umana od al demonio od alla Grazia, in seguito al peccato originale ed alla redenzione di Cristo. Erasmo controbatterà con l’Hiperaspistes (o “superimplacabile, irreconciliabile”- da àspeistos- o “superarmato –da “aspistès”; e la disputa ebbe altri scritti da entrambe le parti, compresa la polemica con quel povero von Hutten, ribelle con Lutero dopo gli stravizi di gioventù). Ma di Lutero accettava il riferimento appassionato alla Scrittura, la critica della condizione morale dell’Italia umanista (1528: Ciceronianus) e dei conventi. Infine vi è il suo lavoro di editore di testi scritturistici ed eccelsiastici emendati criticamente. Avendo iniziato lo studio del greco a 31 anni, giunse a conoscerlo così bene, da farsi editore del Nuovo Testamento in greco e di alcuni Padri della Chiesa di lingua greca: dopo aver tradotto da S. Giovanni Crisostomo, morì mentre stava facendo la pubblicazione di San Basilio il grande. Sebbene il testo greco da lui approntato per il Nuovo Testamento sia inferiore a quello che si sarebbe potuto pubblicare seguendo le “Adnotationes” del Valla (Adnotationes che pure lui aveva editato nel 1505); e sebbene non possa reggere il paragone con la precisione filologica delle edizioni critiche recenti, tuttavia la migliorata edzione del 1519 diverrà il testo accettato ed usato finchè nel 1898 Eberhard Nestle non pubblicherà la nuova edizione critica, poi aggiornata fino al 1991 ed affiancata dai cattolici nel 1933 con l’edizione critica curata da Augustin Merk. All’edizione del testo greco accompagnò una sua traduzione latina, che tralasciava alcuni passi mancanti in greco, ma presenti nella edizione di San Gerolamo ed abitualmente usata dalla Chiesa cattolica (onde il nome di “Vulgata”, cioè “diffusa tra il popolo e, quindi, ordinaria) fino al Concilio Vaticano II. Poi accompagnò tali opere con i sei libri di Paraphrases (spiegazioni: è lasciata fuori solo l’Apocalisse) con un Commentarius e con delle Explanationes (11 libri in tutto). Fece poi l’edizione critica di S. Gerolamo, S. Ilario, Commentari di Arnobio sui salmi, S. Ambrogio, S. Ireneo, S. Agostino, un trattato di Lattanzio ed infine dei Padri greci Crisostomo e Basilio. Per comprendere il suo pensiero, occorre tener presente il temperamento nervoso: fu abbastanza emotivo da colorire letterariamente i suoi scritti; abbastanza inattivo, da optare per la solitudine e le amicizie ristrette piuttosto che per l’azione e il contatto con la folla; abbastanza instabile (primario) da esser vissuto viaggiando o peregrinando (quando, a Basilea, un generoso sponsorizzatore della sua opera editoriale sembrasva avergli procurato un approdo definitivo, giunse la riforma luterana nel 1529 a farlo fuggire a Friburgo per alcuni anni). Il suo pensiero, segnato da una certa prevalenza del candore sognante del poeta sulla concretezza realistica del filosofo, presenta ingenuità e variazioni sorprendenti. Non farà meraviglia che egli detesti l’organicità della filosofia scolastica, certo scritta in un latino rustico e anche scorretto rispetto ai classici, ma anche troppo sistematica ed organizzata per la sua personalità piuttosto indecisa e dispersiva. Così, per la mancata dimensione sociale del suo cristianesimo e sacerdozio, può concedersi il lusso di insistere (nell’Enchiridion militis christiani) sulla preghiera spontanea e sulla lettura della Bibbia, sottovalutando la forza dei sacramenti come preghiera di Cristo, decisamente più efficace di quella unicamente personale; ed obliando la difficoltà per il cristiano della strada ad affrontare con frutto la lettura della Scrittura sacra. Ed in tutte le opere, a cominciare dall’ Encomion morìae, egli si permette di flagellare allegramente vizi e difetti di religiosi e laici, dimenticando le lettere della sua giovinezza che non denunciano scontentezze sulla sua vita in comunità; dimostrando di non conoscere il proprio temperamento davvero poco adatto alla vita comunitaria e non tenendo in considerazione la imperfezione umana dovuta al peccato originale e, quindi, la compassione cristiana di fronte alla insipienza e meschinità, presente anche nei conventi. Anche in lui la fede nella colpa originale non giunge alla coscienza piena del suo impatto sull’umana natura. Il suo umanesimo è innegabilmente morale (il Ciceronianus è il rimprovero di un pensatore germanico e di un uomo severo agli umanisti italiani, spesso poveri di pensiero e dediti alla voluttà paganeggiante) e persino cattolico (il primato del papa, il celibato del clero), ma troppo poco cristiano. La sua teologia non fa capo al peccato originale nè può, quindi, dare una giustificazione adeguata della (ed un riferimento pertinente alla) Redenzione di Cristo. Per questo , quando egli morì, era “a Dio spiacente ed ai nemici sui”: coi riformati aveva rotto definitivamente e la Inquisizione mise all’indice i suoi libri tutti nel 1557. Si doveva arrivare al Tiraboschi ( Gerolamo, gesuita e critico letterario:1731-1794) per riconoscerne la quasi completa ortodossia. Rimandiamo ad altra nota Jacques Lefèvre d’Etaples. [23] In Francia Jacques Lefèvre d’Etaples (1450 ca-1537) è un teologo, influenzato dal platonismo e dall’umanesimo durante un viaggio in Italia. Mentre diffuse(in traduzioni latine) le opere morali di Aristotele con più aderenza al testo greco che non avesse fatto la scolastica, tradusse anche opere dello pseudo Dionigi l’Aeropagita e dei filosofi ermetici. Accostatosi agli studi scritturistici, diede una traduzione della Bibbia in volgare francese (1530) e commentò i Vangeli e le lettere di San Paolo. Il suo pensiero fu platonicamente vago e indeterminato, sicchè rischiò la condanna della facoltà teologica di Parigi (la Sorbona). Egli finì bibliotecario della regina Margherita di Navarra, a Blois. Alcuni interpreti lo vedono pericolosamente vicino al luteranesimo riguardo alla diffusione della Bibbia in volgare, al concetto di Messa come pura commemorazione del sacrificio della Croce, alla opposizione al culto di Maria SS. e dei santi , al rifiuto della gerarchia nella Chiesa e della rigidità dei dogmi. Altri negano che egli sia uscito dalla ortodossia, proprio grazie alle sfumature ed indeterminatezza del pensiero. Pur essendosi trovato al centro di un gruppo di “evangelici” inclini alla “devozione” attraverso la lettura della Scrittura e dell’incontro personale con Dio più che al contatto con Lui attraverso i Sacramenti, in una cosa si distinse da Lutero e si chiarì ultraumanista: la negazione del peccato originale e la affermazione della piena libertà dell’uomo nell’opera morale per la salvezza. Ritorno al pelagianesimo o precorrimenti dell’Illuminismo? In ogni caso, eccesso di fiducia nell’uomo. I riformatori d’Oltralpe ed il Concilio di Trento reagiranno decisamente. [24] Ci si sarà accorti che nel trattare del pensiero rinascimentale, mescoliamo scrittori dei secc. XV e XVI. In proposito, dobbiamo qui ribadire il principio che l’UMANESIMO NON E’ UNA PARTE O PREMESSA, MA E’ UNA COMPONENTE ESSENZIALE DEL RINASCIMENTO: NE E’ IL PENSIERO. Il Rinascimento va dalla morte del Petrarca al Concilio di Trento (1545) od al sacco di Roma (1527). [25]Il cardinale Jacopo Sadoleto, di Modena, (1477-1547) fu un umanista di tutto rispetto. Segretario di Leone X a fianco del Bembo, fatto vescovo di Carpentras (Avignone) , fece parte della commissione preparatoria del Concilio di Trento. Nel 1542 fu mediatore di pace tra Francesco I e Carlo V. Oltre ai sedici libri di “Epistolae”, scrisse un De liberis recte instituendis (Come educare i figli rettamente: 1533: auspica istruzione sia letteraria che tecnica, per una crescita armoniosa della mente, che aiuti ad elevarsi con tutte le proprie facoltà a Dio ed a raggiungere, quindi, la felicità) ed un De laudibus philosophiae (1538) e, dopo il Commentarius citato, un De peccato originali (edito però solo nel 1912). In gioventù aveva scritto poemetti latini, fra cui il migliore è quello sul Laocoonte. Tentò anche di operare un ritorno dei cristiani di Ginevra nel grembo della Chiesa, inviando loro una lettera il 26 marzo 1539, cui rispose Calvino (cfr. la traduzione di entrambe, edita dalla Claudiana di Torino nel 1976). [26] I tre DECEMBRIO (lombardi, oriundi di Vigevano). Tutti umanisti minori. UBERTO (il padre: 1370 ca- 1427), segretario di vescovi e di Visconti, ci ha lasciato un solo trattato in 4 libri: De re publica (Lo Stato). Il figlio maggiore (PIER CANDIDO:1392-1477) a servizio dei Visconti e della Repubblica ambrosiana, se ne andò, (cfr. sotto, in F. Filelfo, i motivi) a Roma e Napoli, per finire a Ferrara dal 1466, ospite di Borso d’Este. Ci ha lasciato le biografie di Francesco Sforza e La vita di Filippo Maria Visconti ed un epistolario che è fra i più interessanti sulla vita letteraria e politica del secolo (Lettere inedite: 1902). Meno importanti le sue opere poetiche, narrative, filologiche, fra cui molte traduzioni dal greco e dal latino. L’altro figlio (ANGELO:1415 ca- 1470 ca), a parte le poesie e i discorsi in latino, ci ha lasciato i Poliìiae litterariae libri septem (Sette libri della Repubblica letteraria). BARTOLOMEO FACI O (FAZIO: 14OO- 1457). Nato a La Spezia, servì come ambasciatore alla repubblica di Genova (aveva studiato col Guarino a Verona ed aveva tenuto scuola a Venezia, Firenze e Genova). Divenne alfine segretario e storiografo del nuovo re Alfonso d’Aragona. Le sue opere più importanti sono il De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege (1455) e De viris illustribus (biografie di personaggi del tempo). Ebbe diatribe con Loremzo Valla, ormai approdato a Roma, per la Historia Ferdinandi regis da quello scritta: alle quattro invettive del Fazio, il Valla rispose con le Recriminationes in Facium (1447). Scrisse anche la prima opera sulla dignità dell’uomo (De dignitate hominis et praestantia): sappiamo che gli rispose Giannozzo Manetti con il suo De dignitate et excellentia hominis, molto più ottimista (1451-2). I due FILELFO. FRANCESCO (1398 a Tolentino-Macerata- Firenze 1481). Fu a Padova, alla scuola di Gasparino Barzizza e, poi, a Costantinopoli dal 1420 al 1427, discepolo del Crisolora, di cui sposò la figlia Teodora, avendone il figlio GIAN MARIO (autore, questi, di poemi latini, come la Felsineide per la città di Bologna, la Cosmiade e la Laurenziade per i Medici e il Martias per i Montefeltro di Urbino). Nel 1429 era a Firenze ad iniziarvi il suo insegnamento, appoggiatio da A. Traversari. Ma Carlo Marsuppini ne fu critico ed emulo, ottenendo nel 1431 la cattedra del Filelfo. La reazione di questi gli fece riacquistare cattedra e stipendio, ma gli lasciarono nell’anima, collerica e risentita, una ostilità che lo trascinò a parteggiare, in politica, contro gli amici dei suoi nemici. Ma quelli erano i Medici, che ebbero, alla fine, partita vinta. Al Filelfo non rimase che andarsene. Nuove sedi di attività furono dapprima, Siena; poi, Bologna; alla fine, Milano. Qui gli riuscì di disfarsi del rivale P. C. Decembrio, destreggiandosi più abilmente nel passaggio dai Visconti a Francesco Sforza. In onore di costui scrisse il poema Sfortias, cui seguì il Carmen de nobilitate, cento Satire di cento versi ognuna, gli epigrammi del De iocis et seriis (altri diecimila versi a coppie di distici) e lo stanco trattato in prosa De morali disciplina, l’orazione In Cosmum Medicem ad exules optimates, i Convivia mediolanensia e le non terminate Commentationes florentinae de exilio (in tre parti: De incommodis exilii| De infamia| De paupertate). Tradusse da Aristotele, Senofonte, Plutarco... Morto Francesco Sforza e dimezzatagli la provvigione, egli trattò superbiosamente con Bologna che era rea di offrirgli solo 400 lire, mentre lui aveva coscienza di meritarne 700; accettò così un incarico a Roma con Sisto IV (cattedra di eloquenza allo Studio romano). Dopo il 1474, morto Galeazzo Maria, tornò a Milano, mentre cercava quel rientro a Firenze che conseguì in tempo per morirvi il 31 luglio 1481. E’ il tipico esponente del “cinismo” professionale dell’Umanesimo. Le “lettere” devono dare pane, agi, onori, perchè il letterato è datore di gloria, di fama. Di qui la indifferenza per ideali e padroni: lo scrittore serve chi lo paga. TEODORO
GAZA (Salonicco, 1400 ca- S. Giovanni di Piro, Salerno, 1475). Venne in
Italia per il Concilio di Ferrara-Firenze nel 1438 ca, insegnò greco a
Ferrara (1446-9) dopo esser stato a Pavia e Mantova (per migliorare il suo
latino). Dopo Ferrara ebbe incarichi di traduttore da Niccolò V che lo
volle a Roma; dopo la morte del mecenate, fu a Napoli (1445-63) e morì
nella abbazia di San Giovanni a Piro, di
cui aveva ottenuto la commenda dal papa. Oltre le traduzioni (Aristotele,
Teofrasto, Eliano, Dionigi di Alicarnasso, in latino; dal latino di Cicerone
al greco tradusse invece il Somnium Scipionis e il De Senectute). Una sua Grammatica greca rimase in uso fin dentro il Milleottocento. Purtroppo
il Gaza è il più esplici to sostenitore della servitù totale del dotto ai
suoi finanziatori, fino alla menzogna. Di tale egoismo incosciente
parleremo subito a proposito del costume rinascimentale. [26]
Si noti che anche Firenze è passata attraverso l’oligarchia,
chè dal 1382 al 1434 le
famiglie che si alternavano alle cariche (gli Albizzi, da Uzzano..) erano
ben poche. Fu un percorso tutto sommato spontaneo e necessario, almeno in
quanto non imposto dall’esterno. Genova e Lucca
“vivon fra tirannia e stato franco”.
Con il 1528, caduta
Genova in mano ai Doria, rimangono libere Venezia (oligarchica per
definizione), Lucca e Siena
(Siena cadrà in mano ai Medici nel 1555,
assediata anche dalle truppe imperiali). Non si può fingere di
ignorare che quasi tutti i comuni italiani (tolta Lucca, non volendo
prendere in considerazione San
Marino, Valsolda o Campione d’Italia,
perchè avevano come signore feudale degli
ecclesiastico) abbiano avuto lo stesso percorso dalla democrazia alla
tirannia attraverso la oligarchia, nel
giro di due-tre secoli. Non si può disinteressarsi del perchè.
D’accordo, la democrazia è il governo migliore. Ma è anche il più
impegnativo, sia
per il fattore tempo (discussioni per decidere), che per le energie
spirituali (morali) e materiali (danaro) che assorbe. Per ciò stesso
o si fonda su una vita morale severa, che garantisca, oltre la competenza
professionale, non solo l’onestà
dei governanti contro ogni tentativo di venir corrotti,
ma altresì la loro fortezza per far fronte alle minacce dei
prepotenti; o altrimenti i vantaggi del governo democratico cedono, nella
coscienza stessa del popolo, alla esigenza delle garanzie ai bisogni più elementari (equità fiscale,
ordine sociale) che la
oligarchia attua
più facilmente, ma che solo la monarchia è costretta ad assicurare
in cambio della sottrazione della libertà (essa, anzi, offre di solito
anche la esenzione dal servizio militare obbligatorio, mediante eserciti
volontari, cioè fatti di
mercenari, indigeni o stranieri). Ripetiamo: la democrazia è il tipo di
governo ideale, ma costa in energie morali ed in spese economiche ben più
della oligarchia e della monarchia. Ma
si badi: trattandosi di tecniche di governo, esse rappresentano un bene
secondario rispetto ai contenuti legislativi offerti alla società; per
questo la loro intercambiabilità non deve far meraviglia, perchè nessuno
dei tre metodi garantisce i beni spirituali e materiali più elementari per
la convivenza di uomini in società. E’ ciò che sapeva già
Erodoto (Storie, III, 80-3). [28] Secondo il “Diario” di Giovanni Burchhardt, maestro di cerimonie del papa, alla data 31 0tt0bre 1501, pur dopo l’uccisione del figlio prediletto Giovanni di Gandia (si sospetta, ad opera del fratello Cesare, detto il Valentino); dopo i propositi conseguenti di riforma anche nel “capo” della Chiesa (il papa, dunque), si hanno testimonianze di orge oscene in Vaticano, con cortigiane nude alla presenza del papa, del Valentino e di Lucrezia (la figlia, cui egli aveva concesso il divorzio). [29] PIETRO POMPONAZZI era nato a Mantova nel 1462: morirà a Bologna, suicida, nel 1525, dopo aver insegnato filosofia naturale (cioè scienze e fisica) a Padova, Ferrara, Bologna. Averroista, nel De immortalitate animae (1516) sostiene la tesi che l’anima è mortale, perchè materiale, in quanto sempre legata ai sensi per le sue operazioni (la prova classica delle immortalità dell’anima si apppoggia, infatti, alla sua incorruttibilità perchè indecomponibile, in quanto ente spirituale; la spiritualità viene dimostarata con le operazioni di “astrazione, cioè capacità di prescindere dai sensi” sia nel conoscere l’universale, partendo dal particolari sensibili; sia nel volere, in libertà dalle sollecitazioni emozionali ed istintive, operando anche il contrario di quello che quelle suggeriscono). Aggredito da più parti per empietà, si salvò per la protezione di P. Bembo e con l’appellarsi al principio della duplice verità (la Rivelazione può farci accettare per fede ciò la ragione o non sa dinmostrare o addirittura dimostra come opposto alla verità, razionale o filosofica, secondo il paralogismo: “conviene che sia eretico in filosofia colui che desidera trovare la verità”). Altre opere, pubblicate postume, confermano il suo materialismo: De naturalium effectuum admirandorum causis, sive de incantationibus” (i miracoli sarebbero puri fatti naturali, che sorprendono solo per la ignoranza delle cause che li producono); De fato, libero arbitrio et praedestinatione (determinismo di tipo stoico nel funzionamento dell’universo, uomo compreso). Ma già ilTractatus de nutritione et augmentatione (1521) si rivela di ispirazione materialistica. A chi gli obiettava che la negazione della spiritualità-immortalità dell’anima conduceva alla distruzione dell’etica (basata sulla libertà interiore dell’uomo), egli rispondeva che la virtù è premio a se stessa, sicchè non occorreva un premio ultraterreno per giustificarla. His fretus, cioè con questi princìpi filosofici, finì suicida... [30] CARLO MARSUPPINI (genovese: 1398-1453). Insegnò nello Studio fiorentino greco e latino fino al 1444, per succedere poi al Bruni alla Cancelleria della città. Era subentrato, come si è detto, al Filelfo nel 1434 e con quello polemizzò non solo per scritti. Creatura dei Medici, ebbe protezione da Eugenio IV e da Niccolò V, ma di lui abbiamo solo traduzioni (Batracomiomachia: dal greco in latino) e nessuna opera personale. Morì, poi, rifiutando i sacramenti. [31] La edizione italiana ad opera della editrice Sansoni tradusse il titolo dell’opera in maniera da costituirne un tradimento: “La civiltà de Rinascimento in Italia”. Difatti la parola “cultura” è neutra, perchè non dà giudizi di valore; il termine “civiltà”, invece, conferisce un senso positivo e celebrativo al contenuto. Ora al Burckhardt si può rimproverare un eccesso di analisi sulle capacità di sintesi e, quindi, la carenza di un giudizio globale sul valore del periodo rinascimentale, pur esaminato con documetata ampiezza di particolari; ma non gli si può addebitare la volontà di connotare soltanto positivamente il fenomeno rinascimentale. Troppe sono le pagine dedicate a passarne in rassegna anche i delitti e la scostumatezza. Ma la “Sansoni” apparteneva allora all’idealista Giovanni Gentile: l’ideologia prese il sopravvento sul culto dlela verità. [32]
Che il traguardo, iscritto nella logica della natura umana, della attuale
riunificazione economico-politica dell’Europa sia quello della
riaggregazione linguistica, culturale, etica e religiosa? Senza tale
interiore riappacificazione potrà durare quella esteriore che troppo
unicamente stiamo perseguendo? Che il principio cristiano più esposto alla
emarginazione, più sconcertante e apparentemente più fabuloso, il primo ad
essere sottovalutato e negletto, sia il dogma del peccato originale, senza
del quale però la Redenzione di Cristo si riduce ben presto a pura dottrina
consolatoria, senza il senso della tragedia del peccato e dell’epopea
della carità divina che il fatto evangelico dell’incarnazione, Passione,
Morte e Risurrezione impongono? Ed infine: che ogni ricupero religioso e
cristiano debba esplicitamente iniziare dalla ripresa di coscienza di un
tale dato della fede, quasi costituisca un pilastro ineludibile della
rivelazione ebraico-cristiana, senza tener conto del quale non si può
giungere nè ad una valorizzazione adeguata della ricchezza di vita
religiosa organica, associata quale prevista
dal Vangelo, nè ad una comprensione esauriente dell’uomo, esperta cioè “e delli vizi umani e del valore”? (Inf. 26, 99). Il
dogma del peccato originale costituisce quasi il punto di incontro fra
l’Antico ed il Nuovo testamento, la linea di sutura tra la nostalgia della
vagheggiata perfezione originaria umana e la umiltà della debolezza e
fragilità costatate storicamente. Una tale fede può apparire sommamente
ingenua se si pensa alla forma del racconto biblico nel terzo capitolo della
Genesi, ma risulta poi
semplicemente necessaria a spiegare
la concreta natura dell’uomo, spirito e materia, sommamente
deludente nella sua oscillazione fra l’ aspirazione alla onestà e la
sorpresa del peccato, quasi uno
scapiglato dualismo fra angelo
e demonio. Che solo tenendo conto realisticamente anche di tale dato di
psicologia si possa giungere ad una antropolgia autentica, ad una concezione
realistica dell’uomo singolo e della
società? Si può fondare stabilmente
la moralità personale e comunitaria,
senza un limite prudenziale nella fiducia verso l’uomo, che faccia affidamento sulla redenzione perchè
cosciente della ferita della colpa prima? Si può pervenire ad una
serenità di esistenza e coesistenza, ad una solidarietà che sia
frutto dell’amicizia fra gli uomini e non pura esigenza di perequazione
economica, senza far perno su un di più di saggezza, che in concreto deriva
dalla dottrina della difformità dell’uomo storicamente esistente,
rispetto all’ideale integrità
di quello filosoficamente razionalizzato?
Se la logica domina la vita umana singola ed associata e se la Storia è
maestra di vita, allora anche la storia della cultura può essere la cartina
di tornasole che rivela le leggi profonde dell’animo umano e del processo
evolutivo che vi ubbidisce; può diventare uno spiraglio da cui
riconoscere la verità totale sull’uomo e le esigenze per la edificazione
di un futuro più avveduto prima che più onesto, di una convivenza più
esperta prima che più
armoniosa. E una storia della Letteratura, benchè riferita essenzialmente
all’analisi della componente emotiva
nella espressione dell’uomo in una determinata lingua, tuttavia non
può spiegare tutte le sue componenti senza riferirsi anche alla evoluzione
culturale della società verbale in mezzo a cui affiora: tout se tient;
neppure la poesia è avulsa dall’ambiente
sociale da cui sboccia e di cui
diventa testimonianza. Allora, come da
un effetto secondario si indovina la causa, anche da una storia letteraria
si può risalire ad una intuizione della
mentalità che caratterizza di tempo in tempo il cammino spirituale di una
società, colorandone poi la sensibilità ed il costume morale. Anche la
storia letteraria diventa una spia affidabile sulla natura dell’animo
umano, sulle leggi della evoluzione sociale, sulla previdibilità dei
risultati, una volta che siano presi in considerazione tutti i fattori del
suo agitarsi ed agire,non esclusa la componente di insufficienza morale, che
l’uomo della strada intuisce nella concreta maggior difficoltà ad operare
il bene piuttosto che il male; e che il pensiero cristiano attribuisce a
quel residuo del peccato originale che i teologi chiamano concupiscenza, cioè
tendenza della sfera emotivo-istintiva ad entrare in azione al di fuori dei
fini intrinsici, che la coscienza razionale
non può non costatare come loro giustificazione.Si veda, in proposito, B. Pascal,
Les pensèes, 438: “Certamente nulla ci urta più fortemente di questa
dottrina e, tuttavia,
senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi restiamo
incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge ed
attorce in questo abisso, di modo che l’uomo è più inconcepibile senza
questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per
l’uomo”. La nostra è una ipotesi di
lavoro, certo, ma non manca di indizi notevoli a proprio favore. Rimaniamo
nell’ambito letterario. E’ noto che Manzoni, prima della conversione
aveva aderito alle posizioni estreme della mentalità illuministica
anche in sede religiosa. Questa, quando non era esplicitamente atea, era
segnata clamorosamente dal rifiuto di ogni intervento di Dio nelle vicende
del mondo, cioè dalla negazione della
Provvidenza. Non è un caso che
l’opera principale di Manzoni risulti “epopea della Provvidenza”: era
il segno sicuro della profondità della conversione operatasi
nella mente dello scrittore milanese, una polemica inconscia contro il
periodo di apostasia nella
propria vita, che si era
colorato specificamente colla negazione dell’amore di Dio provvidente,
negazione comune al disorientamento
di quella società. Alla
pari, noi ci troviamo di fronte ad un movimento policromo e variegato come
il Rinascimento: una delle sue caratteristiche è la scomparsa,
dall’orizzonte della
coscienza, della dottrina del peccato originale anche nei migliori aderenti
(si pensi al Moro ed al Castiglione). Sorge il problema: è questa
una dimensione fra le
tante o ne è la radice prima e la connotazione originaria? La risposta ce
la dà Lutero e tutto il movimento evangelico del secolo XVI: l’estremismo
ossessivo con cui i tre riformatori protestanti riabilitano
il posto del peccato originale nella fede cristiana trasforma il
sospetto in certezza. Davvero questo è lo “straccio necrotico”, la
carenza decisiva del pensiero rinascimentale od Umanesimo, rispetto alla
fede cristiana, che pur quella società si illudeva di possedere ancora.
[33] Ermolao Barbaro, il giovane, veneziano, cugino dell’omonimo cugino, detto “il Vecchio” e vescovo di Verona, visse tra il 1453 o’54 e il 1494: freddo nel suo latino elegante, è interessantissimo nel contenuto delle lettere, avendo vissuto da diplomatico per Venezia. Fu poi eletto patriarca di Aquileia. Inutilmente, però, essendosi attirato l’inimicizia della patria per aver accettato doni -il patriarcato!- dal principe -il papa- presso cui era accreditato. Scrisse le Castigationes plinianae, dimostrandosi un esigente stilista e, come tale, rimasto famoso fin dentro il sec. XVII: Fu un aristotelico e tradusse opere del filosofo. Scrisse anche i trattati De coelibatu e De officio legati. [34] Antonio Loschi, (Vicenza, 1368-1441), cancelliere di Giangaleazzo Visconti , fu amico del Bruni ed aprì la stagione ciceroniana dell’Umanesimo con la Inquisitio”(commento di carattere retorico, cioè attinente le forme della oratoria) su undici orazioni dell’Arpinate. Scrisse pure delle Epistolae metricae a contenuto per lo più poltico; ed una tragedia Achilles di imitazione senechiana (composta circa il 1390, fu edita solo nel 1843). [35] A parte le calunnie più oscene e disonoranti che entrano in queste invettive (cfr. V. Rossi, Il Quattrocento, Milano, F. Vallardi, c.III, La prosa oratoria), alcune osservazioni (specie del Valla) sono quanto mai pertinenti nei confronti del “latino” ,più poeticamente vivo che corretto, del Bracciolini. Quando il Valla tratta dell’esatto uso dell’aggettivo possessivo (“suus” piuttosto che “eius” od “ipsius”) e del pronome riflessivo (“sui, sibi, se” ) nel tradurre il toscano “suo” ed “egli| gli” , tocca uno dei punti dolenti della sintassi latina. [36] Ciriaco de’ Pizzicolli (detto” d’Ancona” dalla sua patria) visse fra il 1391 e il 1455. Illustrò il suo entusiasmo per la antichità classica con il viaggiare alla ricerca di cimeli d’arte, di codici e di epigrafi, che descrisse poi nell’Itinerarium e nelle Lettere (edizioni rispettivamente nel 1742 e 1896). [37] Il legame tra comportamento morale e successo, condotta immorale e fallimento esiste certamente, ma a livello globale, cioè sociale e strategico. Essendo l’agire morale semplicemente un comportamento pienamente umano, è ovvio che il carattere disumano dell’azione immorale, se esteso alla società nel suo complesso, porta con sè a lungo andare le condizioni del fallimento. Dove si devono notare varie circostanze. Se non è la maggioranza della società a cercare il male, la virtù di molti può facilmente riscattare i vizi di una parte della comunità in esame; il rapporto “delitto e castigo” ( e, viceversa, di “virtù e successo”), proprio per questo groviglio di bene e male che di solito convivono in una società qualsiasi, lo si può dimostrare solo esaminando tempi lunghi della storia di un popolo. Ancora: i valori morali sono certo quelli più decisivi per i risultati di civiltà e progresso (anzi, della permanenza stessa) di una società, ma vi sono anche altri fattori (militari ed economici, soprattutto) che a lungo possono surrogare le componenti morali. Coi soldi si possono pagare, ad esempio, soldati professionali stranieri per supplire alla codardìa del popolo a difendersi in guerre doverose contro ingiusti aggressori; o, viceversa, un’esaltazione di vittoria o una competenza di belligeranza, in un popolo corrotto, può aver ragione di nemici moralmente migliori, dominarli, sfruttarli, sostenersene almeno finchè la immoralità non raggiunga anche la distruzione dell’amor proprio e renda maliziosamente avveduti a non rischiare la vita per sostenere l’impero del proprio popolo. Si legga, nella chiave dei princìpi qui offerti, la evoluzione della crescita, crisi e decadenza del popolo romano. Dal punto di vista religioso, invece, non si può presumere di leggere nel fallimento di un malvagio la sua necessaria punizione, chè Dio punisce e premia nell’Aldilà: sulla terra anche il dolore dell’insuccesso è puro richiamo alla conversione ed ammonimento generale che non sempre il male ottiene un premio, neanche in questa vita. Per ciò stesso, nè sempre i delitti generano il fallimento nè la virtù morale basta a garantire il successo. La loro relazione può sembrare casuale e irrazionale, ma può essere letta come provvidenziale per ottenere il miglior risultato morale pel singolo uomo, come per la comunità in cui vive. [38] Vi è anche un altro genere di composizioni in cui gli Umanisti furono famosi, quello delle orazioni, cioè i discorsi: da quelli politici a quelli funebri. Buonaccoso da Montemagno ( morto nel 1429 a meno di 40 anni) ne scrisse per esercizio retorico di famose, in favore di Catilina e contro Cicerone (pro L. Catilina contra M. T. Ciceronem) e pare siano sue anche quelle pronunciate dal Porcari in lode della Giustizia, che ebbero, fin dentro il Millecinquecento, gran fortuna. Due ci rimangono di Lapo da Castiglionchio (morto a 33 anni nel 1438), assieme ad un dialogo De curiae commodis. Il Bracciolini scrive le orazioni funebri per il Niccoli, l’Albergati, il Bruni, il Cesarini; Ludovico Carbone da Ferrara (1435-82), discepolo del Guarino e lettore nello studio della città natale, fu incaricato dell’orazione funebre per il maestro (ci ha lasciato anche le Facetiae, come già visto); Cristoforo Landino tiene elogi funebri per Neri Capponi, per Donato Acciaiuoli, per Giordano Orsini. Il Platina indirizza a Pio II un’orazione De laudibus bonarum artium (1464). Il Poliziano scrive sermoni sacri e politici. [39] Ha senso un simile giudizio? Non sarà mica dettato da repulsioni morali, per caso? Non ci pare proprio. Un parallelo lo si può trovare in Giovanni Prati, nella seconda scuola romantica dell’Ottocento italiano. Come aveva subito intuìto il Manzoni (cui il Prati aveva inviato versi per un giudizio) egli possedeva una facilità musicale davvero geniale, ma mancava di idee. Il risultato fu quella produzione misera che accarezza l’orecchio (nel caso del Prati, siamo all’opposto del musicalismo beccadelliano: tanto è forte ed esultante questo, quanto è dolce e dimesso quello) ma, in entrambi i casi, non rimane nella mente e nel cuore. [40] E’ stato l’autore di Roman Vergil (W. F. G. Jackson Knight, London 1944: tradotto da Longanesi) ad intuire l’impatto sulla poesia latina dei versi omodinici ed eterodinici. I primi sono quelli in cui l’accento tonico delle parole coincide con l’accento ritmico del verso; viceversa, i secondi. Ora la coincidenza degli accenti tende ad addolcire il verso, rendendolo facilmente disponibile ai toni contemplativi dell’idillio e dell’ elegia; viceversa l’urto degli accenti nei versi eterodinici li rende più aperti alle tonalità drammatiche (epopea e tragedia). Naturalmente l’incapcità a creare versi omodinici quando ci si ispira a tematiche idilliche, (e viceversa), ne rende quasi impossibile la espressione poetica. I sentimenti restano velleitari e non si comunicano come emozioni al lettore. O meglio, la mancanza di sublimazione dei sentimenti in emozioni pure non permette di trovare l’intonazione indovinata del verso . [41] Niccolò Niccoli, interlocutore dei Dialogi ad Petrum Histrum (di Leonardo Bruni), riporta nel secondo libro tale giudizio che finge di far proprio, salvo poi a dichiarare di aver voluto solo stuzzicare la convinzione opposta del Salutati, che non si decideva a metter fuori le sue idee favorevolissime agli scrittori fiorentini. [42]
Nasce nel 1357 a Firenze da madre veneziana
(Paola Zorzi): il padre morì prima che egli venisse alla luce. Morirà a
Buda in Ungheria nel 1419. Nel 1357 è accolto a stento fra i Domenicani di
S. Maria Novella, perchè balbuziente e carente di istruzione. Guarito dalla
balbuzie nel 1381 (per intercessione di S. Caterina da Siena), divenne
grande predicatore e dotto tra i più stimati. Inviato a Venezia, inizia la
riforma dei conventi domenicani, attirando molti discepoli in quelli dei SS.
Giovanni e Paolo e di S. Domenico in Castello, nonchè in quello femminile
del Corpus Domini (vi entrerà anche la madre). Nel 1399 abbandonò Venezia,
perchè si era lasciato coinvolgere nel “Movimento dei Bianchi” (un
ultimo guizzo del fervore popolare con processioni e pubbliche penitenze,
quali erano iniziate nel Milleduecento), movimento partito da Chieri e
propagatosi in tutta Italia alla fine del secolo XIV, con effetti di
pacificazioni cittadine ma anche di fanatismi poco graditi alla ordinata
repubblica veneziana; finirà con la peste del 1400). Tornato a Firenze,
ebbe incarichi dalla Signoria, inviasto a Roma per impedire la nomina del
nuovo pontefice (era tempo di scisma), ma si comportò così bene che
Gregorio XII, neoeletto, lo fece vescovo di Ragusa e cardinale. Riuscì,
poi, a persuadere lo stesso Gregorio a dare le dimissioni, aprendo così la
via al Concilio di Costanza ed alla fine del grande scisma d’Occidente. A
Costanza, il Concilio gli confermò il cardinalato, cui egli voleva
rinunciare: Martino V lo inviò
come pacificatore degli Hussiti in Boemia ed Ungheria. Morì a Buda nel 1419
o 1420. [43] Gerolamo Savonarola visse tra il 1452 ed il 1498. Ferrarese di nascita, aveva però ascendenti padovani.Il nonno Michele era medico alla corte estense, al cui servizio stava anche il padre di Gerolamo, Niccolò, uomo però di non grande levatura mentale. Gerolamo, terzogenito di sette figli, entrò una sola volta a corte e non ci volle mai più rimettere piede: si è già detto dei costumi corrotti di Borso d’Este. La canzone De ruina mundi, scritta a vent’anni, è già sulla linea delle prediche degli anni fiorentini. Mette innanzi, sia pure per rifiutarla subito, la tentazione di negare la Provvidenza divina, perchè il mondo gli sembra troppo malvagio: “Se non è pur vero e così credo,|Rettor del mondo, che infinita sia| Tua provvidenza....| talor saria via più che neve fredo| vedendo sottosopra volto el mondo,| et esser spenta al fondo| ogni virtute et ogni bel costume...”. Apprese le “lettere” (col Guarino?), egli interrompe a 23 anni la carriera degli studi medici per fuggirsene –letteralmente- a Bologna presso i Domenicani, scrivendo di là ai genitori una prima lettera amorevole: visto che essi lo reclamano a casa, egli ne scrive una più forte e recisa, onde quelli mettessero il cuore in pace. Nè pensava a divenire sacerdote: gli bastava essere fraticello umile e laborioso. Non gli fu permesso. Divenuto padre, ebbe l’incarico di lettore (insegnante) per il convento di S. Marco in Firenze: entrava nella città nel 1482. Ebbe successo tra i confratelli, ma meno tra la popolazione, quando predicò vari cicli sia in città che in contado. Chiamato allo Studio generale dell’ordine, rimase a Bologna solo per un anno (1487-8), dopo di che fu predicatore In Alta Italia (da Genova a Brescia: in questa città predisse, nel 1489, il saccheggio che sarebbe avvenuto però nel 1512). Da Genova venne fatto tornare a Firenze nel 1490, per volontà di Lorenzo il Magnifico, cui lo aveva suggerito Pico della Mirandola. Questa volta l’efficacia delle sue prediche non ebbe paragone: cominciò dal commento della Apocalisse e continuò con libri dell’Antico testamento. Ne derivò anche la elezione a “priore” del convento, con il consenso di Roma a staccarlo dalla provincia di Lombardia : divenuto del tutto indipendente, era fatto guida di altre sedi domenicane in Toscana, a cominciare da Fiesole. Egli li riformò secondo le sue direttive ascetiche e introdusse in San Marco “un ordine quasi divino”. Ben presto il Magnifico Lorenzo dovette pentirsi della chiamata: dal pulpito il Savonarola fustigava i potenti del mondo ecclesiastico e politico italiano. Nella foga polemica non c’era, inconsciamente, un sottrarsi al dovere antipatico di predicare per i fedeli presenti, in nome di una presunta vocazione a correggere i grandi lontani, sempre un po’ invisi alla massa, contenta di sentirsi migliore e non coinvolta nelle condanne del predicatore violento? Non era un inconscio delitto di sollecitazione all’odio ed alla irrequietezza civile? Non era allora il contrario di quanto avevan fatto San Francesco e Caterina, che cercavano di rappacificare, non di dividere le cittadinanze? All’invito fattogli pervenire, attraverso mediatori illustri, di moderare la sua predicazione, egli rispose con sicurezza: “Rispondete a Lorenzo de’ Medici che lui è fiorentino e il primo della città et io sono forestiero e povero fraticello. Nondimeno ditegli che lui dovrà partirsene et io ci ho a restare”. Nell’aprile dell’anno seguente, il 1492, il Magnifico, avviato a celere morte, chiamava il domenicano di S. Marco, che era divenuto priore senza far l’atto di omaggio abituale a casa Medici (la quale aveva pur ricostruito e trrasformato il convento con propri danari, spendendovi almeno 36.000 fiorni...) La tradizione di Pacifico Burlamacchi (1465-1519), mercante lucchese fattosi domenicano, afferma che al Magnifico fosse negata l’assoluzione per aver rifiutatodi restituire la libertà a Firenze. Ma non è la tradizione più accettata: il Burlamacchi era forse troppo devoto del confratello e non risulta sempre attendibile. Come è semplice tradizione non storicamente controllabile che, a Bologna, nella Quaresima dell’anno 1493 egli predicasse contro la procace moglie del signore della città, un Bentivoglio, presente alla predica in gran pompa. Egli si illuse che, come gli era riuscita la riforma del convento fiorentino dei Domenicani, così potesse fare per Firenze tutta e, da lì, irradiare sull’Italia intera una vita cristiana ideale, conforme a quella dei primi tempi della Chiesa in Gerusalemme (dimenticando il fallimento del comunismo economico di quella comunità e il groviglio di problemi cui la prima comunità di Corinto metteva di fronte S. Paolo...). Morto il Magnifico nel 1492, egli si trovò di fronte alla invasione di Carlo VIII (1494), che mise in fuga Piero, il figlio di Lorenzo, e riportò Firenze a libertà. Al Savonarola riuscì di orientare il governo in senso latamente democratico, impedendo il ritorno alla stretta oligarchia degli “Arrabbiati”, che volevano sostituirsi ai “Bigi compagnacci” , rimasti fedeli ai Medici. Il frate non desiderava entrare in politica, ma vi fu trascinato dagli avvenimenti. Egli aveva predetto l’arrivo di un novello Ciro a liberare la Babele cristiana dalla corruzione, sicchè sembrò aver profetato l’avvento di Carlo VIII: sia lui che i “Piagnoni” (“piagnona” era detta la campana di San Marco) rimasero tenaci nel voler alleare i gigli rossi di Firenze con quelli bianchi di Francia, fino a Pier Soderini (uomo savonaroliano, nonostante che facesse parte del suo governo un Machiavelli). Al momento, il Savonarola fu parte dell’ambasciata che andò a Pisa a trattare del passaggio dell’esercito francese per la Toscana. Fu anche merito suo (del suo intepretare come provvidenziale la venuta del re di Francia), oltre che alla decisione di Gino Capponi (“Noi suoneremo le nostre campane”), se Firenze evitò la occupazione e se la cavò con una taglia di 120.000 fiorini d’oro. Al nuovo governo fiorentino Savonarola dava, su richiesta del gonfaloniere Salviati, il “Trattato del reggimento e governo della città di Firenze”, che prevedeva una costituzione vicina a quella veneziana (1498: fu l’anno della sua morte...). La disfatta di Carlo VIII e la pertinace fedeltà di Firenze savonaroliana alle sconfitte ambizioni della Francia (“gigli con gigli debbono unirsi”) preparò la sconfitta del frate, che commise altre imprudenze per accelerarla. Egli si mise infatti a predicare contro i prelati della Chiesa: che era, a dir poco, controproducente per lui, religioso; ed era, moralmente, riprovevole (nell’Antico Testamento, la maledizione di Noè contro il figlio Cam che lo aveva deriso ubriaco e, nel dialogo platonico “Eutifrone”, la saggezza di Socrate,insegnano a non contestare pubblicamente i genitori o legittimi superiori). Ne coseguì una prima citazione a Roma: Savonarola vi si rifiutò in nome della cattiva salute e del pericolo di aggressione ed uccisione da parte sia di filomedicei che di “arrabbiati”. La predica del 28 luglio 1495 conteneva l’invito alla signoria ed ai magistrati (presenti in Duomo in forma ufficiale) a mettere a morte i nemici di Dio e della repubblica. Il papa, saputa la cosa, confermò con un nuovo “breve” l’ingiunzione a scemdere a Roma, additando nel domenicano un seminatore di false dottrine e, con ciò stesso, ritirando l’accettazione orale delle scuse del Savonarola, manifestata pochi giorni prima. Seguirono invece, nell’ottobre di quell’anno, nuovi inviti alla violenza politica per stroncare tentativi al ritorno di Piero di Piero de’Medici. Egli parlava collegando fede religiosa e fede nel regime repubblicano quasi fossero due verità paritetiche e coessenziali! La fede nella libertà politica diventava un articolo di fede cristiana... Contemporaneamente, il papa toglieva al convento di S. Marco la sua autonomia e lo riaccorpava alla congreazione lombarda, trasferendo alcuni padri al convento di Bologna. Ma una risposta pacata del Savonarola ancora una volta indusse Alessandro VI a recedere dai provvedimenti con un decreto del 16 ottobre 1495: che proibiva però al Savonarola di predicare. Il che egli fece appena conobbe il testo del breve, giunto a Firenze tre giorni dopo la data di proibizione. Fu la signoria che, dopo aver messo una taglia di 4.000 fiorini sulla testa di Piero de’ Medici che aveva tentato di rientrare in città, intimò al frate di riprendere la predicazione nella Quaresima del 1496: il 17 febbraio egli risalì sul pulpito e predicò con allusioni patenti alla vita scandalosa della corte di Roma. Il papa tentò di lusingarlo con l’offerta del cappello cardinalizio? In una predica dell’agosto, egli pare alludere ad un suo rifiuto: “Io non voglio cappelli, non mitre grandi nè piccole; non voglio se non quello che Tu hai dato ai tuoi santi: la morte: un cappello rosso, un cappello di sangue: questo desidero”. Con simili presentimenti aveva già scritto alla madre nel 1495. Gerolamo intanto parlava sulla possibilità di disubbidire al papa, se gli ingiungesse qualcosa che alla sua coscienza apparisse contraria alla carità od al Vangelo (“Tu ora non sei pastore, tu non sei romana Chiesa, tu erri...Oportet magis oboedire Deo quam hominibus...”). I giovani savonaroliani intanto, per attuare la riforma in città, percorrevano le strade cantando inni spirituali e penetrando a forza nelle case, a togliere quadri osceni, libri licenziosi, dadi, carte, parrucche, belletti... Fra i seguaci, troviamo Pico della Mirandola (che morì il giorno stesso –17 novembre 1494- che i gigli bianchi di Carlo VIII entravano in Firenze), Michelangelo Buonarroti, il Poliziano e Sandro Filipepi detto Botticelli, i fratelli Andrea e Ambrogio della Robbia, Marsilio Ficino (solo per qualche tempo), Domenico Benivieni (poeta petrarcheggiante e platonizzante, vissuto fra il 1453 e il 1542 e amico del Ficno e di Pico; è autore, oltre alla produzione petrarchesca di gioventù, della “Canzone dell’amor celeste e divino”)... Gli riuscì, in questo tempo, ad istituire anche il Monte di pietà, per prestito ai poveri su pegno, ad interessi modestissimi. Nelle prediche del 1497 (commentava il profeta Ezechiele), il tono si eleva: le accuse contro la corruzione del clero e della curia romana si accrescono. Finita la Quaresima, nella signoria ai Piagnoni subentravano gli Arrabbiati ( i Medici avevano effettuato un altro tentativo di entrare in Firenze, fallendo di nuovo: per forza di abbrivo, la massa degli elettori si spostò verso i vincitori, gli oligarchici avversari dei Medici). Durante una predica in S. Maria del Fiore, il giorno dell’Ascensione, avvengono tumulti che gli impediscono di finire la predica. Lo sconsigliano di tenerne altre. [44] Dalla scomunica alla morte. Papa Alessandro VI scaglia la scomunica contro il Savonarola, indirizzandola ai Serviti della chiesa dell’Annunciata di Firenze ed a qualche altro convento: inutile mandarla al Savonarola, che aveva già preannunciato di non riconoscerla. Nel frattempo egli ha composto la sua opera spirituale maggiore: il Triumphus crucis. Ma essa si ritorce contro di lui, perchè termina con l’affermazione del primato di Pietro e successori, cioè con la verità cattolica che egli calpestava nella pratica. Anche pel resto, l’opera era così sicura nella dottrina, che fu adottata come testo per i seminaristi del collegio De propaganda fide, in Roma! Ciò che gli mancava era la umiltà: un inconscio orgolio caratterizza la sua predicazione. Anzitutto egli attacca superiori ed assenti, cioè predica per avere successo presso il pubblico presente. In secondo luogo egli si presenta come profeta, in nome di predizioni generiche, viste come realizzate in avvenimenti specifici: aver preannunciato l’avvento di un Ciro liberatore poteva essere frutto di impazienza contro la corruzione del tempo e pretesa fiducia nella Provvidenza divina; l’averlo visto avverato nella discesa di Carlo VIII fu un abbaglio grottesco, dettato dalla convinzione (ingenua e orgogliosa) di averlo in qualche modo predetto. Se poi si scorre la predica del 18 marzo 1498 (conosciuta come “il sermone d’addio”), ci si accorge che il pronome “io” vi predomina in misura sconcertante: Savonarola, commentando Geremia, predica se stesso, non il Vangelo! Il pronome di prima persona singolare vi ritorna decine e decine di volte... Era questo il segreto del suo fascino sui seguaci ingenui ed emotivi: egli li legava a sè, non al Signore: egli aveva avuto ragione molte volte; dunque egli era nella retta via anche contro il papa. Savonarola, in San Marco e da San Marco con lettere (in volgare: a tutti i cristiani e diletti di Dio; e in latino: “Contra sententiam excommunicationis”) e con prediche appella ai capi delle nazioni ed al Concilio contro il papa. Se nel maggio il Savonarola veniva scomunicato, nel giugno moriva il figlio maggiore del Borgia, Giovanni, duca di Gandia (pare su mandato dell’altro figlio, Cesare). I propositi che ne seguirono, di purificazione della Chiesa a partire dal capo, cioè dallo stesso papa, si dissolsero nella concessione del divorzio alla figlia Lucrezia dal marito Giovanni Sforza, per mandarla sposa ad Alfonso, duca di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II di Napoli. Tre signorie consecutive “piagnone” (favorevoli al Savonarola) si succedettero dal luglio al dicembre 1497 e, poi, ancora nei primi mesi del 1498 (due mesi ogni signoria! cfr: Purgatrio, 6, 127-151) , ma i loro tentativi di ottenere il ritiro della scomunica caddero davanti alla richiesta del papa che il Savonarola fosse lui a richiedere l’assoluzione, dichiarandosi così colpevole. Il domenicano intanto predicava la invalidità della scomunica e la proibizione del vicario episcopale alla sua predicazione era superata dal sostegno della signoria a lui favorevole. A carnevale 1498 ci fu il successo finale del frate: il secondo e più clamoroso bruciamento delle vanità. Le prediche, ormai subito stampate in opuscoli, facevano ancor più rumore: Alessandro VI vi era chiamato “un ferro rotto” e il papa stavolta ne divenne furioso. Se la signoria non mise in atto il Breve del 26 febbraio che ripeteva ordini e proibizioni già impartiti al frate, i canonici del duomo ne tennero conto: il Quaresimale, iniziato in S. Maria del Fiore, dovette essere continuato, dopo solo tre sere, in S. Marco. La signoria fu poi scossa da un nuovo Breve del 9 marzo, che minacciava la città di interdetto: stavolta essa cedette e proibì al Savonarola di parlare dal pulpito anche in S. Marco. Il 18 marzo parlò l’ultima volta, con quel sermone in “io” che abbiam detto testimonianza di un orgoglio che solo la limitatezza intellettuale dell’autore poteva ignorare: penso che il “sermone di addio” sia un ostacolo grave ad una sua eventuale riabilitazione etico-religiosa. Ma egli fece di peggio: scrisse lettere ai principi cristiani per far deporre il papa mediante un concilio. Una copia, intercettata dagli agenti di Ludovico il Moro e fatta conoscere a Roma dal card. Ascanio Sforza, sarebbe bastata (con le idee di allora) ad un processo per eresia con la condanna al rogo. C’era, però, il favore popolare che impediva, per ora, una simile tragica conclusione. A smantellare una tale difesa provvide un fanatico seguace del Savomarola, Domenico da Pescia, che ebbe la ingenuità di accettare la sfida del frate francescano Francesco di Puglia per la “prova del fuoco”. Benchè contrario ad una simile pratica, il Savonarola la lasciò tentare al confratello imprudente. Nel frattempo, in base alla legge psicologica per cui la massa segue il più forte e abbandona chi comincia a perdere, la nuova signoria ( del bimestre marzo-aprile 1498) riuscì sfavorevole ai savonaroliani e pensò di servirsi della sfida a danno del frate domenicano. Una simile scommessa, si noti, era una colpa grave contro il secondo comandamento, perchè equivaleva a“tentare Dio”, cioè a pretendere che Dio intervenisse col miracolo a salvare dal fuoco chi, dei due sfidanti che attraversavano uno stretto passaggio circondato da fiamme, fosse innocente e nel giusto, lasciando invece bruciare il colpevole. Papa e cardinali furono subito contrari, trattandosi di un residuo di barbarie germanica, mai accettata dalla Chiesa come lecito. Ma la lettera di Roma che proibiva la sfida giunse (o fu detta essere giunta?) dopo il 6 aprile, in cui la prova era iniziata e interrotta scandalosamente. A parte infatti un breve temporale, subito scioltosi senza impedire la accensione del fuoco, furono messe in campo cavillazioni sia da parte del francescano sia della signoria, che fecero fallire la prova. Immaginarsi: i francescani esigettero che frate Domenico da Pescia (il sostituto del Savonarola, che ra presente col SS. Sacramento, quasi ad una processione) si mutasse tutte le vesti, per paura che fossero affatate! A questo modo la sfida si protrasse inutilmente tutto il giorno ed alla sera la signoria fece sospendere ogni cosa. Due giorni dopo, la Domenica delle palme, i “compagnacci” perturbarono la predica di un fido compagno del Savonarola, che parlava in duomo e poi diedero l’assalto al convento di S. Marco. Il Savonarola sconsigliò la resistenza fisica, ma alcuni frati la praticarono e ne risultarono parecchi morti, mentre egli processionava , con i frati fedeli a lui, sotto i portici del convento. Furono arrestati lui, Domenico da Pescia ed il timido ed incerto fra Silvestro Maruffi. Saranno processati con tortura: Savonarola cede qualche volta, ma poi disdice fuori dei “tratti di corda” che lo disnodano. Si inventano allora accuse di eresia e di finalità personali al dominio sulle anime. Il papa chiese si trasferisse il processo a Roma, ma la signoria obiettò, sapendo che ne sarebbe uscita infamata; il papa mandò allora commissari che assistessero al processo ed esecuzione. Stavolta i tre frati furono interrogati pubblicamente dal 20 al 22 maggio: condannati a morte per impiccagione (e, poi, arsi i cadaveri) la sentenza fu eseguita il giorno dopo, 23 maggio. Prima di esser condotto al patibolo pare proprio che facesse la profezia, dopo un breve sonno nell’attesa, che un papa di nome Clemente avrebbe fatto soffrire Firenze (sarà Giuliano de’ Medici, divenuto papa Clemente VII, che farà riconquistare Firenze dalle truppe imperiali negli anni 1527-30): Fu sconsacrato ed assolto. Salì la scala recitando il Credo. Le ceneri furono sparse in Arno. [45] La “fortuna” del Savonarola. La sua “santa repubblica” rivisse nella gloriosa resistenza contro il ritorno dei Medici, negli anni 1527-30: Fu la “repubblica di Cristo re” del “Rex regum et Dominus dominantium” (re dei re e Signore dei signori). Ma già prima, la repubblica di Pier Soderini riuscì complessivamente “piagnona”, anche se ebbe il torto di ospitare il concilio antipapale indetto da Luigi XII di Francia contro Giulio II (al tempo della “guerra santa”); e l’altro torto, di avere fra i suoi membri il Machiavelli... Santi come Filippo Neri e papi come Benedetto XIV lo venerarono come martire; Lutero lo dichiarò invece suo precursore. Tutto sommato, non fu eretico, ma ribelle. Anima tormentata e tormentatrice, fu un disequilibrato capopopolo: asceta eccessivo, trascinatore emotivo, ingenuo egotista. Noi gli obiettiamo anche l’oblio del peccato originale, che fu il punto di disorientamento per Lutero e quello che fondava l’Umanesimo in cui lui sospettava non a torto un pericolo gravissimo per la cristiana civiltà. [46] Per sè, “Cantare” è la parte che il poeta-recitatore declamava in una seduta al suo pubblico: è una specie di divisione in “canti” o capitoli del poema tutto, che poi prese anche il nome di “cantare” in tutta la sua estensione. [47] La novella di Bocaccio IV, 1, presenta la figlia del principe Tancredi, Ghismonda, che si uccide quando il padre sopprime il suo amante Guiscardo. [48] Si noti il ritorno di tale condanna della società rinascimentale che è presente in Erasmo (Elogio della pazzia), nell’anonimo autore della Nave dei folli e, in forma meno violenta, nella Utopia di Moro. [49] Anticipiamo un rimando ai versi di Giuseppe Gioachino Belli, poeta romanesco del Milleottocento, perchè anche in lui l’incertezza ed oscillazione fra “ammirazione, compassione e divertimento” di fronte alla mentalità e condotta della plebe romana nel suo tempo, si riduce ad una specie di disimpegno emotivo ed conclude allo stesso fallimento della produzione complessiva dei suoi sonetti. [50] Altri esponenti di poesia popolaresca non hanno grande importanza. Ne diamo qualche nome e notizia. Francesco Bello (od Orbo , detto “il Cieco da Ferrara”, anche se , più probabilmente, era fiorentino) fu autore del poema “Mambrino” (il nipote del re Mambrino cerca di vendicarne la morte su Rinaldo). Vincenzo (de’) Colli, detto il Calmeta, nato a Isola di Schio (Vicenza), visse tra il 1460 ca ed il 1508). Fu a servizio di vari princpi (anche del Valentino ) e principesse. Più che per le sue mediocri rime o pel trattato (perso) I nove libri della volgar poesia, in cui tenta risuscitare la dottrina dantesca del “volgare illustre”, appoggiandola alle corti più in vista; o per il poemetti I Trionfi (di chiara imitazione petrarchesca) che celebra Beatrice d’Este di cui era stato segretario, interessa oggi il suo senso critico che ci rivelano “Annotazioni e iudìci”, (pubblicati in “Prose e lettere, nel 1959) in cui chiama al tribunale della propria sensibilità poeti antichi e contemporanei. Stronca, fra gli altri, il Tebaldeo: troppo giustamente! Panfilo Sasso (Modena, 1455-1527), pubblicò la sua Opera nel 1501 coi soli sonetti ed egloghe, ma si vide pubblicare senza autorizzazione gli Strambotti, di cui fu ricco compositore. Già barocco e concettista, fu stroncato dal Calmeta. Gaspare Visconti (Milano: 1461-1499). Scrisse un poema in ottave (Di Paulo e Daria amanti) ed in ottava rima scrisse una commedia (Pasitea); pubblicò i Rithmi (243 sonetti e 2 sestine con in appendice un Transito di Carnevale). Esistono di lui altre rime numerosissime, ma inedite e giunte a noi nell’autografo. Bernardo Bellincioni (fiorentino al servizio degli Sforza: 1452-1492). Padrone sicuro della lingua e del verso, ammassò sonetti (con o senza coda), capitoli, canzoni, sestine, canzonette, elegie funebri, commedie da mettere in scena, frottole... Ma la stessa facilità fu la sua rovina: manca la decantazione razionale, sicchè la troppa estemporaneità lascia tracce di passionalità, di superficialità, di intenti pratici (specialmente la totale dedizione alla propaganda politica dei suoi signori milanesi, magari alleati alla signoria di Firenze, dopola fuga di Piero con la calata di Carlo VIII). Niccolò Postumo da Correggio (1450-1508) fu parente degli Estensi e scrisse le Rime (sonetti, capitoli, canzoni), con vasta apertura di motivi ispiratori, ma con la convinzione precisa della esemplarità petrarchesca e della raffinatezza che tale modello imponeva (esclusione delle composizioni più popolareggianti come strambotti, madrigali, ballate, barzellette). Compose pure un poemetto autobiografico (Psiche: in ottave) e la Favola di Cefalo (in ottave, inframezzate di canzonette e terzine: rappresentata come favola scenica, è il secondo dramma in volgare, dopo l’Orfeo del Poliziano). Vi sono, dunque, in lui forti note di classicità. Pandolfo Collennuccio (Pesaro, 1444-1504). Fu a servizio di vari signori, avendo incarichi diplomatici da Lorenzo il Magnifico, da Ercole I d’Este e da Giovanni Sforza. Questi lo fece poi imprigionare e decapitare, vuoi perchè aveva collaborato col Valentino o forse perchè era al corrente di come lui era giunto al potere per vie infamanti. Fu scrittore vario. Mise in versi un Protesto (discorso di intronizzazione di un magistrato); scrive un capitolo sulla coltivazione del melarancio; cerca di dar veste dignitosa alla sacra rappresentazione con la commedia Vita de Iosep figliolo de Jacob; scrisse rime, fra cui (mentre aspettava l’esecuzione) la Canzone alla morte, che tanto piacque al Leopardi per la sua tristezza. Aveva tradotto per Ercole d’Este l’Amfitrione di Plauto e scritti due dialoghi in volgare (Filotimo,che celebra l’attività umana e la vita civile; e Specchio di Esopo, in cui introduce Esopo ed Ercole, Plauto e Luciano a celebrare la virtù e la verità), dopo averne composti quattro in latino, tutti di stampo lucianesco (Apologi: Agenoria, Alithia, Misopenes, Bombarda), in cui esalta ancora la vita civile contro l’ipocrisia e l’ozio dei frati! Apprezzata dagli uni e criticata da altri è il Compendio de le istorie del Regno di Napoli (da Alarico ad Alfonso d’Aragona). In latino scrisse pure una Pliniana defensio (contro Niccolò Leoniceno). Ci siamo dilungati su questo scrittore, perchè è un segno dei tempi a livello letterario: egli, amico del Magnifico, del Poliziano e di Pico, ma educato al culto degli autori classici, si barcamena fra le due lingue, quella toscana e quella ltina; e fra i due spiriti, quello popolaresco e trecentesco e quello umanistico e rinascimentale.
[51] Per un quindicennio dopo la morte di S. Bernardino, francescano, predicherà con efficacia apostolica a Firenze il domenicano S. Antonino, fatto vescovo della città natale. Nato da famiglia notevole (Pierozzi) nel 1389, discepolo del Dominici, vescovo dal 1446, aveva avuto il favore di Cosimo de’Medici, che facilitò il passaggio del convento di San Marco dai Silvestrini ai Domenicani, sborsando 36.000 fiorini per ristrutturarlo e farlo degno di Firenze. La gloria maggiore di S. Antonino è quella di “pastore”, come confessore e consigliere, come educatore del clero e organizzatore della disciplina eccelsiastica (sinodo del 1451), come soccorritore dei poveri (istituì i Buonomini di S. Martino, per i bisognosi di ogni genere). Non scrisse poco, ma per lo più furono opere in latino, nella scienza morale e nella casistica storica delle leggi: la Summa moralis, che gli attirò il titolo di “Antoninus consiliorum”, non era un trattato sistematico, ma un libro colmo di prudenza umana, di sapienza cristiana e di scienza teologica. Fu edita venti volte integralmente, fino al 1740 e dieci volte antologicamente fino al 1741. A questa “somma di regole” egli affiancò una “summa historialis”, cioè una specie di “Digesto eccelesiastico”, che raccoglieva la soluzione dei “casi di coscienza” secondo la prassi formatasi lungo secoli di riflessione da parte di dottori e di pastori (la “casistica” morale è parallela a quella giuridica: è la ricerca del risultato dell’inconctro fra due leggi od obbligazioni morali diverse, come potrebbe essere tra giustizia e misericordia nel caso del perdono per offesa o danno subito; o tra severità e dolcezza nell’educare i figli; o tra prudenza e magnanimità nell’assumere un ex carcerato al proprio servizio...). La “summa historialis” ebbe presto il nome di “Chronicae” , con 17 edizioni entro il 1587 (la casistica diventa facilmente “datata” cioè riferita a costumi che le generazioni superano e diversificano nei particolari). Ma scrisse anche cose in volgare. Un libro solo (“Opera a ben vivere”, dedicato alle sorelle Tornabuoni Dianora e Lucrezia (quest’ultima, madre del Magnifico); e 24 lettere. Piero Bargellini, nella sua biografia di S. Bernardino (p. 256) dice che tali opere del santo vescovo di Firenze sono letterariamente valide come le lettere della Macinghi Strozzi, le prediche del santo senese e la Vita del Colombini. [52] Lettere di carattere opposto scrisse Rinaldo degli Albizzi, membro della famiglia che, con i “da Uzzano” ed i “ Capponi”, governava praticamente Firenze dopo la repressione del tumulto dei Ciompi. Firenze era “democratica” solo di nome ed il potere era di fatto oligarchico, cioè in mano alle famigli borghesi più ricche. Nei tempi in cui Niccolò da Uzzano dominava nella signoria, prima dell’avvento dei Medici, ebbe incarichi di ambascerie che egli chiama più genericamente “Commissioni”. Le lettere-referti con cui rendeva atto alla signoria dell’andamento ed esito della amasceria, sono un modello di discreta lingua fiorentina, anche se di una aridità professionale, tecnica, asettica, si potrebbe dire “ascetica”. Non si sente vibrare alcuna partecipazione del cuore, del sentimento: potrebbero far da modello ad una stesura ancor più coerente dei Commentari di Giulio Cesare! Proprio per questo le “Commissioni ” appartengono alla storia politica ed a quella linguistica, non a quella estetica della letteratura italiana. Tanto che la sua prosa non ha neppure la duttilità, la modernità del fiorentino illustre sì, ma aggiornato (quello parlato dalle classi istruite, ma con gusto artistico, con un po’ di poesia nel sangue). Espulso nel 1434 al rientro di Cosimo de’Medici, morì in esilio ad Ancona nel 1442. [53] Luca Pulci (1431-1470), fratello maggiore di Luigi, morirà in prigione per debiti a 39 anni... Anche lui aveva l’hobby della poesia. Scrisse penose Pìstole (=epistole=lettere) in terza rima, sul modello delle Eroidi di Ovidio; scrisse il Driadeo d’amore, sul modello del Ninfale fiesolano, ma spostando la scena nel Mugello per offrire al Monte Calvano una favola eziologica; e scrisse Ciriffo Calvaneo, poema giunto solo al settimo cantare, cui collaborò Luigi, che ne rifece alcuni canti dopo la morte del fratello. Bernardo Pulci (1438-1488), anch’egli maldestro negli affari, si dedicò a composizioni religiose: Vita della gloriosa Maria (in terza rima, cioè in terzine dantesche); Barlaam e Giosafat (sacra rappresentazione), La passione di Cristo (poemetto in ottave) Scrisse anche sonetti amorosi e una traduzione delle Bucoliche di Virgilio (terzine dantesche). Sua moglie Antonia Giannotti scrisse pure sacre rappresentazioni: Santa Guglielmina, S. Francesco, Santa Domitilla, Il figliuol prodigo. Con più salute fisica, ma con affine condizione sociale (nobiltà decaduta) ed estro poetico, troveremo nel Millesettecento veneziano un’altra famiglia di letterati e poeti: i Gozzi, di cui (degli undici fratelli) Carlo è celibe e Gasparo sposato con moglie poetessa. [54] Il poema ebbe, dunque, vivente il poeta, due edizioni (1478, 1483), di cui la seconda con cinque canti in aggiunta. Per questo il poema fu conosciuto per secoli, col nome inattinente di “Morgante maggiore”. Va notato che per i suoi spunti umoristici (secondo noi, mai realizzati in comicità vera), il poema ebbe un successo notevole nel secolo seguente, influendo sulla produzione del Folengo, del Berni e dei berneschi. Addirittura ancora nel Milleottocento, il Byron ne tradusse il primo canto in inglese!. [55] Si pensi che il volume dedicato al solo Morgante, nella collana Ricciardi, occupa tante pagine quante quello dedicato a tutto Manzoni. Ma il problema vero è la assenza di prove negli sforzi di “lanciare” questo noioiso lavoro in versi. Le pagine solite riportate dalle antologia scolastiche (quelle su Margutte) non convincono affatto: l’umorismo vi è solo potenziale nella situazione comica, ma non si comunica al lettore. Conosciuta uan volta la vicenda delle singole azioni , nessuno si abbandona alla rilettura dei brani. Sono aridi, non affascinano, non commuovono, non entusiasmano. Non esitiamo a sospettare che uno dei motivi (oltre quello linguistico) della fama dell’opera è la povertà poetica del secolo XV. In regno coecorum, monocolus rex... [56] Accanto a Brandiamante, anche Brandimante e Bradamante: quest’ultima, la forma scelta felicemente dall’ Ariosto. [57] Basterà citare, per contrasto,alcuni versi dell’Ariosto, entrati nel discorso comune: “Nel campo d’Agramante” (nel campo nemico); “O gran bontà dei cavalieri antiqui...” (eterna illusione della superiorità morale delle epoche passate rispetto alla nostra); “ecco il giudicio uman come spesso erra” (alla lettera); “Ma seguitiamo Angelica che fugge” (ritorniamo a bomba, all’argomento dal quale abbiamo fatto una digressione); “La verginella è simile alla rosa..” (alla lettera);”Qualunque per bugiardo è ritenuto,| quand’anche dica il ver non è creduto” (dalle “Satire”); ecc. [58] Ecco una sintesi dell’immenso romanzo in versi. Parte I^: Carlo Magno bandisce una giostra a Parigi, aperta anche ai nemici. Intervengono Argalìa e la sorella Angelica, figli del re Galafrone del Catài: pagani, essi intendono “disertare” il campo cristiano e portare soccorso ai Musulmani. I patti della sfida che essi portano sono i seguenti: Argalìa terrà prigionieri i cavalieri cristiani vinti; se un paladino cristiano lo vincerà, si prenderà in possesso la bellissima Angelica. Argalìa conta sulle armi fatate che lo coprono. Ma le cose si complicano: anche tra i musulmani la bellezza di Angelica solleva passioni irresistibili. E Ferragùto, che è invulnerabile perchè ha tutto il corpo affatato, uccide Argalia. Angelica, rompendo ogni patto, fugge verso Oriente, verso la Cina, inseguita dai cristiani Orlando e Ranaldo, dai saraceni Sacripante ed Agricane, ecc. Nella selva delle Ardenne avviene che Ranaldo beva alla fontana dell’odio, mentre Angelica si disseta a quella dell’amore: ora è Angelica che insegue Ranaldo, il quale la fugge disperatamente. Orlando arriverà fino in Oriente, combattendo sotto le mura di Albraccà, capitale del Catài, per liberare la città e Angelica dall’assedio di Agricane (dentro vi è Sacripante, contro il correligionario Agricane, a difendere Angelica!). Vi giunge anche Ranaldo, sforzatovi da un incantesimo. Orlando uccide Agricane e libera la città ed Angelica. Parte II^ : Imprese di Orlando contro la maga Fallerina. Angelica, ingrata ed incurante di Orlando, innamorata pazza di Ranaldo, spedisce il liberatore contro Fallerina, la maga che o lo ucciderà o, almeno, lo terrà prigioniero. Ma Ranaldo è richiamato in Francia, perchè l’avanguardia saracena (condotta da Rodamonte, re di Sarza) è riuscita a sbarcare in Provenza e sta mettendo a ferro e fuoco le terre proprie di Ranaldo e Brandiamante, sua sorella. Angelica allora segue l’uomo del suo cuore e Orlando, vinta Fallerina, seguita Angelica. Albraccà scompaare dagli interessi del poeta e dei suoi eroi e l’azione ritorna in Francia. A parte le decine di avventure marginali (di eroismo, di amore e di incantesimi), succede che nella stessa fonte delle Ardenne, Angelica e Ranaldo bevano alle derivazioni opposte dell’odio e dell’amore. Così Ranaldo è ora pazzamente innamorato di Angelica e contende con Orlando per aggiudicarsi la bellissima fanciulla, mentre questa fugge entrambi con uguale detestazione. Carlo Magno, alla vigilia di una grave battaglia contro i Mori, affida Angelica al vecchio Namo, re di Baviera, promettendola a quello- fra i due cugini- che più operasse per le sorti della battaglia contro Agramante. In questa seconda parte è introdotto Rugiero, campione dei Mori, che il mago Atlante custodisce in una rocca incantata, affinchè non prenda parte alla guerra contro i cristiani: egli sa che l’eroe è destinato alla conversione al cristianesimo e ad una vita breve (parziale coniazione su Achille, quindi). Da lui e da Brandiamante deve discendere la casa d’Este. Si introduce, così, il motivo encomiastico-adulatorio per il signore di Ferrara, che è divenuto suo datore di lavoro e benessere. Parte III^: Orlando, per forza di incantagione, è allontanato dal campo, mentre pure Rugiero è assente. Vincono così i Saraceni che assediano Parigi. Orlando, alfine disciolto dall’incantesimo, giunge a Parigi assediata per soccorrere la cristianità (c. 8): a questo punto si interrompe il poema, con la famosa strofa sulal calata di Carlo VIII in Italia nel 1494, l’anno della morte del Boiardo. [59] La sproporzione può essere strumento espressivo anche della più forte tragicità (“Dico che i morti uccidono i vivi” è nella trilogia “Oresteia” di Eschilo ed è un gioco di parole di assoluta serietà e drammaticità. Ma sono esiti eccezionali, come quelli di esultanza epicizzante in certe espressioni di santi mistici (“Ti affanni a cercare il Sommo Bene: ma in realtà è dentro di te e ti tiene disteso sulla nuda Croce,alitando forza per sostenere il martirio insostenibile e, ancora, per amare amaramente l’Amore”: b. p. Pio da Pietrelcina, di cui è anche questa elevazione “Di’ anche tu e sempre al dolcissimo Signore: - Voglio vivere morendo, perchè dalla morte vengala vita che non muore e aiuti la vita a risuscitare i morti-”). Possibile il risultato dell’idillio: ne riparleremo a proposito dell’Ariosto, in cui il meraviglioso dà appunto il rapimento estatico. [60] Segnaliamo che il motivo amoroso, liricamente asettico, non è sempre moralmente innocente. Intanto l’affettuosità non vi ha parte alcuna, mentre la sensualità vi è esplicitata ,sia pur raramente, con ammiccamenti di gaudiosa intesa e complicità da parte dell’autore. Si veda, ad esempio, I, 1, 18; I, 19, 57-65; III, 9, 11-12. [61] Anche il Canzoniere- gli Amorum libri tres- partecipa di molte caratteristiche del poema., già a livello dei MOTIVI ISPIRATORI. Manca solo la magia. Se direttamente si esprime solo il momenmto amoroso, non manca implicitamente il filone militare. Nell’amore del poeta per Antonia Caprara, si inserisce un paesaggio così colorito ed un tale dinamismo di tutta la vicenda, da includere formalmente il moto delle battaglie e dei viaggi. Tutta la materia è trattata in chiave così poco contemplativa ed intimistica e, invece, con piglio così aggressivo e pugnace, che il viraggio di amori e paesaggi finisce per trovarsi “armato e in sella”, vestito di maglia e di speroni, animato da spiriti bellicosi e cavallereschi. Amore trionfante o sconfitto, rimane sempre però un amore battagliero, militante. Non c'è’ dunque, un abisso tra il canzoniere e il poema: non c’è salto abissale fra la (mancante) dolcezza emotiva dell’ uno e la solennità epica (inutilmente aspettata) dell’altro; si tratta solo di rivestire di armi autentiche tutta l’esuberanza e l’agitazione che esiste già (corrosiva) nell’opera giovanile. [62] Forse, oltre che Vico, c’è di mezzo Rousseau: il vecchio è migliore, perchè meno sofisticato, più spontaneo, più genuino. E l’uomo dei secoli XIX-X X si interroga allora: non sarà il giovanilismo moderno una moda altrettanto discutibile ed effimera come la predilezione anticheggiante dei romantici? Non sarà vero che “vecchio e giovane, antico e moderno” non sono componenti artistiche e che, perciò, non possono e non debbono dettare giudizi critico-estetici (come neppure giudizi di verità e di bontà)? Il vero, il bello, il bene non hanno età ed esistono o meno, indipendentemente dall’epoca di produzione. [63] Oltre al Berni, giudizi ambigui sulla versificazione del Boiardo li ha lasciati anche il poeta maccheronico del Millecinquecento Teofilo Folengo (1491-1544): “Plus sentimento facilis quam carmine dives”: più facile al sentimento che ricco di poesia” ( capace di tradurlo in poesia). Ed ecco il giudizio di Angelandrea Zòttoli, che ha curato la edizione dell’Opera omnia nei Classici Mondadori nel 1936: “A lui, quando nacque, la dea largì come a pochi il dono della facilità e della felicità della vena, ma gli negò, in modo assoluto, quello della meditazione poetica... Giusto perciò il poema romanzesco o, come più sveltamente allora si diceva, il “romanzo”, che non era gravato di tradizione dotta, e l’ottava, che non aveva ancora perduto la sua intonazione popolare, erano ciò che per lui ci voleva. Qua, dove non c’erano gli ostacoli offerti dalle rime coi loro precedenti di nobiltà stilistica, di rigida complicazione metrica e di tono tradizionalmente elevato, la sua ispirazione poetica poteva abbandonarsi, per così dire, a briglia sciolta, a quella specie di impeto d’improvvisazione che era nella sua indole. I bei versi, le immagini felici, se venivano facevano tutta la loro figura in piena libertà; se non venivano, c’era lì l’intreccio del racconto a sostenere l’interesse degli uditori... A leggere il poema, si vede che, per ridar la misura a più d’un verso zoppicante, come per pareggiare le altre scabrosità che la scrittura trasandata presentava allo sguardo, Boiardo doveva fare un grande assegnamento sulla recitazione, anzi, se si ha presente qualche rima che con una corretta pronuncia italiana non tornerebbe in nessun modo, sopra una recitazione passante attraverso la glottide emiliana” (I, XX). [64] Vedi i luoghi di molte delle perle segnalate: I, 1, 8 e II, 16, 45 (vella|velle); I, 6, 56; I, 7, 48 (paccio); II, 8,27 (Cantone); I, 6, 35 (ringraccia); I, 2, 59 (alciò); I, 2, 65 (piaccia); I, 5, 10 (prodecia); II, 15, 14; II, 16, 6 (frezza); II, 13, 10 e 31 (e passim: “Qual-e-“); I, 5, 5 (zuffellare); I, 7, 19 (anci); I, 7, 32 (accia); I, 7, 63 (gran pritone); I, 2, 64-5 (bastardo; figlio di p...). [65] Anche la cronolgia delle opere è distinguibile in tre periodi. Attorno al 1470 vi è la produzione giovanile, di carattere realistico e comico: in prosa vi sono le due novelle; in versi, La caccia col falcone (Uccellagione di starne); il Simposio; la Nencia da Barberino, almeno per le prime venti ottave, più facilmente attribuibili a lui. Tra il 1470 ed il 1484 troviamo la Altercazione (che si ispira al De felicitate di Marsilio Ficino); il Comento, che, sotto l’influsso di Dante (“Vita Nova” e “Convivio” come guida) dà una interpretazione allegorica e spiritualistica ad una serie di 41 sonetti. Tra il 1484 e il 1492 il Magnifico presenta ancora una produzione realistica (Canzoni a ballo| Canti carnascialeschi), ma continua pure la scrittura di opere religiose (Laudi| Rappresentazione di san Giovanni e Paolo), mentre si fanno avanti composizioni classicheggianti, limitate ma stilisticamente raffinate (Ambra| Selve d’amore| Egloghe: Corinto; Apollo e Pan...). Anche nel periodo centrale (1470-84), d’altronde, ci furono scritti per il carnevale. Trincerare uno spirito più attivistico che meditativo (come quello del Magnifico) in uno schema di coerenza totale, parrebbe una utopia. La sua versatilità andava a scapito della sua trasparenza. [66] Che, però, neppure il Magnifico sia poeta del tutto convincente è riconosciuto dalla critica tutta. Citiamo il giudizio di V. Rossi nel Quattrocento Vallardiano (1956, p.337): “A lato visse in lui il poeta, non armonizzato con l’uomo di stato, nè subordinato, ma semplicemente, come disse il Machiavelli che se ne intendeva, “congiunto”. Ecco alcune note utili per un giudizio più completo sulla produzione letteraria di Lorenzo. La incertezza della attribuzione della Nencia dipende anche dal fatto che la prima edizione che gliela attribuisce è quella del 1568, che è una stampa “malfida” . Eccone comunque la sintesi, nelle parole del Rossi: “Il contadino mugellano Vallera vi celebra dapprima la bellezza... della sua pastora, la Nencia, e poi... la viene dolcemente vezzeggiando con le sue proposte d’amore... La materia semplice e ingenua del canto popolare è lievemente ironizzata...” (p. 338). La novella di Giacoppo può aver ispirato la Mandragola del Machiavelli; ma a noi sembra artisticamente insignificante e, culturalmente, galeotta (in proposito, il nostro giudizio si stacca da quello del Rossi). Circa l’Ambra: “Alla descrizione dell’Ambra non credo si possa negare carattere frammentario e certa durezza stilistica ... E’ un poemetto in ottave, di cui circa la metà è occupata dalla descrizione dell’inverno e della piena dei fiumi toscani e l’altra (metà) è una narrazione d’una di quelle favole di trasformazione che avevano avuto il loro poeta in Ovidio e introduttore nel Parnaso italiano l’autore del Ninfale fiesolano” ( cioè il Boccaccio: p. 340). A p. 42 si accenna, sempre nel Rossi, ai doppi sensi osceni presenti nei canti carnascialeschi. [67] Quest’ultima espressione è improntata a quelle di Manzoni su Bortolo Castagneri, il cugino di Renzo Tramaglino (c. 33 dei P. S.). [68] A segnare il passaggio dal realismo popolaresco alla classicità rinascimentale vi sono innumeri altri scrittori in versi e in prosa. Si potrebbe riprendere Masuccio Salernitano da questo punto di vista. La sua sintassi, ad esempio, è complessa, latineggiante come quella di Boccaccio, ma molto più chiara e regolare. Il vocabolkario aderisce fin troppo al latino, che trsferisce in toscano con troppa aderenza: inclita| intitulare| approbato| antqui| istorie... E c’è un sovrappiù di signorilità che caratterizza anche l’anticlericalismo ed il misoginismo ed è cosa ignota al maestro toscano, pesante, goffo nella sua polemica. Anche i casi di “conversione” sono “cosa nova e gentile”: si tratta infatti di ritorni alla fedeltà coniugale. Eppure il tipo anche violento di trame, la aridità dela narrazione (fatta con animo programmaticamente staccato, quasi da storiografo impassibile) e la moralità posta alla fine denotano una troppo radicata mentalità popolaresca, ancora lontana dalle innovazioni umanistiche. Giovanni Sabadino degli Arienti (metà del secolo XV-1510) fu notaio al servizio delle corti dei Bentivoglio a Bologna e degli Este a Ferrara (e in corrispondenza con Isabella d’Este, alla corte dei Gonzaga di Mantova) Ci ha lascito due opere: Gynevera de le clare donne (33 biografie di donne meritevoli, da Giovanna d’Arco e Matilde di Canossa ad Ippolita Sforza e Ginevra Bentivoglio); e Le Porretane. Quest’ultima è una raccolta di 61 novelle collocate ai bagni de La porreta, al seguito dei Bentivoglio che vi si portarono un’estate. La ispirazione è varia: vi è una favola per ragazzi; due dispute: sulla magnanimità, l’una; sulla preminenza fra un dottore, un cavaliere ed un conte, l’altra; raccontano di fatti bolognesi: facezie, beffe, oscenità. Manca però ogni emozione. Lo stile è appesantito dal proposito dell’imitazione boccaccesca e degli antichi. Immaginarsi: il secondo periodo dell’opera, nella lettera dedicatoria ad Ercole d’Este per la prima novella, è lungo più di mezza pagina! Naturalmente, in novelle più brevi lo stile cammina più piano e sciolto. L’interesse delle trame non basta neppure a rendere curiosa la prima lettura: talora manca un ordito ben preciso. Altre volte l’intersse c’è, ma dipende o dalla stranezza della vicenda o dalla sua oscenità. Comunque non si leggono mai per un fascino lirico, estetico, artistico. E così ebbe otto edizioni fra il 1483 e il 1540, ma poi scomparve dall’orizzonte del pubblico, salvo a stuzzicare la fame di erudizione dei dotti. Pure una attenzione (dei “dotti”, appunto) il libro lo merita: la purezza dello stile è notevolmente migliorato rispetto al Boccaccio. Escluse le aberrazioni sintatiche degli anacoluti, il vocabolario è moderno, nonostante qualche lombardismo (rasone| suggetti| “lucubrazione” usato come plurale) e qualche iperlatinismo (lo impulseno=lo spinsero...). Se non vi è calore di affetti, vi è proprietà e razionalità di espressione stilistica. [69] La posizione è preilluministica o stoicizzante. In realtà la risposta non è difficile: Dio, preordinando il mondo fin dalla eternità, ha previsto anche le preghiere dell’uomo come condizione per concedergli la virtù (o qualsiasi altro bene, anche la pioggia opportuna). Con V. Rossi dobbianmo, in proposito, ricordare: “L’Alberti non è un filosofo, che deduca le sue dottrine da un principio centrale cui tutte possano risalire; ond’è pericoloso per la verità storica pretendere di dare al suo pensiero la coerenza di un sistema o di interpretare ogni suo detto alla stregua di un’idea che baleni in qualche sua proposizione” (Il Quattrocento, Vallardi, 1956, p. 142) [70] E’ ovvio che la scelta della vita di clausura e simili, come dei voti di povertà, castità e obbedienza, rappresenta una condizione di anomalia rispetto al rapporto “naturale” tra le varie facoltà spirituali, essendo ovviamente la conoscenza tutta indirizzata all’operatività nella giustizia e nell’amore. Ma, di nuovo, il non accorgersi che tale vocazione di rinuncia ad esigenze, anche normali ed urgenti, della natura sensibile rappresenta una risposta ed un rimedio alla troppa propensione ad abusare sia degli istinti sia della vita attiva, è segno sicuro della perdita della fede nel peccato originale e nella complicazione che tale stato dell’uomo porta nell’ordinamento dei valori tutti, nel giudizio si di essi e sulla regole di condotta etico-religiosa che ne discendono. Biagio Pascal, nel secolo XVII scriverà: “il y a des raisons che la raison ne peut pas conprendere”: Ci sono delle ragioni (dello “spirito di finezza: esprit de finesse”) che la ragione (spirito di geometria: esprit de géometrie) non riesce a comprendere. [71] Naturalmente vi sono molti altri scrittori in volgare nel Millequattrocento, che non interessano però la letteratura. Anche se non pervenuti al plus-vaore estetico, almeno due altri autori, invece, aiutano a comprendere più a fondo il fenomeno umanistico-rinascimentale: Giovanni Gherardi da Prato e Matteo Palmieri. Al primo è stato attribuito (verosimilmente soltanto) dal docente di letterature comparate a Mosca, Alessandro Wisselofsky, un’opera giunta incompiuta e mutila, che egli intitolò “Il paradiso degli Alberti” e che pubblicò fra il 1867 e il 1869. Il (solo probabile) autore era un notaio fiorentino, ma autore anche di un progetto per la cupola di S. Maria del Fiore in concorrenza con quello del Brunelleschi; fu lettore di Dante nella cattedrale stessa e autore di un’opera allegorica intitolata Filomena e scritta in terzine dantesche, ma che non vale nulla. Scrisse anche un Trattato di un’angelica cosa dimostrata per una divotissima visione. Il Paradiso è un romanzo allegorico: l’autore-protagonista si mette in viaggio per ricercare il paese dell’amore e della civiltà antica ed approda invece all’Appennino toscano, ove sta la casa di Coluccio Salutati e la villa degli Alberti (di Antonio Niccolò degli), munifici signori che ospitano magnificamente chi capiti nella loro villa, detta appunto “Il Paradiso”. Ivi, nell’anno 1389, si sarebbero ritrovati maestri religiosi e laici (fra cui Coluccio, p. Luigi Marsili, il maestro di medicina Marsilio di S. Sofia, e il Cieco degli organi), con allegre ma sane brigate, che realizzano una serie di giornate, in cui si alternano discussioni elevate, piacevoli declamazioni. narrazioni fantastiche (9 novelle), storie vere... Quanto basta a costituire una specie di Decameron, ma pulito; oppure una riedizione della lieta brigata di Folòre da S. Gimignano, ma non laicista. Purtroppo, quanto ad arte, il Paradiso ha più buone intenzioni che risultati. Il modello boccaccesco, ben presente, finisce per appesantire la prosa, con descrizioni vaghe, diluite, esposte al rallentatore, mancanti di concretezza e concisione. La pretesa è quella di rendere l’atmosfera di un ritiro élitario, spiritualmente elevato e mondanamente squisito: una Arcadia idillica e una Accademia serena. Una idealizzazione di quello che era, a Firenze, l’Umanesimo a fine secolo XIV: un paradiso terrestre, al di qua della colpa originale. Stilisticamente è già un passo avanti rispetto al Decameron: la prosa è molto più agghindata e pochi sono le deviazioni rispetto al moderno toscano (ermonia= armonia, che poi vorrebbe significare “melodia”) Matteo Palmieri (Firenze, 1406-1475) fu partigiano dei Medici: uno degli “Otto di balìa”, sancì il ritorno nel 1434 del loro casato in città. Ricoprì incarichi politic fino ad essere priore, cioè uno degli otto membri del governo cittadino, che duravano in carica due mesi. Morì a Volterra, capitano della città che Lorenzo aveva riconquistato sanguinosamente. Ricevette buona educazione umanistica e scrisse in latino il De captivitate Pisarum (la presa di Pisa), gli Annales o Historia florentina (dal 1429 al 1434) e una Vita di Niccolò Acciaioli. Preferì invece il volgare per le due opere ideologiche: In prosa scrisse Della vita civile (1438-9); in terzine dantesche, vergò il poema La città di vita, che volle pubblicato postumo ( e lo fu a cura di Leonardo Dati, suo amico, nel 1478). Nei quattro libri Della vita civile anzitutto tratta della educazione familiare fino all’età adulta; nel secondo e terzolibro, parla della formazione del cittadino, sia per la condotta in tempo di pace, sia pel comportamento in caso di guerra; nel quarto libro, affronta il problema della ricerca dell’utile nella vita, distinto ma non separato dalla moralità. Egli afferma esplicitamente. “Da questo procede che a’ virtuosi s’appartiene cercare utile acciò che possino bene vivere: se gli avviene di conseguitare quello, usilo nell’opere virtuose; se non gli avviene, spregilo come cosa di fortuna, nè, per acquistare, esca dal vero ordine del iusto vievre”. Machiavelli è ancora lontano. L’opera è notevole, perchè fu un atto di coraggio eccezionale e fu vista come una temerarietà. Il libro uscì prima del 1439, almeno tre anni prima del “Certame coronario”: Era, pressappoco, dai tempi del Convivio di Dante che, in prosa, non si commetteva il “delitto” di scrivere, nella lingua del popolo, su argomenti impegnativi, elevati! Benchè non inetto dal punto di vista filosofico, l’esposizione risulta troppo diluita e lenta per comunicare una qualsiasi carica emotiva. Annoia inesorabilmente. Lo stile, invece, è notevole: moderno nel vocabolario, con pochi “nèi” di stranezze antiquate (avrebbono| vulgarizzati| essaminando...), presenta anche una sintassi discreta: è ancora ampia, pesante, ipotattica (molte subordinate), ma non oscura nè, solitamente, fallosa. Siamo, dunque, di frontead un onesto fiorentino, non profondo filosofo ma chiaro ragionatore. Ed anche uomo avveduto: seppe schierarsi dalla parte del vincitore, in un dissenso politico che dipendeva più dal fallimento della guerra contro Lucca che non dalla maggior competenza ed onestà di una delle due parti. Eppure... questo scrittore, esplicitamente cristiano, combinò una marachella teologica che gli costòil disseppellimento delle ossa, trasferite in terra non consacrata. Che mai aveva scritto? Nel poema “Città di vita, egli mette in versi una eresia di Origene, già condannata dalla Chiesa: le anime infuse nei corpi umani sarebbero angeli che, nella prova imposta loro, “non fur ribelli| nè fur fedeli a Dio, ma per sè fuoro” (Inf., 3, 38-9). Dante però, che ipotizza questo gruppo di angeli indecisi, condannandoli al Limbo, non si era mai sognato di trasferirli negi corpi umani come loro forme sostanziali od anime. Sapendo che egli, in questo, si distanziava gravemente dal pensiero della Chiesa, tenne nascosto il poema finchè visse; lo affidò poi all’amico Leonardo Dati, che fece la accordata pubblicazione postuma. Mal gliene incolse! Nè arricchì la poesia nè salvò la pace del suo corpo nella tomba!. [72] La redazione, la edizione e la fortuna dell’Arcadia sono state un po’ avventurose e possono aiutare a conoscere il temperamento del loro autore, che si lascia sospettare un nervoso a prevalenza vagotonica: mite, incerto, mutevole, al di là delle apparenze formali di conclusività e unità delle sue opere. Qui basterà dire (cfr. Domenico De Robertis nel volume sul “Quattrocento e l’Ariosto” della Garzantiana) che dapprima nacquero delle egloghe sparse: siamo attorno al 1480, perchè già nel 1482 si trovano influssi di tali composizioni , da Napoli (ne risulterà la Pastorale di Jacopo De Jennaro, membro pure lui della Pontaniana) fino a Siena. Fra il 1483 ed il 1486 nasce il disegno dell’opera, con un prologo e dieci prose, ciascuna delle quali era accompagnata da una poesia (egloghe, canzoni o sestine). Nel 1501 il Sannazaro emigra in Francia col re Federico e l’Arcadia esce a Venezia, all’insaputa dell’autore. Il quale aveva provveduto, fra il 1495 eil 1496, a rivedere stilisticamente ed a completare l’opera (due prose, due poesie ed un Epilogo). Questa fu pubblicata a Napoli, nel 1504, prima che il Sannazaro rientrasse dall’esilio. All’interno dell’Arcadia vi sono altre oscillazioni. La prima metà vede il prevalere delle liriche sulle prose, che semplicemente servono a creare lo sfondo idillico; a cominciare invece dalla settima prosa, la narrazione prende il sopravvento e le liriche fanno da commento. Della fortuna del piccolo capolavoro parliamo nel testo. Qualcosa del genere avveniva nella collezione delle Rime: le prime non hanno unità precisa, perchè cantano l’amore, celebrano personaggi, meditano su temi spirituali. A congiungere questa parte con la seconda, sta il rifiuto dell’amore indegno seguito fino alla scoperta della Marchese, cui è dedicata la seconda parte: solo quest’altra serie di liriche costituisce il canzoniere sannazariano, con la puntuale imitazione del Petrarca! [73] Meriterebbe un commento anche il De partu Virginis. Ci limitiamo a sintetizzare i giudizi, invero non molto concordi, della Garzantina (Domenico De Robertis) e della Vallardiana (Vittorio Rossi). Il primo non crede molto alla artisticità del poemetto, che comunque vede impostato sul tentativo di dare solennità epica al mistero della Incarnazione e nascita del Salvatore; il secondo ne vede lampi poetici, ma sulla stessa lungheza d’onda delle cose migliori presenti nelle Eclogae piscatoriae, cioè lungo la vena idillica od elegiaca, presente nella figura umile e timida della Vergine Maria, pura fanciulla dell’Annunciazione o Madre addolorata ai piedi della croce. Note di poesia vede anche in qualche riuscita descrizione di paesaggio. Il poema compete il primo posto al migliore Pontano, tra gli scritti latini del Rinascimento. [74] L’Orfeo è un’opera scenica, con lo schema mutuato dalle sacre rappresentazioni, ma di argomento profano. Il pastore Aristeo si innamora di Euridice, moglie di Orfeo; la insegue nella sua follia passioanle ed è causa che un serpe, nascosta nell’erba, uccida la fuggente Euridice. Orfeo, poeta e nusico, scende nell’Ade, impietosendo Plutone col canto. Riesce ad ottenere il ritorno della sposa, ma a patto di non volgersi a guardarla, prima di arrivare sulla terra. Orfeo non resiste e si volge: Euridice viene risucchiata nell’Ade. Orfeo, disperato, è ucciso dalle Baccanti orgiastiche. L’operetta fu composta in due giorni a Mantova, “intra contnui tumulti”: forse nel carnevale del 1480. E’ la prima opera teatrale di carattere profano a noi giunta: essa è all’origine del dramma pastorale, che nel Millecinquecento troverà la sua forma classica e nel Tasso e nel Guarino avrà i due maggiori poeti. Per ora il metro è vario. Prevale l’endecasillabo dapprima, ma organizzato ora in ottave (all’inizio), ora in terzine (nelle parti colloquiali); ora in strofe di sei versi e ritornello nella “canzona” di Aristeo e nel colloquio che segue fra lui, il pastore Mopso e Tirsi, il servo di Aristeo. Mescolanza di setteneari ed endecasillabi nelle parole di Aristeo ad Euridice fuggente; strofe saffiche in latino nel canto di Orfeo sul monte; riprendono le ottave per il seguito, fino alla concessione di Plutone. Metro di nuovo variante fra settenari ed endecasillabi nell’episodio dell’errore di Orfeo e nel secondo risucchio di Euridice da parte dell’Ade; riprendono le ottave nel lamento di Orfeo e nell’inizio della parlata delle Baccanti: questi finiscono con versi ottonari la loro parte orgiastica e micidiale. Per quel che riguarda la presenza di lirismo si possono trovare delle scintille qua e là: soprattutto la canzona di Aristeo è dolcemente elegiaca. Nulla, però, di sublime: troppo estemporanea è stata la composizione. Le Stanze dovevano essere la celebrazione della vittoria di Giuliano, il fratello minore di Lorenzo, in una gara cavalleresca, in cui egli combatteva con l’insegna di Simonetta Cattaneo (sposata Vespucci). La giostra avvenne nel 1475; nel 1476 muore Simonetta; nel 1478 è ucciso Giuliano. La interruzione delle “Stanze”, giunte solo alla 46 ottava del secondolibro, fu dunque dovuta a fattori anche esterni: ma la mancanza di un disegno organico per il seguito e la detta carenza di “lena”, di resistenza a lavori di gran respiro, avrebbero forse interrotto l’opera in ogni caso. Ma essa può davvero far da parallelo alla “Incompiuta” di Schubert, per la intensità del primo libro, che in 125 ottave accumula una potenza lirica sufficiente a rendere immortale l’autore. Il secondo libro, meno alto liricamente, è però anch’esso superiore (se non andiamo errati) alla normale versificazione del Furioso (vogliamo eccettuarne le strofe di ispirazione realistica, di cui parleremo a suo luogo). La trama del primo libro offrirà ispirazione al dramma di Calderòn dela Barca “Vida es sueno”. Julio (cioè Giuliano), giovinetto bellissimo, è ancora ignaro d’amore. Dedito alla caccia, disprezza i miseri amanti, incerti degli umori della donna amata. Ma Venere si vendica di Diana e fa apparire, un giorno di caccia, un cervo bellissimo che, fra soste e fughe, rimane irraggiungibile e conduce Julio ad un praticello ove siede una bellissima donna: Simonetta. Ora Julio è innamorato, ma non ancora la donna. Sempre nel primolibro, ci si sposta a Cipro (descritta in maniera sorprendente, anche se non del tutto convincente: imita il Trionfo d’amore del Petrarca, c. IV, 100-166) e sarà imitato dal Tasso (Gerusalemme, 16, 25) e da G. B. Marino nell’Adone. Cupido vi approda per dare alla madre la notizia della vittoria su Julio. Il secondo libro espone il piano di Venere e Cupido per conquistare Simonetta all’amore di Julio: questi in sonno vede la donna bisognosa di aiuto, perseguitata dal pudore di Minerva. Iulio allora si sente bramoso di combattere per la sua donna: partecipa così alla giostra con uno stendardo (dipinto da Sandro Botticelli!). Si noti che lo scudo ha la testa di Medusa, che significa la pudicizia da vincere! Il Rinascimento diventa spudorato non solo nella persona di Alessandro VI. [75] Citazioni dal “Discorso contro gli abbreviatori, n. 3, a; Proemi, 11; ivi, 1; ivi, 6. |
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