Millequattrocento
Home Su

Don  Marcello De Grandi

 

Home
Su

Capitolo V: LA LETTERATURA NEL MILLEQUATTROCENTO

 

PREMESSA: LA  CULTURA  RINASCIMENTALE (1400 ca-1550 ca)

 

       NOTE INTRODUTTIVE

 

A)      I FATTORI POLITICO-SOCIALI  E  LA CULTURA RINASCIMENTALE

             Nel complesso ci sembra di dover affermare che le vicende militari e politiche del Millequattrocento  ebbero un impatto marginale sul pensiero (Umanesimo) del Rinascimento: le condizioni ecclesiastico-politiche del Milletrecento in tutta Europa (ed in Italia in particolare)  avevano già agito così profondamente, da farne procedere la componente intellettuale per una specie di forza inerziale. L’ambiente dei nuovo secoli ebbe, invece, più peso nel definire il tono emotivo (il gusto o sensibilità) e morale (costume) che  completano le caratteristiche  dell’epoca. Per questo rimandiamo alla trattazione di tali componenti della cultura rinascimentale l’esame delle condizioni militari, politiche e sociali del periodo 1400-1550 circa. Con questo non si vuol negare che la quasi cessazione, nella seconda metà del secolo, delle guerre che avevano straziato l’Italia nella prima metà non abbia influito anche sul pensiero (dunque, sull’Umanesimo): ma si tratta di conferme, di consolidamenti, di  sfumature.

Quali le conseguenze  concrete sul pensiero umanistico? Si potrebbe affermare che le vicende politico-sociali favorirono la prevalenza del Platonismo in filosofia, con Marsilio Ficino? la distensione psicologica, assieme al benessere economico, furono elementi favorevoli ad una mentalità meno precisa e più accomodante che non l’aristotelismo? E’ certo che una Theologia platonica non poneva  difficoltà a credere nella spiritualità-immortalità dell’anima personale e addirittura (col neoplatonismo) poteva illudere l’uomo circa una sua padronanza sulle forze naturali, attraverso la magia. La pace, il benessere potevano  insinuare un tale sogno di onnipotenza o quasi?

 La condizione socio-politica del secondo Millequattrocento favorisce  invece sicuramente il  trionfo di quella serenità ed ottimismo, che è la atmosfera emotiva più consona all’idea che noi ci facciamo del Rinascimento (“Salve, o serena, dell’Illisso in riva,| o intera e dritta a i lidi almi del Tebro| anima umana...”   canta il Carducci in “Alle fonti del Clitunno”). Se, come vedremo, in molti degli Umanisti  fino alla metà del secolo (Poggiolini, Leon Battista Alberti, papa Pio II ), entusiasmo per l’uomo e delusione per la vita si alternano (Bartolomeo Facio, il primo a scrivere un De dignitate hominis et praestantia,  un libro che celebra la dignità e grandezza dell’uomo,   conclude però che solo nella vita eterna tale dignità si potrà  realizzare davvero), con la seconda parte del secolo, invece, il sorriso sboccia dalle descrizioni paesaggistiche ed amorose nelle Stanze del Poliziano; e il riso spiegato trionferà nel poema del Pulci e  nei canti carnascialeschi di Lorenzo. A Ferrara, intanto, il Boiardo evade beato dalle amarezze della realtà con la favola dell’ Orlando innamorato ed ironizza sulle vicende dei suoi cavalieri erranti. Tale ottimismo, con il mito del “secolo d’oro”[1], non si arrenderà davanti alle  guerre d’invasione che, dopo il 1494, caratterizzano la vita italiana  per oltre un trentennio. Continuerà nel riso sornione di Ariosto ed in quello farsesco del Berni: ci vorrà il sacco di Roma (1527) per spegnere l’allegria  del Rinascimento italiano.

Quanto al costume, si sa che il danaro apre tutte le porte ed è un po’ come le brache degli uomini: serve a nasconderne le vergogne. Così fu della crescita economica dell’Europa tutta, dell’Italia in particolare nella seconda metà del secolo XV. Prevalenza, dunque, della vita libertina: ci vorranno Calvino e il concilio di Trento a tentare di rimettere in sesto la vita etico-religiosa della   Europa. Ne riparleremo più partitamente a suo luogo.

 

B) CHE COSA E’ IL RINASCIMENTO

 

 Come già detto, B. Croce ha affermato che dal 1370 al 1470 scorre “il secolo senza poesia”[2]. L’affermazione è vera, (si è risposto), se si sottintendono  due specificazioni: la “poesia” che manca è quella in lingua toscana, perché  fra i molti versi scritti in lingua latina, qualche composizione sufficiente si può trovare (ad esempio, nei versi di Giovanni Pontano);  in secondo luogo, poesia, forse migliore di tali versi, se ne può  leggere in lingua volgare, ma scritta in prosa (ad esempio nelle prediche di San Bernardino da Siena e nelle settantadue lettere di Alessandra Macinghi-Strozzi).

Dobbiamo ammettere, però, che, almeno sul piano della coscienza italiana comune, tale secolo conta più per la affermazione piena del fenomeno rinascimentale, che non per la qualunque quantità e qualità della  parole poetiche venute alla luce. Sono questi gli anni, infatti, in cui  il culto della classicità, in scrittori che discendendo dal Lovati e dal Salutati, dal Petrarca e dal Boccaccio, giunge alla  piena coscienza  e   maturazione, connettendo le sparse tessere in un mosaico coerente e imponente: la cultura rinascimentale.  Si completa e consolida, cioè,  un nuovo modo di pensare (Mentalità rinascimentale od umanesimo), di sentire (gusto), di esprimersi (tecnica stilistica), di operare (costume morale): alla cultura o civiltà Medioevale, di S. Francesco e di Innocenzo terzo, di Giotto e  dell’Antelami, del Dolcestilnovo e di  Dante, succede la cultura o civiltà Rinascimentale  di Pio II e di Leone X, di Bramante e di Raffaello, del Poliziano e del Bembismo.  Cominciamo a tentare una definizione di “Rinascimento”.

            E’ la cultura (civiltà) prevalente nel Millequattrocento e nella prima metà del Millecinquecento in Italia, caratterizzata dall’Umanesimo nel campo della mentalità; dall’ottimismo nel campo del sentimento (del gusto); dalla imitazione degli antichi (latini, specialmente) nel campo dello stile (moda espressiva); da un’accentuata spregiudicatezza di costumi nel campo della vita pratica.

            Definendo il Rinascimento come Cultura o Civiltà, intendiamo affermare che non si trattò soltanto di un fenomeno letterario, ma di una concezione, sentimento e prassi della vita intera: fu una prospettiva (Weltanschauung) che interessò tutte le manifestazioni della società italiana in quei secoli, dal pensiero alla emotività, dal costume alla tecnica espressiva. Se si vuole, perciò, comprendere tutta la portata di questo happening (che ebbe ripercussioni europee), si devono tener presenti tutti e quattro questi punti di vista: razionale, emozionale, etico, stilistico.

            Non si deve però credere che il Rinascimento abbia costituito l’unica forma di cultura in quel secolo e mezzo. Anzitutto la cultura rinascimentale interessò solo una minoranza di dotti e di benestanti, mentre la civiltà medioevale aveva proprio trovato sostanzialmente concordi nobili, borghesi e plebei.[3] Tale “maggioranza silenziosa”, di popolo ancora integralmente cristiano, continua ad esistere (almeno si può sospettarlo), trovando  difensori forti e polemici anche tra qualche dotto (Giovanni Dominici, morto nel 1419; e Gerolamo Savonarola, morto nel 1498: entrambi domenicani; il primo, anche cardinale e beato). [4]

            Un’ultima osservazione. L’Umanesimo, in questa prospettiva, non costituisce un fenomeno distinto dal Rinascimento, quasi ne fosse la parte prima, quella della riscoperta ed appropriazione del pensiero antico, senza però produzione originale propria; periodo che andrebbe dalla morte del Petrarca (1374) al 1441, anno del certame coronario di cui si parlerà (oppure sino alla morte del Poliziano (1494). No: l’umanesimo è la dimensione intellettuale del Rinascimento, il pensiero, la mentalità e ne accompagna tutto il  manifestarsi, dalla  preparazione coi preumanisti, col  Petrarca  e col Salutati, alla piena fioritura con i loro discepoli e continuatori. L’umanesimo rinascimentale è diverso da quello medioevale, come diverso sarà l’umanesimo illuminista: ma in ognuna di queste culture forma il nucleo ideologico di fondo, che le differenzia e specifica.

            Interessante è anche seguire la origine e diffusione dei due termini Rinascimento e Umanesimo.  Rinascimento”, nella forma parallela di “rinascita” ed usato in senso parziale, si trova già in Giorgio Vasari, che parla appunto di una “rinascita delle arti”, nelle sue “Vite” (1550). In senso totale, cioè come denominazione dell’età che segue il Medioevo (già Gioachino Watt nel 1518  fa uso del termine “Media aetas”), lo si trova forse la prima volta in Jules Michelet (Histoire de France, 1855) ed ottiene largo successo con l’opera di Jakob Burckhardt “La cultura del Rinascimento in Italia” (Die Kultur der Renaissance in Italien: 1859). Già Leonardo Bruni, però, ne esprimeva il concetto quando afferma che “il Petrarca fu il primo il quale ebbe tanta grazia d’ingegno che riconobbe e rievocò in luce l’antica leggiadria dello stile perduto e spento”. Sono naturalmente i rinascimentali a creare il mito delle tenebre medioevali, che con Flavio Biondo intitolano lo studio dal 500 al 1400 d. C. “Ab inclinatione Romanorum decades”, cioè “Decadi di libri sulla storia dal declino dell’Impero romano” Il Medioevo è età di decadenza.

 Umanesimo” nasce a seguito del termine (h)umanista:  la forma latina (con l’h) è stata scovata da Nicola Zabughin in un epigramma dimenticato della seconda metà del secolo XV; la forma italiana la si incontra nel 1531 in Ariosto (sesta satira, v. 25: “Pochi sono i grammatici e umanisti| senza il vizio per cui Dio Sabaòt| fece Sodoma e i suo vicini tristi”).[5]

 

L’UMANESIMO(cioè la MENTALITÀ’ DOMINANTE   NEL RINASCIMENTO)

       

            Già si è detto che vi sono almeno tre  componenti del fenomeno umanistico: filologica, storiografica, filosofica.

            L’umanesimo filologico: è la stima ed amore per le opere latine e greche e, di conseguenza, la loro ricerca, ricostruzione esatta, studio critico ed imitazione.

La ricerca e scoperta  di opere classiche era già cominciata col Petrarca (scoperta di orazioni e lettere ciceroniane a Liegi ed a Verona) e col Boccaccio (scoperta di Tacito, a Montecassino). Ora la ricerca si fa sistematica: il più fortunato è Poggio Bracciolini che, al seguito della curia papale, a Costanza, al servizio del Concilio (1414-1418) per la soluzione dello scisma d’Occidente, può concedersi l’esplorazione di biblioteche nei conventi e cattedrali  di Svizzera, Francia, Belgio  e Germania. Riporta alla luce, fra le altre opere, nove orazioni di Cicerone (due a Cluny e sette a Langres)[6], le Silvae di Publio Papinio Stazio, i 17 libri dei Punica (Guerre puniche) di Tiberio Silio Italico, il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, gli otto libri degli Argonautica di Gaio Valerio Flacco.

            Ma il Bracciolini non fu l’unico scopritore di opere classiche sparite dall’orizzonte degli studiosi: a Lodi, il vescovo Gerardo Landriani riportava alla luce il Brutus ed integrava i solo parzialmente noti (e confusi tra loro) Orator e De oratore (tutte opere di Cicerone). Il cardinale Giovanni Orsini rimetteva in circolazione dodici commedie di Plauto, mentre Giovanni Aurispa, già segretario dell’imperatore Giovanni Paleologo a Costantinopoli, portava in Italia 238 volumi di autori greci, fra cui Aristofane, Demostene, Eschilo, Sofocle, Senofonte. D’altronde, come il Concilio di Costanza era stato occasione, negli anni 1414-7, a scoperte di classici latini, così quello di Ferrara-Firenze (1338-43) mise in contatto così frequente e vivo personalità eminenti nella cultura filosofico-teologica del mondo orientale ed occidentale, da accelerare notevolmente la padronanza della lingua e delle opere greche da parte di questi ultimi. Durante il concilio si misero in luce due grandi umanisti occidentali: Ambrogio Traversari, generale dei Camaldolesi, gran traduttore di opere greche e intermediario di primaria importanza nella (precaria) riunione fra Ortodossi orientali e cattolici romani (sancita nel 1339); e Tommaso Parentucelli, futuro papa Niccolò V (1447-55). I greci che più ebbero influsso sull’umanesimo italiano furono Giovanni Bessarione (poi fatto cardinale) e Giorgio di Trebisonda (o Trapezunzio), Giorgio Gennadio (o Scholarios od anche Scolarcos) e Giorgio Gemisto Pletone.[7] Diciamo qui una parola sul rientro della cultura greca in Italia. Sono lontani i tempi in cui bisognava rifarsi alle traduzioni che, attraverso l’arabo, gli spagnoli fornivano all’Europa cristiana; oppure  occorreva trovare un monaco eccezionale come Guglielmo di Moerbecke per avere una traduzione diretta (e sia pur imperfetta) di Aristotele, come dovette fare S.Tommasod’Aquino. Dopo Barlaam di Seminara, che fu in contatto con Petrarca, il quale ne determinò anzi la conversione al cattolicesimo(morì vescovo di Gerace); dopo Leonzio Pilato, che insegnò un po’ di greco al Boccaccio ed a Firenze, lasciando traduzioni in latino (sia pur rozze) dei due poemi omerici, ora inizia un insegnamento che stabilizzerà la cultura greca classica nel mondo occidentale. Anzi avviene anche il fenomeno opposto: giovani studiosi italiani si recano a Costantinopoli per apprendervi il greco alla perfezione: così Guarino Guarini di Verona (dal 1403 al 1408); così Francesco Filelfo (dal 1420 al 1427), entrambi alla scuola del Crisolora.Questi aveva insegnato a Firenze dal 1397 al 1400 a spese del comune, per suggerimento di Coluccio Salutati; poi era passato nell’Italia del Nord a diffondere la  padronanza della lingua e della letteratura greca.[8] Alla fine del secolo, Aldo Manuzio (1450-1515) iniziava le edizioni "aldine” e nel 1498 pubblicava tutto Aristotele.[9] Alla fine del secolo, a Venezia, si costituì l’accademia dei Filélleni, che parlava e scriveva in greco.

Lo studio critico dei testi per una loro ricostruzione esatta,  era una preoccupazione ben presente al Manuzio ed alla Accademia della Fama, ma urtava nella difficoltà di non poter “collazionare” (confrontare) tutti i codici di un’opera, per risalire alla lezione originaria.  Molto suppliva la acutezza intellettuale dei singoli studiosi. LORENZO VALLA  riuscì a dimostrare su basi stilistiche la falsità della Donatio Constantini, cioè del documento con cui l’imperatore avrebbe rinunciato al potere sulla parte occidentale dell’impero in favore del papato (papa Silvestro I lo avrebbe guarito dalla lebbra!).[10] Lungo questa linea di intuizioni geniali circa la interpretazione di testi antichi, farà grandi passi il Poliziano (Agnolo Ambrogini), che raccoglierà nei Miscellanea le sue conclusioni. Dopo il Valla, solo nel corso del sec. XVI comparirà il primo notevole caso di filologo, Pier Vettori (1499-1585): egli si occuperà delle diverse lezioni di testi classici, alla luce non di intuizioni personali, ma della collazione di vari codici, discutendone la “lezione”, per scegliere quella autentica (Variarum lectionum libri triginta tres: 33 libri di  varianti nella lettura di codici). Ma già il Valla, dopo il 1450, collazionava codici del Nuovo Testamento in greco ed in latino, annotandoli e preparando, così, l’edizione che ne avrebbe fatto Erasmo da Rotterdam (Basilea, 1516).

L’umanesimo storiografico: è la stima, la fiducia, l’amore per gli uomini, le istituzioni, le realizzazioni delle età passate (di Grecia e Roma,  con Pericle ed Augusto, specialmente), benchè fossero prive dei valori soprannaturali del Cristianesimo. Petrarca ne è l’iniziatore, sia pure equivoco, come si è detto. Con lui, i nuovi umanisti ritengono che non vi è continuazione ma frattura tra Impero romano e Medioevo; soffrono di un complesso d’inferiorità verso l’età antica, ritenendola senza confronti superiore alla barbarie del “tempo di mezzo”; desiderano far “rinascere” quella civiltà, specialmente nelle arti figurative e nelle opere letterarie e storiografiche e nel senso critico della loro lettura; disprezzano la lingua volgare, persuasi della superiorità della lingua latina, propria dei dotti, l’unica con un futuro sicuro:  anche il fiorentino lo ritengono un dialetto, destinato a  scomparire con il diffondersi della istruzione.

Dominando una tale mentalità, non fa meraviglia che anche San Bernardino pubblicasse in un latino smorto le magnifiche prediche che teneva al popolo in volgare: solo la  splendida idea del cimatore di panni Benedetto di Bartolomeo di fissare il testo preciso delle parole del santo con una sua stenografia, ci ha conservato il tesoro letterario, il plus-valore lirico di un’oratoria appassionata e scintillante, cordiale e  razionalissima. Il culto stesso dei grandi Trecentisti entra in crisi e il Bruni deve intervenire a stendere una vita di Dante in volgare, per arginare il disdegno verso il grande poeta. Quando, verso il 1433, Matteo Palmieri osa scrivere in volgare un trattato per i dotti (Della vita civile), è conscio dell’audacia e vi polemizza con i colleghi umanisti che disdegnavano la lingua del popolo...; e a buon conto non editerà l’opera (pubblicata solo nel 1529). Così Leon Battista Alberti dovrà lanciare un “certame coronario” (gara con in premio una corona d’argento), nel 1441, sul tema dell’amicizia, per ridestare l’amore per la poesia in volgare. Ma dei  molti partecipanti in Santa Maria del Fiore, nessuno sarà ritenuto degno del premio; la prova viene archiviata.

Segno più positivo dell’interesse per la storia delle “epoche-modello” sono gli studi di archeologia e di costume romano. Il più famoso cultore di tali materie è il forlivese  FLAVIO BIONDO (1392-1463), dal 1433 segretario apostolico nella curia romana, con importanti incarichi diplomatici. Egli scrisse, in tre libri, una ricostruzione topografica di Roma antica (Roma instaurata) ed una illustrazione in dieci libri delle forme di vita (istituzioni) pubbliche e private dei Romani (Roma triumphans). Anche la sua più nota opera, le “Historiarum ab inclinatione Romanorum decades ” (decurie di storia dal declino dei Romani), è bensì il primo studio sistematico sul Medioevo (dal 412 al 1443), ma denota nel titolo la mentalità umanistica: la storia dell’epoca che Giacomo Watt chiamerà “media aetas” (età di mezzo) è storia di decadenza, di “declino”, rispetto alla civiltà raggiunta da Roma.[11]

            Negli studi storici di LEONARDO BRUNI (Historiarum florentini populi libri XII, cioè 12 libri di storia del popolo fiorentino: dalle origini al 1404) e di  Poggio Bracciolini (come già detto, con la Historia florentina, riprese la storia del Bruni dal 1350 al 1454) spira la stessa aura di ammirazione per l’antico, almeno nel tentativo di utilizzare criticamente le fonti e di esprimersi in un latino retoricamente costruito sul modello di Tito Livio.[12]

L’Umanesimo teoretico o filosofico. Come si è detto, è la stima, la fiducia, l’amore per l’uomo ed i valori terreni, anche a prescindere dalla elevazione alla vita divina per la Redenzione di Cristo. Rimandiamo in nota i nomi dei principali teorizzatori  (e delle loro opere) su questa mentalità innovatrice e (potenzialmente, almeno) rivoluzionatrice.[13] Qui segnaliamo i punti cardinali della dottrina.

Al centro degli studi e degli  interessi culturali non sta più Dio, ma l’uomo; non la teologia, ma la storia e la  morale: per convincersene, basta guardare i titoli delle opere in latino ed in volgare di questo secolo, in Italia. Non che manchi in molti la coscienza che il primato è di Dio: il laico Cristoforo Landino, nelle “Disputazioni camaldolesi” non esita a concedere alla vita contemplativa (dei monaci, ma non solo) il primato fra le attività umane. E si pensi alla prospettiva coerentemente cristiana del beato Giovanni Dominici, dei santi Bernardino da Siena (1380-1444) e Giovanni da Capestrano (1386-1456).  Eccessivo fu addirittura  l’ascetismo del tormentato e tormentatore Gerolamo Savonarola (1452-1498). Mai, però, fino ad allora, si erano visti tanti libri sul problema “uomo”. Senza pretendere di essere esaurienti, ecco i principali autori ed opere. Tre sono i trattati sulla dignità dell’uomo: inizia Bartolomeo Fazio, umanista ligure (1400 ca-1457) con il De dignitate hominis et praestantia,  che   non è però tanto entusiasta dell’uomo terreno, quanto del cristiano destinato al premio eterno. Alfonso d’Aragona  ne fu scontento ed invitò il Manetti a farvi una risposta:  è  il famoso trattato De dignitate et excellentia hominis (del 1451-52: edito solo, però, nel 1532), che nel quarto libro confuta minutamente il De contemptu mundi di Innocenzo  III. Alla fine del secolo vi sarà l’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola (scritta nel 1486, edita postuma nel 1496).  Il Salutati  aveva scritto sulla famiglia in Epistolario, 8, 3; e, in più, trattati  sul fato e la fortuna, sulla nobiltà delle leggi e della medicina, sul tiranno, sulle fatiche di Ercole, in difesa degli studi letterari; il Bruni, un Isagogicon moralis disciplinae (Introduzione alla educazione morale: interpretazione della morale su basi aristoteliche) e il De studiis et litteris liber (sostiene la istruzione letteraria anche per le donne: 1422); Francesco Filelfo, il De morali disciplina; rivelatrice dello spirito della morale stoicizzante dell’Umanesimo è la Defensio Epicteti del Poliziano (1479).Francesco Barbaro, il De re uxoria (1416); Leon Battista Alberti, in volgare, Della famiglia; Campano Giannantonio, De dignitate matrimonii (Guiniforte Barzizza scrive nel 1439 una lettera in proposito ; si noti che invece Ermolao Barbaro scrive il De coelibatu, nel 1472); G. Pontano scrive trattati morali innumeri: “De oboedientia, De prudentia, De fortitudine, De liberalitate, De beneficientia, De magnificentia, De splendore, De convenientia, De magnanimitate, De immanitate, in cui è ripreso da Aristotele il concetto di “misura” (ma, ahimè! ognuno la può collocare poi dove gli sembra bene). Opere pedagogiche scrivono P. P. Vergerio che nel 1402-3  compone il De ingenuis moribus et liberalibus studiis adolescentiae; Maffeo Vegio, De educatione liberorum et eorum claris moribus (1445-8); Pio II, De eruditione puerorum (1444); Giovanni Pontano, Ad Alfonsum, Calabriae ducem, de Principe liber); Sacchi Bartolomeo detto il Platina[14], il De principe (1470). Con il Platina si passa dalla pedagogia alla politica. Se essa è ancora concepita come parte della morale in G. A. Campano, il De regendo magistratu; in Matteo Palmieri, La vita civile (1430-2: in volgare!); in Uberto Decembrio (1370 ca- 1427), De re publica (inizio del secolo), nel Bracciolini (Historia tripartita disceptativa convivialis) si fa avanti il machiavellismo: la politica è equiparata alla forza. Ermolao Barbaro scrive un De officio legati, sulla vita del diplomatico, come il Bruni aveva scritto sulla vita civile il De militia. In proposito aveva avuto grande importanza nei primi umanisti la questione del primato fra vita attiva e vita contemplativa: Cristoforo Landino, nelle Disputationes camaldulenses (1475) era ancora per il primato della contemplazione, come il Salutati nel De saeculo et religione e come Marsilio un po’ ovunque nelle sue opere; al contrario, al seguito dello stesso Salutati nel De tyranno, il Bruni e soprattutto  il Bracciolini (Contra hypocritas) ed il Valla (De professione religiosorum) stanno per il primato della vita attiva. La vecchia tesi guinizelliana della nobiltà coincidente con la virtù è ripresa in dialoghi da Bonaccorso da Montemagno (De nobilitate: anteriore al 1429, ebbe traduzioni e diffusione nel secolo), Bracciolini, Platina, Landino,  Pio II Piccolomini (De vera nobilitate; De nobilitate animae...), dal Bruni e dal Filelfo (nelle loro lettere: ma, nelle invettive, si rinfacciano poi i bassi natali...) e nel Galateo (Antonio De Ferraris: De distinctione et nobilitate humani generis). Del problema del rapporto fra libertà, influssi astrologici e caso, nella vita, si interessano Bracciolini (De varietate fortunae) e L. B. Alberti (Fatum et Fortuna...), Giovanni Pontano (De rebus coelestibus; De Fortuna).Di problemi morali  e religiosi, gran parte delle opere dell’Alberti (Philodoxus, Virtus, Felicitas, Defunctus, Nummus,    Religio...), molte del Bracciolini (De avaritia, De nobilitate), di Giovanni Pontano (De prudentia, De fortitudine, De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De hospitalitate) oltre al già citato Isagogicon del Bruni. Satira contro i costumi degli uomini, specie del mondo ecclesiastico, è il dialogo lucianeo Charon, del Pontano, di cui si possono ricordare gli altri dialoghi, Antonius, Aegidius, Actius, Asinus, che non riescono ad evitare i temi religiosi e morali, toccati spesso con audacia inedita. Al Charon del Pontano si può avvicinare l’Eremita di Antonio De Ferrariis, (detto il Galateo): questi, nato in Terra d’Otranto nel 1444 e morto a Lecce nel 1517, fu medico e risultò un ambidestro, appassionato tanto delle scienze (De  podagra, De situ elementorum, De situ terrarum ad Leonicenum apologeticon)  quanto delle questioni morali (De distinctione et nobilitate humani generis, De inconstantia humani generis, De beneficio indigne collato, De gloria contemnenda, De morte fratris, De hypocrisi, De educatione). Ma quello che sorprende maggiormente è che anche  Marsilio Ficino, che pensò e visse per la conciliazione della fede cristiana con la filosofia (platonica) e per l’affermazione dei valori spirituali, manifesti un entusiasmo candidamente rinascimentale per l’uomo e le sue opere.[15] Egli ha espressioni di profonda ammirazione per l’essere umano e per le facoltà che ne fanno l’anello di congiunzione fra spirito e materia nella scala degli esseri plotiniani. Le espressioni, inoltre, sono tanto più significative, in quanto inserite in opere per sé specificamente religiose (De christiana religione| e Theologia platonica: le dichiarazioni più entusiaste sono in questa seconda opera, oltre che in alcune lettere). Questo non toglie che il Ficino testimonia anche che l’interesse religioso permaneva il primo in alcuni umanisti come lui o come Cristoforo Landino (Disputationes camaldulenses), o Giannozzo Manetti (cfr. l’opera apologetica Adversus Judaeos et gentes -i pagani, le genti infedeli- pro catholica fide);o almeno costituiva pur sempre un centro di interesse altissimo (come nell’ultimo Valla, quello del De mysterio Eucharistiae e dell’Encomium S. Thomae Aquinatis).

All’ideale dell’ascetismo che predica la penitenza, la rinuncia ed il chiostro, si sostituisce quello della felicità (anzi della “voluttà”, nella terminologia di L. Valla) e dell’impegno nell’attività terrena della società. In particolare all’ “ozio dei religiosi” che il Petrarca aveva elogiato, invidiando il fratello Gerardo, si oppone l’operosità della vita pubblica. Con poche eccezioni (Cristoforo Landino e Marsilio Ficino), si esalta ora l’impegno nella vita sociale: Coluccio Salutati aveva dato l’esempio  nella prassi e nella teoria (lettere a Squaro Gaspare dei Broaspini; a ser Andrea Giusti da Volterra...; scrisse anche un opuscolo intitolato significativamente De vita associabili et operativa, anche se non pervenutoci). Con i discepoli del Salutati, all’elogio della vita nel secolo si aggiunge il disprezzo e la condanna di quella dei religiosi, insolentiti come ipocriti, fannulloni e peggio.  In tal senso, scrivono Bracciolini (Contra hypocritas: 1447-8; De avaritia, contro i frati questuanti), Lorenzo Valla (De professione religiosorum: 1442) ed il Bruni (Oratio contra hypocritas).

In opposizione alla coscienza delle “miserie umane” ed all’invito del “contemptus mundi” (disprezzo del mondo), atteggiamenti propri del Medioevo, si sostituisce una coscienza esultante per la grandezza, la potenza, la dignità dell’uomo. Egli, infatti, non è solo destinato all’immortalità (criterio religioso e cristiano, ancora presente), ma è altresì capace di determinare la propria vita con la libertà del volere e l’iniziativa dell’operare, vincendo la fortuna e i casi avversi (L.B. Alberti); ha il potere di dominare il mondo e di metterlo al proprio servizio. Si abbandona la fede nella astrologia (salvo rari casi, come quello di Giovanni Pontano); anzi si può cadere nell’errore opposto, quello della magia, che pretende di dominare l’andamento delle vicende anche umane con poteri misteriosi e preternaturali (credenza presente in Marsilio Ficino e Pico della Mirandola).

L’uomo è insistentemente celebrato come “copula dell’universo”, cioè come anello di congiunzione fra materia e spirito, fra anima e corpo. L’espressione, si noti, è di origine persiana ed il concetto lo abbiamo già trovato in S. Ambrogio (l’uomo è “la più eccelsa opera di questo mondo.. come il compendio dell’universo e la bellezza suprema delle creature del mondo”: Exameron, VI, 10, 75) ed in San Tommaso d’Aquino: “nell’uomo vi sono in qualche modo, tutte le cose...l’anima intellettuale è detta quasi orizzonte e confine delle cose corporee ed incorporee, in quanto è sostanza incorporea e tuttavia forma del corpo”[16] Tale formula corrisponde all’altra di Niccolò Cusano (Nikolaus Chryppfs o Krebs von Cues (Treviri): “l’uomo è un microcosmo” (Congetture) e al concetto di Pietro Pomponazzi : “l’uomo è il centro dell’universo” (L’immortalità dell’anima). Ma la espressione precisa di uomo “copula mundi” è in Marsilio Ficino, Theologia platonica. Ecco alcune espressioni che adeguano questi stessi concetti. Da Marsilio Ficino: “L’uomo ha un posto intermedio tra la feritas dei bruti e la divinitas del Creatore: ma egli partecipa della natura divina, tanto che può comprendere ciò che Dio stesso ha creato. Infine, l’uomo imita tutte le opere della natura inferiore. Dunque, senza dubbio, l’essenza dell’uomo è di natura divina, dato che l’uomo da se stesso, cioè con la sua mente e la sua attività, governa se stesso, per nulla limitato dalla natura corporea e può imitare le singole opere della natura divina.... Questo...bisogna anzitutto tener presente, che un uomo qualsiasi non può capire pienamente in qual modo e con quali arti sia stata costruita un’opera ingegnosa da un artefice abile, ma soltanto lo può un uomo che abbia un’eguale capacità creatrice. Nessuno infatti potrebbe comprendere in che modo Archimede abbia costruito le sue sfere di rame e abbia con esse insegnato i movimenti che son propri degli astri, se non fosse fornito di pari ingegno. E chi le comprende, perché è fornito di una capacità di ingegno (adeguata) potrebbe certo fabbricarle uguali, dopo averne avuto cognizione, purché non gli mancasse la materia. E perciò, quando l’uomo sia riuscito ad intendere l’ordinamento dei cieli, donde essi traggano moto, la loro direzione,  le loro misure e che cosa producano, chi negherà che esso abbia lo stesso ingegno (per dir così) che ha il Creatore dei cieli? e che, in certo senso, egli potrebbe costruire i cieli, se trovasse gli strumenti e la materia celeste, dato che egli ora li crea, sebbene in altra materia, ma tuttavia quasi identici quanto all’ordinamento?”[17] Quest’altra (dall’Epistolario, l. I, p. 611) porta la rigenerazione cristiana ad un estremo di espressione che rimani incerto se ritenerla fervore di un mistico o aberrazione di un panteista: “Egli (Dio) si fa incontro all’anima che tende verso lui, la abbraccia, ne pervade le midolla, la alimenta, la rigenera, la riforma in un angelo, la converte in Dio”. E’ l’anelito ad essere come Dio che si legge nella Teologia platonica: “Non si sforza l’anima di diventare tutte le cose, come l’uomo è tutte le cose?... Essa vive la vita delle piante, nella funzione vegetativa; la vita dei bruti, nell’attività sensibile; la vita dell’uomo, quando con la ragione tratta gli affari degli uomini; la vita degli eroi, investigando le cose naturali; la vita dei demoni, nelle speculazioni matematiche; la vita degli angeli, nell’indagare i divini misteri; la vita di Dio, facendo per grazia divina tutte quelle cose...Il genere umano nel suo complesso tende a diventare il tutto, perché vive la vita del tutto. Perciò ebbe ragione Trimegisto di chiamar l’uomo un grande miracolo... Egli si serve degli elementi, misura la terra e il cielo, scruta le profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo alto né il centro della terra troppo profondo. Gli intervalli dei tempi e dei luoghi non gli impediscono di correre da per tutto in qualunque tempo. Nessuna parete gli impedisce di sentire. Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come Dio”. Ed ecco Pico della Mirandola (Orazione sulla dignità umana): “Perché vi sia qualcuno capace di intendere la ragione dell’universo da Lui creato, di amare la bellezza, di ammirare l’immensità... (Dio ha creato) l’uomo libero artefice e costruttore di se stesso: non lo ha fatto ne celeste ne terreno perché si foggiasse da sé, libero di degenerare verso i bruti o di rigenerarsi fino all’altezza delle cose divine”.  Nonostante una maggior concretezza, non meno estatico è Giannozzo Manetti: “Infatti nostre, e cioè fatte dagli uomini, sono tutte le cose che si vedono, le case, i villaggi, le città; tutte, infine, le costruzioni della terra che sono tante e tali, che per la loro eccellenza dovrebbero a buon diritto essere ritenute opere piuttosto di angeli che di uomini; nostra opera sono tutti  i generi delle varie lingue e delle varie lettere... Nostri, infine, sono tutti i ritrovati, che ammirabili e quasi incredibili di potenza , che l’ingegno umano, o piuttosto divino, volle costruire ed edificare... Queste ed altre simili cose si vedono da ogni parte tanto numerose e belle, che il mondo e i suoi ornamenti, trovati e stabiliti da Dio...., appaiono molto più belli, adorni e di gran lunga più perfetti”. Finiamo con Leon Battista Alberti. La natura fece l’uomo “composto parte celeste e parte divino, parte sopra ogni mortale cosa formosissimo e nobilissimo; concessegli forma e membra accomodatissime a ogni movimento...; attribuìgli discorso e giudicio a seguire e a prendere le cose necessarie e utili...; donògli ingegno, memoria e ragione, cose divine e attissime a investigare, distinguere e conoscer qual cosa sia da fuggire e quale da seguire per ben conservare se stessi”. Da qui l’Alberti deduce che l’uomo ha in sé la ragione della sua sorte e che “tiene giogo la fortuna solo a chi sé gli sottomette” e non le contrasta con la sua virtù, cioè con l’avvedutezza e la sapienza, perché, tutto considerato, conta assai più “nelle cose civili e nel viver degli uomini... la ragione che la fortuna, più la prudenzia che alcuno caso”. E la virtù dipende solo dal suo volere: la preghiera non serve ad ottenerla (cfr. Baldesar Castiglione).

La novità sta in vari particolari: anzitutto l’entusiasmo con cui vengono espresse le affermazioni; in secondo luogo, la frequenza delle stesse; in terzo luogo l’inconscia emarginazione della colpa originale (ne riparleremo) che permette tale euforia; in quarto luogo è l’ardimento di certe dichiarazioni che rasentano il panteismo o la identificazione dell’uomo con Dio. Ad un certo punto potrebbe sembrare che, non essendoci corpo materiale in Dio, l’uomo riassuma l’essere tutto, in modo più completo del Creatore. Oppure ci si domanda se il paralogismo di M. Ficino, secondo cui chi sa rifare un marchingegno, è pari al suo inventore, non conduca a fare dell’uomo un altro dio o ad identificarlo con Lui (tanto che egli non esita a dire che “l’essenza dell’uomo è di natura divina”). E forse più vicino all’eresia fu ancora Pico della Mirandola, che dice l’uomo uguale agli angeli; l’uomo che si fa uno con Dio... Non per nulla Giorgio Scholiarcos  denuncerà come eretico il Ficino, mentre Pico della Mirandola avrà fastidi  grossi con la Chiesa, che lo farà incarcerare.

               Considerato quasi onnipotente come Dio, l’uomo rinascimentale può attuare pienamente il proprio essere, la propria aspirazione ad una vita che armonizzi spirito e materia, ragione e istinti, virtù e piacere, forza e intelligenza, onestà e successo. Quest’ultimo punto sarà particolarmente caro alle generazioni del primo Millecinquecento e avrà la sua risposta uguale e contraria nel pessimismo fideistico di Lutero ed in quello miscredente di Machiavelli. Ma pel momento, permetterà a Lorenzo Valla di fare del piacere (De Vuptate) un genere di esperienza perfettamente integrabile con la  felicità cristiana.[18]

 

Si può porre a questo punto la questione:  il Rinascimento fu, nel suo spirito più profondo, un neopaganesimo, consapevole od inconsapevole, mascherato ipocritamente o ingenuamente accolto? La prima risposta è questa: il problema va dibattuto a livello di valori coscienti, perché altrimenti si dovrebbe vedere, a ragione di stretta logica, un implicito rifiuto del cristianesimo (e di Dio stesso) in ogni peccato grave consapevole. Stando ai dati da noi conosciuti con certezza, vi è un solo caso di alienazione totale dal cristianesimo: Carlo Marsuppini (1398-1453: genovese, docente nello Studio fiorentino e successore, nella cancelleria, al Bruni), che rifiutò i sacramenti sul letto di morte. Gli altri casi clamorosi di neopaganesimo e peggio, noti tra il Millequattrocento ed il Millecinquecento, sono solo “indiziari” e  costringono a fare “processi alle intenzioni”.Anzitutto vi è quello del culto pagano instaurato a Roma da Giulio Pomponio Leto (1428-98) e dalla sua “Accademia romana”. In proposito va, infatti, detto che  può  davvero essersi trattato di fanatismo per la vita di Roma classica (di cui volle rievocare vocaboli, calendario di giorni fasti e nefasti, con libagione agli dei nelle feste, celebrate  dall’Accademia), piuttosto che di adesione alla religione pagana: tale fu, ad ogni modo, la interpretazione accettata dal processo inquisitoriale che liberò il Leto nel 1469. E così il “fatto” diventa semplice “sospetto” e la “prova” solo un “indizio”.  Qualcosa del genere si può dire del Valla, il cui infelice tentativo di armonizzare il piacere epicureo con la fede cristiana  deve essere stato errore conseguente alla ingenuità (e magari anche al malcostume) giovanile, con un eccesso di ottimismo circa la facilità di metter d’accordo esigenze istintive ed obbligazioni morali: il duplice rimaneggiamento dell’opera De voluptate (Il piacere, del 1431, divenuto De vero bono nel 1433 e De vero falsoque bono nel 1439), mentre ancora era con gli Aragonesi, può ben essere un indizio che  una vera maturazione intellettuale lo costringeva a limare e correggere le sue posizioni iniziali.  E veniamo a Pietro Pomponazzi (1462-1525). Egli ripresentò dalla cattedra di Bologna  la dottrina di Alessandro di Afrodisia, un interprete di Aristotele del III secolo d. C.: solo l’intelletto agente, cioè la parte dell’anima che astrae gli universali dalle sensazioni, è spirituale ed immortale; esso, però, non è personale, come lo è invece l’intelletto passivo (che però, limitandosi a percepire le sensazioni, è materiale e mortale).Egli scrive un’opera intitolata “De immortaliate animae” solo per antìfrasi, cioè per dimostrare “a livello filosofico” la mortalità delle anime (passive) personali; l’anima agente e spirituale è unica per tutta la umanità. Eppure egli si riteneva cattolico ortodosso in  base alla dottrina della duplice verità, con cui si difese dalla condanna del concilio Laterano IV (1516): come cristiano, egli accettava la rivelazione e, quindi, la tesi della immortalità personale! Che tale posizione, se sincera, sia almeno ridicola, non v’è dubbio. Ma chi non sa che il Pomponazzi era ridicolo in altre sue idee (difesa dei dialetti contro l’unità della lingua) e persino nel pronunciare una lingua toscana così   maldestra (era mantovano), che “pareva un giudeo tedesco che volesse imparare a parlare italiano”? E’ parola di Matteo Bandello, un bello spirito che  ritroveremo fra gli scrittori del Millecinquecento. D’altronde, vari docenti del sec. XVI all’università di Padova  seguivano la dottrina di Averroè (tutta l’anima è impersonale, una sola per tutta l’umanità: la immortalità è impersonale) e si difendevano con l’appello alla duplice verità (Alessandro Achillini e Agostino Nifo, ad esempio).  E venature averroistiche alla università di Padova erano esistite già  durante i secoli XIII e  XIV: e già allora si distingueva tra verità di ragione e verità di fede!

La seconda risposta è più positiva: per rimanere nel solo Millequattrocento, troppi membri del clero  (vari papi, Niccolò V e Pio II), un cardinale, Niccolò da Cusa, sacerdoti irreprensibili (come Luigi Marsili, AmbrogioTraversari, Ermolao Barbaro ...) e cristiani esemplari (Giannozzo Manetti,     Vespasiano da Bisticci, Vittorino da Feltre, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola) ebbero parte da protagonisti o comunque molto attiva nel movimento, perché si possa ridurlo ad una forma di immanentismo ateo o di sincretismo, genericamente religioso ma non più cristiano. Nel secolo XVI avremo umanisti come i papi Giulio II e Leone X, il cardinale  Pietro Bembo ed Erasmo da Rotterdam; ed anche due santi (in Inghilterra)[19]: il vescovo John Fisher ed il cancelliere del regno, Tommaso Moro.

Eppure è impressione persistente che ci fosse qualcosa che non  combaciava con la fede cristiana. Cominciamo da alcune  affermazioni autorevoli. Erasmo da Rotterdam, testimone e partecipe del movimento negli stati tedeschi, accusava gli umanisti italiani di nascondere il loro disinteresse pel cristianesimo dietro l’entusiasmo per Cicerone (nell’opera Ciceronianus). Il non credente Francesco De Sanctis, nella  Storia della Lett. It. (1870-1) scrive: “ La quale (arte della vita, insegnata da L. B. Alberti) si può ridurre in questa sentenza: che l’uomo dee tener lontane da se le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metà epicureo, è quella pace che Dante cercava nell’altro mondo e che (Leon) Battista (Alberti) ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi umanisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente –voluttà-. Il concetto ascetico: che l’uomo non può conseguire vera felicità in terra è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista (sempre L. B. Alberti) non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quell’indirizzo” (c. 11).Il grande storico cattolico Ludwig Pastor (1854-1928) nella sua monumentale Storia dei papi dalla fine del Medioevo, inizio del primo volume) giunge a distinguere un Rinascimento cristiano ed uno pagano: che è una formula un po’ semplicistica di risolvere l’ambiguità di molti (non di tutti) scrittori ed attori del movimento. In realtà, se si eccettuano il card. Dominici ed il Savonarola, vi è un’aura  specifica che accomuna tutti gli umanisti rinascimentali, , un filo rosso che li lega, siano essi ortodossi od eretici, peccatori o santi. Tutti denunciano un minimo comun denominatore, che è vero “segno dei tempi”. Tentiamo di esemplificare questo spirito rinascimentale cogliendolo in personaggi, che ne dovrebbero essere i più sospettosi e ritrosi: un santo ed una mamma cristiana del secolo. Il primo è San Bernardino da Siena. Ebbene, in una dottrina di fede e di morale sicuramente cattolica, vi è un tono, uno “Schwung” (estro, slancio) sia negli argomenti affrontati, sia nella confidenza sbarazzina con cui li tratta. Le sue prediche paiono cosa nuova e affascinano per la fusione di fede ed esperienza, di ragione e rivelazione, di severità e lietezza. Sarà la disinvoltura nel parlare “chiarozzo chiarozzo” sugli argomenti più scottanti (le giovani e il matrimonio), garantendo di uscirne pulito e netto, come il “gallo (che incede nel pollaio) in feccia”. Sarà la sua insistenza sul valore della cultura e sulla conseguente necessità pel comune di Siena a finanziare l’apertura di uno Studio, come una delle colonne della vita cittadina, accanto alle arti del cuoio e della lana. Sarà ancora la celebrazione della bellezza femminile e l’invito agli uomini “amate le vostre mogli”, senza che questo gli impedisca di condannare “madonna saragia” (sardella o saracca), cioè la donna seduttrice, che lusinga gli uomini al peccato. Che più? Nella sua predicazione troviamo la celebrazione della Commedia di Dante, accanto alla condanna ovvia del Decameron. Egli raccomanda la lettura di San Girolamo (che si permette  chiamare in causa con l’attributo sbarazzino di “barbacanuta”) come equilibratore (non surrogato) del troppo Ciceronianesimo; e conclude “Così vo’ dire a voi che studiate...fate che voi non diventiate cotali pecoroni” cioè seguaci scriteriati della moda imperante nel culto per la classicità pagana. Ed ecco Alessandra Macinghi, sposata Strozzi e perciò invisa ai Medici vincitori, che condannano all’esilio la famiglia: morto il marito Matteo nel 1428, poté rientrare in Firenze, ma per vedere esiliati i tre figli maschi, man mano che raggiungevano la maggior età. Essa, madre di sette figli a 27 anni e vedova a ventotto, segue Filippo, Lorenzo e Matteo, che esercitavano la mercatura a Napoli, con lettere dettate da un amore  materno che trova non solo serenità e forza, ma ottimismo, fiducia e anche senso di tolleranza verso i peccati dei figli, seguendo bensì una innata carica vitale di stampo virile, ma anche  il senso di concretezza acquisita da una esperienza disincantata della vita, pur nella certezza della fede e della legge morale. Ed eccola prevedere con rassegnata serenità la “serqua” di  nipotini illegittimi che il libertinaggio sessuale dei figli le procureranno a Napoli. Ed ecco la avvedutissima considerazione dei pro e dei contro nella scelta della sposa per il figlio Filippo. Parte bensì dal principio morale “Ora el minor defetto che sia di questo (bilanciare i vari partiti) si è e danari”, ma per esplodere poi nella umanissima conclusione: “Essendo bella (la ragazza) e di Filippo Strozzi, è di bisogno di belle gioie; ché come tu hai l’onore nell’altre cose, en questo non vuol mancare”.

Se dei santi e delle donne sagge e cristiane parlano in tali termini, ciò vuol dire che essi non considerano la “voluttà” terrena del tutto estranea alla beatitudine evangelica: si tratterà di mantenere i criteri della temperanza morale, ma non è più proibito celebrare anche simili valori tipicamente terreni. E’ riflettendo sulle relazioni tra le due felicità e sulla esistenza o meno di difficoltà ad unirle e subordinarle che salta all’occhio una disarmonia. Il Rinascimento ha troppa fiducia nella facilità di armonizzare il successo terreno  con la salvezza eterna: il cristianesimo (non solo medioevale) è molto più cauto ed esigente. Confrontando tale ottimismo colla Weltanschauung medioevale,  ci si accorge che vi è un fattore  antropologico caduto dalla coscienza dell’umanesimo rinascimentale, che lo rende troppo spontaneamente aperto al sorriso ed all’allegria. Se la nota più sorprendente è questa della fiducia, dell’emozione esultante (e la riprenderemo in esame a proposito del “gusto” rinascimentale), le sue radici, le premesse saranno bene di natura conoscitiva, apparterranno, cioè, alla mentalità o pensiero, alla filosofia od ideologia, cioè al suo tipo di “Umanesimo”.[20] E, a priori, la spia più sicura  andrà cercata in teologi e filosofi del tempo. Tanto Guglielmo Occam (1290-1349 o 1350), quanto Gabriele Biel (1468 ca - 1495) sostengono la perfetta libertà dell’uomo (quella interiore, di fronte alla tentazione, cioè quella riguardante il rapporto fra razionalità ed istintività dell’uomo), anche dopo il peccato originale. Vi sarebbe la piena possibilità di attingere la perfezione morale anche al di fuori della Grazia venutaci dalla Redenzione di Cristo. Una simile posizione teologica ricorda quella dell’eresia pelagiana (Pelagio fu un monaco inglese dei secoli IV e V) e lascia presagire quella dell’Illuminismo razionalistico e del sentimentalismo russoiano del secolo XVIII. Noi abbiamo già insinuato,  circa l’affievolimento del cristianesimo percepibile nel corso del Milletrecento, che non si tratta (come per Pelagio e per gli Illuministi), di un rifiuto cosciente della colpa originale o delle sue conseguenze nefaste nella psiche umana, ma solo di un oblio, di una emarginazione inconscia, di una obliterazione implicita,  di un accantonamento ai margini della coscienza di questa verità di fede o almeno (lo abbiam visto in Petrarca) della percezione delle sue implicazioni negative  in sede di capacità morale, di autonomia nel realizzare il bene, della potenza a dominare la sfera emotivo-istintiva, a realizzare la statura autentica dell’uomo concreto e storicamente connotato. Non è proprio che  manchi del tutto nei libri degli umanisti dopo Petrarca un riferimento al peccato originale, ma il suo ricordo non è messo in relazione con la morale debolezza dell’uomo. Certo Giannozzo Manetti ricorda la colpa originale (De Dignitate et excellentia hominis, libro IV), ma solo in rapporto ai danni conseguiti nella vita fisica, corporale dell’uomo, non nella sua vita spirituale. Il Pontano la ignora invece del tutto nel dialogo “Caronte”:  proprio nel finale ha questa affermazione di sapore stoico-pelagiano: “Tu sai quanto Dio è distante dall’uomo, non solo di spazio ma anche per natura: ebbene, la Virtù è la sola che in vita concilia Dio all’uomo e, dopo la morte, unisce l’uomo a Dio. Poiché, siccome la Virtù sta nel mezzo, e fugge gli estremi, così anche fra Dio e l’uomo sta unicamente la Virtù; ne senza di essa è possibile conoscere Dio o salire a Dio. Tutti gli altri beni sono fragili e passeggeri: la Virtù sola è stabile ed eterna. E mentre essa non ha bisogno di alcuno, tutte le altre senza di lei sono manchevoli”. L’uomo fa a meno della mediazione di Cristo: non ha bisogno della sua Redenzione: basta il volere dell’uomo all’acquisto della Virtù, che direttamente ci unisce a Dio. L. B. Alberti esclude esplicitamente la preghiera in ordine all’acquisto della virtù: siamo su posizioni stoiche o pelagiane, certo al di qua del senso del peccato originale. Nel secolo XVI., il Cortegiano del vescovo Baldesar Castiglione come l’Utopia di San Tommaso Moro sono   altrettanto indicativi. Il primo esce a dire (ne Il Cortegiano) che per essere onesti non occorre altro che la volontà del singolo “quello solo è vero filosofo morale che vuol esser buono: ed a ciò bisognano pochi altri precetti che tal volontà” (libro I, 41) svuotando così la necessità ed il valore della croce di Cristo (S. Paolo I Cor. 1, 17). Il secondo, scrivendo l’Utopia (1516: praticamente contemporanea al Cortegiano, dunque), attribuisce il male della società al sistema della proprietà privata, cioè sposta l’origine del peccato dalla volontà umana all’ordinamento sociale (marxismo in agguato!). Solo verso la fine dell’opera l’orgoglio umano appare come causa ultima del disordine dell’umana convivenza. Ma che la superbia umana dipenda dalla caduta dei progenitori non si sospetta minimamente: era proprio una verità di fede caduta dalla coscienza degli ottimisti rinascimentali. Verrà Lutero due anni dopo a dare la sveglia a questa “generazioncella di cristianucci tiepidi e disorientati”.  Ed ingenui. Il Castiglione si lascerà ingannare da Carlo V e non saprà prevedere la discesa dei lanzichenecchi su Roma: morto ben presto, verrà (ironicamente?) lodato dal suo turlupinatore come “el mejor cabajero del mundo”. Il martirio del Moro purificherà, invece, nel sangue  i limiti di una antropologia puramente razionale e, perciò,  astratta e nebulosa.[21]

Una controprova che la radice della differenza tra Cristianesimo intero ed interpretazione edulcorata e sfuocata data dal Rinascimento sia proprio la dottrina del peccato originale e delle sue conseguenze negative sull’uomo (oltre la lettera di San Paolo ai Romani, 5, 12-21, il richiamo alla coscienza di tale pilastro del cristianesimo è in S. Agostino) la si può trovare  negli scritti del beato Giovanni Dominici che si  appella esplicitamente ed insistentemente alla colpa originale per mettere in guardia contro i pericoli di una cultura di stampo pagano e di una educazione troppo affettuosa e liberale (si veda in “Regola del governo di cura familiare”: edito solo nel 1860). Nell’altro grande  figura di stampo medioevale, Girolamo Savonarola, il richiamo non compare, ma doveva almeno implicitamente timoneggiare il suo pessimismo sull’uomo e la sua severa esigenza ascetica (distruzione di ogni immagine impudica, di oggetti di lusso: bruciamento, insomma, delle vanità) anche per i laici. Inutile ripetere che fan parte di questa controprova e, anzi, la portano ad una forza dimostrativa  insuperabile, le figure dei riformatori evangelico-protestanti: Martin Lutero, Ulrico Zunglio e Giovanni Calvino, che delle conseguenze del peccato primo fanno il fondamento della loro dottrina di (non) salvezza. Essi  riducono  di fatto l’estensione della redenzione di Cristo: essa non è più per tutti gli uomini, ma si limita agli “eletti”, cioè ai prescelti nella massa di dannazione, quale appariva loro l’umanità in seguito alla caduta dei progenitori. Essi reagivano sì ad un andazzo permissivo nei costumi, ma che aveva il suo fondamento nell’obliterazione di un principio religioso dogmatico, tanto che per riparare alla prassi corrotta, essi non trovano nulla di meglio che esasperare l’importanza  di  quella verità di fede, praticamente emarginata se non ancora intellettualmente rinnegata.  La loro ossessiva insistenza sulle conseguenze tragiche della colpa originale è la cartina di tornasole che rivela dove stava il punto di divaricazione fra Cristianesimo e Rinascimento, fra Umanesimo cristiano ed Umanesimo rinascimentale. Aggiungiamo che i princìpi della politica machiavellica, nella loro crudezza disperata, sono anch’essi indizio della fatuità di un ottimismo che non aveva giustificazione nella realtà socio-politica italiana (e l’Elogio della pazzia di Erasmo e l’Utopia di More allargano purtroppo gli orizzonti della cancrena a tutto l’Occidente cristiano).Ma le stesse posizioni permissive del santo cancelliere d’Inghilterra, Tommaso Moro appunto (ripetiamo: divorzio ed eutanasia, sia pure in casi estremi), non sono già indizio che, senza la reazione del rigorismo calvinista e della severità del Concilio di Trento cattolico, ci si stava avviando ad un Illuminismo anticipato? E che dire di M. Ficino e Pico della Mirandola che scadono nella magia e nella cabala? E del disorientamento dei teologi che consentono a Pomponazzi di insegnare la mortalità dell’anima individua, sotto l’usbergo del principio della duplice verità? Vogliamo un altro segno? Si prenda quel capolavoro di arte editoriale che fu, nel 1499 e per i tipi di Aldo Manuzio (con 168 xilografie che si lasciano sospettare addirittura del Mantegna o almeno della sua scuola), l’Hypnerotomachia Poliphili (battaglia d’amore nel sogno di Polifilo)  di   Francesco Colonna: tra  amore ed allegoria, tra stile opulento e contenuti eruditi, fra lingua padana tendente al toscano ed a forme latineggianti, tra sogno e realtà vien  inculcata una religione naturale (“Ex labore Deo naturae sacrifica liberaliter”: fa volentieri sacrifici dal tuo lavoro al Dio della natura) ed un amore disinvolto e gaudente, con molti riferimenti pagani. L’autore è un domenicano, cioè un confratello di quel cardinale Dominici che  nel 1405 scriveva la Lucula noctis per esorcizzare l’umanesimo rinascimentale! Ma il Dominici era uomo che conosceva che cosa c’è nel cuore umano: la sapienza cristiana, posseduta fino in fondo, gli lasciava facilmente prevedere l’abisso che si intravedeva al termine dei piccoli passi fuori della fede cristiana.  Circa un secolo dopo, neppure un confratello di San Tommaso d’Aquino riusciva più a distinguere fra cristianesimo e paganesimo: era  un progresso logico dell’abbandono della fede nel peccato originale. Nel frattempo, la spregiudicatezza critica del Valla e il suo filoepicureismo, il latente materialismo antropologico del Pomponazzi preparano il terreno a Michele Montaigne (1533-92), scettico e ironico, che non crede nella capacità  dell’uomo ad attingere la verità e che non  mette l’uomo al culmine dell’universo: l’umanesimo non più cristiano completava  presto il suo ciclo e perveniva ad una antiumanesimo, che riduceva la moralità oggettiva alla coscienza soggettiva, l’honnète homme ad un gentiluomo dotato solo più di virtù sociali (non ruba, non danneggia il prossimo, è fedele alle leggi civili...), che oscilla tra aspirazioni stoiche e tentazioni epicuree.

Ci pare di avere così delineata e documentata la mentalità dominante, il pensiero prevalente, il viraggio intellettuale più caratteristico della società rinascimentale. Ma è ovvio che sussistano, dentro o accanto o contro di essa, altre ideologie, inclinazioni psicologiche e studi differenti da quelli grammaticali e letterari, storici e filologici, filosofici e teologici. Ne accenniamo i tratti principali.

 

ASPETTI  RECESSIVI O MINORITARI DELLA CULTURA RINASCIMENTALE.

E’ vero: benché escluso dal proscenio e dalle luci della ribalta, il pensiero scientifico e l’interesse tecnologico continuano e progrediscono, anche se gli interessati a tali settori del sapere sono ridotti ad una minoranza silenziosa, senza l’impatto sulla opinione pubblica  degli studi umanistici. E’ vero: Leonardo da Vinci (1452-1519)  è “uomo solo” non per l’indirizzo tecnico della sua mente, ma per la mancanza della lingua latina. E’ vero: come  sarebbe stato possibile la crescita delle iscrizioni in tutte  le università, senza un aumento anche di medici e, quindi, di gente inclinata più alle scienze che alle lettere? Padova era interessata agli studi di astrofisica, oltre che alla medicina; e lo stesso va detto di Salerno. D’altronde le guerre erano frequenti e, di conseguenza, anche le invenzioni tecniche, chimiche e meccaniche, per le armi da fuoco. La stessa invenzione della stampa è, prima ancora che  una spinta alla circolazione del pensiero astratto, un prodotto della tecnologia che  mette in opera la lega di piombo ed antimonio... E le scoperte geografiche (Capo di buona Speranza ed America) sono rese possibili dal progresso nella tecnica delle costruzioni navali.

E’ vero: fra gli stessi umanisti si trovano personaggi ambidestri, simpatizzanti cioè per l’indirizzo anche matematico e geometrico degli studi. Vittorino da Feltre (lo si è visto) fa  conoscere Euclide, agli alunni della Ca’gioiosa, direttamente sul testo greco. Guarino Veronese si può dire che prediliga tale tipo di interessi, visto che traduce Plinio (Gaio Secondo, detto “il Vecchio”, 23-79 d.C.: è l’autore della Naturalis Historia, non mancante di errori marchiani, ma pur sempre la fonte più ricca di sapere scientifico fino alle scoperte di fine Millecinquecento), Celso (Aulo Cornelio,sec. I d. C.: autore di un’enciclopedia , di cui restano gli otto libri De medicina), Strabone (Amasia, sul Ponto: 64 ca a. C.- 24 ca d. C.: geografo greco), più che non Cicerone od Orazio. Nello “studio” di Pavia, trasferito momentaneamente a Piacenza, figurano nomi famosi per la competenza matematico-scientifica: Biagio Pelacani da Parma e Ugo Benzi da Siena. Giovanni Pontano, poi, scrive il più lungo e impegnativo dei suoi poemi, l’Urania, sulla astronomia ed astrologia. E Matteo Palmieri, filosofo e poeta, ci è tramandato anche come uomo, il quale “abbaco sua paene natura deditus...numerorum disciplinam accuratissime didicit” (dedito al calcolo quasi per la sua stessa natura, apprese con ogni cura la scienza dei numeri”). Di Paolo del Pozzo Toscanelli, cosmografo, tutti conoscono la proposta di “raggiungere l’Oriente navigando verso Occidente”. Con Ermolao Barbaro (il giovane,  1453|4-1493 umanista, filosofo e uomo politico che, ambasciatore presso la S. Sede, fu eletto patriarca di Aquileia nel 1493) scrisse le Castigationes plinianae accanto a Carmina (poesie in latino), Orationes (discorsi ufficiali) ed alla traduzione delle Parafrasi aristoteliche  di Temistio: mente scientifica, ci teneva ad aggiornare e correggere l’antico Plinio. Della congenialità di Niccolò Cusano con la scienza si è già parlato. Dobbiamo aggiungere Leon Battista Alberti, scrittore in volgare di cui tratteremo: uomo dalle molte anime, ha scritto anche un’opera intitolata “Ludi (giochi, esercizi) mathematici”. In realtà Leonardo non sorge dal nulla e non è uomo oggettivamente solo: egli si sente tale, perché emarginato dal mondo della cultura dominante, la cui  tessera di ingresso era la lingua latina, che gli mancava. A meno che la sua solitudine non debba essere intesa nel senso che egli supera tutti gli altri per genialità inventiva.

Ma resta il fatto che mentre nel Milleduecento l’interesse per la natura è presente anche nei poeti (del Dolcestilnovo, ad esempio) e signoreggia in Dante senza alcun senso di inferiorità rispetto alla cultura  filosofico-letteraria (umanistica), man mano che trionfa il petrarchismo e l’umanesimo rinascimentale, il sapere scientifico sparisce dalla opinione dominante, dalla circolazione libraria e dalla mentalità  della più parte degli scrittori. Ecco: gli studenti universitari che snobbano il grande Petrarca a Venezia, provocando la sua polemica risposta (De sui ipsius et multorum ignorantia), sono un “segno dei tempi”: la cultura medico-astronomica, matematico-scientifica sussiste e cammina, ma è sommersa dalla maggioranza vocale (anzi stentorea e battagliera; anzi litigiosa: fino al ridicolo ed al disgusto) che la riduce a minoranza silenziosa. In pratica, accennando alle componenti minoritarie della cultura rinascimentali, noi stiamo anche dando, contemporaneamente, un giudizio sugli aspetti positivi e su quelli negativi del fenomeno. Il paragrafo che  ora segue  completa, dunque, quello ora sviluppato.

 

GIUDIZIO SULLA CULTURA UMANISTICA RINASCIMENTALE

Se si affrontano lealmente tutte e tre le dimensioni dell’Umanesimo rinascimentale, ci si accorgerà che va limitato il giudizio più solito circa l’approfondirsi del senso critico in questa epoca. Si deve, invece, operare una distinzione. Non v’è dubbio che l’acribia (senso critico) filologica e storiografica sia cresciuta eccezionalmente; ma è altrettanto certo che il senso critico filosofico è in perdita.  Si vuol dire: dopo il vuoto di cultura storica operato dalle invasioni barbariche, finalmente l’uomo occidentale ricupera il senso preciso delle sue radici greco-romane, oltre che cristiane; si rende capace di documentare il proprio passato e di ricostruire un quadro delle epoche precedenti col senso della diversità di idee, costumi, condizionamenti ed ambiente, rispetto alla propria cultura. Tale acquisto di verità sul passato è proporzionale all’altro campo di giudizio finalmente ricuperato alla coscienza scientifica: la capacità di leggere i documenti nel loro valore di autenticità o meno, nella esigenza di mettere a confronto le  stesse testimonianze filologicamente sicure, per  distinguerne  la loro maggior o minor attendibilità storiografica e la conseguente forza probativa. Ma  cade qui quanto denuncia Manzoni circa i limiti della psicologia umana: quel che va nelle maniche non può andare nei gheroni (triangoli di stoffa messi sui fianchi di camicie od altre vesti, per renderle più larghe, comode o vistose). La  concentrazione, che gli studiosi del Rinascimento posero nel riscoprire la verità sul proprio passato, la sottrassero allo sforzo per meditare sulle dimensioni   onnipresenti (essenziali) della realtà: l’attenzione delle menti si è spostata dallo studio  dell’essere tutto (Dio e  il cosmo, inanimato o vivente ma infraumano: si pensi alle “Somme od enciclopedie” del sapere nel Milleduecento, da S. Tommaso d’Aquino ad Alberto Magno)  alla analisi  dell’uomo e del suo operare individuo (psicologia) o sociale (politica, storia). Dalla metafisica alla antropologia, dunque. Ed anche  nell’interesse per l’uomo, è come se si fosse passati dallo studio della sua anatomia essenziale,  alla indagine sulla sua fisiologia accidentale: dall’essere all’azione, dalla sostanza al  dinamismo, dalle cause  costitutive (materia e forma) a quelle  accidentali (cause efficiente e finale), dalle componenti sostanziali dell’uomo universale (in contrapposizione all’animale ed alle altre “cose”) alle forze sentimentali che muovono i singoli individui, in contrapposizione alle altre singole persone.  Ecco, in una parola: il Medioevo studiava  L’ESSERE E L’UOMO; il Rinascimento studia L’INDIVIDUO E LA PSICOLOGIA. Tutti sanno che i secoli della “tarda scolastica” sono tempi di povera filosofia: un vero tracollo della  certezza nella verità del reale e nella capacità della ragione umana ad impadronirsene, dando loro un nome che ne indichi la sostanza, il “quod quid est” (ciò che ogni cosa è): il nominalismo riduce la ragione a pura potenza utilitaria, che si fabbrica schemi (idee, concetti) e dà loro un nome secondo i propri interessi e necessità, ma che nulla garantisce corrispondano alla comprensione autentica dell’essere, alla essenza delle cose. E credevano, abbassando ed umiliando la ragione, di dar più importanza alla Rivelazione; credevano che annullando il potere filosofico della mente, sublimassero la fede e la religione. Stolti a non comprendere che tutte queste pretese di rivalutare Dio e la Bibbia e la teologia era ancor un atto di pensiero,  erano ancora idee, concetti, ragionamenti: era una filosofia della conoscenza anche teologica. Distrutto il valore della conoscenza umana, non avevano nessun senso le affermazioni fideistiche di adesione alla Scrittura ed all’insegnamento della Chiesa! Quello che filosofi autolesionisti operano a livello di riflessione razionale in genere, i letterati rinascimentali operano nel campo  dell’interesse per l’uomo in particolare. Il soggettivismo del sentimento confuso e della psicologia mutevole sostituisce la oggettività della ragione chiara, organica e della ferma, precisa volontà. Non che si neghi esplicitamente la forza della ragione, come fanno i colleghi filosofanti e teologizzanti: di fatto, però, interessano loro più i sentimenti dei singoli individui (le lettere del Petrarca sono  spesso espressione di buoni sentimenti, senza grandi notizie da comunicare) o gli avvenimenti storici (e qui i Rinascimentali sono maestri). Ma di grandi verità filosofiche non si parla. In realtà, avendo lo sguardo rivolto a Platone (ed a Petrarca), di progressi in sede di ragionamenti sulla natura degli esseri non si può aspettarsene molti. Neppure, si potrebbe  dire, erano in grado di cadere in gravi errori: viaggiavano nella nebbia della retorica, del bello stile, del colloquio amichevole. Le opere dialogiche sono spesso annoianti e diluite, fino ad attutire l’importanza delle verità esposte e ad edulcorare il veleno degli errori insinuati; le opere  in trattati sono lapalissiane od assiomatiche: non c’è una gran preoccupazione o forza dimostrativa. C’è la tendenza a far prevalere la sincerità sulla verità, il cuore sulla testa, la letteratura e la poesia sulla filosofia e sulla scienza. Il platonismo, che mescola poesia e filosofia; e il plotinismo, che rischia il panteismo, concorrono a ridurre la religione ad una generica teosofia, che convalida (con Pico della Mirandola) ogni forma di sentimento religioso. D’altronde, il primo sfaglio raziocinativo i Rinascimentali lo commisero a livello di autocoscienza: essi si  immaginarono di “FAR RINASCERE”  la civiltà di   Atene e di Roma, non solo  ignorando (in linea di principio) che la storia umana non è in grado di ripetersi su così vasta scala; ma non accorgendosi neppure (in linea di fatto) che la cultura che essi andavano edificando a livello di pensiero, di costume, di gusto e di tecnica espressiva era in gran parte creazione nuova rispetto a quella  dell’età di Pericle e di Augusto e, in particolare, che la letteratura prodotta era altra cosa rispetto a Cicerone e Virgilio, ad Omero e Sofocle. Gran scavatori dell’animo umano e  storiografi appassionati,  erano  filosoficamente sprovveduti.[22]

IL GUSTO  ( LA SENSIBILITÀ’ PREVALENTE NEI RINASCIMENTALI).

 

Lo si può riassumere coi termini “Ottimismo| Serenità|  Sorriso”: dall’ottimismo della mente nasce la serenità del cuore, che si manifesta nel sorriso  del viso.

In contrapposizione alla medioevale   tristezza per la  “miseria”  della vita, il Rinascimento   ripone nell’uomo ogni fiducia, appellandosi alla sua dignità e grandezza, nobiltà e bellezza, attività e progresso. Non improvvisamente, ma gradualmente. Fino alla metà circa del secolo XV (lo abbiamo già visto) si trovano ancora umanisti che in proposito rimangono incerti,  con l’impressione tutta medioevale del fallimento complessivo della vita umana: da Bracciolini (De miseria condicionis humanae) a Leon B. Alberti (Intercoenales: dialoghi conviviali; e Momus: romanzo satirico sul principe) a Pio II (De  curialium miseriis). Ma, dopo la metà del secolo, il canto della vita e la celebrazione dell’uomo diventano una dimensione acquisita della cultura. Dal “Paradiso degli Alberti” alla Hypnerotomachia Poliphili è un susseguirsi di opere inneggianti al valore della persona umana, a stento inferiore a Dio.

La genesi di questo stato d’animo  non è univoca. [23]Intanto vi è la pace garantita in Italia dalla minaccia del pericolo turco in Jugoslavia:  accordo di Lodi  (1454) e Lega italica. In secondo luogo, va tenuto presente che i corifei dell’Umanesimo rinascimentale erano gente benestante: sono una élite di ecclesiastici  o di impiegati di alto livello presso signori (Milano e Napoli),presso liberi comuni (Firenze) o presso la curia romana, che conducono una vita agiata e possono dedicare tempo ai sogni letterari od alla ricerca storica. La sicurezza del vivere in lavori congeniali, gli onori che spesso derivavano loro assieme agli stipendi, il potere politico che qualche volta riusciva loro di influenzare (facilmente, anche, la vita libertina che il disorientamento religioso e morale della società  tollerava) permetteva loro di godere soddisfazioni concrete e sognarne di “progressive ed immancabili” per le future generazioni. La crescita economica dell’Italia nella seconda metà del Millequattrocento e il progresso tecnico che conduce alla invenzione della stampa (1455) ed alla scoperta dell’America (1492) sono anch’essi fattori di euforia e di autocelebrazione per le capacità imprevedibili dell’essere umano. Ma una radice di una tale aura di fiducia e di gaudio, per questi dominatori dell’opinione pubblica ( per mezzo della penna, prima e, poi, della stampa), fu certamente l’illusione di aver finalmente rinnovato l’età di Pericle e di Augusto. Giocava, in proposito, l’ancora imperfetta conoscenza di quelle epoche (che, per gli Ateniesi,  segnarono l’inizio della fine alla loro  epoca dorata, fatta esplodere dalla guerra del Peloponneso; e, per i Romani, significò un apice di pace-benessere-cultura-produzione poetica, che doveva durare  non più  del secolo a cavallo della nascita di Cristo), sicché la esaltazione di quelle società  ignorava la breve durata e la parabola discendente che le aveva seguite. Era, di nuovo, una storia incompleta e, a suo modo, acritica, rivissuta cioè  obliterando i parametri dei disordini  e guerre e sciagure e decadenza in cui tutto quello splendore  era ben presto precipitato. I filosofi platonici furono i più fiduciosi celebratori della umana fortuna. Marsilio Ficino giunge a pensare ad una magia che sottometta il cosmo all’uomo; Pico della Mirandola esalta gli uomini alla pari con gli angeli e li dice capaci di divenire una sola cosa con Dio. L. B. Alberti, nel  primo libro del Dialogo della famiglia, esalta la forza dell’amore sopra quella del timore nella educazione. Ben presto Baldesar Castiglione celebrerà programmaticamente i giovani sui vecchi nel Cortegiano (II, 1-3); affermerà possibile la attuazione della dottrina stoica che non tende tanto a dominare le passioni, ma addirittura a non sentirle più (IV, 17); connette a tal punto bellezza e bontà che i due concetti rischiano di confondersi (IV, 57-8) e l’amore naturale tende ad identificarsi con quello soprannaturale e, quindi, a rendere partecipi della Persona dello Spirito santo (IV, 70). E, mentre ripete come verità ovvie la dottrina dell’uomo microcosmo, copula dell’universo, ecc., si esprime come ignaro della colpa originale e della necessità della Grazia redentrice per giungere ad una vita di piena onestà. Difatti, come abbiamo visto, egli dice: “quello solo è vero filosofo morale che vuol esser buono: ed a ciò bisognano pochi altri precetti che tal volontà”. [24] Più impegnato a livello teologico è Jacopo Sadoleto che nel Commentarius in Pauli epistolam ad Romanos (1535) inclina ad una posizione  simile a quella di Erasmo (subpelagianesimo: sottovalutazione della colpa originale e complessiva sufficienza morale dell’uomo). Redarguito dal teologo  del papa (maestro dei sacro palazzo), egli scrisse un’Apologia (difesa) ma corresse, nella edizione dell’anno successivo, la sua posizione. Lutero aveva suonato la sveglia e questo cardinale e teologo umanista doveva, a fatica, mettersi in sintonia con la fede cattolica.[25]

Ci siam dovuti ripetere sulle premesse intellettuali del “sentimento” prevalente nel pieno rinascimento, perché i due fattori non sono separati: posta una ideologia ottimistica, ne nascerà una atmosfera lieta, un gusto, una sensibilità festosa, che tenderanno a produrre, poi, opere idilliche od epiche o scherzose (o “piacevoli” in senso anche deteriore) nel campo artistico o solamente culturale. Queste  opere si aggirano su temi di tutta consolazione e pace: dalle molte opere sulla famiglia e sull’educare i figli (dall’Alberti al Sadoleto); sulla “amicizia”, tema del “Certame coronario” tenutosi in Firenze , S. Maria del Fiore (22 ottobre 1441), auspice L. B. Alberti; sulla dignità dell’uomo; sulla formazione del gentiluomo nel Cortegiano o nel Galateo; sull’amore più o meno platonico; sull’armonia della bellezza femminile (Agnolo Firenzuola).Pretendono all’arte o la raggiungono i libri di novelle e commedie che tengono allegri, a costo di ritornare alla oscenità del Decameron: dal Momus e dagli Intercoenales dell’Alberti a Lorenzo de’ Medici (Giacoppo e Ginevra); dalle Novelle del Grasso legnaiuolo a Masuccio Salernitano, col suo Novellino; da Sabadino degli Arienti, con Le Porretane a Le piacevoli notti di G. F. Straparola; dalle rime scherzose -del Magnifico Lorenzo, del Poliziano, del Berni, del Folengo- ai romanzi in versi (il Morgante maggiore del Pulci, l’Orlando innamorato| e furioso; le Stanze di Poliziano) o misti di versi e prosa (Arcadia di Sannazaro); dagli scritti esplicitamente comici come il Liber facetiarum del Bracciolini (1438-52), le Facetiae   di Ludovico Carbone da Ferrara, i Motti e facezie del piovano Arlotto: edizione a Firenze verso il 1514) alle commedie del Bibbiena, dell’Ariosto, dell’Aretino... E la pittura, scultura, architettura facevano bordone con le statue di Donatello, le costruzioni di Bramante, le Stanze di Raffaello...

Decisamente, bisogna riconoscere che la “giocondità” era  una componente congeniale al Rinascimento. Solo che questi uomini giocondi, questa “élite intellettuale” di sognatori non previde ne si accorse che l’Italia  stava per essere travolta in un quarantennio di guerre, il cui risultato sarebbe stata la soggezione a potenze straniere per più di tre secoli; e non intuì che, in base alla legge dell’azione e reazione, presto o tardi  tale sconsiderata e sregolata allegria avrebbe sollevato una furia di rivolte spirituali, da quella di Lutero che ruppe l’unità dell’Europa ed aprì la strada a nuove guerre religiosamente motivate, a quella di Machiavelli che, cadendo nell’estremo opposto di un pessimismo tragico, vedeva nelle masse soltanto un volgo bestiale, da trattare conseguentemente senza scrupoli morali, pur di rimettere quell’ordine e disciplina, che la religione aveva assicurato fino al 1300 nella società europea, ma che, incrinatosi quel pilastro, solo la tirannia di un principe spietato poteva, almeno provvisoriamente, trattenere sull’orlo della anarchia. Non si accorse che, obliata le fede nella colpa originale, si apriva la via alla illusione di una felicità senza fine “ici et maintenant” (già qui in terra, qui e adesso), ma anche, necessariamente, alla realtà del caos morale e sociale: era davvero la nave dei folli che, tessendo l’elogio della pazzia, navigava verso il paese di Utopia, ignorando la cateratta che li attendeva a metà  percorso. Sembra la brutta copia dell’avventura affine   nel Settecento illuminista: dalla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità agli orrori della rivoluzione francese.

 

            LO STILE (LA TECNICA ESPRESSIVA) DEL RINASCIMENTO

 

E’ o si propone di essere  CLASSICO Uno stile classico è quello misurato sull’esempio di “auctoritates”, sulla  imitazione di modelli, considerati perfetti e, perciò, paradigmatici. Dapprima  la ricerca di un “exemplar” obbligatorio avviene per la lingua latina: finirà per trionfare Cicerone, nella interpretazione di Quintiliano, come regola per la prosa classica. Segue poi la ricerca di un canone per la classicità del “toscano”, una volta che questo si è imposto come lingua anche scritta per  gran parte d’Italia. Perché da lingua “volgare” (popolare, rozza) possa essere considerata “classica”, occorrono modelli di opere, sentite come “migliori, di classe superiore” a quella plebea:  fu il Bembo ad additare Petrarca come modello insuperato di poesia e Boccaccio come esemplare per la prosa. Dante, per la generazione rinascimentale del Bembo era,  come contenuto di pensiero, troppo   elevato;  come forma musicale, troppo urtante. Già, il Rinascimento platonico e giocondo, non era proprio all’altezza dell’autore della Commedia, aristotelica ed anche verista.

            Così, la prosa rimane legata ad una impostazione latineggiante, con periodi lunghi e contorti, che si va liberando, però, da anacoluti e disarmonie sintattiche. Poco a poco, lo studio degli autori latini e greci viene subordinato allo scrivere “classico” toscano: “E’ necessario esser latino chi vuol esser buon toscano” (C. Landino, Miscellanea di cose inedite o rare..., Firenze, 1853, p. 28). Lo studio del greco per  completare la conoscenza del latino e questo in funzione del bello scrivere e parlare il toscano: Bembo si fa banditore di questo ideale di classicità volgare, con tanto più di autorità, in quanto è un veneziano che privilegia il dialetto di Firenze.

            A parte l’exploit di Matteo Palmieri che, con il trattato Della vita civile (1433, anche se pubblicato solo postumo nel 1529), precede di pochi anni la riabilitazione fra i dotti dell’uso del volgare, è il “Certame coronario” del 1441 che segna il giro di boa nella gara fra lingua latina e dialetto toscano. Lanciato da L. B. Alberti e Piero de’ Medici per ridare la coscienza della capacità del toscano a trattare temi elevati, ebbe come argomento “La vera amicizia” e come premio una corona di  foglie di lauro in argento. Ci fu in S. Maria del Fiore, quel 22 ottobre, un buon numero di partecipanti, ma nessun premiato: i dieci segretari apostolici, che componevano la giuria, non ritennero nessun componimento degno della corona. Benché l’Alberti ne rimanesse amareggiato, tuttavia l’effetto fu ottenuto: a poco a poco la produzione di scritture letterarie in lingua fiorentina prende il sopravvento su quelle in latino.

Altro momento importante per il trionfo del fiorentino come lingua della penisola può essere considerato l’invio (1476-7) della “Raccolta aragonese” da parte di Lorenzo de’ Medici a Federico d’Aragona: con tale atto, una vastissima antologia  (messa assieme dal Poliziano, a quanto pare) dei lirici volgari dal Milleduecento al Millequattrocento veniva ad assumere particolare diffusione in un’area a rischio, perché meno disponibile ad accogliere, come propria, una lingua così lontana dal parlare vulgato tra il popolo.

Se dal puro affermarsi del toscano come lingua nazionale, passiamo alla sua evoluzione nel senso della logicità sintattica ed uniformità di scrittura e pronuncia, allora evento fondamentale per la accelerazione del processo regolarizzatore ed uniformato è la invenzione della stampa, che in Italia trova a Venezia il centro più efficiente di operatività. La stampa segue la via più commerciabile: la edizione tipica di 200 copie deve garantire la vendita e , per trovare un mercato di lettori adeguato a simile  produzione standard, deve adattarsi alla lingua toscana, l’unica che possa fornire un simile numero di lettori. Il processo del toscano nell’elevarsi a lingua nazionale, per altro già ben delineato, subisce un’accelerazione per le leggi economiche messe in atto dal nuovo strumento tecnico per l’edizione del libro. Gli altri linguaggi regionali si abbassano sempre più a dialetti locali, mentre il dialetto fiorentino si innalza sempre più a lingua  italiana. Che la varia  dialettalità meridionale  si stia ormai adeguando, è segnalato con certezza da Jacopo Sannazaro che, membro dell’accademia pontaniana e gentiluomo di corte con Federico III d’Aragona (ma la famiglia aveva radici lombarde) scrive l’Arcadia, in tutto subordinata ai due dioscuri, Petrarca e Boccaccio, romanzo allegorico misto di prose e versi, rielaborandolo dal 1480 fino alla seconda edizione del 1504. Il successo di quest’opera in Italia (66 edizioni nel Millecinquecento!) ed all’estero fu tale da divenire punto di riferimento per la letteratura nazionale, che non era più, dunque, un puro fatto tosco-settentrionale. La Padania, intanto, si sprovincializzava essa stessa e l’ultimo poeta con risvolti emiliani è il Boiardo alla fine del XV secolo: l’Ariosto è invece, all’inizio del secolo XVI, il segno del definitivo trionfo del toscano anche a Ferrara e nell’Altitalia.

            Ma l’affiatamento col latino classico non lascia di segnare il suo influsso benefico: Il dittongo “au”, mal digerito dalla sensibilità musicale toscana, finisce per imporsi: le voci “arora, altore” diventano definitivamente “aurora, autore”, mentre van scomparendo  altri ipertoscanismi (rispuose, triema...). L’accento si modella su quello latino,  in artéria ed àureo (prima oscillanti con “arterìa|auréo”); il “che”, pronome o congiunzione, ritorna ad essere sentito come necessario e perciò da esprimersi obbligatoriamente, mentre si stava introducendo (come riuscì nella lingua inglese) una certa moda a sottintenderlo. La terminologia artistico-architettonica è derivata dal latino e dal greco attraverso le compilazioni dell’Alberti (Della pittura| Della statua) e del Filarete[26] (Trattato di architettura: anche l’Alberti aveva scritto sull’architettura, ma in latino: De re aedificatoria). Tutto questo travaglio sfocerà nella purezza linguistica di Poliziano ed Ariosto, poeti; e di Guicciardini e Machiavelli, prosatori. Chi volesse  conoscere  le parole nuove introdotte dal latino in lingua toscana nel secolo XV, veda il capitolo settimo della “Storia della lingua italiana” di Bruno Migliorini (ed. Sansoni, Firenze): da “aggetto ed amaranto” fino a “vivido e vitreo”).

 

IL COSTUME (LA VITA PRATICA E MORALE DEL MILLEQUATTROCENTO)

 

             Sul piano militare, il secolo XV pare proprio divisibile a metà, per quanto riguarda le  incisive “cause” militari rispetto all’evolversi (anche)  dei fattori culturali ed artistici, ma soprattutto morali e religiosi. La prima metà vede la Chiesa assorbita   dalle vertenze per la chiusura dello scisma d’Occidente (concili di Costanza: 1417-8; concilio di Basilea-Ferrara-Firenze: 1431-1449); l’Europa, turbata dalla seconda parte della guerra dei cento anni tra Inghilterra e Francia (1328-1453) e dalle lotte intestine fra le potenze delle varie signorie regionali italiane, soprattutto tra Venezia-Milano-Firenze per il primato a Nord, mentre all’est premono i  Turchi ottomani, fino ad invadere gran parte della Jugoslavia. Più in particolare, Milano  è sconvolta  dopo la cessazione della linea maschile dei Visconti (1447) e sino alla vittoria della dinastia degli Sforza, con Francesco capitano di ventura e sposo della figlia di Filippo M. Visconti (1450); Napoli è  impacciata dalle lotte tra eredi  angioini-durazzeschi e pretendenti aragonesi, sino all’imporsi, nel 1442, di Alfonso d’Aragona.  La seconda metà del secolo vede invece l’Europa favorita da decenni di relativa pace, dopo che la caduta di Costantinopoli in mano a Maometto II (1453) ha gettato lo sgomento nella cristianità europea e, in particolare, ha fatto convenire nella pace di Lodi (1454) gli stati regionali italiani tutti. Firenze si rassegna, dunque, a lasciar Siena e Lucca indipendenti; Milano rinuncia alla corsa per il primato in Alta Italia contro Venezia e Firenze; Venezia è proiettata verso la difese delle isole egee e delle coste dalmate; in Napoli si stabiliscono gli Aragonesi nel 1442, mentre il papato non è più combattuto da scismi ed eresie, organizzate anche politicamente. Le cinque potenze principali (Milano, Venezia, Firenze, papato e Napoli) si uniscono, anzi, in una lega antiturca ed antifrancese (1455) con un esercito collettivo.

La Francia si raccoglie in una opera di ricostruzione che, alla fin del secolo, la vedrà dotata del parco maggiore d’artiglieria in Europa; l’Inghilterra vede consolidato il potere del re, dopo la falcidia della nobiltà nella guerra delle “Due rose” (1455-85), seguita alla sconfitta  nel conflitto dei Cento anni contro la Francia; l’Italia rimane divisa, ma progredisce commercialmente e culturalmente, ottenendo il primato in Europa per l’ultima volta nella sua storia.

Non che mancassero, in Italia, guerre locali (basti pensare che gli eserciti erano quelli mercenari: dove si attendavano, stabilivano automaticamente un ambiente di prepotenze e di bottino sulle popolazioni circostanti...): ma si trattò sempre di fatti marginali. Così Venezia occupò il Polesine a danno degli estensi (1484); e Cipro, a danno di Genova (1489): ma non le riuscì di scacciare Piero de’ Medici da Firenze, sconfitta ad Imola nel 1468. Napoli fu messa sottosopra dalla congiura dei baroni (1485), ma l’intervento di papa Innocenzo VIII portò ad una rappacificazione almeno apparente e dette modo, poi, a Ferrante d’Aragona di punirne con la morte alcuni e di costringerne altri all’esilio. Lo stato meno quieto era quello papale: sia perché meno fornito di soldati ( e, quindi, alla mercé della buona volontà dei vicini, che non impedivano però le scorrerie nel territorio vaticano delle compagnie di ventura); sia perché suddiviso da principotti locali (Estensi a Ferrara, Bentivoglio a Bologna, Malatesta a Rimini, Montefeltro ad Urbino...); sia per la politica nepotistica od imprudente di alcuni papi (Sisto IV si inimica con gli Estensi per favorire il nipote Girolamo Riario; fa guerra ai Medici per favorire le famiglie dei Palla e dei Salviati, che  avevano ordito la congiura del 1478 (in cui morì Giuliano e fu ferito Lorenzo: il popolo insorto a favore dei Medici, uccide il Salviati, mentre la signoria di Firenze tiene prigioniero il nipote del papa, cardinale Girolamo Riario, complice nella congiura);  rompe con l’Aragonese che, invocato contro Lorenzo de’ Medici, si lascia invece da questi convincere a cessare ogni ostilità ed a  rafforzare ulteriormente l’alleanza italica.

Ma tutte queste sono piccole galanterie, rispetto alla prima metà del secolo,  quando Venezia e Milano erano ai ferri corti per la supremazia in Padania, mentre Firenze era spesso coinvolta per equilibrare le parti e tener lontana una unità politica nell’Italia settentrionale; quando il papato era straziato dallo scisma d’Occidente e il regno di Napoli era conteso fra Angioini e Durazzeschi (prima), fra Angioini ed Aragonesi (poi), fino al 1442 (entrata di Alfonso d’Aragona in Napoli).

 

Sul piano politico-sociale, sottolineiamo due fatti emergenti.  Col 1434 anche Firenze si regge a “signoria” con Cosimo de’ Medici, arbitro ormai della situazione. Come già fecero Cesare e gli imperatori a Roma, le cariche tradizionali (gli otto priori ed il gonfaloniere di giustizia) vengono mantenute, ma la designazione dei candidati è a sua discrezione. Divenuto “ducato” (1530) e “granducato” (1569), anche la Toscana si trova ad aver percorso il cammino comune al resto delle città d’Italia: da comune libero a dominio personale di una famiglia, a potenza politica ufficialmente riconosciuta nell’ambito del sopravvivente Sacro romano impero.[27]  Questa situazione (la signoria od il principato) crea una  condizione di vantaggio per i letterati: il mecenatismo.  Lo scrittore, il poeta diventano dipendenti ed alleati del potere civile. Occorrerà attendere Vittorio Alfieri nel Millesettecento e, poi, il fenomeno del Romanticismo per sciogliere tale legame, che per altro darà modo alle muse di Ariosto e Berni, di Tasso e di Metastasio di dedicarsi alla poesia a tempo pieno,  con tranquillità e successo.

L’altro fatto è la indubbia crescita economico-sociale dell’Italia nella seconda metà del secolo, specie dopo la pace di Lodi. E’ una vera “belle époque” anticipata (s’intende: solo per una ristretta élite, che era però quella che pagava gli scrittori col mecenatismo).Venezia non ha perso del tutto i commerci con l’Oriente, armeggiando a stabilire rappacificazioni e trattati col vicino impero turco,  guerrafondaio ma pur bisognoso di prodotti che, pel momento, solo la flotta  cristiana può procurare. E poi ha ancora in mano le forniture all’Europa centrale e la Germania è un mercato redditizio. Milano e Firenze, non più dissanguate dalle guerre, sono grandi centri industriali e finanziari, mentre Genova, politicamente bisognosa di protezione (dopo la sconfitta contro Venezia, e la pace del 1381, si affidò di volta in volta ai Francesi, al marchese di Monferrato, alla Milano dei Visconti e degli Sforza, per finire, con Andrea Doria nel 1528, sotto la protezione spagnola), fioriva però nei commerci. Solo l’Italia meridionale stagnava in una miseria insolubile, per mancanza di iniziative a sfruttare le sue risorse, anche perché la esosità dei baroni non fu mai eliminata dal potere centrale angioino od aragonese.

Alla fine del secolo XV due  decisivi avvenimenti internazionali toglieranno il primato commerciale del Mediterraneo   e la libertà politica all’Italia: quello, definitivamente; questa, per lunghi secoli. La scoperta dell’America (1492) tolse alle potenze marinare italiane ogni possibilità di concorrenza sulle nuove rotte della espansione commerciale; l’aggiramento del Capo di Buona Speranza (1498), aprendo una via nuova per l’India, tolse a Venezia il monopolio nel commercio con l’Oriente estremo. Ma gli effetti non si fecero sentire immediatamente e l’Italia poté     conservare ricchezze ed illusioni, euforia ed ottimismo per oltre un secolo. La discesa di Carlo VIII in Italia (1494) e le successive contese tra Francia e Impero, fino al 1535 (morte di Francesco II Sforza e devoluzione del Milanese agli Asburgo) non guastarono subito la festa rinascimentale: erano troppo distratti per accorgersi di quanto stava accadendo, anche a causa della loro disorientata concezione dell’uomo. Ci vollero l’occupazione del Napoletano nel 1500 da parte degli Spagnoli, la sconfitta di Venezia nella guerra santa (1508-12), la rivolta di Lutero (1517), il sacco di Roma  (1527) e la stretta del Concilio di Trento (1545-63) per  scuotere l’orgogliosa fiducia nella  grandezza divina dell’uomo e la sicurezza della felicità nella condizione umana sulla terra. Gli è che i letterati vedevano chiudersi, una dopo l’altra, le fonti dei loro stipendi, sparire od impoverirsi le borse dei loro sponsorizzatori: Alfonso d’Aragona muore nel 1458; Federico da Montefeltro nel 1482; Venezia è tagliata fuori dal mecenatismo dalla guerra della Lega santa nel 1511-2;  il papato è dapprima impoverito dal sacco di Roma nel 1527 e, poi, immerso nei problemi della Riforma tridentina.

 

Sul piano religioso. Si presenta anche a questo livello la dicotomia caratteristica del secolo XV. Dapprima una cristianità travagliata dallo scisma d’Occidente, che cessa solo nel 1449, con il ritiro in convento dell’antipapa Felice V (era iniziato nel 1379, sia pure con la parentesi, dopo il concilio di Costanza, del pontificato di papa Mertino V, dal 417 al 1431). Con l’anno santo del 1450 ed il papato di Niccolò V (Parentucelli: 1447-55), di Callisto III (Borgia: 1455-8), di Pio II (Piccolomini: 1458-64), Paolo II ( il veneziano Pietro Barbo: 1464-1471), Sisto IV (Della Rovere: 1471-84), Innocenzo VIII (il genovese G. B. Cybo: 1484-92), la Chiesa parve avviarsi a tempi più serenissima solo sul piano politico: ridimensionata a potenza italiana, come tale era accettata e perciò- a livello militare e politico- avrà davanti a sé secoli di declino graduale e, tutto sommato, abbastanza pacifico: ma inesorabile. Ma i problemi di fondo –formazione del clero, scelta dei vescovi, acculturazione dei fedeli- non vengono  ancora affrontati. E’ vero: c’è qualche problema pesante che al momento sembra più urgente: fermare i Musulmani nella penisola balcanica (si aggiungerà, poi, quello delle loro scorrerie nel Mediterraneo). Ma  nobiltà e clero ce ne aggiungono altri, del tutto impertinenti. I primi non vogliono recedere dalla interferenza nella elezione dei vescovi (e non solo al di là delle Alpi: si pensi al rifiuto dei Medici ad accettare un  Salviati a vescovo di Pisa nel 1478, onde nacque la congiura de’ Pazzi)  e dall’accaparrare i vescovadi più ricchi per i propri cadetti (quello di Milano diviene una specie di feudo della famiglia Estense di Ferrara). Il clero non osserva sempre la residenza ed il celibato; i papi si permettono il nepotismo più sfacciato, ritagliando feudi per i parenti nei territori della Chiesa. Pio II riedifica Corsignano, sua patria natale, come città, col nome di Pienza e riempie la curia romana di concittadini senesi. Callisto III fa cardinale il nipote Rodrigo, futuro Alessandro VI (e basti il nome!). Sisto IV fa altrettanto e prepara il papato a Giulio II (Della Rovere anche lui). Innocenzo VIII pensava a sistemare i due figli naturali con matrimoni principeschi, mentre arte e immoralità si davano la mano in Vaticano, con spese che inducevano poi a vendere i vescovadi anche ad indegni, pur di avere i soldi per il fasto e le costruzioni: non esente dal sospetto di aver comprato la elezione papale, concederà il cardinalato a Giovanni de’ Medici, per riconoscenza al Magnifico Lorenzo che l’aveva sovvenuto finanziariamente. E il peggio deve ancora venire, con Alessandro VI Borgia.[28] Non che manchino santi nella Chiesa e bravi papi od ecclesiastici fedeli e, anzi, severi. A Martino V si  potrebbe rimproverare un certo favore al suo casato, i Colonna: ma ne aveva assolutamente bisogno per tenere in pugno la città e lo stato pontificio che, dopo Avignone, era diventato di ben difficile governo. Eugenio IV fu pontefice esemplare, anche se poco abile nei rapporti politico-sociali, con la popolazione di Roma e coi potenti del suo tempo. Niccolò V fu bensì umanista ma, cresciuto alla scuola del cardinal Nicola Albergati, fu ecclesiastico del tutto degno. Pio II non fu certo esemplare in giovinezza ma, riconosciute le intemperanze morali e gli errori disciplinari, fu papa integro. Paolo II (cardinale “nipote” di Eugenio IV) fu tanto scrupoloso che vide negli umanisti (quelli che egli conosceva, anche se non tutti) degli uomini pericolosi all’educazione dei giovani e sfrondò la curia di parecchi di loro, attirandosene l’odio. Quanto a santi, ve ne sono –di famosi- più che nel Milletrecento (anche se i “beati” sono molto meno): S. Bernardino da Siena (1380-1444), S. Lorenzo Giustiniani (patriarca di Venezia: 1381-1455), S. Rita da Cascia (1381-1357), S. Francesca Romana (1384-1440), S. Antonino, vescovo di Firenze (1389-1459), S. Francesco da Paola (1416-1507), S. Caterina da Genova (1447-1510)...

Sul piano morale. Come potevano questi santi influenzare adeguatamente la vita sociale, quando S. Bernardino era espulso dal ducato di Milano, perché parlava “chiarozzo chiarozzo” anche contro il duca; quando Girolamo Savonarola, giovane ventiduenne, scappava da Ferrara e andava a chiudersi  nel convento domenicano di Bologna, perché (col nonno e con il padre al servizio di corte) conosceva il libertinaggio di buffoni scurrili e di prostitute numerose che caratterizzava la vita del duca Borso d’Este, cui il popolo assentiva giocondamente, dimentico delle prediche di S. Bernardino, fino a dichiarare “un dio” il proprio signore, alla sua morte nel 1471? Come non pensare ad uno scadimento dei valori etici, quando Ludovico Ariosto (verso il 1530), volendo iniziare il figlio Virginio alla cultura, deve raccomandare al Bembo di scegliere per lui un umanista non omosessuale, costretto come è a costatare che “pochi sono i grammatici umanisti| senza il vizio per cui Deus Sabaòt| fece Gomorra e i suoi vicini tristi”? (Satira sesta). Nella satira quinta, lo stesso Ariosto   parla contro la nuova moda di educare le ragazze più “in canto e suono” che “al fuso  (ed) all’ago”. E sì che non era uno stinco di santo neppure lui: era il solito tonsurato, cioè chierico, votato al celibato per interesse, ma non alla castità per il regno di Dio. Però in Dio ci credeva e protestava contro l’eresia di Lutero e l’averroismo di Nicoletta Vernia, collega del Pomponazzi[29] a Padova, condannato anche dal vescovo locale. Gli esempi di Vittorino Rambaldoni da Feltre e di Guarino Veronese, educatori sostanzialmente cristiani, impallidiscono nel contesto denunciato dall’Ariosto: sono eccezioni in un pelago di fango. E, a parte costoro, cui vanno aggiunti Coluccio Salutati, Giannozzo Manetti e Pico della Mirandola, è difficile trovare umanisti rinascimentali coerenti nella vita pratica al Vangelo, specie tra i laici. (che comprendono anche i “tonsurati per convenienza”, ma non destinati a diventare preti: da Petrarca e Boccaccio al Bracciolini  ed Ariosto...). Niccolò Niccoli ha in Bartolomea una governante che tutti sanno (o almeno sospettano) sia la amante. Poggio Bracciolini ha lettere compiaciute sul nudismo dei bagni di Baden (dove si è recato al tempo del Concilio di Basilea) e barzellette oscene nel Liber facetiarum; si sposerà vecchio con una donna molto più giovane di lui (con queste premesse, non c’è poi da meravigliarsi che si scagli addosso ai frati nel Contra Hypocritas...). Aveva avuto tre figli naturali e ad un cardinale che gli rimproverava di aver donna e figli pur essendo chierico (per poter percepire quelle benedette rendite ecclesiastiche!), egli cinicamente rispose “Potrei rispondervi che ho figli come si conviene a un laico e non ho moglie come è costume clericale fin dal principio del mondo”! Al Filelfo non rimprovereremo di aver avuto tre mogli regolari e due dozzine di figli, ma il fatto che alcuni di questi erano extramatrimoniali, figli naturali.  Il Valla non pare si accontentasse di legare equivocamente assieme cristianesimo ed epicureismo, visto che il Bracciolini gli rinfaccia colpe turpi oltre alle eresie. E peggio si deve dire di Giovanni Pontano (Hendecasyllaborum seu Baiarum libri) e Antonio Beccadelli, detto il Panormita (nell’Hermaphroditus celebra anche l’omosessualità...).D’altronde lo stesso futuro Pio II scrisse una novella in prosa (De duobus amantibus) e una commedia in versi (Chrisis) licenziose. Peccatori sessuali ce ne furono sempre, anche fra i cristiani ed il clero: ma questa nuova generazione  giustifica teoricamente le sregolatezze della condotta immorale. E la scostumatezza sessuale è solo la punta dell’iceberg: vi è tutta una astiosità, un abito polemico, una invidia, un diffamarsi a vicenda, una meschina ambizione, che rende squallidi troppi umanisti (ambiguamente laici) del Millequattrocento. Lingua mordace fu il Bracciolini, che ebbe polemiche col Filelfo, col Valla, col Guarino. Quest’ultimo fuggì da Firenze, sgomento per l’ambiente disumano esistente nei rapporti fra molti dotti umanisti: le invettive si sprecano e sono quanto mai maligne. Ecco le sue parole: “Io chiamo a testimomio Iddio e i suoi santi, che nel tempo che fui a Firenze non sorse giorno in cui non fossi tormentato da brighe, da insulti, da litigi”; e ancora: “Ma queste non sono amicizie, queste sono cospirazioni!”. Benché scritte in latino, le accuse e insolenze del Bracciolini, del Bruni, del Niccoli, del Valla, del Filelfo, del Panormita, di Pier Candido Decembrio e di Bartolomeo Fazio toglievano più che il tinto: laceravano la pelle!

E ci sono deviazioni morali che danno nel grottesco. Gli umanisti giungevano a credersi creatori (e non solo divulgatori) di fama, autorizzati, perciò, a mentire. Esplicito (lo si è visto in nota) il pensiero di Teodoro Gaza, secondo il quale le lodi spettavano di diritto ai prìncipi, come i premi e gli elogi spettavano ai dotti, i quali potevano inzaccherare di contumelie i prìncipi avari, che non li pagassero. Questa teoria, clamorosamente contraria ad ogni moralità, divenne principio di vita per qualche umanista, che si riduceva così ad accattone, intento a procacciarsi danaro, onori e privilegi attraverso una penna nemica della verità, intinta solo nel proprio egoistico tornaconto. Più che il Gaza, in proposito è famoso il Filelfo (padre), che si schierò contro i Medici ed in favore degli Albizzi, perché quelli appoggiavano il Marsuppini,[30] suo concorrente alla cattedra di greco e latino nello Studio fiorentino. Allontanatosi da Firenze nel 1434, per il rientro di Cosimo, si portò a Siena, rifiutando ogni riconciliazione, unicamente perché attratto dalle offerte dello Studio di Bologna, dapprima; dei Visconti a Milano, poi. Per non lasciarsi sfuggire l’invito milanese, neppure terminò le lezioni convenute con il comune di Bologna. E mentre scriveva un’opera contro i Medici, nel tempo che gli Albizzi tentavano con l’aiuto dei Visconti di rientrare in Firenze, essendo state le truppe viscontee sconfitte ad Anghiari (1440) da quelle fiorentine, eccolo interrompere lo scritto ingiurioso per stendere una lettera di consiglio e di preghiera a Cosimo... Finirà per farsi richiamare nella sognata Firenze dal nipote Lorenzo il Magnifico, nel 1481, giusto in tempo per morire nell’ambiente tanto bramato dal cuore, quanto disprezzato nelle parole e scritture. L’incidente con Firenze dovette renderlo più prudente nella crisi di passaggio tra i Visconti e gli Sforza a Milano: qui fu il suo concorrente P. C. Decembrio a compromettersi con la Repubblica ambrosiana, sicché dovette sgombrare all’avvento di Francesco Sforza nel 1450, lasciando il campo libero al Filelfo. Ed eccolo a scrivere il poema “Sphortias” (Sforziade) ed a mendicar denaro per vivere nel lusso abituale e sistemare i non pochi figli e figlie. Il mezzo? Le lodi promesse ai signori cui chiedeva con la impudenza dell’accattone e la sicumera del creditore! Ma dovette rimettersi sul mercato universitario e trovò pietosa accoglienza presso lo Studio romano sotto Sisto IV. Morto assassinato Galeazzo Maria Sforza nel 1476, rieccolo a Milano, ma sospirando Firenze, dove, tolto il bando, potrà ritornare per morirvi. Se si fosse trattato di manovre imposte da condizioni estranee al suo capriccio (ce n’erano anche di queste: la numerosa famiglia era pur sempre un problema oggettivo e gli stipendi sforzeschi non arrivavano così puntuali come quelli viscontei!), ci sarebbe solo motivo di commiserazione: non era altro che la  situazione descritta da Enea Silvio Piccolomini come la “miseria dei curiali”. Torna qui a proposito ricordare che lo stesso Teodoro Gaza dovette vendere i suoi libri per campare; e morì in miseria... Ma è invece l’alterigia con cui disprezza, quando non ha bisogno; è la viltà con cui elemosina, quando è in difficoltà, da quelli che fino al giorno prima ha disonorato; è l’invidia che lo oppone ai concorrenti umanisti; è la violenza da cui non arretra per condurre le lotte professionali (subì, ma anche mise in campo vendicatori e pugnalate); è la supponenza con cui crede di essere superiore  a Virgilio e Cicerone, perchè non sapevano scrivere in greco come lui poteva fare; è la insolenza con cui aggredisce il morto Pio II,  reo di non averlo beneficato (il successore, Paolo II, lo fa mettere in prigione), salvo a strisciare elogi allo stesso pontefice, quando si presenta la occasione di sfruttare la magnanima generosità del nipote, il cardinal Piccolomini...: è un insieme di atteggiamenti che sconcertano e danno un saggio anticipato di quella che sarà la professione del ricattatore in Pietro Aretino, che camperà tutta la sua vita elogiando i “generosi” e oltraggiando gli “avari”. Sarà il frutto del Rinascimento giunto alla ultramaturazione autunnale, prima di scomparire. Il guaio è che una simile possibilità di guadagni non denuncia solo  colpe personali, ma uno stato di disordine in tutta la società. Un simile stile di comportamento implica l’esistenza di una serie di personalià “ricattabili”, perchè sprofondate nel fango; ed implica potenze politiche disposte a proteggerti ad ogni costo contro querele per diffamazione e calunnia. E’ tale dimensione sociale che fa dell’accattonaggio umanista un brutto segno dei tempi. Il Gaza ed il Filelfo (e poi l’Aretino) sono solo punti nodali dell’arcipelago “corruzione rinascimentale”, dilagante per il declino della  energia di contenimento civile nello Stato e della forza di persuasione e dissuasione  morale nella Chiesa. Gli esempi si possono moltiplicare. Giovanni Pontano (ne parleremo fra non molto) passa dagli Aragonesi benefattori ai Francesi invasori nel 1494 e, poi, rimane a disposizione degli Aragonesi, rientrati ma così indeboliti che non riescono neppure a punirlo. Già, rimaner fedeli! Sembra, nel Rinascimento, di assistere alla materializzazione  del ragionamento di  Guntigi nel famoso soliloquio dell’Adelchi (Atto, 4, sc. 3: “Fedeltà?.. Fedeltà!...”), in cui decide di tradire il suo re Desiderio. I baroni si ribellano a Ferdinando I (Ferrante) di Napoli; questi, mediatore Lorenzo il Magnifico,  promette il perdono, ma solo per ucciderne o imprigionarne a vita i colpevoli. Il povero umanista Cicco Simonetta, per troppa fedeltà al legittimo G. Galeazzo Maria Sforza, verrà decapitato da Ludovico il Moro (1480), quando gli riuscì di soppiantarlo nel ducato milanese. E questa vicenda comprende anche  la piaga più feroce dei secoli XIV e XV: quella degli eserciti di ventura. Non tanto la loro esistenza ( i vari stati dovevano pur difendersi e, per un signore, dare il vantaggio al popolo dell’esenzione dal servizio militare rappresentava pur sempre un gran pilastro del proprio potere), quanto la loro origine ed il loro   comportamento sono una infamia per quei secoli. Non erano “volontari” della  nazione: non avevano, quindi, alcun legame ideale con il territorio ed il popolo da difendere: unica motivazione era la paga e il bottino. La loro stessa esistenza, perciò, era una anomalia morale: rischiavano la vita per una manciata di soldi e, per aumentarne il valore, si prendevano il diritto di saccheggiare le città conquistate. Era una vita di cinismo, sorgente di ogni scelleratezza. Dice bene il Manzoni di un tale soldato: “e venduto ad un duce venduto,| con lui pugna e non chiede il perché”. Non era così escluso il tradimento, cioè il passaggio al nemico, per danaro. Fu questo il caso del Carmagnola? Lo nega Manzoni nella tragedia omonima; ma lo credette il senato veneziano, che operò in conseguenza. Gli effetti più crudeli di un tale stato di cose li dovette subire Milano, alla morte di Filippo Maria Visconti, nel 1447. Francesco Sforza, capitano avveduto e intraprendente, si fa beffe dell’ “aurea repubblica ambrosiana”, cioè del libero comune ricostituitosi in tali circostanze e, chiamato a servire la libertà della istituzione, si allea coi Veneziani nemici giurati di Milano, marcia sulla città e la prende per fame (1450).

D’altronde Jacob Burckhardt ( Die Kultur der Renaissance in Italien, 1860)[31] informa, per quei secoli, di opere empie, libertine ed assassine. Si può cominciare dai figli naturali nelle casate principesche: si dubita che il grande, celebrato Federico, duca di Urbino, fosse un Montefeltro; ed è certo che illegittimo  fosse Ferrante, il successore di Alfonso d’Aragona a Napoli (col nome di Ferdinando I). E si può continuare con le uccisioni di prìncipi eseguite in chiesa: ci pare questo il colmo della disinibizione morale. Non si ha notizia di simili fatti presso i pagani. La congiura dei Pazzi che vede assassinato Giuliano de’Medici e ferito Lorenzo, non è l’unico caso. Galeazzo Maria Sforza fu ucciso durante funzioni religiose due ani prima, a Milano, nel 1476. La morte di Gian Galeazzo Sforza nel 1494 pare segnata dall’intervento dello zio Ludovico il Moro, che si aprì la via alla successione al ducato. Congiure (sia pure non coinvolgenti la pratica religiosa) si avranno anche nel secolo XVI. Sicuramente due altre congiure furono tramate contro i Medici: quella del 1513, fallita, e  quella del 1537, riuscita (Lorenzino uccide il cugino Alessandro). Questi delitti preparano o accompagnano la condotta spietata di Cesare Borgia, a cavallo tra i due secoli: a sua volta egli darà spunti alla teorizzazione del Machiavelli del fine che giustifica i mezzi. I modelli di colui che governa diventano, coerentemente, due animali: la “golpe” e il “lione.”

Così, l’allegra disinvoltura, lo scettico carnevale di Lorenzo e dei “compagnacci” si tramuteranno nella vita viziosa e violenta di Benvenuto Cellini (1500-1571), che vive ed è onorato da pontefici, imperatori e re, nonostante la rionsciuta omosessualità e due omicidi sulla coscienza, mentre Pietro Aretino (1492-1556) traduce in stampe di ricatti la licenza (concessa così magnanimamente ai dotti dal Gaza) di lodare o diffamare i grandi, a seconda della generosità od avarizia nei  loro riguardi. Le strofe goderecce dei canti carnascialeschi  possono ben sembrare  giustificabili: l’invito a godere l’attimo che fugge (il “carpe diem”, cioè “afferra l’attimo” del pagano Orazio) è una specie di rivalsa contro  l’inesorabilità del tempo che fugge; ha il sapore amaro, in fondo, della sua effimera fragilità.

                        “Ciascun apra ben gli orecchi,

                        di doman nessun si paschi;

                        oggi siam, giovani e vecchi,

                        lieti ognun, femmine e maschi;

                        ogni triste pensier caschi:

                        facciam festa tuttavia.

                        Ciascun suoni, balli e canti!

                        Arda di dolcezza il core!

                        Non fatica, non dolore!

                        Ciò ch’ha a essere, convien sia:

                        di doman non c’è certezza...”

 In realtà sono solo compassionabili: non è chiudendo gli occhi, non è “di-vertendosi” (cioè “allontanandosi dalla realtà, volgendo lo sguardo altrove per non vedere il danno più o meno imminente”) che si affronta la vita e la si rende sopportabile, serena, persino gioiosa. Così, dopo un paio di generazioni di ebbrezze metafisiche (platonizzanti) di ottimismo antropologico (inebriante) e di volontà di potenza (insolente),si giungerà all’inizio della fine per la libertà italiana, con almeno trent’anni di guerre devastatrici, con il sacco di Roma, l’insorgenza di Lutero, la disperazione di Machiavelli, il richiamo all’ordine del Concilio di Trento. Era tempo, chè altrimenti l’anarchia avrebbe  riprecipitato l’ Italia nella foresta delle guerre endemiche. La mano forte delle potenze ispanica od austriaca e il controllo della Inquisizione garantiranno due secoli e mezzo di ordine e di pace in Italia, dal 1530 circa all’invasione napoleonica. Di quest’ordine morale, di questa disciplina civile, di questa severità di costumi probabilmente sono  derivate, fino al secolo ventesimo, la possibilità di convivere,  lontani dal comunismo illuministico-volterriano e dall’anarchia romantico-russoiana. In realtà il Rinascimento è come la prova generale del razionalismo settecentesco: come  il deismo nasce dal rifiuto della religione cristiana, non solo in quanto alla redenzione di Cristo, ma anche in quanto al suo presupposto (peccato originale), così quello si  spiega con l’oblio della colpa prima e con l’estenuazione del valore della Croce di Cristo. Entrambi concludono la loro corsa passando dall’ingenua esaltazione,  in  tempo di prosperità e di pace, alla realtà crudele della guerra e della tirannia.[32]

 

APPENDICE:  LA PRODUZIONE LATINA RINASCIMENTALE.

 

A) LA PROSA.

Distinguiamo fra prosa e poesia, perchè non v’è dubbio che è nel campo della espressione versificata che gli umanisti hanno raggiunto i risultati lirici migliori. Questo non vuol negare il valore anche letterario di molte prose quattrocentesche in latino: ma la vivacità di qualche lettera o di interi espistolari, la chiarezza delle scritture storiografiche, la  forza logica o la amabilità dei dialoghi, la virulenza dele invettive non assommano a quella trasfigurazione poetica per cui l’interesse pel contenuto ceda di fronte alla commozione che ne traspira. Insomma, le prose latine del Millequattrocento valgono quasi unicamente per le notizie che ci danno, come documenti genericamente culturali, non specificamente artistici. Si legge per sapere ed imparare, non per godere ed estasiarsi. Basterà quindi segnalare le migliori opere tra i generi indicati.

Gli epistolari più significativi sono quelli di Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, Guarino Guarini, E. S. Piccolomini (o Pio II: alcune sono dei piccoli trattati, come il De eruditione puerorum e il De curialum miseriis), Francesco Barbaro, Ermolao Barbaro[33], Marsilio Ficino (non solo notevole per la quantità ma anche perchè, pure lui, allarga certe lettere a saggi e   trattati). Raccolse le sue lettere anche Lapo da Castiglionchio, segretario della curia romana al concilio di Ferrara (morto ivi a soli 33 anni, nel 1438); ce ne ha lasciate Gasparino Barzizza, maestro del Filelfo e amico del Guarini (bergamasco: 1359-1431), Francesco Filelfo (ne sono l’opera più notevole in prosa, anche se la realtà descritta  è deformata dalle varie passioni dell’uomo avido, ambizioso, capace di odiare), L. B. Alberti, G. A. Campano (1429-1477: al servizio dei Baglioni di Perugia, prima, e di Pio II, poi, scrisse la vita di Braccio di Montone e del papa di Corsignano e ci lasciò nove libri di lettere, interessanti più dei suoi versi latini), Pico della Mirandola (di contenuto critico-estetico e, dopo la crisi del 1486, di tono mistico, scritte al nipote), il Poliziano (ma si tratta per lo più di lettere a lui scritte da amici, rivelatrici per altro anch’esse sulla cultura del tempo).

I dialoghi ed i trattati. Ne abbiamo già dato titoli e contenuto  documentando il primato della tematica antropologica alle pp.8-10. I dialoghi del Pontano saranno citati nel paragrafo a lui dedicato  tra i poeti.

Le invettive. Si è parlato della litigiosità di molti Umanisti rinascimentali. Rivediamo i casi più clamorosi, escludendo le dispute condotte secondo pura argomentazione razionale, come la risposta di Coluccio Salutati alla Lucula Noctis del card. G. Dominici. Resta compresa invece, dello stesso Salutati, la Invectiva contro Antonio Loschi[34], che ne aveva scritta una “adversus Florentinos” a servizio della politica viscontea. Ma il re delle invettive è il Bracciolini, che ne scrisse tre violente conro il Filelfo, in difesa del Niccoli e quattro contro il Valla (in forma di favola sarcastica: i diavoli lo rifiutano e lo rispediscono sulla terra a fornir anime all’inferno) e continuò contro l’antipapa Felice V, Giorgio di Trebisonda (il Trapezunzio), Tommaso Morroni (docente di retorica a Bologna), Niccolò Perotti (un discepolo del Valla), il Volpi. Le conseguenze peggiori di queste polemiche le subì il Trapezunzio, che dovette lasciare il posto di segretario pontificio per le notazioni del Poggio  sulla grossolanità del suo latino. A sua volta il Valla, nel rispondere alle invettive del Bracciolini, immaginava  che lo stalliere ed il  cuoco del Guarino fossero in grado di scovare gli errori di Poggio, tanto erano marchiani.[35] Ma le accuse di eresia attirarono al Valla un processo inquisitoriale, dal quale per altro uscì assolto. Contro il povero Niccolò Niccoli si scatenarono il Bruni e persino il mite Guarini; ebbe screzi anche col Crisoloroa e qualche altro umanista. Inutile dire che nel conto venne  coinvolta anche la Benevenuta, non accettata come semplice fante ma ritenuta sua amante. Chi entrava a metter pace fra i dotti scatenati era Francesco Barbaro, che riuscì a sedare (con l’aiuto del Bracciolini) anche la scandalosa querela tra il Bruni ed il Niccoli. Questi aveva difeso Cesare (ideale politico monarchico) contro Scipione (ideale repubblicano) sostenuto dal Bracciolini: nuove dispute che coinvolgono Ciriaco d’Ancona[36]  ed il Filelfo, sceso in campo (da Siena: siamo nel 1435: egli era uscito da Firenze al rientro dei Medici) a difesa del Niccoli con due furenti invettive. Ecco, col Filelfo, siamo ad un altro polemista “aspro e senza freni” (Eugenio Garin): nè solo colla lingua, chè intervennero anche i pugnali, fatti usare contro di lui e da lui. La sua polemica fu contro i Medici (Commentationes florentinae de exilio), che la sconfitta del Piccinino ad Anghiari (1440) attenuò, interrompendo l’opera al terzo dei dieci libri programmmati. Polemizzò poi con Pier Candido Decembrio a Milano. Anche Lorenzo Valla sapeva scorticare gli avversari: lo abbiamo visto col Bracciolini. Bartolomeo Facio ne dovette sentire le unghie, quando si lasciò sospingere dal Panormita a inveire contro l’opera del Valla su Ferdinando d’Aragona (1445): ne nacquero i quattro libri Recriminationes in Facium . E contro il già amico Antonio da Rho, si diverte a spulciare gli errori dell’opera De imitatione latinae eloquentiae,  salvo ad accusarlo di palgio per le parti indovinate (In errores Antonii Raudensis adnotationes): si noti che il frate di Ro era stato a Pavia parte viva del gruppo disputante sulla precisione delle  regole di grammatica e  del lessico latino. Antonio Beccadelli (il Panormita) non tanto scagliò invettibve, quanto ne subì: da p. Antonio da Rho, da P. C. Decembrio, dal francescano Alberto da Sarteano: il libro Hermaphroditus era uno scandalo intollerabile alla coscienza di molti ancora cristiani (il Guarino ritrattò la sua lode al libro).

Gli scritti storici. A parte il lavoro filologico sulle fonti storiche, di cui il più famoso è quello del Valla sulla falsa donazione di Costantino, il più fecondo scrittore di storiografia fu Flavio Biondo (Forlì 1392- Roma 1463), colle sue Historiarum ab inclinatione Romanorum decades (1453), con i tre libri della Roma instaurata (1446), i dieci della Roma triunphans (1457-9) e con l’Italia illustrata (1448-53). Dei suoi pregi e limiti si è già detto nella nota a lui dedicata (p. 7). Il più acuto degli scrittori di storia è invece Leonardo Bruni (Arezzo 1370 o –74 – Firenze 1444). Cominciò a compilare seguendo autori greci: Commentarius de bello punico (1421: da Polibio), Commentarius de bello italico adversus Gothos (1442: da Procopio, stroico bizantino del VI secolo d. C.), Commentarius rerum graecarum (dalle Elleniche di Senofonte). Fu orinale invece nella storia della sua patria adottiva, Firenze: Historiarum Florentini populi libri XII. E’ il suo capolavoro, perchè  narra i fatti prescindendo da processi alle intenzioni della Provvidenza (del tipo di Dante e di G. Villani) e non mettendo in conto, quindi, un  presunto legame causale tra valore etico e successo-insuccesso immediato[37] di personaggi e vicende. Questo non toglie che anch’egli, narrando l’origine della città ed i tempi non confortati da memorie scritte, debba fidarsi di tradizioni per lo meno discutibili. L’opera si estende infatti dalla fondazione all’anno 1404. Si noti che, più del testo latino, ebbe diffusione vastissima la traduzione in volgare fatta fare dalla Signoria a cura di Donato Acciaiuoli.Egli riuscì a riprendere e continuare la narrazione dal 1378 al 1440 (Rerum suo tempore gestarum), prevenendo il Bracciolini che per suo conto stava scrivendo la Historia florentina dal 1350 alla pace di Lodi (1454). Anche queste opere ebbero più diffusione nelle traduzioni in volgare, procurate da Girolamo Pasqualini per il Bruni e dal figlio Jacopo per il Bracciolini. Il Bruni pubblicò anche una Vita Aristotelis e una Vita Ciceronis, nonchè, in volgare, una Vita di Dante. Ottimo storiografo fu anche Giovanni Pontano, che nel De bello napolitano (1494) espone le vicende della guerra di Ferdinando d’Aragona contro Carlo d’Angiò.  Opere minori di storiografia  ci lasciarono i biografi (come Giannozzo Manetti, che scrisse  la vita di papa Niccolò V; e la vita De illustribus longaevis; il Platina che fu il principale biografo del tempo: oltre alle vite di Neri Capponi, di papa Pio II, di Vittorini Rambaldoni da Feltre,  e del card.G. B.  Mellini, stese  un Liber de vita Christi ac omnium pontificum (cui va aggiunta la Historia urbis Mantuae); o gli occasionali narratori di eventi limitati (come Enea Silvio Piccolomini che scrisse e riscrisse le vicende del concilio di Basilea, prima come conciliarista, poi come sostenitore del primato papale: Commentarii de gestis Basiliensis Concilii, del 1440 e De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio, del 1450; la Cosmographia, che è un ampliamento dell’Italia illustrata del Biondo  ed i Commentarii rerum memorabilium, diario delle cose più clamorose accadute durante la sua vita; L. B. Alberti per la storia De coniuratione porcaria, la congiura del Porcari (468) contro Paolo II; Angelo Poliziano: Commentarium Pactianae coniurationis, oltre alla narrazione della morte di Lorenzo il Magnifico, nella lettera all’Antiquario.[38] In volgare, notissima è l’opera di Vespasiano da Bisticci Vite di uomini illustri: affidabilissima quanto a sincerità dell’autore e preziosa per molti dati singoli, manca però di organicità e di completezza: l’analisi supera di troppo la sintesi.

Opere inventive. E’ difficile talora separare gli scritti di carattere critico da quelle creative, specie negli epistolari: certe lettere possono  contenere pagine letterariamente valide... o addirittura un intero romanzo (come la lettera a M. Sozzini, in cui Enea S. Piccolomini, nel 1444 narra la boccaccesca Historia de duobus amantibus). Ma è indubbio che gli unici  prosatori letterariamente rilevanti nella prima metà del Millequattrocento italiano sono Bernardino da Siena e Alessandra Macinghi Strozzi, cioè due autori in volgare. In prosa latina abbiamo poche cose e ricordate perchè appartementi ad umanisti noti per altre scritture di carattere storico-critico, come la “Storia dei due amanti” del futuro Pio II or ora citata. Enea Silvio scrisse anche una commedia, sempre in prosa e sempre in spirito allegramente  libertino, Chrysis: è sulla scia di Plauto. Nei suoi Commentarii,  si trovano momenti di drammaticità propria di un distonico, cioè di un temperamento nervoso che sussulta di fronte ai fatti ed ai personaggi  in cui si imbatte e che, capace solo di riprodurre la storia esperita personalemente, questa la sa far rivivere però al lettore con i suoi stessi sentimenti. Si legga la vicenda al conclave che lo vide eletto papa, grazie alle sue mosse e parole davvero ispirate. 

Altri autori di scritti nuovi sono quelli delle facezie, sia di Bracciolini (Liber facetiarum), sia di Ludovico Carbone da Ferrara.

Anche L. B. Alberti compose una commedia latina (Philodoxeos, cioè l’innamorato della gloria). In realtà cose più geniali sono negli Intercoenales, che sono dialoghi sempre di carattere investigativo (più o meno filosofici), ma scritti con vivacità giovanile, con fantasia ispirata, con cuore partecipe. Lo stesso spirito è nel dialogo Momus (De principe).

Le cose più vive si ritrovano però nei dialoghi del Pontano, dal Charon all’Antonius, dall’Aegidius all’Actius, ma soprattutto nell’Asinus. Non sono capolavori, ma ci si accorge che il suo autore ha i capricci fantastici e la genialità del poeta. Difatti egli è lo scrittore di versi latini più riuscito del secolo, come vedremo subito (il Sannazaro pubblicò il De partu Virginis nel 1526).

 

B)       LA PRODUZIONE IN VERSI.

Elenchiamo i quattordici scrittori in versi più notevoli, secondo le notizie  che ce ne danno la “Ricciardiana”, nel volume “Poeti latini del Quattrocento” (1964)  e gli studi sul Quattrocento della Vallardiana o della Garzantiana. Daremo gli estremi biobibliografici là dove  non ancor fatto..

Antonio Beccadelli detto il Panormita (1394-1471). Fu reso famoso dalla prima pubblicazione, impudentemente oscena, come annuncia il titolo Hermaphroditus (1425). Fu perciò combattuto da religiosi (il francescano Alberto da Sarteano indusse il Guarino a ritrattare le lodi, che il Beccadelli aveva messe a prefazione dell’opera)  e da  papi, ma fu protetto da i Visconti (cattedra a Pavia) e da Aragonesi (segretario di Alfonso d’Aragona e del figlio Ferdinando). Compose anche le Epistolae gallicae (da Pavia: in prosa, con inserite composizioni in versi) e nel 1432 ottenne la corona di poeta laureato dalle mani dell’imperatore Sigismondo. Passato a Napoli nel 1434, scrive la Epistolae campanae e il De dictis et factis Alphonsi regis (1455). Non era un gran lavoratore, ma era un maestro delle relazioni sociali: le molte amicizie fra i dotti gli raccolsero attorno una specie di consorzio letterario, che fu poi detta Accademia pontaniana, dal suo maggior rappresentante, Giovanni Pontano. Benchè i versi del Beccadelli siano tra i migliori come “musicalismo” e spontaneità nel secolo, tuttavia è proprio la mancanza di idee che gli rubano il primato rispetto al Pontano: c’è impeto ed allegria, anzi impudenza e spavalderia nelle sue rievocazioni di  persone ed ambienti perversi, ma l’epopea rimane frustrata dalla  banalità e  insignificanza delle tematiche.[39]

Francesco Filelfo   ( Tolentino 1398-Firenze 1481) è autore di Satyrae (10 libri, 10 satire per libro, 100 esametri ciascuna); di Odae (solo cinque dei dieci libri progettati: ispirazione politica antiplebea, filoprincipesca; del De iocis et seriis (10 libri di 1000 versi ciascuno: sono poesie occasionali, epigrammi) e del poema incompiuto Sphortias (doveva avere 24 libri come l’Iliade). Si noti che scrisse anche, in volgare, una Vita di san Giovanni Battista (48 capitoli di 14 terzine l’uono). Il figlio Gian Mario, natogli a Costantinopoli: 1426-1480) scriverà poi Felsineis (in onore di Bologna), Martias (in onore di Federico da Montefeltro) e Cosmias| Laurentias (in onore dei Medici.

Giannantonio Pandone detto il Porcel(l)io: (Napoli 1405-85) scrisse  un poema anche lui per il Montefeltro (Feltria), ma, nel suo girovagare per le corti dei potenti d’Italia, elogiò anche l’Aragonese con il Triumphus Alphonsi (poema in esametri) e Sigismondo Malatesta con la sua amante (dapprima: poi sposata in terze nozze) Isotta degli Atti (De Amore Jovis et Isottae).

Maffeo Vegio (Lodi 1407- Roma 1458). Dapprima al servizio dei Visconti; poi, abbreviatore a Roma e, infine, religioso agostiniano. Scrisse un tredicesimo libro per l’Eneide (Supplementum: esequie di Turno, sposalizio e trionfo di Enea: 1427); Astyanax, Vellus aureum e Antonias (Vita di sant’Antonio).

Basinio Basini di Parma (1425-Rimini 1457). Le sue opere furono pubblicate tutte dopo la morte: Hesperis (tredici libri in onore del Malatesta, presentato come portainsegna della gens latina contro i Goti iberi, cioè gli Aragonesi di Napoli); Meleagris (tre libri, che risentono dei poeti classici, da Omero a Virgilio ad Ovidio), Cyris (canzoniere di dodici elegie amorose, che risente di Ovidio e Tibullo, ma anche del ritmo della ballata e delle “giustiniane”, ossia delle canzonette amorose introdotte da Leonardo Giustinian: 1388-1446); Argonautica (tentativo di rifacimento dell’opera di Apollonio Rodio, interrotto al terzo libro dalla morte precoce). Non si è ancora riusciti a risolvere il dilemma della attribuzione del Liber Isottaeus (a lui? a Tobia del Borgo? ad entrambi?), romanzo epistolare in versi, sul modello delle Heroìdes ovidiane.

Cristoforo Landino pubblicava nel 1458 tre libri intitolati alla sua donna : Xandra. Giovanile il primo libro, di elegie ed epigrammi, libro di amore con riecheggiamenti petrarcheschi; tramato di amore e di  temi autobiografici (rimpianto della giovinezza e della libertà perdute), il secondo; inteso a celebrazioni di motivi più alti e più universali (elogi funebri, epitaffi, guerra con Napoli, origini di Firenze, lodi di Cosimo e di Poggio...), il terzo libro.

Ugolino di Vieri ( detto il  Verino,fiorentino: 1438-1516): scrisse versi amorosi per Flametta, cose giovanili che valgono più  di quelli dell’età matura, in lode di Cosimo de’Medici (Paradisus: influssi danteschi, elementi platonizzanti,  dal Somnium Scipionis), Epigrammata (7 libri: di ispirazione morale) e Silvae (19 libri: ispirazione religiosa: si avvicinò al Savonarola). Scrisse anche un poema in volgare, la Carliade, sulle imprese di Carlo Magno.

Tito Vespasiano Strozzi (Ferrara, ma di famiglia fiorentina: 1424-1505), allievo del Guarino ed al servizio di Borso ed Ercole d’Este, zio del Boiardo, scrive la sua storia amorosa nei  libri di Eroticon, che canta la sua donna Anzia, fino alla scoperta dell’indegnità e dei tradimenti), rivelando influssi petrarcheschi accanto a quelli latini (specie di Tibullo). Dopo il matrimonio, scrive i quattro libri di Aeolostica (poesie varie), Sermones (modello è Orazio: a sua volta darà occasione alle Satire ariostesche in volgare), un Bucolicon liber, degli epigrammi. Del poema epico Borsias non rimangono che frammenti. E’ verseggiatore poco personale, che riflette continuamente gli esemplari classici profondamente assorbiti. Le sue opere furono pubblicate dal figlio Ercole con le proprie (Strozii poetae pater et filius: 1514).

Giovannantonio Campano (nativo di Cavelli, Caserta, nel 1429, fu al servizio dei Baglioni a Perugia e, poi, di Pio II, Paolo II e Sisto IV, vivendo molto a Roma, pur essendo vescovo di Crotone e di Termo; morì a Siena nel 1477). Già si è detto delle sue Lettere,  degne talora di quelle  di Pio II; e delle biografie di Braccio da Montone e dello stesso amico Pio II. Una parola sui suoi versi latini: risentono poco dei modelli latini e sono molto personali (in questo, egli è l’opposto dello Strozzi), con spunti autobiografici e paesaggistici molto sinceri e vissuti, potenzialmente spunti di poesia viva, ma impoveriti poi dal susseguirsi di impressioni diverse che si elidono a vicenda.  Egli ha ben presenti nella fantasia le situazioni e gli aneddoti, i paesaggi e le scenette, ma  descrive i particolari con atteggiamenti emotivi diversi, che si accavallano e non hanno modo di imporsi.  E’ ben cosciente di quello che vuole dire; non è consapevole degli stati d’animo da esprimere.

Battista Spagnoli (detto il Mantovano: 1447-1516). Studente a Bologna, vi insegnò teologia dopo essere entrato nell’ordine   carmelitano (1464). Aveva composto, giovanissimo,  otto egloghe, edite solo nel 1498, col titolo Adolescentia, con emendamenti e l’aggiunta di altre due. La lettura delle poesie di Paolino da Nola lo indusse a comporre poesie religiose, a cominciare dai tre libri Parthenicae (o Parthenice Mariana: 1481: inaugura la poesia umanistica cristiana che tanto sviluppo avrà nel Millecinquecento). Seguirono sei poemetti in onore di vergini martiri: Caterina d’Alessandria, Margherita, Agata, Lucia, Apollonia e Cecilia. Nel 1489 stampa il poema in tre libri De calamitatibus temporum (Le calamità dei tempi: peste, guerre, minaccia dei Turchi, corruzione dei costumi anche dentro la curia romana). Come il Verino, compose otto libri di Silvae. E, fra le settanta opere in 55.000 versi, si trova anche un Alphonsus,  in onore del duca di Calabria (non del grande avo); ed un Trophaeum pro Gallorum ex Italia expulsione, in onore dei Gonzaga, presentati come artefici dell’espulsione di Carlo VIII nel 1494 (era molto legato al cardinale Scipione della famiglia Gonzaga). Nel frattempo egli giunse a coprire la carica di priore generale dell’ordine e morì, quando era stato eletto vicario apostolico, con l’incarico di tentare una pacificazione fra il ducato di Milano e la Francia. Nuoce a questo autore, che pure fu famosissimo fra i contemporanei e fece parlare di lui come di un Virgilio cristiano (Erasmo da Rotterdam: “christianus Maro”), la vastità della sua opera. Egli precorre il Sannazzaro e gli è vicino come livello poetico,  risultando superiore al Verino, che gli suggerisce fantasie poetiche. Nella sua mente l’armonia del verso latino classico si fonde con visioni medioevali o romantiche, con un gusto cioè  realistico e popolareggiante, predantesco: il De calamitatibus temporum introduce   personaggi  trapassati (Romolo, Cicerone, Pompeo...) a discutere un eventuale intervento dei celesti nella difesa dell’Italia dal pericolo turco, mentre fra le cause del morbo pestilenziale sono introdotti i sette vizi capitali, descritti come mostri infernali, orridi o ridicoli; nell’Alphonsus, il protagonista è condotto attraverso il Purgatorio ed il Paradiso terrestre (ma l’ispirazione è mediata dal Paradisus del Verino).

Michele Marullo Tarcaniota (1453 a Costantinopoli-1500, annegato nel fiume Cecina). Non si sa come e dove studiasse, nella vita movimentata che ebbe (esule coi suoi a Ragusa, fu poi ad Ancona, dove pare ci siano sue epigrafi nella chiesa di san Damiano; e combattè poi assoldato). Si sa con certezza che visse a lungo a Napoli, in amicizia col Pontano e col Sannazaro, ma non con gli Aragonesi. Si pensa, quindi, che nel 1486 lasciasse Napoli, quando il principe di Salerno, Antonello Sanseverino, suo protettore, fu costretto all’esilio in Francia dopo la congiura dei baroni, in quanto l’altro protettore, Antonello Petrucci, fu condannato a morte. Da Roma, dove lo troviamo in dignitosa miseria nel 1488, passa a Firenze. Qui, nel 1489,ha una disputa  letteraria col Poliziano (contro i Miscellanea?): la violenza è inaudita: egli vorrebbe risolvere le questioni con le armi, tanto ne è appassionato.  Nel 1494 raggiunge il suo mecenate Sanseverino, presente con molti altri fuorusciti napoletani nell’esercito di Carlo VIII (per rientrare in Napoli e poi, chissà, proseguire contro i Turchi  fino a Costantinopoli). Fallita la spedizione, egli continua il doppio impegno di soldato e poeta: nel 1500 è alla difesa di Forlì contro i Borgia, accanto a Caterina Riario Sforza, madre di Giovanni dalle Bande Nere. L’undici aprile annega nel fiume Cecina in Toscana. Egli fu esperto filologo, tanto che potè azzuffarsi col Poliziano per diversità di lettura di testi e, in particolare, migliorare quello del De rerum natura di Lucrezio (il poeta da lui prediletto, per la comune Weltanschauung immanentistica e panteistica). Di suo compose quattro libri di Epigrammata (in realtà raccolta di elegie, odi ed epòdi: 1497), quattro Hymni naturales (1497: è la celebrazione in versi della sua filosofia): postume uscirono le Neniae (1532). Se, intellettualmente,    il suo maestro è Lucrezio,  poeticamente egli  predilige Catullo, nel senso, almeno, che nelle poesie d’amore segue i metri del poeta latino di Verona Ma sia i versi d’amore che quelli idealmente impegnati degli Hymni naturales hanno lo stesso difetto: sono troppo ragionati, con  rarità di aggettivi od avverbi rispetto ai verbi e sostantivi, che tradiscono il filosofo prevalente sul poeta. Nei canti d’amore ripete i soliti concettini: Neera, la donna amata, lo sta uccidendo col suo rifiuto. Nei canti celebrativi le domande retoriche non mancano. Tutto sommato, convincono un po’ meglio i versi degli Hymni, proprio perchè  la celebrazione dei vari elementi del mondo tende spontaneamente all’epopea e, quindi, al prevalere delle parti forti (verbo e sostantivo) del discorso. Ma non sono gran che neppure quelli.

A questo punto dovremmo trattare anche di Jacopo Sannazaro, che, dopo il Pontano, è il miglior poeta latino del Rinascimento. Ne parleremo però in sede di produzione italiana, perchè è più importante la sua opera in volgare che non quella in latino. Qui basterà ricordare che il suo capolavoro latino è il poema De partu Virginis, in tre libri e 1500 versicirca: sulla Annunciazione, la nascita di Cristo e l’adorazione dei pastori.

GIOVANNI (Gioviano) PONTANO. Nato a Cerreto (presso Spoleto) nel 1429 e rimasto presto orfano di padre, fu allevato dalla madre,dalla nonna materna e dalla zia, tutte donne esemplarmente cristiane. Studiò a Perugia e, nel 1448, seguì il re Alfonso a Napoli, partecipando alla vita politica del regno e divenendo, dopo la morte del Panormita, principe di quella “Porticus Antoniana”, di cui aveva dettato gli statuti e che da lui prese il nome di “Accademia pontaniana”. Segretario di stato dal 1487, si mostrò politico fin troppo accorto: all’arrivo di Carlo VIII nel 1494, seppe salvare se stesso passando al nuovo padrone, che però durò pochissimo. Fu emarginato ovviamente dal re Ferdinando II (Ferrandino) al suo rientro a Napoli. Si aggiunsero lutti familiari: la moglie Adriana  era morta nel 1490 e il figlio Lucio Francesco muore, a neppur trent’anni, nel 1498, pressappoco quando scompare anche la seconda moglie (Stella di Argenta,nel ferrarese) ed il figlioletto da lei nato. Trascorse appartato e  triste gli ultimi anni di vita,rifinendo e publicando le proprie opere.  Morì nel 1503, facendo in tempo a dedicare  il trattato De fortuna a Consalvo de Cordoba, che aveva vinto l’ultimo aragonese (il re Federico) e scacciato i francesi, assicurando alla Spagna il regno. Anche la sua vita privata non fu esemplare. Aveva iniziato cantando il libero amore, in una società sessualmente comunistica (1443).  Con Adriana Sassone  non fu sposo fedele; dopo il secondo matrimonio, ebbe amori senili e si espresse con impudenza nella descrizione dell’erotismo, sia parlando del malcostume sulla spiaggia di Baia, già famosa al tempo del Boccaccio (Hendecasyllabi seu Baiae: libri scritti tra il 1490 ed il 1500), sia nei tre libri De amore coniugali (le scene di gelosia  di Adriana  saranno addirittura fatte narrare dal figlio Lucio nel dialogo  Antonius, intitolato a quell’altro galantuomo di un Panormita...). Sul piano religioso, il minimo che gli si deve riconoscere è un anticlericalismo viscerale. Ma c’è  altro. Egli trasgredisce nel determinismo antropologico: l’uomo è sotto l’influsso o degli astri o dell’ambiente in cui si trova ad operare. Egli non nega del tutto il libero arbitrio, ma lo riserva per poche anime privilegiate; la massa oscilla tra gli influssi astrologici sul temperamento e il determinismo ambientale, costituito dai fattori educativi, fisico-geografici e sociali. Non nega, quindi, del tutto la possibilità di fare predizioni, astrologicamente fondate,  sul futuro uomo (astrologia giudiziaria o congetturale), ma solo la limita, perchè la spinta dei cieli viene a scontrarsi con  le pressioni delle circostanze   esistenziali. L’unico spazio di manovra per il volere dell’uomo è quello di  adattare le tendenze dell’indole congenita (astralmente imposta) alle cause modificatrici dell’ambiente (De fortuna, 1500-1: egli vedrebbe, in tale possibilità di scelta fra i due campi di sollecitazione, la prova della spiritualità dell’anima: in realtà questa via non convince, di fronte al duro fatalismo rivelato nel  complesso dei suoi scritti).  Questo, nonostante che il Caronte difenda la libertà del’uomo. Una frase (sempre nel Caronte) fa dubitare della sua fede nella resurrezione dei morti. Anche di quella di Cristo? Forse non voleva giungere fino a tal punto lo scrittore e, quando fa dire ad Eaco “Lascia stare...lascia che lo credano! Ci sono tante cose misteriose che non sappiamo, nel mondo! Così si accresce la religione...”,voleva solo mettere in dubbio racconti non documentati di resurrezioni, circolanti nel Medioevo ed ancora ai suoi tempi. Egli è fortemente contrario ad ogni superstizione, anche a quelle diffuse fra i cristiani di troppo facile fede. Sulla ingenua autosufficienza dell’uomo circa la virtù (stoicismo, pleagianesimo, ignoranza del peccato originale) si è già detto a suo luogo (ancora in Caronte)

 Per amore di ordine, riportiamo tutte le sue opere,  anche se i trattati e dialoghi sono già stati citati assieme a quelli degli altri umanisti.

 

 

 Poesie.

                    Amorum libri (Parthenopeus sive Amores): vi sono cantate scene di natura della sua Umbria che rimpiange; e le prime esperienze d’amore, anche in versi voluttuosi. Vi si sente particolarmente la imitazione di Catullo, da cui prende e dilata l’uso dei diminituvi-vezzeggiativi (Amabo, mea cara Fanniella, ocellus Veneris decusque amoris).

                    Eclogae (di cui Lepidina, la più nota, del 1496, è una specie di poemetto in esametri: vi canta le nozze del dio fluviale Sabeto con la ninfa Partenope, introducendo in qualità di Nereidi località di Napoli e della marina (Posillipo, Mergellina, Vesevo, Capri, Amalfi, Miseno, Capodimonte, Procida, Nisida); anche  la propria villa di Antignano, chiamata Antiniana, è cantata in un epitalamio che profetizza l’avvento di un  pastore straniero, che sarà poeta).

                   Hendecasillaby sive Baiae (1490-1500):vi si descrive la spiaggia, già fatta conoscere dal Boccaccio.

                   De amore coniugali: capolavoro in versi. Sono tre libri di elegie in cui canta il suo amore per la sposa (Ariadna è Adriana) e per il figlioletto Lucio. Qui cadono (nel secondo libro, VIII-XIX) le composizioni più note, le Neniae dai molti vezzeggiativi: “Somne veni; tibi Luciolus blanditur ocellis...”

                   Jambici: in morte del figlio Lucio.

                   Eridanus: canta Stella da Argenta, la seconda moglie del poeta.

                   Tumuli: epitaffi per familiari (Lucio, Adriana), per amici (il Panormita, Pomponio Leto), per se stesso; più della metà sono per donne.

                   Urania: poema astrologico in 5 libri (favole di metamorfosi di astri:1476) e Meteororum Liber (1490) affermano l’influsso degli astri sul temperamento, sulla cultura e costume degli uomini. Su questo egli polemizza con la “Confutazione” di Pico della Mirandola, che  tale influsso nega radicalmente.

                    De hortis Hesperidum sive de cultu citriorum (due libri, finiti nel 1501): Adone morto è trasformato in pianta di cedro da Venere ed Atlante la trasferisce sulle coste dell’Italia meridionale.

                   De laudibus divinis: sono alcune elegie sacre: iniziate in gioventù e completate con l’aggiunta di inni a S. Benedetto ed a S. Agostino, sono composizioni  di sicura ortodossia nella fede, anche se mancanti di calore religioso.

 

Prose

                   De rebus coelestibus: sono 14 libri di astrologia, finiti nel 1494. Di astronomia scrisse anche un De luna e, non finito, un Libellus de mundi  sphaera e le Commentationes super centum sententiis Ptolomaei

                   De prudentia (in cinque libri: finito nel 1499): la virtù della prudenza, intesa come mediazione del libero arbitrio fra indole di derivazione astrologica e componenti ambientali. In realtà, egli  cerca di librarsi fra un determinismo astrologico  ed uno ambientale.

                   De Fortuna (due libri, dedicati a don Gonzalo de Cordoba, non rifiniti). Vi insegna il fatalismo, che per altro non esclude la Provvidenza (creatrice degli astri e preordinatrice dell’anima) ed il libero arbitrio, cui riconosce la possibilità di contrastare il temperamento (frutto dell’influsso astrale) con l’adattarsi alla educazione, al clima, alle pressioni sociali.

                   De magnificentia, De splendore (splendidezza),De liberalitate, De beneficentia,De hospitatlitate, De immanitate, De conviventia, De oboedientia, De fortitudine (1481), De magnanimitate: sono tutti trattati morali (di un libro ciascuno, eccetto i due ultimi, di due libri), che svolgono il De prudentia, cioè propongono la virtù singole come aurea mediocritas, giusto mezzo tra dati congeniti e sollecitazioni ambientali, come detto. Gran parte di tali trattati hanno come tema il danaro!

                    De Principe : sulla vita politica (i consigli sono quanto mai morali, basati su onestà, bontà, prudenza e moderazione: nulla di premachiavellico, dunque, contro quanto afferma Eugenio Garin, nel volume ricciardiano sui prosatori latini del Quattrocento, p.1021: a meno che non si voglia vedere malizia nel sapientissimo consiglio “Sarai con gli uni severo, con gli altri mite, secondo le cause, i caratteri, i tempi, i luoghi, consapevole che somma giustizia è talora somma ingiustizia e che non di rado conviene agire secondo equità e bontà invece che secondo il diritto. Talune cose conviene piuttosto perdonare che non punire, altre far finta d’ignorare o differire a tempi più opportuni”.

                    De bello neapolitano, sei libri sulla guerra  tra Ferdinando e Giovanni d’Angiò: finito nel 1494, più che indagare i motivi profondi della guerra, egli si sofferma su aneddoti pittoreschi: il poeta supera lo studioso.

             Più vivaci e più vicini all’arte sono  i dialoghi, di cui alcuni rappresentano al vivo la vita morale dell’epoca. Su di essi mettiamo qui anzitutto osservazioni generali. Lontano  ne è l’ottimismo di certo umanesimo: la dura esperienza della vita propria e “l’inizio della fine” per la pace e libertà italiana (oltre alla sua credenza nella astrologia) lo riportano al tono amaro ed al pessimismo, circa il rapporto tra virtù e fortuna, del più deluso Alberti e del Bracciolini.  Sul piano   della filologia e critica letteraria eccellono i  dialoghi Actius ed Antonius per le regole di retorica (stile di prosatori); e  il trattato De sermone ( che tratta invece della lingua parlata, familiare): qui si  propone l’ideale di un uomo che abbia il senso dello humour,  (urbanità, facezia). In realtà,  sono tanti gli aneddoti comici addotti (proprio mentre espone le regole di Aristotele, Cicerone e Quintiliano sulla conversazione arguta, in cui la “facetudo” si distingue in “comitas” e “salsum acumen” e “lepiditas”) che il libro può essere avvicinato alla Facezie di Bracciolini. Vi è anche una trattazione (De aspiratione) sulla funzione e l’uso dell’h in latino (e sì che in vari dialoghi egli si scaglia contro gli eccessi di regolarizzazione unilaterale -quintilianea più ancora che ciceroniana- dello scrivere latino). Ma questi studi linguistici, dalla filologia alla retorica e metrica, hanno un loro fascino su chiunque abbia una vera vocazione letteraria, cioè qualche “grillo poetico” per la testa. Come, appunto, il Pontano. Vediamo ora singolarmnete i dialoghi.

 

                     Charon (iniziato nel 1467 e terminato nel 1491) è un dialogo lucianesco, anticlericale come spirito. Caronte fa il suo mestiere di traghettare i morti. Ed ecco che arrivano la meretrice con l’amante cardinale, il frate girovago e donnaiolo, il vescovo ghiottone, il prete seduttore...

                     Antonius (1487 ca) prende il nome da Antonio Beccadelli, il Panormita, cui è dedicato.

E’ uno sfogo polemico contro i grammatici (leggi: il Valla) e contro la situazione di corruzione in cui versa l’Italia nelle corti, nei comuni, nella curia. Anche in casa del Pontano succedono scene di gelosia, raccontate spudoratamente da Lucio, il figlio che assiste alle vicende. Vi trova posto anche la rappresentazione di una compagnia di saltimbanchi, con scene goffe e lazzi sguaiati, ma anche con oltre 600 versi sulla guerra fra Sertorio e Pompeo in Spagna...

                     Actius (1499): è dedicato al Sannazaro (il cui nome in Accademia era appunto Actius Sincerus): vi si parla di poesia e di versificazione.

                    Aegidius (1501): è in lode dell’ agostiniano Egidio da Viterbo, religioso colto sia nelle scienze sacre che in quelle letterarie.  I vari personaggi  disputano amabilmente di molti problemi filosofici e teologici: dai sogni alla astrologia, dal Paradiso alle dottrine di Ermete Trismegisto sui dogmi cattolici.

                     Asinus (1487).  Qualcuno lo vorrebbe il capolavoro del Pontano, che supererebbe anche i versi migliori (cfr. V. Rossi, nel c.IX del Quattrocento vallardiano). Uscì postumo (sebbene composto poco dopo il 1486, data della pace fra Innocenzo VIII e gli Aragonesi), proprio per un significato allegorico ostile, che era in contrasto con i privilegi che il re Ferdinando I gli manteneva e che nel corso di qualche anno sarebbero stati aumentati, con il conferimento della carica di cancelliere e segretario di stato: cariche che, però, egli pretendeva subito. Difatti il dialogo è uno sfogo carnevalesco, per la ingratitudine del re di fronte al lavoro diplomatico dell’autore che era sfociato nella rappacificazione. L’asino rappresenta così o lo stesso re od il figlio Alfonso, duca di Calabria (già suo discepolo e comandante della spedizione contro Roma, a seguito dell’appoggio dato dal papa alla congiura dei baroni). Il Pontano, impazzito per il mancato riconoscimento, ha comprato un asino di cui si è invaghito, lo ha addobbato fastosamente e vuol andare per le strade  intonando canzoni amorose. Lungo il percorso vengono introdotti a parlare osti e turisti, mentre gli amici del poeta cercano di condurlo a salvamento. Sarà, invece, proprio l’asino   che  guarirà lo scrittore-diplomatico, con la sua ingratitudine: morde le mani del padrone e  scalcia contro il servo. Il Pontano allora, rinsavito, lo cede al fattore in cambio (ahimè!) delle prestazioni della moglie. Lo scritto si fa leggere una prima volta per la audacia con cui sono esposte, fra le conseguenze più concrete della pace, i guadagni degli osti alle spalle della ghiottoneria della gente e lo spasso di prostitute e loro clienti, al di là di processioni e ringraziamenti a Dio, di ornamenti ed altre ingenue  manifestazioni di giubilo.  Ma una seconda volta non si legge con gusto. Difatti la situazione grottesca,  per sè indovinata  come sorgente di comicità, non è poi sfruttata adeguatamente: il riso rimane potenziale e non bastano i giochi di parole latine a far sprizzare allegria dai particolari realistici ma non comici, balordi ma non ironici, volgari ma non farseschi. Per noi, sono decisamente meglio i versi. Non per nulla le edizioni dell’opera sono state di numero irrisorio.

 Versificato o prosastico, comunque, il suo è un latino molto disinvolto, personale ed inventivo, che sa adeguarsi alle ninne-nanne pel figlioletto, all’idillio per i paesaggi e la vita dei campi, alla elegia per la morte della sposa Adriana e del figlio Lucio, alla amarezza per la  solitudine degli anni avanzati. Si sentono gli echi non solo di Ovidio, presente maggiormente nelle composizioni  amorose, ma anche di Virgilio (il De hortis Hesperidum  finisce per essere un poemetto georgico sulla coltivazione degli agrumi).

Ma perchè, allora, anche il nostro giudizio sui versi latini del Pontano non è propriamente entusiasta? Ci pare che vi siano dissolvenze incrociate per almeno due cause. Da una parte vi è un continuo mescolarsi di motivi contrastanti. Ad esempio, nei Tumuli, l’elegia per  la assenza dei suoi morti si alterna con il ricordo dei momenti di piacere trascorsi assieme; e l’aspirazione alla gioia non si rifà all’affetto del cuore, ma al bisogno dei sensi, sia del latte e dei seni materni pel bimbo, sia delle effusioni erotiche per lui, previste anche nei campi Elisi. A livello di tecnica stilistica, dall’altra parte, la imperfezione dei versi pontaniani si ha sia nel contrasto fra i temi idillici (che gli sono più consoni,   come rivela anche l’uso frequente di diminutivi-vezzeggiativi) e il ritmo drammatico (che gli riesce più solito): la musica della sua metrica è  troppo eterodinica[40] ed il contrasto fra accento tonico ed ictazione ritmica  attenua l’incanto dell’idillio, senza riuscire a costruire l’impeto dell’epopea o il dolore della tragedia. In parole povere: Pontano  raramente affronta temi epico-tragici od elegiaci (il motivo autobiografico è il più frequente e la sua visione della vita è quella del gaudente) e rovina quelli idillici coll’uso di un ritmo drammatico. Viceversa capita  quelle volte che egli canta argomenti grandiosi: allora le ictazioni eterodiniche sono troppo rare per un livello di grande poesia. Spirito disarmonico, le sue idee non trovano una musicalità  pertinente ed il suo musicalismo   incerto non è adeguato nè alla  mollezza nè alla sostenutezza delle sue idee. Si vedano, per la prima sproporzione, tutte le Neniae, nel libro secondo degli Amori coniugali. Qui ne riportiamo  la prima,  grassettando l’ictazione metrica delle sillabe eterodiniciche: che non sono poi frequentissime, ma abbastanza numerose  per  estenuare l’idillio:

                                     Somne, ve; tibi Luciolùs blanditur ocellis;

                                      somne, ve, veniàs, blandule somne, ve.

                                      Luciolùs tibi dulce canìt, somne, optime somne;

                                      Luciolùs vocat in thalamòs te, blandule somne,

                                      somnule dulcicu, blandule somnicu.

                                      Ad cunàs te Luciolùs vocat; huc age, somne,

                                      somne, veni ad cunàs, somne, age, somne, ve.

                                      Accubitùm te Luciolùs vocat, eia age, somne,

                                      eia age, somne ve, noctis amice, ve.

                                      Luciolùs te ad pulvinùm vocat, instat ocellis;

                                      somne, ve, veniàs, eia age, somne, ve.

                                      Luciolùs te in complexùm vocat, innuit ipse,

                                      innuit; en veniàs, en modo, somne, ve.

                                      Venis, bone somne, bopater alme soporis,

                                      qui curàs hominùm corporaque aegra levàs.

Quando il tema autobiografico si riferisce a momenti esaltanti della sua vita (la nascita del figlio maschio, dopo le tre bambine; il ritorno dalla guerra e la  euforia per la pace fatta: cfr. sempre in De amore coniugali), allora mi pare che, raggiungendo momenti altrettanto validi  che nei migliori idilli, attinge però risultati non sublimi: benchè la musica eterodinica aiuti l’impeto epico, tuttavia stavolta essa è insufficiente, perchè la sua frequenza è quella solita. Il Pontano ha una musicalità rigida, non adattabile ai diversi stati d’animo. E il successo anche delle cose  epicizzanti è solo mediocre. Ne riportiamo alcuni versi dall’Amore coniugale, I, X e dai quasi 700 versi che concludono l’Antonius (riguardano la guerra civile fra Sertorio e Pompeo, in Spagna):

                                      Ite procùl, curae insomnès; sint omnia laeta;

                                      creten lux haec more notanda mihi est;

                                      ite iterùm, curae insomnès, procul ite, dolores;

                                      fulserit haec niti sidere fausta diès,

                                      qua mihi vitalès genitùs puer exit in auras!

                                      Spargite nunc variìs atria tota rosìs;

                                      spiret odoratìs domus ignibus, aemula lauro

                                      myrtus adornatòs pendeat ante Larès.

                                      Ipse deòs supplèx taci venerabor acerra

                                      et reddàm sacrìs debita tura focìs:

                                      sancte Ge, tibi solemnès prostratus ad aras

                                      fundo merum et mul laurus in igne crepàt.

                                      Vota manént: sua signa deùm testantur, et omen

                                      clara dedìt cele flamma voluta gra,

                                      ipse et pacamovìt sua vertice serta,

                                      et fragilìs cecidìt crine decente ro;...

Ecco il turbine, suscitato da Euro in presenza di un inizio di incendio: interrompe la battaglia  dopo episodi tragici, con eroi travolti dal fuoco, finchè non scende la sera. Ma neppure qui la poesia rapisce: se ne sente la forza ed i limiti contemporaneamente. E sempre si accompagna il fenomeno di ictazioni omo- ed eterodiniche. Citiamo i passi che ci son sembrati i migliori, tra gli ultimi 150 versi circa:

                                    Involvìt iactàtque furéns incendia ventus.

                                    Tolluntùr coe fu glomerataque flamma

                                    pervolitàt,simul absorbéns stirpésque viròsque,

                                    et quamvìs trepidùm canerént iam signa receptum

                                    telaque proiicerént dextrìs clypeòsque sinistris,

                                    flammatùs tamen ante aciés evadere non est....

                                    Pervolitàt turbo involvéns silsque feràsque;

                                    densatùr coelùm fu, caligine montes

                                    conduntùr fluitàntque atrae per summa  favillae

                                    mox saevi erumpùnt ignés flammaeque coruscant,

                                    et coelùm lambìt rutilàns et sidera vortex.

                                    Hinc rursùs torquente Eu per inane volutus

                                    incumbìt campìs, truncòsque ambustaque versat

                                    robora, candentemque rapìt sese ante procellam...

Ed ecco il paragone con la eruzione dell’Etna:

                                    Ut cum Trinacriae campìs de vertice summo

                                    Aetna vomìt rapidòs aestùs, it turbine denso

                                    sullatus coe fumùs, mox rumpit in auras

                                    post iactante no agglomeràns flectìtque rotàtque

                                    huc illùc; ea lapsa facès iaculatur et altis

                                    illisa arboribùs silvàs saltùsque vagatur

                                    incensòs; ruit intereà, miserabile visu,

                                    flammarùm torréns rapidùs liquefactaque saxa

                                   praecipitàt, simul involvéns stirpésque feràsque

                                    tectaque pastorésque; furìt Vulcanius amnis

                                    per vallès, per culta; ingéns metus urget agrestes

                                    vicinaeque suis diffidunt moenibus urbes;

                                    haud alitèr pavor invasìt, fuga coepta per omnis

                                    est aciés. “Ite, exclamàt Sertorius, ite,

                                    ite ci, vada nota ci pervadite”; et amnem

                                    primus obìt. Sequitùrque ducèm sua quemque inventus

                                    et circùmstetit armatùs trans flumina miles”...

Il contrasto negli utlimi due versi (“Signa canùnt reditùm. Sequitùr tum ferrea pubes,| Oceaque egressa polùm nox occupat atra”), fra squilli di guerra per la gioventù rivestita di ferro e la pace pel calar della notte, può essere la sintesi del contrasto nei versi del Pontano fra musicalità drammatica e musicalità contemplativa: nessuna prevale; si elidono in una espressione equilibrata ma  sciapa. D’altronde la battaglia non vede nè vincitori nè vinti: per chi parteggia il poeta? Per Sertorio seguace di Mario, il  popolare; o per Metello e Pompeo, seguaci di Silla, l’aristocratico? Le dissolvenze incrociate dello stile hanno  radice nella oscillazione incerta del pensiero.

 

Come promesso, del Sannazaro tratteremo  una sola volta, dando uno sguardo anche ai suoi versi latini  quando ne parleremo come poeta e scrittore in volgare.

 

 

 

LA LETTERATURA IN VOLGARE DEL SEC. XV

                                     (MILLEQUATTROCENTO)

 

Prospetto generale

Poeta veramente grande nel Millequattrocento è solo Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, che nelle Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici ha scritto  dei versi davvero estasianti. Altri  discreti scrittori non mancano, ma non incantano: Lorenzo il Magnifico, Matteo Boiardo, Jacopo Sannazaro. Forse neanche sufficienti –a nostro avviso- sono il Pistoia, il Pulci il Boiardo e altri rimatori del secolo: sono poeti di quarta scelta. Tra i prosatori spicca su tutti Bernardino da Siena (Prediche), seguito a distanza dal Sannazaro (Arcadia) e da Alessandra Macinghi Strozzi (Lettere). Molto inferiori si collocano altri lavori, come i dialoghi di L. B. Alberti, le Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, il Paradiso degli Alberti di Giovanni da Prato, ecc.

Sarebbe coerente interessarci solo dei poeti e prosatori almeno sufficienti: Ma, a parte la loro pochezza per questo secolo, il moto  complessivo del Rinascimento è troppo importante  alla comprensione della storia culturale d’Italia, anzi dell’ Europa tutta, perchè si possano trascurare gli autori che hanno valore soltanto per il pensiero, per la testimonianza di un gusto, per l’esplorazione di nuove tecniche o la riconquista di quelle classiche (poemi, teatro). In base, dunque, a criteri genericamente culturali ci è sembrato logico riunire e distinguere così gli scrittori tutti della letteratura volgare nel secolo XV:                             

I)                Scrittori antirinascimentali (Giovanni Dominici, Gerolamo Savonarola)

II)              Scrittori solo marginalmente interessati alla civiltà rinascimentali: gli autori dei “Cantari”, delle facezie del Piovano Arlotto, delle Buffonerie del Gonnella; Tommaso Guardati (Masuccio Salernitano: Il Novellino), il Burchiello (Domenico di Giovanni: I sonetti), il  Pistoia (Antonio Cammelli, detto: I sonetti faceti), Leonardo Giustinian, Feo Belcari (Laudi| Sacre rappresentazioni| Vita del b. Colombini), Rinaldo degli Albizzi (Le Commissioni), S. Bernardino da Siena (Prediche volgari), Alessandra Macinghi Strozzi (Lettere).

III)            Scrittori profondamente connessi con la classicità rinascimentale: Vespasiano da Bisticci (Vite di uomini illustri), Giovanni Gherardo da Prato (Il Paradiso degli Alberti), Luigi Pulci (il Morgante), Matteo Maria Boiardo (L’Orlando innamorato), Lorenzo il Magnifico (Poesie: d’amore, di scherzo, di spiritualità).

IV)            Scrittori di piena classicità rinascimentale: Leon Battista Alberti (Dialoghi, Trattati), Jacopo Sannazaro (Arcadia),  ANGELO AMBROGINI (POLIZIANO): STANZE PER LA GIOSTRA DI GIULIANO DE’ MEDICI.

V)              Scrittori al di là della civiltà rinascimentale: Cariteo (Benedetto Gareth, detto il: Endimione, canzoniere), Aquilano (Serafino de’ Ciminelli, detto l’A.:Rime), Tebaldeo (Antonio Tebaldi, detto il: Rime), Leonardo da Vinci (Scritti letterari), Fr. Colonna (?: Hypnerotomachia Poliphili).

Prima però di affrontare i singoli autori della lingua toscana, diamo uno sguardo all’apparente tramonto ed alla inarrestabile ripresa della scrittura volgare, a cominciare dalla morte del Petrarca.

 

La lunga marcia della maggioranza loquace ma non scrivente: la vittoria della lingua volgare toscana.

Nonostante il sussiego di  vari umanisti, giunti a definire Dante un “poeta da ciabattini e da fornai”[41],il popolo fiorentino e toscano mantiene vivo l’uso sella parlata materna e, poco a poco, ricupera anche la fiducia nella capacità del volgare a veicolare per scrittura concetti filosofico-scientifici, in forme espressive nobili e dignitose. L’uso del latino rimaneva un fenomeno artificiale : era la prima lingua straniera imparata dai maestri, normalmente non utilizzata nel  parlare più solito, non foss’altro perchè, delle donne, erano rarissime quelle che giungevano a padroneggiare con sicurezza la lingua di Roma, sicchè anche quanti erano addetti per ufficio a scrivere ed a discorrere con i colleghi nella lingua di Cicerone, la casa rappresentava il ritorno obbligato alla lingua nativa. La stessa crescita quantitativa del numero di studenti universitari finiva (legge psicologica insuperabile!) per andare a scapito della qualità dell’apprendimento: una percentuale sempre più grande  acquisiva il minimo necessario per la laurea e l’ufficio, disinteressandosi alle finezze di un uso pervasivo della  “grammatica”. Nel frattempo diventavano sempre più “pervasivi” i commercianti toscani e sempre più “persuasivi” i loro tre grandi scrittori del Milletrecento, sicchè il fiorentino era sempre più diffuso come lingua parlata. Gli organismi di governo veneziani mantengono imperterriti la tradizione di usare il loro linguaggio, sicchè anche le “relazioni” degli ambasciatori alla “serenissima repubblica” sono scritte in pretto veneziano, mentre soltanto i messaggi alle potenze estere (anche d’Italia!) sono vergati nella lingua “franca” od internazionale di Roma. Filippo Maria Visconti vuole scritti in volgare i documenti del suo governo, mentre Firenze rende obbligatorio il fiorentino per le scritture di “mercatanzia” (1415) e di cancelleria (1451).

Mai, d’altronde, venne meno un manipolo di intellettuali convinti del valore definitivo del volgare. Si può, infatti, sospettare che il card. Dominici scrivesse in toscano la Regola del  governo di cura familiare, solo perchè indirizzato anche alle donne non addottorate; ma non si può invece dubitare della fede nel futuro della lingua toscana in un Cino Rinuccini, in un Gherardo da Prato, in Matteo Palmieri ed in L. B. Alberti. Che più? Il Bruni, nei citati Dialogi ad Petrum Histrum propone le posizioni  opposte (estimatori e sprezzatori della lingua fiorentina e dei tre grandi trecentisti) solo apparentemente alla pari: l’ultima parola  è agli esaltatori ed il Niccoli ritira come pretestuose le accuse mosse a Dante, Petrarca e Boccaccio. E chi li difende sarà proprio quel Coluccio Salutati, considerato il maestro dell’Umanesimo  nella loro città. Lo stesso Bruni è autore di una preziosa Vita di Dante (1436) in lingua fiorentina e, sia pure in latino, Giannozzo Manetti  scriverà la biografia delle tre “corone” del Trecento volgare. La stessa strana opinione del Bruni (condivisa da altri umanisti), pel quale anche ai tempi di Cicerone a Roma  la lingua parlata appresa in casa differiva sostanzialmente da quella scritta ed imparata a scuola, è spia acutissima di questa mentalità pluralistica. Così entrambi i linguaggi han diritto di cittadinanza, visto che il bilinguismo è sempre esistito e sempre esisterà. Un passo innanzi è fatto dalla sua affermazione nella Vita di Dante: “ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo suono e suo parlare limitato e scientifico”, tanto che la differenza tra latino e volgare non è diversa da quella tra latino e greco! Da queste posizioni del Bruni all’altra di Cristoforo Landino: “E’ necessario esser latino chi vuol esser buon toscano” ed a quella di Pietro Bembo che stabilisce una classicità anche per il toscano (Prose della volgar lingua: 1525)  i passaggi sono coerenti e prevedibili.

 

I)               SCRITTORI ANTIRINASCIMENTALI

 

Giovanni Dominici (1357-1419). [42] Ponendo il beato Dominici fra gli antiumanisti, non dobbiamo immaginarci un fanatico insensato. Egli si mostrò personaa  intelligente e saggia, che apprezzava molto la istruzione, quella umanistica (filosofico-letteraria) in specie., proprio per il fine terreno di assicurarsi una posizione di onore e di guadagno. Così troviamo in Governo di cura familiare suggerimenti di sapienza realistica che dimostra la conoscenza dei propri tempi e il coraggio della verità: a parte il vivo senso della giustizia, egli esprime attaccamento alle libertà comunali e stima per le arti tecniche; denuncia come ovvia la diversa condizione con cui uomini e donne arrivano al matrimonio (quelle, normalmente vergini; questi, normalmente fornicatori); predica il dovere di lasciar scegliere lo stato matrimoniale piuttosto che religioso-ecclesiastico ai giovani; non tace il pericolo per la salvezza dell’anima rappresentato da certi conventi corrotti, dove ragazze  ingenue trovano un covo di vipere perfide  anzichè un ovile di candide pecore; invita a dimenticare i nomi di “parte” (guelfi|ghibellini) per scegliere quello solo di onestà civile e professionale (“iusto fiorentino”); insegna la prudente armonia fra castighi e premi, fra amore e timore nell’opera educatrice; ecc. Ciò detto, bisogna riconoscere che sussiste in certi angoli del suo pensiero un sapore ultramedioevale, che si concretizza in un sospetto eccessivo verso i valori puramente umani.  Questo (sia pur solo parziale) antiumanesimo si rivela nel sottolineare piuttosto le divergenze che le analogie fra pensiero  greco-romano  e cristiano; nel sospetto eccessivo verso gli scrittori pagani (oltre che da Ovidio, egli mette in guardia anche da Virgilio, come suggeritore di idolatria!); nella preoccupazione eccessiva di fronte alle manie femminili di mode, vanità, cerimonie di galateo mondano;  nello scoraggiare  i genitori non solo da moine e sdolcinature verso i figli, ma persino dal racconto di favole; nella convinzione “occamista e nominalista” che il pensiero al di fuori della rivelazione non possa giungere che a probabilità e ad opinioni, non a certezze scientifiche.  Dante, il medioevalissimo, cristianissmo ma anche umanissimo Dante, sarebbe inorridito di fronte a tanto pessimismo disumano. Egli cita, ovviamente, il peccato originale, ma ne deduce motivo per una serie di scrupoli che  fanno da simmetrico contraltare alla noncuranza e disinvoltura educativa dei rinascimentali, che delle conseguenze della colpa prima si sono dimenticati. Pure, non si può dimenticare la umanissima e  tenera poesia alla Madonna che inizia “Di’, dolce Maria”. Pure, se è davvero suo il Libro d’amore di carità, avremmo una prova di una visione meno oscurantista e rigorista della vita cristiana: difatti l’opera è  indirizzata   a quella Bartolomea, sposa di Antonio degli Alberti, che è al centro del Paradiso degli Alberti, scritto (probabilmente) di Giovanni Gherardo da Prato, che esprime già –alla fine del secolo XIV- lo spirito rinascimentale armonizzato con quello cristiano, totalmente rispettoso dei valori del Vangelo e della morale, quale si esprime nella lieta brigata raccolta attorno alla mecenatesca famiglia degli Alberti, ospiti generosi  per molti maestri laici ed ecclesiastici della Firenze di Coluccio Salutati. D’altronde la questione dello studio degli autori pagani era già stata risolta positivamente sia in oriente, da San Basilio (“Lettera ai giovani sulla lettura degli autori pagani”), sia in occidente, da San Gerolamo (lettera  70: a Flavio Magno). E, ancora, per secoli e secoli (dall’invasione dei barbari nel sec. V all’aprirsi del secolo XI) uomini ed istituzioni di Chiesa erano stati i quasi unici  ricopiatori degli autori classici (i monaci di Cassiodoroo, vissuto tra il 490 ca e il 583- nel monastero da lui fondato in Calabria col nome di Vivarium) o loro studiosi  sistematici (i “Libri di Etimolgie” di Isidoro di Siviglia, il convertitore dei Visigoti: 560 ca- 636), nonostante la coscienza del pericolo che essi rappresentavano per il contenuto non conforme nè alla fede nè alla morale evangelica (si vedano i testi addotti in proposito da Aurelio Roncaglia nel volume “Le origini e il Duecento” della Garzantiana). L’atteggiamento prevalente del Dominici, che rifiuta in blocco, senza le dovute distinzioni la cultura umanistica, è reazione esasperata di un animo timido e scrupoloso, in tempi in cui un Luigi Marsili (1342-1394) ed un Ambrogio Traversari (1386-1439)- frate agostiniano il primo, camaldolese il secondo- partecipavano serenamente e con equilibrio ad una cultura umanistica ancora profondamente cristiana, come quella appunto del Salutati o dei frequentatori della villa degli Alberti. Eppure il pessimismo del Dominici, irrazionale in alcuni suoi aspetti, doveva purtroppo rivelarsi profetico: l’Umaneismo avrebbe finito per perdere la sua armonia colla fede e la morale e si sarebbe inclinato verso una implicita forma di eresia (oblio del peccato originale) ed ina condotta esplicitamente paganeggiante. Già il Salutati aveva ammonito Poggio Bracciolini e Giovanni d’Arezzo: “Nimis defertis et ceditis vetustati”: troppo vi inchinate e concedete alla antichità pagana...”.

Non ci meraviglieremo più, allora, dell’opera sua più famosa, la LUCULA NOCTIS, scritta in latino perchè indirizzata ai dotti umanisti. Passando all’estremo opposto, egli combatteva una moda di pensiero pericolosa. L’opera uscì probabilmente nel 1405: la  “lucciola” o “piccola luce nella notte” fece scalpore e indusse il Salutati a tentare una risposta adeguata (che la morte interruppe nel 1406). Anche il Bruni e Ciriaco d’Ancona ne  combatterono le idee. In tale opera il Dominici, in 47 capitoli (secondo il numero delle lettere che ne compongono il motto, tratto da Vangelo di Giovanni), mette in guardia contro lo studio degli autori pagani, perchè sorgente di corruzione. Per lui, unica sorgente di luce vera è Cristo e gli autori pagani non ne sono una preparazione ma un offuscamento, secondo il Vangelo di Giovanni “Lux in tenebris lucet et tenebrae eam non comprehenderunt” (la Luce brilla nelle tenebre, ma le tenebre non la vollero accettare).

Proprio per questo, ogni suo altro scritto è di natura esclusivamente religiosa ed evangelica: oltre il Governo di cura familiare (la più diffusa), stanno Il libro dell’amore di carità; il Trattato delle dieci questioni; e lettere e poesie, fra cui quella (attribuitagli non del tutto sicuramente) che inizia “Di’, dolce Maria”.

 

Gerolamo Savonarola.[43] Se il Dominici interferisce umilmente e scolasticamente contro l’astro dell’umanesimo, ascendente al principio del secolo XV, il Savonarola tuona possentemente contro la corruzione, di cui quello era causa nella stessa Firenze, alla fine dello stesso secolo. Entrambi inutilmente, almeno a livello tattico, cioè come risultato immediato. Testimonianza macroscopica dell’attituidne savonaroliana è il “bruciamento delle vanità” sulla pubblica piazza della signoria, nel carnevale del 1497 e 1498, quasi a riparazione delle feste più meno paganeggianti in voga finchè era stato in vita il Magnifico Lorenzo. Vi si bruciavano infatti anche statue e dipinti di valore artistico, ma impudenti, libri latini e volgari dello stesso genere. E’ vero che il gran frate domenicano non era contro la cultura e lo studio in sè: basti ricordare l’acquisto della biblioteca medicea da parte del convento di S. Marco, voluto da lui perchè non fosse dispersa, dopo la morte del Magnifico e la cacciata del figlio Piero al sopraggiungere dei francesi nel 1494. Ma scrivendo l’operetta Apologeticus sulla divisione ed utilità delle scienze, egli pone la poesia all’ultimo gradino del sapere e ne sminuisce l’utilità per la formazione intellettuale e morale, consigliando l’uso degli autori profani agli anni maturi, quando una formazione cristiana ha preceduto e preparato il terreno ad accogliere il buono ed escludere il male. Ancora: egli raccomanda spesso ai genitori l’istruzione dei figli. Scrive infatti: “Io non ho mai avuto in animo di condannare l’arte del poetare, ma solamente l’abuso che taluni ne fanno...” Eppure, nella stessa operetta, continua: “Vi è una falsa genìa di pretesi poeti, i quali non sanno far altro che correre dietro alle orme dei greci e dei Romani: vogliono la medesima forma, lo stesso metro; invocano i loro medesimi dei nè sanno usare altri nomi, altre parole che quelle usate dagli antichi. Noi siamo uomini al pari di loro ed avemmo da Dio uguale facoltà di dar nome alle cose che vanno mutando ogni giorno. Ma costoro si resero schiavi degli antichi, in maniera che non solamente non vogliono parlare contro la loro sostanza, ma neppure vogliono dire ciò che essi non dissero. E questo non è solo un falso poetare, ma è anche una peste perniciosissima della gioventù. Io certo mi affaticherei a provarlo, se non fosse più chiaro del sole: l’esperienza che è l’unica maestra delle cose, ha reso così manifesto, agli occhi di tutti, i danni che nascono da questo modo falso di poetare, che è vano ormai fermarsi a condannarlo”. Si possono accostare, alle citate, altre espressioni del domenicano ferrarese; queste, ad esempio, tratte dal De simplicitate christianae vitae: “...increduli...uomini di cultura profana –cioè filosofi, oratori, poeti e altri, tumidi di superbia intellettuale- gente questa che classifica il cristianesimo tra le superstizioni e scambiano l’intrinseca sua semplicità con la stoltezza... la triste condizione in cui versa l’epoca nostra, adesso che la fede è vanificata e la visione soprannaturale della realtà pare essersi spenta.... Neppure quei maestri e sommi rappresentanti del mondo filosofico –nei quali, come s’usa dire, parve che la natura avesse fatto ogni sforzo per crearli perfetti, al di sopra dei comuni mortali: vedi Socrate, Platone e gli altri maggiormente celebrati dai pagani- nemmeno costoro poterono acquisire quel tanto di virtù e di santità che basti a collocarli alla pari con i fanciulli cristiani”.[44] Unico “segno dei tempi” in questo religioso (congenialmente platonizzante, anche se aristotelico-tomista per la formazione ricevuta nel suo ordine) è la mancata correlazione tra insufficienza pagana alla virtù integrale, e il dato rivelato del peccato originale. Questo oblio della  ferita additata dalla rivelazione come causa della sproporzione fra doveri e poteri della volontà umana, è il tributo pagato (ben inconsapevolmente) dal Savonarola alla mentalità umanistica che egli combatteva con tanto fervore. Al tentativo di risanamento etico fallito nel Savonarola, succederà il cinismo sofferto di Machiavelli e quello pacato di Guicciardini, che vedranno in un potere sfrenato al vertice degli stati il rimedio unico alla sfrenata bestialità della massa popolare. Poi verrà Lutero a pretendere di purificare il mondo ecclelsiastico  e religioso, abolendo il celibato ed i voti di povertà ed ubbidienza, ritenuti impraticabili. Ma solo la teocrazia di Calvino e l’alleanza fra trono ed altare riuscita, almeno in parte, al Concilio di Trento riusciranno a rimettere in sesto (per qualche generazione) la vita morale della Europa rimasta cattolica o divenuta calvinista.

Ecco le opere del Savonarola. TRIUMPHUS CRUCIS (Il trionfo della croce: 1497).  

                                                  PREDICHE: Sopra l’Apocalisse e la Genesi (1490 e 1494); Sopra (il profeta) Aggeo (avvento 1493); Sopra i salmi (1495: feste); Sopra Giobbe (1495: Quaresima); Sopra (il profeta) Amos ( Quaresima 1496: prediche fra le più forti e belle, tenute su comando della signoria, avendo il papa concesso il permesso a voce, senza ritirare il divieto scritto); Sopra Michea (Maggio 1496); Sopra Ezechiele (Avvento 1496); Sopra l’Esodo (11 febbraio 1498).

                                                  APOLOGETICUS DE RATIONE POETICAE ARTIS (1490?)

                                                 De simplicitate christianae vitae (1496);

                                                  TRATTATO DEL REGGIMENTO E GOVERNO DELLA CITTA’ DI FIRENZE (1497). Trattato contro gli astrologi; De veritate prophetica; Solatium itineris mei; Lamentatio Sponsae Christi adversus tepidos; Loqui prohibeor et tacere non possum;Dieci regole de orare (pregare) nel tempo di grandi tribolazioni; Meditazione sopra il salmo “Miserere mei, Deus; e sopra “In te, Dominne, speravi”; Regola del Ben vivere cristiano; Della vita viduale; Dell’umiltà; Dell’amore di Gesù Cristo.[45]

 

 

II)            SCRITTORI SOLO MARGINALMENTE INTERESSATI ALLA CULTURA RINASCIMENTALE

 

In genere, di questi scrittori si può dire che la tematica e la tecnica stilistica sono sostanzialmente ancorati alla tradizione medioevale. L’argomento sarà religioso ed edificante in Feo Belcari, Bernardino da Siena, ecc.; oppure sarà fantastico e profano nei “cantari” (avventure cavalleresche, di guerra e d’amore); oppure si farà portavoce della fronda politica (Domenico di Giovanni, detto il Burchiello) o della estrosità popolaresca (ancora il Burchiello e Antonio Cammelli detto il Pistoia). Quanto allo stile, essi si esprimono  con libertà sintattica (in prosa) o con schemi metrici tipici del Trecento. Eppure anche in essi i tempi  nuovi e le nuove tendenze si fanno sentire: sarà il senso di vergogna per farsi perdonare la pubblicazione di strambotti e versi popolareschi; sarà la parte che vi ha la mitologia; sarà la preoccupazione di risalire alle fonti per opere di agiografia; sarà la spregiudicatezza stessa nella casistica morale di S. Bernardino da Siena o di Alessandra Macinghi Strozzi... Nessuno è davvero immune dall’ambiente in cui vive: se ben si riflette, anche Savonarola e Giovanni Dominici ne risentono marginalmente, pur reagendovi nella sostanza. Tanto più questi autori, per i quali lo stile interessa sempre meno del contenuto e delle finalità pratiche (di edificazione o di contestazione; accontentare il popolino o guadagnarsi il pane per vivere).

 

            Gli autori dei “CANTARI”

Ci interessano soprattutto per introdurci ai loro prosecutori più letterati: da Luigi Pulci, a Matteo Maria Boiardo, a Ludovico Ariosto. Si tratta di versificatori di poemi cavallereschi, detti “cantari” perchè destinati  ad esser recitati da “canterini o cantabanchi” sulle piazze delle città o dovunque vi fosse gente disposta ad ascoltare. [46] La loro composizione inizia verso la caduta del secolo XIII e si prolunga abbondante nel secolo seguente. Dobbiamo ora aggiungere che, secondo studi più recenti, cantari già attribuiti al Milletrecento (Rinaldo di Montalbano, Uggeri il danese, Orlando, La Spagna in rima) appartengono più probabilmente al nostro secolo. Sicuramente del Millequattrocento sono l’anonima Regina Ancroia. A cavallo dei due secoli sta il prosatore Andrea di Jacopo de’ Mengabotti da Barberino (in Val d’Elsa: 1370 ca-dopo il 1431), che ridusse e modificò in forme facili e gustose molte composizioni francesi. Il più noto dei suoi lavori è quello intitolato “I Reali di Francia”, che ebbe prosecuzioni nei romanzi Aspramonte, Storie narbonesi, Aiolfo del Barbicone, Ugone d’Alvernia... Accanto ai “Reali di Francia” il suo romanzo più famoso è il “Guer(r)in meschino”, storia fantastica a sè stante. Queste due opere sono state  diffuse, in sunti per ragazzi e no,  ancora nel secolo XX; fino al secolo XIX hanno goduto di un largo favore popolare (si ricordi il sarto manzoniano nel capitolo 24  dei Promessi) e non è detto che abbiano finito il loro giro di lettori... Dai “Reali di Francia” gli eroi carolingi -e Carlo Magno stesso- sono ricondotti alla discendenza da Costantino il grande, dividendosi in due partiti opposti: la casa di Chiaramonte che presenta gli eroi puri e fedeli; e la casa di Maganza, composta di furbastri, infidi e traditori. I sei libri in prosa coinvolgono anche la materia di Bovo d’Antona, che circolava già nel secolo XIV sia in prosa che in versi. Ma soprattutto l’attenzione va concentrandosi su Orlando, nato da Milone e dalla sorella di Carlo Magno, Berta: il loro amore è a lungo contrastato, sebbene alla fine l’imperatore accoglierà ed onorerà il nipote come il suo miglior paladino. Andrea da Barberino, da buon toscano dalle idee chiare e distinte, infonde nella materia ingarbugliata e vastissima un principio di unità e  chiarificazione, ma pagando il prezzo di una semplificazione troppo  elementare, persino infantile: l’interesse verte sulle vicende guerresche spettacolari e sugli amori contrastati: manca ogni approfondimento psicologico e non vi è raffinatezza stilistica. E’ vero che anche Il Morgante del Pulci come versificazione è faticoso (nonostante tutte le cure del poeta), ma almeno le vicende hanno una loro verosimiglianza e l’autore è interessato all’animo dei personaggi (anzi negli ultimi canti, il diavolo Astarotte introduce problematiche religiose sottili e pericolose). D’accordo che anche nel Furioso vi è la libertà della fanatasia, che costruisce castelli fatati (quello del mago Atlante) e inventa cavalcature surreali (l’ippogrifo), ma, concessi spazi sia pur larghi alla invenzione gratuita e magica, una volta definito il carattere di un personaggio, questo resta fedele ad una propria psicologia, semplicistica se si vuole, ma sufficiente a distinguerlo da altri eroi: per un solo tratto caratteristico, magari, ma un tratto coerente e specifico.

L’Entrè de Spagne e La Spagna in rima contaminano il ciclo arturiano  e carolingio, epico ed avventuroso, religioso ed amoroso. A questo modo la figura degli eroi si approfondisce o almeno si complessifica: occorreranno scrittori più geniali per dominare la materia e condurla ad esiti accettabili dal lettore smaliziato e, più in là, a risultati lirici. Il Boiardo ed il Pulci riusciranno nel primo intento: razionalizzare la trama e dare verosimiglianza, cioè parvenza di realtà non tanto alle vicende, ma almeno alla psicologia degli eroi; occorrerà aspettare il più dotato Ariosto ad infondere  un’aura sia pur solo incipiente di poesia in una materia così vasta, varia, gratuita e arbitraria.

 

L’anonimo autore delle Buffonerie del Gonnella

 

Pietro Gonnella, fiorentino della prima metà del secolo XIV, fu uomo di corte presso il marchese di Ferrara, Obizzo III d’Este. Franco Sacchetti ne fece la figura di un buffone mariuolo e furfantesco. Un anonimo del secolo seguente (Millequattrocento) tentò di scriverne la vita e le birbonerie facete e divertenti. Ma, ahimè! il biografo non è all’altezza del compito e sciupa malamente le “buffonerie del Gonnella”, rendendole irrilevanti. Occorre il senso del comico anche nel riferire le trovate altrui. Se ne fece anche una traduzione in ottave: fallita ed insulsa come la redazione in prosa.

 

            L’anonimo autore delle “Facezie del piovano Arlotto”

 

Anche il piovano Arlotto Mainardi, parroco a San Cresci a Maciuoli (diocesi di Fiesole) è personaggio storico, vissuto fra il 1396 ed il 1484. Il libro “Motti e facezie del Piovano Arlotto” apparve a stampa nel secondo decennio del Millecinquecento (1514 ca), ma si pensa che il testo sia stato composto prima della fine del secolo. L’anonimo compositore cerca di far rivivere il buon umore della comicità arlottiana e non si può negare che una traccia del profumo originario permane nel libro. Ma è un ben esile indizio che non basta a spiegare il mito di un uomo, che ancor dentro nel Cinquecento, chi lo aveva conosciuto vivo, ricordava con spassosa allegria e rimpianto. Il personaggio è ricordato persino dal Magnifico Lorenzo, dal Pulci, dal Poliziano, per cui si è costretti a pensare che il volonteroso ma inadeguato riesumatore dell’humour arlottiano abbia disperso gran parte della spassosità con la imprecisione delle battute, con il pressappochismo della memoria. La statura comica del “piovano” ne scapita e, con la sua fama, va dispersa gran parte dell’aspettativa del nostro bisogno di  riso spiegato o di sorriso sornione.

Restiamo in ogno modo nella sfera della popolarità estrosa ma estemporanea: l’improvvisazione e la singolarità avrebbero escluso  con tutta probabilità  le stesse battute originarie ( e non soltanto il povero libro che le ricorda) dalla raffinatezza e dalla dignità di una modellazione su esempi  paradigmatici, necessari per ogni classicità e particolarmente per quella rinascimentale.

 

            Masuccio Salernitano e il Novellino

 

Tommaso Guardati, detto Masuccio salernitano (1415 ca-1475 ca). Nato a Sorrento (od a Salerno?), visse alla corte degli Aragonesi e fu amico del Pontano. Dopo il 1463 lo troviamo a Salerno, segretario del principe Roberto di Sanseverino. Partecipò solo negli ultimi anni alle innovazioni umanistiche, promosse dal suo signore. Fuori di tale evoluzione culturale rimane l’unica opera di Masuccio, che rinnova il nome dell’anonima opera duecentesca: Novellino. Pur ispirandosi al “vetusto satiro Juvenale” ed al “famoso commendato poeta Boccaccio”, l’interesse delle sue cinquanta novelle discende solo dal contenuto: mancano  il lirismo, l’ approfondimento psicologico, le novità culturali. Pure non convengono al Medioevo nè la truculenza, la spudoratezza di certi fatti di cronaca, nè la polemica antifratesca ed antifemminista (la donna è la istigatrice e la causa di ogni male):  questo Novellino assorbe sì dall’ambiente un realismo ed un anticlericalismo maggiori, che lo dicono figlio del secolo XV, ma non è coinvolto nella grande avventura dell’Umanesimo.     Nuova, ma pedantesca, è anche l’ impostazione tecnica delle novelle, che pure avrà seguito. Nessuna cornice boccaccesca, ma un annuncio dell’argomento, una lettera dedicatoria, la narrazione, un commento finale. Sarà fatta propria da Matteo Bandello nel Millecinquecento e, poi,  in novellieri del sec. XVII. La frase è meglio costruita che in Boccaccio e la sintassi è più limpida, ma  i vocaboli non sono sempre toscanamente puri. E purtroppo l’espressione raggiunge una retorica che anticipa la ridondanza secentista, specie  nelle parti non narrative (si veda il Prologo generale  e la dedica ad Ippolita Sforza Visconti d’Aragona). Il racconto vero e proprio è più sobrio e lineare, inserendo espressioni popolaresche e bizzarre che danno un guizzo di vita alla novella. Ma le stesse scene che dovrebbero risultare spassose, rimangono solo potenzialmente comiche, non riuscendo a sfruttare adeguatamente il personaggio ridicolo o la situazione grottesca. Crudezza di ferocia e di  vita sessuale, di polemica   e di moralismo  sono, purtroppo, le cose che più rimangono in mente dalla novellistica di Masuccio.

 

            Il Burchiello (Domenico di Giovanni)

 

Fiorentino, visse fra il 1404 e il 1449. Barbiere a Firenze con bottega in Calimala (centro prestigioso della lavorazione delle lane straniere),  il suo negozio divenne luogo di ritrovo per letterati ed artisti. M anche, ahilui! di politica antimedicea. Nel 1434, al ritorno di Cosimo de’ Medici in Firenze, dovette sfrattare dalla città: a Siena venne più volte imprigionato per furto. Tentò infine la fortuna a Roma, dove riaprì bottega di barbiere. Benchè simpaticone e sempre desiderato come compagno allegro e bizzarro, fu perseguitato anche qui dalla povertà e dalla malattia (sifilide), morendo a 45 anni. Egli era  noto per un “animoso poetare senza senso, per slegate frasi e immagini, ma assai preciso nel verso e molto calzante di suono e accento” (Pietro Pancrazi). Tale modo di comporre fu detto “rimare alla burchia” dal soprannome del suo inventore. Il quale, però, compose anche sonetti autobiografici sensati e sofferti. Il suo verso più famoso è l’inizio del sonetto

“Nominativi fritti e mappamondi”. Ma ecco una composizione intera burchiellesca:

                        Un gioco d’ali”ossi in un mortito (ossicini da gioco in uno spezzatino con spezie)

                        rocchi, cavalli, dàlfini e pedoni,

                        e la reina Saba e Salomone

                        ed un babbion che rifiutò l’invito,

                                                erano in su’n asino smarrito

                                                che facevan due navi d’un popone,

                                                andando le formiche a processione

                                                però che carnasciale era sbandito.

                        Mugnon, vedendo tanta gente in frotta,

                        disse: -Andate in là in ora spagnola,

                        che voi andrete ancora alla pagnotta.

                                                Allora una farfalla marzaiola

                                                ch’aveva abburattato allotta allotta

                                                a tutti infarinò la berraiuola:

                                                                        ed una ciriuola

                        s’era posata in sul veron di Ripoli

                        per poter me’ veder giostrare i zipoli.

 

Ci si accorge facilmente che i punti di riferimento di fondo (motivi ispiratori?) sono particolari realistici di un mondo umano vicino a quello animale; e di un mondo infraumano analogo nella assurdità a quello degli uomini., cui esso accenna. Le singole frasi hanno –di solito- un senso, ma si uniscono poi fra loro “alla bizzarra”, al fine di affogare ogni significa esplicito, tranne quello implicito di fondo: l’intento di gabbare il mondo, l’umanità, gli ascoltatori mediante il suo vagabondaggio paralogico. Sulle prime,tale modo di esprimersi illude sulla razionalità del discorso complessivo e la mente si mette in tensione per scovare il misterioso significato: in seguito, esperta del gioco, l’animo del lettore si distende in pace, mettendosi in una disposizione umoristica. Si tratta di una comicità precaria e, in ogni caso, lieve, nonostante alcuni grevi ingredienti, perchè questi finiscono per rimanere senza senso, spersi nella nebbia del non-senso. E’ un riso fra compiaciuto e compassionevole, che oscilla cioè tra il divertimento e la disapprovazione:  se non ci fossero i sonetti seri, si potrebbe dubitare dell’ingegno nell’autore. Si deve concludere invece per una notevole intelligenza, ma sprecata; di un talento esistente, ma distorto; di un senso musicale tanto singolare quanto sciupato.

Ma, come detto, il Burchiello quando “fa da senno” e parla della propria miseria, non solo è chiaro nelle singole frasi, ma logico in tutto il sonetto e liricamente riuscito nella elegia dolente. Al di sotto delle notazioni grottesche, che nascono  dallo sforzo di superare il pudore di mettere a nudo se stesso e finirla di evadere nell’insensatezza per decidersi a parlare  di cose reali ed angosciose, emerge una sofferenza che si cominica al lettore. Ma è una vittoria sulla vergogna che riesce a metà: permane in parte l’autoironia, la voglia forzata di ridere sulle proprie sventure (il grottesco, si è detto), sicchè vengono a galla  sia la volontà di deridersi che quella di compiangersi, le quali rischiano di elidersi fra loro. La dissolvenza incrociata fra i vari sentimenti ispiratori non è però totale; la elegia si salva anche se rimane mediocre, non si sublima in univoco lirismo, in emotività fascinosa.

La forma metrica è quella del sonetto caudato (dopo la seconda terzina si inserisce un settenario rimante coll’ultimo endecasillabo e, poi, due endecasillabi rimanti fra di loro). La fortuna fu notevole: oltre al Cammelli (Antonio, detto il Pistoia, che vedremo subito come suo continuatore), lo ebbero ben presente il Pulci, il Magnifico ed il Berni, cioè tutti i poeti scherzosi toscani dei secoli XV e XVI.

 

Il Pistoia   (Giovanni Cammelli)

 

Nativo di Pistoia (onde il soprannome), visse fra il 1436  ed il 1502.  Fu alla corte dei da Correggio (a Correggio di Reggio Emilia) e, poi, a quella degli Estensi a Ferrara. Fatto capitano della porta di S. Croce a Reggio, ne fu destituito e sprofondato nella miseria assieme alal famiglia, sicchè dovette vagare di corte in corte. Morì anche lui di malattia venerea. La tragedia Pamphila (1499: detta anche Filostrato e Pasitea, Filostrato e Panfila) testimonia dell’aura rinascimentale in cui gli toccò di vivere: la tragedia, infatti, benchè ispirata a Boccaccio IV, 1[47] è scritta in terza rima ed è trasposta in ambiente classico. Ma non sta qui la grandezza del Pistoia, che non è riuscito a infondere lirismo alla vicenda. Scrisse anche un “Dialogo dei morti” che introduce i suoi sonetti: esso è di impronta lucianea ed è ulteriore segno dei tempi rinascimentali.

Egli è noto invece per i 533 sonetti, una parte dei quali (il primo gruppo) sono “alla burchia”. I motivi ispiratori sono vari e strambi come quelli del suo maestro, il Burchiello: è tutto il mondo guardato “sub specie dementiae” (sotto l’angolatura della follia), cioè scorciato nei suoi aspetti deliranti.[48] Ma, accanto alla descrizione di un abito logoro, di un ubriacone, di un crocefisso rappresentato in atteggiamento disperato, di una rozza sfiancata, di giudici corrotti, di magistrati venali, di sordidi poeti contemporanei, di cattivi alberghi e peggiori cene, trova anche posto la descrizione delle miserie d’Italia nell’ultimo ventennio del secolo XV; e della tragedia della sua vita (che trova spazio anche in altre sue composizioni, le “disperate”). Più facile parlare del suo stile che non del lirismo. Niente retorica nè giochi di parole: è sbandito ogni bamboleggiamento (preteso) petrarchesco come ogni anticipo di barocchismi sbalorditivi. Ma, anzichè la ricerca  del sorprendente attraverso i concettini verbali, vi è un continuo divertirsi con la ambiguità di un pensiero che  si mostra e si nasconde, in una specie di gibigiana maliziosa, alla maniera del Burchiello. Oppure vi è, nei sonetti più sensati, una aderenza così immediata al sentimento esistenziale, da avvicinare l’espressione al grido, all’insulto volgare, alla arrabbiata imprecazione, (ad esempio nel sonetto contro i comuni a regime popolare, come Firenze). Il realismo della descrizione è ovunque ma, provvidenzialmente, non è ovunque così etsemporaneo e disumano. Difatti la sua brutalità e volgarità nause ed allontana; viceversa, in altri casi, il suo disimpegno è di un tale scettico cinismo, che la realtà  messa in versi lascia incerti fra  compassione e derisione,fra dramma e comicità: dissolvenze incrociate totali elidono una emozione con l’opposta e la espressione risulta, alla fine, stolidamente inerte.[49]

Vi sono bene composizioni in cui tali estremi o di passionalità o di scettico disinteresse sono evitati: e allora la sua polemica diventa impaziente ma pur convincente; la sua amarezza rimane risentita, ma ragionevole. Così è del famoso sonetto “Passò il re franco, Italia, a tuo dispetto”; o dell’altro su un crocefisso rappresentato come un disperato malfattore, pel quale protesta fra divertito e corrucciato “Colui che questo Cristo ha fabbricato| ha dato un gran favore all’eresia...” Con una certa misura di lirismo in cui la collera personale almeno in parte si eleva a protesta universale, stanno più o meno tutti i sonetit politici: e sono più di cento. Il Pistoia non è dunque fra gli ultimi poeti del secolo XV (o, se si vuole, è uno dei pochi tollerabili fra i minori), anche se rimane nel suo mondo popolaresco e trecentescamente violento,  inconsapevole o disinteressato, nei sonetti, della corrente innovatrice del Rinascimento.[50]

            Feo Belcari

 

Fiorentino, visse tra il 1410 e il 1484. Di famiglia borghese, partecipò alla vita politica fino alla carica del priorato, essendo uomo di fidata parte medicea. Ma fu soprattutto un’anima ammirevole, per la capacità eccezionale di coniugare la vita degli affari e della politica alla fede religiosa, con un vivissimo senso non solo della onestà, ma anche dello spirito evangelico. Qui, ovviamente, ci interessa come letterato: più come portainsegna di una tradizione perseverante dal secolo precedente, che per particolari plusvalori lirici. Scrisse Rime (serie e facete), Laudi (ballate di argomento sacro, da cantare su musiche in voga per lo più profane). Volgarizzò, dalla traduzione in latino di Ambrogio Traversari, l’opera greca “Il prato spirituale dei Santi Padri”, parafrasando, all’occorrenza. Così fece per la vita di S. Egidio. Più in là andò con la Vita del beato Colombini, per la quale usufruì dell’opera esistente del beato Giovanni Tavelli da Tossignano e delle Lettere del Colombini stesso, ma consultò altresì documenti notarili. Questa preoccupazione di risalire alle fonti è l’unica vera nota di modernità del nostro: che, per altro, non riesce a distinguere quanto di fantastico la leggenda aveva accumulato sulla attività del pur grande senese del Milletrecento.

La lingua in cui scrive è così limpidamente fiorentina e la sintassi così scorrevole che i romantici esaltarono questo scrittore popolare come una gemma della nostra “letteratura spontanea”. In realtà vale quanto scrive  C. Varese nella introduzione ai passi del Belcari nei “Prosatori volgari del Quattrocento (Ricciardiana, 1955): “ La Vita del Belcari è frutto di devota e letteraria pazienza, di una mente non fervida nè sottile e più corretta e composta che viva. All’opposto di quanto è stato osservato a proposito dei “Fioretti di S. Francesco” o dello “Specchio di vera penitenza”, talvolta le fonti dalle quali egli deriva- il Tavelli e il Colmbini- sono più dense e più efficaci” (p.4).

Altre opere del Belcari sono le Laudi drammatiche (Il dì del giudizio| Annunciazione di Nostra Signora| S. Giovanni nel deserto| Abraam e Isaac). Abraam ed Isaac, oltre ad essere la migliore delle sacre rappresentazioni, contiene anche la “laude” lirica più valida, da mettere a fianco alle due Orazioni della monaca| a Chi cerca Gesù con mente pia|; a Gesù, Fesù, Gesù! Ognun chiami Gesù|; a Laudate Dio, laudate Dio, col cuor lieto e giulìo.

 

            S. Bernardino da Siena  (1380- 1444)

 

Nato a Massa Marittima nel 1380 dalla nobile famiglia degli Albizzeschi di Siena, rimase presto orfano e fu educato da parenti molto religiose (la zia Bartolomea e la cugina Tobia). In giovinezza ebbe l’eroica carità di servire volontario gli appestati  nel lazzaretto (la peste era stata introdotta da pellegrini diretti a Roma per l’anno santo 1400). Dopo un tentativo di vita eremitica ingenua e paradossale, bussò al convento dei francescani, di cui sarebbe divenuto vicario pel gruppo della Osservanza. Ma egli è conosciuto come il predicatore più ascoltato ed influente nell’Italia della prima metà del Millequattrocento (muore all’Aquila, nel 1444). Non riuscendo la gente a “capire” nelle chiese, era costretto a predicare sulle pubbliche piazze, molto presto al mattino, prima che, verso le sette, aprissero le botteghe degli artigiani e si drizzassero le bancarelle dei mercanti. Le prediche, tenute in volgare, erano poi redatte in latino e così pubblicate, a tutto scapito della carica lirica, estemporanea ed intraducibile di un uomo del genere. Provvidenzialmente, stenografi fiorentini e senesi ci han conservato quattro corsi di predicazione: i quaresimali fiorentini del 1424 e 1425; la predicazione in Siena dell’aprile, maggio e giugno 1425; ed il testo eccezionalmente completo della predicazione estiva nel 1427 a Siena (fino alle parole dette incidentalmente per ammonire un ritardatario o per aiutare lo stenografo a ordinare la materia che stava per esporre, dopo che , la prima volta, lo aveva redarguito, chiedendogli che stesse facendo invece di ascoltare la predica...). Lo stenografo genialmente veloce e fedele era il cimatore di panni Benedetto di maestro Bartolomeo. Queste 47 prediche danno la misura della vena poetica del santo, della sua eccezionale fantasia immaginifica  (nel coniare parole nuove per i suoi concetti morali) e musicale (nel deformare i vocaboli per un gusto eccezionalmente attento al loro suono).

 Timore di Dio e amore del prossimo sono i temi fondamentali della sua predicazione, i motivi ispiratori più suggestivi della sua musa. Egli trova la maniera di esprimerli genialmente. I tesori di Siena? Eccoli: Siena ha due occhi: l’occhio destro è l’arcivescovado; l’occhio sinistro è l’ospedale. Egli morde i mediocri? Oppone “monna pìgara” a “monna sollìcita”. Egli deve fustigare i malvagi? Eccolo chiamare “manigoldi e saccomanni” i soldatacci che depredano ed ammazzano. La donna di malavita si finge pudica per ordire meglio le sue trame? “Ecco qui madona Saragia (sardella), che si mostra così schifa e fassi tanto alla longa, che si fa una coniglia; et è una porca!” Contro la sodomia minaccia i castighi di Dio, gridando nè più nè meno: “Al fuoco! al fuoco!”. A Milano dovette sbrattare, perchè  Filippo M. Visconti non era riuscito a tacitare i rimproveri all’amministrazione, con il regalo di un calice d’oro pieno di monete: il prezioso regalo era servito subito a liberare prigionieri, altrimenti destinati alla uccisione. Egli non esita a presentare la guerra come la conseguenza dei peccati ed il castigo di Dio. Egli parla allora di “frate Màzzica”, cioè del manganello, che è il meno che ci si possa aspettare da eversori di città. Entra con candida audacia in problemi sessuali, invitando le mamme a portare le giovani e le adolescenti loro figlie, assicurando che farà come “il gallo in feccia”, cioè tratterà la materia con pudore pari alla chiarezza. D’altronde, quando arriva ad esemplificazioni scabrose, le accenna bravamente e poi precipita la chiusura del discorso con un arguto “ecceterà ecceterone”. Se ha fatto una digressione, ritorna in argomento con un disinvolto “A casa! a casa!”. Se ricorda l’inferno, è capace di inviarvi i seminatori di discordie chiamandoli “scardiccioni” e mutando la finale del Requiem aeternam (“requiescant in pace: riposino in pace”) con la minaccia “requiescant in pece” , subito spiegando “in pece, in pece, a casa calda!”, affrettandosi a concludere “Loro, però” (cioè i malvagi, non noi). Se metteva in guardia contro religiosi che si spacciavano per profeti e predicavano in favore del divorzio e di altre allegre novità del genere, allora parlava di “fumo di Pentecosta”, bastandogli un mutamento di vocale per suggerire l’azione del demonio anzichè quella dello Spirito santo. Spiegava la uniformità di abbigliamento di cotali seminatori di errori con molto realismo: “ e conviensi che ogni persona si debba vestre di bianco, e così si vestono alcuni e alcune che lo credono, e fanno insieme maschi e femmine uno brodetto, e va la cosa come ella può”. I detrattori li chiama “piombatori di paglia”, in quanto fanno pesare come il piombo i difetti altrui, magari leggeri come paglia. I furbi impostori li scolpisce con la favola della volpe e del lupo al pozzo: “Oh! questo mondo è fatto a scale: chi le scende e chi le sale...”.

I toni lirici più frequentati da san Bernardino variano dal drammatico (ispirato dal timor di Dio) al commosso (ispirato alle sofferenze del prossimo da soccorrere), ma in genere sono conditi dall’arguzia, con cui egli rende accettabili rimproveri e richieste di opere di miserciordia. Così la minaccia dei castighi è attutita nella forma da quel “frate Màzzica” che è il bastone in pugno al “saccomanno”, cioè all’alemanno che mette a sacco le città. Il dramma dei rimproveri è alleviato dal gusto per l’aneddoto scherzoso: oltre al lupo ed alla volpe, egli introduce una specie di arca di Noè nella predicazione (scorpione, locuste, api, vespe, bue e giovenco...). Oppure vi sono giochi di parole di sua invenzione: il “sensale” è facilmente un uomo grossolano e materialone: difatti, è “senz’ale!”. O prove storico-biblico-psicologiche che non stanno nè in cielo nè in terra, ma che elogiano in teoria per colpire meglio in concreto. Ecco un esempio. Le donne sono di una loquacità che va moderata, perchè eccessiva. Ma che volete? esse sono più nobili dell’uomo, perchè non derivano direttamente dal fango: Dio le ha tratte dalla “costola di Adamo”. Questa dignità maggiore si paga, però. Difatti, tratte dalle ossa, come quelle le donne sono irrequiete: fan fracasso e rotolano giù dal mucchio, incapaci di stare ferme. Così, Bernardino, “ridendo castigat mores”: facendo ridere, canzonando, correggeva i costumi ( e non ... delle donne soltanto!). Ma quando teneva il suo Quaresimale più prezioso, detto “Seraphim” perchè trattava della carità, allora si infervorava e s’accendeva di  sentimento. Allora, il soldato di ventura era visto come prigioniero di guerra, esposto all’arbitrio del vincitore ed era chiamato “il povaro saccomanno”, che egli non finiva di ricordare con compassione alla carità dei milanesi, perchè fosse assistito e liberato. Diceva a se stesso, per commuovere la gente: “Doh! frate Bernardino, sievi raccomandato il povaro saccomanno!”. A Siena (lo si è visto) l’ospedale diventa il secondo occhio della cittadinanza, dopo il vescovado. E quando parlava del “nome di Gesù”, si commoveva e commoveva. La devozione al nome di Gesù trova in lui, si può dire, il suo inizio od almeno il divulgatore più efficace: il dipinto colle iniziali latine del nome si trova su antiche case non solo di Siena, iscritto in un sole di gloria: era la riproduzione delle tavolette in legno, che egli metteva a disposizione dei fedeli che potevano permettersi di fare l’acquisto, dopo ogni predica. Le lettere scambiate fra cristiani, prima di frate Bernardino cominciavano “Al nome di Dio”; dopo la sua predicazione iniziavano più facilmente “Al nome di Gesù”, come già aveva fatto santa Caterina e come continuerà a fare Michelangelo Buonarroti, nonostante le proteste di qualche umanista (peccatore e razionalista, d’altronde) come il Bracciolini, che avrebbe preferito il termine “Cristo”, perchè più intellettuale e meno cordiale, meno devoto...

Dal timor di Dio, nasce dunque la carica drammatica; dalla carità cristiana, la tenerezza e la commozione; dallo spirito umanistico è aiutato il senso di humour  congenito: sono queste le virtù liriche che rendono interessante ancor oggi la predicazione del simpatico francescano senese del Millequattrocento.

Le caratteristiche di stile sono in parte tipiche del “dialetto” di Siena e le abbiamo viste per le scritture di Santa Caterina. Ma egli “vi marcia sopra” e ne ricava effetti sorprendenti. Egli parlerà dunque “chiarozzo chiarozzo”, seguendo anche la parlata delle varie regioni dove è chiamato a predicare. Invita così gli ascoltatori a “rugumare” (ruminare) ben bene la predica; ammonisce le donne a non girare per le vie con l’occhio “bàdolo” (curioso,vagante); chiamerà “cicèrbita”l’erba selvatica di cui egli, aspirante eremita, pretendeva di nutrirsi per assomigliare ai padri del deserto; i fischi, li chiama “sùffili”; la zuffa diventa “meschia”; la gloria, “grolia”; l’urlare si tramuta in “burbicare” e la confusione della vista interiore diventa un “lasciarsi imbarbagliare”. Inutile dire che si mantiene in lui la tendenza a rafforzare la musicalità degli infiniti sdruccioli, nei verbi della seconda coniugazione col sostituire una “a” alla “e” fiorentina: “èssare, inténdare, vìvare, cognòsciare, crédare, cuòciare, pònare, rìdare, mèttare...” Ma la cura del musicalismo si allea con la deformazione del nome delle cose: lo spaventapasseri diventa “sparavicchi”; la donna pigra si ingentilisce in “monna pìgara”; la peste si intristisce nella “pistolenza”; il povero vecchio è “rincitolito” (tornato “cito”, cioè bambino), mentre lo svagato uditore ridendo sgangheratamente “sta a sgrifalare”. Il frate smemorato può prender sonno solo dopo aver recitato “Compieta” (l’ultima parte del breviario o libro delle pregheire obbligatorie per religiosi e clero  in genere):allora comincia subito a “sarnacare” (russare). La moderazione nella fatica fisica è raccomandata con termini forti: “non entrare in “anfània” (affanno): tèmpara il vizio (la salute vale più del guadagno). Di qui il decollo verso immagini-dimostrazioni: basta una osservazione della vita concreta, per risolvere una questione. “Ma io ti domando: che ci bisognano questi denari? Questa fadiga, perchè? Io non credo che ci fusse mai niuno di voi, che ne toccate cotanti, che mai ne mangiasse per poter meglio vìvare. Io mi credo che nè secolare nè frate mangino mai denari: io non ne mangiai mai niuno, e così mi credo che aviate fatto voi. E che bisognano questi denari se l’uomo può avere ciò che li bisogna?”. E, viceversa, non bisogna esagerare neppure nelle cose dello spirito:  “Sai che ha fatto questa tale (che si è proposta di fare pratiche religiose, impossibili poi a realizzarsi)? Ella ha fatto il volo dell’oca: fa el busso (tonfo) grande, e in fine non ha fatto nulla”. E così,altra volta, morde l’ignoranza di certi profeti fantastici, chiamandoli “dottori da Grosseto “(dal cervello grosso, zotico), mentre gabba bonariamente le superstizioni popolane come sarebbe il versare il vino a tavola (segno di buona fortuna!) piuttosto che l’olio (malaugurio!): “ Uh! e voi donne, quando voi versate una lucerna d’olio, voi non dite a quello che è buona astificanza (augurio di benessere); del vino, voi volete dire che è buona astificanza. Doh, pazzerelle, quanto vi chioccia il capo” (manda rumore incrinato, insano di fessura).

Così Bernardino univa la popolana sapienza medioevale all’arguta letterarietà rinascimentale, nel connubio ideale raccomandato dal Vangelo, che paragona lo scriba sapiente ad un uomo che trae dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove. Ma era un equilibrio che solo una vita evangelica poteva garantire in tanta disarmonia tra il furore della cultura mentale e la corruzione o tiepidezza dell’operosità morale.[51]

 

            Alessandra Macinghi Strozzi (1407-1471)

 

Appartenente a famiglia borghese di spicco ,salì, col matrimonio, fra le primarie della città, ma si attirò l’inimicizia dei Medici, cui gli Strozzi non furono favorevoli, pur senza mettersi loro contro. Matteo, il marito che l’aveva sposata a 16 anni, dovette esulare: essa rimase con cinque dei sette figli  avuti da lui; e l’anno seguente 1435 era vedova! Man mano che i maschi giungevano alla maggior età, dovevano andare anch’essi in esilio: Filippo, Lorenzo, Matteino (nato quando il padre era già morto) dovettero rifarsi una posizione economico-sociale, entrando in ditte commerciali gestite da parenti e poi, via via, facendosi strada a Napoli come a Bruges, in Catalogna come a Venezia. Alessandra intanto custodisce il focolare, sposa le figlie, trova moglie per i figli esuli, piange su Matteino che parte anche lui e morrà giovane senza che lei lo possa rivedere od assistere; si batte tenacemente perchè sia levato il bando, riuscendoci alla vigilia dlela sua morte. Non potendo parlare loro da vicino, mette mano alla penna, scrivendo più di settanta lettera fra il 1447 e il 1470. Accenna, con bonaria ironia e secondo un frasario concordato, ai potenti di Firenze, d’Italia e d’Europa, ma effondendo invece senza ritegno tutto l’ amore di un cuore di madre e tutta la sapienza di una mente intelligente ed educata, in uno stile tanto estemporaneo e popolare, quanto vivace e seducente. Essa parla al di fuori di ogni preoccupazione letteraria (“ Non guardate al mio bello scrivere; s’io fossi presso di voi, non farei di queste letteracce, che direi a bocca i fatti mia e voi e’ vostri”), ma possiede un’anima sulla linea di quella di santa Caterina e, anche se non ha la Sua elevatezza di intenti  spirituali e di prospettive apostoliche, pure la fede religiosa è così viva, la volontà di combattere e di sperare contro ogni indizio è così tenace, che davvero trascina ed affascina. Alla prima lettura, specialmente: meno resiste ad una seconda. Si tratta infatti di una emotività epicizzante che tende al patetico: enfasi di immediatezza e fervore di vita pratica non abbastanza decantati. L’espressione urge ai risultati pratici, alla esecuzione di piani  di vita terrenamente concreti: manca il tocco ultimo della sublimazione pura, della proiezione universale, che trasformi in grande poesia il calore appassionato di un affetto materno. La cordialità risulta così un poco affannata, sminuendo lo splednore artistico delle lettere, pur lasciando intatte la ammirazione e la simpatia per la donna eccezionale.[52]

 

            Leonardo Giustinian (1388-1446).

 

Fu un patrizio veneziano, anzi fratello di S. Lorenzo, patriarca della città (meglio: vescovo di Castello, ufficialmente, essendo il patriarca ancora residente ad Aquileia). Leonardo ricoprì incarichi eminenti e fu anche procuratore di S. Marco, ma è noto soprattutto per il suo amore alla poesia ed alla musica. Componeva versi che poi rivestiva egli stesso di melodie: un vero cantautore: musica in parole, prima; parole in musica, poi. Le sue composizioni tendono a forme più brevi: praticamente egli fu lo stabilizzatore e diffusore della “canzonetta”, cioè dela “canzone in versi minori” (ottonari, settenari) ed in strofe più semplici che non la complicata  stanza della canzone siculo-petrarchesca. Compose, per altro, anche sirventesi, laudi, strambotti e poesie in terza rima.

I suoi Motivi ispiratori sono per lo più amorosi: celebrazione della donna, supplica perchè accetti l’amore, disperazione pel rifiuto, ecc. : tutte le vicende di ipotetici rapporti affettivi quali una poesia  ormai plurisecolare, dalla provenzale alla petrarchesca, avevano rese di moda. Ma nel Giustinian ci sono anche altri temi di canto: l’amore per la madre, per gli amici, ecc.

Quanto ai Toni lirici, occorre tener presente che Leonardo è un’anima introversa, che partecipa alla vita pratica e politica della sua città per un senso di dovere, ma ama il ritiro nella casa, ove attendere a letture erudite dei classici e dare sfogo letterario e musicale ai propri sentimenti: è (un po’ meno del Petrarca) un uomo che ama più vedersi vivere che vivere intensamente. Per questo non ci aspetteremo nulla di drammatico (epico-tragico) in lui: l’idillio e la lelegia, talvolta colorati da una sottile vena di voluttà o di galanteria, sono le bande liriche da lui più frequentate. O, almeno, “tentate”: chè la intensità lirica è limitatissima, anzi stentata. L’accoppiamento con la musica forse le elevava ad arte discreta: ma in sede musicale, non letteraria.

Per la Tecnica stillistica, si è già detto della metrica. Va aggiunto che egli usa un linguaggio che è a mezza strada fra toscano e veneziano. E sembra quasi che la patina di dialettalità regionale che appesantisce le sue rime sia il segno della poca acutezza intellettaule, del poco calore della sua emotività. Nessuna sublimità o sorpresa poetica, proprio per il convergere coerente di poca luce mentale, di poca carica cordiale, di  poca purezza linguistica. Siamo di fronte ad una luminescenza tiepida, ad un lirismo aurorale. Quei vocaboli duri (inzenochiarmi| ziglio| piazér| casòn= cagione, causa); quei pronomi troppo affilati (mi=me;| de mi| mal per mi che te vidi...); quelle doppie toscane retratte ad una sola consonante (povereto| ochi| fato= fatto...); quegli iati scempiati (to=tuo); quelle abbreviature infelici (‘sto=questo) sono tutti “lapsus” di una personalità poco poetica. Sono circostanze che ritroveremo (se non andiamo errati) nel Boiardo: è la lingua letteraria della Padania, che attende il Bembo per decidersi a risciacquare i propri panni in Arno.

 

III) SCRITTORI AVVIATI ALLA CLASSICITA’ RINASCIMENTALE

 

Prenderemo contatto in questa sezione con autori che presentano una gamma di motivi ispiratori chiaramente relativi e funzionali alla civiltà rinascimentale, ma “formalmente” ancor impastoiati in remore medioevali, con schemi metrici e pressapochismo espressivo generale che li collega al popolaresco Trecento. 

 

            Vespasiano da Bisticci (1421-1498)

 

Nato a Bisticci (in Rignano sull’Arno, Firenze) nel 1421, morì a Firenze nel 1498. Fu un organizzatore di cultura, curioso ed innamorato di quei personaggi che ne erano portatori ai suoi anni e coi quali aveva rapporti privilegiati. Diresse una libreria nella Firenze dei Medici, che impiegò fino a 45 amanuensi, procurando a Cosimo 200 volumi manoscritti in soli due anni. Nella sua bottega di libraio passarono personaggi illustri, già famosi o destinati a diventarlo, a cominciare da quel Tommaso Parentucelli, che diverrà papa Niccolò V. Erano i tempi in cui la presenza a Firenze del Concilio ecumenico per l’unione con gli Orientali, aveva fatto di Firenze l’ombelico del mondo. L’invenzione della stampa fu per quest’uomo (geniale, ma solo per una certa tecnica scrittoria) un duro colpo: come avrebbe potuto esserlo negli anni Millenovecentosettanta l’invenzione della fotocomposizione per gli stampatori incapaci di superare la tradizionale (ed apparentemente intramontabile) linotype; come lo sarebbe stato, dieci anni più tardi, per lo scrittore schiavo della macchina da scrivere ed inabile a passare alla tecnica del computer... Nel 1490 si ritirò nella sua villa presso Firenze (Antella) ed attese la morte, compilando le Vite di uomini illustri del secolo XV. Scrisse anche altre opere, profane (Libro delle lodi o commendazione delle donne) e religiose (Lamento per la presa di Otranto, fatta dai Turchi nel 1480): ma interessano meno.

Vespasiano è un entusiasta della cultura e ne fu un diffusore convinto, ma egli rimase ai margini del movimento rinnovatore. E ne è un po’ cosciente: non sentendosi all’altezza di scrivere in latino le sue Vite, egli ne stende il materiale in lingua toscana, quasi con compassione per se stesso: egli spera che qualcuno, più dotto di lui, completi le notizie e le  volga in latino per  assicurare ai suoi personaggi la immortalità!  C’è in lui ancora tanta popolaresco candore, tanta semplicità di fede, tanta soggezione ai personaggi addottrinati di cui traccia la vita, che non bastano tutti i riferimenti classici, i paralleli colla storia di Roma per dare un volto rinascimentale alla sua opera. Nell’essenza essa rimane scritta con inchiostro medioevale, anche se materilamente ricca di erudizione umanistica. Sta ben accanto alla Macinghi Strozzi ed all’Albizzi, se non ci fosse l’ammirazione per un mondo che egli non si appropria nello spirito ma solo in conoscenze esteriori. Egli, infatti, rimane l’onesto “cartolaro” di provincia, piovuto nella superba metropoli toscana; rimane il cristiano tutto d’un pezzo, fors’anche per una minor duttilità di mente, ma certo per una spontanea ricerca della coerenza morale dell’agire, per una integrità di coscienza che stanno al di sopra, nella sua coscienza, allo splendore della forma e alla vastità della cultura. Certo per lui “cultura” non è inventare, ma solo tradurre, comporre, abburattare la sapienza antica in  sillogi, in interpretazioni, in imitazioni che la faccian rinascere ma non innovare. Eppure egli non è così succube della fama dei suoi personaggi da non saperne dare un giudizio morale, conscio che tale valore è ancor quello supremo. Quando egli tace sui risvolti religioso-morali di qualche umanista è un ben brutto segno, chè, dove si presenta l’occasione, egli non esita a dilungarsi sulle virtù cristiane ed etiche degli uomini illustri. E, oltre tutto, lui così legato ai Medici e loro collaboratore ed amico, non esita a difendere l’innocenza degli Strozzi nella faccenda del loro esilio ed il loro contributo decisivo (anche se indiretto) al loro richiamo in Firenze. Si potrebbe dire che ben gli si addiceva l’elogio “amicus Plato sed magis amica veritas” : questo simpatico, candido, umile ammiratore di una cultura di cui non riuscì ad intuire i pericoli e la implicita disarmonia colla sua fede e con i suoi parametri di giudizio sugli uomini e sul mondo, metteva la verità al di sopra di ogni altro valore.

 

            LUIGI PULCI (1432-1484)

 

La vita. Nacque a Firenze nel 1432, da famiglia nobile ma economicamente decaduta. Si impiegò per qualche tempo presso Franco Castellani, che fu forse colui che l’additò ai Medici. Il fatto è, comunque, che dopo il 1461, “Gigi” è parte della casa del Magnifico ed in tale confidenza da esser definito “il quinto elemento” dell’ambiente mediceo e da scambiare lettere e sonetti, di scherzo e di spasso, con Lorenzo. Sia presso il Castellani che in casa Medici potè farsi una cultura, ma da autodidatta. Giunge a scrivere in latino, leggendo Virgilio ed Ovidio, ma preferisce decisamente Dante ed i poeti popolari, scherzosi, burchielleschi della tradizione toscana. Un po’ meno congeniale e solo parzialmente assorbito è il Petrarca, che pure è presente alla sua cultura e versificazione. La sua facilità a comporre in rima, suggerì alla madre del Magnifico, Lucrezia Tornabuoni, l’idea di ottenere dal Pulci un poema celebrativo su Carlo Magno. Ma il temperamento dell’uomo non era facile; forse ci fu di mezzo anche l’invidia di qualche altro letterato addetto a casa Medici (il sacerdote Matteo Franco, ad esempio); soprattutto la piega presa dal Pulci in campo religioso-filosofico finirono per attirargli la inimicizia di Marsilio Ficino e la ostilità di altre persone ancor più intime al Magnifico, sicchè dovette cercare altrove fortuna. Si mise al servizio di Roberto Sanseverino, uno dei principali condottieri di eserciti del tempo. Morì mentre lo accompagnava a Venezia: fu sepolto a Padova, fuori della terra consacrata per la fama delle sue dottrine eterodosse (reali, ma ritrattate pienamente, come diremo).

 

Le opere.    Il MORGANTE (poema epico-scherzoso in 28 cantari). La prima edizione (1478) constava di soli 23 cantari: essi seguono la traccia di un poema anonimo del secolo XV, che  il critico ottocentesco Pio Rajna rintracciò, ma privo dell’inizio e della finale, sicchè il titolo “Orlando”  è solo una ipotesi dello scopritore. La edizione definitiva aggiunse altri cinque cantari, che però seguono la trama di un diverso poema popolaresco: La Spagna in rima. Il risultato non è però armonioso: se il canto 24 aderisce ancora allo spirito canzonatorio e scherzoso prevalente nella prima parte, gli ultimi quattro canti costituiscono in realtà un nuovo poema, con ispirazione e stile notevolmente diversi. Ne riparleremo.

                        Abbiamo di lui 52 Lettere: esse servono soprattutto a rivelarci la personalità fin troppo spassosa dell’autore, le sue idee in materia religiosa, i suoi rapporti confidenziali con il Magnifico mecenate. La lettera più nota è quella che narra la caduta di una volta in una chiesa di Foligno: piena di popolo, ma senza gravi conseguenze, sicchè egli può sbizzarrirsi sulla singolarità della vicenda e sui particolari della confusione conseguita.

                        La Beca da Dicomano è una composizione parallela alla Nencia da Berberino, scritta dal Magnifico: entrambe sono una caricatura scherzosa di un amore campagnolo, ma le stanze (ottave) del Pulci sono una parodia meno raffinata, più pesante delle presunte espressioni del popolano innamorato.

                        Rifacimento dei canti 2-5 del Ciriffo Calvaneo, scritto dal fratello Luca (o frutto della collaborazione tra i due?): è opera anteriore al 1469.

                        Versi vari: sonetti scherzosi, frottole, un poemetto sulla Giostra di Lorenzo (1469).

 

La personalità.  Non aggraziato nel corpo e triste nel volto: lo si può arguire dal ritratto che ne fece Filippino Lippi (pitture della  cappella Brancacci, nella chiesa del Carmine a Firenze) e  da un sonetto di Matteo Franco, che gli attribuisce “leggerezza, colore e piccin occhi”. La malferma salute di tutta la famiglia è purtroppo attestata dalla morte in età giovane di lui e dei fratelli.[53] Le opere tutte, invece, offrono prove continue di un temperamento allegro, ridanciano. Ma che la sua psiche avesse risvolti seri e tormentati, lo dimostra  non solo la stranezza delle dottrine accettate ad un certo punto della vita (astrologia, magia), ma soprattutto il fatto che non riesce a comunicare quasi mai quella comicità mille volte ricercata, mentre è poeta sufficiente nelle poche stanze scritte in tonalità elegiaca ed epico-drammatica. Era, cioè, un uomo fin troppo serio, anzi melanconico, che cercava nello sfogo con gli altri una gioia di vivere che sentiva mancare alla sua psiche. Era socialmente spassoso, perchè la compagnia di amici dotti e buontemponi gli davano quel sovrappiù di vitalità, di energie nervose che non trovava in se stesso, nella solitudine. Era quello che oggi diremmo un nevrotico: distonico ed esauribile, amletico e donchisciottesco, vicino alla costituzione di Gelsomina (La strada, di Federico Fellini) e di Nazrin (film omonimo di Luis Bunuel); era un tipo pirandelliano, come il “padre” dei “Sei personaggi in cerca d’autore”. Imprevedibile, ingovernabile: eppure non del tutto inaffidabile, con un  bisogno sincero della verità, con una immediatezza della proposizione del suo punto di vista, ma anche con una prontezza umile a ricredersi, ad accettare modi di pensare più ragionevoli del proprio.

 

Motivi ispiratori. Ci riferiamo unicamaente al Morgante[54],esaminando a parte gli ultimi quattro canti, che sono troppo diversi, nello spirito complessivo, dai precedenti, costituendo  praticamente un poema diverso.

            Nei primi 24 “cantari”, il motivo ispiratore prevalente è quello stesso che predomina nei sonetti e nelle Lettere: è il sensazionale e, più in particolare, il sensazionale ridicolo. E’ l’amore per il meraviglioso, lo straordinario, l’eccezionale, l’anormale, il fantastico, lo strano, il paradossale o paranoico, l’abnorme, l’assurdo. O, se si vuole, è l’amore per il furfantesco, la violenza, l’ingordigia, l’inganno e la beffa: per la ribalderia  forzuta o furbesca, in sede morale; per il gigantesco e mostruoso, in sede fisica. Ma il tutto  è pensato in funzione di una espressione umorale, capricciosa, ridicola che vorrebbe riuscire umoristica, cioè benevolmente comica. Quello che nelle sue lettere egli ama raccontare, scegliendo fra le tante vicende della vita reale, nel poema egli ama inventare per lo stesso fine di allegria e di spasso. L’esame dei toni lirici ci darà occasione a riportare esempi concreti: qui basti ricordare la figura di Margutte, invenzione totale del Pulci, sintesi di enormità fisica (“ ed ebbi voglia anch’io d’esser gigante,| poi mi pentii quand’a mezzo fui giunto;| vedi che sette braccia sono appunto”) e di anormalità morale (“io non credo più al nero che all’azzurro,| ma nel capone, o lesso o vuogli arrosto|... E credo nella torta e nel tortello|... Io n’ho settanta e sette de’ mortali (vizi o peccati)| che non mi lascian mai la state o’l verno|... I sacramenti falsi e gli spergiuri| mi sdrucciolan giù proprio per la bocca|... E carità, limosina o digiuno,| orazi”on non creder ch’io ne faccia...” (Morgante, XVIII, 112-fine). Che proprio questo sia il motivo di fondo del poema, lo si può dedurre dal fatto che il Pulci ha rimaneggiato le sue fonti, passandole dalla prospettiva seriosa ed eroica (semmai, involontariamente ridicola, per le gaffes del povero “canterino”) al viraggio comico-paradossale; e, dal realismo complessivo, al fabuloso programmatico.

Il tema militare e carolingio, religioso e storico (la lotta fra cristiani e musulmani o pagani in genere) è presente, ma secondario. Sebbene Orlando predomini su Morgante come importanza teorica (Morgante è al suo servizio) e come presenza di fatto, tutttavia lo spirito dei primi 24 canti è morgantesco-marguttiano: le stesse avventure di Orlando, se non tendono propriamente al comico, trascendono però la sfera del verosimile , per invadere quella del mirabolante, del sovrumano, del sensazionale, del semidivino. L’eroe chiaramontese sfugge di solito alla comicità, ma non alla fabulosità.

In parallelo alla figura di Orlando andrebbe giudicata la “religiosità” del poema: presente sempre all’apertura dei 28 cantari, non è però tema molto sentito e vissuto: rimane un puro omaggio alla tradizione canterina.

Decisamente secondario è il tema amoroso: il caso di Florinetta liberata da Morgante (cantare 19) è l’episodio più notevole. Sebbene la presenza di Antea, innamorata di Rinaldo, poteva costituire un caso importante ( occupa i cantari dal 15 al 24 ed è  la situazione che si rovescerà nel poema dell’Ariosto, ove il musulmano Ruggero ama la cristiana Bradamante: qui saracena è la donna), di fatto prevale in Antea il dovere a vendicare la morte del padre, soldano di Babilonia, ucciso da Orlando. Ella lo insegue in Francia, dimentica d’ogni suggestione affettiva. Altri amori (Chiarella, Luciena, Meridiana, ecc.) sono del tutto marginali, occasione in ogni caso di lotte fra eroi, non di effusioni sentimentali fra innamorati. La stessa Alda, promessa sposa di Orlando, non ha risalto nel poema del Pulci.

Giustamente Attilio Momigliano ha sottolineato, invece, il tema delle invidie, delle beghe, anzi dei tradimenti nella corte di Carlo, ad opera di Gano di Maganza. L’argomento non è solo presupposto e accennato qua e là, come avviene in Boiardo ed Ariosto, ma sviluppato fino al tormento  di coscienza nel traditore (cantare 24, 48).

            Negli ultimi quattro cantari, il motivo ispiratore muta chiave: l’eroismo prende il sopravvento, la serietà della lotta fra maomettani e cristiani si insedia al centro delle vicende, la probelamatica religiosa si amplifica anzi inaspettatamente. Dei momenti eroico-militari più importanti (la rotta di Roncisvalle) avremo modo di occuparci in sede di toni lirici.

 Qui  diamo invece uno sguardo alla complicata posizione religiosa dello scrittore, che trova in questi ultimi cantari la sua decantazione definitiva. Dobbiamo cominciare un po’ da lontano. Forse fin dal 1453 il Pulci si era iniziato alle pratiche della magia: aveva visitato la grotta della Sibilla presso Norcia e, scrivendo a Lorenzo, più di una volta accenna a Salay’. Questo personaggio prende nome dall’arabo “salla^(y) che, premesso al nome di Maometto significa “profeta”, ma nella scienza magica si riferisce alla potenza dell’inferno. Nel poema se ne parla al cantare 21,47, ma in senso spregiativo, essendo la sua invocazione messa in bocca ad una donna pagana chiamata “demonio” ed a danno dei cristiani, naturalmente favoriti dal poeta. Più esplicite sono le strofe 112-113 del cantare 24, ove il Pulci si confessa già seguace di magia ed astrologia e ne esprime il pentimento. In proposito si sa che fu accusato pubblicamente dal pergamo e che compose un sonetto,solitamente  detto “Confessione”, ma che meglio diremmo “il credo del Pulci”, perchè ritratta posizioni eterodosse precedentemente tenute. Tale conversione avvenne per l’intervento di un frate domenicano, p. Mariano da Gennazzano, presumibilmente nel 1479. La vicenda è dichiarata in 28, 42-46.

Altra occasione per discutere problematiche religiose e filosofiche è la introduzione , nel c. 25, del diavolo Astarotte: la sua esposizione teologica, per quanto sbrigativa, tutt’altro che esauriente e soprattutto non motivata ma solo asseverativa, è tuttavia ortodossa. E’ Malagigi a proporgli domande di teologia: circa la SS. Trinità, la Provvidenza (nei confronti dei popoli cui la rivelazione non è stata portata: come possono accedere alla salvezza?), la bontà di Dio (in rapporto agli uomini che si dannano: come accordare onnipotenza e carità di Dio con la  punizione eterna di alcuni che Dio sa da sempre, prima ancora di crearli, essere avviati all’inferno?). Sono problemi che si trovano anche nel grande Dante (ad es. in Paradiso, 17, 40-2). Astarotte risponde, costretto, da buon teologo: confessa la Trinità uguale nelle Persone  (ritrattando così l’errore espresso nelle strofe precedenti 136- 141); sostiene la libertà interiore dell’uomo, che decide della sua salvezza o perdizione, così che non si possa incolpare Dio che vuole tutti salvi (strofe 148-52) ed esclude la salvezza dei demoni e il ricupero dei dannai (errore di Origene: str. 155). Quando Rinaldo espone il dubbio se la sola religione cristiana sia vera, perchè ciò renderebbe Dio ingiusto verso quanti sono nati fuori della fede cattolica, Astarotte risponde esattamente, distinguendo fra colpa morale oggettiva  e responsabilità soggettiva: religione oggettivamente vera è solo quella cattolica, ma Dio giudica sulla  coscienza soggettiva dei singoli uomini. Di qui la affermazione che si possono salvare anche gli uomini dell’emisfero australe (previsto abitato prima che Colombo lo scoprisse, forse attraverso i contatti della corte medicea con Paolo del Pozzo Toscanelli). Questo impegno critico-teologico non riuscì ad ottenere al Pulci la sepoltura ecclesiastica solo perchè, morto fuori di Firenze, la sua ritrattazione non era conosciuta a Padova.

Tutta questa vicenda interiore è un segno forte della appartenenza del Pulci alla mentalità rinascimentale, appartenenza che si farebbe fatica a stabilire in base al solo poema, troppo legato alla tradizione canterina. Siccome del suo valore poetico dovremo parlare più in male che in bene e, dello stile potremo solo notare la infelicità metrica ed il pressapochismo espressivo in generale, soltanto la duttilità di mente, il tormento intellettuale, la curiosità acuta, la casistica sottile e complessa di queste problematiche ci garantiscono circa il suo spirito umanistico. Se non la tecnica stilistica e la forma espressiva, però  questi motivi ispiratori del Pulci “fanno” sicuramente Rinascimento.

 

Tonalità liriche Diciamo subito che il MORGANTE non è grande opera poetica. A stento può essere considerata poetica per alcuni brani nelle ultime aggiunte. In realtà se esso non fosse un ponte storicamente rilevante fra la peggior rozzezza dei canterini da piazza e la perfezione (almeno formale) dell’Ariosto, si potrebbe scrivere uno storia della letteratura italiana dedicando al Pulci non più attenzione di quanto se ne dedica al suo concittadino di un secolo prima, Antonio Pucci. Motivi linguistici e stilistici, che lo fanno superiore anche all’Orlando innamorato del Boiardo, hanno creato il mito della grandezza del Morgante. Ma in sede estetica, il Pulci è un re, se non nudo, almeno in sole mutande, che è riuscito ad entrare nella storia letteraria della nazione, pur mancando,  quasi del tutto, dell’unum necessario all’arte, cioè la capacità di comunicare emozioni o lirismo.

Premessa questa svalutazione globale,[55] riteniamo di poter dire che, se  due sono le tonalità ricercate dai critici nel  Morgante, quella epica e quella comica, nessuna si impone nei primi 24 cantari, mentre negli ultimi quattro è dato rintracciare qualche brano di sufficienza lirica nel viraggio del dramma epicizzante, mentre ancor più convincente risulta qualche passo elegiaco. Vediamo di provare questi nostri assunti, contrari a tutta la tradizione critica successiva al romantico Francesco De Sanctis.

 Quanto ai toni dell’epopea e della comicità nel “primo Morgante” (anzi, fino al canto 24 canto compreso), avviene una puntuale “dissolvenza incrociata”, già a livello di idee, di motivi ispiratori. Il Pulci non ha saputo decidersi fra la serietà militare e religiosa della trama originaria (la “Chanson de Roland”) e le esigenze del suo spirito, che tendeva a privilegiare le deformazioni in chiave caricaturale, come egli poteva, d’altronde, già trovare in molti “romanzi” epico-cavallereschi   precedenti il suo. La madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, aveva suggerito un poema in onore di Carlo Magno, difensore dell’Europa cristiana contro i Mori: il tema era evidentemente serio e solenne; per di più, anche il poema da lui scelto come guida immediata (l’Orlando) era scritto sulla stesso registro epico- tragico. Ma il temperamento di “Gigi” Pulci era abbrivato in tutt’altra tonalità: superficiale quanto estemporaneo inventore, facile quanto trascurato verseggiatore, egli provava un gran bisogno di creare, colla fantasia, quella gioia di vivere, quella spassosità socievole, di cui sentiva il bisogno per le carenze della sua psicologia esaurita e distonica. La ambiguità non fu mai risolta: egli oscillava fra l’una e l’altra dimensione della sua storia, sospinto da forze contrastanti. Egli tenta la corda dell’allegria o della epopea, mentre le uniche voci che trovano eco nella sua emotività sono quelle della elegia o del dramma. La ricerca della comicità soffoca così la vena triste o sofferta, melancoinica o risentita che sono quelle a lui congeniali. La dissolvenza incrociata dei motivi ispiratori trascina con sè quella fra i toni lirici. La caricatura fallisce per la grandiosità della missione affidata ai personaggi e da loro perseguita; l’intenzione nobile, eroica che sta in fondo alle imprese cavalleresche mortifica la sproporzione e fisica e morale di certi suoi personaggi  (Morgante e Margutte) o la inverosimiglianza delle imprese di altri (Orlando) ed impedisce di concentrarsi sulla balordaggine degli uni e la incredibilità degli altri. A sua volta la elevatezza delle intenzioni e la grandiosità di alcuni protagonisti e di alcune vicende muoiono nella banalità di personaggi di contorno o nella iperbolicità delle loro stesse avventure. La solennità si lascia smagare dallo sganbetto della volontà caricaturale. I primi 23 cantari risultano così una mescolanza deludente di scherzo e grandiosità, di farsa e tragedia, di eroismo e ciurmeria, di serietà e balordaggine.  Limitando il giudizio ai primi 23 cantari, dunque,  dobbiamo riconoscere tristemente l’assenza di poesia, pena l’offendere le muse, disonorare Dante e Petrarca, Poliziano e Tasso. Anzichè comico, il Pulci riesce ridicolo: anzichè soggetto creatore di riso, egli diventa oggetto di commiserazione e il suo poema, motivo di derisione (pressappoco come vedremo per la pubblicazione di Giovanni Prati “Osiride”, che critici malevoli, ma non poi troppo, commentavano sillabando il titolo: O-si-rìde!). Talora, leggendo il Morgante, viene la tentazione di guardarsi attorno per vedere se qualcuno si accorga di come stiamo perdendo il tempo in sciocchezze indegne dell’uomo adulto: una persona seria, matura, educata alla fruizione dell’arte poetica come lirismo riuscito, non  può senza vergogna (o dispiacere pel tempo sprecato) continuare la lettura di simili fanciullaggini, espresse in forma così approssimativa da non smuovere minimamente la sfera emotiva del lettore. Noia, disdegno, rifiuto, pur di fronte ad un testo sessualmente immacolato: “chè perder tempo a chi più sa più spiace!(Purgatorio, 3, 78).

La situazione si fa diversa nei canti 25-28. Almeno la impostazione è univoca: Pulci ha optato per la serietà e solennità della impresa: morto è Morgante fin dal c. 20 e Margutte nel c. 19, sono scomparsi i personaggi-incarnazione, le “iconi” della componente grottesca del poema. E Orlando si avvia a morire, pel tradimento di Gano, nella rotta di Roncisvalle. Ecco allora  farsi la via ad esprimersi per la vena connaturale al Pulci; ecco che, emarginato il bisogno esistenziale della ricerca di  allegrezza ad ogni costo, sotto la veste del verseggiatore “Gigi” esce fuori il poeta Luigi; ecco che questi non impone alla sua fantasia di creare quello che la sua psicologia non ha in dono, il riso, ma dà invece quello sprazzo di emozione di cui è ricca la sua anima. Nel cantare 27, le strofe 224-288 (che descrivono la battaglia di Carlo Magno per vendicare la morte di Orlando) rappresentano ci pare, ci pare, il brano  drammatico più convincente di tutta l’opera. Siamo sempre a livello di sufficienza come intensità lirica, ma almeno ci si sente un afflato emotivo. La tonalità è drammatica sempre, ma svaria fra epopea e tragicità, fra esaltazione dell’eroe e pianto sulla  sua morte. La guerra è finalmente guerra, non occasione di evasione nel mirabolante o di commento scherzoso.

  A parte queste strofe (che, se è lecito paragonare la spigolatura alla messe, richiama al finale foscoliano nel descrivere la battaglia di Maratona: “ed inni e pianti e delle Parche il canto”), troviamo qua e là, quasi violette nascoste e timide nel prato o margherite pallide e modeste a primavera, note di elegia (7, 70-71; 8, 3-4; 11, 62-4; 12, 67-70). Sono piccole perle che si accordano con quelle che occhieggiano nella prima parte della rotta di Roncisvalle (27, 100-223), dove addirittura troviamo il profumo dell’idillio (27, 154-8). Ecco come Manfredonio, re di Siria, si accomiata dalla vita (che  sente ormai perduta, assieme all’amore per Meridiana), rivolgendosi ad Ulivieroelegiacamente:           “Per Dio, ti priego, baron d’alta fama,

                                                 tu lasci me come amante fedele

                                                 perdere insieme la vita e la dama.

                                                 Cercato ho quel che cercar suol chi ama:

                                                 trovato ho tòsco per zucchero e mèle;

                                                 e poi che la mia morte ognun la vuole,

                                                 per le sue (di Meridiana) man morir non me ne duole.

So ch’io non tornerò più nel mio regno;

so che mai più rivedrò Soria;

so ch’ogni fato m’avea prima a sdegno;

so che fia morta la mia compagnia (gente);

so ch’io non ero di tal donna degno;

so ch’aver non si può ciò ch’uom desia;

so che per forza di volerla ho il torto;

so che sempre, ove io sia, l’amerò morto”. (7, 70-71)

 

 Non sono grandi versi, ma almeno sono univoci e sinceri. L’influsso della nuova fonte (La Spagna in rima, al posto dell’Orlando)  avrà agito certo nel senso di incoraggiamento alla espressione di questi stati d’animo più consoni al poeta. Ma forse più decisiva è stata la chiarificazione interiore, con la conversione religiosa, l’anno dopo la ppubblicazione dei primi 23 cantari. Il Pulci usciva dall’equivoco; accettava davvero la intenzione della Tornabuoni e si poneva al lavoro per un’opera epica, in celebrazione di Carlo Magno e dei suoi paladini. Caduto l’intento caricaturale o scherzoso, cadeva  l’incerta ambivalenza che impediva alla vera natura del Pulci di farsi avanti. Egli ritrova la sua congeniale ispirazione, abbandonando la maschera che la sua psicologia gli faceva trovare  desiderabile e che la società si era abituata a riconoscere falsamente come sua. Era nato triste; per un bisogno (pirandelliano?) di convivere in società si era travestito da pagliaccio, forzando la sua individualità a ridere e far ridere: solo rientrando nei panni congeniali della sua prospettiva drammatico-elegiaca egli poteva sperare di comunicare qualcosa di veramente suo, anche se son pagliuzze d’argento e non pepite d’oro.

 

Note stilistiche. Raccogliamo le note tecniche sotto tre granbdi categorie: la popolarità, la rinascimentalità, la singolarità del Pulci.

            Popolarità delo stile pulciano. Si potrebbe parlare di pesanti residui realistico-medioevali. Egli risente della tradizione toscana del Milleduecento (da Rustico di Filippo a Folgòre a Cecco Angiolieri), di quella canterina del Milletre- e Millequattrocento (Antonio Pucci e autori di poemi cavallereschi come l’Orlando e La Spagna in rima), della corrente burchiellesca e degli autori contemporanei (come un Antonio di Guido, riscontrabile in 28,144 o le composizioni scherzose dell’amico Lorenzo, quali La caccia col falcone, I Beoni, la Nencia da Barberino). Ma non va dimenticato l’Inferno di Dante, luogo tipico del realismo crudo non senza qualche distrazione comico-grottesca. La documentazione di questa dimensione popolaresca nel Pulci è stata così ben documentata da Franco Ageno nella edizione ricciardiana del Morgante (pp. XVI-XXIX), che copieremo dalle sue pagine qualche particolare interessante. Per cominciare, i veri protagonisti, invece che l’austero ed eroico Orlando, rimangono “di volta in volta Gano, subdolo e molle, o Morgante, manesco e grossolano, o il furfante Margutte o l’avventuriero Rinaldo...” Di Orlando il Pulci “ha fatto un po’ il tipo del forte ingenuo”. Ma il “tema del Morgante è quello della vitalità esuberante e puramente fisica, della violenza primitiva e passionale (2,46, 6-8| 7,40,4-41,8| ib. 49,1-51,6| 10, 46-7| 19,168-176)... Soprattutto in riferimento a Morgante, la fame e la voracità hanno nel poema figurazioni di alta e accesa fantasia (18,196,1-5| 19, 82,1-6; 95, 1-2)” E, via esemplificando la rozza vitalità, l’Ageno elenca gli atti di violenza assassina (col “battaglio”, che è l’arma sua propria), di volgarità bestiale o di furberia furfantesca, il linguaggio picaresco, la celebrazione del vizio, le esagerazioni e vanterie ciarlatanesche.

Altro fattore del “realismo popolaresco” è la mancanza di approfondimento psicologico e, quindi, di coerenza fra ideali astratti e comportamento pratico dei personaggi: sarà solo nei cantari 24-28 che una più meditata analisi della coscienza affiorirà in qualche personaggio, come nel traditore Gano (25,48). Anche il lessico è tratto dalla plebe di Firenze, sopra la quale lo elevano solo le coscienti esagerazioni, intenzionalmente ironiche. Insulti brillanti,  coniazione di vocaboli più o meno simbolici, definitori, canzonatori. Fra queste invenzioni , citiamo la trovata del demonio Farfarello, che allo stalliere della corte di Saragozza si presenta come “l’Arcifànfan di Baldracco” per sbalordirlo e poter continuare il suo gioco di allegre prepotenze. Dalla Ageno togliamo due fra i molti giochi di parole, che sono simpatici anche se non propriamente poetici: “E sbuffan beffe con ischerno e scorno” (11, 96); e “La casa cosa parea bretta e brutta” (23,47: “bretta”= sordida).

Ma questa “popolarità” tavolta significa solo trascuratezza e pressapochismo, fretta e abburattamento: ecco allora le deformazioni lessicali per comodità di rima o di metrica (“il re Carlone| Carlo Mano: sono frequenti| in 27,206 la “mano” diventa “la mana” per rimare con “durlindana”...). Altra volta non riesce a chiarire il senso logico, a spiegare bene in rima quello che intende dire (25, 4| 7-9| 12| 33| 46...). Anche il frequente mutamento del tempo di fondo nella frase reggente (dal passato remoto al presente storico) è causato dal mancato dominio del verso e contribuisce a vanificare il lirismo, anzi un qualsiasi interesse alla lettura. Il che si può dire anche della mancata caratterizzazione e coerenza psicologica nell’agire dei vari personaggi del poema.

La musicalità è poco felice: consonanti dure e vocali larghe prevalgono togliendo dolcezza contemplativa ai versi, senza riuscire a creare un’aura drammatica. La metrica è rabberciata maldestramente, faticosamente. Mentre è quasi sempre sicuro l’accento sulla quarta sillaba, troppo spesso è assente quello sulla sesta, privilegiando il poeta la settima o la ottava: l’endecasillabo risulta regolare, ma non scorrevole, perchè viene a mancare il ritmo giambico che  gli è connaturato; e sembra davvero scazonte, zoppicante. Quando l’accento trova la posizione della sesta sillaba, spesso esso è sopportato da una enclitica (articolo, particella pronominale, congiunzione): il che rende ancora più impastoiato il verso, che finisce per avere un “mezzo” accento sulla sesta e, poi subito dopo, anche un accento sulla settima sillaba! E ciò che sbalordisce in proposito (e conferma le nostre tesi  circa la congenialità o meno di motivi ispiratori seri piuttosto che scherzosi) è il fatto che tale impaccio metrico perdura anche nel primo dei canti tardivi (il ventiquattresimo), mentre diminuisce fin quasi a scomparire nei cantari 25-28, ove cessa la deformazione caricaturale e il motivo serio domina univoco: allora, anche l’ictazione metrica si fa  molto più regolarmente giambica (accenti sulla 4-6-10 sillaba). La chiarificazione intellettuale delle intenzioni porta ad una semplificazione  dei motivi e questa ad una   coerenza univoca dell’attitudine affettiva, che a sua volta, permette una distensione nell’elaborare la forma espressiva. Pare innegabile, cioè, che il raggiunto equilibrio musicale sia il frutto della liberazione dall’equivoco  intellettivo circa il significato delle imprese versificate : sbarazzatosi dagli equivoci e dalle oscillazione fra serio e scherzoso, fra esaltazione e caricatura, il Pulci non scrive grandi versi, ma almeno versi decenti con uno spiraglio per un’emotività almeno incipiente. Il passo falso, zoppicante degli endecasillabi pulciani nella prima stesura del poema (e ancora nel primo dei cinque canti aggiunti) è il lapsus clamoroso del tormento interiore, della insincerità di una letizia imposta al poema contro le tendenze innate della propria anima, contro la sua tempra neurovegetativa: uscito dall’equivoco si normalizza il musicalismo, si apre la strada al lirismo accessibile alla sua statura artistica.

            Rinascimentalità dello stile pulciano. Abbiamo trovato, a livello di motivi ispiratori, un sicuro parametro umanistico-rinascimentale, soprattutto nella modernità della problematica religiosa. Se ne possono trovare segni anche nella tecnica stilistica? Sì e no. Franca Ageno giunge a negare che il Pulci sia poeta umanista (p. XXI), ma poi rimedia a questo estremo, affermando che vi è in lui un umanesimo alla  rovescia (forse, sarebbe meglio dire “negativo”, implicito cioè nella demolizione della fede ingenua dei poeti di piazza nei loro eroi): consiste nella attitudine alla parodia o canzonatura di fronte ai propri eroi o almeno di fronte ai poeti cantabanchi. Ci sembrano vere entrambe le affermazioni. Da una parte, il Pulci lavorò troppo in fretta: a un anno e mezzo dall’invito della madre di Lorenzo, nel 1462, aveva già steso i primi 15 cantari.Troppi, per così breve spazio di tempo. Era un “buttar giù” alla cerrettana, un imrpovvisare alla maniera dei suoi predecessori popolareschi. Era un escludersi dalla raffinatezza rinascimentale per aggregarsi allo maniera dei poemi cavallereschi medioevali. D’altra parte è da sospettare che, a parte il suo bisogno temperamentale di afferrare la gioia di vivere almeno nelle creazioni fantastiche, abbia agito su di lui la mentalità critica, razionalistica del Rinascimento: vogliamo dire che lo spirito di canzonatura era anche frutto di una coscienza storiografica più esigente e moderna. Troppe cose nella tradizione carolingia e cavalleresca erano infantili surrealismi, mistificazioni della realtà  in quello che era stato lo scontro fra le due culture, cristiana e musulmana. Piuttosto che operare una rettificazione delle vicende (opera immane di tempo e fatica) per scrivere un “poema sostanzialmente conforme alla storia”, egli ha espresso lo spirito dei tempi con la ironia, la caricatura, il viraggio scherzoso. Il suo poema è rimasto “marguttesco”, nel senso che in Pulci c’erano le premesse mentali per una correzione della tradizione canterina, ma non la resistenza alla fatica per condurla a termine: ha preferito demolire psicologicamente il materiale fantastico, lasciando il lavoro a metà, senza ricostruire la verità intera.  Per questo ci sembra che lo stravagante  compagno di Morgante, il già citato Margutte possa rappresentare la relazione del poeta collo spirito rinascimentale: da una parte vi è in lui lo spirito critico che lo porta a riflettere con acutezza ed esigenza viva su problemi filosofici e teologici; che lo induce a seminare scetticismo   a spese delle  avventure dei suoi eroi; dall’altra, vi è il limite di fermarsi ad un’opera di demolizione sia nei confronti della fede cristiana  che del mondo cavalleresco, senza la capacità di operare una risistemazione  scientifica dell’una (attraverso una teologia aggiornata) e dell’altro (attraverso una ricerca storica documentata). Il ritorno finale alla ortodossia religiosa ed alla ammirazione per il mondo carolingio, nella sua lotta per la libertà d’Europa e la difesa della cultura cristiana (ultimi cinque cantari), segna un rientrare dell’uomo nei confini adatti alla sua costituzione e preparazione. Avrebbe voluto essere un protagonista della cultura e dell’arte verbale della sua generazione, ma  “non eran da ciò le proprie penne”: si perse in scelte fallite in partenza, salvo  a pentirsi, rientrando nella armonia della tradizione religiosa e storica e, guarda caso, anche estetica.

 

            Singolarità dello stile pulciano. Anima impulsiva e semplice, il Pulci adotta d’istinto la paratassi: frasi coordinate e brevi; nessuna complessità di pensiero, di espressione. A questa osservazione della Ageno, vorremmo aggiungere un risvolto complementare. Al verseggiatore manca pazienza e gradualità: egli precipita le cose alla fine. Esagerando un poco, si potrebbe dire che gli eroi muoiono prima di esser colpiti, le battaglie son decise prima di essere combattute, i duelli non presentano svolte impreviste, ma corrono alla sconfitta di uno dei due contendenti... Vi è un’urgenza alla conclusione che costringe, poi, a moltiplicare i personaggi ed a complicare la peripezia per offrire materiale al poema; ma impedisce di soffermarsi su particolari paesaggistici o su introspezioni psicologiche; di introdurre immagini e paragoni, così frequenti e spontanei nei grandi poeti; di inventare  situazioni dall’esito imprevedibile, che generano suspense e, pur non  costituendo arte, introducono almeno interesse per il contenuto, per la trama.

Il temperamento del Pulci si rivela anche qui: o accettare una vita regolare e mediocre o veder fallire in breve ogni tentativo di volare alto; vedersi perennemente sconfitto; moltiplicare gli sforzi senz’aver successo. Era una incarnazione di Amleto. Una distonia di fondo, con una probabile prevalenza vagotonica, ne faceva per costituzione un imprudente nel giudicare le situazioni, un indeciso nell’orientarvisi, un impulsivo nell’agire, un impaziente nel procedere, un debole di fronte agli ostacoli, uno  fallito nei risultati. L’unica via per diventare grande era quella della eroicità nella condotta morale (via aperta a tutti gli uomini sani di mente, anche se  malandati nel fisico e persino, come lui, fortemente nevrosici, cioè col sistema neurovegetativo  instabile). Non ebbe la fortuna di una saggia guida nell’esistenza; l’insperato successo presso il Magnifico lo tentò a cose e pensieri più grandi di lui: era la trappola in cui non doveva cadere. Forse aveva bisogno di una moglie forte e  di buon senso, che compensasse i suoi difetti costituzionali.  Ebbe invece amici che lo incoraggiarono nelle sue aspirazioni alla grandezza. Colla fretta che lo incalzava a procedere celermente, colla voglia di vivere bruciando le tappe, egli precipitava verso la fine senza concludere gran che. Non solo morirà a 52 anni, fuori di ogni sistemazione definitiva e di prospettiva pacifica per la sua esistenza, ma sarà così sfortunato da venir ritenuto eretico e sepolto fuori della terra consacrata dei cristiani, quando la sua devianza dalla fede era stata momentanea e ritrattata pienamente. L’uomo, il più normale, è libero solo quando la coscienza lo pone chiaramente di fronte alla scelta tra un’obbligazione morale e la sua violazione: pel resto tende a procedere in forza di una spontaneità che è  ubbidienza al proprio temperamento. Nel caso di Luigi Pulci, tale temperamento lo  predisponeva all’insuccesso umano. In altri, succede di peggio: son nati per vincere ed aver sempre ragione; ma ne usano poi per fare della propria vita un capolavoro di errori  ascoltatissimi, di delitti applauditi, di disastri monumentati. Sono molti personaggi che la storiografia chiama grandi perchè hanno movimentato il cammino dei popoli, non importa se in senso antiorario e regressivo; uomini di successo, non importa se nel male; uomini simpatici, non importa se incuranti dei valori  spirituali.

 

            MATTEO MARIA BOIARDO (1441-1494)

 

Vita e ambiente familiare.  Nato a Scandiano (reggio Emilia) nel 1441, morì governatore di Reggio nel 1494. La sua vita (era conte di Scandiano) presenta un episodio oscuro, la cui soluzione ne segna anche un giro di boa. Nato da una sorella dell’umanista e poeta Vespasiano Strozzi (Lucia o Livia) e rimasto presto padrone del feudo paterno, lo amministrò di fatto anche a nome del cugino Giovanni. Da parte di questi ci fu, ad un certo punto, il tentativo di avvelenarlo attraverso un dipendente. Sventato il pericolo, ottenuta piena ragione in tribunale, dovette assistere però ad una serie di provvedimenti in favore del cugino e di sua madre (Taddea dei Pio, signori di Carpi) a livello di divisione di eredità del padre e dello zio. Questo avvenne, senza che i parenti, chiaramente mandanti dell’attentato, fossero minimamente molestati a livello penale; e senza che lo stesso Matteo Maria protestasse minimamente per il procedimento sfavorevole. Se si aggiunge che, avvenuta la divsione dei beni e tenutosi Scandiano, il poeta dovette scendere in corte a Ferrara, onde aver uffici e stipendi perchè non riusciva più a vivere di rendita, allora i sospetti di disonesta amministrazione della comune eredità si fanno pesanti. Ma non tutto il male vien per nuocere: egli, che per un paio d’anni (1469-71) aveva avuto  una vicenda amorosa con Antonia Caprara, si decise a sposarsi a 38 anni. E, dopo vari incarichi sporadici, fu governatore di città: a Modena, prima; poi, a Reggio. Quivi la morte lo raggiunse a soli 53 anni, mentre scendeva Carlo VIII in Italia: l’ultima strofa del poema è un lamento per l’invasione straniera. Il Poliziano era morto tre mesi prima; Pico della Mirandola, un mese soltanto. Non era ancora il tramonto, ma certo erano i prodromi del crollo  di un mondo... allegro a spese della società, artificialmente ottimista a scapito della vita morale (nel Boiardo, siamo ormai al furto, oltre che al libertinaggio sessuale...).

 

Ambiente di formazione. Potè usufruire, nella sua formazione umanistica, della atmosfera che il Guarino ancora impartiva a Ferrara (fino al 1460). E’ così che le sue prime composizioni sono latine, latini gli epigrammi scritti dopo il 1476, latino in parte l’epistolario. Dal latino tradusse per il suo duca: da Cornelio Nepote (Vite degli eccellenti capitani), da Apuleio (L’Asino d’oro), da Lorenzo Valla (le “Storie”  di Erodoto), da Bracciolini (la “Ciropedia” di Senofonte), di Riccobono da Ferrara (Chronicon imperatorum: cronaca degli imperatori). Ma dopo il 1476 rare sono le composizioni in latino: Petrarca sostituisce Virgilio; i poeti canterini, Ovidio. Del resto, cresciuto nella valle del Po, egli si trova a metà strada fra Toscana e Lombardia. Gli influssi dell’epopea francese e dei romanzi cavallereschi della Tavola rotonda erano ancora vivi, mentre le vicende militari, i rapporti economici facevano di Ferrara un crocevia fra i due mondi di Venezia e di Firenze. In sede linguistica il Boiardo rappresenta l’ultimo capitolo significativo del “compromesso padano”, che sta per esser superato in favore del toscano, mercè la presa di posizione  del veneziano Pietro Bembo in favore di Petrarca e di Boccaccio, quali modelli per un processo di classicizzazione della lingua fiorentina. Rispetto a Leonardo Giustiniàn, il Boiardo segna un passo innanzi verso l’imminente  futuro tutto e solo fiorentino. Ma anche al suo continuatore- Ludovico Ariosto- la meta della purezza nella lingua costerà la fatica di tre redazioni,  con 16 anni di lavoro di lima per cancellare ogni traccia di “padanità” nel Furioso.

Personalità. diamo uno schizzo induttivo, prendendo le mosse dalle opere letterarie e dalla condotta di vita. L’imitazione di Virgilio e Petrarca è puramente contenutistica, non lirica, emotiva. Ciò si accorda colla differenza di temperamento fra i modelli ed il Boiardo: quelli erano personalità introverse ed umbratili; lui era nato per l’azione. La espressione dei suoi versi latini ce lo confermano: è troppo mossa ed esteriore, manca di delicatezza contemplativa e  di intuizione psicologica, così caratteristicche di Virgilio e Petrarca. Anche la sua raccolta di liriche  (Amorum libri tres) in volgare (latino è solo il titolo, imitato da Ovidio) è troppo poco intima, perchè protesa all’esterno, cioè a narrare alla natura od agli uomini le proprie vicende amorose. Egli si appella alle cose che possono tetsimoniare della propria fedeltà e dell’altrui tradimento; egli chiede agli uomini fiori e canti per celebrare la sua donna.. Nessuna analisi del proprio spirito innamorato, nessuna introspezione dei propri sentimenti. Questa superficiale esteriorità fa da parallelo alla “disinvoltura” con cui amministrò i beni dei parenti ed al “successo” come uomo di corte e di governo. E’ documentato che si interessò con equità e senso di responsabilità alle popolazioni a lui affidate. Egli si conferma così uomo di attitudini  pratiche e  di dinamismo sociale, doti che rendevano più difficile il possesso delle virtù opposte, di  raccoglimento poetico ed introspezione psicologica. Se preferenze emotive si possono arguire dalla sua vita pratica, saranno piuttosto lungo la linea della serenità e dell’esultanza, dell’idillio, dell’arguzia, dell’epopea: l’allegra (egoistica, disonesta!) amministrazione dei beni comuni ai parenti; l’inserimento felice nella corte estense, da cui in quegli anni “Settanta” fuggiva il Savonarola; l’intraprendenza nella vita amministrativa e la sicurezza in quella diplomatica, fanno supporre un’affettività gioiosa e dinamica, lontano dalla tristezza e dalla tragedia. D’altronde la stessa organizzazione  delle sue poesie, con simmetria di composizioni e numero di versi, rivela un senso razionale che prevale su quello emotivo (a meno di essere ambidestro e geniale in ambedue i settori della intelligenza: ma è quasi solo Dante che arriva a tanto!).

Dunque, un temperamento più attivo che emotivo, stabile: ha lasciato 35.400 versi solo nel poema!. Lo definiremmo volentieri un flemmatico, con residui di passionato; od un passionato, con carica emotiva debole.  Un’anima fin troppo serena; uno spirito prevalentemente attivo: lo si può ricavare tanto dalle opere, quanto dalla esistenza sociale: un canzoniere amoroso senza affetti, un poema di  ispirazione ambivalente, dove si mescolano le materie di  Francia (milizia cristiana attorno a Carlo Magno) e di Bertagna (sic! avventure d’amore prese dal ciclo di Artù): “le donne, i cavalier, l’arme e gli amori/ le cortesie e l’audaci imprese” sono il tema del suo canto, come dirà l’Ariosto in apertura del Furioso, che dell’Innamorato vuol esser la continuazione e conclusione. Si può già prevedere che dei due temi, quello amoroso sarà liricamente soccombente, se pur riuscirà ad esprimersi in qualche rara strofa. Un altro indizio? Il titolo previsto dapprima era “L’innamoramento di Orlando”: l’attività posta in prima posizione e la persona in obliquo: decisamente, il dinamismo aveva il sopravvento nell’animo del Boiardo.

 

Le opere:  in latino: Pastoralia (sono dieci egloghe di cento esametri ciascuna; inoltre ve ne sono altre dieci in volgare, di cento endecasillabi ciascuna in terzine dantesche);

                                         Carmina de laudibus Estensium (quindici composizioni di vari metri latini, non tutte finite);

                                         Epigrammata (otto composizioni brevi, in distici elegiaci);

                                          Lettere: parte delle 192 rimasteci sono in latino.

                  in volgare:  Oltre le “lettere” e le dieci “Pastoralia” in volgare, ci ha lasciato  una commedia, inttolata        Timone (5 atti, sul tema della ricchezza e avarizia, prodigalità e povertà: è in terzine dantesche);

                                         Capitoli del gioco dei tarocchi (spiegazioni e interpretazioni sulle carte dei tarocchi: terzine dantesche);

                                       Amorum libri tres: titolo latino del suo “canzoniere in volgare”, diviso, petrarchescamente, in tre parti: amore fortunato; amore infelice; amore rievocato come sogno del passato. Ogni libro comprende 50 sonetti e 10 composizioni di altro schema metrico (canzoni...). In tutto sono 180 poesie. L’opera fu riordinata nel 1476, ma risale al 1469-71, anni 28-30 del poeta.

                                         ORLANDO INNAMORATO: poema eroico-cavalleresco, incompiuto, diviso in tre libri di 60 canti (29| 31| 9), per un totale di 35.400 endecasillabi in  4.425 ottave.

 

La poesia

            Giudizio generale: Imponente il numero dei versi, ma quasi introvabile il plus-valore lirico. Eccetto rari versi (e quasi mai strofe intere) si tratta di prosa versificata, di composizioni che non trasmettono emozioni di sorta.

Ecco dei versi fra i migliori degli Amores:  “Datimi a piene mani e rose e zigli,

                                                                       spargete intorno a me vi”ole e fiori;

                                                                        ciascun che meco pianse e’ miei dolori

                                                                        di mia letizia meco il frutto pigli.

                                                Datime fiori e candidi e vermigli,

                                                confàno a questo giorno i bei colori;

                                                spargete intorno d’amorosi odori

                                                che il loco alla mia voglia s’assomigli”

Accanto a queste due quartine del 36° sonetto degli Amores, si possono leggere anche altri versi tollerabili nelle composizioni 6| 39| 107.

 

Quanto al poema, si potrebbero trascrivere i versi liricamente significativi senza ingombrare troppe pagine. Ecco l’unica battuta che davvero “tien botta”, scritta alle spalle dell’inglese Astolfo, figlio del re d’Inghilterra, che cavalca un “ferrante”, cioè un destriero color grigio-ferro:

                                                “La forza sua non vedo assai palese

                                                chè molte volte cadea dal ferrante.

                                                Lui solea dir che gli era per sciagura,

                                                e continuava a cader senza paura”. (I, 1, 60)

Altri pochi versi “emotivogenetici” citeremo esaminando i singoli toni lirici. Qui, al nostro giudizio sostanzialmente negativo, aggiungeremo alcune osservazioni di conferma. La prima è di Vittorio Rossi a proposito delle frequenti  pitture di paesaggio: “Di tali descrizioni forse non ce n’è una che possa dirsi artisticamente finita” (Il Quattrocento della Vallardiana, 1956, p. 458). Quest’altra è ovvia: tra i molti nomi inventati da lui, quelli rimasti nel linguaggio vivo della gente colta (come simboli di caratteri diffusi) non suonano come li ha disarmonicamente inventati il Boiardo (Rodamonte, Rugiero, Fiordelisa, Brandiamante[56], Ranaldo, Malagise, Ferraguto, Frontalate...), ma come Ariosto li ha rimodellati con orecchio ben più intonato al genio toscano della nostra lingua (Rodomonte, Ruggero, Fiordiligi, Bradamante, Rinaldo, Malagigi, Ferraù, Frontino...). Boiardo, signore feudale di Scandiano, faceva suonare a festa le campane quando gli pareva di aver scoperto un nome appropriato ai suoi eroi: in realtà i posteri hannno  dato retta solo a  un paio di quelle  scampanate, approvando: quelle per Sacripante e per Gradasso. Anche Agricane e Mandricardo sono stati ripresi intatti dall’Ariosto e non dispiacciono all’orecchio toscano, ma non sono pervenute alla lingua parlata dal popolo. E infine: non una sola espressione in versi è rimasta nell’orecchio della italica gente come proverbiale, come icastica definizione di una situazione  di vita, di uno stato d’animo, di un tipo singolare... Quando si pensa alle decine di versi che si citano da Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, persino Metastasio... come sintesi di giudizio su uomini e circostanze esistenziali,, c’è da rimanere stupiti che il Boiardo sia riuscito a rovinare anche i proverbi già in uso.In I, 24,55 assomma due effati rimici   felicissimi (“chi semina vento| raccoglie tempesta”; e “chi è causa del suo mal| pianga se stesso”) in due versi in cui la musicalità è migliore, ma il senso meno perspicuo: “Ma colui pianger debbe a doppie doglie| che per mal seminar peggio raccoglie”.  Qualcosa di simile gli capita in III, 9, 23: “Ben si suol dir: non falla chi non fa” che è molto meno significativo del popolare “chi fa, falla; che non fa, sfarfalla”.[57] Se paragonato a Purgatorio, (8, 76-8: “Per lei assai di lieve si comprende| quanto in femina foco d’amor dura,| se l’occhio o il tatto spesso non l’accende”), od alla icastica sentenza di Shakespeare (“Woman, your name is frailty!), diventa ben scialba l’ottava sulla “mobilità dell’amore femminile” espresso in II, 11, 18, dove Origilla, infedelissima, trova pronta scusa alle sue colpe presso Orlando innamorato:

                                                “E ben ne fece presto dimostranza,

                                                come a lei gionse, con dolci parole.

                                                Essa piangendo, o facendo sembianza,

                                                sì come far ciascuna donna suole,

                                                al conte dimandava perdonanza,

                                                e tanto invilupò frasche e vi”ole,

                                                come colei che a frascheggiar era usa,

                                                che al suo fallire aritrovò la scusa”.

Di nuovo (sebbene un po’ meglio rispetto al Pulci) ci troviamo di fronte ad un re quasi nudo, ad un re in mutande, ad un mito impostosi per motivi storici e accettato ad occhi chiusi da una critica che, anzichè la poesia e l’arte, cerca la storia della cultura e del costume. Anche in questo caso ci assale  il sospetto che il lettore, incuriosito forse della trama, ma annoiato dalla maniera di esprimerla in versi, stia vegognosamente perdendo tempo in fantasie assurde, al più adatte a bambini. Una seconda lettura è fatica da lasciare a studiosi, a critici letterari di professione. Per dovere puro. Difatti, a parte i non molti passi che segnaleremo, che colla poesia sono imparentati sia pure lontanamente, il poema presenta interessi filologici e culturali : segna il passaggio faticoso ma ascendente dal dilaetto della Padania alla lingua di Firenze; e segna un ingentilimento metrico-musicale rispetto alla tradizione canterina ed allo stesso Pulci, che prepara l’Ariosto del “Furioso”. Questa, almeno, è la nostra  povera opinione.

 

             MOTIVI ISPIRATORI. Non manca nel Boiardo la chiarezza di intenti e di componenti: armi, amori, magia si rivelano subito come i tre filoni macroscopici della sua ispirazione. Il primo è quello derivante dalla Chanson de Roland e dal ciclo carolingio, che tende a raccogliere i cavalieri sotto Parigi, attorno all’imperatore per difenderlo e, con Carlo Magno, difendere la fede ed il regno di Francia contro i Musulmani e tutta la “paganìa”. Il secondo motivo è la molla passionale che tende ad allontanare i paladini dal loro dovere e dal loro signore, per rincorrere Angelica, la figlia del re del Catài, venuta alla corte di Carlo proprio con l’intento diabolico di far prigionieri o di trascinare dietro a sè gli eroi cristiani. Quando cala, precoce, il sipario sull’ultima strofa del c. nono nel terzo libro, i campioni di Carlo sono appena rientrati a Parigi (assediata ed in parte invasa dai saraceni), dopo aver fatto il giro del mondo allora conosciuto, ubbidendo all’amore più che all’onore, teneri paladini di una donzella più che strenui difensore di una civiltà, di un regno, di un signore cui pure li lega il giuramento di fedeltà. Si potrà discutere quale dei due temi abbia il primato nel Boiardo, ma è certo che entrambi devono fare i conti con il “meraviglioso”. Sebbene non così permeante come in Pulci, tuttavia anche nell’Innamorato il surreale è così ovvio, il preternaturale così pervasivo, il magico così continuo da divenire badiale, ridicolo, assurdo: l’eccezionale diviene la forma normale di essere, agire, vivere. Abbiamo, infatti, maghi e fate: Malagise, in favore dei cristiani; Alcina e Morgana, Atlante e Branzardo (vate di Apollo) in soccorso dei Mori. Si danno personaggi invulnerabili, perchè fatati in tutta la persona (uno per parte: Orlando per i cristiani; Ferraguto, per i Musulmani). Ci sono armi incantate che si possono levare ma non rompere nè perforare (ne hanno Argalìa, il fratello di Angelica, Serpentino, Sacripante, Marfisa). Sono introdotti libretti di incantesimi, anelli fatati (che rendono invisibili). Vi è, nella selva delle Ardenne, la doppia sorgente dell’amore e dell’odio, che soggioga inesorabilmente, nell’uno o nell’altro senso, chi vi si disseta. D’altronde, a sottolineare l’importanza di questo motivo ispiratore, basterebbe contare le innumeri volte che compaiono le parole derivate dal verbo latino “miror” e che significa “meravigliarsi, ammirare”, con lo strascico di “meraviglia, mirabile, meraviglioso”, dalla prima strofa del  poema alla quattordicesima del canto nono nel libro terzo.[58]

Il primo risultato dell’intreccio dei tre motivi militare, amoroso, favolistico (ciascuno adatto a svilupparsi all’infinito) è quello di fornire un materiale pressochè inesauribile all’ordito del poema. Le divagazioni, poi, delle novelle minori entro la trama di fondo, sono di fatto senza numero. La peripezia è intricata, ma disinvolta: il Boiardo sa reggere lucidamente le fila di ogni episodio–sia della trama principale che di quelle estemporanee- con la stessa avvedutezza con cui stabilisce la costanza del numero delle poesie che  compongono le sue raccolte e dei versi che dipanano le sue poesie: Boiardo è un ragioniere nato e ha saputo mettere assieme una “telenovela” a misura della   mentalità ambidestra, che era quella della società italiana nel secolo XV: una cultura  che pescava ancora nelle radici del Medioevo ma era già impregnata della linfa del Rinascimento.

Un secondo risultato della convergenza dei tre argomenti di fondo è, però, quello dell’urto e della difficle convivenza fra loro. E’ facile indovinare come l’amore tenda alla dolcezza e si ponga in contrasto con la militanza bellica; tenda al capriccio e si scontri con gli obblighi di religione, i doveri di fedeltà, gli impegni dell’onore... E’ anche intuibile che il “meraviglioso” tende di sua natura alla sproporzione e che  questa produce più facilmente la comicità[59] od almeno, la sua premessa che è il ridicolo (per ricavarne tragedia, occorre  una serietà sofferta;  per produrre il rapimento dell’idillio, necessita di un eccezionale bisogno di sogno ed evasione).  La intenzione comica mina la epicità, il tono eroico, il canto della vittoria o della battaglia grandiosa, così come  emargina l’idillio  o il dramma che accompagnano le vicende d’amore, coinvolte nella non-serietà della magia.  Ammesso da tutti che l’Ariosto non prenda sul serio  la vicenda tutta, anzi la guardi con occhio ironico, da vero rinascimentale emancipato dalle fiabe care al popolino analfabeta del Medioevo, si è voluto da certi critici attribuire al Boiardo una fede complessiva nel suo mondo, non nel senso impossibile che egli credesse alle favole, ma nell’altro che egli aderiva alla grandiosità eroica della età carolingia ed allo straordinario valore dei suoi paladini. Intanto anticipiamo qui che almeno alcuni episodi del Furioso sono cantati con  spirito drammatico: basterà citare l’azione di Rodomonte  nell’assalto a Parigi (canti 14-18) e il duello fra Rodomonte e Ruggero (Orlando Furioso, c. 46). Viceversa,  sono continui anche nell’Innamorato i sintomi dell’attitudine umoristica ed ironica. Il Boiardo si appella non meno di sessanta volte a Turpino, uno dei presunti cavalieri di Carlo Magno e arcivescovo di Parigi: egli sarebbe stato lo storico della strage di Roncisvalle. Da quando però la fiaba ed il  surreale si insinuarono nei poemi (degeneri ed imbastarditi) succeduti alla Chanson, il povero arcivescovo divenne il preteso testimone di tutte le corbellerie che il poeta inventava, esigendo che la clientela analfabeta le accettasse sulla parola di tanto garante! Ancora: il Boiardo inventa nomi per i suoi eroi, che risentono di un significato psicologico: Gradasso, Rodamonte hanno  già nel suono qualcosa di forzuto e di forzato; Grandonio è la supponenza in persona.... Di più: egli usa la tecnica della interruzione, ripresa e sviluppo dell’ episodio in corso, per passare ad altro, che verrà a sua volta smozzicato in più “puntate” a distanza...di curiosità: egli, pel solo fatto che organizza la materia in funzione di suspense e di eccitazione del pubblico, denota la coscienza delle  assurdità inventate per divertire e del disinteresse per la storicità o meno di tutti gli aspetti della sua cantafavola. Infine ogni canto si chiude invitando l’ideale platea a tornare per sentire il progresso delle vicende nel canto successivo od il giorno dopo. Egli, a questo modo, si fa gabbo del “rispettabile pubblico”, stuzzicandone la curiosità quasi fossero bambini in attesa della conclusione della fiaba. L’ironia è talora così esplicita da costituire uno dei molti passi di comicità intenzionale (anche se non riuscita):

                                                “Ora il canto al presente è qui finito,

                                                ed è gionto Ranaldo tanto tardo

                                                che non può far battaglia questo giorno:

                                                doman la contarò: fati ritorno” (II, 14, 68).

A nessuno sfugge la sovrapposizione, stavolta, del tempo della battaglia col tempo di lettura che farà il poeta. Sproporzione, dunque, e ridicolaggine: se il poeta non ne ha saputo spremere la comicità, ciò non vuol dire che egli non abbia piena coscienza che il suo cantare “è uno scherzo, è uno scherzo, è tutto uno scherzo” (Elsa Morante, La Storia, Torino, Einaudi, 1974, passim).  E’ da questo particolare, a nostro parere, che è nata la illusione che il Boiardo “creda al suo mondo cavalleresco”, mentre l’Ariosto lo ironizza alla maniera con cui, in prosa, lo farà alla fine del secolo XVI Miguel de  Cervantes nel suo Don Quijote: in Ariosto l’ironia non rimane solo intenzionale e potenziale, ma diventa spesso vero umorismo; nel Boiardo, tale sublimazione artistica fallisce abitualmente (l’unica battuta pervenuta all’umorismo è stata citata). Ma la assenza di canzonatura di valenza lirica non coincide con la assenza di una coscienza critica e snobbatrice verso il proprio mondo fantastico. Intellettualmente, Boiardo non è meno scettico coi suoi eroi di quanto lo siano Ariosto e Cervantes.

Dimostrato, dunque (almeno ci pare) l’intrecciarsi e corrodersi reciproco dei tre motivi ispiratori fondamentali, accenniamo ora alle tematiche secondarie.

 Il motivo della fede religiosa  è presente e trova in I, 18, 41-45 e 19, 12-16 la sua massima espressione: Orlando, in una pausa del duello mortale con Angricane, ne tenta  la conversione che, rifiutata al momento, si verificherà colla richiesta del battesimo da parte del pagano ferito mortalmente da Orlando.  Ma per il resto, è un tema che va scomparendo: ad esempio non vi è più l’invocazione, comune ai poeti canterini, del Signore (o della SS. Trinità, addirittura) all’inizio dei singoli canti, come ancora avviene nel Pulci; ed anche nel resto del poema, il problema  della religione è quasi del tutto assente. Salvo quell’episodio, nessuno si accorge che si tratta infine di una guerra anche (se non soprattutto) religiosa, per salvare la civiltà cristiana d’Europa, contro un nemico che proclamava di voler conquistare il mondo colla scimitarra per estendere la propria credenza a tutti i popoli. A questo livello, lo spirito rinascimentale agisce a fondo nel Boiardo, che opera ulteriormente l’umanizzazione di una epopea divina, sostituendo la magia abituale agli eventuali miracoli eccezionali, la fedeltà feudale al proprio signore alla obbligazione morale della difesa contro il nemico aggressore, la obbedienza agli impulsi dei propri istinti erotici all’amore per   per la famiglia. E’ notevole che di bambini e di figli piccoli non si parli mai: siamo lontani da Ettore ed Andromaca col figlioletto Astianatte alle porte Scee, nell’Iliade di Omero: siamo vicini  ai princìpi delle riviste porno come “Playboy”, ove i bambini sono del tutto esclusi per non turbare l’erotismo degli adulti...[60]

Descrizioni di paesaggio sono frequenti nel Boiardo, specialmente in connessione al tema amoroso; è però un tema svolto più volonterosamente che liricamente: abbiamo sentito, in proposito, Vittorio Rossi.

 Il motivo encomiastico, assente nel primo libro, prende un posto notevole ad iniziare dall’apertura del secondo. E’ argomento anch’esso senza poesia e, perciò, lo consideriamo qualitativamente secondario.[61]

 

TONALITA’ LIRICHE

                                         

   Difetti generali. Dai tre motivi ispirtori discenderebbero,  presuntivamente, toni emozionali a quelli, psicologicamente, congeniali: l’epicità (mescolata con la tragedia) dall’argomento militare; l’idillio (salvo drammaticità per gelosia, ecc.) dal tema amoroso; la comicità dell’ironia o l’idillio della fiaba dalla sproporzione del magico, del surreale, del miracolistico. Ma occorrerebbe che l’autore, genio poetico dantesco, abbia una intelligenza proteiforme e sappia adattare lo stato d’animo ai singoli motivi ed alle loro sfaccettature complesse. Diversamente (ed è il caso più solito del Boiardo, purtroppo), i tre motivi interferiscono fra loro, si mescolano e sovrappongono, generando “dissolvenze incrociate”, elidendo cioè un registro lirico con l’opposto od il diverso. Con terminologia psicoanalitica, potremmo dire che la cosciente volontà epica viene continuamente frustrata dalla latente velleità comica; o che, viceversa, l’aspirazione all’evasione fantastica, al gioco onirico,ad un mondo di pura libertà e onnipotenza viene inibita in radice dal “superego” di una trama eroica, guerriera, ove l’onore e il dovere rompono ogni incanto di pace e distensione, la “censura” di una missione etico-religiosa soffoca ogni esigenza di gratuità  e soddisfazione. Il risultato di questi incontri e scontri psicologici, fra intenzioni intellettuali ed istanze sentimentali, è quel surrogato della poesia che, nel Boiardo come nel Pulci, è costituito dalla versificazioone più o meno sciolta e scorrevole, ma arida quasi sempre, quasi sempre liricamente insignificante. L’opera che viene prodotta è come una “supernova” che sbalordisce un momento nella costellazione della letteratura italiana per la esplosione di luce e l’attesa che ne deriva di chissà quale astro in formazione, mentre si tratta dell’ultimo sprazzo di una stella in estinzione, che s’irradia per decine di migliaia di versi, ma senza il calore e l’energia, senza la forza di sintesi ed il fuoco di rinnovamento che  acquisisca alle idee la complicazione emotiva e sublimi l’espressione verbale in musicalità emotivogenetica. Ci troviamo di fronte ad una versificazione azima, senza lievito di emozioni; asettica, senza fermenti di vita; piatta, con l’emotivogramma azzerato. Nel suo poema romanzesco, il Boiardo ha unito tutte le materie ipotizzabili; ha preteso di cucinarle con ogni ingrediente  stuzzicante o saporifico; ha preparato un cocktail di motivi intellettuali e di situazioni sentimentali che riassumessero tutte le esperienze della letteratura rinata dopo il Mille, nell’Europa acculturata da Roma ed innestata dallo spirito germanico. Vuol far vibrare la corda della crociata contro i musulmani; titillare l’istinto amoroso in contrasto col senso del dovere e dell’onore; tentare l’ascesa al sovrumano con il magico più fantasioso... e finisce per ridurre l’interesse del lettore alla curiosità pungente di sapere come  si concluderanno vicende così complesse e fuori da ogni verosimilglianza; finisce per animare il suo operato della sola suspense del crime-book, del poliziesco, del romanzo giallo. E’ l’attesa dello scrittore al varco finale: quale via sceglierà per trarre d’impaccio i suoi paladini e le sue donzelle; quale soluzione riserverà alla molto bramata e molto contesa bellissima Angelica; come organizzerà le battaglie fino alla “carica finale” che assicurerà la vittoria   dei “nostri”, che è scontata ed aspettata fin dal principio?... Tutto sarebbe andato, comunque, a finire per il meglio, se la morte non avesse troncato lo stame della vita all’autore, a poco più che cinquanta anni: nel terzo libro qualche eroe musulmano o pagano di troppo è già eliminato e le cose si riducono sotto Parigi, per avviarsi alla cacciata dei Mori dalla Francia. Sì, ma nel frattempo ti ha ripreso quella certa vergogna di leggere una fiaba di 35.400 versi, come ti vergogneresti (se sei uomo maturo e non solo adulto) di stare alla televisione a guardare per  ore ed ore le telenovele o i cartoni animati. E non si capisce bene come la critica sia andata avanti per generazioni a celebrare come un mezzo capolavoro un libro di versi che solo raramente  raggiunge una stentata sufficienza lirica.

 Cerchiamo delle prove alle nostre critiche. Schifato dalla rozzezza linguistica dell’opera (ne riparleremo a proposito dello stile) il toscano Francesco Berni,  ebbe il coraggio di riscrivere il poema tutto: fu la sua versione  ad assicurare fino al Romanticismo (cioè per tre secoli) la sua diffusione. Antonio Panizzi, esule italiano a Londra fece ristampare l’edizione originaria, ma solo per amore di  letteratura popolare, in base (forse) all’assioma vichiano che il popolo è veramente poeta, nella sua ingenuità prefilosofica...:E la critica  riprese in mano il poema del Boiardo, emarginando quello del Berni, per motivi  subfilosofici, pseudoestetici, genericamente culturali.[62]  D’accordo: il Berni aveva intuito la insufficienza del poema boiardiano, ma non aveva compreso che il suo difetto non stava nella veste linguistica: era l’anima inferma che andava ravvivata. Occorreva una iniezione di carica emozionale, più che una risciacquatura in Arno della forma espressiva.  Per rendere emotivogenetici i versi,  bisognava rivivere interiormente e non solo rabberciare linguisticamente l’opera. Nè il Berni era poeta così verasatile: spirito troppo unilateralmente scherzoso, non era l’artista capace di comunicare una carica solennemete epica ad un poema carolingio; od un’aura graziosamente idillica ad una storia d’amore. Dal mondo magico-surreale il Berni,  individualità quanto mai realistica, era poi lontano le mille miglia.

 Ancora: vi sono passi del poema in cui la incertezza interiore diviene materia di canto, senza soluzioni  o con risoluzioni arbitrarie: questo è la conferma che nell’animo del Boiardo si agitavano ed urtavano più intenzioni e più emozioni contemporaneamente; e che egli  era indifferente ad ognuna di esse: “Il conte (Orlando) a quel parlar nulla rispose,

                                                   stando sospeso e tacito a pensare,

                                                   chè il core ardente e le voglie amorose

                                                   nol lasciavan se stesso governare;

                                                   l’amor, l’onor, il debito (dovere) e il diletto

                                                   facean battaglia dentro dal suo petto” (II, 9, 46).

Ecco ancora Orlando nel dubbio (stavolta la spunta amore):

                                    Ranaldo e Astolfo s’ebbe a proferire

                                    alla difesa de cristianitate,

                                    per la sua fede e legge mantenire,

                                    insin che in man potran tener le spate.

                                    Seco non volse Orlando allora gire,

                                    nè so dir la cagione in veritate,

                                    se non ch’io stimo che superchio amore

                                    li desvi”asse da ragione il core”. (II, 13,51)

 Vi sono, poi, strofe che iniziano in una tonalità idillica sufficiente, che viene però dissipata dal passaggio al tema militare:

                                               “Quando la terra più verde è fiorita

e più sereno il cielo e grazi”oso,

alor cantando il rosignol s’aìta

la notte e il giorno all’arboscello ombroso;

così lieta stagione ora ne invita

a seguitare il canto dilettoso,

e racontare il pregio e ‘l grande onore

che donan l’arme gionte con l’amore” (II, 8, 1).

 Parallela è la frattura in II, 8, 13 fra ivv.1-5 e 6-8:

                                                “La bianca ripa che girava intorno

                                                non lasciava salire il monticello,

                                                (la)qual era verde e de arboscelli adorno,

                                                tutto fiorito a meraviglia e bello.

                                                E dalla parte ove apparisce il giorno

                                                era intagliata a punta di scarpello

                                                una porta patente, alta e reale:

                                                più non ne vidde il mondo un’altra tale”.

Gli effetti devianti dell’ironia e del ridicolo sulla epicità si possono  vedere in I,24,53; II,11,9 e 18.

Per la dissoluzione dell’idillio ad opera dello stesso conato di comicità,  si veda III, 5, 41.

Ma veniamo ai singoli toni lirici.

 

IDILLIO. Nella povertà generale del lirismo boiardesco, i versi idillici sono i più numerosi tra quelli che attingono una qualsiasi sufficienza artistica. E il tono può sostenersi anche per due strofe di seguito! Riportiamo le strofe  I, 3, 69-70 (Orlando contempla Angelica dormente):

                                                            “La qual dormìa in atto tanto adorno,

                                                            che pensar non si può, non ch’io lo scriva.

                                                            Parea che l’erbe a lei fiorisse intorno,

                                                            e d’amor ragionasse quella riva.

                                                            Quante sono ora belle, e quante forno

                                                            nel tempo che bellezza più fioriva,

                                                            tal sarebbon con lei, qual esser suole

                                                            l’altre stelle a Diana, o lei col sole.

                                                Il conte stava sì attento a mirarla,

                                                che sembrava omo de vita diviso,

                                                e non attenta ponto di svegliarla;

                                                ma fiso riguardando nel bel viso

                                                in bassa voce con se stesso parla:

                                                - Sono ora quivi o sono in paradiso?

                                                Io pur la vedo, e non è ver ni”ente,

                                                però ch’io sogno e dormo veramente”-

 

 

II, 19, 1, che ci sembra la migliore:

                                                “Già mi trovai di maggio una matina,

                                                intro un bel prato adorno d’ogni fiore,

                                                sopra ad un colle, a lato alla marina

                                                che tutta tremolava de splendore;

                                                 e tra le rose d’una verde spina

                                                 una donzella cantava de amore,

                                                movendo sì soave la sua bocca

                                                che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca”.

E diamo i riferimenti delle altre, con qualche breve commento: II, 8, 1-2 (entrambe le strofe sono idilliche nei primi versi: la conclusione ripropone toni epicizzanti); III, 5, 41-2 (idillio d’amore abbastanza convincente, con qualche notazione drammatica nella 42esima: Rugiero vede in viso Brandiamante e ne è smarrito). Si noti che questi versi sono tra i più scorrevoli del poema, molto più sciolti e fluidi che non quelli dedicati alle vicende militari. Si veda, ad esempio, tutto il canto II, 13, canto più contemplativo che drammatico: almeno intenzionalmete, cioè come esigenza delle vicende trattate: se il risultato lirico è deludente, però almeno i versi camminano più speditamente.

 

ELEGIA: Se il Boiardo rivela  una aliquale congenialità per l’idillio, cioè per la gioia contemplativa, altrettanto non si può dire della elegia (in parallelo, nel campo delle emozioni drammatiche, il conte-poeta è più accessibile all’epopea che alla tragedia): come visse lietamente, per fas et nefas, così canta allegramente, sentendo della vita più i  cori di carnevale che le laudi penitenziali, più gli squilli della vittoria che il pianto delle morti sul campo. E glielo perdoneremmo volontieri, se almeno il suo fosse un sentire artisticamente intenso, liricamente alto, emotivamente sublime.... Comunque, accenni di elegia si trovano anche nell’Innamorato. Ecco in I, 19, 13-16 il battesimo e la morte di Agricane per le mani di Orlando:

                                                “Batteggiame, barone, alla fontana

                                                prima ch’io perda in tutto la favella;

                                                e se mia vita è stata iniqua e strana,

                                                non sia la morte almen de Dio ribella.

                                                Lui che venne a salvar la gente umana,

                                                l’anima mia accolga tapinella!

                                                Ben me confesso che molto peccai,

                                                ma la sua misericordia è grande assai.

                                                            Piangea quel re che fo cotanto fiero,

                                                            e tenì il viso al cel sempre voltato....

                                                Io non me posso ormai più sostenire:

                                                levame tu de l’arcion, baron accorto.

                                                Deh non lasciar quest’anima perire!

                                                Batteggiami oramai, chè son già morto.

                                                Se tu mi lasci a tal guisa morire,

                                                ancor n’avrai gran pena e disconforto.-

                                                Questo diceva e molte altre parole:

                                                oh quanto al conte ne rincresce e dole!

                                                            Egli avea pien de lacrime la faccia,

                                                            e fo smontato in su la terra piana;

                                                            ricolse il re ferito nelle braccia,

                                                            e sopra il marmo il pose alla fontana;

                                                            e de pianger con seco non si saccia (sazia),

                                                            chiedendogli perdon con voce umana.

                                                            Poi battizzollo a l’acqua della fonte,

                                                            pregando Dio per lui con le man gionte”.

Si possono veder anche II, 13, 40-41 (e anche le strofe 30-44, come contesto): si tratta di un caso patetico che si esprime in una levità umbratile: nasce dalla gioia per il ricomparire dei due figli del re Monodante, smarriti da gran tempo. In realtà uno di essi, Brandimarte, è tenuto prigioniero dal padre stesso, che lo ha condannato a morte e rinchiuso in una orribile torre. Una simile situazione avrebbe  suggerito all’anima di un Metastasio la trama per un melodramma intero: qui, invece, l’episodio è breve, non sfruttato; è risolto in poche strofe (quelle indicate) come uno dei tanti episodi marginali del poema. E la inverosimiglianza psicologica di smarrimento ed anamnesi è tale, nel caso concreto, da impedire una partecipazione profonda da parte del lettore.De Amicis avrebbe ricavato pagine strappalacrime irresistibili, proprio per la maggior abilità a collocare i casi patetici in un contesto che li rende verosmili al sentimento, anche se incredibili alla ragione.

 E va segnalata infine anche l’ultima strofa del poema: III, 9, 26.

                                                “Mentre ch’io canto, o Iddio redentore,

                                                vedo la Italia tutta a fiama e a foco

                                                per questi Galli, che con gran valore

                                                vengon per disertar non so che loco;

                                                però vi lascio in questo vano amore

                                                de Fiordespina ardente a poco a poco;

                                                un’altra fiata, se mi fia concesso,

                                                racontarovi il tutto per espresso”.

 

EPICITA’ E DRAMMA. Abbiam già detto che questa tonalità, intenzionalmente predominante,viene in concreto smascolinata dalla confluenza di altre intenzioni di lirismo (idillico,  o comico), cioè da altri motivi ispiratori (amoroso, fiabesco): così, come si è visto che la interferenza di momentanei respiri drammatici disturba ed offusca talora  lo spunto idillico (II, 8, 1-3). Più frequente, però, è la allegria delle avventure o l’intervento della coscienza ironizzatrice ad elidere la forza dell’epopea. Questa tenta di esplodere nella figura di Rodamonte, modellato sul personaggio del superbo Nembrot della Babele biblica, sui giganti della mitologia greca  in lotta contro Giove, sulla psicologia del Virgiliano Mezenzio “contemptor divorum” (II, 14, 32-33: cfr.Eneide, 7, 648 e 10, 880). Ma il risultato è un furore più pensato che sentito, o più sentito che espresso. Certo la sua navigazione verso la Provenza ha tutto il potenziale di epopea che la figura di Margutte, nel Morgante del Pulci, possiede in sede di comicità: ma in entrambi, la materia  mal escogitata dalla mente, non trova scioltezza di verso nè energia di immagini nè vigore di stile adeguato. Ecco gli episodi principali della presenza ed azione di Rodamonte: II, 1 (le parti del canto ove è presentato e parla l’eroe); ivi, 6, 1-15 e 28-65 (Rodaamonte attraversa il mare nonostante la burrasca e sbarca in Provenza a dispetto della opposizione cristiana); ivi, 7, 1-30 (abbatte principi e re, fa strage di truppe, mentre anche il suo esercito è decimato); ivi, dal canto 14, 11 al canto 15, 41(scontro fra Rodamonte e Ranaldo; fine della battaglia per il sopravvenire della notte; duello fra Rodamonte e Ferraguto).

Anche Orlando detta pagine mediocremente epiche, come nella semina dei denti del drago, da cui nascono guerrieri armati, smaniosi di battaglia (I, 24, 53-56: ma non senza sogghigni ironici sulla storicità dei fatti, pur testimoniati, diamine!, da “Turpin, che mai non mente in alcun loco” (str. 53, v.7).

COMICITA’-IRONIA  Intenzionalmente è molto frequente: ad esempio, quando si cita Turpino (almeno 60 volte) come teste fededegno delle pappolate messe in versi; quando si congedano, alla fine di ogni canto, i cortesi ascoltatori, rimandando il seguito delle avventure già avviate, anzi nel bel mezzo del loro svolgersi, ad altro canto, con la scusa della stanchezza propria o della ormai eccessiva lunghezza del canto. Altro discorso, però, è quello sulla riuscita della comicità programmata: per lo più la volontà di riso desta un senso di pena o, comunque, riesce inetta: al posto del comico risulta il ridicolo. Ecco, comunque, passi almeno tollerabili (il primo, già citato, è l’unico davvero efficace):

I, 1, 60 (“Lui solea dir che gli era per sciagura,| e tornava a cader senza paura”); I, 7, strofe 38, 39, 55, 61; II, 3, 55 (Orlando taglia i nemici in modo tale “che dove è un pezzo, l’altro non se trova”); II, 9, 25 (“Da poi che per ragione avea veduto| che mal si trova alcun sotto la luna| che adopri ben la chiave di Fortuna”: è Orlando che pensa; “mal” va inteso “a stento, a fatica”); II, 10, 50 (Ranaldo, prigioniero “Tre onze avrà Ranaldo e non già più| de biscottella che è senza fenocchi,| vivendo a pasto come un Fiorentino| nè briaco serà per troppo vino”); II, 11, 18 (Origilla imbroglia di nuovo Orlando “come colei che a frascheggiare era usa| che al suo fallir aritrovò la scusa”); II, 12, 2...10 (“per verità de l’arme dir vi posso| che è meglio il ragionar che averle indosso””; ironia sulla infedeltà delle donne: solo, si intende, di quelle antiche!; Orlando addormentato mediante un sonnifero e incarcerato, invoca i santi tutti “quanti n’ha il celo e poi molt’altri ancora”!); II, 13, 58 (una balena- garantisce Turpino,  “che la pone due miglia di lunghezza”).

 

NOTE STILISTICHE

   La semplice lettura del testo sorprende per la piattezza della espressione, per una banalità verbale così pervasiva che non si può attribuire solo alla “padanità” della sua lingua nativa: si tratta di vocaboli approssimativi, di versi scazonti nella metrica e nelle rime, di un musicalismo così infelice che il fenomeno va fatto risalire piuttosto ad una insufficienza poetica della fantasia, cioè alla disarmonia del rapporto tra centri neurovegetativi (della emotività) e centri verbali (della razionalità) nel suo cervello. Da tale sfasatura nella “individualità” discendono, come corollari, l’amalgama mal dosato di Motivi ispiratori eroico-fabuloso-amorosi, lo stento dei singoli toni lirici e la loro dissolvenza per il sovrapporsi dell’uno sull’altro. Che, a livello di  tecnica espressiva, la stonatura risalti continua e fastidiosa lo conferma il rifacimento del Berni: ma, lo si è detto, il difetto della lingua era solo l’ultima manifestazione di una carenza di estro poetico alla sorgente, nella personalità. Ed a questo  vuoto neppure il Berni seppe por rimedio. Prima di segnalare i singoli difetti dello stile, riconosciamone e la facilità versificatrice e la maggior duttilità dei versi stessi rispetto al Pulci, anche se due poeti liricamente smorti come Ovidio, per i latini, e d’Annunzio, per gli italiani, abbiano padroneggiato la metrica e la musicalità del verso molto più signorilmente.[63]

Concretizziamo le critiche alla tecnica stilistica in maniera succinta, chè la critica letteraria si deve occupare degli aspetti positivi (poetici) delle opere, non dei difetti. Ma ci pare che il nostro giudizio molto e molto limitativo nei confronti del Boiardo esiga una qualche giustificazione attraverso concrete citazioni.

 

 Esaminiamo anzitutto il vocabolario. Vi è una prevalenza così assorbente di verbi e sostantivi rispetto ad aggettivi ed avverbi, da suggerire la eventuale riuscita di espressioni drammatiche, non certo contemplative. In realtà il risultato è solo nella linea della pesantezza greve e prosaica. Ecco due strofe: “Una logia ha il palagio verso il mare,| davanti vi passarno e duo guerrieri;|quivi donzelle stavano a danzare,| chè vi avean suoni diversi e ministeri.| Grifon passando prese a dimandare| a duo che tenìan cani e sparavieri,| di cui fosse il palagio; e l’un rispose:| Questo si chiama il Ponte delle Rose.|| Questo è il mar del Baccù, se nol sapeti.| Dove è il palagio adesso e’l bel giardino,|era un gran bosco, ben folto de abeti,| dove un gigante, che era malandrino,| stava sul ponte che là giù vedeti;| nè mai passava per questo confino| una donzella o cavalliero errante,|che lor non fusse occisi dal gigante”. (II, 2, 38-39)

 

E veniamo al dilettantismo linguistico, incerto fra lombardismi padani e fiorentinità pura.In questo assomiglia a L. Giustinian. Si è già detto dei nomi degli eroi, che non si innestano armoniosamente nella sapienza musicale della lingua toscana. Ci si può accorgere dalle strofe citate per esemplificazioni di vario tipo, come il linguaggio del Boiardo faccia rima con “vagabondaggio” dall’una all’altra area fonetica. Ecco la ottava strofa del poema, che incarna in mnaniera più dissona tale mescidanza: bisognerebbe mettere dei “sic!” ad ogni piè sospinto: “Lassiam costor che a vella se ne vano,| che sentirete poi ben la sua gionta;| e ritorniamo in Francia a Carlo Mano,| che e soi magni baroni provede e conta;| imperò che ogni principe cristiano,| ogni duca e signore a lui se afronta| per una giostra che aveva ordinata| allor di maggio, alla pasqua rosata”. (I, 1, 8). Per altri    casi, ecco le doppie che vengono scempiate: mez(z)o; ab(b)atte) e viceversa (vella=vela; callare=calare=scendere; cavalliere: sempre); la palatale “c” che diventa “z” (faccia=fazza) e viceversa (pazzo=paccio); la “g” palatale o velare che diventa “z” (giglio=ziglio) ovvero “s” (incantagione=incantasone; cacciagione=caggiasone): e così “zuffa=ciuffa;angolo=cantone; precipitare=trabuccare; scioccone=giottone; cinghiale=cingiale; figlio=fio; ringraccia; alciò (=alzò); piaccia (piazza); prodecia, frezza (fretta), gionto (giunto), ponto (punto),zanzare|zanza (cianciare, ciancia), tenitorio (territorio), pavaglione (padiglione), feritte| uscitte (ferì, uscì),Qual (il quale: sempre, se il pronome relativo è ad inizio di verso!), zuffellare (zufolare=fischiare della spada nell’aria), anci (anzi), accia (ascia), da dovero (davvero). Banalità e volgarità: il vescovo Turpino diventa “il gran pritone” (accrescitivo di “prete”); “non stimare per niente” è tradotto in “non stimare una paglia, un vil bottone, un fico”; Carlo Magno, fuori di sè per l’ira, chiama Orlando “bastardo” e “figlio di p......”[64]

 La situazione attinge il grottesco, se si pensa che il Boiardo è il primo a chiamare “italiano” la lingua volgare (Timone, Prologo, v. 12). Ma quale “italiano” usava mai? Per i versi si è dato un “assaggio”. Quanto alla prosa delle sue lettere, basta leggerne qualcuna  tra quelle scritte in volgare. Qui non si tratta solo di confusione tra forme toscane ed emiliane, perchè interviene anche la memoria di frasi ufficiali latine, tradotte alla brava in “italiano”, estemporaneamente, a disorientare la espressione. Ma c’è ben di peggio: egli non sa esprimere con chiarezza il suo pensiero, rivelando il punto dolente radicale della sua carenza poetica. Si rivela cioè, la presenza di una mente superficiale, di una intelligenza mediocre, che non riesce ad imbrigliare in formulazioni chiare il proprio pensiero e, di conseguenza, non riesce a dare formulazioni artistiche allo slancio dei propri sentimenti. Se si confrontano le prose di Bernardino da Siena o di Alessandra da Firenze con quelle del conte di Scandiano, ci si può accorgere che la differenza  fondamentale sta in un dislivello intellettuale a  sfavore del Boiardo. Egli aveva una buona spinta emotiva a livello di centri neurovegetativi, ma non possedeva una base biologica (zona di Wernicke, cioè la parte  del lobo temporale sinistro, nella corteccia cerebrale, sopra l’orecchio) adeguata, da mettere a disposizione della ragione, dell’anima, per tradurre in emozioni pure ed assolute gli impulsi emotivi animali. Di tutte le sue rime, si potranno salvare un centinaio di versi sufficienti, diremo.. di quarta categoria... Ci si può chiedere, allora, se valeva la pena di sciupare tanta carta e inchiostro, tanto tempo di vita per simili risultati? Se avesse consacrato il proprio tempo all’impiego delle sue doti pratiche,  notevoli, in favore della società a lui affidata, certo che avrebbe potuto operare molto più beneficamente. Così invece, si è divertito lui certamente, ma ha annoiato i lettori, ha fatto perder tempo a Francesco Berni per rabberciarlo in pretto toscano; ed ha finito per scrivere solo corbellerie, che non valgono certo la fatica e il tempo di una persona consapevole che “perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg., 3, 78).

 

E’ vero: il Boiardo non ha avuto il tempo di rivedere e rifinire il suo lavoro: ma almeno la sintassi aveva il dovere di osservarla, pena il denunciare di essere poco intelligente ( la sintassi è esigenza del pensiero, al di qua di ogni lingua e dialetto; è segno di scioltezza e coerenza di pensiero!). Ecco alcuni svarioni imperdonabili: Angelica sfida, a nome del fratello Argalia, i cavalieri  alla corte bandita di Carlo Magno:“...fuor della terra lo venga a trovare,| nel verde prato alla Fonte del Pino| DOVE SE DICE AL PETRON DE MERLINO” (I, 1, 27); agli uditori il poeta cerca di spiegare in che stato d’animo sia Ricciardetto, dopo che Ranaldo ha  disertato l’impegno del duello col re Gradasso: “De l’animo che egli è, voi lo pensati;| ma non lo abatte già tanto il dolore,| che non abbia i Cristian tutti adunati,| E DEL SUO DIPARTIR CONTA IL TENORE;| E QUELLA NOTTE SE NE SONO ANDATI.” (I, 6, 56); in II, 16, 25, il pensiero si riesce ad indovinarlo, sotto una espressione discutibile sia per la sintassi che per la logica: “La schiera d’Agramante ebbe il peggiore,| perchè atterrati furno al primo passo| da (circa) venti cavallier de la sua gente,| e de questi altri sette solamente” (chi sono “questi altri”? d’accordo, sono i nemici Agramante, cioè i cristiani: ma bisogna indovinarlo a orecchio; l’espressione non impone chiaro il senso); inoltre la “e” iniziale implica una coordinata alla causale (“perchè”) precedente, sicchè occorre sottintendere tutta una frase, pressappoco così: “e, invece, erano stati buttati a terra solo sette cavalieri delle schiere cristiane”. In II, 13, 27 per dire l’onnipotenza del Demogòrgone, scrive: “e quel che piace a lui può di lor fare” mentre esatto è “e quel che piace a lui...”. ??????

Trascuriamo il frequente passaggio dal presente storico al passato remoto (e peggio), secondo la necessità della metrica (esempi: I, 7, 11; ivi, 23; ib., 25...).

 

Ed eccoci alla metrica, dove le anomalie sono più di una. La disarmonia metrica più solita ed urtante dell’Innamorato è quella stessa del Morgante: lo spostamento della seconda ictazione dell’endecasillabo dalla sesta alla settima sillaba (anche all’ottava). La disarmonia è pure spesso riparata solo a metà, con il posizionare in sesta sillaba  una proclitica, come articolo o congiunzione: il lettore non sa se forzare l’accento sulla proclitica (di regola atona) o spostarsi di nuovo sul verbo-sostantivo che segue. Vengono  così impedite sia la dolcezza di un vagheggiamento idillico che la forza di un canto epico. Il fenomeno è così frequente, che quando si incontra una strofa intera senza una sola forzatura del secondo accento, ci si accorge immediatamente con sorpresa e sollievo. Così ci sono apparse delle felici isole di scorrevolezza piacevole le strofe 32-36 di I, 5; la strofa 13 di II, 12; e le strofe quasi esemplari  di I, 5, 27-31 e di II, 2, 38-39, che hanno pochissimi versi scazonti.

Rime forzate e stiracchiate: “il re Carlone” (I, 1, 32 e altrove); Carlo Mano (I, 1, 8 e passim); l’imperieri (=l’imperatore: I, 1, 33); zoglia (gioia: II, 15, 61)....

Versi di dieci sillabe: I, 7, 45 (“Di fuor del campo manda uno araldo”); I, 8, 28 (“che altra al mondo mai fu tanto bella”); II, 12, 21 (“Il conte Orlando diceva niente”: a dir la verità si regolarizza il verso con la dieresi in “ni”ente”: ma bastava  scrivere “non diceva niente”!); “disarmando e baron; da ogni lato...”;

Sinéresi (è il contrario di “iato” e significa “contrazione di due sillabe in una sola”): in II, 2,38 ve ne sono due in un solo verso, il che toglie una sillaba allo stesso, che deve essere integrata con una “epéntesi” (aggiunta) ulteriormente stonata: “A dùe che tenìan cani e sparavieri”.

Altre  stonature metriche e logiche: II, 11, 9 (“E ben che a ponto io non sappia dir chiaro”: quattro accenti di seguito); II, 11, 15 (“con l’altra, come io ho detto pur mo’”: squattro accenti di seguito!); II, 12, 16 (“Gua^rti che non errasti ragionando”: guardati dall’errare nel  parlare”); II, 11, 45: “Segnori, io so che ve meravigliati,| che da meravigliare è ben ragione, | de questo loco ove seti arrivati,| quando per forza de incantazi”one| se facea Balisardo transformare,| ch’è quivi occiso e gettarenlo in mare”; II, 11, 49: “se un cavallier gli può donar pregione,| che Orlando è nominato, il Cristi”ano”; e si vedano anche I, 4, 25-26-27-28; I, 7, 45; II, 2, 2...

 

Il surrealismo dell’Innamorato. Dal momento che uno dei motivi ispiratori fondamentali del poema è la magia, il preternaturale, è ovvio che tutta la cantafavola sia intrisa di surrealismo. Inutile, perciò, sottolineare ulteriormente la gratuità di tutte le vicende, che assumono un andamento imprevedibile, perchè al di fuori delle leggi fisiche più ovvie. Ma questo evadere nel fiabesco è concesso dal lettore come ovvio scotto da pagare, iniziando a leggere un romanzo, in versi od in prosa. Quello che però urta e non si riesce a concedergli è la inverosimiglianza psicologica che pare invece condizione necessaria a far scattare la eventuale potenza lirica della trama e della sua espressione. Tale verosimiglianza psicologica si riduce (posto il permesso all’autore di fantasticare contro  le leggi fisiche) alla mancata coerenza dell’azione nei singoli personaggi con il carattere che l’autore ha fissato (con ogni arbitrarietà di invenzione) all’inizio della sua entrata in scena. Pochi, troppo pochi sono i personaggi che assumono una fisionomia interiore distinta e coerente. L’amletico Astolfo, allegro e presuntuoso, cui non manca un pizzico di pazzia giovanile e generosa (come si addice, secondo Shakespeare, ad ogni buon anglosassone) e sempre favorito da una sfacciata fortuna, è forse il tipo più convincente, pur nell’assurdità delle sue peripezie: è diverso dagli altri e sempre uguale a se stesso! Altri personaggi un po’ più curati sono Marfisa, bella, forte e casta fino all’orgoglio (è la sorella di Rugiero, dal quale discenderanno gli Estensi); e Rodamonte, cafonesco, sprezzante di uomini e di Dio, orgoglioso e prepotente nella sua forza e coraggio disumani. La donna ha in sè reminiscenze virgiliane (Camilla), così come il re di Sarza, Rodamonte, risente di Mezenzio. Gli altri eroi cristiani (con molti dei pagani) sono intercambiabili senza gravi problemi. Da questo punto di vista, l’Orlando innamorato sembra uno di quei libri a schede, di cui si possono rimescolare le pagine,dando differente svolgimento alla trama, ma senza disturbo per il senso-non senso generale del libro: perchè esso non è legato da alcuna esigenza di senso. Vediamo qualche esempio: Orlando si lascia ingannare per  la terza volta dalla pefida Or(r)igille, dopo che già  in due occasioni ne era stato tradito. Tale ingenuità incredibile può essere spiegato dall’amore di cui il conte è preso per lei? Ammettiamolo pure: ma l’amore per Angelica, dove va a finire, allora? Si veda II, 3, 60 e II, 11, 16. Altri casi spudorati. Quando non basta magia o altra forza o destrezza a spiegare un accadimento che ha dell’impossibile, Boiardo si accontenta di dichiarare che neppur lui sa come si siano svolte le cose. Così Brunello,  ladro prestigiatore, riesce a rubare l’anello incantato ad Angelica, la spada a Marfisa, il cavallo a Sacripante, spada e corno ad Orlando. Come avrà fatto? Non domandatelo all’autore: “E ben che a ponto io non sappia dir chiaro| come passasse il fatto su quel piano,| pur vi concludo senza diceria| che il ladro tolse il corno e figgì via”: II, 5, 26-48; e II, 11, 1-10.

Questo surrealismo deve andar d’accordo con un iperrealismo di becera popolanità o di bruta volgarità di altre parti. Come fa? Non domandatelo all’autore: pare che, anche a lui, “basta aver dei fatti da raccontare” (Manzoni, c. 6). Soltanto che i due estremi non convincono la mente e, di conseguenza, non commuovono il cuore.

 

                        FORTUNA DELL’INNAMORATO

 

 E’ stata singolare, nel suo andamento sorprendente. Ci fu un successo immediato del poema, con una ventina di edizioni fino alla metà del XVI secolo. Intanto Francesco detto il Cieco da Ferrara (ma, probabilmente, un fiorentino) imitava il poema scrivendo il Mambriano, che oettenne- esso pure!- scadente come è, undici edizioni entro il 1509. L’Ariosto poi lo continuò, superando il maestro di Scandiano, dandoci le tre edizioni dell’Orlando Furioso (1516-1521-1532). Nello stesso inizio del Millecinquecento l’Innamorato ebbe il rifacimento in pretta lingua toscana  da parte di Francesco Berni: ed ebbe fortuna anch’esso.

Nel Milleseicento tutte queste opere furono coperte dall’oblio totale. Il secolo XVIII, razionalista, preferì e rimise in circolazione il testo del Berni, mentre –per la legge degli oppposti- il romanticismo rilanciò il testo del Boiardo, con l’edizione londinese a cura di Antonio Panizzi. Ora la sua fama è legata quasi unicamente all’essere il precursore dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, di cui anzi costituisce la prima parte di avventure: il “Furioso” inizia infatti là dove finisce l’Innamorato. Nell’edizione dell’opera omnia, nei Classici Mondadori (1936) il curatore Angelandrea Zottoli non è neppure lui (come si è visto dalla citazione) entusiasta del poema.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL MAGNIFICO LORENZO DE’ MEDICI (1449-1492)

 

 

LA VITA.   Figlio di Piero e nipote di Cosimo de’ Medici il vecchio, alla morte del padre nel 1469 giunse, appena ventenne, al potere della signoria fiorentina, cui si era preparato con la partecipazione attiva e intelligente agli affari politico-amministrativi della città accanto al padre, mentre il fratello Giuliano si teneva lontano  dalle pubbliche faccende. Fautore convinto della politica di equilibrio in Italia, conscio della minaccia non solo turca ma anche francese, riuscì a salvaare la pace, anche quando la congiura dei Pazzi divise l’Italia in due. Ucciso Giuliano durante la Messa in duomo (e ferito lo stesso Lorenzo) per la congiura de’Pazzi nel 1478, il popolo insorse contro i nemici dei Medici, appendendo per ludibrio ad una finestra della signoria l’arcivescovo eletto di Pisa Francesco Salviati, cui Lorenzo impediva di prender possesso della sede, perchè suo oppositore in politica. Duecento nemici dei Medici furono tolti di mezzo, ma il papa (Sisto IV Riario) scomunicò Lorenzo per aver lasciato scatenare la folla e lanciò l’interdetto sulla città, chiamando poi le altre potenze italiane a far guerra contro Firenze. Alleato del papa fu solo Ferdinando di Napoli (detto anche Ferrante), mentre Venezia e Milano stavano con Lorenzo, sia pure tiepidamente. Poco aiutato dagli alleati, Lorenzo decise di giocare la carta di un suo personale viaggio a Napoli: riuscì a convincere Ferrante a non proseguire una guerra assurda, che attentava al dominio dei Medici in Firenze solo per sostituirvi il potere del nipote del papa, Girolamo Riario. Il successo della missione a Napoli non fu l’unica opera di pacificazione da lui portata a termine, chè anche nella guerra per la congiura dei baroni (1485-6) egli fu un personaggio chiave. Tali successi gli crearono la fama di arbitro (“ago della della bilancia”, lo dirà il Guicciardini) della vita  politica italiana. La congiura avviò inotre la legalizzazione del potere mediceo, che fino allora era soltanto tale di fatto. D’altronde Lorenzo sapeva alternare la mano forte (contro Volterra ribelle, nel 1472, che fu conquistata, saccheggiata e disonorata dalle truppe mercenarie; e contro i Salviati, come si è visto per il 1478) con lo splendore della vita cittadina.  Il suo mecenatismo aprì la carriera a Michelangelo e stimolò i lavori di  Sandro Botticelli, di Domenico Bigordi (il Ghirlandaio), di Giuliano da Sangallo; favorì poeti come Luigi Pulci e Angelo Ambrogini (il Poliziano), cui si unì alla pari quasi collega; protesse filosofi come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola; finanziò feste popolari, specie quelle connesse col secondo carnevale di Firenze, che dalla Pasqua porta fino alla festa del 24 giugno,  S. Giovanni Battista, patrono della città. A tali feste egli prendeva parte, imitando e surclassando i verseggiatori popolareschi, onde tener allegra la gente e far dimenticare la libertà perduta. La sua scomparsa ancorr giovane (1492, a 43 anni) si pensa abbia facilitato la conquista dell’Italia da parte degli stranieri.

 

L’AMBIENTE. Per quanto riguarda l’ambiente culturale in genere, politico etico e sociale in particolare, basterà quanto si è detto parlando delle varie facce dell’Umanesimo rinascimentale. Qui vogliamo invece accennare alla atmosfera religiosa in cui fu allevato ed alla formazione letteraria.

Per l’ambiente religioso, occorre tener presente la presenza della madre e della moglie. La prima, Lucrezia Tornabuoni, fu all’origine della rottura con Luigi Pulci, quando diede i segni della sua devianza dalla fede; la seconda, Clarice Orsini, fece allontanare da casa il Poliziano, quando si accorse che questi iniziava ad insegnare il latino al figlioletto Giovanni (il futuro Leone X) da Cicerone, anzichè dal Pater noster, come era tradizione cristiana. Che se il Pulci introdusse presso Lorenzo l’atmosfera fin troppo allegra che conosciamo, va tenuto presente che Marsilio Ficino influiva con un insegnamento platonico di stampo spiritualista eccezionale: non per nulla, dopo il 1470 gli scritti di Lorenzo si avviano piuttosto verso meditazioni filosofiche e religiose; e, nelle terzine dantesche della Altercazione,   Marsilio è introdotto a mostrare Dio e la virtù come sorgenti della vera felicità. Marsilio Ficino rimarrà fedele ai Medici anche durante l’esilio dei figli di Lorenzo e la rinnovata signoria, auspice il Savonarola.  Ci si può domandare se abbia alla fine prevalso in lui lo spirito religioso che lo portò a comporre nel 1491 la sacra Rappresentazione di Giovanni e Paolo (1491) oppure quello dei “compagnacci”, che lo avevano impegnato, giusto un anno prima, a comporre la Canzone di Bacco. Anche sulla sua norte esistono due versioni: quella di Pico della Mirandola (presente al letto dell’infermo) che lo vuole assolto dal Savonarola chiamato al capezzale; e quella di p. Pacifico Burlamacchi, che lo vorrebbe morto senza assoluzione, per aver negato di restituire la libertà ai Fiorentini (sebbene la Vita, attribuita al Burlamacchi, non pare sua; e in ogni caso egli era lucchese nè mai mise piede in Firenze, sicchè il suo discepolato savonaroliano fu di seconda mano ed egli non può, perciò, esser preso come storicamente degno di fede).

Per la formazione letteraria, va tenuta presente un tirocinio completo di lingua latina (Virgili-Ovidio), l’assenza di accostamento del greco e il predominio indiscusso della tradizine volgare: dai poeti popolari-realisti al Petrarca, dai Dolcestilnovisti a Dante. Le novelle maliziose della giovinezza sono di impronta boccaccesca. Non va trascurata la “Raccolta aragonese”, da lui fatta approntare nel 1476-7 (fu il Poliziano a concretare il suggerimento) per Federico, il figlio di Ferdinando d’Aragona. Dopo il “Certame coronario” del 1441, questa antologia segnò un’altra tappa fondamentale per il rilancio della lingua volgare rispetto al latino. Tutti gli scritti del Magnifico sono comunque in volgare e l’influsso rinascimentale –sicuramente recepito- si lascia sorprendere solo in alcune composizioni, sentendosi egli più vicino al realismo dei poeti giocosi e popolareschi che non ai raffinati discepoli dell’Umanesimo  contempoeraneo classicheggiante.

 

LA PERSONALITA’. Dal ritratto incluso da Domenico Ghirlandaio in un affresco della chiesa di Santa Trìnita a Firenze, le fattezze di Lorenzo non risultano amroniose: robusto, ossuto, angoloso, con un viso poco attraente: ma l’cchio è vivido, intelligente. Il temperamento che vi si può intuire è quello di una persona attiva, dinamica, intraprendente, geniale nella vita pratica, nell’operosità. Il Magnifico sottrae l’iniziativa agli interlocutori od avversari inducendoli o costringendoli alla sequela: in genere per la pace. Blandisce il popolo con feste e spettacoli, rendendo accetto il suo governo, nonostante la soppressione della libertà. Egli dà il tono di “belle époque” al suo periodo di governo, alla società fiorentina. In una simile individualità, la poesia- opus contemplativum maximum, se si prescinde dalla sfera religiosa- non potrà occupare il posto assorbente come nella vita di un professionista, ma solo quello di hobby, di relax, di riempitivo marginale in un’esistenza sostanzialmente attivistica, politica ed estroversa. Definirlo più specificatamente riesce difficile: un passionato con una forte carica emotiva?

 

LE OPERE . Si lasciano raccogliere in tre gruppi, diversi per i motivi ispiratori ed il tono lirico: Scritti giocosi; Scritti d’amore; Scritti spirituali.[65]

            Scritti giocosi: Nencia da Barberino (dubbi sulla autenticità)

                                                  Caccia col falcone (od Uccellagione di starne)

                                                   Simposio (ovvero I Beoni)

                                                   Canti carnascialeschi (Canzona di Bacco)

                                                   Novelle (in prosa: Giacoppo| Ginevra: questa non è finita).

                 Scritti d’amore: Rime (sono 122, tra cui 109 sonetti, 8 canzoni, 4 sestine, 1 ballata)

                                                    Comento (opera mista di prose e di versi: vi sono 41 sonetti diversi dai 109 delle Rime, con parti in prosa che li commentano da vari punti di vista: allegorico, morale, estetico...)                                   Egloghe: Corinto| Apollo e Pan (questa seconda non è finita: terzine dantesche)                                  Ambra (poemetto in ottave, eziologico, come il Ninfale fiesolano: vuol spiegare l’origine della rupe su cui sarà costruita la villa medicea di Poggio a Caiano: Ambra è la ninfa, ritrosa al dio del fiume Ombrone)

                                                   Amori di Venere e Marte: terzine sugli amori adulteri delle due divinità pagane, che il Sole svela a Vulcano.

                                                  Selve d’amore (sono due composizioni di 32 e 142 ottave rispettivamente: cantano la bellezza e i cori di un gruppo di donne, fra le quali vi è anche quella amata dal poeta; la partenza della donna del cuore, con rievocazioni di incontri e speranze di rivederla. I versi sono tanto insolitamente scorrevoli quanto freddi e poeticamente insignificanti).

                  Scritti spirituali. Laudi (nove scritti religiosi, composti col metro vario e la musica di ballate profane)                       Capitoli: sono sette composizioni in terzine di argomento religioso, consolatorio, in forma di preghiera.

                                                     Altercazione: dialogo di sei parti o capitoli (terzine dantesche) sul problema della vera felicità, che il Magnifico ripone nella vita semplice della campagna; e il pastore, nella vita fastosa delle città e delle corti, ma che  il Ficino, ultimo interlocutore, invita a cercare  nella virtù e in Dio.      Sonetti (due) a Ginevra de’ Benci, per confortarla a perseverare nella vita ascetica intrapresa.      Rapprsentazione di San Giovanni e Paolo: dramma sacro in ottave, che mette in scena avvenimenti della Chiesa nel secolo IV, dal martirio di S. Agnese alla conversione di Costantino imperatore..sino alla morte di Giuliano l’apostata (363).

 

LA POESIA.  1)  Giudizio generale. La produzione di Lorenzo de’Medici presenta un certo numero di versi che la rendono più significativa, esteticamente superiore a quella del Pulci e del Boiardo. Poeta talora più che sufficiente, diffonde un’aura artistica che fa rileggere alcune sue composizioni e induce il desiderio di conoscerne a memoria qualche passo. Indichiamo qui quelle che ci sembrano le cose migliori, ricordando anzitutto che suo capolavoro può essere considerato  La canzone di Bacco (“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia”). [66]

  Tra gli scritti giocosi:   Nencia da Barberino (“Ardo d’amore e convienmi cantare”): se ne discute la paternità, data la esistenza di molte redazioni di dimensioni molto diverse.

                                                Caccia col falcone (“Era già rosso tutto l’ori”ente”)

                                   Canti carnascialeschi (Canzona di Bacco o Trionfo di Bacco e Arianna)

Tra gli scritti d’amore:     Rime, sonetto 58 (“Bastava avermi tolto libertade”)

                                               Comento, sonetto 33 (“Ove madonna volge gli occhi belli”)

                                               Egloghe: Apollo e Pan (anche se non finita)

Tra gli scritti spirituali:  Altercazione (capitolo I: “Da un più dolce pensier tirato e scorto”); capitolo II: “Eran gli orecchi a sue parole intesi”); capitolo V (“Era il mio cuor sì di dolcezza pieno”); capitolo VI (O venerando, immenso, eterno lume”).

                                               Laudi: la VI (“O Dio, o sommo Bene, or come fai| che Te sol cerco e non ti trovo mai?”; e la VIII (“O peccator, io sono Iddio eterno”)

                                               Sonetti a G. de’ Benci: il primo (“Segui, anima devota, quel fervore”

                                               Rapprsentazione di san Giovanni e Paolo (tutta)

I limiti della poesia del Mgnifico discendono anche dalla improvvisazione e impazienza del rifinire (tutti i critici lo rilevano), ma prima ancora dalla sua personalità: tanto è vero che là ove egli dedicò più tempo per una rifinitura (nelle Selve ed in molti scritti spirituali), la  caratura lirica decresce con il migliorare della scorrevolezza dei versi e della  proprietà nella espressione.

 

 LA POESIA: 2. I motivi ispiratori I tre gruppi in cui sono state distinte le poesie del Magnifico Lorenzo de’ Medici sono in realtà stabiliti in base ai loro motivi ispiratori di fondo: l’amore, lo scherzo, i problemi etico-religiosi.

                        L’Amore:  La donna amata da Lorenzo aveva un nome: Lucrezia Donati. Essendo essa già fidanzata con Niccolò Ardinghelli, può essersi trattato di un affetto del tipo dolcestinovistico della donna  amata da lontano (Beatrice per Dante) o inutilmente desiderata da vicno (Laura per Petrarca). Nei suoi versi, Lorenzo esprime sia l’affetto idealisticamente puro ed elevante sia quello sensualmente impudente: quello, nelle Rime e nel Comento; questo, nei canti carnascialeschi.  Dante nella Vita Nova ed i Dolcestilnovisti sono il modello per il primo tipo; la poesia realistica e popolaresca, per i secondi.. Ecco ad esempio i due sonetti citati come i migliori (Rime, 58; Comento, 33). Nei canti carnascialeschi si insinuano invece atteggiamenti boccacceschi, realismo equivoco ed erotico: così come nelle due novelle in prosa. Questo secondo tipo di composizioni  può essere assegnate tanto al motivo ispiratore amoroso quanto a quello scherzoso.

                        Lo scherzo e la caricatura.Volgere al riso situazionie, canzonare garbatamente persone amiche (non escludendo se stesso); accennare o sottolineare comportamenti maldestri, goffi o vicende sfortunate o casi comunque ridicoli, tali sono i motivi ispiratori  della Caccia col falcone, del Simposio, della Nencia da Barberino, e di molte poesie composte per il carnevale fiorentino. Nella Caccia, oggetto del riso è la psicologia dei vari cacciatori (ognuno ha bene qualche piccolo difetto, diamine!) o le disavventure della giornata (due falchi si azzuffano fra loro, anzichè assalire la preda: immaginarsi la reazione del padrone di quello che ha la peggio!). Nel Simposio vengono accusati bonariamente come “Beoni” impenitenti molti personaggi della città: fra essi, il piovano Arlotto. Nella Nencia viene messa in burletta sia la bellezza della pastora (non tutta... classica: che i denti siano più bianchi di quelli del cavallo, passi: ma che la Nencia  ne abbia “da ogni lato più di venti”, via! è un po’ troppo!);  sia l’innamoramento del povero contadino Vallera che, poveretto, dato il gran sentimento, stravede e straparla...

Ma i canti carnascialeschi introducono nell’invito a godere, una di malinconia che, pur isolata, impronta però i versi più belli del poeta: “Quantè bella giovinezza| che si fugge tuttavia!| Chi vuol esser lieto, sia:| di doman non v’è certezza”. Anche da questa constatazione sulla precarietà dell’umano vivere, nascono le meditazioni spirituali della poesia etico-religiosa di Lorenzo.

 

                        La religione e i problemi dello spirito. Dal pensiero della morte, duqnue, alla meditazione sul senso della vita. Ma l’Altercazione si ampia alla esigenza della felicità, che è tormento dell’uomo anche a prescindere dall’ombra del tramonto. Nel dialogo a tre, Marsilio Ficino ha l’ultima parola, proponendo la nobilitazione della vita nella virtù e la sua sublimazione nello eterno godimento di Dio. E la ricerca di Dio si esprime sinceramente nella Laude sesta (“O Dio, o sommo Bene, or come fai| che Te sol cerco e non ti trovo mai?”); porta ad un senso vivo del peccato, al pentimento (“O peccatore, io sono Iddio eterno”: Laude ottava); ascende  con le  esortazioni alla perseveranza nel sonetto per Ginevra de’ Benci che entra nella vita religiosa (“Segui, anima devota quel fervore”) e si dilata nelle candide ottave su fatti e leggende cristiane, dal martirio di Agnese alla morte dell’imperatore Giuliano, con la libertà definitiva della Chiesa (sacra Rappresentazione di san Giovanni e Paolo).

 

Si è già detto che la ispirazione poetica ed i traguardi definitivi del pensiero nel Magnifico non hanno un ordine di evoluzione coerente e ben definita. Se la canzone di Bacco è del 1490, non si può dedurre che la sacra rappresentazione dell’anno successivo ne sia un superamento: indica soltanto che l’animo di Lorenzo era aperto alle varie dimensioni della vita e  pronto a riviverle tutte estemporaneamente, con una sincerità di adesione che era la virtù e il limite della sua intelligenza nativa e della formazione acquisita dalla volontà. Fu anche lui (come si dice di Leon Battista Alberti e di Leonardo da Vinci) un “Uomo dalle molte anime”, che solo  la morte cosciente e cristianamente preparata ridusse ad armonia ed unità. Sarebbe più edificante sorprenderne un’ascensione più uniforme e trasparente, aver a che fare con un uomo più ideale: ma Lorenzo era fatto così.[67]

 

LA POESIA. 3. I toni lirici. Se il Magnifico era uomo anzitutto di azione e di vita pubblica, si intuirà facilmente che anche la sua vena poetica abbia frequentato preferibilmente le zone cinestesiche e vivaci della sensibilità, le fasce mosse e drammatiche dello spettro emotivo, i registri danteschi e risentiti della musicalità  poetica. E tale appare bene la più solita versificazione. Ma se egli era, poi, un animo versatile e   disponibile alla tematica del momento, si potrà comprendere che interferenze di natura (possiamo dire) petrarchesca si faranno presenti, interferendo e dissolvendo spesso la più genuina inclinazione. E’ del tutto probabile che egli non si conoscesse fino a questo punto, anche perchè non aveva una introspezione psicologica molto profonda; ma anche se si fosse concentrato su temi più affini alla sua genialità artistica, dobbiamo temere che non gli sarebbe riuscita una produzione di valore molto superiore. Difatti anche quando il tema è movimentato e brioso (La caccia| Il Simposio), la espressione di Lorenzo persiste nella mediocrità.. D’altronde i grandi poeti finiscono per scoprire d’intuito o per essere attratti spontaneamente verso un tema congeniale alle proprie doti, facendone strumento di sollecitazione ottimale alla propria sfera emozionale; e di espressione adeguata agli stati d’animo così istigati.

E’ per questa  plasticità polivalente che il Magnifico ha poesie valide in ogni tonalità lirica, ma tutte pervicacemente mediocri. Quantitativamente, il tono lirico che rimane più impresso nella memoria, associato al nome del Magnifico, è quello scherzoso: della Caccia, del Simposio, dei canti carnascialeschi. E uno di questi, la Canzona di Bacco, è da tutti ritenuto il componimento con maggior spessore lirico, che nel ritornello attinge il momento di maggior intensità ed anche nelle strofe è superiore alla solita sufficienza.

Un breve cenno ad ognuna delle poesie valide per cercare di leggerne il registro lirico. Tra le Rime, il sonetto 58  alterna elegia e tragedia (dramma triste): la donna, già amata dal duca di Calabria, protesta per l’abbandono. Il sonetto 33 del Comento è idillico (armonia di bellezze naturali con la bellezza della donna amata). Apollo e Pan ha brani idillici nella prima parte; il finale si distribuisce fra elegia e dramma (Venere viene rimproverata per la morte di Dafni). La Nencia da Barberino è comico-scherzoso, con versi idillici puri, affioranti qua e là. La caccia col falcone: è tutto drammatico-comico (vivace e brioso all’inizio, finisce per declinare nel comico-grottesco: alla rabbia per il falcone ucciso dal compagno, si mescola il riso  dell’errore: il falcone vincitore è proprio quello che si credeva perdente e il cacciatore già insolente risulta ora schernito).

CANZONA DI BACCO Trionfo di Bacco e Arianna): è dunque il capolavoro: le strofe  tentano addirittura l’epopea della festosità, mescolandovi idillio vibrante, allegria vivace; il ritornello invece  è attediato dalla malinconia per la  coscienza della fugacità della giovinezza e della vita. Dietro il carnevale di Lorenzo e dei suoi “compagnacci” sta in agguto il bruciamento delle vanità del Savonarola ( se non si vuol vedervi addirittura un lontano prodromo al “Sabato del villagio” leopardiano: “Garzoncello scherzoso...”). L’Altercazione presenta, nella prima parte del primo capitolo, un lieve idillio, pel senso del riposo campestre diffuso dall’idealizzazione della vita georgica fatta dal poeta; nella parte ultima dello stesso capitolo iniziale succede invece un elegia umbratile. Il capitolo secondo tenta tonalità maggiori (epopea e dramma), ma sempre con risultati modesti. Dopo il III e IV capitoli, aridi, il quinto ripropone l’idillio in simbiosi con la epopea (estasi), come gaudio esultante per la verità posseduta ed amata: ma l’enfasi sta in agguato e corrode la purezza della liricità complessa. Il capitolo VI avvicenda, in una preghiera a Dio, epopea, dramma, enfasi, nel tentativo di rievocare l’atmosfera del Paradiso dantesco, per esprimere il senso della miseria umana, della misericordia di Dio, della sua onnipotenza paterna. Ma, dei versi del Paradiso,  si sentono di più i limiti, il senso dello sforzo, i conati di qualche momento faticoso e meno felice, che non le virtù delle parti alte ed intense. Delle Laudi, la sesta esprime sofferenza per la impossibilità di sperimentare Dio (dramma, tristezza insofferente); la ottava mescola il dramma del rimprovero e della minaccia nei primi tre versi di ogni strofa, con la elegia dolce, dimessa del’ultimo. Dei due sonetti per  Ginevra de’Benci, il primo è quello liricamente meno smorto: ha un tono leggermente drammatico, con affioranti  tentazioni idilliche. La Rappresentazione di san Giovanni e Paolo versifica accenni di dramma e di epopea. Si tratta di piccole schegge poetiche. Non ci si lasci illudere dal candore della  messinscena e del linguaggio (è stata scritta per la recitazione da parte di adolescenti): l’idillio e la commozione che lo stile ingenuo suggerisce, rimane una velleità non realizzata: di quei sentimenti ci sono le situazioni, i motivi ispiratori, persino qualche termine  o singole parole, ma non la traduzione in espressioni, in frasi e periodi e strofe e musicalità convincenti. 

 

LA POESIA. 4. Note stilistiche.  Anzitutto rileviamo alcuni dati di fatto; poi ci porremo il problema della classicità e|o popolarità del Magnifico.

Vi sono troppi più sostantivi che aggettivi, troppi più verbi che avverbi nelle sue composizioni. Più sostanza, dunque, che accidenti; più idee che impressioni? Non necessariamente. In realtà i sostantivi ed i verbi prevalenti denunciano solo una disponibilità maggiore alle emozioni drammatiche (epopea|tragedia) che non a quelle contemplative (idillio|elegia). In pratica l’analisi del vocabolario rivela piuttosto un uomo del concreto e del dinamismo, della vita attiva e del realismo: egli non era propriamente nè un filosofo nè uno psicologo. E’ un poeta che si ispira alla vita vissuta: cronaca di campagna o di città, amore, caccia, vino, paesaggi... L’Altercazione è filosofia esistenziale, cioè riflessione su un problema che tocca la sfera emotiva, la ricerca della felicità: una filosofia del cuore più che della mente, un platoneggiare romantico, non un tomistizzare razionale.

La metrica prsenta ancora troppo frequenti accenti sulla 4-7-10, che rallentano, inacerbiscono l’endecasillabo. Sono una eccezione le Selve, con ictazione regolare, giambica su 4-6-10.

La musicalità tende alla energia, allo stridore, alla dissonanza che si sposa meglio con il dramma (quando non si arena nella scabrosità della versificazione arida, impoetica). Predominano le vocali larghe (a|o) e le consonanti forti (esplosive o labiali, gutturali, dentali), che conferiscono movimento e non  estasi, nerbo e non dolcezza. La forza diventa dissona nella combinazione del gruppo consonantico R+ affricative (sibilanti s, v, f), dentali o gutturali (str| spr| sgr| ecc.), col risultato di un senso di ruvidezza. Tale tripletta è la spia più acuta della psicologia complessiva e (in particolare) di emotività impaziente, impulsiva, collerica, anche se vivace, esuberante, dinamica del Magnifico. Anima non del tutto serena, quindi (come si  addice a temperamento passionato): vi è una striatura nervosa che incrina la fisiologia della sua mente, il dinamismo del suo spirito. Si vedano la caccia col falcone, La Nencia, Bacco ed Arianna... Qui riportiamo, invece, il sonetto 41, scritto mentre si recava in Maremma, seguendo il litorale toscano: “Co’ passi sparti e colla mente vaga,| cercando vo per ogni aspro sentiere| l’abitazion dellle silvestre fiere,| presso ove il mar Tirren bagna ed allaga;|| sol per provar se si quieta ed appaga| l’alma per cose nove, qual vedere| sempre li pare e innanzi agli occhi avere,| quegli occhi che li fèr l’antica piaga.|| Se da sinistra in qualche oscuro speco| guardo, la veggio lì, tra fronde e fronde,| nuova Di”ana che ogni oscuro allieti;|| a destra rimirando le salse onde,| parmi che tolto abbi il suo imperio a Teti:| così sempre è mia dolce pena meco”.

Come  si indovinerà facilmente, le due Selve sono eccezione anche a questo tipo di armonizzazione scabrosa: purtroppo, senza risultati lirici significativi.

 

 CONCLUSIONE. Lorenzo de’ Medici fu poeta popolareggiante (realismo, spontaneità, concretezza, asprezza, dissonanza, persino brutalità) o poeta classico (eleganza, studio,raffinatezza, armonia, spiritualismo)? La domanda potrebbe essere chiarita da un paragone illustre ma caro al fiorentino Lorenzo: la prima cantica della Commedia di Dante è poesia classica? la risposta è negativa: classico è il Paradiso, la terza cantica, mentre l’Inferno è realistico (è commedia, non tragedia). Ma nel Magnifico non si trova solo versificazione “infernale”, ma anche “paradisiaca”. Allora la risposta  sta nel negare la disgiuntiva (o popolare|o classico) e nel proporre una doppia copulativa (e| e). Nella sua produzione, infatti, stanno I Beoni (Simposio) e le Selve, La caccia e l’Altercazione, la Canzona di Bacco ed i Sonetti a Ginevra de’ Benci, i Canti carnascialeschi e i sonetti del Comento.  Non v’è dubbio che la cura degli scritti spiritualistici e di quelli d’amore prossimi al Dolcestilnovo ed alla Vita nova rivelino una cura stilistica che li assegna alla sfera classica, pur nella  minor perfezione del risultato finale: non v’è dubbio che vi si nota una ascesa a temi universali ed ideali, una cura formale notevole, una chiarezza di visione ed uno sforzo di armonizzazione della musicalità verbale che avvicinano queste composiizioni alla terza cantica di Dante. Almeno per l’altezza dei Motivi ispiratori e la tecnica stilistica e nonostante la modestia dei risultati lirici.

Ma, a questo punto, la domanda riaffiora in forma più stringente: la classicità del Magnifico ha quel  carattere particolare che profuma di umanesimo e di rinascimentalità? La risposta non lascia dubbi. Il Magnifico è rinascimentale, perchè ( pur non avendo lasciato alcun verso o prosa in lingua latina) nelle due Egloghe (Corinto| Apollo e Pan) e negli Amori di Venere e Marte egli affronta decisamente tematiche di  ispirazione greco-romana, dimostrando una conoscenza non superficiale della mitologia.. E si noti che la “incompiuta” seconda egloga non è da disprezzarsi: Lorenzo, allenatosi alle terzine dantesche ed alla tematica  non poco complicata delle  favole religiose antiche, vi raggiunge una patina lirica  sufficiente. Non è, questa, nè il Magnifico letterato più solito e più riuscito, pure le non molte cose che egli ha tentato lasciano sorpresi per la padronanza della materia che egli rivela e per la capacità di far trasparire in Apollo e Pan dei riflessi emozionali al di là della sicurezza nei particolari mitici e nella versificazione non facile della terzina. Inoltre il Magnifico è rinascimentale  per l’impegno ad elevare la propria produzione in volgare ai livelli  di nobiltà, dignità, regolarità propria delle opere che si prefiggano la imitazione di modelli esemplari: solo che, pur  non ignorando il Petrarca ed il Boccaccio, egli tiene fede al   troppo più grande Dante. Così, mentre precorre le teorie del Bembo e la pratica del Rinascimento nel Millecinquecento, con l’aspirare ad una classicizzazione del volgare, egli rivela un gusto ed un senso critico-estetico di gran lunga superiori alla intelligenza media dei letterati cinquecenteschi, devoti ai due minori del Trecento, perchè incapaci di comprendere (non parliamo di imitare) la sublime altezza del poeta primo e sovrano di ogni letteratura. [68]

III)         SCRITTORI DI PIENA CLASSICITA’ RINASCIMENTALE

 

 

LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472)

 

 LA VITA E LE OPERE Nasce a Genova nel 1404, figlio illegittimo di Lorenzo Alberti, fiorentino in esilio. Ebbe a soffrire da parte di parenti, che lo volevano avviato alla mercatura, mentre studiava a Bologna ed a Padova fra difficoltà di salute e di danaro. Laureatosi in diritto canonico, entrò nell’ordine ecclesiastico,  mettendosi al servizio della Chiesa come scrittore ed artista, mentre a Firenze veniva tolto il bando contro la sua famiglia (1428). Uomo dalle molte anime, fu artista della parola (letterato) e della costruzione (architetto). Conosceva bene gli autori latini e si dedicò anche allo studio del greco (col Filelfo). Ma ben più garnde egli fu come ideatore di strutture architettoniche, in cui ebbe presente gli antichi, ma con una capacità d’inventiva geniale. Lo testimoniano il tempio malatestiano di Rimini (rifacimento della chiesa di San Francesco), la basilica di S. Andrea a Padova (che sarà ispiratrice al Vignola per la chiesa del Gesù a Roma), il palazzo Rucellai a Firenze, la facciata di S. Maria Novella, il campanile del duomo di Ferrara... Ma egli si è reso benemerito anche come teorico dell’arte  figurativa, per i trattati sulla architettura (in latino) e sulla scultura e pittura (in volgare). Fu studioso di questioni matematiche (vi si dedicò dal 1428) , fu musico, fu archeologo, fu indagatore appassionato di problemi filosofici riguardanti l’uomo (il fine e la felicità, la morale e la libertà, la famiglia e la vita pubblica...). Nel 1441 organizzò a Firenze il certame coronario, cioè una gara di versi in volgare sul tema della vera amicizia, proprio per rilanciare la stima  e l’interesse per la lingua  fiorentina. Notevole la sua confidenza col latino, ma più importanti le sue opere in volgare. Ecco un panorama della sua vasta produzione.

 

   Opere latine. De commodis litterarum atque incommodis.

                  Intercoenales: sono dialoghi (conviviali: a cena) per lo più; dei 17 a noi pervenuti, diamo alcuni titoli significativi: Virtus| Felicitas| Nummus (il danaro)| Defunctus| Religio| Fatum et fortuna| Pupillus... Son stati scritti in gioventù.

                         Momus: (scritto fr ail 1430 e il 1450): è un romanzo mitologico-allegorico, che ha come sottotitolo “De principe Gelasto”. Caronte si rifiuta di trasportare all’altra sponda Gelasto, erudito che non ha saputo far servire il sapere al ben vivere.

                        Amatoria: opuscoli d’amore (Amator, Deifira, Ecatonfilea)

                         Philodoxeos: commedia giovanile (1424?) che fa preferire, alla giovane Doxa, corteggiata ed ambita in sposa, l’uomo saggio all’uomo fortunato.

 

Opere in volgare: Della tranquillità d’animo (1439)

                             Teogenio (invito a disprezzare i beni terreni e ad attendere alla virtù, non soggetta al variare  della fortuna)

                             Della famiglia: è il capolavoro delle opere in volgare; scritta  fra il 1437 e il 1441, è in 4 libri che trattano dela educazione dei figli, dell’amore e del matrimonio, della economia familiare, dell’amicizia (quest’ultimo libro aggiunto in occasione del “certame coronario”, nel 1442).

                              De iciarchia (governo della famiglia: solo il titolo è in greco): è opera del 1470 e tratta in tre libri  sul modo migliore per reggere una famiglia e lo stato, con una autorità basata sulla superiorità intellettuale e morale, non su altri fattori di forza bruta, economica, ecc.

 

IL PENSIERO ED I MOTIVI ISPIRATORI. Ci interessano anche le opere latine, per avere una sintesi meno incompleta del pensiero dell’Alberti, che occupa una posizione particolare nel quadro dell’umanesimo. Infatti egli è il più tormentato fra i pochi pessimisti del Rinascimento quattrocentesco e presenta una problematica che è vicina a quella esistenzialistica, quella, cioè, del divario radicale fra esigenze innate all’uomo e realtà concreta della vita. Una tale  profondità della sua prospettiva di riflessione  fa perdonare al grande artista  il variare delle sue proposte di soluzione. Egli non è propriamente un filosofo, ma uno psicologo: il suo ragionare si concentra sull’uomo: il suo è  un pensiero antropologico, esistenziale:  la ragionevolezza della vita, la libertà dell’uomo, i rapporti con l’ambiente e le forze che si scatenano attorno a lui. Ebbene solo le opere in volgare presentano una chiara visione ottimistica, la convinzione cioè che la “virtù umana” è in grado di far fronte alle sfide dell’ambiente, all’avversità ed alla fortuna. Invece, nelle opere latine egli non trova risposte univoche: momenti di scetticismo e di fiducia si alternano incoerentemente. Vi si trova persino un pizzico di cinismo imprestato da Luciano, alla cui  visione scanzonata e irridente, perchè delusa, si ispirano gli Intercoenales e il Momus.

Ecco il problema  primo: quello religioso. Da una parte egli spende la vita intera a servizio della Chiesa (fu  membro del clero, anche se non sacerdote; e fu “abbreviatore” presso la curia romana) e parla di Dio in modo che, normalmente, non lascia supporre una concezione diversa da quella cristiana. Ma vi sono, poi, espressioni che  possono far sospettare un  pensiero differente, a cominciare dalla questione del peccato originale. Quando nel dialogo  egli chiude i singoli libri “A Dio (siano rese) grazie e lodi”; oppure, nel primo libro, afferma: “Et chi non teme Dio, chi nell’animo suo àve spenta la religione, questo in tucto si può riputare cattivo”, sotto la veste latineggiante di un umanista potrebbe sospettare la persistenza della fede imperterrita di Dante, di Dino Compagni o di Giovanni Villani. Forse non è così. Nel dialogo Religio, si nega l’utilità della preghiera, avendo Dio stabilito un ordine immutabile fin dall’eternità, che le nostre preghiere non possono cambiare: l’uomo è quello che vuol essere; la virtù non viene dall’esterno e diventa virtuoso che virtuoso vuol diventare.[69] La posizione mentale è così contrastante con tutta la dottrina e la prassi cristiana, che il lettore si mette allora in sospetto che il processo di riduzione   della  fede   sia molto più esteso nello scrittore.  A pensare così induce anche il fatto che l’Alberti  abitualmente  si esprime  in termini di religiosità generica, secondo una religione puramente naturale. Che egli precorra implicitamente l’uomo illuministico, perchè  non si appella alle verità  della rivelazione (Trinità delle Persone divine; necessità della redenzione per una vita moralmente ìntegra; la Chiesa, istitutita da Cristo come roccia vicaria , come via inevitabile per giungere a  Lui e, quindi, alla salvezza)? Francesco De Sanctis lo afferma. Certo che più un pensatore era  acuto, più era soggetto  a passare dall’incompletezza  inconscia del cristianesimo rinascimentale (oblio del peccato originale) alla  presa  di posizione esplicita  sulla autosufficienza dell’uomo e  sulla superfluità della Redenzione e della preghiera: a  ridurre, cioè,  il cristianesimo alla religione  puramente razionale, quale il deismo illuministico proclamerà apertamente. Se Lorenzo Valla si avvicina a simili tesi nel campo della vita morale ( preoccupato del rapporto fra piacere e felicità), l’Alberti ( pensatore dilettante come quello, ma molto più serio e profondo) vi si sente attratto dalle questioni più propriamente teoretiche.  Che vi sia approdato sicuramente, è dubbio. Comunque, va ribadito: la ribellione di Lutero, costringendo la Chiesa a riprendere coscienza della colpa originale e delle sue conseguenze  funeste, ha rimandato di tre secoli  l’approdare del Rinascimento,  illusoriamente cristiano, nella religione russoiana.

Di fronte a questo atteggiamento ambiguo, risultano meno  significative le puntate anticlericali delle opere giovanili, che probabilmente non distinguevano fra persona e persona e tendevano a generalizzare, quindi, la corruzione del clero. Comunque può dare un’idea dello spirito caustico e sardonico dei suoi scritti latini, il sapere che nel dialogo Nummus (Il denaro) egli si congratula con il clero, perchè ha mantenuto il giuramento fatto nel tempio di Apollo di esser fedele alla somma divinità: che, però,  finisce appunto per essere il danaro.

Circa il problema antropologico (pensiero sull’uomo), l’Alberti muove dal dualismo di anima e corpo: ulteriormente egli si interroga circa il bene ed il male, la virtù e il vizio, il dominio di se stessi, l’amabilità, la socialità,la possibilità o meno della felicità per l’uomo sulla terra; il rapporto interpersonale fra parenti, fra amici, ma soprattutto all’interno della famiglia, fra i coniugi e coi figli e, nell’ambito dello stato, fra cittadini e autorità; il governo dei beni economici e le virtù in genere necessarie a guidare la casa o la comunità civile, nel giusto mezzo fra avarizia e prodigalità fra arbitrio e trascuratezza. Di tutte le questioni, etico-socio-economiche, quella che è al centro delle sue preoccupazioni rimane la capacità o meno dell’uomo a costruire la vita nel successo o almeno nella serenità dello spirito, nonostante le circostanze ambientali o comunque da noi indipendenti. E’ il problema tra fortuna e virtù, tra senso razionale della vita e casualità: il percorso della vita è determinato dal libero volere dell’uomo o da fattori esterni alla sua libertà? La soluzione non è univoca nel corso dei suoi anni, nelle diverse sue opere.  La morte del padre quando egli era diciassettenne, le tribulazioni per i dissensi coi parenti, le difficoltà economiche, la malferma salute segnarono il suo animo giovanile, lasciandolo disorientato sulla condizione dell’uomo nei confronti della fortuna. Nelle operette latine  prevale il pessimismo: “anche Giove ha paura della Fortuna; ed alla Virtù, esclusa dalla Terra e dal Cielo, non resta se non nascondersi, finchè la Fortuna non cessi di perseguitarla...il che non vuol dire che dovrà star nascosta in eterno” (Intercoenales: Virtus).  Ma già in uno dei più tardivi Intercoenales (Defunctus) prevale la convinzione della capacità per la Virtù ad infrangere il potere della Fortuna. Della Famiglia afferma decisamente “Tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette” (Proemio). L’equilibrio è raggiunto nel Teogenio (del 1442), dove si distingue  tra beni esterni (soggetti alla Fortuna, ma da disprezzare) e quelli interiori (come la virtù: questi sono in potere dell’uomo).

Una cartteristica dell’Umanesimo dell’Alberti è l’attivismo. D’accordo che il principio è già esaltato dal Salutati (contro gli ideali intimistici del maestro Petrarca) e da gran parte dei rinascimentali del secolo XV. Ma in lui tale motivo non solo ritorna molto più insistentemente (non è relegato ad una opera soltanto), ma assume svolgimenti di portata pedagogica. Non si tratta della opposizione tra vita monacale e vita civile, ma di una esaltazione dell’ “exercitio” come principio di crescita interiore e fisica.   Intanto, la sua convinzione che la “contemplazione” , il ritiro, lo studio non sono fine a se stessi, ma sono strumenti che devono preparare all’azione per riuscire utili all’umanità attraverso il lavoro, la prassi, l’esercizio della volontà, giunge a far condannare il principe Gelasto, che ha sprecato la sua vita in studi inutili al “bene beateque vivere” della umanità (nel Momus, Caronte si rifiuta  di traghettarlo sull’altra riva del fiume Acheronte, nel regno dei morti).[70]

Corollario di tale concezione etico-psicologica è, dunque, la concezione pedagogica, cioè educativa. Il problema della formazione dei figli è vivissimo in Alberti e non solo nell’operetta sulla Famiglia. Non solo l’exercitio vi ha gran parte, ma vi è qualcosa che va al di là della visione stessa del Guarino e di Vittorino da Feltre: occorre coinvolgere l’educando nell’opera di formazione. La raccomandazione ad allenare anche il corpo alla fatica, allo sforzo, all’esercitazione con animali ed armi diventa un particolare in un orizzonte ben più vasto e sorprendente: rendere il ragazzo cooperatore e, in qualche misura, protagonista dell’opera educativa.

 Non si deve credere per questo che gli studi propriamente detti passino al secondo posto. Anzi, da buon umanista, egli punta sugli studi letterari e storici come a sorgente di illuminazione per la mente e di guida per la vita: “Et voi, giovani, quanto fate, date molta opera agli studi delle lectere, siate assidui, piacciavi conoscere le cose passate e degne di memoria; giòvivi comprendere e buoni et utilissimi ricordi; gustate el nutrirvi l’ingegno di leggiadre sententie; dilèctivi ornarvi l’animo di splendidissimi costumi; cercate nell’uso civile abondare di meravigliose gentilezze; studiate conoscere le cose umane et divine, quali con intera ragione sono accomandate alle lectere. Non è sì soave, sì consonante coniunctione di voci et canti che possa aguagliarsi alla concinnità et elegantia d’uno verso di Omero, di Virgilio o di qualunque degli altri optimi poeti. Non è sì dilectoso nè sì fiorito spatio alcuno, quale in sè tanto sia ameno et grato quanto la oratione di Demostene, o di Tulio, o Livio, Xenofonte, o degli altri simili soavi et da ogni parte perfectissimi oratori: niuna è sì premiata fatica, se fatica si chiama piu tosto che spasso e ricreamento d’animo et d’intellecto, quanto quella del leggere et rivedere buone cose assai: tu n’esci abundante de’exempli, copioso di sententie, ricco di persuasioni, forte d’argumenti et ragioni: fai ascoltarti, stai tra cittadini udito volentieri, mìranoti, lòdanoti, àmanoti...” (Della Famiglia, l. 1).

Che l’Umanesimo poi sia un indirizzo di pensiero più cordiale che razionalistico, più platonico che aristotelico, più francescano che tomistico, ci è confermato dalla insistenza su un atteggiamento esigito nell’educatore: una amorevolezza che è frutto di sentimento e di spirito evangelico, che è simbiosi tra benevolenza spontanea e carità cristiana: “Et ricordisi ciascun padre et maggiore che llo imperio recto per forza sempre fu manco stabile che quella signoria quale è mantenuta per amore. Niuna paura può durare troppo: l’amore dura molto assai: la paura in tempo scema: l’amore di dì in dì cresce” (Della Famiglia, ib. : si confronti questa affermazione con il Principe di Niccolò Machiavelli, c. 17, par. 2: “E li uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che si fa amare che uno che si faccia temere...”). Notevole e simpatico l’ammonimento: “Chi l’altrui famiglia non guarda, la sua non mette barba”! (Della Famiglia, ib.): un bell’anacoluto, degno di entrare nel giro di quelli citati, dal Principe ai Malavoglia di Verga.

 

TONI LIRICI E NOTE STILISTICHE.  Purtroppo l’Alberti letterato non sta al confronto con l’architetto. Se egli passa per il più grande prosatore toscano del Millquattrocento è per un entimema o reticenza: egli è bensì il maggiore, ma tra gli scrittori di linea classica, cioè impegnati ad imitare gli scrittori latini, con un vocabolario raffinato ed un giro di frase elegante, persino retorico. Ma a livello di arte vera, di intensità lirica, un Bernardino da Siena, una Macinghi Strozzi lo superano di più che una lunghezza. Quei due scrittori popolari si fanno rileggere: Alberti annoia già alla prima lettura, anche nel (suo) capolavoro “Della Famiglia”. Se le novità concettuali ci sono, non sono poi frequentissime. E la loro proposizione è lenta: troppo analitico, fa precedere la discussione di un argomento da una “salva di cerimonie”, cioè di proteste di incompetenza a trattare l’assunto, cui corrisponde l’altra “cerimonia” dei corali  riconoscimenti degli interlocutori in senso opposto. La dimostrazione, poi, delle proprie tesi –scontate per lo più- procede con esemplificazioni dall’antico (con la “memoria degli altri”, malignerebbe Leonardo da Vinci), anzichè con argomentazioni proprie. Solo talora sorprende per la concretzza delle posizioni assunte: ad esempio nel raccomandare gli esercizi fisici o lo studio o la amorevolezza verso i figli e (cosa notevole in un celibe del Rinascimento) nell’elogiare la castità e l’amore familiare.

Il vocabolario mantiene qualche raro residuo simpaticamente popolaresco (“Gnaffe” sbotta un iterlocutore, Lionardo, verso la fine del primo libro Della famiglia). Ma la norma è la trascrizione la più fedele al latino, mutando solo le le desinenze finali secondo l’uso toscano: basta rileggere i brani riportati per constatarlo. E vi è di peggio: egli ha delle incertezze anche nella sequela della lingua fiorentina, dovute alla tradizione italica tutta, con cui egli aveva avuto contatto e che non sa superare di genio. Ad esempio egli mantiene le doppie consonanti all’inizio di monosillabo (ttu, lli, cchi, ll’amicizia, mme, nnoi) ed anche in taluni polisillabi (llaude, lloro...). Incertissima la grafia di “Non”: si trova “none| non| nom”). Aggiungiamo qui un altro brano, per accrescere l’ammirazione per le sue buone intenzioni educative e la sapienza da cui nascono, ma anche per  deplorare ancora i difetti segnalati: “Nè guardate, figliuoli miei, che la virtù in vista sia forse durecta et asprecta (mentre) gli altri disviamenti in primo aspecto siano proclivi et dilectosi. Imperò che adentro vi si truova questa grandissima differentia: nel vitio abita più pentimento che contentamento, più vi surge dolore che piacere, più vi trovi perdimento da ogni parte che utile. Nella virtù tutto contra: lieta, gratiosa et amena, sempre ti contenta, mai ti duole, mai ti satia, ogni dì più et più è grata et utile... Et se conoscerai te non essere non uomo e non vorrai umanitate alcuna esser da te lontana, certo arai non pochissima parte di vera felicità in te stessi...” (sempre nel libro primo Della famiglia). Ma se lo stile è mescidato ed incerto fra antiquariato latineggiante e modernità fiorentina, resiste al di sotto di tutto un sapore di vena lirica inconfondibile: quando si sono lette, diciamo, cinquanta pagine dell’Alberti, si può essere certi di distinguerne le altre di lui in mezzo a mille autori. Egli, infatti, ha un tono alto, da tenore pieno che canti a voce spiegata, anche quando la melodia non è poi gran cosa.  Si impone al lettore, dalla scrittura albertiana, una attitudine epicizzante, che non raggiunge mai la poesia intera, ma lascia il suo profumo in ogni frase, con una perseveranza di tenuta che rivelano una costituzione atletica, un temperamento passionato, una statura michelangiolesca. Che egli, a livello intellettaule, risulti perplesso ed oscillante tra ottimismo e pessimismo, ci si accorge quasi solo nelle opere latine:  quelle volgari sono “solari”, piene di  certezze ed entusiasmo, di fede nei propri princìpi e dottrine, di voglia di vivere e di lottare. Ecco un brano sulla funzione del gioco nella educazione: “Et non credere però, Adovardo, ch eio voglia ch’e padri tengano e figliuoli incarcerati al continovo tra i libri, anzi lodo ch’e giovani spesso e assai, quanto per ricrearsi basta, piglino de’ sollazzi. Ma siano tucti e loro giochi virili, onesti, senza sentire di niuno vitio o biasimo. Usino que’ lodati exercitii a’ quali e buoni antichi si davano. Gioco ove bisogni sedere quasi niuno mi pare degno di uomo virile; forse a’ vechi se ne permecte alcuno, scachi, et tali spassi da gottosi, ma niuno di quegli giuochi senza exercitio et fatica a’ robusti giovani mi par lecito. Lascino e’ giovani non desiderosi (=pigri) lascino sedersi le femine et impigrirsi; loro in sè piglino exercitio colla persona e ciascun membro; saectino, cavalchino et seguano gli altri virili giuochi et di fatica. Gli antichi usavano l’arco, et era una delicateza de’ signori uscire in publico colla faretra e l’arco, et era loro scripto a llaude bene adoperarli. Truovasi di Domitiano Cesare che fu sì perito dell’arco, che tenendo uno fanciullo la mano per segno aperta, faceva saettando passare lo strale fra tutti gli intervalli di que’ diti. Et usino i nostri giovani la palla, giuoco antichissimo et proprio della destrezza quale si loda in persona gentile...” (ib. ib.).

Purtroppo di una simile solennità di espressione fan parte anche le domande retoriche, il rafforzamento dei superlativi con il “più” comparativo od il loro raddoppaimento con la desineza “issimo” preceduta da un “molto”. “Non essere inverso di loro (figli, di parenti od amici, rimasti orfani) animato come a’ propri figliuoli (amorevole come con i propri figli), veramente, Lionardo, non sarei buono parente, nè vero amico, anzi mi giudicheresti spiatato, fraudolento et bene di molta cattivissima condictione, saréne biasimato, infame. Et chi non dovesse (!) de’ pupilli avere piatà? Et chi non dovesse (!) aver sempre inanzi agli ochi quel padre di questi orfani, quel medesimo tuo amico et quelle ultime parole scripte nel cuore, quali coll’ultimo spirito quel tuo parente et amico ti raccomanda la più carissima cosa sua, e figliuoli, fìdasi di te, lasciali nel grembo, nelle braccia tue?” (ib.ib.).

Difetti ed eccessi che possono ben essere spie a comprendere come l’enfasi più che l’epopea sia il risultato di tale modo di esprimersi, ma che non cessano, per questa imperfezione lirica, di rimanere sintomi e indizi di una tensione grandiosa, che non trova nella parola la stessa intensità espressiva,  cui il disegno e l’architettura, le forme spaziali e volumetriche, i contrasti tra vuoti e pieni (squadrati gli uni e gli altri in ritmi massicci)  sono invece approdati nella mente e nell’opera di questo rappresentante del nostro Rinascimento, “uomo dal multiforme ingegno”.[71]

 

 

 

 

IACOPO SANNAZ(Z)ARO (Napoli 1456- 1530)

 

LA VITA. Nato a Napoli (ma con ascendenze lombarde, nella Lomellina) da nobile famiglia,fu umanista gradito a corte: ebbe dagli Aragonesi incarichi anche politici e fu accolto dal Pontano nella Accademia col nome di Actius Syncerus. Egli aveva scrito delle Ecolgae piscatoriae, delle poesie sui pescatori: in latino, spiaggia si dice “acta” onde il nome accademico di Actius. Tenuto tra gli ufficiali di casa da Alfonso, duca di Calabria, egli rimase fedele (diversamente dal Pontano) ai suoi signori, seguendo il re Federico in Francia, quando gli Spagnoli occuparono definitivamente il regno nel 1501. Morto il suo re, nel 1504, egli rientrò a Napoli, vivendo nella sua villa di Mergellina il resto dei suoi giorni, in modesta fortuna ed in attività letterarie. Queste furono prevalentemente in volgare prima dell’esilio; dopo il rientro a Napoli, egli pubblicò unicamente in latino. Morì ad 85 anni nel 1530, famoso, non solo in Italia, sia per il poemetto latino De partu Virginis; sia per il romanzo Arcadia, misto di versi e prose, imitato  poco a poco in tutte le nazioni d’Europa.

 

LE OPERE: le raccogliamo  nei due gruppi di scritti in latino ed in volgare.

                        Opere latine: Eclogae piscatorie: sono cinque composizioni in esametri, in cui dei pesactori (e non più dei pastori) cantano i loro amori (infelici, per lo più); e cantano le bellzze del mare e della pesca. Fu l’opera che gli dischiuse le porte dell’Accademia pontaniana.

                                                      Elegiarum libri tres (tre libri di elegie): poesie in distici elegiaci (esametro e pentametro alternati): gaie, quelle scritte in giovienzza; tristi, quelle dell’età avanzata. Tratta di amori, imprese con Alfonso (di cui era gentiluomo di corte), feste di amici. Esprime anche la coscienza della sua limitatezza  come poeta (III, 2).

                                                      Epigrammata libri tres : componimenti molto brevi e di vario argomento e tono: velenosi quelli contro il Poliziano, papa Alessandro Borgia, Leone X; pungenti anche quelli contro Bracciolini storiografo.

                                                        DE PARTU VIRGINIS: (1526): sono circa 1500 esametri in tre libri, editi nel 1526. Si descrive l’Annunciazione, la nascita di Cristo a Betlemme, la adorazione dei pastori; sorge poi la divinità del fiume Giordano a ricordare una profezia di Proteo su Cristo, battezzato in quelle acque, re non per armi o danaro, ma per miracoli e bontà.

                                                         Salices: poemetto sulla trasformazione di ninfe in salici, lungo il fiume Sarno, per sfuggire alla persecuzione dei satiri.

                                                    De morte Christi Domini ad mortales lamentatio (lamento all’umanità per la morte di Cristo Signore)

                       

                        Opere in volgare:  Rime: sono 101 composizioni d’amore, divise in due parti: è il canzoniere del Sannazaro, che risulta il miglior petrarchista del suo tempo. Vi sono, infatti, anche  note personali, con  qualche momento felice. Uscite  tre mesi dopo la sua morte nel 1530, col titolo “Sonetti e canzoni”, fan riferimento ad una Carmosina, in gioventù; ed a Cassandra Marchese  in età più matura. La migliore potrebbe esser “Or son pur solo e non è chi m’ascolti”.

                                                              Frottole o Gliommeri (gomitoli, grovigli): monologhi recitativi, di argomento festoso,  capriccioso, comico. Scritte forse per il principe Federico, a noi è  giunto un solo  testo: La presa di Granada.

                                                               Farse: ne restano sei, ma sono povera cosa, perchè prevaleva la gioia degli occhi e dei suoni (scenografie, danze, fuochi d’artificio, musiche) che non il testo verbale.

                                                               ARCADIA:[72]. E’ il capolavoro in volgare e consta di un Prologo, di 12 prose e 12 fra egloghe, canzoni, sestine, con un epilogo (intitolato La Sampogna). E’ un romanzo pastorale, misto di prosa e di versi, edito definitivamente nel 1504 (per la edizione minore del 1501, cfr. nota). Il protagonista è la controfigura dell’autore (si chiama “Sincero” come il Sannazaro nell’Accademia pontaniana) e, per fuggire le pene d’amore, anzi la tentazione stessa del suicidio per la mancata corrispondenza della donna (Carmosina Bonifacio) amata, fugge in Arcadia (nel Peloponneso). Ma anche qui egli è perseguitato dalla tristezza e viene consolato dal pastore Carino, che gli narra i propri casi: anch’egli, dapprima rifiutato dalla propria ninfa, viene alla fine ricambiato. Sincero partecipa a varie manifestazioni della vita pastorale (funerali e giochi di stampo classico-pagano), finchè non vince il desiderio della patria  e allora da una ninfa è ricondotto, per antri e grotte, fino a Partenope (Napoli), in tempo per udire che la fanciulla amata è morta. L’opera ebbe 66 edizioni  nel Millecinquecento, 17 nella prima metà del secolo successivo ed altre ancora nel Millesettecento. Ebbe imitazioni ovunque in Europa: dal Portogallo (I sette libri della Diana: 1558-9), in Spagna (Garcilaso de Vega: Egloghe), in Inghilterra (Philip Sidney: Arcadia, 1590),  in Francia (Astrea: 1607-27), in Germania (La ninfa Egeria: 1630). Influisce sulla nascita del melodramma e sul Tasso (specialmente nell’Aminta). E (lo diremo a nostro rischio e pericolo) accenna anche al linguaggio fidenziano, che Camillo Scroffa (1526 ca-1565)  inventò per mettere in berlina il  modo di parlare del “pedante”, pubblicando i Cantici di Fidenzio (Glottocrisio Ludimagistro: 17 sonetti, una sestina e 2 capitoli). Solo il movimento romantico, con le esigenze di verosimiglianza storica (e, quindi, di un minimo di realismo), segnò la fine della sua fortuna  (il Manzoni la definì una “scioccheria”) e preparò gli animi ad un giudizio più equo sul suo valore, i suoi limiti e difetti.

Nell’analisi della poesia del Sannazaro, ci limitiamo all’esame dell’Arcadia.[73]

 

I MOTIVI ISPIRATORI. L’opera interpreta una componente della cultura letteraria del suo tempo; esaudisce un bisogno lirico della sua società: in Inghilterra il Sidney scriveva  pochi anni dopo un poema dalla stesso titolo, mentre le edizioni in Italia, le traduzioni e le imitazioni all’estero riecheggiavano il tema con una persistenza sorprendente. E’ l’aspirazione ad un mondo di sogno, di semplicità primitiva, di pace campestre. Orbene, l’ozio immaginato come proprio della vita pastorale, lontana dagli affanni (dal nec-ozio) della vita urbana; l’evasione fantastica nell’asilo della natura non intaccata dalla civiltà, la gioia semplice, la festosità ingenua dei popoli a contatto colla natura... sono tutti motivi di carattere prerussoiano, eterne aspirazioni dell’animo umano, nostalgico del Paradiso terrestre, oblioso della colpa originale.

TONI LIRICI Esiste nel libro una tenue ma autentica vena emozionale, che per lo più si aggira nell’aura elegiaca: altro è l’aspirazione alla serenità idilliaca che vorebbe il titolo e altro è la privilegiata tendenza  dello scrittore, che propende per la vena flebile. Momenti di idillio, per altro, esistono, ma sono recessivi rispetto alla dominanza elegiaca. Si tratta di una tristezza che ha una sua dignità e consistenza: vogliamo dire che è bensì meno convincente di quella del Petrarca, ma non scende al patetismo deamicisiano, al lacrimoso dolciastro. Assicurata la  presenza di un lirismo  lunare e la sua verosimiglianza complessiva, bisogna però  riconoscere che l’uno e l’altro carattere sono ai limiti  minimi della sufficieza. Anzi, spesso occorre la buona volontà del lettore per contiunare la lettura con...interesse e vincere la tentazione, che affiora  ogni tanto, di ironizzare sulle vicende  o sulla loro forma espressiva. In verità, l’invenzione e la irrealtà sono troppo evidenti: Sannazaro non ha l’impeto lirico di Dante o di Tasso da farci accettare come ovvi i momenti fantastici della trama. Se si attenuasse l’impegno culturale del lettore, la percezione del ridicolo finirebbe per  spuntarla. Siamo cioè sul crinale tra serietà e scherzo, tra dolorosa confessione e grottesca invenzione. A seconda dell’atteggiamento con cui si legge, l’uno o l’altro versante prevale.

 

NOTE STILISTICHE. Il Proemio ti mette di fronte ad un caso di scrittura presecentista (affine a quella che il Manzoni definisce “rozza insieme ed affetatta” e che canzona dapprima sornionamente e, poi, esplicitamente nella Introduzione ai “Promessi”). Presecentismo non significa barocco pieno: qui, in luogo della supponenza burbanzosa ed arbitrarietà  goffa, degli eroici pennacchi e rimbombo di oricalchi, propri di certo stile  diffuso nel Milleseicento italiano, sta una umiltà sincera ed una tenerezza sofferta che dà al discorso quel viraggio tra il serio ed il comico, fra la pena di vivere ed il ridicolo, di cui si è parlato a proposito dei Motivi ispiratori.

Cerchiamo di documentare. L’uso delle litoti (attenuazioni) o comunque di espressioni inutilmente negative è pervasivo: non meno| non una volta| non umile monte| ordine non artificioso| senza nodo veruno| non piccola parte| non che Ciparisso| ma...esso Apollo non si sdegnarebbe esser transfigurato| Nè sono le dette piante sì discortesi...| rara è quella erbetta che da quelli (raggi solari) non prende grandissima ricreazione|| non senza pregio e lodo del vincitore| non altrimenti che se una pietra o un tronco stato fusse... (esempi tratti per lo più dalla Prosa prima).

L’aggettivazione è sproporzionatamente frequente rispetto alla norma del parlare solito, equilibrato. Sempre nella Prima prosa (“Giace nella sommità di Partenio...”) abbiamo contato 65 aggettivi contro un centinaio di sostantivi. Se si aggiungessero i participi passati ed i numerali, detraendo dai sostantivi quelli in qualche modo aggettivati dalla forma diminutiva, allora la densità aggettivale  sfiora i tre quarti. E’ questa una via per attutire la forza ed insinuare la dolcezza, per togliere drammaticità e tormento, sostituendovi contemplazione e tenerezza. Nel nostro caso, delle forme contemplative, la elegia ha il sopravvento per la maggior congenialità con la mestizia nell’animo dello scrittore. Ecco, sempre dalla Prosa prima, un periodo: il Partenio è un “non umile monte della pastorale Arcadia”; sulla sua cima giace un “dilettevole piano, di ampiezza non molto spaziosa... ma di minuta e verdissima erbetta sì ripieno, che se le lascive pecorelle con gli avidi morsi non vi pascessero, vi si potrebbe in ogni tempo ritrovare verdura..”

La musicalità è pure univoca: coerente nel senso della dolcezza e tendente alla tonalità minore. La vocale media (e) e quelle strette (i| u) sono in frequenza ben eccedente la norma del parlato medio. La “u” si rende ancor più sensibile per la frequenza della consonante “v”, che la imita da vicino; le liquide (l| r) e le nasali (m| n), le fricanti (s| f| v) sono prevalenti; le altre consonanti dure, forti (gutturali, dentali od esplosivo-labiali) sono attenuate mediante il loro inserimento in parole sdrucciole, ottenute anche con frequenti superlativi assoluti in “-issimo”; talvolta la durezza della “z” è sostituita infelicemente dalla più carezzevole “s” come in  “Sampogna”  (Epilogo). Pure la dolcezza complessiva del linguaggio non discende alla sdolcinatura, non si deforma nel patetismo: conserva una sua dignità e sobrietà. Crediamo che questo (a livello stilistico) sia ottenuto mediante un impiego spontaneamente frequente di vocali larghe (oltre le pur attutite consonanti forti sopra ricordate): l’impasto musicale risultante supera addirittura in piacevolezza quei parametri di stentata serietà razionale e sufficienza lirica già segnalati. E’ come se una poesia d’amore, scialba ma non misera, fantastica ma non  impossibile, trovi  un geniale musicista che la rivesta di una melodia superiore e cattivante. Il musico, in sede letteraria, è lo scrittore stesso che, se solo talora  scrive parole per musica, sempre scrive  “musica in parole”.

Anche i versi (elegie, canzoni, sestine), specie nella seconda parte, sembrano umiliarsi ad una forma discorsiva, dimessa, da prosa confidenziale, leggermente ictata metricamente, ma senza grandi pretese: sembrano quasi non voler umiliare la “sorella prosa” che li introduce. La realtà è un’altra. La musa del poeta non aveva ali per volare oltre una certa (modesta) altezza di intensità lirica: la  poesia vi giunge con forme leggermente più complesse (quelle della metrica), ma non supera i limiti della prosa. Non si tratta cioè di calcolo o di pianificazione, ma di una spontanea disposizione d’animo: quale è il poeta, tali risultano i suoi versi nella elevatezza dei motivi, nella misura del lirismo, nelle opzioni tecnico-espressive. Si legga, per tutte, la seconda egloga (“Itene all’ombra degli ameni faggi”) in cui il pastore Montano conduce al rezzo le pecorelle, con una cantilena mesta, tenera, rassegnata, ma di intensità appena rilevabile.

E prendiamo in considerazione anche una componente stilistica che non ha direttamente a che vedere con i risultati lirici, ma che interessa per la rivelazione di quell’atmosfera umanistica, che è la componente centrale della cultura in cui  nasce (anche) la poesia del Sannazaro. Si tratta della “integrazione” continua di autori classici nella sua espressione letteraria. Nelle composizioni latine, Sannazaro non riflette soltanto i grandi poeti da tutti conosciuti (Virgilio, Orazio, Ovidio), ma anche i minori artefici, sia pagani che cristiani: Calpurnio siculo, M. Aurelio Nemesiano, Claudio Claudiano, P. Papinio Stazio, per i primi; Sedulio, Giovenco, Aratore, Prudenzio, Draconzio, Paolino da Nola (ed anche il contemporaneo Pontano), per i secondi. Gli autori cristiani sono riecheggiati nel De Partu Virginis. Per le rime volgari, succede un fenomeno parallelo: naturalmente egli “integra” anzitutto Petrarca e il Bocaccio poeta, ma ancora i classici latini ed altri autori toscani fino al poco più anziano Pietro di Jacopo De Jennaro (1436-1508), le cui “Pastoralia” (4 egloghe in volgare), circolavano ben prima della loro pubblicazione (1508) e, come subirono influssi dalle egloghe sannazariane manoscritte, così sull’Arcadia influirono a loro volta. Questo processo di ricordo-riecheggiamento-citazione-variazione è così abituale, che talora viene il sospetto che il motivo ispiratore primo della poesia del Sannazaro non sia la espressione di propri ideali affettivamente colorati, ma la utilizzazione di uttto un bagaglio di reminiscenze poetiche da collocare in nuove sentenze e giacenze metrico-ritmiche. La “forma” rischia di diventare essa stessa, inconsapevolmente, il primo tema di canto dello scrittore. Almeno talora si può avere questa impressione da quei critici che (come il De Robertis della Garzantiana) conoscono a fondo la produzione del Sannazaro.  Saremmo a quella condizione che, dalla metà del secolo XX, la televisione ci impone abitualmente: come ha insegnato  Herbert Marshall Mcluhan, il messaggio conta meno del mezzo di comunicazione; la connotazione è meno importante del sistema denotativo; la sostanza cede di fronte alla accidentalità della sua forma di trasmissione: the medium is the message! Nihil sub sole novi: quel che la tecnologia televisiva, elettronica ha esasperato e reso potenzialmente abituale, era un fenomeno già realizzabile con la semplice parola: creare un alone musicale  che conti più dei concetti; amare talmente l’espressione felicemente inventata da altri scrittori, da risentirla in sè e farla riecheggiare nell’animo dei lettori più che le cose concrete dei fatti o le verità teoriche del pensiero cui essa è, per natura, subordinata. La parola che conta più delle idee!

 

 

 

 

ANGELO AMBROGINI (detto il) POLIZIANO (1454-1494)

 

 

Vita. Il più grande degli scrittori in lingua volgare del Millequattrocento ed uno dei maggiori in lingua latina, nacque a Montepulciano nel 1454 e, dal nome latino (Mons Politianus) del paese nativo, trasse il soprannome poi passato a cognome. Vissuto povero in gioventù, amò talmente gli studi che riuscì ben presto a divenire lo scolaro prediletto degli umanisti di Firenze. Nel 1473 conosceva il latino ed il greco fino a scrivere nelle due lingue con la stessa facilità del toscano ed a poter inviare in omaggio a Lorenzo la traduzione in esametri latini del secondo libro dell’Iliade (dopo aver ultimato il primo, avviato da Carlo Marsuppini). Fu allora preso come segretario dal Magnifico, che gli affidò la formazione intellettuale del secondogenito, Piero. Urtatosi con la famiglia Medici per motivi pedagogico-religiosi (aveva iniziato l’approccio al latino partendo da Cicerone anzichè dal Salterio), dovette lasciare Firenze nel 1479 per le pressioni di Clarice Orsini, la moglie di Lorenzo. Si  fermò a Mantova e, per i Gonzaga, compose la favola pastorale Orfeo. Ma potè  l’anno seguente rientrare a Firenze come docente di eloquenza latina e greca allo "Studio" (università). Morto il grande protettore nel 1492, subì fortemente l’influsso del Savonarola e, convertitosi dalla sua condotta scorretta (canonico  della cattedrale e priore di S. Paolo, era noto per costumi e versi  impudenti) e volle essere sepolto in San Marco con l’abito del terziario domenicano, quando una febbre violenta lo portò via in pochi giorni (28 settembre 1494), due anni dopo il Magnifico. D’altronde l’amicizia con Pico della Mirandola e con Marsilio Ficino l’avevano già avviato ad una visione più cristiana della vita.

 

Personalità. Certamente emotivo, come poeta riuscito, doveva avere un temperamento non attivo e primario (mutevole, non persistente, fragile, esauribile): timido, introverso, contempaltivo e facilmente influenzabile, dunque. Di qui il “nervosismo” della sua attività letteraria, occupata per troppa parte in polemiche astiose con scrittori anche a lui troppo inferiori, su questioni di stilistica e filologia. (inerpretazione di singoli passi di opere greche e latine). Di qui la versatilità, che lo portò ad occuparsi più di filosofia che di poesie nei suoi ultimi anni; di qui la discontinuità delle sue opere (le “Stanze” non finite; molte delle sue lezioni raccolte come “Miscellanea”, cioè come collezioni di argomenti dispersi, di lezioni non organiche; di qui la facilità con cui seguiva il più forte, dopo aver tentate vie personali: il passaggio dal Magnifico al Savonarola è il caso estremo di una “gregarietà” che giunge alla adulazione (Stanze, I, 4 e 5: “E tu, ben nato Laur, sotto el cui velo| Fiorenza lieta in pace si riposa|...accogli all’ombra del tuo santo stelo| la voce umìl tremante e paurosa...”); di qui la sua vanità quasi infantile ed ambizione, sorprendenti in un uomo che non aveva davvero bisogno di posti elevati per onorarsi, quando era lui ad onorare i posti (almeno nel campo culturale) a lui affidati.; di qui la superficialità che per lungo tempo distinse la sua vita: il pensiero ovviamente cristiano e la condotta scostumata fino ad aver fatto pensare a fosche circostanze nella sua morte precoce ed improvvisa. Un temperamento nervoso è il più facilmente poetico: ma paga con limiti rischiosi la genialità di cui può essere investito.

            Non parliamo dell’ambiente, perchè è quello stesso dell’umanesimo fiorentino di fine secolo: quello stesso del Magnifico.

 

Le opere. In versi latini: Tradusse  dall’ Iliade, in esametri,  giungendo almeno fino al canto quinto:   il cardinal Angelo Mai ne scoprì quattro. Compose Odae et Elegiae: una ventina di poesie, di cui la più famosa è quella per  morte di Albiera degli Albizzi (In Albieram Albitiam puellam formosissimam morientem); ma bellissima è anche quella In vìolas (Alle viole). Le Sylvae  sono la raccolta delle introduzioni in versi al corso accademico del nuovo anno (Manto: 1482: su Virgilio; Rusticus: 1483, su Virgilio ed Esiodo; Ambra: 1485: su Omero; Nutricia: 1486: in lode di poeti antichi e moderni). Compose epigrammi e ci fu spazio anche per versi sacri (In divam Virginem).

                    In prosa latina: scrisse  la storia della congiura dei Pazzi (De pactiana coniuratione) , che manca però del nerbo di quel Sallustio che egli voleva imitare e di cui ha imitato il titolo (De coniuratione Catilinae); le lezioni universitarie, raccolte col nome di Miscellanea (sono 100, edite nel 1489: hanno carattere filologico, di correzione o spiegazione dei testi presi in esame:  dalla ortografia, alla archeolologia, alle istituzioni romane, come i giochi secolari...); i 12 libri di Epistolae (edite nel 1498, postume: gli interessi precipui sono ancora quelli dei Miscellanea); sintesi delle lezioni filosofiche su testi di Aristotele (Organon ed Ethica Nicomachaea), che tenne dal 1489 alla morte; che è un commento più filologico che filosoficoe e che  intitolò Làmia (civetta: l’uccello di Minerva e di Atene), Panepìstemon (l’onnisciente) e Dialectica (Dialettica).

                  Opere poetiche in volgare: Canzoni a ballo| Canzonette: le più poetiche sono “Ben venga maggio| e il gonfalon selvaggio!” “Io mi trovai, fanciulle un bel mattino” (Ballata delle rose);                                                            Rime varie: le migliori: “Io son costretto, poi che vuole amore”| “Vergine santa,immaculata e degna”

                                                                      Rispetti continuati| Rispetti spicciolati.

                                                                      Della fabula di Orfeo (1480): in questa opera scenica, la cosa più interessante esteticamente ci sembra la canzone di Aristeo: “Udite, selve, mie dolci parole”.

                                                                       LE STANZE PER LA GIOSTRA DEL MAGNIFICO GIULIANO DE’ MEDICI: (1475-78):capolavoro del poeta, scritto fra l’avvenimento della “Giostra” o vittoria di Giuliano in combattimento pacifico nel 1475 e la morte di Simonetta (1476) e dello stesso Giuliano (1478: congiura de’ Pazzi).

                        In prosa volgare:         Sermoni (religiosi: Del sacramento della Eucarestia; Della passione di Gesù Cristo; Dell’umiltà di Gesù Cristo (1467-78).

 

LA POESIA.  Giudizio generale. Non è solo il  migliore poeta, ma anche l’unico poeta davvero grande del secolo. Questa classificazione ad alto livello nasce anzitutto, ma non solo, dalla lettura delle “Stanze” Le sue ballate carnascialesche sono ben superiori alle pur non spregevoli del Magnifico; anche altre sue composizioni, tra quelle che diremo normali e perciò neppure citate da noi, sono più valide della stessa Nencia da Barberino e della Canzona di Bacco. Anzi, a nostro parere, è molto più poeta dell’Ariosto: in verità, fra il Petrarca ed il Tasso non c’è alcuno che gli stia a pari. Qui ci limitiamo però alla sola analisi del capolavoro: per le altre poesie  e per lo stessa trama delle Stanze, rimandiamo in nota.[74]

LA POESIA: Le Stanze.

 MOTIVI ISPIRATORI.  Dal mondo poetico del Poliziano esulano i grandi temi della religione e della morale, dell’eroismo per la difesa della patria, dell’ardore filosofico o storiografico (si pensi alla Commedia di Dante). Quattro ci sembrano invece i temi che fanno vibrare la emotività del poeta mediceo: l’amore, la forza, il sogno del mitico e del surreale, il paesaggio naturale come ambientazione ai precedenti valori.

                        L’Amore è facilmente individuabile come il motore  primo di tutto il mondo poetico del Poliziano, anche al di fuori delle Stanze: eccettuate alcune cose sacre in latino ed in volgare, pel resto la sua fantasia è a rimorchio del sentimento amoroso. In particolare si deve qui sottolineare come un argomento, di per sè eroico e quasi militare come è appunto una gara fra armati, viene invece subordinata e immersa in un’atmosfera di conquista amorosa: vinto dovrà essere il cuore della donna amata. Il primo libro del poemetto presenta addirittura la “conversione” dalle armi (della caccia) all’amore, nel protagonista; il secono libro presenta la riconversione alle armi, ma solo apparente: esse sono ormai strumento docile di  Cupido.

                        La forza. Se l’uso delle armi, nella caccia e nella giostra, è subordinato alla vicenda affettiva, non scompare però dall’orizzonte poetico del Poliziano, che doveva sentire tanto più il fascino dell’energia combattiva e del dinamismo esteriore, della robustezza e della vitalità fisica, quanto meno ne possedeva come costituzione biologica. C’era in lui la spontanea aspirazione a valori, perduti ma tenacemente esigiti dalla natura, quasi complemento ad  un organismo debole e fragile. Non però consapevolmente, forse: il motivo ispiratore della virilità combattiva resta così implicito nella  lotta  per un amore difficile; si manifesta solo come modulazione subordinata alla emotività dolce di fondo; si lascerà intuire in soluzioni stilistiche non univoche ma complesse. Il bisogno di energia ed agilità fisica diverranno un’onda interferente nella melodia della dolcezza amorosa. Il dispiegamento di forza e destrezza sono vagheggiate con ammirazione e godimento sia pur relativizzati all’amore: si ha così una specie di memoria-nostalgia del paradiso terrestre, la tensione gioiosa verso la vita idealizzata che il Rinascimento propone come possibile, dove viene assicurato all’uomo bello e buono la pienezza della vita esuberante, la felicità dell’amore  immortale, la costruzione del “calòs kài agathòs anèr” che era stato l’ideale affascinante del miglior mondo greco. Non si ricerca però l’eroismo, ma il gioco; non  l’ardimento, ma la destrezza; non il pericolo, ma il successo: è una concezione molto rinascimentale, cioè materiata di sogno più che di realtà. Rivelatrici di questa prospettiva di una vitalità di tutta  gioia possono essere le strofe 23-26 del primo libro: Julio, sorpreso e ritratto quasi al teleobiettivo, si scatena in un primo piano movimentatissimo, ma al tempo stesso rilassante: sono le “fatiche oziose” della caccia per divertimento. Conferma della congenialità di questo senso e bisogno della energia fisiologica, della componente animale della vita è anche il realismo della Sylva “Rusticus” (mondo georgico, contadino) e l’ode “In scabiem”, contro la scabbia.

                        Il sogno, la fantasia, il mito.  La inconscia aspirazione alla forza ed al vigore fisico diventano mito: diventano la spia di una carenza biologica, ma anche di un’aspirazione spirituale ad una vita senza difficoltà, senza limiti, senza sofferenza. E’, come si è detto, il sogno di un ritorno all’Eden, all’età dell’oro, dove il desiderio (sintetizzato nell’amore) diventa realtà, mentre la realtà si modella sui desideri. Come nei romanzi cavallereschi, ove i giganti operano imprese meravigliose (il Morgante del Pulci); o la magia introduce in un mondo di onnipotenza (l’Innamorato del Boiardo), anche nelle Stanze il principio elementare di vita è “tutto, subito, senza fatica”, quasi in un carosello televisvo. Spie di questa tensione verso l’infinito ed eterno sono le proiezioni di personaggi ed avvenimenti in un mondo che riprende il preternaturale pagano, la mitologia e le divinità onnipossenti del pantheo classico. Giuliano diviene così Juilio (nome di Cesare e del figlio di Enea); Simonetta diviene una ninfa o, almeno, così viene chiamata; l’amore si impersona in Venere o nel figlio Cupìdo; nelle armi di Julio son richiamate Medusa e Minerva... La vicenda vive in un’aura panica, non certamente cristiana, anche se il paganesimo è puro strumento alla dimensione fantastica della vicenda, senza difficoltà vere e senza rimosro alcuno per l’amore adultero.

                        La natura, il paesaggio. Benchè anch’essi  di fatto relativi alla avventura amorosa ed al dispiegamento dell’energia dei protagonisti, tuttavia costituiscono un polo consapevole e indipendente della ispirazione polizianesca.  Difatti il motivo è ben presente al di fuori delle “Stanze” (Sylvae, Elegiae) ed anche in queste ha uno sviluppo tale (descrizione dell’isola di Cipro) che lascia sospettare facilmente essergli sfuggito di mano, perchè nel suo animo costituisce un fattore forte ed assoluto di attrazione e di emotivizzazione.

 

TONI LIRICI. Il lirismo su cui è tramato la melodia delle Stanze è  duplice:l’idillio e l’epopea.  Le due tonalità normalmente si alternano con una felicità sorprendente, perchè l’idillio non è privo di vigore e di forza nè la epopea è senza una accentuata gentilezza. E già in tali stanze (cioè nella grande maggioranza)  ben più che sufficiente è la poesia, affascinanti i versi, pungente il piacere di leggerli. Basti citare l’inizio della azione, dopo le prime sette (e un po’ faticose) stanze di introduzione (proposizione del tema, invocazione ad Amore e Venere, dedica del poemetto a Lorenzo): ci si accogerà che l’idillio prevale nei primi cinque versi e la epopea negli ultimi tre, pur con una affinità di tutti, che rende non facile la selezione:

“Nel vago tempo di sua verde etate,

spargendo ancor pel volto il primo fiore

nè avendo il bel Julio ancor provate

le dolci acerbe cure che dà Amore

viveasi lieto in pace e in libertate,

talor frenando un gentil corridore

che gloria fu de’ ciciliani armenti:

con esso a correr contendea co’ venti;” (I, 8)

Ma dove il Poliziano assurge alla sua arte più garnde e induce un rapimento più profondo, ivi i due toni si fondono, epopea ed idillio si sposano, avviene quella mirabile sintesi che è l’estasi, sinergismo della gioia tenue e forte, simbiosi dei due stadi di piacere spirituale che costituisce un presentimento di felicità completa:

                                                “Quanto è più dolce, quanto è più sicuro

                                                seguir le fere fuggitive in caccia

                                                fra boschi antiqui fuor di fossa o muro,

                                                e spi”ar lor covil per lunga traccia!

                                                Veder la valle e ‘l colle e l’aer puro,

                                                l’erbe e’ fior, l’acqua viva chiara e ghiaccia!

                                                Udir gli augei svernar, rimbombar l’onde,

                                                e dolce al vento mormorar le fronde!

                                                                        Quanto giova a mirar pender da un’erta

                                                                        le capre, e pascer questo e quel virgulto;

                                                                        e ’l montanaro all’ombra più conserta

                                                                        destar la sua zampogna e ’l verso inculto!

                                                                        Veder la terra di pomi coperta,

                                                                        ogni arbor da’ suoi frutti quasi occulto;

                                                                        veder cozzar monton, vacche mugghiare,

                                                                        e le biade ondeggiar come fa il mare!

                                                Or delle pecorelle il rozzo mastro

                                                si vede alla sua torma aprir la sbarra:

                                                poi, quando move lor co ’l suo vincastro,

                                                dolce è a notar come a ciascuna garra.

                                                Or si vede il villan domar col rastro

                                                le dure zolle, or maneggiar la marra;

                                                or la contadinella scinta e scalza

                                                star con l’oche a filar sotto una balza.” 1, 17-19)

L’estasi è un esito raro in ogni storia letteraria: da noi, lo si potrà ritrovare in Carducci (ed anche più riuscito), ma non in molti altri. Neppure in Poliziano la “fusione” avviene abitualmente od avviene a fondo: ma tali strofe rappresentano sempre la vetta della sua poesia ed una sorpresa gratificante per il fruitore. Ecco l’impeto dell’ira nella tigre, frenata dal vagheggiamento sia pur illusorio dei figli rapiti:                              “Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana

                                                ha tolto il cacciator gli suoi car figli;

                                                rabbiosa il segue per la selva ircana,

                                                che tosto crede insanguinar gli artigli;

                                                poi resta d’uno specchio all’ombra vana,

                                               all’ombra che ai suoi nati par somigli;

                                                e mentre di tal vista s’innamora

                                                la sciocca, el predator la via divora.” (1, 39)

                                               

Ecco la figura di Simonetta:   “Candida è ella e candida la vesta,

                                                ma pur di rose e fior dipinta e d’erba:

                                                lo inanellato crin dell’aurea testa

                                                scende in la fronte umilmente superba.

                                                Ridegli attorno tutta la foresta,

                                                e quanto può sue cure disacerba.

                                                Nell’atto regalmente è mansueta;

                                                e pur col ciglio le tempeste acqueta.” (1,43)

 Citiamo ancora la descrizione di Cipro (1,70): “Vagheggia Cipri un dilettoso monte

                                                                             che del gran Nilo i sette corni vede

                                                                             e’l primo rosseggiar dell’orizzonte

                                                                             ove poggiar non lice a mortal piede.

                                                                             Nel giogo un verde colle alza la fronte;             

                                                                             sott’esso aprico un lieto pratel siede;               

                                                                             u’ scherzando tra’ fior lascive aurette

                                                                             fan dolcemente tremolar l’erbette”       

Il canto di Polifemo per Galatea: “E dica ch’ell’è bianca più che il latte

                                                      ma più superba assai ch’una vitella;

                                                      e che molte ghirlande gli ho già fatte,

                                                      e sèrbagli una cervia molto bella,

                                                      un orsacchin che già col can combatte;

                                                      e che per lei si macera e flagella;

                                                      e che ha gran voglia di saper notare”

                                                      per andare a trovarla in fin nel mare” (1,117).

E’ naturalmente da intuire che in molti casi più numerosi, prevalga talmente l’epopea oppure l’idillio (sebbene mai del tutto separati), che le singole stanze si lasciano definire liricamente in una direzione abbastanza univoca; oppure che ritorni la situazione della strofa ottava, in cui alcuni versi risentono maggiormente di una tonalità ed altri della seconda.

Ebbene, per l’idillio puro, basterà riferirsi alla descrizione dell’alba in 1, 25 (strofa imitata e messa in burletta da Alessandro Tassoni, La secchia rapita, 1, 26):

                                                “Zefiro già di be’ fioretti adorno

                                                avea de’ monti tolta ogni pruina:

                                                avea fatto al suo nido già ritorno

                                                la stanca rondinella peregrina:

                                                risonava la selva intorno intorno

                                               soavemente all’o^ra mattutina:

                                                e la ingegnosa pecchia al primo albore

                                                giva predando or uno or altro fiore”

Invece per una forte prevalenza di epicità, scegliamo come esemplare la strofa 27, una delle più belle fra le molte mosse, drammatico-epicizzanti di tutta la scena di caccia (1, 26-36):

                                                            Già circundata avea la lieta schiera

                                                            il folto bosco; e già con grave orrore

                                                            del suo covil si destava ogni fera;

                                                            givan seguendo i bracchi il lungo oodore.

                                                            Ogni varco da lacci e can chiuso era:

                                                            di stormir, d’abbaiar cresce il romore:

                                                            di fischi e bussi tutto il bosco suona:

                                                            del rimbombar de’ corni il ciel rintruona”.

E’ facile accorgersi come questi due toni di fondo traducano a livello emozionale quella duplicità di motivi ispiratori che si presentano come non del tutto slegati e non del tutto subordinati fra  loro: l’aspirazione all’ amore e il culto della forza. E’ normale in ogni poeta classico che i registri lirici siano quelli adeguati, armonici alle idee che li ridestano.

 Il paesaggio, più indipendente, suggerisce più facilmente l’idillio (come nella citata stanza 1, 25).

Esclusi, invece, l’elegia e la tragedia: sarebbe stato adeguato il poeta al pianto ribelle sulla  descrizione eventuale dell’uccisione di Giuliano? Ci pare cosa difficile.

 

NOTAZIONI STILISTICHE . La classicità della espressione. Per classicità intendiamo, dopo la visione positiva, seppur sognata, della esistenza (classicità dei motivi ispiratori); e dopo l’armonia fra idillio ed epopea nei toni lirici, l’equilibrio dei vari fattori espressivi: nei vocaboli, nel musicalismo, nelle immagini, nella cadenza metrica e nella coincidenza di periodo logico e ritmico. La mitologia e la retorica presentano un’altra componente classica: l’imitazione dei modelli antichi, il riferimento alle “auctoritates” esemplari.

            I vocaboli sono scelti d’istinto o trasformati di genio con una sapienza che è anzitutto  nella proporzione tra sostantivi e verbi prevalenti rispetto agli aggettivi significativi ed avverbi pertinenti. In questa equilibrata scelta filologica, spiccano le dominanti vocali larghe, rotonde, forti, che emarginano quelle tenui, strette., delicate. Viceversa sono le consonanti dolci, tenere, carezzevoli (nasali, liquide, fruscianti) che prevalgono e si alleano alla dentale media (d) proprio nei punti in cui la vena lirica del Poliziano raggiunge lo zenit del suo estro. Ecco, ci pare, un segreto tecnico della complessità fra epica ed idillio nel poemetto: la cooperazione tra una forte struttura di vocali solide portanti e una splendida ala  di lievi consonanti  sublimanti; la simbiosi fra una base formidabile di vocali larghe e la guarnizione  consolante di consonanti tenere, ovattanti. L’esemplificazione seguirà presto.

            Le immagini del Poliziano sono forse  il segno più  rivelatore di quel confluire di forza e dolcezza, idillio ed epopea, vigore e flessuosità, potenza e   morbidezza, energia e duttilità, massa e velocità, solidità e dinamismo... Ecco alcune di queste immagini, lapsus ed iconi:

                                    1, 14 (la donna) “segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde

                                                               e vanne e vien come alla riva l’ONDE”

                                    1, 17: “Udir gli augei svernar, rimbombar l’ONDE,

                                                e dolce al vento mormorar le fronde”

                                    1, 18: “veder cozzar monton, vacchie mugghiare,

                                                e le BIADE ONDEGGIAR  come fa IL MARE”

                                    1, 25: “Risonava la SELVA intorno intorno

                                                soavemente all’o^ra mattutina”

                                    1, 43 (Simonetta) “nell’atto REGALMENTE E’ MANSUETA

                                                e pur col ciglio le TEMPESTE ACQUIETA”

                                    1, 81: “L’ACQUA DA VIVA POMICE ZAMPILLA”

                                    1,89: “E’ muti pesci in fretta van notando

                                                drento al VIVENTE E TENERO CRISTALLO”.

                                    1,93: “Muove dal colle mansueta e dolce

                                                la schiena del bel monte”.

Si possono riscontrare nel solo libro primo i paragoni con fiere e belve che, tutte, hanno in comune la duplice caratteristica di una muscolatura possente e di una pieghevolezza suprema, di un corpo robusto e di una snellezza elegante: orso, tigre, leone: I, 8, 9, 17,  24, 26, 30, 32, 39, 98, 111, 114, 117... Queste immagini, espresse nella musicalità sopra descritta lasciano la impressione di una massa magmatica in lento ma inarrestabile progresso, di una tigre in magnifico balzo aggressivo, di una colata di metallo fuso che proceda fluida e possente, dell’oceano che alzi le sue onde liquide ma formidabili. Solidità ed elasticità, saldezza e morbidezza, muscolosità ed eleganza: nulla di rigido o duro, ma anche nulla di molle o di debole. Armonia, simbiosi, sinergismo di  paterna mascolinità e di femminilità matronale.

             

              Al risultato  di evasione nel sogno, fuori dal reale disarminoco, dalla concretezza scabrosa, agisce anche la metrica del giambo catalettico quasi perfetto, con l’ictazione cioè che tende a cadere sulla 2| 4| 6| 8| 10 sillaba: gli accenti puntuali cullano in attitudine contemplativa, obliosa  degli impegni, assorta in un mondo di beatitudine onirica (sognante).

            Spia sicura di classicità è pure la facilità a far terminare il pensiero (e, quindi la frase od il periodo) con la fine del verso, evitando solitamente l’enjambement o scorrimento della frase da un verso alla metà dell’altro. Coincidenza di periodo logico e ritmico, ecco (poniamo il caso più facile: una frase termina alla fine del secondo verso; alla fine del quarto, un periodo).  E’ un indice di razionalità chiara e di intelligenza ordinata, perchè le eccezioni sono davvero rare. Ecco Julio che padroneggia il suo cavallo: “Or a guisa saltar di leopardo| or destro fea rotarlo in breve giro:| or fea ronzar per l’aer un lento dardo,| dando sovente a fere agro martìro.| Cotal viveasi el giovane gagliardo:| nè pensando al suo fato acerbo e diro,| nè certo ancor de’ suo’ futuri pianti,| solea gabbarsi degli afflitti amanti” (1,9).

La mitologia pare volere ingigantire questo fenomeno di  improbabile ma non impossibile connubio fra qualità diverse e praticamente opposte: così rara e precaria è la loro coniugazione nella vita reale degli uomini! Ma la favole rende possibile gli incontri più sublimi, ideali e inverosimili: essa allontana nel regno della fantasia gli eventi; circonda di luce magica i personaggi; confonde i contorni e attenua i contrasti: ecco che il sogno si insinua nell’animo come realtà raggiungibile, come meta non più impervia. Si leggano ad esempio  i versi sull’età dell’oro (1, 21-22); e quelli sull’isola di Cipro (1, 70-119).

            La retorica la si ritrova specie nel secondo libro. A noi, delle varie sue sfaccettature, qui interessa il gioco delle contrapposizioni, per due ragioni. La prima sta nel fatto che i contrasti concettuali e di parole ribadiscono l’ambivalenza della ispirazione (amore-forza) e del lirismo (idillio-epopea). In  questo caso, il calcolo e il gioco sono subordinati ad una verità psicologica complessa, sottilmente analizzata: è la condizione che distingue il secentismo arbitrario dal concettismo realistico (o, almeno, verosimile). Il risultato è ben spesso artistico. Credere o non credere, si leggano questi versi sulla donna: “e mille volte al dì vuole e disvuole:| segue chi fugge, a chi la vuol s’asconde;| e vanne e vien, come a la riva l’onde”.(1, 14).   Quest’altro verso sull’amore dei pesci nelle acque (“Ogni lor atto sembra festa e gioco| nè spengon le fredde acque il dolce foco”:1, 89) ci porta invece ormai al displuvio fra verità e forzatura, fra sottigliezza psicologica e freddura barocca. In quest’ultima categoria di realtà si cade nella impacciata introduzione delle prime sette strofe: “dolce desir, d’amaro pensier pieno” (1, 2); “di roco augel diventi bianco cigno?” (1,5). Il Tasso sarà vicino al Poliziano anche in questa tecnica rischiosa.

 

Il valore, i limiti, il significato del Poliziano nel Rinascimento.

Poliziano è grande poeta, ingiustamente poco conosciuto ed amato. D’accordo, il suo è il destino della “Incompiuta” di Franz Schubert, che è sfortunata perchè rimasta sospesa a mezz’aria. Un poema di 171 strofe e 1364 versi, ammettiamolo, è poca cosa quantitativamente: eppure Ariosto con più che 38.000 versi, non ne ha tanti paragonabili qualitativamente a quelli riusciti delle “Stanze”. Perchè la prima rivendicazione da fare è questa: fra tanti poeti famosi che, visti da vicino, risultatno dei “re nudi o con troppo poche vesti addosso”, il Poliziano risulta un genio quella fama popolare (fra studenti, almeno) che meriterebbe. Il primo libro delle Stanze, come ha fatto scuola per un paio di secoli, così meriterebbe di esser letto, riletto, studiato da ogni generazione di Italiani. Fino a Carducci, un timbro lirico così ricco e raro, l’amalgama, cioè, fra idillio ed epopea nell’estasi o  la loro alternanza ravvicinata nella stessa strofa, sarà un dono che non ritroveremo più.

Ma una parte di colpa, per la sua emarginazione dai poeti amati e riletti, va attribuita anche a lui. Vale anche per lui la sentenza troppo vera: l’origine prima (anche se non unica) dei nostri guai è dentro di noi.  Stiamo parlando dei suoi limiti intellettuali, morali, umani. Il suo poema  prende le mosse da un fatto di cronaca rosa-argento: gli amori giovanili di un cadetto di famiglia signorile, anche se fossero risultati vincenti, sarebbero sempre stati un argomento da adolescenti  o sfaccendati; e il persistere al livello estetico del primo libro in un argomento ben presto scontato nei suoi risultati da cronaca scandalistica, era un’impresa  non facile neppure ad un Poliziano: le strofe del secondo libro sono ben lontane dalle vette di molte del primo. Inoltre egli si escludeva da sè da quei motivi ispiratori che, lo si voglia o no, costituiscono le vette dell’interesse umano: la vita religiosa, il dovere morale, le questioni di filosofia antropologica od esistenziale, le grandi imprese storiche sono una sfida all’intelligenza davvero ardua: ma se il tentativo riesce, si avrà un poeta o prosatore davvero universale: se anche il fascino artistico della parola si perde  abitualmente nelle  traduzioni, rimane, in un letterato  famoso come tale in una nazione, il fascino della sua ideologia, del suo porporsi come rivisitatore di problematiche comuni a tutti gli uomini che pensano. Virgilio e Dante, Omero ed Eschilo, Sofocle ed Euripide, Skakespeare e Goethe, Dostoiewski e Tolstoi, Foscolo e Leopardi, Ibsen e Cervantes devono la loro fama oltre i confini della loro lingua alla loro visione universale e sommamente umana dei loro motivi. Non fu così per il Poliziano: e per limiti personali e per  la mentalità dell’umanesimo della sua epoca. Che è quella rinascimentale. Orbene 

Poliziano è poeta completamente rinascimentale anche perchè manca di una tale pienezza di intelligenza, che lo renda avvertito della presenza inesorabile del male, come peccato e come dolore, nella vita umana: non sa accorgersene per i limiti di virilità che facevan da contropartita, nella sua sfera intellettiva prima ancora che in quella volitiva, al grande dono della genialità poetica Non accorgendosene, egli, cristiano ovvio  ma superficiale ed ecclesiastico infedele ma senza rimorsi (salvo gli anni ultimi, col Savonarola), non comprende la funzione della redenzione di Cristo nè sospetta della importanza  del dogma, apparentemente  ingenuo ed iirazionale, della colpa originaria. Conferma, dunque,  l’astigmatismo dell’Umanesimo rinascimentale: guardare ad una sola dimensione della vita, quella idealizzante della piena stima, fiducia, felicità della condizione umana; ignorare quella faccia penosa e umiliante dell’umana realtà concreta, che la Rivelazione giudeo-cristiana  sottolinea nella concretezza dei suoi dati e nella radice della sua genesi. A fianco di Sandro Botticelli (pittore idillico se ce ne fu un altro); accanto a Pico della Mirandola (che nella ragione filosofica si illudeva di poter trovare la soluzione di ogni problema dell’uomo, unificando le religioni tutte e assorbendo anche i dati della magia) ed a Marsilio Ficino (che nel candido platonismo  sognava una via facile ad accordare classicità greca e valori cristiani), il Poliziano segna il culmine della poesia rinascimentale, ma tradisce i difetti di una cultura, che ben presto Savonarola, Machiavelli e Lutero  condanneranno esasperati o disperati, preparando la fine  del  sogno, troppo bello  per essere vero,  in cui si era cullato oltre un secolo di gente studiosa e di borghesia benestante, trovando il suo apogeo nella generazione fiorentina  pilotata dal Magnifico.

 

 

V)SCRITTORI AL DI LA’ DELLA CIVILTA’ RINASCIMENTALE

 

            Si tratta di scrittori poeticamente poco significativi e, culturalmente, di valore disparato: Leonardo è un gigante della scienza; altri (Aquilano, Tebaldeo, Francesco Colonna) precorrono il fenomeno secentista. Nessuno partecipa attivamente della cultura rinascimentale, anzi Leonardo vi polemizza contro.

Leonardo è rimasto poi indedito fino al secolo XX, salvo le sue notazioni sulla pittura pubblicate nel 1656. Pure, egli ha in mano le chiavi del futuro, presagendo Copernico e Keplero, Galileo e Newton. Gli altri tre scrittori sono dei poveri untorelli, che precorrono non la verità (estetica) ma o l’artificio del barocco o la scrittura mista di latino e volgare (Francesco Colonna) che verrà ripresa, in versi,  da Teofilo  Folengo e da Camillo Scroffa (Teofilo, rivestendo di desinenze e di sintassi latine il toscano o il dialetto: latino maccheronico; Camillo, rivestendo di desineze italiche un vocabolario sostanzialmente latino: linguaggio fidenziano).

            Cominciamo dai poeti.

Serafino de’ Ciminelli detto l’Aquilano.

 La vita. Nato all’Aquila nel 1466 e morto a Roma nel 1500, egli fu musico ed improvvisatore o almeno eccellente recitatore delle proprie poesie, che accompagnava col suono del liuto. Festeggiato come novello Orfeo, ma instabile di temperamento, fu al servizio di vari signori italiani: del cardinal Ascanio Sforza a Milano (1484-93), di Ferrandino d’Aragona, governatore d’Abruzzo e, dopo aver girovagato per Urbino, Milano e Mantova, del duca Valentino: al cui servizio morì, stroncato a Roma da una terzana fulminante.

Le Opere. Sonetti, strambotti e frottole (o barzellette), egloghe (due in terzine sdrucciole e un polimetro, come nel Sannazaro) e un “Atto scenico del Tempo".

Caratteristcihe delle sue composizioni: superò in prodezze prebarocche i poeti cortigiani del suo tempo: le arguzie concettistiche, negli altri, scoccano alla fine, mentre lui apre i suoi versi con una “agudéza” che poi sviluppa fino alla esasperazione. Ad esempio, nel sonetto 53, la neve diventa in lui fuoco: per amore; nello strambotto “Se drento porto” , fuoco e acqua, lacrime e amore stanno in lui senza consumarsi; nell’altro “Se salamandra in fiamma viva” si domanda: -come mai la donna amata non bricia, accanto a lui così infuocato?; in “Spesso questi arsi panni”, si getta nel mare, perchè i panni gli bruciano per fuoco d’amore: e anche il mare si accende! Se non bastano i concettini a renderlo mirabile (“Ricco m’ha fatto di tre cose Amore: vento in bocca, in gli occhi l’acqua e foco in core”), eccolo a inventare artifici metrici che sono vere prodezze tecniche: inizio dei versi con la stessa parola; strambotti a dialogo, incatenati dalla rima tra l’ultimo verso dell’ottava precedente e il primo della seguente...

Di vera poesia non è il caso di parlare. Eppure chi l’udì recitare ha testimoniato sul fascino delle sue prestazioni. Da vero attore, comunicava un fluido che noi cerchiamo invano nella parola stampata e che proveniva dalla voce, dal gesto, dalla persona tutta (era piccolo, robusto, forte ed agile, con gli occhi neri vivissimi). Era un artista del rapporto umano, delle human relations a livello di spettacolo: prestigiatore ed incantatore di platee, di corti, di comizi, dalla forza psicologica di un domatore di bestie feroci, ma senza un valore eterno da consegnare all’umanità: quanto  -nel bene e nel male- poteva fare, si esauriva nella sua presenza fisica. Tale fu Serafino Aquilano: un personaggio dell’avanspettacolo, precursore di divi e stars di ogni tempo (...esclusi, si intende, i nostri  giorni,  geni garantiti dalla televisione!...). Non gli mancarono però contesatori (e meno male!).

 

Antonio Tebaldi (detto il Tebaldeo: 1463-1537)

Ferrarese, fu precettore alle corti degli Estensi e dei Gonzaga (seguì Isabella d’Este, sposa dei Gonzaga, a Mantova); poi fu segretario papale alla corte di Leone X e fu rapinato di libri e di robe nel sacco di Roma nel 1527. Ecclesiastico e arciprete della chiesa di S. Pietro in Verona, passò nella meschinità gli ultimi suoi anni. Le poesie in volgare le aveva scritte da giovane e se le era trovate edite da un cugino indiscreto, nel 1499: entro il secolo seguente, ebbe 11 edizioni!.

Ciononostante, rimangono una cosa arida e compassionevole: immagini balorde, vecchie come la poesia occidentale tutta e sofisticate già dai Provenzali e dal Petrarca, vengono dedotte alle ultime conseguenze, diciamo pure ridicole. Egli è così zeppo di strali d’amore, che il cieco Cupìdo potrebbe servirsi di lui come faretra. Flavia è scivolata sulla neve e si è slogata un piede: è stata la neve, invidiosa del poeta; e se la donna ardesse d’amore per il poeta e come il poeta, avrebbe sciolta la neve stessa!. Scende sangue dal naso di Flavia? E’ uno strale d’amore: Cupìdo ha sbagliato bersaglio...

 

Benedetto Gareth, detto il Cariteo (1450- 1514).

La vita. Catalano, nato a Barcellona (1450 ca), sbarcò a Napoli verso i 17 anni al servizio degli aragonesi e divenne amico del Pontano e del Sannazaro, che lo ribattezzarono “Cariteo”, cioè “alunno delle Grazie” (“Chàrites”, in greco). Rimase fedele agli Aragonesi durante la occupazione di Carlo VIII, ma passò agli Spagnoli vinciori, dopo la pace di Blois (1504). Morì dieci anni dopo, a Napoli.

Le opere. Nel 1506 pubblicò “Endimione alla Luna”, il suo canzoniere (“Luna” è il nome della donna amata),  di tipo petrarchesco. Però contiene anche molte poesie occasionali, politiche o popolaresche (strambotti). Ripubblicando l’opera nel 1509, ne abbreviò il titolo nel solo “Endimione”, escluse gli strambotti ma vi aggiunse due poesie: “Pascha” (di argomento religioso) e “Metamorfosi” (di adulazione alla dinastia catalana, con elogi a casate napoletane e spgnole). Il titolo prende lo spunto dal nome della donna amata, che è lo stesso del satellite terrestre,  di cui, appunto, il personaggio mitologico si innamora . Come  la luna, essa è volubile e incostante.

Il significato dell’opera poetica del Cariteo è molteplice. Egli è il segno più sicuro  che anche  l’area meridionale della penisola si è inserita definitivamente nella sfera linguistica di Firenze. Egli approda a Napoli diciassettenne ed apprende la lingua e la tradizione poetica italiana: il risultato è che egli parla e scrive in volgare toscano. Ancora: egli conferma l’indirizzo classico della letteratura dominante a Napoli . Difatti egli non riecheggia solo Petrarca, ma Virgilio, Ovidio, Catullo, Properzio. Nella canzone “Aragonia” riaffiora anche il pensiero platonico. Nè mancano Dante ed i Provenzali: a proposito di questi ultimi, occorre dire che fu lui a riportali in auge nella sua generazione. Purtroppo, però, sono rari i versi in cui la “langue” si “connoti” di un plus valore lirico, divenendo “parole” che comunica emozioni (emotivogenetica). Ecco due terzine, che profumano di elegia: “Qual roscigniuol sotto popolea fronde| piange i suoi figli, che’l duro aratore| gli ha tolti, insidi”ando al caro nido,|| lui repetendo il miserabil grido| chiama la notte e nullo gli risponde,| empiendo i boschi e’l ciel del suo clamore...”. Ed ecco un brano della canzone “Natività” (non compresa nell’Endimione), brano che resta incerto (ci pare) fra idillio ed elegia: “Lieto inverno genial, ch’a’ dolci giochi| inviti e, stanchi, in la magion tranquilla| mentre ogni nocchier porto desia...”. Estroverso e superficiale, forzato e retorico, egli talvolta lascia il sospetto che la lingua straniera (pur maneggiata con più scioltezza dei contemporanei Francesco Galeota e Jacopo De Gennaro) gli faccia ostacolo. Non gli riesce di raggiungere quella disinvoltura con cui si possiede ed usa la lingua materna e che sola permette la scorrevolezza del ritmo e la piena adeguatezza della parola al senso voluto. Talora il suo vocabolario sembra peccare di astigmatismo, per attributi sproporzionati od altre imprecisioni. Vi è, inoltre, anche in lui il presecentismo letterario. E siccome poco è il riflesso lirico, abbiamo preferito considerare anche lui in questa prospettiva di passaggio dal Petrarca meno riuscito al concettismo marinista del secolo XVII. Forse egli, spagnolo come Seneca e Lucano, l’arguzia l’aveva nel sangue. E’ un fatto, comunque, che talora il ridicolo affiora in luogo della emozione: Luna, nome della donna e del satellite, si presta ad equivocare: essa è “sola ed una”, cioè “sole e luna” contemporaneamente. Bella battuta di spirito: che non può, però, pretendere di essere presa in seria considerazione per un giudizio di poesia!

 

Hypnerotomachia Poly’phili: La “Battaglia d’amore in sogno” venne pubblicata a Venezia da Aldo Manuzio, nel 1499, in edizione elegantissima, con 168 litografie di scuola mantegnesca. Lo presentava, dedicato al duca d’Urbino, un certo Leonardo Grassi: ma l’autore va (com buona probabilità) ricavato da un acrostico, cioè dalle lettere iniziali dei 38 capitoli dell’opera, divisa in due libri. Frate Francesco Colonna dimorò a lungo nel convento dei SS. Giovanni e Paolo in Venezia ed ivi morì novantenne nel 1523. Era di Treviso.

La “battaglia d’amore” inizia con il sogno di uno smarrimento nella selva; prosegue con l’ascolto di una voce che lo conduce per visioni di bellezze naturali ed architettoniche alle soglie dei regni di Dio, del mondo e di Venere. Quivi incontrerà l’amata Polia, benchè scoraggiato ad entrarvi dalla ragione (Logistica) e dalla volontà (Telemia). Nel regno di Venere, egli passa di giardino in giardino, tra consessi di ninfe, iniziazione mitologica, trionfo di feste, ecc.: finchè giunge alla contemplazione della mater amoris, alle soglie della sensualità sempre sollecitata e mai appagata. Il secondo libro spiega le casue della non corrispondenza precedente di Polia all’amore di Pacifico, con il racconto dei loro tormentati  rapporti, ora conclusi felicemente seppur solo in sogno.

La gratuità della trama; la molteplicità degli interessi (ad esempio la futile insistenza con cui si dimostrano conoscenze di architettura antica, al punto di fare di tale esibizionismo un motivo parallelo a quello amoroso fondamentale); la lungaggine delle esposizioni, lente, penose... sono questi solo una parte degli artifici del libro, che vuol riprendere le allegorie non solo della Conmmedia, ma anche del Roman de la Rose, del De Amore di Andrea Cappellano e, indietro indietro, fino da Marziano Cappella, per giungere di nuovo a Dante (Vita Nova), a Boccaccio, a Petrarca. Il tutto nell’intenzione di trasformare in religione l’amore profano...

Lungo questa mentalità dell’ambiguo o almeno dell’ambivalente, si potrà anche non meravigliarsi dell’artificio linguistico: un vocabolario madido di latinismi (con qualche infioratura veneta: bellecia, rigidecia, piagia, sencia fallo, malvasia=malvagia, asucte...), che pretende di creaare un linguaggio adolescenziale, dolce-tenero, con  numero di parole sdrucciole ben oltre la norma e con diminutivi operati anche su aggettivi e verbi.  Ecco dei brani di controllo. Titolo del primo capitolo: “Poliphilo incomincia la sua Hypnerotomachia ad descrivere et l’hora, et il tempo quando gli apparve nel sonno di ritrovarsi in una quieta et silente piagia, di culto deserta (priva di abitanti). Dindi poscia disaveduto con grande timore entrò in uuna invia (impervia) et opaca silva”. Ed ecco l’inizio dello stesso capitolo: “Phoebo in quel hora manando, che la fronte di Matuta Leucothea candidava, fora già dalle oceane unde, le volubile rote sospese non dimostrava, ma sédulo con gli sui vòlucri caballi Pyroo primo, et Eoo alquanto apparendo, ad dipingere le lycophe (luminose) quadrige della figliola di vermigliante rose, velocissimo insequéntila, non dimorava. Et corruscante già sopra le cerùlee et inquiete undule, le sue irradiante come (chiome) crispulàvano”. E godiamoci un altro squarcio di questa intollerabile eloquenza: “Conciosia cosa che ad gli ochii mei quivi non si concedeva vestigio alcuno di videre, nè diverticulo (sentiero). Ma nella dumosa silva appariano sì non densi virgulti, pongente vepretto (roveto), el silvano fraxino ingrato alle vipere, ulmi ruvidi, alle foecunde viti grati, corticosi subderi (sugheri) apto additamento muliebre, duri cerri, forti roburi (roveri) et grandulose querce et ilice, et di rami abondante, che al roscido solo non permettevano gli radii del gratioso sole integramente pervenire, ma come da camutato culmo (curvo tetto) di densate fronde coperto, non penetrava l’alma luce. Et in questo modo me ritrovai nella fresca umbra, humido aire, et fuso nemorale(bosco)”

Il tono serioso non permette di ritenere uno scherzo questa balorda vicenda: siamo allora sulla soglia della paranoia o dentro un infantilismo patologico. Il problema, allora, diventa quello di capire come mai il Manuzio si sia deciso a stampare una simile scempiaggine... O il perchè frate Colonna fosse un predicatore ricercatissimo ed occupasse cariche importanti nel suo convento!

Siamo, però, anche lungo la via per cui, partendo dal tenerume sognante del Sannazaro (ancora entro la ragionevolezza...o quasi), attraverso questo guazzabuglio mentale, si approderà, da una parte, a quelle parole dai radicali italici ma con desinenze e grammatica latine, cioè al latino “maccheronico” di Teofilo Folengo, autore capriccioso e neppur lui propriamente poetico, ma intelligente stroncatore del genere cavalleresco in voga; e, dall’altra, al linguaggio fidenziano che, sotto lo peseudonimo di Fidenzio Glottocrisio, Camillo Scroffa inventerà con un congegno a rovescio: mettere desinenze e grammatica italiche a radicali latini. Ed ecco allora il significato unico (a nostro parere) della noia, immensa, invincibile che dà in premio la lettura dell’opera di Francesco Colonna: se è veramente lui l’autore (rimangono dei dubbi), siamo di fronte ad un frate perdigiorno e sciupainchiostro, che però suggerisce lo spunto, ad altri scrittori più dotati, per opere pervenute, o quasi, al segno della sufficienza estetica.

 

Leonardo da Vinci (1452- 1519).

        La vita e gli interessi del suo “multiforme ingegno”. Nato a Vinci (Firenze), è universalmente conosciuto come uno dei geni supremi dell’umanità per l’apertura dei suoi interessi (pittura, architettura, scienza, tecnologia ingegneristica, letterato): la sua fama più alta è legata alla operosità pittorica, perchè essa giunse a capolavori definitivi (dal Cenacolo in Santa Maria delle Grazie, a Milano, alla Gioconda del Louvre di Parigi) e ad altri famosissimi lavori ( due Annunciazioni, ora agli Uffizi; un San Gerolamo, alla Vaticana; un’adorazione dei Magi, incompiuto, agli Uffizi; la Vergine delle rocce, al Louvre; i disegni  per la battaglia di Anghiari, ecc.). In tale campo, fu il creatore della tecnica dello sfumato.

I suoi studi sul moto, sui vortici, sul volo, sulla statica (suo è il principio di inerzia), sulle proprietà dei vasi capillari, sulle proprietà della camera oscura, sulla comprimibilità dei corpi, sulla resistenza dell’aria, sulla vibrazione delle lastre, sulla formazione delle onde liquide, ecc. sono stati un contributo singolare al progresso scientifico.

Nel campo  tecnologico, ideò il dinamometro e il laminatoio idraulico e molte macchine per difesa ed offesa militare. Nel settore idraulico, rese navigabile il Naviglio di Milano, nonostante dislivelli impervi, con la introduzione delle chiuse; il duomo di Milano usa tuttora un ascensore da lui creato per accedere alla rleiquia del “sacro chiodo” della Croce, custodito in posizione elevatissima).

 In sede specificamente letteraria, egli lavorò solo a momenti ed a spezzoni, non esistendo un’opera sistematica neppure a livello di progetto (come invece esiste un tentativo organico di Trattato della pittura). Un altro handicap della sua produzione letteraria è il finalismo pratico che la originava: egli si preoccupava (o aveva l’incarico, addirittura?) di intrattenere la corte sforzesca di Milano con narrazioni sapienziali o divertenti: anche le favole tendono quindi a scopi pratici che fan  pendere l’attenzione  e l’impegno più verso il fine  istruttivo che verso la  emotività: si vuol dire che l’interesse e il piacere di una favola possono nascere dall’insegnamento prudenziale più che dalla narrazione liricamente affascinante; o possono derivare da equivoci anche erotici. Capita anche quest’ultimo ripiego, quello cioè di inventare facezie per soli adulti o per soli uomini, così come gli avviene di rasentare la filosofia, quando presenta il senso della vita, governata dalla natura con leggi fatali – quella che lui chiama la “mirabile necessità”- che tendono a distruggere e rigenerare il materiale disperso, eccetto che per l’anima umana che, disperso il corpo si ri(m)patria in Dio.

Prima di approdare a Milano, era stato a scuola di Andrea del Verrocchio e aveva poi lavorato a Firenze dal 1476 al 1482.  Si dice che abbia lasciato Firenze per aggirare, nella più liberale Milano- la proibizione alla anatomia dei cadaveri. Di qualche capolavoro pittorico e di qualche marchingegno ingegneristico ivi operato, si è detto. L’invasione dei Francesi del 1499 lo portò presso molte corti e città d’Italia (Mantova, Venezia, Firenze, Roma...). Nel 1517 accolse l’invito di Francesco I a recarsi in Francia. Preparava disegni per un castello; organizzava feste a corte; completava i manoscritti (circa 5.000 fogli), ora sparsi fra Italia, Francia, Inghilterra. Morì ad Amboise nel 1519.

Gli scritti e il pensiero. Scriveva da destra a sinistra, come gli Ebrei. La più parte dei suoi fogli interssano gli studi scientifici e la pittura. Questa è da lui ritenuta un modo di vedere le cose e scoprirne la natura, se non addirittura di entrare in gara con Dio e ricrearle: la pittura è una specie di filosofia della realtà che, in tanto è riprodotta, in quanto conosciuta nella su intimità. Un “Trattato della pittura” fu ricavato dai suoi appunti nel 1656.

Per il resto, il pensiero di Leonardo fu una riscoperta personale della natura, quasi completamente al di fuori delle informazioni aggiornate. Queste erano scritte in latino che gli era ignoto: doveva, dunque, servirsi di opere in volgare, arretrate nei singoli settori di studio. Si pensi al suo “bestiario”, concepito alla medioevale, con finalità moraleggianti o psicologiche: così, l’aquila è simbolo di liberalità; la talpa, di menzogna (“busia”). Anche accetta alcuni errori  degni della ingenuità e disinformazione del don Ferrante manzoniano: il basilisco malvagio che dissecca le piante ed uccide gli animali con lo sguardo; la sirena che addormenta i marinai...

Ma se si sale dai particolari alle linee generali di una intelaiatura filosofica e di una metodologia scientifica, allora vien fuori l’uomo dalle molte anime, il genio, superiore nella vastità degli interessi e profondità della indagine, all’Alberti, a Michelangelo, a Galileo. E’ convinto credente in Dio e nella immortalità dell’anima: si vedano i Pensieri 38| 108; le Profezie (=indovinelli) 27| 30| 36; i Proemi (frammenti d’indole polemica) 18| 20; Il Diluvio (descrizione in funzione di disegni sulla fine del mondo, con annessa una conclusione di critica biblica: il n. 6 testimonia in Leonardo un credente nella Parola di Dio, che tenta spiegare  le obiezioni che la scienza potrebbe muovere al sacro testo, come appunto quello di Genesi, 6-8 sul diluvio). La affermazione sprezzante verso i frati (“padri de’ popoli, li quali per inspirazione san tutti li segreti”) nel Proemio 10, è bensì in rapporto a questioni riguardanti l’anima, ma non circa la sua esistenza, ma circa la sua natura.

Al di sotto di questi due punti fondamentali di religione, esistono una serie di affermazioni che, senza lasciarsi ridurre ad un organismo filosofico, suggeriscono però una mentalità platonica, se non pitagorica. Egli, non si dimentichi, passò la giovinezza a Firenze, nel pieno fiorire della “teologia platonica ficiniana”: forse di qui egli assorbì la profonda convinzione della esistenza di una realtà spirituale al di sotto dei fenomeni materiali, di un’arcana forza motrice al di là della inerzia della materia sperimentabile. Era questo un dato presente anche nella fede, accettato anche dalla teologia: ma la particolare insistenza con cui ritorna la problematica sui due poli della realtà, che ipotizza un’anima presente anche nei corpi infraumani, è più pervasiva ed assillante che non lo sia nella tradizione cristiana, perchè sembra mettere sullo stesso piano l’anima del mondo e quella umana, la “forma” della materia con lo spirito dell’uomo. Ci si immette allora sulla scia del platonismo e del pitagorismo. La opposizione poi fra materia e spirito è tale che,  secondo leggi puramente naturali, non parrebbero poter convivere: solo il volere del Creatore tiene uniti e cooperanti il principio eterno dello spirito e quello mortale della materia. Tale forza arcana diventa necessità: di leggi, di armonie, di matematiche relazioni che solo lo spirito umano supera nella libertà, ostacolata dalla materia finchè lo spirito non si sarà svincolato dal corpo, che lo impriigona. Ecco il passo famoso sulla “divina necessità”: “O mirabile Necessità, tu con somma ragione costringi tutti gli effetti a partecipare delle lor cause e con somma e inrevocabile legge ogni azione naturale con la brevissima operazione a te obbedisce...O magna azione, quale ingegno potrà penetrare tal meraviglia? Certo, nessuna. Questo dirizza l’umano discorso alla contemplazione divina” (Codice Atlantico, f. 34, v. b.)

Si discenda da queste intuizioni (magari  temerarie)  ai capolavori artistici, alle scoperte scientifiche, alle innovazioni tecnologiche e si avrà una conferma a quanto si è enunciato: essere dotato Leonardo di una mente così universale e geniale da superare i limiti della cultura del Rinascimento, proiettandosi nel futuro, fino a precorrere con l’ingegno il volo umano, fino a poter essere conisderato personaggio a noi contemporaneo, degno di essere concittadino del “villaggio globale” reso possibile dagli aerei, dai nuovi mezzi di comunicazione, fino ai viaggi spaziali. Leonardo, che si definisce polemicamente, contro gli umanisti, “omo sanza lettere” è diverso e in parte opposto al Rinascimento, perchè non era rivolto a ricuperare una civiltà perduta come quella greco-romana, ma proiettato al futuro, oscuro profeta di un tal cumulo di scoperte scientifiche, da figurare accanto a Copernico e Nicola Tartaglia, a Keplero e Galielo, a Newton e ad Einstein. D’accordo, anche lo spirito critico degli Umanisti preparava tali conquiste: ma indirettamente, da lontano, senza nessun presentimento dei risultati impliciti solo genericamente nelle  precisazioni filologiche e storiografiche dei migliori fra essi. In Leonardo c’è adirittura qualche tessera razionale in più che nel troppo entusiasta Illuminismo: solo col Positivismo si giungerà  a quella passione per gli esperimenti, a quella sete incontentabile di sapere ed a quella serie indefinita di scoperte, che ha  dato spazio di rivelarsi a geni della sua misura: Leonardo meritava di vivere ai nostri giorni. Nell’Umanesimo rinascimentale era spaesato, perchè troppo più avanzato dei suoi cultori. Ecco alcune sue affermazioni a visiera alzata, polemiche troppo assennatamente contro gli umanisti emunctae naris (dall’odorato, dal gusto squisito), buongustai della parola più che delle verità innovative: “Chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce di confusioni e mai porrà silenzio alle contraddizioni delle sofistiche scienze, quali s’impara in eterno gridore”; “Chi disputa allegando l’alturità (autorità) non adopera lo ingegno ma piuttosto la memoria”; “Se bene, come loro, non sapessi allegare gli altori (Aristotele? o chi altro?), molto maggiore e più degna cosa è a leggere allegando la sperienza, maestra ai loro maestri...”; “So bene che, per non esser io litterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere. Gente stolta! Non sanno questi tali ch’io potrei, sì come Mario rispose contra a’ patrizi romani, io sì rispondere dicendo: -Quelli che dell’altrui fatiche se medesimi fanno ornati, le mie a me medesimo non voglionoi concedere”.[75]

Una comprensione  più adeguata della sua ansia di indagine e scoperta, la si può avere anche leggendo il breve, famoso frammento sulla “Caverna”:  “E tirato io dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegate le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, (e) colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose: paura e desiderio: paura per la minacciante e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa”

Le opere letterarie. Benchè grafia, interpunzione, sintassi lascino molto a desiderare (Leonardo doveva avere un cervello molto più sviluppato nell’emisfero destro, proprio dell’uomo artefice, che non in quello sinistro, proprio dell’uomo sapiente: è per questo, crediamo, che egli scrive da destra a sinistra), tuttavia l’impeto di passione con cui egli partecipa alle sue scoperte, intuizioni o convinzioni è tale che, attraverso una forma anomala brilla una nota lirica. Anzi vi è un caso in cui, senza avvedersene, scrive in versi. Qualcosa di simile (ma ben più fiocamente, veh!) accadrà nel Milesettecento a G. B. Vico.

I brani di natura letteraria dei suoi fogli sono stati distinti in questi gruppuscoli: Pensieri| Favole| Bestiario| Profezie (indovinelli)| Facezie| Proemi| Discorsi contro gli abbreviatori| Contro il negromante e l’alchimista| Disputa pro e contro la legge di natura| Abbozzo per una dimostrazione| Il primo volo| Il Diluvio| Caverna| Il mostro marino| Il sito di Venere| Il Gigante| Al Diodario di Soria| Traduzioni e trascrizioni.

Dal punto di vista letterario spiccano due di questi gruppi. Il primo è quello dei PROEMI che è animato da tono polemico e, quindi, drammatico: bastinoa dimostrarlo le brevi sentenze citate sopra, di un’ira magnanima e ragionevole, ricuperata come emozione libera e pura da finalismi pratico-egoistici.

L’altro brano è una semplice nota posta all’interno della copertina del Codice sul volo degli uccelli: la previsione geniale del volo umano, della macchina che avrebbe elevato l’uomo dalla sommità del monte Ceceri (presso firenze) nell’aria, nonostante che essa sia più leggera dell’uomo, divenne commozione così intensa da dettargli 4 endecasillabi perfetti ed uno ancora ipermetro,ma riducibile alla regolarità mediante la soppressione dell’aggettivo “tutte” (da noi posto fra parentesi):

                                                 “Piglierà il volo il grande uccello (macchina per volare)

                                                sopra del dosso del suo magno Cecero,

                                                empiendo l’universo di stupore,

                                                empiendo di sua fama (tutte) le scritture:

                                                e groria eterna al nido dove nacque”.

Ci si permetta una osservazione.Questi versi rivelano forse un caso parallelo a quanto capitò a San Tommaso d’Aquino: alla fine della sua carriera filosofica, arida ma acutissima, se ne uscì con le strofe in latino del “Pange, lingua”, dell’ “Adoro Te devote”  e di altri inni eucaristici: dalla riflessione sulla verità alla commozione di fronte ad essa. L’arte (la poesia, anche) come splendore di verità (la definizione è della Scolastica medioevale); la poesia come verità del cuore (Manzoni). Essa ha toccato anche l’animo di Leonardo, che si rivela un ambidestro, degno di una memoria anche  nella storia di quelle lettere, che egli credeva precluse a sè, cultore ed estimatore della sola esperienza e  matematica.

                                                Eleno Vergili. San Mamete di Valsolda, , 9.02. 2000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           

 

                                                                             

 

   

 

 

 

              

 

 

 

                                               

 

                                                      

 

 

 

 

 

 


[1] E’ presente in Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, (Poggio Fiorentino, cioè Bracciolini,  p. 295 della edizione Hoepli, Milano,1951).

[2] B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, Laterza, 1957, pp. 209-38. I singoli UMANISTI CHE NON HANNO IMPORTANZA ARTISTICA ma solo culturale, li presentiamo in nota, possibilmente  quando sono nominati nel testo,    

[3] Per “concordanza di cultura” si deve intendere la mentalità o pensiero (nel Medioevo, si trattava della fede integralmente cristiana): quanto alla pratica, non si deve pretendere una coerenza cristallina nella vita morale, che richiederebbe un ambiente socio-politico impostato univocamente in funzione  di un costume sociale ispirato al Vangelo. Diciamo subito che la  Cristianità  non ha mai avuto in nessun secolo gli strumenti per estendere la formazione anche morale a tutta la Europa cristiana. Non nei secoli del “sacro romano impero” medioevale, per carenza di organizzazione di un’Europa ancora feudale; e neppure nel corso  dei novanta anni che passano dal 1558 (pace di Castel Cambrese, favorevole alla Spagna, all’Impero absburgico ed alla Chiesa cattolica)  al 1648 (pace di Westalia, favorevole alla Francia ed ai protestanti). Difatti nè il re di Francia nè l’impero degli Asburgo accettarono mai di far diventare legge di stato i decreti del Concilio di Trento;  la stessa Assemblea generale dei vesvovi francesi solo nel 1615 li accettò; i vescovi di Germania non giunsero mai ad un simile atto di adesione.  Comunque si debbano giudicare i provvedimenti disciplinari del Concilio di Trento, qui si vuol solo far notare che essi non poterono aver efficacia nella universalità della Chiesa cattolica, neppurein quei novant’anni così favorevoli alla costruzione di una società cristiana, anche nella prassi del costume morale.

[4] A livello di sola  cultura classica, sarà antiumanista anche Leonardo da Vinci, che si definisce orgogliosamente “omo sanza lettere” (che cioè non conosce il latino), ma che per il resto è uno spirito   ultrarinascimentale, tanto è genialmente moderno. Del card. Dominici e di fra Gerolamo Savonarola parleremo alla fine dello studio sulla Letteratura del Millequattrocento. Qui vorremmo riassumere tutto il gran discutere che si fece fra il 1300 ed il 1400 sulla bontà o meno degli studi classici in rapporto alla educazione cristiana.  Già Albertino da Mussato intervenne a difendere gli studi letterari contro il domenicano p. Giovannino da Mantova che obiettava contro  la frequentazione degli autori pagani (1329). Petrarca nei Rerum familiarium, x, 4 afferma: “poco manca che io dica che la teologia è una specie di poetica  su Dio” (parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo)”. Boccaccio continuerà  tale giustificazuione in De Genealogiis deorum, nel libro XIV. Seguirà Francesco da Fano che scrive una invettiva contro i detrattori delle lettere, indirizzata al cardinale di Bologna (Invectiva ad rev.mum patrem dominum cardinalem Bononiensem contra riduculos oblocutores et fellitos detractores po”etarum ). L’autore è  contemporaneo  di Coluccio Salutati, che nel 1378 deve difendere lo studio di Virgilio contro l’amico Zonarini (Bologna). Con lettera del  15 settembre 1393, il Salutati celebra, poi, l’amore per i poeti, di fronte all’ex soldato Giovanni da Sanminiato, fattosi monaco camaldolese. Egli cita la lettera 70 di San Gerolamo, che accetta l’uso dei classici come cosa ovvia, praticata da un cumulo di padri della Chiesa e, con tale testo, mette a tacere l’episodio notissimo del sogno, da lui stesso riferito, in cui si sente rimproverare “ciceronianus es et non christianus”. Ricorda anche Sant’Agostino, che riconosceva nell’Hortensius dell’Arpinate un libro che lo aveva indirizzato al Cristianesimo. Anzi, egli scrive i quattro libri del trattato De laboribus Herculis, per dimostrare come Platone voleva esclusi dalla sua Repubblica ideale solo i commedianti volgari: per il resto, anche lui difendeva la poesia, come Aristotele. Ma la più appassionata difesa della poesia, Coluccio la scrisse  in fin di vita, contro la Lucula noctis (Lucciola notturna) del card. Giovanni Dominici: la lettera (IV, 1) fu interrotta dalla morte. Il suo discepolo Leonardo Bruni si troverà di fronte  a nuove opposizioni. Egli traduce, allora, la lettera di San Basilio ai giovani sullo studio degli autori pagani. Inoltre scrive il “De studiis et litteris” (1422-9) a Battistina Malatesta, per dimostrare la moralità ed utilità di tali studi. Oltre tutto, egli ricorda che anche la Bibbia contiene  fatti poco esemplari, come i peccati di Davide (si dimentica, però, di notare che la Scrittura condanna tali colpe, il che non avviene negli autori pagani). Questo non toglie che anche il Bruni avrebbe meritato il rimprovero che il suo maestro Salutati faceva alla nuova leva di umanisti (“Nimis vetustati defertis et ceditis: Vi inchinate troppo e troppo cedete all’antichità pagana”). Alla fine del Millequanttrocento Marsilio Ficino dovrà confessare, lui che era un umanista consumato “La cultura per la più parte fa riferimento agli autori profani, sicchè, per lo più, è riuscita uno strumento di iniquità e di  lascivia: Doctrina magna ex parte ad profanos translata est, unde, ut plurimum, iniquitatis evasit et lasciviae instrumentum...”).

[5] A sua volta il concetto di Umanesimo lo si può rintracciare già in Cicerone, che parla di “studia humanitatis” . Si veda  Vittorio Rossi, Il Quattrocento, Milano, F. Vallardi, 1956, c. I). Gli stessi umanisti distinguevano bensì  fra “studia eloquentiae” (studi tecnici di lingua) e “studia sapientiae” (studi sapienziali, formativi), ma ne affermavano anche il nesso inscindibile. Ecco il Salutati: “Nelle lettere si celano insegnamenti di virtù e costumi e tutte quelle cose che non basta sapere, se esse non si attuino in opere” (“nisi et operibus impleantur”: Epistolario, ed. Novati, II, 430). Lo stesso Salutati definisce l’eloquenza come semplice “eloquendi ratio= arte del dire”, in opposizione alla “sapienza= rerum divinarum humanarumque scientia” (scienza delle cose divine ed umane), tuttavia chiaramente afferma che “studia litterarum sapientiae et eloquentiae prae se ferunt” (gli studi delle lettere presuppongono quelli della eloquenza e della sapienza). E aggiunge che  è proprio la sapienza, cioè i precetti morali, ad educare la vita ed a fornire il massimo contributo alla gravità e ricchezza dell’oratoria,   perchè comprende l’etica, la politica e la economia (“cum in ethicam, politicam et oeconomicam dividantur, et vitam instituunt et maximam dicendi tum gravitatem tum copiam subministrant”: Epistol. III, 602, 604). Qui gli studia litterarum e gli studia humanitatis tendoino a fondersi.  Leonardo Bruni mantiene più distinti la perizia letteraria dagli studi che riguardano la vita e i costumi,  che si chiamano studi di umanità, in quanto perfezionano e nobilitano l’uomo” (quae pertinent ad vitam et mores, quae propterea studia humanitatis nuncupantur, quod hominem perficiant atque exornent” (Epist. VI, 6), ma vuole che quella vada congiunta con questa (studium vero tibi duplex”). Anche Poggio tiene alla distinzione, ma dell’eloquentia e degli humanitatis studia parla come di cose indissolubili. (Epist. IX, 2; X, 23). Quando poi si dice che “omnis bene vivendi norma litterarum studio continentur” (Enea Silvio Piccolomini, cioè papa PioII, Briefwechsel, ed Wolkan, p.I, vol. I, p.226) è ben chiaro che le lettere e gli “humanitatis studia” sono considerati un sol tutto.

[6]  Trovò anche le Institutiones di Quintiliano: ma sappiamo che le  aveva conosciute ed utilizzate già il Boccaccio, forse in edizione incompleta. Amico e  maestro del Bracciolini era stato Coluccio Salutati, delle cui scoperte di codici (Epistolae ad familiares di Cicerone: 1392) ed opere originali si è parlato trattando dei Preumanisti. Della sua difesa dello studio dei classici si è detto in nota precedente. Quanto a POGGIO BRACCIOLINI ( nato a Terranova di Valdarno, Arezzo, nel 1380; morto a Firenze nel 1459), fu abbreviatore apostolico a Roma e segretario apostolico;  partecipò  al concilio di Costanza; dal 1418 al 1422 fu in Inghilterra, donde tornò a Roma con diversi incarichi in curia. Nel 1453 fu chiamato alla cancelleria di Firenze, venendo così a succedere al maestro Coluccio Salutati ed all’altro grande umanista Leonardo Bruni. Spirito collerico (temperamento emotivo, attivo, ma primario, coè instabile), egli ebbe una concezione attvistica dell’umanesimo, che vedeva sì come scoperta e cura delle opere antiche, ma soprattutto come produzione di nuove opere in lingua latina. La sua spinta emotiva, inoltre, lo portava a vivacizzare la esattezza sintattico-grammaticale con una inventività espressiva, che avvicinava il suo latino alla parlata fiorentina. Insomma era più un poeta che un filologo: aveva  interesse più al valore  artistico di un testo che alla cura formale  per  ricostruirlo con tutta esattezza; più che alle  rigide norme ciceroniane, egli  modellava il suo stile sul proprio  pensiero e sentimento. Il gusto per l’attività, lo si può vedere nell’ alacre ricerca di opere classiche per mezza Europa; nella introduzione di un nuovo stile di scrittura libraria, detta “umanistica”; e fors’anche in un certo disimpegno ideologico: fu, infatti, indifferentemente al servizio di papi ed antipapi. La collera si manifestava anche nelle Invettive furenti contro altri umanisti, dal Guarino al Filelfo a Lorenzo Valla; ed anche contro l’antipapa Felice V. Ed eccoci alle sue opere. Scrisse trattati come il De avaritia;  De infelicitate principum; Contra hypocritas (cioè contro i religiosi, che tali sono per lui); De varietate fortunae; De miseria humanae condicionis; De nobilitate. Ma scrisse anche un Liber facetiarum; gli otto libri delle  Historiae florentini populi (continuano l’opera di Leonardo Bruni, dal 1350 alla pace di Lodi nel 1454: fu tradotto in volgare dal figlio Jacopo); Historia tripartita disceptativa convivialis. Sposatosi con una donna assai più giovane, scrisse per difendersi “An seni uxor sit ducenda” (Se un vecchio debba prender moglie). Col Bracciolini non siamo ancora nello spiegato Rinascimento: rimane in lui un fondo di pessimismo sull’uomo, che si manifesta specialmente nelle opere sulla “Infelicità dei prìncipi”, sulla “Variabilità della fortuna” e sulla “Miseria dell’umana condizione”. Il Bracciolini non era un filosofo sistematico, ma uno psicologo intuizionista: non gli si chieda eccessiva coerenza! Certo che l’uomo gli appare fragile, in balia della  fortuna o del fato, sicchè la sua antropologia è incerta, oscillante fra l’ammirazione e la sfiducia. Egli è però un felice impressionista: è acuto nel sorprendere i particolari  suggestivi anche se non dimostrativi; è un po’ poeta, nel narrare gli eventi e nel  presentare i personaggi. Egli introduce nei suoi dialoghi personaggi coevi, colleghi umanisti a disputare fra loro. La grandezza dello scrittore sta nel farli parlare secondo una psicologia precisa e coerente: ci ha lasciato così il ritratto  morale di certi protagonisti della cultura umanistica, che pure non hanno scritto quasi nulla, come Niccolò Niccoli e Carlo Marsuppini.

[7] AMBROGIO TRAVERSARI, di Portico, in Romagna (1386-1439),  camaldolese a S. Maria degli Angeli in Firenze, grecista e traduttore di padri della Chiesa orientale, sbalordiva lo stesso Niccoli, che lo vedeva dettare la traduzione a prima vista, avendo al suo servizio tre segretari... Nel 1431 venne fatto generale del suo Ordine e dovette trascurare gli amati studi che lo legavano ai migliori umanisti (oltre a Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Leonardo Giustinian, Tommaso Parentucelli, Francesco Barbaro), per intraprendere una visita a tutte le case dell’ordine da lui dipendenti, per controllo e riforma. La relazione minuta di tale missione, col titolo di Hodoeporicon od Itinerarium,  ci lascia sgomenti sulla situazione morale dei conventi in quel secolo. L’altra sua opera scrittoria è l’Epistolario. Col 1435 inizia la sua attività al servizio del concilio di Basilea, per il cui successo operò efficacemente, non solo come interprete fra Greci e Latini, ma anche come teologo e come sapiente diplomatico (smussò le angolosità di papa Eugenio IV, meno prudente e meno felice come temperamento). Il Decreto di unione fra Chiesa latina ed ortodossa fu steso dal Traversari  pochi mesi prima della sua morte.

TOMMASO PARENTUCELLI,  da Sarzana (1397- 1455) fu dapprima al servizio del vescovo di Bologna N. Albergati, di cui divenne successore. Legato papale in Germania, gli riuscì di riconciliare col papa la lega dei principi elettori: ottenne così la porpora e nel conclave del 1447 fu eletto successore di Eugenio IV. Della sua varia attività di riformatore e di politico ecclesiastico, a noi interessano gli aspetti umanistici, quali il potenziamento della biblioteca vaticana (la dotò di 807 codici latini, raccolti in tutta Europa) e il  progetto per la ricostruzione della basilica di S. Pietro. La caduta di Costantinopoli (1453) troncò la speranza di riunire stabilmente la Chiesa orientale a quella di Roma. E la congiura di Stefano Porcari, fiorentino da lui troppo benevolmente accolto, perdonato una prima volta e poi condannato a morte, gli detrasse la simpatia di molti umanisti. Eppure Vespasiano da Bisticci (1421-1498), il libraio fiorentino, che forniva l’Europa di elegantissimi codici, ma anche  autore di 103 Vite sui personaggi più famosi alla sua epoca, si gloria di essere stato amico di un tale gigante della cultura classica e cristiana.

[8] Gli uomini eminenti della Grecia, venuti in Italia per concilio di Basilea-Ferrara-Firenze, introdussero addirittura alle loro divisioni ed allo spirito spesso polemico con cui si affrontavano le scuole platonica ed aristotelica. All’inizio si impongono due aristotelici, più preoccupati della esattezza che della bellezza delle traduzioni: Giorgio di Trebisonda, detto  il Trapezunzio (Creta, 1395-Roma 1484: nel 1455 pubblicò le Comparationes philosophorum Aristotelis et Platonis, cioè “Il confronto tra A. e P.”, per sostenere contro le accuse di Giorgio Gemisto Pletone una lettura cristiana delle opere dello Stagirita); e Giorgio Gennadio (o Scholarcos o Scholarios). Poi trionferà il platonismo con Giorgio Gemisto Pletone (Costantinopoli 1355 ca- Peloponneso 1450) ed il neoplatonismo di Plotino, con ricuperi da Pitagora e aggregazioni fin da Zoroastro, non senza sfagli fuori della fdede cristiana. Così, mentre Marsilio Ficino se ne fa maestro   con la dedica al Magnifico della traduzione di Plotino (1492), lo Scholarios lo denuncia come apostata ed eretico! Comunque, l’opera di Gemisto Pletone Differenze fra Platone ed Aristotele ( 1439 ca: Perì òn Aristotèles pròs Plàtona diaféretai) inizia la lunga marcia e trionfale del platonismo: esso si irradierà dall’Accademia fiorentina, guidata dal Ficino, che scriverà anzi una Theologia platonica, da contrapporre a quella tomistica che si rifà, filosoficamente, ad Aristotele. Mediatore fra i due indirizzi, convinto assertore della conciliabilità fra il pensiero dei due giganti del pensiero antico, fu il grande vescovo di Nicea Giovanni Bessarione, che ebbe tanta parte  nella (effimera) riunificazione degli Ortodossi coi Cattolici, da venir creato cardinale da papa Eugenio IV. Il Bessarione lascerà alla biblioteca di San Marco la propria raccolta di codici: 482 greci e 264 latini. Il suo scritto più importante per il nostro studio è quello intitolato “In calumniatorem Platonis” (Contro il calunniatore di P.), in cui egli difende la validità della filosofia di  Platone come propedeutica al Cristianesimo, contro l’unilaterale difesa di Aristotele da parte di Giorgio di Trebisonda (1457-8).

 

[9] Le pubblicazioni di ALDO MANUZIO erano notevoli per la eleganza dei volumi (sua invenzione è il formato “in ottavo”) e dei caratteri (preparati da Francesco Griffo: questi fecero definitvamente trionfare il carattere “romano antico” su quello “gotico” degli stampatori  tedeschi;  dal Manuzio e dal Griffo fu pure inventato il “corsivo od italico od aldino”). Ma esse erano ancora più  pregevoli per la cura filologica, che  era dovuta alla competenza di un Erasmo da Rotterdam, di un Pietro Bembo e di un Pico della Mirandola e degli altri dotti della Accademia della Fama od “Aldina”. Fra gli autori stampati vi era, oltre ad Aristotele, Omero, Platone, Aristofane, Virgilio, Euclide, Tolomeo, Archimede, Dante, Petrarca, Poliziano.  

[10] Il Valla dimostrò la falsità del documento in maniera ineccepibile, ma prima di lui già due ecclesiastici l’avevano intuita: il cardinale Niccolò Cusano ( di Cues in Germania, 1401-1464) ed Enea Silvio Piccolomini, poi papa Silvio II.

[11] FLAVIO BIONDO è il nome latinizzato di “Biondo” ( Biondi).   Opera preziosa per conoscere la nostra penisola nel XV secolo è Italia illustrata, che dà notizie geografiche ed economiche sule varie regioni., oltre che sui monumenti delle età passate. Quando fu occupata Costantinopoli da parte dei Turchi, nel 1453, egli scrisse una esortazione ai principi d’Europa perchè prendessero le difese della cristianità (De expeditione in Turchos). Sostenne inoltre, contro il bilinguismo del Bruni, la tesi che a Roma si parlasse un solo latino, essendo la lingua del popolo (il latino volgare) solo una forma più o meno imperfetta del classico, parlato dai dotti.(De verbis romanae locutionis: Le parole della lingua di Roma). Purtroppo le sue “Decades” sono opera di non grande valore critico, per le poche fonti consultate e la poca acribia nell’usarle. Tuttavia la  scarsa profondità della ricostruzione è in parte compensata dalla attenzione alle isttituzioni culturali, religiose, sociali, ecc. delle varie epoche, con un orizzonte attento a tutta l’Europa. Vastità di interessi contro profondità di analisi.

[12] LEONARDO BRUNI: aretino, visse fra il 1370 ca ed il 1444. Discepolo di Coluccio Salutati e di Manuele Crisolora, fu dapprima addetto alla curia romana (1405-15), seguendola al Concilio di Costanza.  Schieratosi per l’antipapa Giovanni XXIII, abbandonò Roma e tornò a Firenze,  occupando nel 1427 il posto di cancelliere della Signoria, già stato del maestro fino al 1406. Durò in carica sino alla morte, avendo parteggiato per i Medici; ed ebbe esequie solennissime. Della sua avarizia parlano le Facezie del piovano Arlotto (la XXX); ebbe altre magagne come il contegno superbo e sufficiente, nonchè lo  spirito invidioso e litigioso, comune a molti umanisti. Opere latine: Historiarum populi florentini libri XII  (ricostruisce la storia di Firenze dalle origini al 1404; sarà proseguita non solo dal Bracciolini, ma da lui stesso con i Commentarii rerum suo tempore gestarum, che arrivano al 1440 riprendendo dal 1378). E’ l’opera più importante, che usa i documenti con senso critico maturo ed evita ogni “processo alle intenzioni della Provvidenza”, trascurando di vedere nessi religosi con i fatti e le malefatte terreni. Esalta Firenze per il regime democratico e per l’egemonia che aveva saputo ottenere in Italia. In questo senso, e contro le dittature signorili, sul tipo di quella dei Visconti a Milano, aveva già scritto una Laudatio florentinae urbis (elogio della città di Firenze) fin dal 1401-3. Secondi in importanza sono i due Dialogi ad Petrum Histrum (Dialoghi a Pier Paolo Vergerio il vecchio): sottolineano il valore umanistico di Dante, Petrarca, Boccaccio e ne assicurano il culto anche in un periodo di latinità velleitariamente esclusiva. La conciliazione fra il primato del latino ed il fascino dei tre scrittori fiorentini rende però poco convincente l’oscillante ragionamento del Bruni. Scrisse un’opera didattica: De studiis et litteris, piano per un ordinamento delle scienze e l’educazione degli alunni. E stilò anche un lavoro pedagogico: Isagogicon moralis disciplinae, ove prende posizione moderata in favore di una educazione contemperata di  morale cristiana e di etica classica. Traduzioni dal greco in latino: opere di Platone (Fedone, Gorgia, Fedro, Apolgia) e di Aristotele (Etica nicomachea, Economici, Politica); di Senofonte e Plutarco (storici), di Eschine e Demostene (oratori). Tradusse anche la “Lettera ai giovani” di S. Basilio, per contestare il card. Dominici e difendere gli studi classici. Opere in volgare: Vita di Dante (riconosce la grandezza della poesia di Dante, anche di fronte alle opere classiche); Vita di Petrarca.

[13] Il primo a parlare della “Dignità dell’uomo” in senso rinascimentale (cioè a prescindere dalla Grazia soprannaturale, pur senza negarla) è GIANNOZZO MANETTI,  un laico esemplare della Firenze quattrocentesca (1396-1459). Egli studiò latino e greco con il camaldolese Ambrogio Traversari ed imparò anche l’ebraico; fu amico del Bruni e del Niccoli. Tradusse i Salmi dall’ebraico e l’Etica nicomachea da Aristotele. Si occupò così di affari politici  come della conversione degli ebrei. Nel 1453 preferì l’esilio alla vita di lotte e tensioni tra famiglie fiorentine, perduranti sotto la larvata signoria di Cosimo de’ Medici. Morirà a Napoli, dopo esser stato segretario di papa Niccolò V. Tra le sue opere stanno molti dialoghi,  fra cui il principale è appunto intitolato DE DIGNITATE ET EXCELLENTIA HOMINIS (è del 1451-2).  Si noti che l’opera fu scritta in risposta a lavoro di Bartolomeo Facio (De dignitate hominis et praestantia); che fu pubblicata solo nel 1532 e che fu messa all’indice dalla Inquisizione spagnola nel 1584, perchè ostile all’ascetismo medioevale. L’opera è ottimistica sull’uomo e il mondo, ma fedele ad un umanesimo fondamentalmente religioso.Così, di carattere apologetico-religioso è  l’opera Adversus Judaeos et Gentiles pro catholica fide. Nello Specimen historiae litterariae florentianae saeculi XIII ac XIV, sive Vitae Dantis, Petrarchae, Boccaccii egli tradusse in latino le vite dei grandi trecentisti fiorentini, già illustrati dal Bruni in lingua volgare. Scrisse altre opere storiografiche : De Illustribus longaevis; Laudatio Genuensium; Chronicon Pistoriense; e la Vita di papa Niccolò V (Tommaso Parentuccelli).

Nel 1475 compaiono le Disputationes camaldulenses di CRISTOFORO LANDINO (1424-1498). Era docente allo Studio fiorentino di poesia ed oratoria. L’opera è in quattro libri, secondo la divisione in quattro giornate dei colloqui immaginati come avvenuti, nella amena frescura di Camaldoli, fra il Landino stesso, Lorenzo e Giuliano de’Medici, Leon Battista Alberti, il Ficino ed altri personaggi della Firenze medicea. Vi si tratta anzitutto della “perfezione della vita umana”, che è fatta consistere nella armonia fra la contemplazione (attività interiore) e prassi (attività  esteriore): la prima è, di diritto, superiore alla seconda, che pure è  necessaria alla vita umana. La seconda giornata ricerca il Sommo Bene: è Dio, da attingere anzitutto con l’intelletto. La terza e quarta giornata offrono una interpretazione allegorica (morale) dell’Eneide: Enea è l’uomo che fugge la vita sensuale (rappresentata da Troia) e quella attivistica (rappresentata da Cartagine) per elevarsi alla vita contemplativa, raffigurata da Roma: a questo egli è chiamato da Dio. Scrisse anche trattati: De nobilitate aninae; De vera nobilittate. Scrisse versi in latino: Xandra (per Alessandra, la donna  amata); e un commento alla Divina Commedia, in volgare.

[14] Bartolmeo Sacchi, detto il Platina, nacque nel cremonese  e morì a Roma (1421-1481) si formò in Firenze, nel circolo mediceo. Nel 1464 passa alla corte pontificia come abbreviatore, ma due volte viene carcerato: dapprima per aver protestato contro lo sicoglimento del collegio degli abbreviatori; poi, per essere implicato nella congiura di Pomponio Leto contro papa PaoloII. Riabilitato con Sisto IV, scrisse il Liber de vita Christi ac omnium  pontificum, la sua opera maggiore. Ma van ricordati, oltre al  De principe, il De optimo cive, il De vera nobilitate e il De falso et vero bono (cfr. l’opera quasi omonima del Valla), tutte opere su temi umanistici, ma pubblicate postume  nel 1504.

[15] MARSILIO FICINO nacque a Filigne d’Arno nel 1433; studiò a Firenze, Pisa e Bologna e trovò un mecenate in Cosimo de’ Medici, che gli donò la villa di Careggi e i mezzi per proseguire i suoi studi filosofici, tradurre Platone e pubblicare le proprie opere. A Careggi, egli costituì quella Accademia platonica, che ospitava anche Lorenzo de’ Medici e gli uomini più in vista della Firenze medicea. Ivi si elaborava quel tentativo di fusione tra filosofia e teologia, fra platonismo e religione che non si rifaceva solo alle opere di Platone, ma anche dei seguaci ed innovatori come i neoplatonici. Ficino, infatti, tradusse anche le Enneadi di Plotino ed ebbe conoscenza  di Pimander (scrittore ermetico), Porfirio, Atenagora, Giamblico, Proclo, Psello, Senocrate, Sinesio, Seasippo, Alcinoo, Ermia, degli  inni orfici e degli scritti pseudopitagorici. Oltre ai 18 libri di Theologia platonica seu de immortalitate animorum (1482) ed al De christiana religione (1474: vi combatte Giudaismo e Maomettanesimo) è notevole l’Epistolario (che rivela contatti con un numero insospettabile di dotti in tutta Europa) ed il giovanile De voluptate (Sulla felicità: si limita ad esporre le varie opinioni nei sistemi filosofici su tale problema, senza contrapporre una sua opinione personale). Il De Vita (1489) difende come almeno probabile l’opera della magia! Morto il Magnifico ed instauratasi la repubblica savonaroliana, egli ne fu dapprima entusiasta, ma alla fine si oppose al frate estremista e ribelle. Morì a Careggi nel 1499.

[16] Si veda S.T. I, q. 29, a. 1 e q. 96, a. 2; e Summa contra Gentes, c. II,  68. Sono passi già citati nel c. primo, a pag. 29, sia nel testo che nella nota 29.

[17] Tutti questi brani sono ripresi da varie fonti secondarie: da Salinari Ricci (Storia della Lett. it., Bari, Laterza, 1969); da Vittorio Rossi ( Il Quattrocento –Milano, F. Vallardi,  1956); da N. Sapegno (Compendio di Storia della Letteratura italiana); da Panozzo, III, 502; da G. Giovannini, Il pensiero filosofico nel Rinascimento e nell’età moderna, Firenze, Sandron, 1969.

[18] LORENZO VALLA. Nato nel 1407 a Roma da famiglia piacentina (di cognome “Della Valle”), studiò sotto la guida di Giovanni Aurispa e di Ranuccio da Castiglion Fiorentino. Nel 1430-33 insegna a Pavia eloquenza; nel 1435 è segretario  presso Alfonso d’Aragona a Napoli: è qui che, nell’atmosfera di ostilità della corte aragonese (schierata a favore dell’antipapa Felice V, conro Eugenio IV), scrive il De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio(1440), dando prove definitive ad intuizioni che erano già state espresse da Niccolò Cusano e da E. S. Piccolomini. Frutto del soggiorno napoletano era stato anche l’opera Historiarum Ferdinandi regis Aragoniae libri tres (Tre libri di storia su Ferd. I,  re d’Aragona); e soprattutto quegli “Elegantiarum linguae latinae libri sex (1444: Sei libri di eleganze della lingua latina), che pongono le basi per la definitiva fissazione dei modelli per la lingua latina come classica,  cioè Cicerone e Quintiliano.  Lavorò ancora al giovanile De voluptate (1431:sulla felicità: tentativo di conciliazione fra epicureismo e cristianesimo) , ripubblicandolo due volte: nel 1433 col titolo De vero bono e, nel 1439, come De vero falsoque bono. Con il De libero arbitrio vuol sostenere che non si può pretendere di dimostrare le verità di  fede con i ragionamenti dei teologi; con le Dialecticae disputationes (1440) si schiera contro l’aristotelismo e  il sistema di dimostrazione sillogistica usato dalla scolastica; contro la vita monastica (non escluso il celibato ecclesiastico) polemizza con il De professione religiosorum (1442). Il tutto gli attirò un processo per eresia, da cui però l’Inquisizione lo assolse: egli scrisse allora una Apologia indirizzata a papa Eugenio IV. I libri delle “Eleganze” e quelli sulla emendazione di Tito Livio (Emendationes sex librorum Titi Livii de secundo bello punico) gli attirarono polemiche a non finire (egli era già partito dalla università di Pavia, a seguito di una violenta contesa con il giurista Bartolo di  Sassoferrato). In realtà, egli non metteva in crisi solo il latino medioevale, ma quello stesso di molti umanisti raffinati. Il Bracciolini scese in campo una prima volta: una seconda volta lo farà con le Invectivae in Vallam, per l’atteggiamento irriguardoso con cui  questi trattava il testo del Nuovo Testamento: il Valla rispose a lui con i Dialogi e gli Antidoti in Pogium . Ma questi lavori sul la Bibbia sono frutto dell’ultimo suo periodo, in cui ritorna alla sua Roma, chiamatovi come segretario potificio da Niccolò V (l’umanista Tommaso Parentucelli) nel 1448; tale rimarrà anche sotto il successore Callisto III. Le sue note sul Nuovo Testamento dedotte dalla collazione dei codici greci e latini (In novum testamentum ex diversorum utriusuqe linguae codicum collatione adnotationes: 1449)  costituiscono un preparativo di edizione critica precedente la invenzione della stampa e rimangono opera superiore alla edizione che farà Erasmo da Rotterdam. A Roma scrive anche un sermone sulla Eucaristia (De mysterio Eucharestiae) e un Encomium sancti Thomae Aquinatis. Tradusse da Omero, Erodoto, Tucidide, Esopo e Senofonte. Venne sepolto nella basilica Lateranense, della quale dal 1455 era canonico.

Che il Valla abbia portato molto avanti le virtù ed i limiti dell’Umanesimo rinascimentale, risultandone il campione più significativo, è indubbio. Vediamone i meriti indiscussi. Anzitutto la forza probativa contro la autenticità della “Donazione di Costantino”. Egli  ne scova tutti i difetti, da quelli della diplomatica (analisi delle forme di stesura dei documenti antichi),  a quelli di storiografia (dimostrazione della mancanza delle circostanze storiche- la lebbra di Costantino, ecc.), e di filologia (analisi del linguaggio in rapporto al latino del IV secolo d. C., età presunta della donazione). Con l’analisi di questo documento (e con  le “Adnotationes” al testo del Nuovo Testamento, anche se il testo da lui previsto come originale è ora superato), egli deve considerarsi il fondatore della filologia scientifica. Così  si deve dire della sua fissazione di un modello unico per la lingua latina (più ancora che non Cicerone, è per lui Marco Fabio Quintiliano: 35 ca-95 ca d.C.): mentre egli intendeva solo di  definire per l’eternità la lingua classica per i dotti d’Europa, intuiva invero che il latino era da considerarsi lingua morta e, perciò, da  stabilirsi pragmaticamente con regole convenzionali e univoche: il latino che si studia ancor oggi nelle scuole è quello additato dal Valla.  Un terzo merito è l’estro lirico che si ritrova nel suo latino vivo, brillante, immaginoso, specie nella stesura della vita di Ferdinando d’Aragona.  Diverso è il giudizio da dare quanto all’ideologia umanistico-rinascimentale, nella quale egli è così avanzato da lasciare l’impressione di essere ormai un illuminista o un precursore di Lutero: il suo anticlericalismo giunge a criticare il celibato ecclesiastico e ad accusare i teologi come mistificatori, capaci di inventare documenti inesistenti a loro favore; la sua critica del testo del Nuovo testamento ama mettere in luce le differenze (ed aggiunte) della edizione “Vulgata o di San Gerolamo”  (quella ufficiale della Chiesa  latina) rispetto al testo greco (quello autentico: unico da ritenersi sorgente di verità rivelate). La sua polemica antiaristotelica ed anzi antiscolastica sarà fatta propria dalla cultura seguente, dal Luteranesimo  e aiuterà a creare quel vuoto filosofico che determinerà la fortuna del cartesianesimo. Soprattutto il suo tentativo di conciliare il “bene-piacere terreno”  di Epicuro con il “bene-gioia-felicità eterna” del Cristianesimo lascia sconcertati e  mette in tentazione di ritenere insincera la conclusione cristiana del terzo libro ( il vero bene è solo nel cristianesimo). Bisogna però guardarsi dal proiettare su di lui la mentalità luterana o quella neoilluministica che, come una tarantola,  pizzica noi moderni e ci rende pregiudicati nell’interpretare il pensiero dei Rinascimentali. Che fosse polemico ed ambizioso (ahimè! bagaglio di quasi tutti gli umanisti rinascimentali) nessuno vuol negarlo. Che fosse anche propenso ad esagerare per accontentare i padroni del momento, lo si deve riconoscere anche per il periodo napoletano-aragonese, se non si vuol essere unilaterali, attribuendogli servilismo solo verso la Chiesa nel periodo romano. Che egli fosse eretico o peggio, non va desunto dalle invettive del Bracciolini o del Pontano, perchè le polemiche tra umanisti bastano a disonorare (anche in fatto di amore alla verità) tutto il movimento. Va tenuto conto che egli desiderava essere al servizio della Curia romana ben prima che il papa umanista Niccolò V  ve lo chiamasse: aveva già fatto richiesta ad Eugenio IV, dopo la rappacificazione di questi con gli Aragonesi:  domanda respinta  per la pubblicazione della Declamatio sulla falsa donazione di Costantino.  Le sue dichiarazioni di fede hanno un’aria di sincerità che non ci è lecito trascurare. L’encomio a San Tommaso suggerisce di restringere il senso della sua polemica antiaristotelica alla acrisia di chi riteneva Aristotele un’autorità  apodittica, quasi infallibile, come poteva capitare nella squallida, tarda scolastica. La libertà di spirito con cui, baldanzosamente, aggrediva le autorità più riverite (anche Cicerone, posposto a Quintiliano, non si dimentichi!) può ben essere effetto soltanto del suo temperamento, invece che del “libero pensiero”, che non quadra con i molti elementi cristiani dei suoi scritti. Per la sincerità della sua coscienza circa la conciliabilità di epicureismo e cristianesimo, sta la giovane età della concezione- edizione (nel 1431 aveva 26 anni...)  e la fretta nel rielaborarlo due volte nel giro di dieci anni. Certo occorreva della ingenuità nel confondere la liceità del piacere secondo il fine di natura (morale, dunque), con la liceità del piacere in contesto(anche omosessuale, per l’epicureismo), subordinato solo alla pace dell’animo, ottenuta appunto liberando il corpo dal tormento della pulsione inesaudita!... Ma se egli vuol dire solamente che il piacere è pur lecito se usato moralmente e che, quindi, alcuni atteggiamenti di assoluto rifiuto del piacere legato alla carne sono anticristiani, beh! sfondava usci aperti e dimenticava che proprio la Chiesa aveva condannata come eresia tale dottrina dei Catari.  Che, in conclusione, egli possa essere considerato un pensatore ambiguo, non lo si può negare in base agli scritti: ma egli ha scritto troppo e di troppi argomenti (dalla filologia alla filosofia, dalla Scrittura alla teologia). Gli sarebbe stata necessaria più concentrazione. D’altronde, l’ambiguità morale è una taccia che lo ha perseguito anche da morto: gli è stato a lungo attribuito un figlio (Giorgio, vissuto dal 1447 al 1500) senza fondamento: ma che cosa non ci si può aspettare da un chierico, finito canonico, che scrive contro il celibato del clero?  Un’ultima nota. Avrà due discepoli che lasceranno  un piccolo ma significativo segno nella storia del Rinascimento: Giovanni Tortelli (1400 ca-1466) scrive una specie di enciclopedia: “Commentaria granmmatica de orthografia dictionum a Graecis tractatarum; Niccolò Perotto (i), 1429- 1480, scrive la prima grammatica latina dell’epoca rinascimentale: “Rudimenta grammatices”  (la Cornucopia , inziata come commento a Marziale, è un repertorio di osservazioni grammaticali e filologiche, da potersi paragonare alle Elegantiae del Valla per il rigore scientifico).

  

[19] Diamo uno sguardo ad altri protagonisti dell’Umanesimo rinascimentale, quelli tra i nominati sopra, che non dovremo studiare direttamente nel testo per qualche valore specificamente poetico. VESPASIANO DA BISTICCI  (1421-1498: toscano, anzi quasi fiorentino). Fu il libraio più organizzato e raffinato dell’ultimo periodo dei manoscritti: la sua bottega provvedeva copie eleganti oltre che chiare. Ritiratosi, quando la stampa ridusse i suoi affari (1480), scrisse in toscano popolaresco  103 Vite degli uomini illustri del secolo XV, che risulta documento utilissimo per personaggi di primo piano del tempo. La sua mentalità umanistica gli fa considerare la sua opera come occasione per una traduzione latina da parte dei dotti! Sue opere sono anche  un “Libro delle lodi e commendazioni delle donne illustri| e un Lamento d’Italuia per la presa d’Otrantro” (da parte dei Musulmani). Candido come Giovanni Villani, egli giudica “illustri” gli uomini, in base a due criteri: la onestà (anzi, la santità cristiana: elogia la verginità non solo di un Ambrogio Traversari, ma anche di laici, come Jacopo del Portogalo e Donato Acciaioli); e la buona conoscenza di almeno una delle lingue classiche, il latino (si vedano ad esempio i 16 umanisti schizzati da p. 517 a p. 538, nella edizione del 1951, Milano, Hoepli).

VITTORINO RAMBALDONI DA FELTRE (1373 o 1378-1446). Nato da famiglia  immiserita, ebbe una formazione lunga, perchè attardata dalla povertà, cui rimediò con lavori diversi, dando lezioni private, ecc. Divenne così discepolo di Guarino Guarini ( Guarino Veronese) per la lingua greca nel 1415-6,  pur potendo egli essere lievemente più anziano di lui. Lasciata Padova dopo un paio d’anni di insegnamento (scandalizzato per la corruzione degli studenti), fu invitato dai signori di Mantova come precettore dei figli del duca Gianfrancesco Gonzaga. Egli ottenne che la villa di campagna fuori Mantova, detta  la “Zoiosa” , diventasse un convitto aperto anche ad altri alunni, nobili e no, ai più poveri dei quali era data accoglienza gratuita. L’educazione era fondata sulla vita religiosa (vi si viveva  poco meno seriamenteche in un monastero, con la Messa quotidiana) , sull’insegnamento (dato in latino, la lingua ufficiale della casa) del Trivio e Quadrivio, con l’aggiunta del greco (Giorgio da Trebisonda e Teodoro Gaza lo aiutavano) e con una forte accentuazione della parte matematico-geometrica, che veniva studiata direttamente sul testo greco di Euclide. La novità era la cura della salute fisica, attraverso esercitazioni e gioco, che cercavano di attuare lo sviluppo della mente come del corpo, in una atmosfera serena, degna del nome italianizzato di “Casa gioiosa”. L’insegnamento di  pittura e canto completavano un’istruzione armoniosa, tendenzialemnte completa. Il Pisanello, che in onore di Vittorino coniò una medaglia, vi rappresentò un pellicano che si dissangua per nutrire i suoi piccoli.

GUARINO (de’) GUARINI, detto G. VERONESE: (1370 ca-1460). Mentre Vittorino fu anche un educatore, il Guarini fu solo un  maestro didatticamente insuperato. Alunno di Giovanni Conversino da Ravenna (familiare del Petrarca e suo anello di congiunzione colla cultura veneta), compiuti gli studi a Padova e Venezia, seguì a Costantinopoli Manuele Crisolora, rimanendovi cinque anni (1403-8). Al ritorno, insegnò dapprima a Firenze, donde dovette fuggire, non riuscendo a far fronte alle cospirazioni di un dotto contro l’altro (N. Nìccoli, P. Bracciolini, L. Bruni!!!), lui che aveva il culto dell’amicizia. e insegnava “Non basta vivere; bisogna convivere” e “Non si siede – a tavola- tanto per mangiare, quanto per discorrere”. E, tra Venezia, Verona e Padova riuscì a costituire un circolo di amicizie dotte, che gli facevano dimenticare anche di sposarsi. Ma gli amici gli fecero trovare moglie, ed anzi una donna assennata e ricca: egli affermava che a quarant’anni aveva piuttosto intenzione di far divorzio dalla donna che non si decideva a lasciarlo, cioè la povertà! Poi, dalla moglie ebbe dodici figli! Era in corrispondenza con un bel numero di umanisti: con Gasparino Barzizza,  un bergamasco (1360 ca-1431), che insegnava a Padova ed organizzò conviti di scuola e di educazione a Padova, Pavia e Milano, con criteri educativi aperti ed innovatori e che, per uso degli scolari, scrisse un De compositione, per insegnare a comporre discorsi (orazioni), lettere, ecc.); conGiovanni Aurispa (1376-1459: siciliano di Noto) che, dopo esser stato segretario dell’imperatore  Giovanni Paleologo, insegnò greco a Bologna ed a Firenze; con Francesco Barbaro, veneziano (1390-1454), umanista e uomo politico, che collezionò testi classici, revsionandoli criticamente; e che, oltre ad un ricco epistolario, lasciò uno scritto sul matrimonio (De re uxoria); con Antonio Beccadelli, detto il Panormita (1394-1471), di cui approvò in un primo tempo -in nome della eleganza letteraria- l’Hermafroditus (raccolta di epigrammi che giungono ad esaltare la omosessualità): dovette, poi, scusarsi, perchè criticato da molti; e con il Valla, che gli omaggiava,  il –De vero bono-. Gli riuscì, a questo modo, di stendere una rete di legami amichevoli fra le varie centrali di cultura del Veneto, così diverse dal covo di male lingue annidate in Firenze! Col 1429 venne la sua grande ora: passato a Ferrara, vi aprì una scuola privata e  nel 1431 venne chiamato come istitutore del futuro duca Leonello, passando quindi ad insegnare allo Studio della città. L’umaneismo nel ducato estense, quello da cui usciranno un Boiardo ed unAriosto, inizia con Guarino: prima di lui, Ferrara era un “buco nero” nel campo della cultura italiana. Vi insegnò fino alla morte, dimostrando doti didattiche impareggiabili. Ma egli viveva nell’insegnamento: ci ha lasciato, di scritto, solo l’Epistolario: interessante per conoscere molti aspetti della vita umanistica, ma troppo poco per  assicurare anche a lui  un posto nella  storia letteraria d’Italia. Ma anche come uomo era mediocre: “Era buono, affabile, remissivo, per quanto tutte le sue doti messe assieme non arrivassero a fare una virtù” (Piero Bargellini, S. Bernardino da Siena, Brescia, Morcelliana, 1945, p.144). Preparò grandi uomini (persino Bernardino da Siena andò a sentire il grande maestro!), senza essere lui stesso un grande uomo.

NICCOLO’ DA CUSA, detto “il Cusano” (Nikolaus Chryppfs von Cues, presso Treviri: 1401-1464; il suo cognome corrisponde al tedesco moderno Krebs, che significa “granchio”).Ottenne la laurea di giurisprudenza in Italia; scoprì a Colonia le commedie di Plauto; rimase in rapporti con il Parentucelli, l’Aurispa, Il Traversari, il Piccolomini... A Basilea sostenne dapprima il conciliarismo, passando poi decisamente in favore dell’autorità papale. La sua legazione a Costantinopoli preparò la partecipazione dei Greci al concilio di Ferrara-Firenze e, quindi, l’unione dei cristiani ortodossi.  Nel viaggio di ritorno da Costantinopoli, scrisse il suo capolavoro: De docta ignorantia. Fatto cardinale nel 1450, fu inviato legato papale in Germania, ove cercò di combattere disordini e corruzione nel clero e nei fedeli, come l’Hussitismo in Boemia. Ma si attirò odiosità per la rigidezza dei metodi, che gli alienarono l’imperatore Sigismondo d’Asburgo, intento a logorare i diritti politico-feudali del clero in Trentino, quando fu inviato vescovo a Bressanone. Richiamato a Roma da Pio II,  non ebbe vita facile con i curiali di stampo rinascimentaale. Morì a Todi nel 1464. Ebbe una mentalità platonico-agostiniana, anzi plotiniana e, in ogni caso, antiaristotelica. Congeniale alla matematica ed alle scienze (stimato da Copernico, Galileo e Cartesio), era vago e generico, nebuloso nelle intuizioni filosofiche: aveva, in sede filosofica, più affermazioni che dimostrazioni, più intuizioni isolate che sistematicità  organica. Ed ecco la sua filosofia. I molteplici esseri del mondo sono finiti e sono confusione: essi appellano all’infinito ed alla unità  come a propria causa. Ebbene, Dio è la concordantia, anzi la coincidentia oppositorum, è l’ordine della confusione, è l’unità chiarificatrice del molteplice confuso. Dio è la complicazione del molteplice nell’Uno, come il molteplice delle creature è la explicatio dell’uno nel molteplice. Il mondo è così infinito anch’esso, ma disordinato, senza nessun centro, senza significato: è un dio creato, che dice ordine, si appella, esige un Dio creatore ed ordinatore. Egli ha quasi il presentimento della rivoluzione copernicana: mondo senza centro; relatività di luogo e di tempi. Riecheggiava Raimondo Lulli e presagiva il Bruno ed il Leibniz. Non si può dubitare della buona fede del Cusano nel credere conciliabile il suo pensiero con la rivelazione cristiana; non si può dubitare del valore di certe intuizioni fisico-matematiche: ma non si può neppure dubitare che, oggettivamente, il suo nebuloso progetto del mondo sia incline al panteismo.

[20] Non si deve credere tuttavia che manchino voci discordi od almeno esistanti circa la “felicità” della vita terrena. Vi è ENEA SILVIO PICCOLOMINI (poi, papa Pio II), nato nel territorio senese che aveva nome Corsignano e che da lui ebbe nome di Pienza (1405: morirà  nel 1464 ad Ancona, nella vana attesa delle navi cristiane per una crociata contro i Turchi, imperversanti nella penisola balcanica),  che iniziò anche lui come allegro umanista, scrivendo opere lascive, ma dovette poi ripiegare amaramente sulla costatazione delle molte miserie della vita. Eccolo a scrivere il De miseriis curialium (1444), mordace considerazione sulla sorte degli addetti alle varie “curie”, ecclesiastiche o civili. Egli ne sapeva qualcosa, dapprima come partecipe del concilio di Basilea, anzi sostenitore della dottrina conciliarista (superiorità del Concilio sul papa) ; poi, al seguito dell’antipapa Felice V; quindi addetto alla cancelleria dell’imperatore Federico III d’Austria. Dall’imperatore venne incoronato poeta e si riconciliò con la curia romana nel 1445. Abbracciò allora decisamente la carriera ecclesiastica e, ordinato sacerdote (marzo 1447), divenne vescovo nell’aprile  1447 (prima di Trieste; poi, di Siena, nel 1450). Nel frattempo condusse a buon fine imprese non facili: riconciliare i tedeschi con Roma, dopo che avevano assunto una posizione di equidistanza fra papa ed antipapa; riportare gli Hussiti di Boemia alla fede cattolica; propiziare le nozze di Federico III con Eleonora di Portogallo; intraprendere un lavorio diplomatico per rappacificare i prìncipi cristiani, onde preparare una crociata, dopo la occupazione di Costantinopoli nel 1453... Nel 1456 è fatto cardinale da Callisto II e due anni dopo è papa, uscendo da un conclave in cui si era trovato costretto a rintuzzare indegni tentativi simoniaci da parte del cardinale di Rouen. La sua opera più sentita sarà in favore della crociata: e sarà inutile. Trasforma la sua città natale cambiandole il nome; porta in curia un cumulo di compatrioti, fino a facilitare l’accostamento del dialetto romanesco al toscano. E scrive ancora. Ai versi d’amore (tre elegie latine “Ad Cynthiam”), ai tre libri De gestis basileensis concilii (1440) le cui tesi conciliariste egli sconfessò nell’epistola De rebus Basileae gestis stante vel dissoluto concilio (1450), alla novella boccaccescamente oscena Historia de duobus amantibus (1444: storia di due amanti), alla commedia Chrysis (1444: plautina nell’impianto e nel lessico, libertina nel linguaggio) ed al citato libro sulle miserie degli uomini di curia, al De ortu et Romani auctoritate imperii (1446: origine e autorità dello impero romano), al De liberorum institutione (1447: educazione dei figli), alla Historia Bohaemorum (1458: Storia dei Boemi), ora, da papa, aggiunge una  Asiae et Europae locorum descriptio (1463: Descrizione dei luoghi  d’Europa e d’Asia) ed i tredici libri dei Commentarii rerum quae suis temporibus contigerunt (Appunti sulle vicende occorse ai propri tempi), rimasto incompleto nell’ultimo libro e pubblicato solo nel 1584, molto rimaneggiato. Nel 1460 scrisse personalmente una Epistola ad Mahometem ( ne auspica la conversione, promettendogli la corona imperiale), per risolvere pacificamente i contrasti fra cristiani e musulmani. .La gotta di cui soffriva lo stroncò nel 1464, la notte sulla festa dell’Assunta. Fu grande umanista, in contatto con  Bracciolini, Bruni, Guarino e il Panormita. Tra gli scrittori cristiani ammirava soprattutto S. Gerolamo; tra quelli pagani, Giulio Cesare, da cui prese il titolo della sua ultima opera (“commentarii”). Ma è ben lontano dalla sicurezza e decisione del fondatore dell’impero romano. E’ pessimista non solo a proposito della vita travagliata dei curiali, ma di tutta la condizione umana: anche la “storia di due amanti” , benchè spregiudicata, ha un fondo di tristezza amara; nei Commentari, poi, nota con  sofferenza la drammatica situazione di uomini corrotti e di nemici del cristianesimo che trionfano, mentre la Chiesa si trova in difficoltà sempre più gravi. Se il papa è così deluso, immaginarsi altri umanisti che non  avevano la stessa forza di fede: il Bracciolini scrive un De infelicitate principum, un De varietate fortunae ed un De miseria humanae condicionis. Più complicato e sofferto è il  giudizio di Leon B. Alberti  sulla vita umana. Nella giovinezza ebbe a soffrire  opposizioni da parte di parenti. Tali vicende segnarono talmente il suo pensiero, da rendegli faticoso e talora contradditorio il pensiero circa il dominio dell’uomo sul mondo e sul  proprio destino. Ne riparleremo, studiando questo scrittore fra i classici nel volgare del secolo. Ma nel complesso, tali eccezioni non infirmano la impressione di ingenua fiducia ed euforia che  comunicano gli uomini rinascimentali: quella che condurrà alla perdita della libertà di Italia, ai 65 anni  di guerre europee (discesa di Carlo VIII. nel 1494- pace di Castel Cambrese nel 1559),  al pessimismo disperato di un Lutero, ossessionato dalle conseguenze del peccato originale; e di un Machiavelli, furioso per la barbarie degli ingovernabili popoli italiani.

[21] Di S. TOMMASO MORO (Thomas More: 1477 o –78- 1535), formatosi ad Oxferd e resosi padrone delle lingue  latina e greca (fu lui ad istillare in Erasmo l’amore per il  greco) divenne cancelliere (ministro della giustizia) sotto Enrico VIII, (1529),  esercitando così seriamente il proprio ufficio che, dopo secoli, si giunse a non avere più gente che attendeva di avere giustizia dal tribunale del re! La pretesa del re a divorziare dalla legittima moglie Caterina d’Aragona, che non gli dava figli maschi; e lo scisma da Roma per farsi capo della chiesa d’Inghilterra, trovarono Thomas More su  posizione di rispettosa, ma ferma opposizione: il che gli meritò il martirio. Questo è il titolo della sua maggior grandezza.   Elenchiamo  anzitutto le sue (non molte) opere secondarie. In latino, tradusse dai Dialoghi di Luciano e da poeti epigrammatici greci; scrisse una Vita di Pico della Mirandola. In inglese,  redasse l’Apologia (per difendere il proprio rifiuto a staccarsi  dalla obbedienza al papa); compose un Dialogo (di conforto a se stesso durante la prigionia). e vergò   lettere molto interessanti, che ci fanno conoscere la sua fede ela profonda religiosità del suo spirito. Col suo inglese contribuì a costruire un “volgare illustre”, di valore letterario, modellando la lingua patria sulla eleganza  di quelle classiche. Ma il suo capolavoro è scritto in latino. Il titolo è  costituito, però, da una parola greca di sua invenzione, destinata ad avere vastissima fortuna: UTOPIA (che significa  “il paese di  nessun luogo”, cioè il paese introvabile, di sogno: ideale e perfetto, ma irrealizzabile). Qui troviamo espresso il suo pensiero: di critica alla società in cui viveva e di progettazione di una comunità ideale e perfetta...ma impossibile a trovarsi. Rinascimentale è il coraggio del sogno, che è crtica del presente (come l’Elogio della pazzia” dell’amico Erasmo), ma è anche progetto di una umanità migliore. Rinascimentali  sono  le componenti ideali della  convivenza che lui stesso deve riconoscere essere al di sopra delle possibilità dell’uomo europeo: governo paternalistico da parte di una comunità di anziani (aristocrazia della saggezza); comunismo dei beni economici; tendenza alla esclusione delle guerre, anche a costo di  impiegare l’astuzia, per premunirsi o difendersi dall’ingiusto aggressore; esclusione di persecuzioni a causa di fedi religiose diverse. Anche chi rifiutasse di credere nella Provvidenza di Dio e nella vita oltre la tomba con premi e castighi eterni,  non andrebbe ucciso, ma soltanto allontanato dalla comunità. Addirittura già illuministiche, cioè di una disperazione non più cristiana, sono alcune concessioni alla debolezza della natura umana: seppur solo in casi estremi, è ammesso il divorzio e persino l’autoeutanasia (il suicidio per liberarsi dai dolori della malattia)! Tali opinioni sono indizio di quella legge inesorabile che governa il comportamento umano: la coerenza più inflessibile. Una volta dimenticato che l’uomo attuale o accetta la Grazia redentrice o sottostà al ricatto della concupiscenza, perchè colle sole sue forze soltanto in “Utopia” può rimanere integralmente onesto, poco a poco non solo la onestà prassica (delle azioni) tende ad azzerarsi, ma anche il pensiero sul bene ed il male (la scienza morale) viene ad offuscarsi e ad abbandonare un caposaldo dopo l’altro della onestà stessa (divorzio ed eutanasia attiva). Ma in San Tommaso Moro queste posizioni disorientate si perdonano per due motivi: Utopia non è tra popoli reali, ma, appunto, tra popoli ideali, di sogno ed inesistenti. E, poi, c’è stato il martirio: che lava colpe ed errori...

Di solito si trascura un altro punto di originalità nel pensiero del More. E si capisce il perchè: non si tratta di un parametro rinascimentale, ma ulteriore, che previene TommasoCampanella (1568-1639) e Biagio Pascal (1623-1662), cioè il pensiero del Milleseicento. Si tratta di questo: Tommaso Moro ha innata la tendenza a mostrare come il Cristianesimo esaudisca le esigenze della religione naturale più pura e sincera. E’ una apologetica non più oggettiva, basata cioè su fatti esteriori (profezie avverate, miracoli storicamente accertati), ma soggettiva, fondata su argomenti interiori: l’esigenza dell’animo umano ad una religione retta e completa, non distorta o carente. E’ una teodicea (scienza puramente razionale su Dio)  di stampo psicologico, non metafisico, che rischia di mettere al primo posto l’uomo, come analogato maggiore delle sue relazioni con Dio (che costituiscono appunto la religione), ma che è pur suggestiva e può ben essere ortodossa, accogliendo tale “discorso del metodo” per giungere a Dio come appunto uno strumento gnoseologico,  che riconosce poi il primato ontologico (nella realtà dei rapporti) a Dio.

[22] L’Italia, che nel Milleduecento dipendeva dalla cultura letteraria francese, ora  detiene un primato che vede le altre nazioni seguirla con ritardo. Erasmo da Rotterdam scrive a Robert Fisher, già  suo discepolo, venuto in Italia a perfezionarsi in giurisprudenza: “L’Italia è la terra dove anche i muri sono più dotti ed eloquenti di quanto non siano qui da noi gli uomini” (R.W.Chambers, Tommaso Moro, trad. Milano, Rizzoli, 1965). L’Inghilterra precede le altre nazioni europee  nella acquisizione del greco: l’insegnamento della lingua di Omero approda al Canterbury college (ora Christ Church college) poco dopo il 1450, a mezzo del benedettino William Selling, che era stato in Italia a studiarlo. Nel primo Millecinquecento, Linacre, amico di T. Moro ed ecclesiastico, introduce per primo ad Oxford e Cambridge gli studi scientifici, perchè può contare sulla conoscenza del greco. Tommaso Moro (1478-1535), John Fisher (1469-1535) e John Colet ( un dotto teologo) sono i  più grandi umanisti del tempo in Inghilterra. Sempre da R.W. Chambers si apprende che nella pittura, l’Italia era incomparabilmente superiore; nell’artigianato architettonico e nella oreficeria Italia e Inghilterra erano alla pari e forse l’Inghilterra era superiore; nel campo umanistico era in atto un buon inseguimento, stroncato dalla separazione e persecuzione di Enrico VIII.

In Germania e nei paesi di lingua tedesca, vi è DESIDERIO ERASMO DA ROTTERDAM a guidare la cordata dei dotti: egli si specializza nella edizione critica del la Scrituura (Nuovo Testamento) e dei Padri della Chiesa, sia latini che greci. La spinta a studiare il greco gli viene dai viaggi in Inghilterra presso Tommaso Moro.  Nato nel 1469( o 1466?) e morto  nel 1536, era figlio naturale di un borghese, che poi si fece prete e lo lasciò orfano ancora ragazzo. I parenti-tutori lo instradarono  sulla via dei voti religiosi, per poter impossesarsi dei suoi beni. Canonico regolare (cioè   coi voti di povertà, castità e ubbidienza) ad Emmaus (Steyn), era abbastanza soddisfatto della vita religiosa,  finchè non entrò a servizio del vescovo Enrico Bergen di Cambrai ed  approdò a Parigi per studiare. Si laureò però a Torino nel 1506 e in Italia rimase fino al 1509.  Lo attrasse specialmente la erudizione e lo spirito critico del Valla, che considerò suo maestro Allora si trovò così bene nelle vesti dell’umanista, pensatore solitario e viaggiatore, ovunque ammirato e festeggiato per la sua cultura, che detestò e criticò la sua vita religiosa, ottenendo da papa Leone X la dispensa dai voti di povertà e  residenza (ubbidienza), rimanendo legato al solo voto del celibato (1517). Aveva iniziato come precettore privato, preparando per i suoi alunni quei sussidi, didatticamente felici e pedagogicamente sapienti, che divennero per secoli i primi testi della scuola in tutta Europa. Nel 1502 pubblicò l’Enchiridion militis christiani (Manuale del milite cristiano). Viaggiò per tutta Europa, dall’Inghilterra a Roma, dalla Francia ai Paesi Bassi, divenendo amico di Tommaso Moro e di John Fisher. In Inghilterra fu stimolato a conoscere anche il greco e, da Giovanni Colet, fu  convinto a dedicarsi allo studio degli scrittori ecclesiastici nei primi secoli (i cosiddetti “Padri della Chiesa”) oltre e più che ai classici pagani. Fu quasi uno scoprire il punto di incontro della duplice vocazione, quella al servizio di Dio e quella della passione per la cultuira.  Finì per prediligere S. Gerolamo sopra ogni altro scrittore. A Venezia, ospite di Aldo Manuzio, preparò una collezione di  “adagi” o sentenze morali (Adagiorum collectanea),  raggiungendo un successo eccezionale e collezionando,  nelle ultime  edizioni, 2500 proverbi. Li fece seguire dalle Parabolae e dagli Apophtegmata. Nel 1509, durante il suo terzo viaggio in Inghilterra, scrisse in sette giorni (ospite del Moro) il  libro più noto: Encomion moriae seu Laus stultitiae (dove egli gioca amichevolmente sul termine greco, che deriva da “mòros”, il pazzo e, così,  fa del libro un “Elogio di Tommaso Moro”, il rappresentante del buon senso e della virtù, in tanta follia e corruzione del mondo: fu edito nel 1511).  Accanto ad alcuni dei Colloquia familiaria, l’Encomion è il capolavoro  letterario di Erasmo, per la finezza dell’ironia e la forza della satira. Nel 1516 pubblica, contro il Principe di Machiavelli, la sua  Institutio principis christiani” (educazione di un principe cristiano), che  vede della politica una parte della vita morale,  soggetta alle sue obbligazioni.  L’epistolario, con oltre 3000 lettere, conferma la sua vocazione di educatore morale, contribuendo a far di lui il più grande degli Umanisti cristiani del Rinascimento. Prima di esaminare il suo pensiero  dobbiamo ancora allegare due gruppi di opere.

Anzitutto quelle contro il Luteranesimo, da lui in un primo tempo appoggiato: De libero arbitrio (La libertà di volere: 1524). Erasmo si staccò nel 1521 da Lutero per princìpi  ed ecclesiastici (ad esempio, la negazione del primato del papa e la abolizione del sacaerdozio celibatario) ed umanistici (“ubicumque regnat Lutheranismus, ibi litterarum est interitus” :ovunque regna il luteranesimo, ivi vi è la morte delle lettere”). Lutero risponderà con il “De servo arbitrio”, sostenendo la schiavitù della volontà umana od al demonio od alla Grazia, in seguito al peccato originale ed alla redenzione di Cristo. Erasmo controbatterà con l’Hiperaspistes (o “superimplacabile, irreconciliabile”- da àspeistos- o “superarmato –da “aspistès; e la disputa ebbe altri scritti da entrambe le parti, compresa la polemica con quel povero  von Hutten, ribelle con Lutero dopo gli stravizi di gioventù). Ma di Lutero accettava il riferimento appassionato alla Scrittura, la critica della condizione morale dell’Italia umanista (1528: Ciceronianus) e dei conventi.

 Infine vi è il suo lavoro di editore di testi scritturistici ed eccelsiastici emendati criticamente. Avendo iniziato lo studio del greco a 31 anni, giunse a conoscerlo così bene, da farsi editore del Nuovo Testamento in greco   e di  alcuni Padri della Chiesa di lingua greca: dopo aver tradotto da S. Giovanni Crisostomo, morì mentre  stava facendo  la pubblicazione di San Basilio il grande. Sebbene il testo greco da lui approntato per il Nuovo Testamento sia inferiore a quello che si sarebbe potuto  pubblicare seguendo le “Adnotationes” del Valla (Adnotationes che pure lui aveva  editato nel 1505); e sebbene non possa reggere  il paragone con la  precisione filologica delle edizioni critiche recenti, tuttavia la  migliorata edzione del 1519 diverrà il testo accettato ed usato finchè nel 1898 Eberhard Nestle non pubblicherà la nuova edizione critica, poi aggiornata fino al 1991 ed affiancata dai cattolici nel 1933 con l’edizione critica curata da Augustin Merk. All’edizione del testo greco accompagnò una sua traduzione latina, che tralasciava alcuni passi mancanti in greco, ma presenti nella edizione di San Gerolamo ed abitualmente usata dalla Chiesa  cattolica (onde il nome di “Vulgata”, cioè “diffusa tra il popolo e, quindi, ordinaria) fino al Concilio Vaticano II. Poi accompagnò tali opere con i sei libri di Paraphrases (spiegazioni: è lasciata fuori solo l’Apocalisse) con un Commentarius e con delle Explanationes (11 libri in tutto). Fece poi l’edizione critica  di S. Gerolamo, S. Ilario, Commentari di Arnobio sui salmi, S. Ambrogio, S. Ireneo, S. Agostino, un trattato di Lattanzio ed infine dei Padri greci Crisostomo e Basilio.

Per comprendere il suo pensiero, occorre tener presente il temperamento nervoso: fu abbastanza emotivo da colorire letterariamente i suoi scritti; abbastanza inattivo, da optare per la solitudine e le amicizie  ristrette piuttosto che per l’azione e il contatto con la folla; abbastanza instabile (primario) da esser vissuto viaggiando o peregrinando (quando, a Basilea,  un generoso sponsorizzatore della sua opera editoriale sembrasva avergli procurato un approdo definitivo, giunse la riforma luterana nel 1529 a farlo fuggire a Friburgo per alcuni anni). Il suo pensiero, segnato da una certa prevalenza del candore sognante del poeta sulla concretezza realistica del filosofo, presenta ingenuità e variazioni sorprendenti. Non farà meraviglia che egli detesti l’organicità della filosofia scolastica, certo scritta in un latino rustico e anche scorretto rispetto ai classici, ma anche troppo sistematica ed organizzata per la sua personalità piuttosto indecisa e dispersiva. Così, per la mancata dimensione sociale del suo cristianesimo e sacerdozio, può concedersi il lusso di insistere (nell’Enchiridion militis christiani) sulla preghiera spontanea e sulla lettura della Bibbia, sottovalutando la forza dei sacramenti come preghiera di Cristo, decisamente più efficace di quella unicamente personale; ed obliando la difficoltà per il cristiano della strada ad affrontare con frutto la lettura della Scrittura sacra. Ed in tutte le opere, a cominciare dall’ Encomion morìae, egli si permette di flagellare allegramente vizi e difetti di religiosi e laici, dimenticando le lettere della sua giovinezza che non denunciano scontentezze sulla sua vita in comunità; dimostrando di non conoscere il proprio temperamento davvero poco adatto alla vita comunitaria e non tenendo in considerazione la imperfezione umana dovuta al peccato originale e, quindi, la compassione cristiana di fronte alla insipienza e meschinità, presente anche nei conventi. Anche in lui la fede nella colpa originale non giunge alla coscienza piena del suo impatto sull’umana natura. Il suo umanesimo è innegabilmente morale (il Ciceronianus  è il rimprovero di un pensatore germanico e di un uomo severo agli umanisti italiani, spesso poveri di pensiero e dediti alla voluttà paganeggiante) e persino cattolico (il primato del papa, il celibato del clero), ma troppo poco cristiano. La sua teologia  non fa capo al   peccato originale nè può, quindi, dare una giustificazione adeguata della (ed un riferimento pertinente alla) Redenzione di Cristo. Per questo , quando egli morì, era “a Dio spiacente ed ai nemici sui”: coi riformati aveva rotto definitivamente e la Inquisizione mise all’indice i suoi libri tutti nel 1557. Si doveva arrivare al Tiraboschi ( Gerolamo, gesuita e critico letterario:1731-1794) per riconoscerne la quasi completa ortodossia.  Rimandiamo ad altra  nota Jacques Lefèvre d’Etaples.

 

[23] In Francia Jacques Lefèvre d’Etaples (1450 ca-1537) è un teologo, influenzato dal platonismo e dall’umanesimo durante un viaggio in Italia. Mentre diffuse(in traduzioni latine) le opere morali di Aristotele con più aderenza al testo greco che non avesse fatto la scolastica, tradusse anche opere dello pseudo Dionigi l’Aeropagita e dei filosofi ermetici. Accostatosi agli studi scritturistici, diede una traduzione della Bibbia in volgare francese (1530) e commentò i Vangeli e le lettere di San Paolo. Il suo pensiero fu platonicamente vago e indeterminato, sicchè rischiò la condanna della facoltà teologica di Parigi (la Sorbona). Egli finì bibliotecario della regina Margherita di Navarra, a Blois. Alcuni  interpreti lo vedono   pericolosamente vicino al luteranesimo riguardo alla  diffusione della Bibbia in volgare, al concetto di Messa come pura commemorazione del sacrificio della Croce, alla opposizione al culto di Maria SS. e dei santi , al rifiuto della gerarchia nella Chiesa e della rigidità dei dogmi. Altri negano che egli sia uscito dalla ortodossia, proprio grazie alle sfumature ed indeterminatezza del pensiero. Pur  essendosi trovato al centro di un gruppo di “evangelici”  inclini alla “devozione” attraverso la lettura della Scrittura e dell’incontro personale con Dio più che al contatto con Lui attraverso i Sacramenti, in una cosa si distinse da Lutero e si chiarì  ultraumanista: la negazione del peccato originale e la affermazione della piena libertà dell’uomo nell’opera morale  per la salvezza. Ritorno al pelagianesimo o precorrimenti dell’Illuminismo? In ogni caso, eccesso di fiducia nell’uomo. I riformatori d’Oltralpe ed il Concilio di Trento reagiranno decisamente.

[24]  Ci si sarà accorti che nel trattare del pensiero rinascimentale, mescoliamo scrittori  dei secc. XV e XVI.  In proposito, dobbiamo qui ribadire il principio che l’UMANESIMO NON E’   UNA PARTE O PREMESSA,  MA E’ UNA  COMPONENTE  ESSENZIALE DEL RINASCIMENTO: NE E’ IL PENSIERO. Il Rinascimento va   dalla morte del Petrarca al Concilio di Trento (1545) od al sacco di Roma (1527).

[25]Il cardinale Jacopo Sadoleto, di Modena, (1477-1547) fu un umanista di tutto rispetto.  Segretario di Leone X a fianco del Bembo,  fatto vescovo di Carpentras (Avignone) ,  fece parte della commissione preparatoria del Concilio di Trento. Nel 1542 fu mediatore di pace tra Francesco I e Carlo V. Oltre ai sedici libri di “Epistolae”, scrisse un De liberis recte instituendis (Come educare i figli rettamente: 1533: auspica istruzione sia letteraria che tecnica, per una crescita armoniosa della mente, che aiuti ad elevarsi con tutte le proprie facoltà a Dio ed a raggiungere, quindi, la felicità) ed un De laudibus philosophiae (1538)  e, dopo il Commentarius citato, un De peccato originali (edito però solo nel 1912). In gioventù aveva scritto poemetti latini, fra cui il migliore è quello sul Laocoonte. Tentò anche di operare un ritorno dei cristiani di Ginevra nel grembo della Chiesa, inviando loro una lettera il 26 marzo 1539, cui rispose Calvino (cfr. la traduzione  di entrambe, edita dalla Claudiana di Torino nel 1976).

[26] I tre DECEMBRIO (lombardi, oriundi di Vigevano).  Tutti umanisti minori. UBERTO (il padre: 1370 ca- 1427), segretario di vescovi e di Visconti, ci ha lasciato un solo trattato in 4 libri: De re publica (Lo Stato). Il figlio maggiore (PIER CANDIDO:1392-1477) a servizio dei Visconti e della Repubblica ambrosiana, se ne andò, (cfr. sotto, in F. Filelfo, i motivi) a Roma e Napoli, per finire a Ferrara dal 1466, ospite di Borso d’Este. Ci ha lasciato le biografie di Francesco Sforza e  La vita di Filippo Maria Visconti ed un epistolario che è fra i più interessanti sulla vita letteraria e politica  del secolo (Lettere inedite: 1902). Meno importanti le sue opere poetiche, narrative, filologiche, fra cui molte traduzioni dal greco e dal latino. L’altro figlio (ANGELO:1415 ca- 1470 ca), a parte le poesie e i discorsi in latino, ci ha lasciato i Poliìiae litterariae libri septem (Sette libri della Repubblica letteraria).

BARTOLOMEO FACI O (FAZIO: 14OO- 1457).  Nato a La Spezia, servì come ambasciatore alla repubblica di Genova (aveva studiato col Guarino a Verona ed aveva tenuto scuola a Venezia, Firenze e Genova). Divenne alfine segretario e storiografo del nuovo re Alfonso d’Aragona. Le sue opere più importanti sono il De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege (1455) e De viris illustribus (biografie di personaggi  del tempo). Ebbe diatribe con Loremzo Valla, ormai approdato a Roma, per la Historia Ferdinandi regis da quello scritta: alle quattro invettive del Fazio, il Valla rispose con le Recriminationes in Facium (1447). Scrisse anche la prima opera sulla dignità dell’uomo (De dignitate hominis et praestantia): sappiamo che gli rispose Giannozzo Manetti con il suo De dignitate et excellentia hominis, molto più ottimista (1451-2).

I  due  FILELFO. FRANCESCO (1398 a Tolentino-Macerata- Firenze 1481). Fu a Padova, alla scuola di Gasparino Barzizza e, poi, a Costantinopoli dal 1420 al 1427, discepolo del Crisolora, di cui sposò la figlia Teodora, avendone il figlio  GIAN MARIO  (autore, questi, di poemi latini, come la Felsineide per la città di Bologna, la Cosmiade e la Laurenziade per i Medici e il Martias per i Montefeltro di Urbino). Nel 1429 era a Firenze ad iniziarvi il suo insegnamento, appoggiatio da A. Traversari. Ma Carlo Marsuppini ne fu critico ed emulo, ottenendo nel 1431 la cattedra del Filelfo. La reazione di questi gli fece riacquistare  cattedra e stipendio, ma gli lasciarono nell’anima, collerica e risentita, una ostilità che lo trascinò a parteggiare, in politica, contro gli amici dei suoi nemici. Ma quelli erano i Medici, che ebbero, alla fine, partita vinta. Al Filelfo non rimase che andarsene. Nuove sedi di attività furono dapprima, Siena; poi, Bologna; alla fine, Milano. Qui gli riuscì di disfarsi del rivale P. C. Decembrio, destreggiandosi più abilmente nel passaggio dai Visconti a Francesco  Sforza. In onore di costui scrisse il poema  Sfortias,  cui seguì il Carmen de nobilitate, cento Satire di cento versi ognuna, gli epigrammi del De iocis et seriis (altri diecimila versi a coppie di distici) e lo stanco trattato in prosa De morali disciplina, l’orazione In Cosmum Medicem ad exules optimates, i Convivia mediolanensia e le non terminate Commentationes florentinae de exilio (in tre parti: De incommodis exilii| De infamia| De paupertate). Tradusse da Aristotele, Senofonte, Plutarco... Morto Francesco Sforza e dimezzatagli la provvigione, egli trattò superbiosamente con Bologna che era rea di offrirgli solo 400 lire, mentre lui aveva coscienza di  meritarne 700; accettò così un incarico a Roma con Sisto IV (cattedra di eloquenza allo Studio romano). Dopo il 1474, morto Galeazzo Maria, tornò a Milano, mentre cercava quel rientro a Firenze che conseguì in tempo per morirvi il 31 luglio 1481. E’ il tipico esponente del “cinismo” professionale dell’Umanesimo. Le “lettere” devono dare pane, agi, onori, perchè il letterato è datore di gloria, di fama. Di qui la indifferenza per ideali e padroni: lo scrittore serve chi lo paga.

TEODORO GAZA (Salonicco, 1400 ca- S. Giovanni di Piro, Salerno, 1475). Venne in Italia per il Concilio di Ferrara-Firenze nel 1438 ca, insegnò greco a Ferrara (1446-9) dopo esser stato a Pavia e Mantova (per migliorare il suo latino). Dopo Ferrara ebbe incarichi di traduttore da Niccolò V che lo volle a Roma; dopo la morte del mecenate, fu a Napoli (1445-63) e morì nella abbazia di San Giovanni a Piro,  di cui aveva ottenuto la commenda dal papa. Oltre le traduzioni (Aristotele, Teofrasto, Eliano, Dionigi di Alicarnasso, in latino; dal latino di Cicerone al greco tradusse invece il Somnium Scipionis e il De Senectute). Una sua Grammatica greca rimase in uso fin dentro il Milleottocento. Purtroppo il Gaza è il più esplici to sostenitore della servitù totale del dotto ai suoi finanziatori, fino alla menzogna. Di tale egoismo incosciente parleremo subito a proposito del costume rinascimentale.

[26]  Si noti che anche Firenze è passata attraverso l’oligarchia, chè  dal 1382 al 1434 le famiglie che si alternavano alle cariche (gli Albizzi, da Uzzano..) erano ben poche. Fu un percorso tutto sommato spontaneo e necessario, almeno in quanto non imposto dall’esterno. Genova e Lucca  “vivon fra tirannia e stato franco”.  Con  il 1528, caduta Genova in mano ai Doria, rimangono libere Venezia (oligarchica per definizione),  Lucca e Siena (Siena cadrà in mano ai Medici nel 1555,  assediata anche dalle truppe imperiali). Non si può fingere di ignorare che quasi tutti i comuni italiani (tolta Lucca, non volendo prendere in considerazione  San Marino, Valsolda o Campione d’Italia,  perchè avevano come signore feudale degli  ecclesiastico) abbiano avuto lo stesso percorso dalla democrazia alla tirannia attraverso la oligarchia,  nel giro di due-tre secoli. Non si può disinteressarsi del perchè.  D’accordo, la democrazia è il governo migliore. Ma è anche il più impegnativo, sia per il fattore tempo (discussioni per decidere), che per le energie spirituali (morali) e materiali (danaro) che assorbe. Per ciò stesso o si fonda su una vita morale severa, che garantisca, oltre la competenza professionale,  non solo l’onestà dei governanti contro ogni tentativo di venir corrotti,  ma altresì la loro fortezza per far fronte alle minacce dei prepotenti; o altrimenti i vantaggi del governo democratico cedono, nella coscienza stessa del popolo, alla esigenza delle  garanzie ai bisogni più elementari (equità fiscale, ordine  sociale) che la oligarchia  attua  più facilmente, ma che solo la monarchia è costretta ad assicurare in cambio della sottrazione della libertà (essa, anzi, offre di solito anche la esenzione dal servizio militare obbligatorio, mediante eserciti volontari, cioè  fatti di mercenari, indigeni o stranieri). Ripetiamo: la democrazia è il tipo di governo ideale, ma costa in energie morali ed in spese economiche ben più della oligarchia e della monarchia.  Ma si badi: trattandosi di tecniche di governo, esse rappresentano un bene secondario rispetto ai contenuti legislativi offerti alla società; per questo la loro intercambiabilità non deve far meraviglia, perchè nessuno dei tre metodi garantisce i beni spirituali e materiali più elementari per la convivenza di uomini in società. E’ ciò che sapeva già Erodoto (Storie, III, 80-3).

.

[28]  Secondo il “Diario” di Giovanni Burchhardt, maestro di cerimonie del papa, alla data 31 0tt0bre 1501, pur dopo l’uccisione del figlio prediletto Giovanni di Gandia (si sospetta, ad opera del fratello Cesare, detto il Valentino); dopo i propositi conseguenti di riforma anche nel “capo” della Chiesa (il papa,  dunque), si hanno testimonianze di orge oscene in Vaticano, con cortigiane nude alla presenza del papa, del Valentino e di Lucrezia (la figlia, cui egli aveva concesso il divorzio).

[29] PIETRO POMPONAZZI era nato a Mantova nel 1462: morirà a Bologna, suicida, nel 1525, dopo aver insegnato filosofia naturale (cioè scienze e fisica) a Padova, Ferrara, Bologna. Averroista, nel De immortalitate animae (1516) sostiene la tesi che l’anima è mortale,  perchè materiale, in quanto sempre legata ai sensi per le sue operazioni (la prova classica delle immortalità dell’anima si apppoggia, infatti, alla sua incorruttibilità perchè  indecomponibile, in quanto  ente spirituale; la spiritualità viene dimostarata con le operazioni di “astrazione, cioè capacità di  prescindere dai sensi” sia nel conoscere l’universale,  partendo dal particolari sensibili; sia nel volere, in libertà dalle sollecitazioni emozionali ed istintive, operando anche il contrario di quello che  quelle suggeriscono). Aggredito da più parti per empietà, si salvò per la protezione di P. Bembo e con l’appellarsi al principio della duplice verità (la Rivelazione può farci accettare per fede ciò la ragione o non sa dinmostrare o addirittura dimostra come opposto alla verità, razionale o filosofica, secondo  il paralogismo: “conviene che sia eretico in filosofia colui che desidera trovare la verità”). Altre opere, pubblicate postume, confermano il suo materialismo: De naturalium effectuum admirandorum causis, sive de incantationibus” (i miracoli sarebbero  puri fatti  naturali, che sorprendono solo per la ignoranza delle cause che li producono); De fato, libero arbitrio et praedestinatione (determinismo di tipo stoico nel funzionamento dell’universo, uomo compreso). Ma già ilTractatus de nutritione et augmentatione (1521) si rivela di ispirazione materialistica. A chi gli obiettava che la negazione della spiritualità-immortalità dell’anima conduceva alla distruzione dell’etica (basata sulla libertà interiore dell’uomo), egli rispondeva che la virtù è premio a se stessa, sicchè non occorreva un premio ultraterreno per giustificarla. His fretus, cioè con questi princìpi filosofici,  finì suicida...

[30] CARLO MARSUPPINI (genovese: 1398-1453). Insegnò nello Studio fiorentino greco e latino fino al 1444, per succedere poi al Bruni alla Cancelleria della città. Era subentrato, come si è detto, al Filelfo nel 1434 e con quello polemizzò non solo per scritti. Creatura dei Medici, ebbe protezione da Eugenio IV e da Niccolò V, ma di lui abbiamo solo traduzioni (Batracomiomachia: dal greco in latino) e  nessuna opera personale. Morì, poi, rifiutando i sacramenti.

[31] La edizione italiana ad opera della editrice Sansoni tradusse il titolo dell’opera in maniera da costituirne un tradimento: “La civiltà de Rinascimento in Italia”. Difatti la parola “cultura” è neutra, perchè non dà giudizi di valore; il termine “civiltà”, invece, conferisce un senso positivo e celebrativo al contenuto. Ora al Burckhardt si può rimproverare un eccesso di analisi  sulle capacità di sintesi e, quindi, la carenza di un giudizio  globale sul valore del periodo rinascimentale, pur esaminato  con documetata ampiezza di particolari; ma non gli si può addebitare la volontà di connotare soltanto positivamente il fenomeno rinascimentale. Troppe sono le pagine dedicate a passarne in rassegna anche i delitti e la scostumatezza. Ma la “Sansoni” apparteneva allora all’idealista Giovanni Gentile: l’ideologia prese il sopravvento sul culto dlela verità.

[32] Che il traguardo, iscritto nella logica della natura umana, della attuale riunificazione economico-politica dell’Europa sia quello della riaggregazione linguistica, culturale, etica e religiosa? Senza tale interiore riappacificazione potrà durare quella esteriore che troppo unicamente stiamo perseguendo? Che il principio cristiano più esposto alla emarginazione, più sconcertante e apparentemente più fabuloso, il primo ad essere sottovalutato e negletto, sia il dogma del peccato originale, senza del quale però la Redenzione di Cristo si riduce ben presto a pura dottrina consolatoria, senza il senso della tragedia del peccato e dell’epopea della carità divina che il fatto evangelico dell’incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione impongono? Ed infine: che ogni ricupero religioso e cristiano debba esplicitamente iniziare dalla ripresa di coscienza di un  tale dato della  fede, quasi costituisca un pilastro ineludibile della rivelazione ebraico-cristiana, senza tener conto del quale non si può giungere nè ad una valorizzazione adeguata della ricchezza di vita religiosa organica, associata quale  prevista dal Vangelo, nè ad una comprensione esauriente dell’uomo, esperta cioè  “e delli vizi umani e del valore”? (Inf. 26, 99). Il dogma del peccato originale costituisce quasi il punto di incontro fra l’Antico ed il Nuovo testamento, la linea di sutura tra la nostalgia della vagheggiata perfezione originaria umana e la umiltà della debolezza e fragilità costatate storicamente. Una tale fede può apparire sommamente ingenua se si pensa alla forma del racconto biblico nel terzo capitolo della Genesi,  ma risulta poi semplicemente necessaria a spiegare    la concreta natura dell’uomo, spirito e materia, sommamente deludente nella sua oscillazione fra l’ aspirazione alla onestà e la sorpresa del peccato, quasi  uno scapiglato dualismo  fra angelo e demonio. Che solo tenendo conto realisticamente anche di tale dato di psicologia si possa giungere ad una antropolgia autentica, ad una concezione  realistica dell’uomo singolo e della  società? Si può fondare stabilmente  la moralità personale e comunitaria,  senza un limite prudenziale nella fiducia  verso l’uomo, che faccia affidamento sulla redenzione perchè cosciente della ferita della colpa prima? Si può pervenire ad una   serenità di esistenza e coesistenza, ad una solidarietà che sia frutto dell’amicizia fra gli uomini e non pura esigenza di perequazione economica, senza far perno su un di più di saggezza, che in concreto deriva dalla dottrina della difformità dell’uomo storicamente esistente, rispetto all’ideale  integrità di quello filosoficamente  razionalizzato? Se la logica domina la vita umana singola ed associata e se la Storia è maestra di vita, allora anche la storia della cultura può essere la cartina di tornasole che rivela le leggi profonde dell’animo umano e del processo  evolutivo che vi ubbidisce; può diventare uno spiraglio da cui riconoscere la verità totale sull’uomo e le esigenze per la edificazione di un futuro più avveduto prima che più onesto, di una convivenza più  esperta prima che  più armoniosa. E una storia della Letteratura, benchè riferita essenzialmente all’analisi della componente emotiva  nella espressione dell’uomo in una determinata lingua, tuttavia non può spiegare tutte le sue componenti senza riferirsi anche alla evoluzione culturale della società verbale in mezzo a cui affiora: tout se tient; neppure la poesia è avulsa dall’ambiente  sociale da cui sboccia e di cui diventa testimonianza. Allora, come da un effetto secondario si indovina la causa, anche da una storia letteraria si può risalire ad una intuizione  della mentalità che caratterizza di tempo in tempo il cammino spirituale di una società, colorandone poi la sensibilità ed il costume morale. Anche la storia letteraria diventa una spia affidabile sulla natura dell’animo umano, sulle leggi della evoluzione sociale, sulla previdibilità dei risultati, una volta che siano presi in considerazione tutti i fattori del suo agitarsi ed agire,non esclusa la componente di insufficienza morale, che l’uomo della strada intuisce nella concreta maggior difficoltà ad operare il bene piuttosto che il male; e che il pensiero cristiano attribuisce a quel residuo del peccato originale che i teologi chiamano concupiscenza, cioè tendenza della sfera emotivo-istintiva ad entrare in azione al di fuori dei fini intrinsici, che la coscienza razionale  non può non costatare come loro giustificazione.Si veda, in proposito, B. Pascal, Les pensèes, 438: “Certamente nulla ci urta più fortemente di questa dottrina e, tuttavia, senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi restiamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge ed attorce in questo abisso, di modo che l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo”.

La nostra è una ipotesi di lavoro, certo, ma non manca di indizi notevoli a proprio favore. Rimaniamo nell’ambito letterario. E’ noto che Manzoni, prima della conversione  aveva aderito alle posizioni estreme della mentalità illuministica anche in sede religiosa. Questa, quando non era esplicitamente atea, era segnata clamorosamente dal rifiuto di ogni intervento di Dio nelle vicende del mondo, cioè dalla negazione della Provvidenza. Non è un caso che l’opera principale di Manzoni risulti “epopea della Provvidenza”: era il  segno sicuro della profondità della conversione operatasi nella mente dello scrittore milanese, una polemica inconscia contro il periodo  di apostasia nella propria vita, che  si era colorato specificamente colla negazione dell’amore di Dio provvidente, negazione comune al disorientamento   di quella società.  Alla pari, noi ci troviamo di fronte ad un movimento policromo e variegato come il Rinascimento: una delle sue caratteristiche è la scomparsa, dall’orizzonte  della coscienza, della dottrina del peccato originale anche nei migliori aderenti (si pensi al Moro ed al Castiglione). Sorge il problema: è questa  una  dimensione fra le tante o ne è la radice prima e la connotazione originaria? La risposta ce la dà Lutero e tutto il movimento evangelico del secolo XVI: l’estremismo ossessivo con cui i tre riformatori protestanti riabilitano  il posto del peccato originale nella fede cristiana trasforma il sospetto in certezza. Davvero questo è lo “straccio necrotico”, la carenza decisiva del pensiero rinascimentale od Umanesimo, rispetto alla fede cristiana, che pur quella società si illudeva di possedere ancora. 

 

 

[33]  Ermolao Barbaro, il giovane, veneziano, cugino dell’omonimo cugino, detto “il Vecchio” e vescovo di Verona, visse tra il 1453 o’54 e il 1494: freddo nel suo latino elegante, è interessantissimo nel contenuto delle lettere, avendo vissuto da diplomatico per Venezia. Fu poi eletto patriarca di Aquileia. Inutilmente, però, essendosi attirato l’inimicizia della patria per aver accettato doni -il patriarcato!- dal principe -il papa- presso cui era accreditato. Scrisse le Castigationes plinianae, dimostrandosi un esigente stilista e, come tale, rimasto famoso fin dentro il sec. XVII: Fu un aristotelico e tradusse opere del filosofo. Scrisse anche i trattati De coelibatu e De officio legati.

[34] Antonio Loschi, (Vicenza, 1368-1441), cancelliere di Giangaleazzo Visconti , fu amico del Bruni  ed aprì la stagione ciceroniana dell’Umanesimo con la Inquisitio”(commento di carattere retorico, cioè attinente le forme della oratoria) su undici orazioni dell’Arpinate. Scrisse pure delle Epistolae metricae a contenuto per lo più poltico; ed una tragedia Achilles di imitazione senechiana (composta circa il 1390, fu edita solo nel 1843).

[35] A parte le calunnie più oscene e disonoranti che entrano in queste invettive (cfr. V. Rossi, Il Quattrocento, Milano, F. Vallardi, c.III, La prosa oratoria), alcune osservazioni (specie del Valla) sono quanto mai pertinenti nei confronti del “latino” ,più poeticamente vivo che corretto, del Bracciolini. Quando il Valla  tratta  dell’esatto uso dell’aggettivo possessivo (“suus”  piuttosto che “eius” od “ipsius”) e del pronome riflessivo (“sui, sibi, se” ) nel tradurre il toscano “suo” ed “egli| gli” , tocca uno dei punti  dolenti  della sintassi latina.

[36] Ciriaco de’ Pizzicolli (detto” d’Ancona” dalla sua patria) visse fra il 1391 e il 1455. Illustrò il suo entusiasmo per la antichità classica con il viaggiare alla ricerca di cimeli d’arte, di codici  e di epigrafi, che descrisse poi nell’Itinerarium e nelle Lettere (edizioni rispettivamente nel 1742 e 1896).

[37] Il legame tra comportamento morale e successo, condotta immorale e fallimento esiste certamente, ma a livello globale, cioè sociale e strategico. Essendo l’agire morale semplicemente un comportamento pienamente umano, è ovvio che il carattere disumano dell’azione immorale, se esteso alla società  nel suo complesso, porta con sè  a lungo andare   le condizioni del fallimento.  Dove si devono notare varie circostanze. Se non è  la maggioranza della società a cercare il male, la virtù di molti può facilmente riscattare i vizi di una parte della comunità in esame; il rapporto “delitto e castigo”  ( e, viceversa, di “virtù e successo”),  proprio per questo groviglio di bene e male che di solito convivono in una società qualsiasi, lo si può dimostrare solo esaminando tempi lunghi della  storia di un popolo. Ancora: i valori morali sono certo quelli più decisivi per i risultati di civiltà e progresso (anzi, della  permanenza stessa) di una società, ma vi sono anche altri fattori (militari ed economici, soprattutto) che a lungo possono surrogare le componenti morali. Coi soldi si possono pagare, ad esempio, soldati professionali stranieri per supplire alla codardìa del popolo a difendersi in guerre doverose contro ingiusti aggressori; o, viceversa,   un’esaltazione di vittoria o una competenza di belligeranza,  in un popolo corrotto, può aver ragione di nemici moralmente migliori, dominarli, sfruttarli, sostenersene almeno finchè la immoralità non raggiunga anche la distruzione dell’amor proprio e renda maliziosamente avveduti a non rischiare la vita per sostenere l’impero del proprio popolo. Si legga, nella chiave dei princìpi qui offerti, la evoluzione della crescita, crisi e decadenza del popolo romano.

Dal punto di vista religioso, invece, non si può presumere di leggere nel fallimento di un malvagio la sua necessaria punizione, chè Dio punisce e premia nell’Aldilà: sulla terra anche il dolore dell’insuccesso  è puro richiamo alla conversione ed ammonimento generale che non sempre il male ottiene un premio, neanche  in questa vita. Per ciò stesso, nè sempre i delitti generano il fallimento nè la virtù morale basta a garantire il successo. La loro relazione può sembrare casuale e irrazionale, ma può essere letta come provvidenziale per ottenere il miglior risultato morale pel singolo uomo, come per la comunità in cui vive.

[38] Vi è anche un altro genere di composizioni in cui gli Umanisti furono famosi, quello delle orazioni,  cioè i discorsi: da quelli politici a quelli funebri. Buonaccoso da Montemagno ( morto nel 1429 a meno di 40 anni) ne scrisse per esercizio retorico di famose, in favore di Catilina e contro Cicerone (pro L. Catilina contra M. T. Ciceronem) e pare siano sue anche quelle pronunciate dal Porcari in lode della Giustizia, che ebbero, fin dentro il Millecinquecento, gran fortuna. Due ci rimangono di Lapo da Castiglionchio (morto a 33 anni nel 1438), assieme ad un dialogo De curiae commodis. Il Bracciolini scrive le orazioni funebri per il Niccoli, l’Albergati, il Bruni, il Cesarini; Ludovico Carbone da Ferrara (1435-82), discepolo del Guarino e lettore nello studio della città natale,  fu incaricato dell’orazione funebre per il maestro (ci ha lasciato anche le Facetiae, come già visto); Cristoforo Landino tiene elogi funebri per Neri Capponi, per Donato Acciaiuoli, per Giordano Orsini. Il Platina indirizza a Pio II un’orazione De laudibus bonarum artium (1464). Il Poliziano scrive sermoni sacri e politici.

[39] Ha senso un simile giudizio? Non sarà mica dettato da  repulsioni morali, per caso? Non ci pare proprio. Un parallelo lo si può trovare in Giovanni Prati, nella seconda scuola romantica dell’Ottocento italiano. Come aveva subito intuìto il Manzoni (cui il Prati aveva inviato versi per un giudizio) egli possedeva una facilità musicale davvero geniale,   ma mancava di idee. Il risultato fu quella produzione misera che accarezza l’orecchio (nel caso del Prati, siamo all’opposto del musicalismo beccadelliano: tanto è forte ed esultante questo, quanto è dolce e  dimesso quello) ma, in entrambi i casi,  non rimane nella mente e nel cuore.

[40] E’ stato l’autore di Roman Vergil (W. F. G. Jackson Knight, London 1944: tradotto da Longanesi) ad intuire l’impatto sulla poesia  latina dei versi omodinici ed eterodinici. I primi sono quelli in cui l’accento tonico delle parole coincide con l’accento ritmico del verso; viceversa, i secondi. Ora la coincidenza degli accenti tende ad addolcire il verso, rendendolo facilmente disponibile ai toni contemplativi dell’idillio e dell’ elegia; viceversa l’urto degli accenti  nei versi eterodinici li rende più aperti alle tonalità drammatiche (epopea e tragedia). Naturalmente l’incapcità a creare versi omodinici quando  ci si ispira a tematiche idilliche,  (e viceversa),  ne rende quasi impossibile la espressione poetica. I sentimenti restano velleitari e non si comunicano come emozioni al lettore. O meglio, la mancanza di sublimazione dei sentimenti in emozioni pure non permette di trovare l’intonazione indovinata del verso  .

[41] Niccolò Niccoli, interlocutore dei  Dialogi ad Petrum Histrum (di Leonardo Bruni), riporta nel secondo libro tale giudizio che finge di far proprio, salvo poi a dichiarare di aver voluto solo stuzzicare la convinzione opposta del Salutati, che non si decideva a metter fuori le sue idee favorevolissime agli scrittori fiorentini.

[42] Nasce nel 1357 a Firenze da madre veneziana (Paola Zorzi): il padre morì prima che egli venisse alla luce. Morirà a Buda in Ungheria nel 1419. Nel 1357 è accolto a stento fra i Domenicani di S. Maria Novella, perchè balbuziente e carente di istruzione. Guarito dalla balbuzie nel 1381 (per intercessione di S. Caterina da Siena), divenne grande predicatore e dotto tra i più stimati. Inviato a Venezia, inizia la riforma dei conventi domenicani, attirando molti discepoli in quelli dei SS. Giovanni e Paolo e di S. Domenico in Castello, nonchè in quello femminile del Corpus Domini (vi entrerà anche la madre). Nel 1399 abbandonò Venezia, perchè si era lasciato coinvolgere nel “Movimento dei Bianchi” (un ultimo guizzo del fervore popolare con processioni e pubbliche penitenze, quali erano iniziate nel Milleduecento), movimento partito da Chieri e propagatosi in tutta Italia alla fine del secolo XIV, con effetti di pacificazioni cittadine ma anche di fanatismi poco graditi alla ordinata repubblica veneziana; finirà con la peste del 1400). Tornato a Firenze, ebbe incarichi dalla Signoria, inviasto a Roma per impedire la nomina del nuovo pontefice (era tempo di scisma), ma si comportò così bene che Gregorio XII, neoeletto, lo fece vescovo di Ragusa e cardinale. Riuscì, poi, a persuadere lo stesso Gregorio a dare le dimissioni, aprendo così la via al Concilio di Costanza ed alla fine del grande scisma d’Occidente. A Costanza, il Concilio gli confermò il cardinalato, cui egli voleva rinunciare: Martino V  lo inviò come pacificatore degli Hussiti in Boemia ed Ungheria. Morì a Buda nel 1419 o 1420.

 

 

[43] Gerolamo Savonarola visse tra il 1452 ed il 1498. Ferrarese di nascita, aveva però ascendenti padovani.Il nonno Michele era medico alla corte estense, al cui servizio stava anche il padre di Gerolamo, Niccolò, uomo però di non grande levatura mentale. Gerolamo, terzogenito di sette figli, entrò una sola volta a corte e non ci volle mai più rimettere piede: si è già detto dei costumi corrotti di Borso d’Este. La canzone De ruina mundi, scritta a vent’anni, è già sulla linea delle prediche degli anni fiorentini. Mette innanzi, sia pure per rifiutarla subito, la tentazione di negare la Provvidenza divina, perchè il mondo gli sembra troppo malvagio: “Se non è pur vero e così credo,|Rettor del mondo, che infinita sia| Tua provvidenza....| talor saria via più che neve fredo| vedendo sottosopra volto el mondo,| et esser  spenta al fondo| ogni virtute et ogni bel costume...”. Apprese le “lettere” (col Guarino?), egli interrompe a 23 anni la carriera degli studi medici per fuggirsene –letteralmente- a Bologna presso i Domenicani, scrivendo di là ai genitori una prima lettera amorevole: visto che essi lo reclamano a casa, egli ne scrive una più forte e recisa, onde quelli mettessero il cuore in pace. Nè pensava a divenire sacerdote: gli bastava essere fraticello umile e laborioso. Non gli fu permesso. Divenuto padre, ebbe l’incarico di lettore (insegnante) per il convento di S. Marco in Firenze: entrava nella città nel 1482. Ebbe successo tra i confratelli, ma meno tra la popolazione, quando predicò vari cicli sia in città che in contado. Chiamato allo Studio generale dell’ordine, rimase a Bologna solo per un anno (1487-8), dopo di che fu predicatore In Alta Italia (da Genova a Brescia: in questa città predisse, nel 1489, il saccheggio che sarebbe avvenuto però nel 1512). Da Genova venne fatto tornare a Firenze nel 1490, per volontà di Lorenzo il Magnifico, cui lo aveva suggerito Pico della Mirandola. Questa volta l’efficacia delle sue prediche non ebbe paragone: cominciò dal commento della Apocalisse e continuò con libri dell’Antico testamento. Ne derivò anche la elezione a “priore” del convento, con il consenso di Roma a staccarlo dalla provincia di Lombardia : divenuto del tutto indipendente, era fatto guida di altre sedi domenicane in Toscana, a cominciare da Fiesole. Egli li riformò secondo le sue direttive ascetiche e introdusse in San Marco “un ordine quasi divino”. Ben presto il Magnifico Lorenzo dovette pentirsi della chiamata: dal pulpito il Savonarola fustigava i potenti del mondo ecclesiastico e politico italiano. Nella foga polemica non c’era, inconsciamente, un sottrarsi al dovere antipatico di predicare per i fedeli presenti, in nome di una presunta vocazione a correggere i grandi lontani, sempre un po’ invisi alla massa, contenta di sentirsi migliore e non coinvolta nelle condanne del predicatore violento? Non era un inconscio delitto di sollecitazione all’odio ed alla irrequietezza civile? Non era allora il contrario di quanto avevan  fatto San Francesco e Caterina, che  cercavano di rappacificare, non di dividere le cittadinanze? All’invito fattogli pervenire, attraverso mediatori illustri, di moderare la sua predicazione, egli rispose con sicurezza: “Rispondete a Lorenzo de’ Medici che lui è fiorentino e il primo della città et io sono forestiero e povero fraticello. Nondimeno ditegli che lui dovrà partirsene et io ci ho a restare”. Nell’aprile dell’anno seguente, il 1492, il Magnifico, avviato a celere morte, chiamava il domenicano di S. Marco, che era divenuto priore senza far l’atto di omaggio abituale a casa Medici (la quale aveva pur ricostruito e trrasformato il convento  con propri danari, spendendovi almeno 36.000 fiorni...) La tradizione di Pacifico Burlamacchi (1465-1519), mercante lucchese fattosi domenicano, afferma che al Magnifico fosse negata l’assoluzione per aver rifiutatodi restituire la libertà a Firenze. Ma non è la tradizione più accettata: il Burlamacchi era forse troppo devoto del confratello e non risulta sempre attendibile. Come è semplice tradizione non storicamente controllabile che, a Bologna, nella Quaresima dell’anno 1493 egli predicasse contro la procace moglie del signore della città, un Bentivoglio, presente alla predica in gran pompa. Egli si illuse che, come gli era riuscita la riforma del convento fiorentino dei Domenicani, così potesse fare per Firenze tutta e, da lì, irradiare sull’Italia  intera una vita cristiana ideale, conforme a quella dei primi tempi della Chiesa in Gerusalemme (dimenticando il fallimento del comunismo economico di quella comunità e il groviglio di problemi cui la prima comunità di Corinto metteva di fronte S. Paolo...). Morto il Magnifico nel 1492, egli si trovò di fronte alla invasione di Carlo VIII (1494), che mise in fuga Piero, il figlio di Lorenzo, e riportò Firenze a libertà. Al Savonarola riuscì di orientare il governo in senso latamente democratico, impedendo il ritorno alla stretta oligarchia degli “Arrabbiati”, che volevano sostituirsi ai “Bigi compagnacci” , rimasti fedeli ai Medici. Il frate non desiderava entrare in politica, ma vi fu trascinato dagli avvenimenti. Egli aveva predetto l’arrivo di un novello Ciro a liberare la Babele cristiana dalla corruzione, sicchè sembrò aver profetato l’avvento di Carlo VIII: sia lui che i “Piagnoni” (“piagnona” era detta la campana di San Marco) rimasero tenaci nel voler alleare i gigli rossi di Firenze con quelli bianchi di Francia, fino a Pier Soderini (uomo savonaroliano, nonostante che facesse parte del suo governo un Machiavelli).  Al momento, il Savonarola  fu parte dell’ambasciata che andò a Pisa a trattare del passaggio dell’esercito francese per la Toscana. Fu anche merito suo (del suo intepretare come provvidenziale la venuta del re di Francia), oltre che alla decisione di Gino Capponi (“Noi suoneremo le nostre campane”), se Firenze evitò la occupazione e se la cavò con una taglia di 120.000 fiorini d’oro. Al nuovo governo fiorentino Savonarola dava, su richiesta del gonfaloniere Salviati, il “Trattato del reggimento e governo della città di Firenze”, che prevedeva una costituzione vicina a quella veneziana (1498:  fu l’anno della sua morte...). La disfatta di Carlo VIII e la pertinace fedeltà di Firenze savonaroliana alle sconfitte ambizioni della Francia (“gigli con gigli debbono unirsi”) preparò la sconfitta del frate, che commise altre imprudenze per accelerarla. Egli si mise infatti a predicare contro i prelati  della Chiesa: che era, a dir poco, controproducente per lui, religioso; ed era, moralmente, riprovevole (nell’Antico Testamento, la maledizione di Noè contro il figlio Cam che lo aveva deriso ubriaco e, nel dialogo platonico “Eutifrone”, la saggezza di Socrate,insegnano a non contestare pubblicamente i genitori o legittimi superiori). Ne coseguì una prima citazione a Roma: Savonarola vi si rifiutò in nome della cattiva salute e del pericolo di aggressione ed uccisione da parte sia di filomedicei che di “arrabbiati”. La predica del 28 luglio 1495 conteneva l’invito alla signoria ed ai magistrati (presenti in Duomo in forma ufficiale) a mettere a morte i nemici di Dio e della repubblica. Il papa, saputa la cosa, confermò con un nuovo “breve” l’ingiunzione a scemdere a Roma, additando nel domenicano un seminatore di false dottrine e, con ciò stesso, ritirando l’accettazione orale delle scuse del Savonarola, manifestata  pochi giorni prima. Seguirono invece, nell’ottobre di quell’anno, nuovi inviti alla violenza politica per stroncare tentativi al ritorno di Piero di Piero de’Medici. Egli parlava collegando fede religiosa e fede nel regime repubblicano quasi fossero due verità paritetiche e coessenziali! La fede nella libertà politica diventava un articolo di fede cristiana... Contemporaneamente, il papa toglieva al convento di S. Marco la sua autonomia e lo riaccorpava alla congreazione lombarda, trasferendo alcuni padri al convento di Bologna. Ma una risposta pacata del Savonarola ancora una volta indusse Alessandro VI a recedere dai provvedimenti con un decreto del 16 ottobre 1495: che proibiva però al Savonarola di predicare. Il che egli fece appena conobbe il testo del breve, giunto a Firenze tre giorni dopo la data di proibizione. Fu la signoria che, dopo aver messo una taglia di 4.000 fiorini sulla testa di Piero de’ Medici che aveva tentato di rientrare in città, intimò al frate di riprendere la predicazione nella Quaresima del 1496: il 17 febbraio egli risalì sul pulpito e predicò con allusioni patenti alla vita scandalosa della corte di Roma. Il papa tentò di lusingarlo con l’offerta del cappello cardinalizio? In una predica dell’agosto, egli pare alludere ad un suo rifiuto: “Io non voglio cappelli, non mitre  grandi nè piccole; non voglio se non quello che Tu hai dato ai tuoi santi: la morte: un cappello rosso, un cappello di sangue: questo desidero”. Con simili presentimenti aveva già scritto alla madre nel 1495. Gerolamo intanto parlava  sulla  possibilità di disubbidire al papa, se gli ingiungesse qualcosa che alla sua coscienza apparisse contraria alla carità od al Vangelo (“Tu ora non sei pastore, tu non sei romana Chiesa, tu erri...Oportet magis oboedire Deo quam hominibus...”).  I giovani savonaroliani intanto, per attuare la riforma in città, percorrevano le strade cantando inni spirituali e  penetrando a forza nelle case, a togliere quadri osceni, libri licenziosi, dadi, carte, parrucche, belletti... Fra i seguaci, troviamo Pico della Mirandola (che morì il giorno stesso –17 novembre 1494- che i gigli bianchi di Carlo VIII entravano in Firenze), Michelangelo Buonarroti, il Poliziano e Sandro Filipepi detto Botticelli, i fratelli Andrea e Ambrogio della Robbia, Marsilio Ficino (solo per qualche tempo), Domenico Benivieni (poeta petrarcheggiante e platonizzante, vissuto fra il 1453 e il 1542 e amico del Ficno e di Pico; è autore, oltre alla produzione petrarchesca di gioventù, della “Canzone dell’amor celeste e divino”)... Gli riuscì, in questo tempo, ad istituire anche il Monte di pietà, per prestito ai poveri su pegno, ad interessi modestissimi. Nelle prediche del 1497 (commentava il profeta Ezechiele), il tono si eleva: le accuse contro la corruzione del clero e della curia romana si accrescono. Finita la Quaresima, nella signoria ai Piagnoni subentravano gli Arrabbiati ( i Medici avevano effettuato un altro tentativo di entrare in Firenze, fallendo di nuovo: per  forza di abbrivo, la massa degli elettori si spostò verso i vincitori, gli oligarchici avversari dei Medici). Durante una predica in S. Maria del Fiore, il giorno dell’Ascensione, avvengono tumulti che gli impediscono di finire la predica. Lo sconsigliano di tenerne altre. 

[44] Dalla scomunica alla morte. Papa Alessandro VI scaglia la scomunica contro il Savonarola, indirizzandola ai Serviti della chiesa dell’Annunciata di Firenze ed a qualche altro convento: inutile mandarla al Savonarola, che aveva già preannunciato di non riconoscerla. Nel frattempo egli ha composto la sua opera spirituale maggiore: il Triumphus crucis. Ma essa si ritorce contro di lui, perchè termina con l’affermazione del primato di Pietro e successori, cioè con la verità cattolica che egli calpestava nella pratica. Anche pel resto, l’opera era così sicura nella dottrina, che fu adottata come testo per i seminaristi del collegio De propaganda fide, in Roma! Ciò che gli mancava era la umiltà: un inconscio orgolio caratterizza la sua predicazione. Anzitutto egli attacca superiori ed assenti, cioè predica per avere successo presso il pubblico presente. In secondo luogo egli si presenta come profeta, in nome di predizioni generiche, viste come realizzate in avvenimenti specifici: aver  preannunciato l’avvento di un Ciro liberatore poteva essere frutto di impazienza contro la corruzione del tempo e pretesa fiducia nella Provvidenza divina; l’averlo visto avverato nella discesa di Carlo VIII fu un abbaglio grottesco, dettato dalla convinzione (ingenua e orgogliosa) di averlo in qualche modo predetto. Se poi si scorre la predica del 18 marzo 1498 (conosciuta come “il sermone d’addio”), ci si accorge che il pronome “io” vi predomina in misura sconcertante: Savonarola, commentando Geremia, predica se stesso, non il Vangelo! Il pronome di prima persona singolare vi ritorna decine e decine di volte... Era questo il segreto del suo fascino sui seguaci ingenui ed emotivi: egli li legava a sè, non al Signore: egli aveva avuto ragione molte volte; dunque egli era nella retta via anche contro il papa.

Savonarola, in San Marco e da San Marco con lettere (in volgare: a tutti i cristiani e diletti di Dio; e in latino: “Contra sententiam excommunicationis”) e con prediche appella ai capi delle nazioni ed al Concilio contro il papa. Se nel maggio il Savonarola veniva scomunicato, nel giugno moriva il figlio maggiore del Borgia, Giovanni, duca di  Gandia (pare su mandato dell’altro figlio, Cesare). I propositi che ne seguirono, di purificazione della Chiesa a partire dal capo, cioè dallo  stesso papa, si dissolsero nella concessione del divorzio alla figlia Lucrezia dal marito Giovanni Sforza, per mandarla sposa ad Alfonso, duca di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II di Napoli. Tre signorie consecutive “piagnone” (favorevoli al Savonarola) si succedettero dal luglio al dicembre 1497  e, poi, ancora nei primi mesi del 1498 (due mesi ogni signoria! cfr: Purgatrio, 6, 127-151) , ma i loro tentativi di ottenere il ritiro della scomunica caddero davanti alla richiesta del papa che il Savonarola fosse lui a richiedere l’assoluzione, dichiarandosi così colpevole. Il domenicano intanto predicava la invalidità della scomunica e la proibizione del vicario episcopale  alla sua predicazione era superata dal sostegno della signoria a lui favorevole. A carnevale 1498 ci fu il successo finale del frate: il secondo e più clamoroso bruciamento delle vanità. Le prediche, ormai subito stampate in opuscoli, facevano ancor più rumore: Alessandro VI vi era chiamato “un ferro rotto” e il papa stavolta ne divenne furioso. Se la signoria non mise in atto il Breve del 26 febbraio che ripeteva ordini e proibizioni già impartiti al frate, i canonici del duomo ne tennero conto: il Quaresimale, iniziato  in S. Maria del Fiore, dovette essere continuato, dopo solo tre sere, in S. Marco. La signoria fu poi scossa da un nuovo Breve del 9 marzo, che minacciava la città di interdetto: stavolta essa cedette e proibì al Savonarola di parlare dal pulpito anche in S. Marco. Il 18 marzo parlò l’ultima volta, con quel sermone in “io” che abbiam detto testimonianza di un orgoglio che solo la limitatezza intellettuale dell’autore poteva ignorare: penso che il “sermone di addio”  sia un ostacolo grave ad una sua eventuale riabilitazione etico-religiosa. Ma egli fece di peggio: scrisse lettere ai principi cristiani per far deporre il papa mediante un concilio. Una copia, intercettata dagli agenti di Ludovico il Moro e fatta conoscere a Roma dal card. Ascanio Sforza, sarebbe bastata (con le idee di allora) ad un processo per eresia con la condanna al rogo. C’era, però, il favore popolare che impediva, per ora, una simile tragica conclusione. A smantellare una tale difesa provvide un fanatico seguace del Savomarola, Domenico da Pescia, che ebbe la ingenuità di accettare la sfida del frate francescano Francesco di Puglia per la “prova del fuoco”. Benchè contrario ad una simile pratica, il Savonarola la lasciò tentare al confratello imprudente. Nel frattempo, in base alla legge psicologica per cui la massa segue il più forte e abbandona chi comincia a perdere, la nuova signoria ( del bimestre marzo-aprile 1498)  riuscì sfavorevole ai savonaroliani e pensò di servirsi della sfida a danno del frate domenicano. Una simile  scommessa, si noti, era una colpa grave contro il secondo comandamento, perchè equivaleva a“tentare Dio”, cioè a pretendere che Dio intervenisse col miracolo a salvare dal fuoco chi, dei due sfidanti che attraversavano uno stretto passaggio circondato da fiamme, fosse innocente e nel giusto, lasciando invece  bruciare il colpevole. Papa e cardinali furono subito contrari, trattandosi di un residuo di barbarie germanica, mai accettata dalla Chiesa come lecito. Ma la lettera di Roma che proibiva la sfida giunse (o fu detta essere giunta?) dopo il 6 aprile, in cui la prova era iniziata e interrotta scandalosamente. A parte infatti un breve temporale, subito scioltosi senza impedire la accensione del fuoco, furono messe in campo cavillazioni sia da parte del francescano sia della signoria, che fecero fallire la prova. Immaginarsi: i francescani esigettero che frate Domenico da Pescia (il sostituto del Savonarola, che ra  presente col SS. Sacramento, quasi ad una processione) si mutasse tutte le vesti, per paura che fossero affatate! A questo modo la sfida si protrasse inutilmente tutto il giorno ed alla sera la signoria fece sospendere ogni cosa. Due giorni dopo, la Domenica delle palme, i “compagnacci” perturbarono la predica di un fido compagno del Savonarola, che parlava in duomo e poi diedero l’assalto al convento di S. Marco. Il Savonarola sconsigliò la resistenza fisica, ma alcuni frati la praticarono e ne risultarono parecchi  morti, mentre egli processionava , con i frati fedeli a lui, sotto i portici del convento. Furono arrestati lui, Domenico da Pescia ed il timido ed incerto fra Silvestro Maruffi. Saranno processati con tortura: Savonarola cede qualche volta, ma poi disdice fuori dei “tratti di corda” che lo disnodano. Si inventano allora accuse di eresia e di finalità personali al dominio sulle anime. Il papa chiese si trasferisse il processo a Roma, ma la signoria obiettò, sapendo che ne sarebbe uscita infamata; il papa mandò allora commissari che assistessero al processo ed esecuzione. Stavolta i tre frati furono interrogati pubblicamente dal 20 al 22 maggio: condannati a morte per impiccagione (e, poi, arsi i cadaveri) la sentenza fu eseguita il giorno dopo, 23 maggio. Prima di esser condotto al patibolo pare proprio che facesse la profezia, dopo un breve sonno nell’attesa, che un papa di nome Clemente avrebbe fatto soffrire Firenze (sarà Giuliano de’ Medici, divenuto papa Clemente VII, che farà riconquistare Firenze dalle truppe imperiali negli anni 1527-30): Fu sconsacrato ed assolto. Salì la scala recitando il Credo. Le ceneri furono sparse in Arno.

[45]  La “fortuna” del Savonarola. La sua “santa repubblica” rivisse nella gloriosa resistenza contro il ritorno dei Medici, negli anni 1527-30: Fu la “repubblica di Cristo re”  del “Rex  regum et Dominus dominantium” (re dei re e Signore dei signori).  Ma già prima, la repubblica di Pier Soderini riuscì complessivamente “piagnona”, anche se ebbe il torto di ospitare il concilio  antipapale indetto da Luigi XII di Francia contro Giulio II (al tempo della “guerra santa”); e l’altro torto, di avere fra i suoi membri il Machiavelli... Santi come Filippo Neri e papi come Benedetto XIV lo venerarono come martire; Lutero lo dichiarò invece suo precursore. Tutto sommato, non fu eretico, ma ribelle. Anima tormentata e tormentatrice, fu un disequilibrato capopopolo: asceta eccessivo, trascinatore emotivo, ingenuo egotista. Noi gli obiettiamo anche l’oblio del peccato originale, che fu il punto di disorientamento per Lutero e quello che  fondava  l’Umanesimo in cui lui sospettava non a torto un pericolo gravissimo per la cristiana civiltà.

[46] Per sè, “Cantare” è la parte che il poeta-recitatore declamava in una seduta al suo pubblico: è una specie di divisione in “canti” o capitoli del poema tutto, che poi prese anche il nome di “cantare” in tutta la sua estensione.

[47] La novella di Bocaccio IV, 1, presenta la figlia del principe Tancredi, Ghismonda, che si uccide quando il padre sopprime il suo amante Guiscardo.

[48] Si noti il ritorno di tale condanna della società rinascimentale che  è presente in Erasmo (Elogio della pazzia), nell’anonimo autore della Nave dei folli e, in forma meno violenta, nella Utopia di Moro.

[49] Anticipiamo un rimando ai versi di Giuseppe Gioachino Belli, poeta romanesco del Milleottocento, perchè anche in lui l’incertezza ed oscillazione fra “ammirazione, compassione e  divertimento” di fronte  alla mentalità e condotta della plebe romana nel suo tempo, si riduce ad una specie di disimpegno emotivo ed conclude allo stesso fallimento della produzione complessiva dei suoi sonetti.

[50] Altri esponenti di poesia popolaresca non hanno grande importanza. Ne diamo qualche nome e notizia. Francesco Bello (od Orbo , detto “il Cieco da Ferrara”, anche se , più probabilmente, era fiorentino) fu autore del poema “Mambrino” (il nipote del re Mambrino cerca di vendicarne la morte su Rinaldo). Vincenzo (de’) Colli, detto il Calmeta, nato a Isola di Schio (Vicenza), visse tra il 1460 ca ed il 1508). Fu a servizio di vari princpi (anche del Valentino ) e principesse. Più che per le sue mediocri rime o pel trattato (perso)  I nove libri della volgar poesia, in cui tenta risuscitare la dottrina dantesca del “volgare illustre”, appoggiandola alle corti più in vista; o per il poemetti I Trionfi (di chiara imitazione petrarchesca) che celebra Beatrice d’Este di cui era stato segretario, interessa oggi il suo senso critico che ci rivelano “Annotazioni e iudìci”, (pubblicati in “Prose e lettere, nel 1959) in cui chiama al tribunale della propria sensibilità poeti antichi e contemporanei. Stronca, fra gli altri, il Tebaldeo: troppo giustamente!

Panfilo Sasso (Modena, 1455-1527), pubblicò la sua Opera nel 1501 coi soli sonetti ed egloghe, ma si vide pubblicare senza autorizzazione gli Strambotti, di cui fu ricco compositore. Già barocco e concettista, fu stroncato dal Calmeta.

Gaspare Visconti (Milano: 1461-1499). Scrisse un poema in ottave (Di Paulo e Daria amanti) ed in ottava rima scrisse  una commedia (Pasitea); pubblicò i Rithmi (243 sonetti e 2 sestine con in appendice un Transito di Carnevale). Esistono di lui altre rime numerosissime, ma inedite e giunte a noi nell’autografo.

Bernardo Bellincioni (fiorentino al servizio degli Sforza: 1452-1492). Padrone sicuro della lingua e del verso, ammassò sonetti (con o senza coda), capitoli, canzoni, sestine, canzonette, elegie funebri, commedie da mettere in scena, frottole... Ma la stessa facilità fu la sua rovina: manca la decantazione  razionale, sicchè la troppa estemporaneità lascia tracce di passionalità, di superficialità, di intenti pratici (specialmente la totale dedizione alla propaganda politica dei suoi signori milanesi, magari alleati alla signoria di Firenze, dopola fuga di Piero con la calata di Carlo VIII).

Niccolò Postumo da Correggio (1450-1508) fu parente degli Estensi e scrisse le Rime (sonetti, capitoli, canzoni), con vasta apertura di motivi ispiratori,  ma con la convinzione precisa della esemplarità petrarchesca e della raffinatezza che tale modello imponeva (esclusione delle composizioni più popolareggianti come strambotti, madrigali, ballate, barzellette). Compose pure un poemetto autobiografico (Psiche: in ottave) e la Favola di Cefalo (in ottave, inframezzate di canzonette e terzine: rappresentata come favola scenica, è il secondo dramma in volgare, dopo l’Orfeo del Poliziano). Vi sono, dunque,  in lui forti note di classicità.

Pandolfo Collennuccio (Pesaro, 1444-1504). Fu a servizio di vari signori, avendo incarichi diplomatici da Lorenzo il Magnifico, da  Ercole I d’Este e da Giovanni Sforza. Questi lo fece poi imprigionare e  decapitare, vuoi perchè aveva collaborato col Valentino o forse perchè era al corrente di come lui era giunto al potere per vie infamanti. Fu scrittore vario. Mise in versi un Protesto (discorso di intronizzazione di un magistrato); scrive un capitolo sulla coltivazione del melarancio; cerca di dar veste dignitosa alla sacra rappresentazione   con la commedia Vita de Iosep figliolo de Jacob; scrisse rime, fra cui (mentre aspettava l’esecuzione) la Canzone alla morte, che tanto piacque al Leopardi per la sua tristezza. Aveva tradotto per Ercole d’Este l’Amfitrione  di Plauto e scritti due dialoghi in volgare (Filotimo,che celebra l’attività umana e la vita civile; e Specchio di Esopo, in cui introduce Esopo ed Ercole, Plauto e Luciano a celebrare la virtù e la verità), dopo averne composti quattro in latino, tutti di stampo lucianesco (Apologi: Agenoria, Alithia, Misopenes, Bombarda), in cui esalta ancora la vita civile contro l’ipocrisia e l’ozio dei frati!  Apprezzata dagli uni e criticata da altri è il Compendio de le istorie del Regno di Napoli (da Alarico ad Alfonso d’Aragona). In latino scrisse pure una Pliniana defensio (contro Niccolò Leoniceno). Ci siamo dilungati su questo scrittore, perchè è un segno dei tempi a livello letterario: egli, amico del Magnifico, del Poliziano e di Pico, ma educato al culto  degli autori classici, si barcamena fra le due lingue, quella toscana e quella ltina; e fra i due spiriti, quello popolaresco e trecentesco e quello umanistico e rinascimentale.

 

[51] Per un quindicennio dopo la morte di S. Bernardino, francescano, predicherà con efficacia apostolica a Firenze  il domenicano S. Antonino, fatto vescovo della città natale. Nato da famiglia notevole (Pierozzi) nel 1389, discepolo del Dominici, vescovo dal 1446, aveva avuto il favore di Cosimo de’Medici, che facilitò il passaggio del convento di San Marco dai Silvestrini ai Domenicani, sborsando 36.000 fiorini per ristrutturarlo e farlo degno  di Firenze. La gloria maggiore di S. Antonino è quella di “pastore”, come confessore e consigliere,  come educatore del clero e organizzatore della disciplina eccelsiastica (sinodo del 1451), come soccorritore dei poveri (istituì i Buonomini di S. Martino, per i bisognosi di ogni genere). Non scrisse poco, ma per lo più furono opere in latino, nella scienza morale e nella casistica storica delle leggi: la Summa moralis, che gli attirò il titolo di “Antoninus consiliorum”, non era un trattato sistematico, ma un libro colmo di prudenza umana, di sapienza cristiana e di scienza teologica. Fu edita venti volte integralmente, fino al 1740 e dieci volte antologicamente fino al 1741. A questa “somma di regole” egli affiancò una “summa historialis”, cioè una specie di “Digesto eccelesiastico”, che raccoglieva la soluzione dei “casi di coscienza” secondo la prassi formatasi lungo secoli di riflessione da parte di dottori e di pastori (la “casistica” morale è parallela a quella giuridica: è la ricerca del risultato dell’inconctro fra due leggi od obbligazioni morali diverse, come potrebbe essere tra giustizia e  misericordia nel caso del perdono per offesa o danno subito; o tra  severità e dolcezza nell’educare i figli; o tra prudenza e  magnanimità nell’assumere un ex carcerato al proprio servizio...). La “summa historialis” ebbe presto il nome di “Chronicae” , con 17 edizioni entro il 1587 (la casistica diventa facilmente “datata” cioè riferita a costumi che le generazioni superano e diversificano nei particolari). Ma scrisse anche cose in volgare. Un libro solo (“Opera a ben vivere”, dedicato alle sorelle Tornabuoni Dianora e Lucrezia (quest’ultima, madre del Magnifico); e 24 lettere. Piero Bargellini, nella sua biografia di S. Bernardino (p. 256) dice che tali opere  del santo vescovo di Firenze sono letterariamente valide come le lettere della Macinghi Strozzi, le prediche del santo senese e la Vita del Colombini.

[52] Lettere di carattere opposto scrisse Rinaldo degli Albizzi, membro della famiglia che, con i “da Uzzano” ed i “ Capponi”, governava praticamente Firenze dopo la repressione del tumulto dei Ciompi. Firenze era “democratica” solo di nome ed il potere era di fatto oligarchico, cioè in mano alle famigli borghesi più ricche. Nei tempi in cui Niccolò da Uzzano dominava nella signoria, prima dell’avvento dei Medici, ebbe incarichi di ambascerie che egli chiama più genericamente “Commissioni”. Le lettere-referti con cui rendeva atto alla signoria dell’andamento ed esito della amasceria, sono un modello di discreta lingua fiorentina, anche se di una aridità professionale, tecnica, asettica, si potrebbe dire “ascetica”. Non si sente vibrare alcuna partecipazione del cuore, del sentimento: potrebbero far da modello ad una  stesura ancor più coerente dei Commentari di Giulio Cesare! Proprio per questo le “Commissioni ” appartengono alla storia politica ed a quella linguistica, non a quella estetica della letteratura italiana. Tanto che la sua prosa non ha neppure la duttilità, la modernità del fiorentino illustre sì, ma aggiornato (quello parlato dalle classi istruite, ma con gusto artistico, con un po’ di poesia nel sangue). Espulso nel 1434 al rientro di Cosimo de’Medici, morì in esilio ad Ancona nel 1442.

[53] Luca Pulci (1431-1470), fratello maggiore di Luigi, morirà in prigione per debiti a 39 anni... Anche lui aveva l’hobby della poesia. Scrisse penose Pìstole (=epistole=lettere) in terza rima, sul modello delle Eroidi di Ovidio; scrisse il Driadeo d’amore, sul modello del Ninfale fiesolano, ma spostando la scena nel Mugello per offrire al Monte Calvano una favola eziologica; e scrisse Ciriffo Calvaneo, poema giunto solo al settimo cantare, cui collaborò Luigi, che ne rifece alcuni canti dopo la morte del fratello.

Bernardo Pulci (1438-1488), anch’egli maldestro negli affari, si dedicò  a composizioni religiose: Vita della gloriosa Maria (in terza rima, cioè in terzine dantesche); Barlaam e Giosafat (sacra rappresentazione), La passione di Cristo (poemetto in ottave) Scrisse anche sonetti amorosi e una traduzione delle Bucoliche di Virgilio (terzine dantesche). Sua moglie Antonia Giannotti scrisse pure sacre rappresentazioni: Santa Guglielmina, S. Francesco, Santa Domitilla, Il figliuol prodigo. Con più salute fisica, ma con affine condizione sociale (nobiltà decaduta) ed estro poetico, troveremo nel Millesettecento veneziano un’altra famiglia di letterati e poeti: i Gozzi, di cui  (degli undici fratelli) Carlo  è celibe e  Gasparo sposato con moglie poetessa.

[54] Il poema ebbe, dunque, vivente il poeta, due edizioni (1478, 1483), di cui la seconda con cinque canti in aggiunta. Per questo il poema fu conosciuto per secoli,  col nome inattinente di  “Morgante maggiore”. Va notato che per i suoi spunti umoristici (secondo noi, mai realizzati in comicità vera), il poema ebbe un successo notevole nel secolo seguente, influendo sulla produzione del Folengo, del Berni e dei berneschi. Addirittura ancora nel Milleottocento, il Byron ne tradusse il primo canto in inglese!.

[55] Si pensi che il volume dedicato al solo Morgante, nella collana Ricciardi, occupa tante pagine quante quello dedicato a tutto Manzoni. Ma il problema vero è la assenza di prove negli sforzi di “lanciare” questo noioiso lavoro in versi.  Le pagine solite riportate dalle antologia scolastiche (quelle su Margutte) non convincono affatto: l’umorismo vi è solo potenziale nella situazione comica, ma non si comunica al lettore. Conosciuta uan volta la vicenda delle singole azioni , nessuno si abbandona alla rilettura dei brani. Sono aridi, non affascinano, non commuovono, non entusiasmano.  Non esitiamo a sospettare che uno dei motivi (oltre quello linguistico) della fama dell’opera è la povertà poetica del secolo XV. In regno coecorum, monocolus rex...

[56] Accanto a Brandiamante, anche Brandimante e Bradamante: quest’ultima, la forma scelta felicemente dall’ Ariosto.

[57] Basterà citare, per contrasto,alcuni versi dell’Ariosto, entrati nel discorso comune: “Nel campo d’Agramante” (nel campo nemico); “O gran bontà dei cavalieri antiqui...” (eterna illusione della superiorità morale delle epoche passate rispetto alla nostra); “ecco il giudicio uman come spesso erra” (alla lettera); “Ma seguitiamo Angelica che fugge” (ritorniamo a bomba, all’argomento dal quale abbiamo fatto una digressione); “La verginella è simile alla rosa..” (alla lettera);”Qualunque per bugiardo è ritenuto,| quand’anche dica il ver non è creduto” (dalle “Satire”); ecc.

[58] Ecco una sintesi dell’immenso romanzo in versi.  Parte I^: Carlo Magno bandisce una giostra a Parigi, aperta anche ai nemici. Intervengono Argalìa e la sorella Angelica, figli del re Galafrone del Catài: pagani, essi intendono “disertare” il campo cristiano e portare soccorso ai Musulmani. I patti della sfida che essi portano sono i seguenti: Argalìa terrà prigionieri i cavalieri cristiani vinti; se un paladino cristiano lo vincerà, si prenderà in possesso la bellissima Angelica. Argalìa conta sulle armi fatate che lo coprono. Ma le cose si complicano: anche tra i musulmani la bellezza di Angelica solleva passioni irresistibili. E Ferragùto, che è invulnerabile perchè ha tutto il corpo affatato, uccide Argalia. Angelica, rompendo ogni patto, fugge verso Oriente, verso la Cina, inseguita dai cristiani Orlando e Ranaldo, dai saraceni Sacripante ed Agricane, ecc. Nella selva delle Ardenne avviene che Ranaldo beva alla fontana dell’odio, mentre Angelica si disseta a quella dell’amore: ora è Angelica che insegue Ranaldo, il quale la fugge disperatamente. Orlando arriverà fino in Oriente, combattendo sotto le mura di Albraccà, capitale del Catài, per liberare la città e Angelica dall’assedio di Agricane (dentro vi è Sacripante, contro il correligionario Agricane, a difendere Angelica!). Vi giunge anche Ranaldo, sforzatovi da un incantesimo. Orlando uccide Agricane e libera la città ed Angelica. Parte II^ : Imprese di Orlando contro la maga Fallerina. Angelica, ingrata ed incurante di Orlando, innamorata pazza di Ranaldo, spedisce il liberatore contro Fallerina, la maga che o lo ucciderà o, almeno, lo terrà prigioniero. Ma Ranaldo è richiamato in Francia, perchè l’avanguardia saracena (condotta da Rodamonte, re di Sarza) è riuscita a sbarcare in Provenza e sta mettendo a ferro e fuoco le terre proprie di Ranaldo e Brandiamante, sua sorella. Angelica allora segue l’uomo del suo cuore e Orlando, vinta Fallerina, seguita Angelica. Albraccà scompaare dagli interessi del poeta e dei suoi eroi e l’azione ritorna in Francia. A parte le decine di avventure marginali (di eroismo, di amore e di incantesimi), succede che nella stessa fonte delle Ardenne, Angelica e Ranaldo bevano alle derivazioni opposte dell’odio e dell’amore. Così Ranaldo è ora pazzamente innamorato di Angelica e contende con Orlando per aggiudicarsi la bellissima fanciulla, mentre questa fugge entrambi con uguale detestazione. Carlo Magno, alla vigilia di una grave battaglia contro i Mori, affida Angelica al vecchio Namo, re di Baviera, promettendola a quello- fra i due cugini- che più operasse per le sorti della battaglia contro Agramante. In questa seconda parte è introdotto Rugiero, campione dei Mori, che il mago Atlante custodisce in una rocca incantata, affinchè non prenda parte alla guerra contro i cristiani: egli sa che l’eroe è destinato alla conversione al cristianesimo e ad una vita breve (parziale coniazione su Achille, quindi).  Da lui e da Brandiamante deve discendere la casa d’Este. Si introduce, così, il motivo encomiastico-adulatorio per il signore  di Ferrara, che è divenuto suo datore di lavoro e benessere. Parte III^: Orlando, per forza di incantagione, è allontanato dal campo, mentre pure Rugiero è assente. Vincono così i Saraceni che assediano Parigi. Orlando, alfine disciolto dall’incantesimo, giunge a Parigi assediata per soccorrere la cristianità (c. 8): a questo punto si interrompe il poema, con la famosa strofa sulal calata di Carlo VIII in Italia nel 1494, l’anno della morte del Boiardo.

[59] La sproporzione può essere strumento espressivo anche della più  forte tragicità  (“Dico che i morti uccidono i vivi” è nella trilogia “Oresteia” di Eschilo ed è un gioco di parole di assoluta serietà e drammaticità. Ma sono esiti eccezionali, come quelli di esultanza epicizzante in certe espressioni di santi mistici (“Ti affanni a cercare il Sommo Bene: ma in realtà è dentro di te e ti tiene disteso sulla nuda Croce,alitando forza per sostenere il martirio insostenibile e, ancora, per amare amaramente l’Amore”: b. p. Pio da Pietrelcina, di cui è anche questa elevazione “Di’ anche tu e sempre al dolcissimo Signore: - Voglio vivere morendo, perchè dalla morte vengala vita che non muore e aiuti la vita a risuscitare i morti-”). Possibile il risultato dell’idillio: ne riparleremo a proposito dell’Ariosto, in cui il meraviglioso dà appunto il rapimento estatico.

[60] Segnaliamo che il motivo amoroso, liricamente asettico, non è sempre moralmente innocente. Intanto l’affettuosità non vi ha parte alcuna, mentre la sensualità vi è esplicitata ,sia pur raramente, con ammiccamenti di gaudiosa intesa e complicità da parte dell’autore. Si veda, ad esempio, I, 1, 18; I, 19, 57-65; III, 9, 11-12.

[61] Anche il Canzoniere- gli Amorum libri tres- partecipa di molte caratteristiche del poema., già a livello dei MOTIVI ISPIRATORI. Manca solo la magia. Se direttamente si esprime solo il momenmto amoroso, non manca implicitamente   il filone militare.  Nell’amore del poeta per Antonia Caprara, si  inserisce un paesaggio così colorito ed un tale dinamismo di tutta la vicenda,  da includere formalmente il moto   delle battaglie e dei viaggi. Tutta la materia è trattata in chiave così poco contemplativa ed intimistica e, invece, con piglio così aggressivo e pugnace, che il viraggio di amori e paesaggi finisce per trovarsi “armato e in sella”, vestito di maglia e di speroni, animato da spiriti bellicosi e cavallereschi. Amore trionfante o sconfitto, rimane sempre però un amore battagliero, militante. Non c'è’ dunque, un abisso tra il canzoniere e il poema: non c’è salto abissale fra la (mancante) dolcezza emotiva dell’ uno  e la solennità epica (inutilmente aspettata) dell’altro; si tratta solo di rivestire di armi autentiche tutta l’esuberanza e l’agitazione che esiste già (corrosiva)  nell’opera giovanile.

[62] Forse, oltre che Vico, c’è di mezzo Rousseau: il vecchio è migliore, perchè meno sofisticato, più spontaneo, più genuino. E l’uomo dei secoli XIX-X X si interroga allora: non sarà il giovanilismo moderno una moda altrettanto discutibile ed effimera come la predilezione anticheggiante dei romantici? Non sarà vero che “vecchio e giovane, antico  e moderno” non sono componenti artistiche e che, perciò, non possono e non debbono dettare giudizi critico-estetici (come neppure giudizi di verità e di bontà)? Il vero, il bello, il bene non hanno età ed esistono o meno, indipendentemente dall’epoca di produzione.

[63] Oltre al Berni, giudizi ambigui sulla versificazione del Boiardo li ha lasciati anche il poeta maccheronico del Millecinquecento Teofilo Folengo (1491-1544): “Plus sentimento facilis quam carmine dives”: più facile al sentimento che ricco di poesia” ( capace di tradurlo in poesia). Ed ecco il giudizio di Angelandrea Zòttoli, che ha curato la edizione dell’Opera omnia nei Classici Mondadori nel 1936: “A lui, quando nacque, la dea largì come a pochi il dono della facilità e della felicità della vena, ma gli negò, in modo assoluto, quello della meditazione poetica... Giusto perciò il poema romanzesco o, come più sveltamente allora si diceva, il “romanzo”, che non era gravato di tradizione dotta, e l’ottava, che non aveva ancora perduto la sua intonazione popolare, erano ciò che per lui ci voleva. Qua, dove non c’erano gli ostacoli offerti dalle rime coi loro precedenti di nobiltà stilistica, di rigida complicazione metrica e di tono tradizionalmente elevato, la sua ispirazione poetica poteva abbandonarsi, per così dire, a briglia sciolta, a quella specie di impeto d’improvvisazione che era nella sua indole. I bei versi, le immagini felici, se venivano facevano tutta la loro figura in piena libertà; se non venivano, c’era lì l’intreccio del racconto a sostenere l’interesse degli uditori... A leggere il poema, si vede che, per ridar la misura a più d’un verso zoppicante, come per pareggiare le altre scabrosità che la scrittura trasandata presentava allo sguardo, Boiardo doveva fare un grande assegnamento sulla recitazione, anzi, se si ha presente qualche rima che con una corretta pronuncia italiana non tornerebbe in nessun modo, sopra una recitazione passante attraverso la glottide emiliana” (I, XX).

[64] Vedi i luoghi di molte delle perle segnalate: I, 1, 8 e II, 16, 45 (vella|velle); I, 6, 56; I, 7, 48 (paccio); II, 8,27 (Cantone); I, 6, 35 (ringraccia); I, 2, 59 (alciò); I, 2, 65 (piaccia); I, 5, 10 (prodecia); II, 15, 14; II, 16, 6 (frezza); II, 13, 10 e 31 (e passim: “Qual-e-“); I, 5, 5 (zuffellare); I, 7, 19 (anci); I, 7, 32 (accia); I, 7, 63 (gran pritone); I, 2, 64-5 (bastardo; figlio di  p...).

[65] Anche la cronolgia delle opere è distinguibile in tre periodi. Attorno al 1470 vi è la produzione giovanile, di carattere realistico e comico: in prosa vi sono le due novelle; in versi, La caccia col falcone (Uccellagione di starne); il Simposio; la Nencia da Barberino, almeno per le prime venti ottave, più facilmente attribuibili a lui. Tra il 1470 ed il 1484 troviamo la Altercazione (che si ispira al De felicitate di Marsilio Ficino); il Comento, che, sotto l’influsso di Dante (“Vita Nova” e “Convivio”  come guida) dà una interpretazione allegorica e spiritualistica  ad una serie di 41 sonetti. Tra il 1484 e il 1492 il Magnifico presenta ancora una produzione realistica (Canzoni a ballo| Canti carnascialeschi), ma continua pure la scrittura di opere religiose (Laudi| Rappresentazione di san Giovanni e Paolo), mentre si fanno avanti composizioni classicheggianti, limitate ma stilisticamente raffinate (Ambra| Selve d’amore| Egloghe: Corinto; Apollo e Pan...). Anche nel periodo centrale (1470-84), d’altronde, ci furono scritti per il carnevale. Trincerare uno spirito più attivistico che meditativo (come quello del Magnifico) in uno schema di coerenza totale, parrebbe una utopia. La sua versatilità andava a scapito della sua  trasparenza.

[66] Che, però, neppure il Magnifico sia poeta del tutto convincente è riconosciuto dalla critica tutta. Citiamo il giudizio di V. Rossi nel Quattrocento Vallardiano (1956, p.337): “A lato visse in lui il poeta, non armonizzato con l’uomo di stato, nè subordinato, ma semplicemente, come disse il Machiavelli che se ne intendeva, “congiunto”.

Ecco alcune note utili per un giudizio più completo sulla produzione letteraria di Lorenzo.  La incertezza della attribuzione della Nencia dipende anche dal fatto che la prima edizione che gliela attribuisce è quella del 1568, che è una stampa “malfida” . Eccone comunque la sintesi, nelle parole del Rossi: “Il contadino mugellano Vallera vi celebra dapprima la bellezza... della sua pastora, la Nencia, e poi... la viene dolcemente vezzeggiando con le sue proposte d’amore... La materia semplice e ingenua del canto popolare è lievemente ironizzata...” (p. 338).

La novella di Giacoppo può aver ispirato la Mandragola del Machiavelli; ma a noi sembra artisticamente insignificante e, culturalmente, galeotta (in proposito, il nostro giudizio si stacca da quello del Rossi).

Circa l’Ambra: “Alla descrizione dell’Ambra non credo si possa negare carattere frammentario e certa durezza stilistica ... E’ un poemetto in ottave, di cui circa la metà è occupata dalla descrizione dell’inverno e della piena dei fiumi toscani e l’altra (metà) è una narrazione d’una di quelle favole di trasformazione che avevano avuto il loro poeta in Ovidio e introduttore nel Parnaso italiano l’autore del Ninfale fiesolano” ( cioè il Boccaccio: p. 340). A p. 42 si accenna, sempre nel Rossi, ai doppi sensi osceni presenti nei canti carnascialeschi.

[67] Quest’ultima espressione è improntata a quelle di Manzoni su Bortolo Castagneri, il cugino di Renzo Tramaglino (c. 33 dei P. S.).

[68] A segnare il passaggio dal realismo popolaresco alla classicità rinascimentale vi sono innumeri altri scrittori in versi e in prosa. Si potrebbe riprendere Masuccio Salernitano da questo punto di vista. La sua sintassi, ad esempio, è complessa, latineggiante come quella di Boccaccio, ma molto più chiara e regolare. Il vocabolkario aderisce fin troppo al latino, che trsferisce in toscano con troppa aderenza: inclita| intitulare| approbato| antqui| istorie... E c’è un sovrappiù di signorilità che caratterizza anche l’anticlericalismo ed il misoginismo ed è cosa ignota al maestro toscano, pesante, goffo nella sua polemica. Anche i casi di “conversione” sono “cosa nova e gentile”: si tratta infatti di  ritorni alla fedeltà coniugale. Eppure il tipo anche violento di trame, la aridità dela narrazione (fatta con animo programmaticamente staccato, quasi da storiografo impassibile) e la moralità posta alla fine denotano una troppo radicata mentalità popolaresca, ancora lontana dalle  innovazioni umanistiche.

Giovanni Sabadino degli Arienti (metà del secolo XV-1510) fu notaio al servizio delle corti dei Bentivoglio a Bologna e degli Este a Ferrara (e in corrispondenza con Isabella d’Este, alla corte dei Gonzaga di Mantova) Ci ha lascito due opere: Gynevera de le clare donne (33 biografie di donne meritevoli, da Giovanna d’Arco e Matilde di Canossa ad Ippolita Sforza e Ginevra Bentivoglio); e Le Porretane. Quest’ultima è una raccolta di 61 novelle collocate ai bagni de La porreta, al seguito dei Bentivoglio che vi si portarono un’estate. La ispirazione è varia: vi è una favola per  ragazzi; due dispute: sulla magnanimità, l’una; sulla preminenza fra un dottore, un cavaliere ed un conte, l’altra; raccontano di fatti bolognesi: facezie, beffe, oscenità. Manca però ogni emozione. Lo stile è appesantito dal proposito dell’imitazione boccaccesca e degli antichi. Immaginarsi: il secondo periodo dell’opera, nella lettera dedicatoria ad Ercole d’Este per la prima novella, è lungo più di mezza pagina! Naturalmente, in novelle più brevi lo stile cammina più piano e sciolto. L’interesse delle trame non basta neppure a rendere curiosa la prima lettura: talora manca un ordito ben preciso. Altre volte l’intersse c’è, ma dipende o dalla stranezza della vicenda o dalla sua oscenità. Comunque non si leggono mai per  un fascino lirico, estetico, artistico. E così ebbe otto edizioni fra il 1483 e il 1540, ma poi scomparve dall’orizzonte del pubblico, salvo a stuzzicare la fame di erudizione dei dotti. Pure una attenzione (dei “dotti”, appunto) il libro lo merita: la purezza dello stile è notevolmente migliorato rispetto al Boccaccio. Escluse le aberrazioni sintatiche degli anacoluti, il vocabolario è moderno, nonostante qualche lombardismo (rasone| suggetti| “lucubrazione” usato come plurale) e qualche iperlatinismo (lo impulseno=lo spinsero...). Se non vi è calore di affetti, vi è proprietà e razionalità di espressione stilistica.

[69] La posizione è preilluministica o stoicizzante. In realtà la risposta non è difficile: Dio, preordinando il mondo fin dalla eternità, ha previsto anche le preghiere dell’uomo come condizione per concedergli la virtù (o qualsiasi altro bene, anche la pioggia opportuna).  Con V. Rossi dobbianmo, in proposito, ricordare: “L’Alberti non è un filosofo, che deduca le sue dottrine da un principio centrale cui tutte possano risalire; ond’è pericoloso per la verità storica pretendere di dare al suo pensiero la coerenza di un sistema o di interpretare ogni suo detto alla stregua di un’idea che baleni in qualche sua proposizione” (Il Quattrocento, Vallardi, 1956, p. 142)

[70] E’ ovvio che la scelta della vita di clausura e simili, come dei voti di povertà, castità e obbedienza, rappresenta una condizione di anomalia rispetto al rapporto “naturale” tra le varie facoltà spirituali, essendo ovviamente la conoscenza tutta indirizzata all’operatività nella giustizia e nell’amore. Ma, di nuovo, il non accorgersi che tale vocazione di rinuncia ad esigenze, anche normali ed urgenti, della natura sensibile rappresenta una risposta ed un rimedio alla troppa propensione ad abusare sia degli istinti sia della vita attiva, è segno sicuro della perdita  della fede nel peccato originale e nella complicazione che tale stato dell’uomo porta nell’ordinamento dei valori tutti, nel giudizio si di essi e sulla regole di condotta etico-religiosa che ne discendono. Biagio Pascal, nel secolo XVII scriverà: “il y a des raisons che la raison ne peut pas conprendere”: Ci sono delle ragioni (dello “spirito di finezza: esprit de finesse”) che la ragione (spirito di geometria: esprit de géometrie) non riesce a comprendere.

[71] Naturalmente vi sono molti altri scrittori in volgare nel Millequattrocento, che non interessano però la letteratura. Anche se non pervenuti al plus-vaore estetico, almeno due altri autori, invece,  aiutano a comprendere  più a fondo il fenomeno umanistico-rinascimentale: Giovanni Gherardi da Prato e Matteo Palmieri.  Al primo è stato attribuito (verosimilmente soltanto) dal docente di letterature comparate a Mosca, Alessandro Wisselofsky, un’opera giunta incompiuta e mutila, che egli intitolò “Il paradiso degli Alberti” e che pubblicò fra il 1867 e il 1869. Il (solo probabile) autore era un notaio fiorentino, ma autore anche di un progetto per la cupola di S. Maria del Fiore in concorrenza con quello del Brunelleschi; fu lettore di Dante nella cattedrale stessa e autore di un’opera allegorica  intitolata Filomena e scritta in terzine dantesche, ma che non vale nulla. Scrisse anche un Trattato di un’angelica cosa dimostrata per una divotissima visione. Il Paradiso è un romanzo allegorico: l’autore-protagonista si mette in viaggio per ricercare il paese dell’amore e della civiltà antica ed approda invece all’Appennino toscano, ove sta la casa di Coluccio Salutati e la villa degli Alberti (di Antonio Niccolò degli), munifici signori che ospitano magnificamente chi capiti nella loro villa, detta appunto “Il Paradiso”. Ivi, nell’anno 1389, si sarebbero ritrovati maestri religiosi e laici (fra cui Coluccio, p. Luigi Marsili, il maestro di medicina  Marsilio di S. Sofia,  e il Cieco  degli organi), con allegre ma sane brigate, che realizzano una serie di giornate, in cui si alternano discussioni elevate, piacevoli declamazioni. narrazioni fantastiche (9 novelle), storie vere... Quanto basta a costituire una specie di Decameron, ma pulito; oppure una riedizione della lieta brigata di Folòre da S. Gimignano, ma non laicista. Purtroppo, quanto ad arte, il Paradiso ha più buone intenzioni che risultati. Il modello boccaccesco, ben presente, finisce per appesantire la prosa, con descrizioni vaghe, diluite, esposte al rallentatore, mancanti di concretezza e concisione. La pretesa è quella di rendere l’atmosfera di un ritiro élitario, spiritualmente elevato e mondanamente squisito: una Arcadia  idillica e una Accademia serena. Una idealizzazione di quello che era, a Firenze, l’Umanesimo a fine secolo XIV: un paradiso terrestre, al di qua della colpa originale. Stilisticamente è già un passo avanti rispetto al  Decameron: la prosa è molto più agghindata e pochi sono le deviazioni rispetto al moderno toscano (ermonia= armonia, che poi vorrebbe significare “melodia”)

Matteo Palmieri (Firenze, 1406-1475) fu partigiano dei Medici: uno degli “Otto di balìa”, sancì il ritorno nel 1434 del loro casato in città. Ricoprì incarichi politic fino ad essere priore, cioè uno degli otto membri del governo cittadino, che duravano in carica due mesi. Morì a Volterra, capitano della città che Lorenzo aveva riconquistato sanguinosamente. Ricevette buona educazione umanistica e scrisse in latino il De captivitate Pisarum (la presa di Pisa), gli Annales o Historia florentina (dal 1429 al 1434) e una Vita di Niccolò Acciaioli. Preferì invece il volgare per le due opere ideologiche: In prosa scrisse Della vita civile (1438-9); in terzine dantesche, vergò il poema La città di vita, che volle pubblicato postumo ( e lo fu a cura di Leonardo Dati, suo amico, nel 1478). Nei quattro libri Della vita civile anzitutto tratta della educazione familiare fino all’età adulta; nel secondo e terzolibro, parla della formazione del cittadino, sia per la condotta in tempo di pace, sia pel comportamento in caso di guerra; nel quarto libro, affronta il problema della ricerca dell’utile nella vita, distinto ma non separato dalla moralità. Egli afferma esplicitamente. “Da questo procede che a’ virtuosi s’appartiene cercare utile acciò che possino bene vivere: se gli avviene di conseguitare quello, usilo nell’opere virtuose; se non gli avviene, spregilo come cosa di fortuna, nè, per acquistare, esca dal vero ordine  del iusto vievre”. Machiavelli è ancora lontano. L’opera è notevole, perchè fu un atto di coraggio eccezionale e fu vista come una temerarietà. Il libro uscì prima del 1439, almeno tre anni prima del “Certame coronario”: Era, pressappoco, dai tempi del Convivio di Dante che, in prosa, non si commetteva il “delitto” di scrivere,  nella lingua del popolo, su argomenti impegnativi,  elevati! Benchè non inetto dal punto di vista filosofico, l’esposizione risulta troppo diluita e lenta per comunicare una qualsiasi carica emotiva. Annoia inesorabilmente.  Lo stile, invece, è notevole: moderno nel vocabolario, con pochi “nèi”  di stranezze antiquate (avrebbono| vulgarizzati| essaminando...), presenta anche una sintassi discreta: è ancora ampia, pesante, ipotattica (molte subordinate), ma non oscura nè, solitamente, fallosa. Siamo, dunque, di frontead un onesto fiorentino, non profondo filosofo ma chiaro ragionatore. Ed anche uomo avveduto: seppe schierarsi dalla parte del vincitore, in un dissenso politico che dipendeva più dal fallimento della guerra contro Lucca che non dalla maggior competenza ed onestà di una delle due parti. Eppure... questo scrittore, esplicitamente cristiano, combinò una marachella teologica che gli costòil disseppellimento delle ossa, trasferite in terra non consacrata. Che mai aveva  scritto? Nel poema “Città di vita, egli mette in versi una eresia  di Origene, già condannata dalla Chiesa: le anime infuse nei corpi umani sarebbero angeli che, nella prova imposta loro, “non fur ribelli| nè fur fedeli a Dio, ma per sè fuoro” (Inf., 3, 38-9).  Dante però, che ipotizza questo gruppo di angeli indecisi, condannandoli al Limbo, non si era mai sognato di trasferirli negi corpi umani come loro forme sostanziali od anime. Sapendo che egli, in questo, si distanziava gravemente dal pensiero della Chiesa, tenne nascosto il poema finchè visse; lo affidò poi all’amico Leonardo Dati, che fece la accordata pubblicazione postuma. Mal gliene incolse! Nè arricchì la poesia nè salvò la pace del suo corpo nella tomba!.

[72] La redazione, la edizione e la fortuna dell’Arcadia sono state un po’ avventurose e possono  aiutare a conoscere il temperamento del loro autore,  che si lascia sospettare un nervoso a prevalenza vagotonica: mite, incerto, mutevole, al di là delle apparenze formali di conclusività e unità delle sue opere.  Qui basterà dire  (cfr. Domenico De Robertis nel volume sul “Quattrocento e l’Ariosto” della Garzantiana) che dapprima nacquero delle egloghe sparse: siamo attorno al 1480, perchè già nel 1482 si trovano  influssi di tali composizioni , da Napoli (ne risulterà  la Pastorale di Jacopo De Jennaro, membro pure lui della Pontaniana)  fino a Siena. Fra il 1483 ed il 1486  nasce il disegno dell’opera, con un prologo e dieci prose, ciascuna delle quali era accompagnata da una poesia (egloghe, canzoni o sestine). Nel 1501 il Sannazaro emigra in Francia col re Federico e l’Arcadia esce a Venezia, all’insaputa dell’autore. Il quale aveva provveduto, fra il 1495 eil 1496, a rivedere stilisticamente ed a completare l’opera (due prose, due poesie ed un Epilogo). Questa fu pubblicata a Napoli, nel 1504, prima che il Sannazaro rientrasse dall’esilio. All’interno dell’Arcadia vi sono altre oscillazioni. La prima metà vede il prevalere delle liriche sulle prose, che semplicemente servono a creare lo sfondo idillico; a cominciare invece dalla settima prosa, la narrazione prende il sopravvento e le liriche fanno da commento. Della fortuna del piccolo capolavoro parliamo nel testo. Qualcosa del genere avveniva nella collezione delle Rime: le prime  non hanno unità precisa, perchè cantano l’amore, celebrano personaggi, meditano su temi spirituali. A congiungere questa parte con la seconda, sta il rifiuto dell’amore indegno seguito fino alla scoperta della Marchese, cui è dedicata la seconda parte: solo quest’altra serie di liriche  costituisce il canzoniere  sannazariano, con la puntuale imitazione del Petrarca!

[73] Meriterebbe un commento anche il De partu Virginis. Ci limitiamo a  sintetizzare i giudizi, invero non molto concordi, della Garzantina (Domenico De Robertis) e della Vallardiana (Vittorio Rossi). Il primo non crede molto alla artisticità del poemetto, che comunque vede impostato sul tentativo di dare solennità epica al mistero della Incarnazione e nascita del Salvatore; il secondo ne vede lampi poetici, ma sulla stessa lungheza d’onda delle cose migliori presenti nelle Eclogae piscatoriae, cioè lungo la vena idillica od elegiaca, presente nella figura umile e timida della Vergine Maria, pura fanciulla dell’Annunciazione o Madre addolorata ai piedi della croce. Note di poesia vede anche in qualche riuscita descrizione di paesaggio. Il poema compete il primo posto al migliore Pontano, tra gli scritti latini del Rinascimento.

[74] L’Orfeo è un’opera scenica, con lo schema mutuato dalle sacre rappresentazioni, ma di argomento profano. Il pastore Aristeo si innamora di Euridice, moglie di Orfeo; la insegue nella sua follia passioanle ed è causa che un serpe, nascosta nell’erba, uccida la fuggente Euridice. Orfeo, poeta e nusico, scende nell’Ade, impietosendo Plutone col canto. Riesce ad ottenere il ritorno della sposa, ma a patto di non volgersi a guardarla, prima di arrivare sulla terra. Orfeo non resiste e si volge: Euridice viene risucchiata nell’Ade. Orfeo, disperato, è ucciso dalle Baccanti orgiastiche. L’operetta fu composta in due giorni a Mantova, “intra contnui tumulti”: forse nel carnevale  del 1480. E’ la prima opera teatrale di carattere profano a noi giunta: essa è all’origine del dramma pastorale, che nel Millecinquecento troverà la sua forma classica e nel Tasso e nel Guarino avrà i due maggiori poeti. Per ora il metro è vario. Prevale l’endecasillabo dapprima, ma organizzato ora in ottave (all’inizio), ora in terzine (nelle parti colloquiali); ora in strofe di sei versi e ritornello nella “canzona” di Aristeo e nel colloquio che segue fra lui, il pastore Mopso e Tirsi, il servo di Aristeo. Mescolanza di setteneari ed endecasillabi nelle parole di Aristeo ad Euridice fuggente; strofe saffiche in latino nel canto di Orfeo sul monte; riprendono le ottave per il seguito, fino alla concessione di Plutone. Metro di nuovo variante fra settenari ed endecasillabi nell’episodio dell’errore di Orfeo e nel secondo risucchio di Euridice da parte dell’Ade; riprendono le ottave nel lamento di Orfeo e nell’inizio della parlata delle Baccanti: questi finiscono con versi ottonari la loro parte orgiastica e micidiale. Per quel che riguarda la presenza di lirismo si possono trovare delle scintille qua e là: soprattutto la canzona di Aristeo è dolcemente elegiaca. Nulla,  però, di sublime: troppo estemporanea è stata la composizione.

Le Stanze dovevano essere la celebrazione della vittoria di Giuliano, il fratello minore di Lorenzo, in una gara cavalleresca, in cui egli combatteva con l’insegna di Simonetta Cattaneo (sposata Vespucci). La giostra avvenne nel 1475; nel 1476 muore Simonetta; nel 1478 è ucciso Giuliano. La interruzione delle “Stanze”, giunte solo alla 46 ottava del secondolibro, fu dunque dovuta a fattori anche esterni: ma la mancanza di un disegno organico per il seguito e la

 detta carenza di “lena”, di resistenza a lavori di gran respiro, avrebbero forse interrotto l’opera in ogni caso. Ma essa può davvero far da parallelo alla “Incompiuta”  di Schubert, per la intensità del primo libro, che in 125 ottave accumula una potenza lirica sufficiente a rendere immortale l’autore. Il secondo libro, meno alto liricamente, è però anch’esso superiore (se non andiamo errati) alla normale versificazione del Furioso (vogliamo eccettuarne le strofe di ispirazione realistica, di cui parleremo a suo luogo). La trama del primo libro offrirà ispirazione al dramma di Calderòn dela Barca “Vida es sueno”. Julio (cioè Giuliano), giovinetto bellissimo, è ancora ignaro d’amore. Dedito alla caccia, disprezza i miseri amanti, incerti degli umori della donna amata. Ma Venere si vendica di Diana e fa apparire, un giorno di caccia, un cervo bellissimo che, fra soste e fughe, rimane irraggiungibile e conduce Julio ad un praticello ove siede una bellissima donna: Simonetta. Ora Julio è innamorato, ma non ancora la donna. Sempre nel primolibro, ci si sposta a Cipro (descritta in maniera sorprendente, anche se non del tutto convincente: imita il Trionfo d’amore del Petrarca, c. IV, 100-166) e sarà imitato dal Tasso (Gerusalemme, 16, 25) e da G. B. Marino nell’Adone. Cupido vi approda per dare alla madre la notizia della vittoria su Julio. Il secondo libro espone il piano di Venere e Cupido per conquistare Simonetta all’amore di Julio: questi in sonno vede la donna bisognosa di aiuto, perseguitata dal pudore di Minerva. Iulio allora si sente bramoso di combattere per la sua donna: partecipa così alla giostra con uno stendardo (dipinto da Sandro Botticelli!). Si noti che lo scudo ha la testa di Medusa, che significa la pudicizia da vincere! Il Rinascimento diventa spudorato non solo nella  persona di Alessandro VI.

[75] Citazioni dal “Discorso contro gli abbreviatori, n. 3, a; Proemi, 11; ivi, 1; ivi, 6.

 

04/09/01Ultima modifica il .
Powered by G.G.

Cerca nel sito: