Dante Alighieri
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Don  Marcello De Grandi

 

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Capitolo III: DANTE ALIGHIERI

       

    1. VITA ED AMBIENTE DI FORMAZIONE

     

  1. I GIORNI E LE OPERE
  2. 1) I giorni

    1265: nasce a Firenze, tra il maggio ed il giugno, da Alighiero II e da donna Bella (Gabriella degli Abati? Ghisolabella? Isabella?). La sua famiglia eredita la nobiltà dal trisavolo Cacciaguida, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado II e morto al suo seguito nella seconda crociata (1147 ca.). Che il padre , di parte guelfa, sia in Firenze in anni di predominio ghibellino (cioè dopo la battaglia di Montaperti del 1260), dimostra la poca importanza politica della famiglia.

    1274: secondo che riferisce ne La vita Nova, Dante vede per la prima volta Beatrice (di Folco Portinari?) e se ne innamora.

    1277: viene fidanzato (con atto notarile) a Gemma Donati, imparentata col ramo maggiore del casato di cui fa parte anche Corso; la sposerà in seguito e ne avrà almeno tre figli: Antonia (sarà suora col nome di Beatrice), Jacopo (notaio) e Pietro (sacerdote) Si è incerti su un quarto figlio (Giovanni). Frequenta la scuola del Trivio e del Quadrivio, cioè di grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, musica, geometria, astronomia, presso uno degli ordini religiosi della città (Domenicani, Francescani, Agostiniani). Si hanno testimonianze di un suo soggiorno (verso i vent’anni) a Bologna , dove per altro non consegue la laurea: qualcuno, anzi, pnsa che vi sia andato solo come turista. Incitamento agli studi gli viene anche da Brunetto Latini, che egli ricorda come stimolatore alla gloria filosofico-letteraria nel c. 15° dell’Inferno (vv. 22-124).

    1283: compone il primo sonetto: "A ciasun’alma presa e gentil core": con esso entra in contatto con i poeti del Dolcestilnovo ed in particolare con Guido cavalcanti (cfr: Vita Nova, cap. 3).

    1289: Partecipa alle imprese militari di Campaldino (contro Arezzo: cfr. Purg. 5, 85-129) e di Caprona (contro Pisa: cfr. Inf. 21, 94-6).

    1290: muore Beatrice e Dante entra in un periodo di crisi morale (e fors’anche religiosa) che gli attira i rimproveri dell’amico Cavalcanti. Ma altri fattori —indicati nella Vita Nova (cap. 40) e in Purgatorio (c. 30, 133-5) come "visioni" o "sogni"- lo traggono fuori dalla selva oscura del peccato, indirizzandolo verso il monte della virtù, sul quale splende il Sole che è Dio (Inf. 1, 1-18); e gli infondono il primo proposito di scrivere un’opera grandiosa in lode della sua donna.

    1292-1302: è il decennio culminante della sua vita in Firenze. Scrive probabilmente la Vita Nova fra il 1292 e il 1293; nel 1294 fa amicizia a Firenze con Carlo Martello, figlio di Carlo II d’Angiò (Par. 8, 55-7). Nel 1295 si iscrive alla Corporazione od Arte dei Medici e Speziali, ottenendo il diritto di partecipare alla vita pubblica, che gli Ordinamenti di Giano della Bella avevano precluso ai nobili due anni prima. Nel Novembre 1295 inizia la sua carriera politica con la elezione al Consigliospeciale del popolo: la culminerà nel bimestre 15 giugno-15 agosto 1300 con la elezione a "priore", in rappresentanza della sua "Arte" nel governo della città (sei priori, con a capo il Gonfaloniere di Giustizia). Intanto giungono a un punto esplosivo le divisioni cittadine. Disordini scoppiati al Calendimaggio 1300 tra fazioni diverse di popolo, portano in Firenze la scissione dei Guelfi nei due partiti dei Bianchi e dei Neri, ad imitazione di quanto già successo a Pistoia. Coi "Neri" stanno quei nobili che non si son rassegnati al prevalere della borghesia e, con alcuni della borghesia "grassa", il popolo minuto: sono gli esclusi dal governo e riconoscono il loro capo nel turbolento Corso Donati. Coi Bianchi sta la borghesia al potere e quella parte della nobiltà che ha accolto il compromesso (offerto loro nel 1295) per il quale si aggirava l’esclusione dei nobili dal governo cittadino (imposto dagli Ordinamenti di Giustizia) ammettendo alla attività politica quei nobili che, come Dante, accettassero di iscriversi ad un’Arte o Corporazione. Sono dei moderati, al seguito del ragionevole ma poco intraprendente (Oli)Vieri de’ Cerchi. Per metter fine alle zuffe e congiure politiche, il governo bimestrale di cui è parte anche Dante, condanna all’esilio otto capi delle due parti: fra i colpiti vi è il capo dei Neri, Corso Donati, ma anche l’amico di Dante, il "bianco" Guido Cavalcanti. A questo punto, papa Bonifacio VIII —in nome dell’alta autorità sulla Toscana, concessa da Matilde di Canossa alla Santa Sede nel testamento del 1111- manda pacieri a Firenze. Fallita la missione del cardinal Matteo d’Acquasparta, invita Carlo di Valois, fratello di Filippo IV re di Francia, ad intervenire a Firenze, mentre stava scendendo in soccorso degli Angioini di Napoli, inguaiati nella guerra dei Vespri siciliani. Il pericolo pei Bianche è evidente: il papa tende a favorire i Neri, che maggiormente lo appoggiano. Per scongiurare la entrata del Valois in Firenze, i Bianchi mandano un’ambasceria a papa Bonifacio (Ottobre 1301). Dante, che ne fa parte, viene trattenuto —lui solo- a Roma, mentre a Firenze si consuma il trradimento. Centinaia di famiglie di parte Bianca sono scacciate in esilio, non senza confische e condanne ulteriori. Il 27 gennaio 1302 anche Dante viene colpito da pene molteplici, pecuniarie e politiche e, poichè non si presenta a scontarle, vine addirittura condannato alla pena di morte, nel caso sia arrestato in territorio fiorentino.

    1302-13: prima parte dell’esilio, fino alla morte di Arrigo VII. La condanna a morte per Dante è dettata dal timore, troppo verosimile, che gli esuli tentassero un ritorno in armi, alleandosi coi ghibellini —vecchi esuli fin dal 1266- e con qualche signore dell’Alta Italia. Il che avvenne puntualmente, ma senza risultati, nonostante varie spedizioni, protrattesi fino al 1306. Alle prime due partecipa anche Dante (1302 e 1303). Ne sconsiglia però un terza nell’autunno del 1303, sicchè viene poi accusato come causa della situazione creatsi nel 1304, allorchè i Bianchi si trovarono divisi e il nuovo tentativo deve venir rimandato all’estate successiva. Dante allora abbandona la "compagnia malvagia e scempia" degli esuli, che saranno ancora sconfitti nella battaglia della Lastra in Val di Mugnone (Paradiso, 17, 61-69). Egli incomincia oramai a "far parte per se stesso", ospite dapprima degli Scaligeri a Verona (Par. 17, 70-5); poi, dei Malspina nella Lunigiana (Purgatorio, 8, 133-9). Le lettere, che egli scrive in occasione della infelice discesa in Italia di Arrigo (Enrico) VII ai signori e popoli d’Italia, agli "scelleratissimi fiorentini" ed allo stesso imperatore, sono però datate dal Casentino, dove fu ospite dei conti Guidi di Battifolle: vi si firma "humilis ytalus Dantes Aligherii, florentinus exul immeritus".

    Dei primi anni dell’esilio ci sono pervenuti due scritti incompiuti, ma importanti per comprendere la crescita intellettuale, filosofica di Dante: il "Convivio", in volgare; il "De vulgari eloquentia", in latino. Attorno al 1307 si può pensare che egli abbia abbandonato la stesura tanto del primo (rimasto al quarto dei progettati quindici libri) quanto del secondo (rimasto al penultimo dei tre probabilmente progettati). E come, dopo la morte di Beatrice, aveva scritto Rime per una "donna gentile" (che egli interpreterà poi come allegoria dello studio filosofico, cui si dedica in quegli anni prima del 1295); come ebbe in quegli anni la tenzone volgare con Forese Donati, fratello di Corso; così ora, nell’esilio, non cessa di comporre versi. Nel Convivio vi sono tre canzoni "filosofiche". Ad esse vanno aggiunte le rime autobiografiche dell’esilio, che completano il "canzoniere" di Dante: la più famosa è la canzone che inizia "Tre donne intorno al cuor mi son venute". E, almeno a partire dal 1307,si è concordi nel fissarel’inizio del poema-capolavoro.

    1313-1321: ultimo periodo dell’esilio, successivo alla spedizione di Arrigo VII. Fallito il tentativo dell’imperatore "pacifico" di riunire nell’unità dell’impero le città italiane (muore nel 1313, sotto Buonconvento ed è sepolto nella ghibellina Siena), Dante resta escluso da una amnistia del 1311 e rifiuta quella del 1315, perchè richiedeva un gesto sia pure solo simbolico di pentimento ed espiazione. Si vede così condannato nuovamente a morte: assieme ai figli, questa volta. Quando, nel 1314, muore Clemente V, papa francese che aveva fissato la sede in Avignone, egli indirizza una lettera ai cardinali italiani perchè eleggano un papa italiano che riporti la sede a Roma. Invano. Continua, intanto, la composizione del poema sacro: nel 1316 inizia la stesura del Paradiso. Sperimenta, intanto, "sì come sa di sale| lo pane altrui e com’è duro calle| lo scndere e salir per l’altrui scale" (Par. 17, 88-93). Passa ancora a Verona, presso Can Grande della Scala (Par. 17, 88-93); dimora in Lucca (purg. 24, 34-48); si rifugia, infine, a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta (1318?). Di ritorno da una ambasceria a Venezia per il suo signore, è colto da febbri malariche nelle paludi di Comacchio e muore nella notte fra il 13 ed il 14 settembre 1321. Sepolto con grandi onori nella chiesa ora dedicata a S. Francesco, avrà pubblicati gli ultimi canti del Paradiso dal figlio Jacopo e commentato allegoricamente, tutto il poema, dal figlio Pietro. La tomba di Ravenna è simbolo di italianità geniale, meta di pellegrinaggi da parte di ammiratori di tutto il mondo.

     

    2) LE OPERE: RIME (1283-1307)

    VITA NOVA (1292-3)

    CONVIVIO (1304-7)

    DE VULGARI ELOQUENTIA (od ELOQUIO: LA LINGUA VOLGARE: 1304-7)

    (De) MONARCHIA (non prima del 1310)

    DIVINA COMMEDIA (almeno dal 1307 fino al 1321)

    LETTERE (almeno 13 pervenuteci sicuramente sue, scritte fra il 1310 ca e il 1319)

    EGLOGAE (due lettere in esametri latini, del 1319)

    QUAESTIO DE AQUA ET TERRA (1320).

     

     

  3. LA PERSONALITA’

 

     

  1. LA COSTITUZIONE FISICA. Dante risulta, in base alle misurazioni del suo cadavere, un mediolineo, con l’altezza di m.1,64 ca. La fronte era più sviluppata in larghezza che in altezza; il cranio, allungato e stretto (dolicocefalo), aveva bozze parietali molto sporgenti. Dai ritratti e descrizioni tramandati, risulta scarno ed asciutto, col naso aquilino ed i capelli neri. Un organismo esile nella anatomia, ma forte nelle manifestazioni fisio-psicologiche: le dimensioni ridotte permettono la mobilitazione ottimale delle energie disponibili, almeno per tempi brevi, sicchè Dante appare, in certe espressioni, addirittura violento. Ma la vulnerabilità del suo organismo si rivelerà nel cedimento precipitoso di fronte all’assalto della malaria.
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  3. IL TEMPERAMENTO. Dante (come la più parte dei poeti ed artisti) ebbe un temperamento NERVOSO: egli fu cioè un EMOTIVO, NON ATTIVO, PRIMARIO (instabile, esauribile).
  4. EMOTIVO significa non solo "dotato di sensibilità eccezionale", ma anche "capace di trasmetterla ad altri, coinvolgendoli nel proprio stato d’animo" attraverso le forme espressive più diverse, come la parola, il gesto, la linea, i colori, la musica...

    NON ATTIVO significa non solo personalmente "introverso e maldestro, impacciato nell’agire", ma anche "inabile a coinvolgere gli altri nella propria azione, cioè carente di doti direzionali, manageriali, organizzative o comunque di socializzazione."

    PRIMARIO significa facile all’esaurimento della stessa carica emotiva (e tanto più, lo vedremo, nella eventuale tendenza all’azione); e soggetto a mutare stato d’animo o registro emotivo, a passare, cioè, da un sentimento all’altro (dal pianto al riso, al limite!).

    Vi sono, però, due tipi diversi di temperamento nervoso, a secondo che prevalga un’emotività simpatetica (simpaticotonica) piuttosto che vagale (vagotonica). Il vago(tonico)prevalente è più portato a sentimenti miti, contemplativi; la sua forza critica (ne riparleremo) si manifesta unicamente nelle parole o nella scrittura; non giunge all’azione, alla ribellione. Al contrario, il simpatico(tonico)prevalente mantiene in sè dei conati di azione, una certa spinta ad operare, più negativa che positiva, più chiara e decisa nello schierarsi per la critica che per la costruzione: in ogni caso tanto impulsiva quanto poco perseverante. Difatti, specie in gioventù, anche il nervoso puù attirare su di sè tanta stima da creare delle illusioni di capacità di guida e comando e può ottenere successi tattici (immediati), anche se, strategicamente (cioè sulla lunga durata) è condannato alla sconfitta. Si noti che questo è il temperamento da Shakespeare impersonato in Amleto: che può creare gravi pericolo o danni a sè ed al contesto in cui capita ad operare. Ebbene, Dante ebbe appunto un TEMPERAMENTO AMLETICO, cioè con carica emotiva a prevalenza SIMPATICOTONICA. Di qui la sua passione politica, risorgente pur dopo scacchi e delusioni, ma gradualmente mutata dal guelfismo ad un larvato ghibellinismo. La primarietà od instabilità o mutevolezza psicologica lo portò puntualmente a ruotare di 360 gradi la sua posizione sociale. Col rischio di conseguenze tragiche, almeno per sè: fu condannato infatti a morte due volte! In proposito Giovanni Villani ha una descrizione nella sua Cronica che, senza essere sistematizzata, è ricca però di intuizioni notevoli. Ecco le sue parole, che elencano dapprima le virtù; poi, i difetti: "fu grande letterato quasi in ogni scienza, tutto che fosse laico; fu sommo poeta e filosofo e rettorico perfetto tanto in dittare e versificare come in aringa parlare nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che fosse in nostra lingua in fino al suo tempo e più innanzi...Questo Dante per lo suo savere, fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosofo mal grazioso, non sapea conversare co’ laici..." (cito dalla Garzantiana, 1976, p. 498 del primo volume).

     

  5. LA FANTASIA. Dante non fu certo pittore: ma sapeva giudicare con innato criterio anche di pittura (cfr. Purg., 11, 94-6: confronto tra Cimabue e Giotto); non sapeva (per quanto noi conosciamo) suonare, ma gustava la musica ed era amico di chi vi attendeva (Purg. 2, 85-120: Casella). Era dotato cioè di una discreta, ma non inventiva sensibilità alle linee, ai colori, alla plasticità, alla musica. La sua genialità stava nella fantasia verbale, di cui padroneggiava in misura somma sia la dimensione filosofica (simbolico-eidetica, conoscitiva) sia quella musicale (del suono, dell’armonia). Con la parola Dante sa esprimere concetti chiari e sa costruire ragionamenti complessi; sa rendere evidenti le descrizioni e sa dare la impressione della tridimensionalità; sa trasmettere il dinamismo della azione (fantasia verbale-cinestetica) e soprattutto sa trasmettere alla parola la carica emozionale con cui egli rivive personaggi, avvenimenti, dottrine, ideali. Egli, della parola, è veramente un mago (cfr. Inferno, 25: trasmutazioni dei ladri), un giocoliere (Inf. 13: giochi concettistici alla maniera della retorica cancellieresca di Pier delle Vigne), un forgiatore inventivo (la parola "civiltà" la troviamo per la prima volta nel Convivio), un sorprendente innovatore (parole del Paradiso che tentano di esprimere l’ineffabile, l’indicibile, il mistero).
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  7. L’INTELLIGENZA. Dante rivela una eccezionale apertura analitica, perchè ricettivo di dati paesaggistici della natura (descrizioni ed immagini che ne trae: più che l’Inferno ed il Paradiso, ne è ricco il Purgatorio, a cominciare dal c. 1, colla descrizione dell’alba e della spiaggia marina) ed attento alle caratteristiche fisiche delle persone (Farinata in Inf. 10; Manfredi, in Purg. 3); interessato alle grandi vicende storiche ed ai particolari della cronaca (i canti sesto di tutte e tre le cantiche parlano rispettivamente della politica di Firenze, d’Italia e dell’Impero); affascinato dalla problematica degli animi umani (si pensi al c. quinto dell’Inferno, con la turbinosa vicenda amorosa di Paolo e Francesca) e dalle questioni scientifiche (la geografia, in Inferno e Purgatorio; l’astronomia, più specialmente in Paradiso); ammaliato dalla problematica filosofica e teologica più ardua (l’esame del rapporto fra i due supremi poteri della cristianità, Chiesa ed Impero, nel De Monarchia; la gerarchia nella gravità del peccato, dalla incontinenza delle passioni disordinate alla malizia della frode ed all’orrore del tradimento: Inf. c. 11; il rapporto fra libertà e influssi preternaturali delle stelle, in Purg. 16; il mistero della SS. Trinità, in Par. 33...). Parallela alla straordinaria vastità di analisi, in Dante si ritrova anche una superiore potenza di sintesi. Egli per primo nella storia dell’umanità affronta la questione filologica (origine delle lingue tutte, di quelle europee ed in particolare delle tre lingue sorelle: francese, provenzale ed italiano). Offre, inoltre, una soluzione originale al perenne problema politico, non solo per la giustificazione della unicità del potere nelle mani dell’imperatore, ma anche per il suo fine immediato (la pace tra i sudditi) e per il rapporto con la potestà religiosa ( originarietà ed indipendenza, nel loro ambito rispettivo, dell’autorità religiosa e civile). Ma la sua genialità di sintesi si svela soprattutto nel riuscire non solo a ridurre alla armonia di rima e ritmo le impressioni sensoriali, i sentimenti interiori, i ragionamenti complessi dei motivi ispiratori già accennati, ma a sublimarli abitualmente al calor bianco della liricità, dell’arte, della poesia: egli sottomette le componenti armoniche alla melodia, le varie e difficili idee alla unità della espressione emotivogenetica. Filosofo e poeta, l’estro letterario in lui non impediva la profondità del pensiero; la familiarità spontanea con la filosofia non attutiva la vivacità del suo linguaggio lirico. Una intelligenza poliedrica, multiforme, per tutte le stagioni: un uomo dalla parola convincente e persuasiva, pensosa ed affettuosa, illuminante e trascinatrice. Come tutti vorremmo essere. Come raramente si è verificato nella storia dell’umanità. Gli stessi Omero e Viriglio, Shakespeare, Goethe e Manzoni non reggono il confronto: egli li misura e subordina a sè.

 

 

 

III) L’AMBIENTE DI FORMAZIONE

 

Di tale vita, piena di passioni e di peripezie, a noi interessa soprattutto quanto il poeta seppe ricavarne per lo sviluppo dei Motivi Ispiratori, la maturazione della vita Emotiva e la complicazione della Tecnica stilistica, onde poter comprendere più a fondo la poesia sublime della Commedia e la storia della sua formazione nell’animo di Dante.

1) BEATRICE E L’AMORE IN DANTE. L’incontro colla fanciulla di poco più che otto anni è dichiarato dallo stesso poeta, nella Vita Nova, come fatto destinato dalla Provvidenza e decisivo per la sua vita affettiva, morale e religiosa. Essa diventa la donna amata, la sorgente della virtù, la messaggera anzi di Dio e, quindi, il simbolo della fede: essa è la creatura angelica "venuta| da cielo in terra a miracol mostrare" (Vita Nova, cap. 26, sonetto "Tanto gentile e tanto onesta pare"). Sempre la Beatrice cantata da Dante rifletterà in sè questa triplice complessità, anche se le diverse opere, nel trascorrer del tempo e nel succedersi delle vicende, sottolineano ora maggiormente l’una ora l’altra delle tre dimensioni. Nella Vita Nova il momento affettivo predomina, anche se ben presente è il motivo della provvidenzialità divina e del valore educativo di tale amore. Nella Divina Commedia, il rapporto affettivo traluce ancora suggestivo (anzi, formidabile) sia al primo incontro con la donna sulla vetta del Purgatorio (30, 22-66: "d’antico amor sentì la gran potenza|...conosco i segni dell’antica fiamma!"); sia in molti passi del Paradiso, che strappano a Dante espressioni di amore incontenibile (3, 118-23: "O amanza del Primo amante, o diva...). Pure, l’aspetto di Beatrice più solitamente valorizzato è quello di maestra nella fede, di guida a Dio atraverso "la verità che tanto ci sublima" (Par. 22,42), dopo esser stata coscienza critica inesorabile e medicina morale esigente e restauratrice sulla cima del Purgatorio nei canti 30-33. Beatrice, dapprima fuggevolmente descritta come la donna regale, irresistibile, affascinante ("quasi ammiraglio che in poppa ed in prora... regalmente nell’atto ancor proterva.... sopra candido vel cinta d’uliva| donna m’apparve, sotto verde manto| vestita di color di fiamma viva..."), aderisce sempre più al suo significato allegorico (simbolico) della Grazia o vita divina comunicata all’uomo nelle sue componenti fondamentali della fede, della speranza, della carità, con un’attenzione particolare al primo aspetto: quello della fede, che si precisa nella sua sorgente (la Rivelazione o Parola di Dio) e nel suo studio (la teologia o scienza della Rivelazione). La Vita Nova celebra la "donna beatificante", Beatrice appunto; la Commedia canta il viaggio dell’innamorato per ritrovare la "sua donna beatificata" e farsi introdurre da lei nella beatitudine della contemplazione di Dio.

 

2) IL DOLCESTILNOVO O L’INCONTRO CON LA POESIA.

Sebbene le primissime esperienze di Dante siano guittoniane, tuttavia si può presumere che fu la conoscenza del Dolcestilnovo a sviluppare la sua vocazione artistico-letteraria: il tempo della amicizia con Guido Cavalcanti e delle composizioni, che confluirono nella Vita Nova o rimasero sciolte come Rime giovanili), può ben essere considerato il suo "noviziato", la sua "vigilia d’armi" nelal carriera poetica. Dante stesso, d’altronde, chiama Guido Guinizelli "padre" della propria poesia (Purg. 26, 97-99). L’apprendistato poetica di Dante non si fermerà qui: ma di qui ha il suo vero inizio. Egli dapprima assorbe dal Dolcestilnovo tutte le componenti letterarie: i motivi ispiratori (nobiltà come dote personale basata sula virtù, non sulla eredità; affinità tra amaore, virtù e nobiltà d’animo; forza educativa ed elevante dell’amore gentile, affettivo, puro; valore religioso, anzi, di una tale esperienza); i sentimenti lirici (privilegiati i toni contemplativi: estasi, stupore, elegia; la vena drammatica ridotta alla trepidazione per la paura e la forza d’amore); la tecnica stilistica (uso di "rime d’amor dolci e leggiadre", contro la rozzezza di un Buonagiunta degli Orbicciani o di un Jacopo da Lentini , che non attinsero la armoniosa dolcezza della espressione: Purg. 26). In seguito, però, egli "farà parte per se stesso" anche in materia poetica: attrraverso il contatto con altre esperienze letterarie, egli si crea uno stile personale, molto duttile nella disponibilità al vocabolario ed agli accordi anche aspri e potenti, così come dà voce a tutta la gamma delle tonalità liriche dalle flebili alle violenti ed allarga all’infinito il panorama delle sue tematiche ispiratrici, dalla natura inanimata all’uomo, alla idealità filosofica a Dio stesso.

 

3) LO STUDIO DEL LATINO E LA SCOPERTA DI VIRGILIO.Col nome di "grammatica" per antonomasia il latino costituiva la prima materia del Trivio. Abbiamo già visto come Dante condividesse l’errore comune al Medioevo che il latino non sia mai stato una lingua naturale, cioè appresa dal contatto materno e sociale, ma un linguaggio artificiale, creato dagli studiosi per eludere l’inconveniente della continua evoluzione propria delle lingue vive, perchè parlate dal popolo. Lo apprende, dunque, a scuola. Dovette poi migliorarne il padroneggiamento per proprio conto, con letture od altri esercizi, perchè egli saprà usaare un latino non proprio ciceroniano (fino a Petrarca tali scrupoli non esistevano), ma molto disinvolto, al punto da riuscire a comporre epistole in prosa ed in versi nonchè interi trattati, sia filosofico-letterari ("De vulgari eloquentia", "De Monarchia") che scientifici ("Quaestio de aqua et terra" ). Possiamo, dunque, sospettare che già la scuola gli abbia fornito l’ iniziazione anche a qualche opera letteraria, che egli ebbe poi il tempo e la volontà di integrare personalmente. Il risultato fu il notevole ambito delle conoscenze dantesche di opere latine, anche se raramente dell’intera produzione giunta a noi di un autore. Di Virgilio egli pare ignorare le Georgiche; di Orazio, le Odi. Ma tra gli scrittori con cui rivela familiarità vi sono anche Cicerone, Livio, Stazio, Seneca, Lucano. Di opere filosofiche contemporanee (San Tommaso, ad esempio) non vi è traccia nelle opere anteriori alla morte di Beatrice: ne parleremo a parte. Virgilio, fra tutti i letterati, è quello che lo ammaliò: e troppo giustamente. Egli dovette studiarlo ed amarlo profondamente, se giunge a proclamare "Tu sei lo mio maestro e il mio autore;| tu sei colui da cui io tolsi| lo bello stile che m’ha fatto onore" (Inf. 1, 85-7). Forse è esatta l’osservazione di A. Momigliano: senza l’Enedide di Virgilio ( e la Somma teologica di Tommaso) non è pensabile la Commedia di Dante. Nè si trattava solo di fascino lirico e stilistico; neppure si tratta di riconoscere nel viaggio di Enea all’Averno (Eneide, c. VI) il probabile suggerimento primo al grande viaggio nei tre Regni cristiani d’Oltretomba. Vi è molto di più. Nella persona di Virgilio, contaminata con le problematiche, gli ideali, i successi ed i fallimenti del mitico Enea, Dante proietta le condizioni dell’umanità intera, lacerata esistenzialmente tra anelito alla perfezione ed impotenza ad attingerla; tra aspirazione alla verità, felicità, giustizia e la incapacità a realizzarle, salvo un intervento di Dio, che guida l’eroe sventurato ma pio, alla meta dell’inizio della stirpe romana attraverso l’esilio, le tempeste, le peripezie di un viaggio che pare non debba aver mai fine. Quanto di se stesso, esule e perseguitato ma proteso ad un fine sublime —la correzione della Chiesa e la elevazione-salvezza dell’umanità- non avrà intravisto Dante nelle figure idealizzate di Virgilio e di Enea? Certo che, ignorando i pesanti limiti fisiopsicologici del poeta mantovano, Dante lo introduce ad impersonare la natura umana al meglio delle sue possibilità, al di fuori della Redenzione divina e della Grazia soprannaturale: ne fa la incarnazione dell’insufficiente risultato ma della insopprimibile tensione dell’uomo storico (condizionato dal peccato originale) ad uno stato di totale verità, di pura beatitudine, di suprema giustizia. In questa prospettiva, egli si oppone (e d’altronde è la premessa) a Beatrice, che simboleggia invece lo stato di figliolanza a Dio (o Grazia) e, in genere, l’uomo rinnovato dalla fede e dai sacramenti che gli trasmettono la purificazione e la elevazione alla vita divina o soprannaturale, procurate dalla Pasqua di Cristo. Virgilio, al contrario, è l’uomo che, senza la Grazia, vi aspira inconsciamente, inconsciamente la preparara, secondo che confessa il poeta latino Stazio nel Purgatorio (22, 67-9: "Facesti come quei che va di notte| che porta il lume retro e sè non giova,| ma dopo sè fa le persone dotte"); consapevolmente la rimpiange, una volta conosciutala (nel Limbo: cfr. Purg. 3, 40-5: "-e desiar vedeste sanza frutto| tai che sarebbe lor desio quietato,| ch’eternalmente è dato lor per lutto:| io dico d’Aristotile e di Plato| e di molt’altri.- E qui chinò la fronte| e più non disse; e rimase turbato"). Virgilio risulta così una delle espressioni fondamentali dell’umanesimo cristiano di Dante, cioè della sua stima, fiducia, amore per l’uomo e le sue istituzioni (l’impero, ad esempio), ma sempre necessitanti, per la perfezione, della Grazia e della redenzione di Cristo.

 

4) LE LETTERATURE ROMANZE E IN SPECIE QUELLA PROVENZALE. Si è accennato che, prima ancora che dal Dolcestilnovo, Dante fu sfiorato dalla moda guittoniana tuttora in voga. Da lui (è facile pensarlo) e dagli altri poeti "di transizione" egli risalì ai Siciliani, che cita frequentemente. nel De Vulgari Eloquentia (a caminciare dal l. 1, c.12) ed ai quali accenna anche in Purgatorio (24, 55-7). Ma il suo giudizio su tutti costoro non è molto lusinghiero (De vulgari eloquentia, 1,13,1; e Purg. 24, cit. e 26,124-6): segno che poco o nulla rimase delle loro composizioni nella sua memoria e nel suo cuore.

Di maggiori lasciti, nei confronti di particolari tematiche o personaggi, bisogna riconoscerlo debitore alla letteratura oitanica (lingua d’oi"l), cioè al francese dei trovieri e dei poemi epico- romanzesco-didattici. A questo proposito va ricordato che Giovanni Villani, storiografo di poco più giovane di Dante (ca 1280-1348), scrive di un suo viaggio a Parigi per motivi di studio. Non ne sappiamo altro, ma questo dato conferma come egli dovesse conoscere il francese, secondo quanto si può indovinare dal fatto che Brunetto Latini gli raccomanda il suo "Tesoro" nell’ incontro all’Inferno (15, 119-20): il "Trésor" era scritto in prosa oitanica appunto. Nella Commedia inoltre sono ricordati eroi dei poemi e romanzi francesi, sia del "ciclo carolingio" (Orlando, Guglielmo e Rinaldo: Par. 18, 43-6), sia di quello arturiano (Inf. 5, 67: Tristano; ivi, 128: Lanciallotto; 32, 61-2: re Artù: quest’ultimo è ricordato anche del De Vulgari Eloquio, ove Dante cita pochi e non sempre esatti versi della lirica francese del Nord (1,9,3; 2,6,6). Dal Trésor di Brunetto, Dante trasse (lo si è ricordato) qualche particolare concreto per l’inizio (smarrimento nella selva, apparizione di belve e personaggi allegorici) del proprio Poema.

Ma senza confronto più importante per la formazione poetica di Dante fu la conoscenza del provenzale e della produzione lirica occitanica, che gli dovette possedere a fondo. Il canto ventiseiesimo del Purgatorio termina con otto versi messi in bocca ad Arnaut Daniello, che rivelano una padronanza così perfetta della lingua, da riuscire artitsicamente suggestivi, liricamente molto intensi. E in tale canto, il poeta fiorentino celebra quello provenzale come "miglior fabbro del parlar materno" rispetto a Girault de Borneil ed al Guinizelli per la lingua italiana ( 26, 115-26: cfr anche De vulg. Eloq., 1, 9; 2, 2). Dante si dichiara imitatore del Daniello in quel periodo della sua formazione poetica che seguì alla morte di Beatrice: le "rime petrose" sono frutto di imitazione di quel "trobar clus" (cioè difficile per allegorie e simbolismi filosofici) e della sua musicalità scabrosa e dura: una sequela che non risulta in poesia viva, emotivogenetica, ma in una esercitazione dell’autore della Commedia a trattare argomenti complicati, al di fuori delle "dolci rime d’amor ch’io solia" (Convivio, canzone che apre il quarto libro). Dante vuole cimentarsi, sull’esempio del confratello provenzale, in tematiche astratte ed insolite, con un musicalismo stridente e scabro ("Così nel mio parlar voglio esser aspro": canzone che chiude le rime petrose). L’allenamento predispone a quelle disquisizioni filosofico-teologiche (specie nel Paradiso), che se non sempre attingono vette sublimi di poesia, però sorprendono ed affascinano per la duttilità del verso pur nella precisione dei termini e nella stringatezza del ragionamento quasi sillogistico. E prepara la descrizione di paesaggi stravolti e di vicende allucinanti nell’Inferno (c.13: la selva dei suicidi; c. 25: metamorfosi dei ladri). A quest’ultimo traguardo servì anche la "tenzone con Forese Donati", uno scambio di tre sonetti ciascuno, di insulto volgare da taverna, sulla linea del Rinaldi, dell’Angiolieri e degli altri realisti contemporanei alla giovinezza di Dante. Gli dovette giovare anche, in proposito, la conoscenza de Il Fiore, 232 sonetti di un certo Durante, che riassumono il Roman de la Rose, con toni polemici e lianguaggio ardito, quando non impudente. Della restante letteratura italica, se pur egli la conobbe, spunti possono essergli venuti dalla materia dei poemetti di Giacomino da Verona e di Bonvesin de la Riva; o forse più facilmente da "L’intelligenza", noioso e minuzioso poema allegorico attribuito senza prove a Dino Compagni, fiorentino di parte bianca, che ritroveremo fra i cronisti del Trecento.

 

5) LA DISSIPAZIONE E LA CONVESIONE: L’ESPERIENZA RELIGIOSA E MORALE DI DANTE.

Benchè egli ne parli solo genericamente, tuttavia i rimproveri di Beatrice nei cc. 30 e 31 del Purgatorio non lasciano dubbi che lo smarrimento nella selva oscura avvenuto "nel mezzo del cammin di nostra vita" (Inf. 1,1) non sia solo simbolo od allegoria della umanità intera fuorviata, ma sia stata anzitutto una dolente realtà personale del poeta. I particolari concreti del traviamento di Dante rimangono un enigma, ma le parole di Beatrice in Purg. 30, 130-2 denunciano un periodo di devianza e di colpa: "e volse i passi suoi per via non vera,| imagini di ben seguendo false,| che nulla promission rendono intera". I dubbi sorgono ad esempio sulla realtà della "donna gentile" (Vita Nova): è donna autentica, oggetto di un amore affettivo da parte del poeta, o semplice simbolo di passione intellettuale per la filosofia, come egli cerca di far credere in Convivio, 1, 2, 16-17; nella canzone "Voi che intendendo il terzo ciel movete" (ivi, 1, 2); e nell’altra "Amor che nella mente mi ragiona" (ivi, libro 3, coi relativi commenti, specie ai cc. 11 e 12). E tale donna coincide od è diversa da quelle nominate (sempre in Vita Nova o nelle "petrose") coi nomi di "donna pietosa, Violetta, Lisetta, pargoletta, donna Pietra"? Comunque, a parte queste confessioni dantesche, a denunciare un vero fuorviamento sta anche il sonetto dell’amico Cavalcanti ("I’ vengo il giorno a te infinite volte") e la complicità nella tenzone con Forese (resta difficile, infatti, pensare si sia trattato solo di esercizio poetico senza accadimenti esistenziali concreti). Un altro problema è questo: si è trattato solo di una crisi morale, di costume od anche di un disorientamento intellettuale, che ha toccato la stessa fede? Gli elogi che Dante tributa alla filosofia parrebbero escludere la coincidenza tra lo studio di questa con la perdita della fede per sua causa. Si vedano in Convivio i cc. 12 e 15 del secondo libro; e i cc. 9-15 del terzo: la filosofia coincide, nella sua perefzione, con la Sapienza stessa di Dio.

Ad ogni modo, il superamento della crisi, la conversione immettono definitivamente il poeta nello "stato adulto" della mente: egli è ormai approdato ad una organica cultura della vita, dell’uomo, della storia, del cosmo. E’ un uomo che ha sistematicamente collegato in alleanza filosofia e teologia; che ha trovato un apparentamento fra esperienza e rivelazione; che ha armonizzato ormai scienza e fede. Egli diviene, in sede poetica, l’interprete più alto della coscienza medioevale dominante e si pone accanto al papa Innocenzo III, a San Francesco e San Tommaso come "culmine e sintesi" di una civiltà che , pur coi suoi limiti di acrisia storigografica e scientifica, ha segnato però un acquisto per sempre, una soluzione coerente e convincente ai problemi della metafisica, della religione e della morale. Dante ha poi conferito, alla espressione delle prospettive cristiane ed umanistiche dell’età di mezzo, lo splendore della più intensa partecipazione emotiva, creando un’opera che ancor oggi rimane insuperato capolavoro di poesia a livello mondiale.

 

6) LO STUDIO DI FILOSOFIA E TEOLOGIA.

Abbia o no frequentato corsi universitari in Bologna od a Parigi, è certo che Dante aveva una conoscenza precisa di come vi si svolgevano gli esami dei candidati al dottorato (Par. 24, 46-8); e che possedeva una notevole competenza sia filosofica che teologica. Una fonte a tale dottrina la rivela egli stesso in Convivio, 2, 12, 7: superata la crisi seguita alla morte di Beatrice, egli frequentò le scuole dei religiosi e di altre persone dotte in Firenze. Un simile curriculum dovette essere integrato da letture dirette di opere in lingua latina, dalla Bibbia ad Aristotele, dalla Somma di Tommaso ad Alberto Magno, da Bonaventura ad Averroè... Le citazioni o riecheggiamenti affiorano nelle sue opere della maturità, dal Convivio al De Monarchia, dalla Commedia alla Quaestio de aqua et terra. Scientificamente egli segue le conoscenze del suo tempo: tolomaico in astronomia, accetta come ovvio il geocentrismo con tutte le complicazioni interpretative che erano state elaborate nei secoli. Filosoficamente, egli aderisce alla Scolastica, a cominciare dalla concezione dualistica ed ilemorfica delle realtà create: tutte le sosatnze finite sono un tutto unico (sìnolo), risultante però dalla confluenza di materia (ùle) e forma (morfè), cioè da una potenza (la materia) ridotta ad esistenza attuale (atto) dalla forma. In particolare sono un aggregato di materia limitante e di forma sublimante i "cieli" (concepiti come sostanze solide) e gli "astri", che mediano l’influsso di Dio sulla terra ("che di su prendono e di sotto fanno": Par. 2, 123). Spunti di pitagorismo filtrano nella fortezza aristotelica del pensiero dantesco, attraverso gli scritti dello Pseudoaeropagita, un autore del Cinquecento d. C., scambiato per l’ateniese Dionigi, convertito da S.Paolo all’Aeropago (Atti degli Apostoli, 17, 34) ed affermatosi nella cultura del Medioevo come maestro di filosofia e spiritualità (Par. 10, 115-7; 28, 130-9). Teologicamente, infine, aderisce alla visione cattolica già esposta come pensiero dominante dell’età di mezzo e dimostra di aver confidenza con opere di Tommaso (le due Somme, Teologica e Contro i gentili), di Bonaventura (Vita di San Francesco ed Itineriarium mentis in Deum), di Agostino e di Paolo Orosio (Historiarum libri septem adversus paganos), di Bernardo di Chiaravalle e di Isidoro di Siviglia (Etymologiae od Origines). Tra gli autori non del tutto ortodossi, egli ebbe presente Ubertino da Casale (1259-dopo 1325). Fu capo della corrente degli Spirituali francescani e seguace delle profezie di Gioachino da Fiore sulla prossima età dello Spirito santo e della purificazione conseguente della Chiesa. Egli scrisse un libro di teologia, spiritualità e polemica religiosa: l’Arbor vitae crucifixae Jesu (Albero della vita crocefissa di Gesù), certamente conosciuto da Dante, che ne ricavò sia nomi di personaggi (Pier Pettinaio, per il quale vedi Par. 13, 125-9), sia (forse) l’idea della missione del Veltro, nel canto primo del poema sacro; sia frasi intere da parafrasare in versi. Si noti per altro che Dante, in Paradiso, 12, 121-6, condanna il rigorismo pauperistico di Ubertino stesso, sicchè si deve supporre in lui un lettore critico ed ortodosso della sua opera, che sfruttò senza divenirne supinamente ed in tutto consenziente.

 

7) L’ESPERIENZA POLITICA E MILITARE.

Da Campladino (1289) al priorato (estate 1300), dai tentativi di rientro coi fuorusciti (1302-3) all’attività in favore della spedizione "pacificatrice" di Arrigo VII, Dante conduce una intensa vita politica (e militare) che proseguirà in tono minore fino alla morte, intervenuta alla fine di un’ambasceria per appianare disaccordi tra Venezia e Ravenna, a proposito di alcune navi-pirata veneziane, catturate dai ravennati. Il complesso delle vicende, appassionatamente vissute e sofferte, aiutarono Dante a superare il dottrinarismo partigiano che opponeva fazioni a fazioni (Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri) e voleva il predominio o della Chiesa o dell’Impero sull’altra istituzione (teorie del sole e della luna: questa sottomessa a quello). Il poeta, costretto a "far parte per se stesso", si trova facilitato a ricercare la verità al di fuori delle passioni di un militante, degli interessi di un partigiano: a lui, ormai, sta a cuore la soluzione umanamente adeguata, ideale, equilibrata. La visione politica che ne risulta è la migliore tra quelle insorte sulle premesse razionali e bibliche del cristianesimo medioevale: la teoria dei due "soli", cioè l’ autonomia di Chiesa ed Impero nelle proprie sfere di azione, in una collaborazione che assicuri la pace nella giustizia (cioè la felicità possibile sulla terra) e faciliti, quindi, il raggiungimento della beatitudine ultraterrena al maggior numero di persone. Le vicende del 1311-1313, che umiliano l’Impero e segnano il trionfo della disunione finale tra gli Stati europei e l’inizio —a livello politico- dell’Europa delle nazioni che soppiantano la Santa repubblica cristiana, non smuove la fermezza dell’ideologia dantesca. Egli risulta così un presbite di genio, stratega della storia, anche se miope cronista e pessimo tattico: un vittorioso delle idee eterne, sconfitto dalla prassi immediata. Sintetizzò nel proprio pensiero il meglio delle opinioni dell’età a lui contemporanea, proiettandosi così verso i tempi più recenti, quando l’Europa sta di nuovo superando il criterio del primato nazionalistico e tenta rifarsi concorde nell’unità politica ed economica, avviando i propri figli verso la perfezione dell’auspicio manzoniano ( "una d’arme, di lingua, d’altare,| di memorie, di sangue, di cor"), che era la stessa meta del Sacro romano Impero, carolingio ed ottoniano.

 

8) L’INCONTRO CON LA CHIESA, IL MONDO ECCLESIASTICO ED IL POPOLO CRISTIANO.

Non tutta la realtà cristiana è trasmessa a Dante dai libri di teologia. La stessa distinzione-collaborazione-contrasto tra Chiesa e Impero egli ha modo di sperimentarla dal vivo, prima che di aggiornarsi nei libri sulle coordinate razionali sottese. La realtà ecclesiale è un fattore di vita permeante e predominante- almeno nella opinione pubblica ed ufficiale- attorno a lui. Firenze è guelfa; la Toscana è lascito spirituale alla Chiesa, non meno che eredità politica dell’Impero, nella volontà della contessa Matilde di Canossa; gli ordini religiosi in città, accanto al clero diocesano, sono la trave portante della cultura superiore, nei conventi di S. Croce (Francescani), di S. Maria Novella (Domenicani), di S. Spirito (Agostiniani). Il centro della città è la piazza del Duomo, ove sorge il "bel San Giovanni" (il battistero), ove Dante, quasi alla vigilia della morte, quando componeva il c. 25 del Paradiso, desidera essere incoronato poeta (vv.1-9); dove va sorgendo, a cominciare dal 1296, la magnifica cattedrale di S. Maria degli Angeli ad opera di Armolfo da Cambio. Alla fanciullezza di Dante appartengono ancora S. Tommaso d’Aquino e S. Bonaventura (entrambi morti nel 1274) e, a Lucca, S. Zita (morta due anni prima, nel 1272: cfr. Inf. 21, 38), mentre la grande epopea di Francesco e Domenico andava prendendo sempre più posto nela cuore e nella mente dei cristiani non solo d’Italia, attraverso il fiorire straordinario dei loro ordini religiosi. D’altronde Celestino V fu un santo della piena virilità del poeta, che avrà ammirato anche il successore di Bonifacio, papa Benedetto XI, morto, ahimè!, troppo presto. E chissà quanti cristiani della sua città o dei dintorni avranno lasciato in lui un ricordo di virtù evangeliche non comuni (come quel Pier Pettinaio, di cui gli parlava l’Arbor vitae crucifixae Jesu, di Ubertino da Casale). Ma il rovescio della medaglia non è meno clamoroso. Bonifacio VIII abbatte con le armi del Valois il governo democratico di Firenze, dando la città in balia della minoranza Nera; Corso Donati, capo dei Neri ultrapapalini, che è un demonio senza scrupoli nè coscienza; i papi ad Avignone, troppo sottomessi alla corte di Francia e con una curia chiaccherata per la facile venalità; Filippo IV, ospitante i papi, sovrano violento e spregiudicato, cui pure il papato si appoggia...Tutte le tre cantiche ribollono dell’ira cocente di Dante contro la corruzione del mondo ecclesiastico: dalla lupa del canto primo (vv.49-54) che incarna l’avariza dell curia romana, alla prima accusa contro papa Bonifacio VIII, da parte di Ciacco nel c.6 (v.69: "con la forza di tal che testè piaggia"); dall’accusa di materialismo contro il cardinal Ottaviano degli Ubaldini (Inf. 10,118-9) al vescovo di Firenze Andrea de’Mozzi, omosessuale (ib. 15,112-4); dal papa simoniaco Niccolò III, che aspetta Bonifacio VIII e Clemente V, già predestinati all’Inferno (c. 19,40-120), ai frati Godenti Catalano e Loderigo, condannati per ipocrisia e venalità nel c. 23 (vv.100-148). Pel Purgatorio, si veda la processione simbolica dei due canti ultimi, in cui si depreca la donazione di Costantino come causa prima dell’arricchimento e corruzione del mondo ecclesiastico e si anticipa la vergogna dell’esilio di Avignone. Pel Paradiso, basti citare la condanna violenta di San Pietro nel c. 27 contro il mondo ecclesiastico: egli dichiara Bonifacio simoniaco ed invalidamente eletto; lo accusa di aver "fatto del cimiterio mio cloaca| del sangue e della puzza; onde il perverso| che cadde di quassù, laggiù si placa" (vv.25-8); e termina con la predizione di una purificazione, che, riprende Purgatorio, 33, 31-45 e Par. 9, 127-142. La coscienza di un certo mondo ecclesiastico, indegno e corrotto, fa gemere Dante come figlio che piange per la degradazione della madre propria: il suo severo giudizio è sofferto come di chi è parte in causa, non polemico quasi di estraneo, quale sarà già in Petrarca e poi in molti umanisti.

Ma, poi, quale Europa cristiana? Le città italiane sono covi di vizi. In Lucca "ogni uom v’è barattier" (Inf. 21, 37-42). Contro la patria di Vanni Fucci, osceno bestemmiatore fra i ladri dell’inferno, il poeta tuona "Ahi, Pistoia, Pistoia, chè non stanzi (deliberi)| d’incenerarti, sì che più non duri(esista),| poi che in mal far lo seme tuo (i resti dei catilinari, che avrebbero fondato la città!) avanzi?..." (Inf. 25, 10-15). Sulla crudele città del conte Ugolino, fatto morire di fame in prigione con quattro tra figli e nipoti, egli invoca punizione radicale: "Ahi, Pisa, vituperio delle genti| del bel paese là, dove il sona,| poi che i vicini a te punir son lenti,| muovansi la Capraia e la Gorgona| e faccian siepe ad Arno in su la foce,| sì ch’elli annieghi in te ogni persona!" (ib. 33, 79-84). Le città della Romagna sono sferzate più volte, dal c. 27 dell’Inferno al c. 14 del Purgatorio. In quest’ultimo canto, sulla regione bagnata dall’Arno Guido del Duca pronuncia giudizi da brivido: in essa "virtù così per nimica si fuga| da tutti, come biscia, o per sventura| del loco, o per mal uso che li fruga;| ond’hanno sì mutata lor natura| gli abitator della misera valle,| che par che Circe li avesse in pastura..." Segue l’elenco delle città principali, i cui abitanti sono chiamati col nomignolo insolente dato loro dai vicini: i porci del Casentino, i botoli di Arezzo, i lupi di Firenze e le volpi di Pisa: Circe li ha davvero tramutati in animali! E, ritornando alla sua regione (Emilia-Romagna), la disperazione di Guido si trasforma in rievocazione nostalgica dei personaggi virtuosi del passato ("le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi| che ne invogliava amore e cortesia,| là dove i cuor son fatti sì malvagi!") che onoravano Bologna, Faenza, Bertinoro, Bagnacavallo, Castrocaro e Conio, la Romagna intera, oggi ridotte a covi di malizia. Ma naturalmente la città più conosciuta, nei suoi vizi più che nelle sue virtù, è Firenze: essa diviene la grande fornitrice di dannati all’Inferno. Contro di essa egli usa la sferza del sarcasmo: "Godi, Fiorenza, poichè se’ sì grande,| che per mare e per terra batti l’ale,| e per lo Inferno il tuo nome si spande..." (Inf. 26, 1-12); "Fiorenza mia, ben puoi esser contenta..." (di esser la peggio messa tra le città italiane: Purg., 6, 127-51). In forma più diretta, Ciacco nel c. 6 dell’Inferno (vv.49-90) sentenzia: "Giusti son duo, ma non vi sono intesi.| Superbia, invidia ed avarizia sono| le tre faville c’ hanno i cori accesi". E Cacciaguida, il trisavolo di Dante incontrato nel cielo di Marte, anch’egli oppone l’antica, virtuosa e saggia Firenze (Par. 15, 97-148) alla nuova, piena di frodi e violenza ( 16, 22-154). E si veda anche Par. 31, 37-9, dove a spiegare la gioiosa meraviglia di fronte allo splendore di santità del Paradiso, egli adduce questo significativo argomento: "io che al divino dall’umano,| all’eterno dal tempo era venuto,| e di Fiorenza in popol giusto e sano,| di che stupor dovea esser compiuto!"

Se tali sono i cittadini, i regnanti non sono migliori: si veda Paradiso, 18, 127-36; 19, 106-48; 21, 124-142; 29, 85-126; 30, 131-48...

Ve n’è abbastanza perchè l’uomo della strada, che ha bisogno di esempi continuamente presenti per credere in verità moralmente impegnative, si scandalizzi o si perda d’animo. Ma Dante, che la propria crisi l’aveva già superata, trova nella situazione ambigua —di santità e di corruzione della cristianità — un motivo di più per credere nella Provvidenza, che invierà un suo liberatore (il "veltro" di Inf. 1, 101-111; il "dux" di Purg. 33, 37-45), in tempo indeterminato ma certo (Par. 27, 142-8) a ristabilire nella giustizia e nella carità il suo popolo, redento a prezzo della croce (Par. 6 e 7).

 

9) IL DURO CALLE DELL’ESILIO.

E’ l’ultima esperienza, l’ultimo happening della sua vita, che durò quasi venti anni. Anni che incisero ancora sulla sua visione della vita, sempre meno affidata alla inaffidabilità degli uomini e sempre più, invece, alla Provvidenza di Dio. Anni che gli concessero il tempo necessario ad approfondire la propria cultura ed a maturare la propria personalità, allargando l’orizzonte dei motivi ispiratori, arricchendo la tecnica di nuove esperienze stilistiche, sommuovendo ancor più a fondo la sua capacità di reazione emozionale. Anche se sostanzialmente già formato, Dante potè approfondire il suo pensiero, affinare la sua forma espressiva, rinvigorire la sua sensibilità nelle diverse e sofferte situazioni di una vita profuga e precaria. Ad esempio l’attaccamento alla città natale si complica di risentimento e nostalgia. Il suo equilibrato pensiero politico si altera in un lieve favore, di fatto, al potere politico per salvare in concreto l’ordine italiano ed europeo, nella stessa misura in cui prima, come guelfo, aveva piuttosto privilegiato il potere della Chiesa, in nome del primato, di diritto, della vita spirituale sulla sfera materiale. Soprattutto si arricchisce di notizie la sua erudizione storico-cronachistica: questa conoscenza gli permetterà di mettere in bocca a personaggi d’Oltretomba pseudoprofezie su avvenimenti posteriori alla data immaginaria del viaggio, magari interpretati come punizione per oltracotanze accadute prima dell’anno Milletrecento.

Ma a noi l’esilio stesso appare come opera provvidenziale somma, in quanto offrì a Dante l’otium (tempo libero) necessario per realizzare quel "poema sacro| a cui han posto mano e Cielo e terra| e che m’ha fatto per più anni macro". Genio dalle molte anime, uomo proiettato sull’infinito, Dante non si rassegnava a vedere confinare la propria esistenza nell’ambito della vita privata: e noi sappiamo che sarebbe stato sprecato anche nell’ambito ristretto della politica fiorentina. Colle ali della operosità pratica tarpate da un complesso intellettuale di tipo perfezionistico e da una carica passionale di tipo impulsivo, egli aveva una intelligenza più vasta ed una volontà più aperta dell’ambito del "bell’ovile ov’io dormii agnello": aveva bisogno di una missione universale, di un campo d’azione grande quanto il mondo intero. Aveva tentato la via della politica cittadina per incidere in qualche modo sul corso della storia, per timoneggiare in meglio quella parte di umanità che pensava fosse l’ orticello fiorentino,da curare e di cui rispondere. Il De vulgari eloquio lo vede proiettato, sia pure in sede solo letteraria, su scala nazionale, ad inventare una scienza nuova, quella linguistica. La Monarchia lo proietta su problematiche europee di fatto, universali di diritto (rapporto fra Chiesa e Stato). Il Convivio testimonia una tensione sapienziale a dimensioni ben più vaste: infinita, quanto è la verità e la filosofia. Su tale strada lo incanalerà la Provvidenza, sottraendogli ogni possibilità di coinvolgimento a problemi prassici e politici e concentrandolo su quel poema che sarebbe chiamato "divino" e che al magistero della verità doveva aggiungere il fascino della poesia, alla lingua filosofica comune, il plus-valore musicale della parola artistica, alla convinzione delle dimostrazioni razionali, la persuasione della suggestione lirica. Come nota Giosuè Carducci in un suo sonetto (il 27° di "Giambi ed Epòdi"), il podestà messer Cante Gabrielli commise una ingiustizia patente comminando a Dante il bando dal comune, ma offrì al poeta la condizione unica di vita che gli permise di condurre a termine il capolavoro: un poema di tale varietà e potenza lirica da non aver trovato ancora artista della parola che lo possa uguagliare, che ancor oggi agisce sulla umanità, non solo italiana, nel senso di una sollecitazione emotiva che edifichi " umanamente l’uomo", perchè è nata da una coscienza cristiana esigente e coerente. Ha ragione ancora il poeta della Maremma toscana (fraterno a Dante nell’impeto lirico, anche se non consenziente nel pensiero cristiano) quando canta nella strofa saffica della Chiesa di Polenta: "Itala gente dalle molte vite,|dove che albeggi la tua notte e un’ombra| vagoli spersa de’ vecchi anni, vedi| ivi il poeta (per eccellenza, cioè appunto Dante)". Se la lingua italiana sarà ancor aoggetto di studio fra secoli e millenni, più ancora che a Manzoni ed a Foscolo, lo dovremo all’autore della Divina Commedia.

 

IV) LE OPERE MINORI

 

     

  1. LA VITA NOVA.
  2. Definizione e dati esteriori . E’ la storia poetica dell’amore di Dante per Beatrice. Consta di 42 capitoletti, parte in versi e parte in prosa. I versi pare siano da assegnarsi al periodo 1283-1292, cioè dall’inizio dell’attività poetica di Dante a poco dopo la morte della donna (1290). Le prose sono più tardive, perchè espongono le circostanze che ispirarono (avrebbero ispirato) i versi e ne spiegano il significato: si pensa, perciò, siano state composte fra la morte di Beatrice e il superamento della crisi da parte del giovane (1295?).

    Il titolo significa "Vita giovanile" oppure "Vita rinnovellata dall’amore".

    La parte in versi comprende 25 sonetti, 4 canzoni, 1 ballata e 1 stanza isolata.

    Il volumetto è dedicato a Guido Cavalcanti, che aveva introdotto Dante nel circolo dei poeti dolcestilnovisti e lo aveva aiutato a uscire dalla dissipazione.

    Motivi ispiratori. Il motivo più profondo e vero non sono i dati esteriori della vicenda amorosa, ma la storia interiore di essa, cioè gli effetti purificatori e rinnovatori, beatificanti ed elevanti operati nell’animo del poeta dall’affetto per la fanciulla straordinaria. Essa realizza pienamente il proprio nome, rivelandosi come la fanciulla angelicata, creata da Dio per innalzare Dante all’amore delle celesti cose. Difatti tale amore è voluto dalla Provvidenza ed avviene in circostanze astronomiche così eccezionali, da escludere ogni casualità e banalità: è happening del tutto religioso e morale, da cui esula non solo ogni erotismo, ma altresì la dimensione sentimentale, per affermarsi come ammirazione e sbalordimento, timore riverenziale e venerazione, sgomento ed esaltazione del tutto spirituali.

    Le vicende esteriori di tale legame si possono così fissare. A nove anni il poeta incontra e si accorge per la prima volta di Beatrice, poco più che ottenne, vestita di rosso. Nove anni dopo, Beatrice, vestita di bianco, si accorge di Dante e gli rende il saluto. Dante ha un sogno-visione, in cui Amore fa mangiare il cuore del poeta a Beatrice: Dante scrive il primo sonetto ("A ciascun’alma presa e gentil core"). Dante non vuole che la gente si accorga del suo amore per la giovane e finge di guardare altre donne (dello schermo): Beatrice, allora, gli toglie il saluto e, anzi, durante una festa nuziale in cui Dante rischia di svenire per lo smarrimento di trovarsi molto vicino alla sua donna, viene canzonato dal crocchio delle giovani e dalla stessa Beatrice (scena del "gabbo"). Dante, allora, decide di sublimare ulteriormente il suo amore, rinunciando anche al saluto di Beatrice, per concentrarsi unicamente nella composizione di versi in "lode" di lei. Nasce così la prima canzone "Donne che avete intelleto d’amore" (c. 19). Muore il padre di Beatrice e Dante ne soffre fino alla soglia del delirio: in tale stato di pena, egli ha il presentimento che anche la sua donna dovrà morire presto: in tali ambasce è consolato da una "Donna pietosa e di novella etade" (è questo il titolo di un’altra canzone, nel c. 26: la donna parrebbe essere la sorellastra Tana, cioè Gaetana). E Beatrice , l’8 giugno 1290, viene a mancare davvero. La sofferenza che ne consegue in Dante suscita la compassione di una "donna gentile". Il poeta accetta per qualche tempo la simpatia della donna e il suo cuore se ne innamora: solo la ragione combatte questo affetto. Alla fine Dante se ne scuote, però e torna al suo primo amore: Beatrice allora gli appare in un nuovo sogno-visione e Dante si sente spronato ad onorarla ed eternarla in un’opera degna della Sua bellezza, virtù e gloria celeste.

    Valore poetico. Ci troviamo di fronte ad un’operetta che suscita contemporaneamente notevole stupore per l’audacia del progetto e una certa delusione per il risultato definitivo non supremo; ammirazione per alcuni spunti sia di prosa che di versificazione seducenti e scontentezza per la mediocrità complessiva dell’opera. La Vita Nova rappresenta il "noviziato poetico" di Dante, cioè l’allenamento necessario ad impadronirsi dell’arte della parola: pur possedendo un’anima geniale, non deve meravigliare che anch’egli debba pagare uno scotto alla necessità di un apprendistato, che produce frutti in parte ancora acerbi, che risentono dello sforzo del tradurre le idee in sentimenti, i sentimenti in espressione sublimata a lirismo od emozione pura.

    La parte in prosa risente della fatica di crearsi una lingua adeguata ad avvenimenti presentati come mistici, cioè soprannaturali (voluti da un intervento straordinario di Dio) ed a stati d’animo eterei, esatici, ineffabili. Ne nascono espressioni tecnicamente retoriche (anche se vi sono, poi, parecchi versi spontanei, sparsi come perle qua e là nei capitoletti) che trasmettono emozioni forzate, eccessive: patetismo idillico-elegiaco od enfasi epico-drammatica. Di pagine liriche pienamente convincenti non ci sembra proprio di averne incontrate.

    Le composizioni in versi potremmo distribuirle su due livelli di caratura lirica. Sono stentate le prime e le ultime, per un motivo affine: le prime, per l’impaccio tecnico generico dell’incipiente versificatore; le ultime, dopo il c. 27, perchè Dante si cimenta con motivi ispiratori nuovi e, quindi, si ritrova nella condizione impacciata del principiante. Quelle del grupo centrale (dal c. 19 con la canzone "Donne che avete intelletto d’amore" al c. 26, col sonetto "Tanto gentile e tanto onesta pare") sono le migliori e trovano nel sonetto "Cavalcando l’altrier per un cammino" (c. 9) un’anticipazione felice.

    Le tonalità liriche. Il lirismo fondamentale è contemplativo: si tratta di stati d’animo miti, dimessi, timidi: sia nel senso della gioia che della tristezza. Rari i momenti drammatici, nel senso dello stupore e sbigottimento, già visti nel Dolcestilnovo. Vi si rivela un atteggiamento adolescenziale, il candore di un giovane che si apre con meraviglia alla vita e incontra la prima volta —estatico e spaurito- l’amore. La vita ha il sapore di una giornata di prima primavera, di un aprile incipiente, quando il sole è appena tiepido come in una mattina di Pasqua; quando la pioggia è placida e rinfrescante come sull’erba tenera. L’aura poetica della Vita nova si lascia definire come tepore o frescura, penombra e crepuscolo.

    In quest’atmosfera, si possono distinguere tre registri di emozioni contigue: l’estasi della gioia idilliaca ("Donne che avete intelletto d’amore": c. 19; "Ne gli occhi porta la mia donna amore": c. 21; ""Tanto gentile e tanto onesta pare": c. 26); la delusione nella tristezza elegiaca ("Cavalcando l’altrier per un cammino": c. 9; la prosa sulla morte del padre di Beatrice: c.22; la parte d’inizio e fine di "Donna pietosa e di novella etade": c.26); lo smarrimento spaurito, lo sbigottimento incipientemente drammatico (tutto il c. 23 e la parte centrale della canzone "Donna pietosa...").

    Tecnica stilistica. Limitiamoci a sottolineare tre processi stilistici, fra i molteplici spontaneamente o volutamente impiegati da Dante: spiritualizzazione, soprannaturalizzazione, musicalizzazione. La spiritualizzazione fa sì che la descrizione di persone, ambienti, eventi tendano a perdere od almeno attenuano il senso di materialità e forza, di spazialità e dinamismo, di concretezza e movimento, di impeto e di plasticità. Si ha a che fare con un mondo etereo, lieve, impalpabile e con una trama di vicende interiori più che di avvenimenti esterni. Si ha la impressione che entrino in scena anime disincarnate più che persone fisiche. Questa prospettiva spiritualizzante avvolge Beatrice come Dante, le donne dello schermo come la "gentile" e la "pietosa": tutti i personaggi sembrano voler emarginare la terza dimensione e la corposità, per risultare figure angelicate, creature celestiali, apparizioni speculari, come in una rivelazione mistica od onirica (di sogno). Tale risultato è raggiunto anzitutto mediante una concezione elevata, sublimante dell’amore e della donna. La donna può affascinare oppure sbigottire con la sua bellezza ( cfr. specialmente il c. 9), ma sempre costringe a diventare migliori, gentili, virtuosi (cc. 1, 21, 26 coi sonetti già citati). Il vocabolario, poi, privilegia parole di mansuetudine e termni astratti (vita nova, gloriosa donna, nobilissimo colore, umile, onesta, giovanissima etade, spirito, scretissima camera de lo cuore, disponsata, signorìa, vertù, imaginazione, nobili e laudabili portamenti, figliuola di deo, miracol, meravigliare, meravigliosa visione, imagine, angiola, giovanissima, baldanza, signoreggiare, fedele consiglio, gentilissima, gentili, pauroso, ineffabile, cortesia, beatitudine, dolcissimo salutare, dolcezza, inebriata, cortesissima, soave sonno, nebula di colore di fuoco... (dai capitoli 1, 2, 3 e 26).

    Le circonlocuzioni diluiscono la realtà fisica, riducendo le vicende ad un amalgama nebuloso di ombre fluttuanti. Se ne leggano alcune, spigolando nei primi due capitoli: "libro della memoria" (cioè, la memoria), "gloriosa donna della mia mente", "ella era stata in questa vita già tanto che ne lo suo tempo lo cielo stellato..."(cioè: Beatrice aveva 8 anni e 4 mesi), "vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata in guisa che la sua giovanissima etade si convenia", "lo spirito naturale lo quale dimora in quella parte ove si somministra lo nutrimento nostro..." (cioè, lo spirito vegetativo). La soprannaturalizzazione consiste nel mettere in relazione le tappe della storia d’amore con accadimenti cosmici, con appuntamenti astrali, quasi la vicenda abbia un’origine divina, un significato eterno, una scansione provvidenziale, uno scenario infinito (c.2). Si mettono in rilievo coincidenze numeriche che dovrebbero conferire significato simbolico, anzi fatale, di predestinazione religiosa agli avvenimenti: il "tre" ed i suoi multipli sono il punto di riferimento preferito (incontri a 9 e 18 anni; 9 giorni di malattia; il moltiplicarsi de "lo perfetto numeroi nove" nella data della morte di Beatrice...). Il capitolo 29 è il più esplicito in proposito, ma si vedano anche i cc. 2, 3, 9, 12, 23, 26, 39, 42. La musicalità l’ha indovinata e studiata Natalino Sapegno, che ha ritrovato serie di versi endecasillabi nel capitolo undecimo. Noi lo seguiremo, analizzando un brano del c. 2: oltre a presentare altri casi di versificazione, si presta ad altre notazioni circa il musicalismo di tutta l’operetta. Ecco un paragrafo esemplare: "Elli mi comandava molte volte| che io cercasse di vedere questa| (angiola giovanissima: onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti)| che di lei certo si poteva dire| quella parola del poeta Omero:| -ella non par(ea) figliuola d’uom(o) mortale| (ma di deo-. E avvegna che la sua immagine, la quale continuamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me),| tuttavia era di sì nobilissima| vertù che nulla volta sofferse che Amore| (mi reggesse senza lo fedele consiglio de la ragione, in quelle cose dove cotale consiglio fosse utile a udire". Questo brano contiene, dunque, sette endecasillabi: ma è anche un campione di prosa che rivela uno straordinario equilibrio di suoni vocalici (la maggior presenza di vocali larghe-"a|o"- è bilanciata dalla frequenza di vocaboli sdruccioli che elidono ed armonizzano il musicalismo vocalico): la netta prevalenza, allora, di consonanti dolci, fluide (liquide, nasali, fruscianti, palatali dolci) domina l’espressione prosastica, riconducendola ad una soavità e lievità di registri, tipici anche delle migliori poesie. Siamo nello spirito peculiare del Dolcestilnovo e nella fedeltà ai toni lirici (contemplativi) ed ai motivi ispiratori (vicende spiritualizzate, aeree...).

     

     

  3. LE RIME.
  4.  

    Si tratta di una cinquantina di composizioni (sonetti, canzoni, ballate, una sestina) che non fanno parte nè della Vita Nova nè del Convivio, ma sono rimaste sparse. Si possono raccogliere in sei gruppi (più alcune rime di incerta attribuzione).

    Rime contemporanee alla Vita Nova. Sono per lo più rime d’amore: alle donne dello schermo, alla donna gentile, a Fioretta, a Violetta....

    Tenzone con Forese Donati. Sono i tre sonetti di cui si è già parlato, testimoni del traviamento del poeta; sono in stile realistico.

    Rime allegoriche e dottrinali: una canzone, una ballata, due sonetti sulla "donna sdegnosa", tutte ispirate allo studio della filosofia che tale donna impersonerebbe.

    Rime d’amore posteriori alla Vita Nova e rime di corrispondenza varia. Tra le prime, è degna di ricordo la ballata "I’ mi son pargoletta bella e nova"; tra le seconde, due sonetti a Cino da Pistoia.

    Rime per donna "Pietra". Sono poeticamente mediocri. Si ritiene che siano ispirate da una donna reale, ma dura, rigida, difficile da innamorare (e il nome starebbe ad indicare tale carattere). Meno probabile si ritiene essere anch’esse allegoricamente riferite alla filosofia, studio impegnativo e arido. Sono rime anteriori all’esilio e sono notevoli per le arditezze stilistiche, imitate su Arnaut Daniello, il poeta provenzale che suggerì a Dante lo spunto per rime complicate e accumuli di allegorie. Dante stesso parla anche nel De Vulgari Eloquentia, 2, 13, di questi esercizi su rime ripetute ossessivamente e schemi metrici complicati come quelli della sestina.

    Rime dell’esilio. Pur mantenendo forti spunti dottrinali, ritornano all’autobiografismo, con una intensità di partecipazione emotiva che fanno presentire le altezze poetiche del capolavoro.

    Giudizio sintetico. Le composizioni più belle: "Per una ghirlandetta ch’io vidi" (ballata d’amore: idillio)| "Deh, Violetta, che in ombra d’amore" (sonetto: idillio)| "Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io" (sonetto di evasione fantastica e di giovanile amicizia, in tono idillico-fiabesco)| "Sonar bracchetti e cacciatori aizzare" (sonetto in tono drammatico, cioè di risentita tristezza per l’avversione di un amico alla sua passione per la caccia). Una parola a parte merita la canzone "TRE DONNE INTORNO AL CUOR MI SON VENUTE": è del tempo dell’esilio e fonde autobiografismo, allegoria e riflessione filosofica con la profondità che sarà poi della Commedia tutta. Il poeta vi rivela il suo desiderio di rientrare a Firenze, ma esprime anche la coscienza fiera della propria innocenza e della ingiustizia perpetrata contro di sè, bandito e perseguitato alla stregua con cui la Legge divina, la Giustizia naturale, il Diritto positivo (che a quelle si ispira) sono scacciate da una società corrotta. Sentendosi in compagnia di tali tre donne, nobili e nobilitanti nel loro stato miserabile, Dante esce in versi di una potenza indimenticabile: "L’essilio che m’è dato, onor mi tegno,| chè se giudizio o forza di destino| vuol pur il mondo versi| i bianchi fiori in persi| cader coi buoni è pur di lode degno"

     

     

     

  5. IL "CONVIVIO".
  6. E’ un’opera mista di prose e di versi, di scienza, di filosofia e di teologia, scritta nei primi anni dell’esilio (1304-7?), ad imitazione delle "Somme" (enciclopedie) medioevali. Rimase incompiuta. Doveva constare infatti di quindici trattati (libri), a commento di quattrodici canzoni (il primo libro, introduttivo, è senza la poesia d’apertura): Dante riuscì a scrivere 3 canzoni e 4 libri di prosa. L’opera rappresenta un primato nel campo della scrittura in volgare italico per le materie filosofiche. Su materie scientifiche, infatti, Ristoro d’Arezzo aveva fatto da battistrada (1282: "Composizione del mondo"); in lingua francese, poi, Brunettio Latini aveva preceduto anche in campo filosofico, con il Trèsor. Di tale novità è ben cosciente l’autore, che nel primo libro difende il diritto e afferma il dovere di educare anche le genti indotte, scrivendo nella loro lingua materna, che, essendo spontanea e naturale, è più accessibile di quella artificiale (la "grammatica", cioè il latino). Il titolo nasce da questa intenzione di "servire un bamchetto" di dottrina ai lettori: è la traduzione del greco "simposio", con cui già Platone aveva intitolato una sua opera. Forse era questa l’opera prima pensata da Dante per onorare degnamente Beatrice. Provvidenzialmente interruppe il lavoro per la Commedia. Il valore, infatti, sia artistico che scientifico, è mediocre: è molto al di sotto, nel complesso, alla Vita Nova ed alle Rime. Specialmente i primi due trattati-libri stupiscono per la pochezza anche del contenuto di pensiero. Il lettore è tentato di chiedersi: ma è veramente opera di Dante? Poi, poco a poco, si fa sentire la "zampata del leone", cioè la potenza del pensatore, il grande maestro della Commedia. Purtroppo non altrettanto si può dire delle parti in versi. Il motivo della scontentezza del fruitore è almeno duplice. Anzitutto Dante si trova ancora impacciato di fronte alla trattazione filosofica, alla esposizione cioè di concetti, difficili per sè e complicati nella loro sistemazione. Specie i primi due libri risentono di questa circostanza ed hanno una lentezza di espressione che sorprende in uno scrittore che si accingeva a comporre un poema così sublime, da essere denominato "divino". A complicare le cose interviene un secondo fattore: l’impostazione dell’opera è sofisticata. Il proposito di esporre dapprima in versi il nucleo di una tesi dottrinale, da spiegare poi analiticamente in prosa, costituisce un impegno altamente improbabile nella riuscita. L’ottimo è nemico del bene! Si tratta di "rivivere emotivamente" una dottrina filosofica o scientifica, cioè di mettere in tensione la mente due volte: per organizzare intellettualmente delle idee in giudizi ed in ragionamenti (sillogismi); e per inventare una forma musicalmente adeguata, così che la razionalità si elevi a liricità. Un compito davvero al limite delle possibilità umane: il vivificare poeticamente dei discorsi filosofici è il massimo cui possa attingere la mente umana. Che Dante ci sia poi riuscito (non sempre, ma spesso) nel capolavoro del poema, è una prova della sua somma genialità. Che ci riuscisse di primo acchito, nel Convivio, era inverosimile a priori; a cose fatte, si è dimostrato un fallimento quasi totale. Ovviamente, queste canzoni sono un esercizio esigente ed han preparato la scioltezza di ragionamenti, in versi riusciti, nella Commedia. Ma, pel momento, i versi più belli sono il primo di ognuna delle tre canzoni, sicchè "ouvertures" riescono false immagini "che nulla promission rendono intera" (Purg. 30, 132). Quanto alle parti in prosa, dovendo esse commentare i versi per svolgerne i concetti accennati sinteticamente, finiscono frequentemente per disperdersi in questioni marginali che i versi hanno trascinato con sè per intuizioni estemporanee e per l’urgere delle troppe idee che Dante ha in mente di esprimere. In definitiva, la parte in versi risulta arida e scialba; la parte in prosa, disorganica e mal strutturata. Per le tre canzoni, ci limitiamo, perciò, a spiegarne i versi d’apertura. Con la prima ("Voi che, intendendo, il terzo ciel movete"), Dante si rivolge alle intelligenze angeliche del terzo coro, dette Troni, che presiederebbero (nella opinione fra teologica ed astrologica medioevale) al movimento ed agli influssi del cielo di Venere e, quindi, alle vicende dell’amore. Dante cita poi tale verso in Par. 8, 37, cioè appunto nei canti dedicati al terzo cielo ed agli spiriti amanti, ivi apparsi al poeta nel suo pellegrinaggio attraverso i tre Regni d’Oltretomba. "Amor che nella mente mi ragiona" è ripresa in Purg. 2,112, in un contesto estatico, cantata dall’amico Casella, che l’aveva musicata. "Le dolci rime d’amor ch’io solia|...convien ch’io lasci" introduce decisamente nell’argomentazione filosofica e teologica del quarto libro. Per le riflessioni in prosa, ricordiamo alcune affermazioni o notevoli pel contenuto culturale o intense per la partecipazione affettiva. Nel primo libro, colpisce la descrizione che Dante fa di se stesso come pellegrino, esule, ramingo per tutta Italia, non ancora rassegnato alla lontananza da Firenze ( libro1, cap.3); e la difesa e l’elogio della lingua volgare (l. 1, c.3, paragrafi 4 e 5). Nel secondo libro interessa l’elenco dei nove cori angelici (derivata dallo pseudo Dionigi l’Areopagita) e dei nove cieli tolemaici, attorno alla terra immobile, che ritroveremo come struttura fondamentale della Commedia (2, 3-4-5); la teoria critica dei quattro sensi in cui può e deve essere interpretato uno scritto: letterale, allegorico (simbolismo intellettuale, teorico), morale (simbolismo etico, pratico), anagogico (simbolismo soprannaturale, cioè scoperto in base alla rivelazione cristiana: 2, 1). Si ricordi in proposito il distico latino: "littera gesta docet; quid sentias, allegoria; moralis, quid agas; quo tendas, anagogia" (il senso letterale spiega il fatto; l’allegoria, quale verità simboleggi; la morale, che cosa devi fare; l’anagogia, dove devi tendere). Nel terzo libro, la filosofia viene indicata come via alla sapienza e, quindi, a conoscere Dio che della Sapienza e della filosofia è la fonte (3, 11-15). Più volte in questi primi tre libri il poeta insiste nell’affermare che la "donna gentile", di cui si innamora dopo morta Beatrice (cfr. Vita Nova, cc. 35-9), non è una persona, ma il simbolo della filosofia al cui studio egli si pose di fatto in quegli anni (1, 2; 2, 12 e 15; 3, 11 e 12). Nel libro quarto troviamo di nuovo il concetto, dolcestilnovistico e tomistico, che la nobiltà è virtù dell’anima o del corpo ( vitalità, forza, intelligenza... virtù morali...religione: 4, 12); incontriamo la esaltazione dell’Impero come via necessaria alla felicità umana sulla terra (ivi, cc. 4 e 5); ci imbattiamo nella affermazione che i beni terreni sono insufficienti alla felicità umana, che solo in Dio si realizza adeguatamente (ib. c. 12: cfr. Purg. 16, 85-93; Par. 3, 85-7; e 4, 124-132); scopriamo che anche Dante ha pagato tributo alla moda astrologica (presunti influssi stellari sulla vita umana), in un contesto, però, che ne fanno solo una ingenuità di tipo soprannaturalistico (l’influsso non nasce direttamente agli astri, ma dalle potenze angeliche che vi presiedono) e impediscono di cadere nel determinismo astro-fisico, cioè di mettere in pericolo il libero arbitrio (la libertà interiore, sulle passioni, emozioni ed istinti) nell’uomo.(ib,c.21).

     

    D) DE VULGARI ELOQUENTIA (OD "ELOQUIO": la lingua volgare,popolare).

    E’ un trattato scritto per i dotti e, perciò, in latino. Esso vuol difendere di fronte alla opinione loro, il valore della lingua del popolo. E’ opera contemporanea al Convivio, che cita esplicitamente il De Vulgari eloquentia al libro 1, c.5. E’ lavoro incompleto, rimasto fermo al secondo libro, incompleto anch’esso. Non abbiamo neppure un’idea precisa di quanti libri dovesse esser composto: qualche lume si può ricavare dal fatto che al secondo libro (cc. 4 e 8) si rimanda ad un quarto libro, mai scritto.

    Il primo libro è il primo trattato di linguistica (come sono sorte le lingue?) mai tentato dagli uomini; il secondo libro è il primo trattato di "poetica" (come far poesia?) scritta in terra italiana (ci sono precedenti provenzali). Nel primo libro Dante tenta, sia pure con molte ingenuità, di ricostruire la storia del linguaggio umano, cioè l’albero genealogico delle lingue parlate sulla terra. Prima lingua sarebbe stato l’ebraico (i progenitori avrebbero parlato il linguaggio conservatosi nel popolo eletto). La confusione delle lingue alla torre di Babele avrebbe dato origine a tre gruppi linguistici: il germanico a nord, il greco ad oriente e un terzo ramo (che noi chiamiamo "neolatino o romanzo") a sud. Quest’ultimo linguaggio si è ulteriormente differenziato col tempo nei tre idiomi del "sì" (italico), d’ "oil" (francese) e d’ "oc" (provenzale). Il modo di rispondere affermativamente, secondo Dante, connota e distingue le lingue. Il latino (opinione medioevale già vista) non sarebbe mai esistito come lingua parlata spontaneamente, insegnata dalle madri: sarebbe sempre stata (anche nella Roma di Cicerone) una lingua convenzionale, artificiale, messa assieme dai dotti per scopi di comunicazione sociale. Sarebbe nata, cioè, dal bisogno di disporre di uno strumento fisso, immutabile, cristallizzato che permettesse di trattare gli argomenti più elevati e difficili, degno di persone colte, al sicuro dalle mutazioni innate nelle lingue naturali. Ma, per Dante, la perfezione della "grammatica" può essere acquisita anche dai linguaggi naturali, purchè non si accettino indiscriminatamente le varie forme dialettali (Dante enumera quattrodici dialetti italici, tra cui —non giudicato più favorevolmente degli altri- il fiorentino: sette sono ad est e sette ad ovest dell’Appennino). Si deve, invece, dedurre da essi una lingua "illustre e cardinale, aulica e curiale", capace cioè di nobilitare chi la usa, perchè adeguata ad esprimere con chiarezza e precisione il pensiero anche filosofico (illustre); adatta ad essere punto di riferimento per giudicare, purgare, elevare le parlate plebee (cardinale, da cardine); degna, infine, dell’aula regia (cioè, della reggia:aulica) e del regio tribunale (curia), se il regno (anzi, l’impero) dovesse aver sede, come di diritto, in Italia. Come, in concreto, Dante prevedesse potersi assurgere dalle parlate locali a questa lingua ideale, che "non ha sede in alcuna città, eppure diffonde il suo profumo in ciascuna" (in qualibet redolet parte nec cubat in ulla: libro 1, c. 16), non è facile intuirlo. Pare si debba escludere che essa risultasse da un miscuglio di forme prese da differenti dialetti; meglio pare si debba intendere, come lingua dantesca, l’insieme dei vocaboli comuni ad ogni città, con la esclusione di quelli peculiari ad una sola. Sembra, però, di indovinare da qualche espressione-lapsus, che egli intendeva per lingua "illustre" quella selezionata o addirittura creata dai migliori poeti e scrittori volgari, come i Dolcestilnovisti, in particolare Cino da Pistoia ed il suo amico fiorentino, cioè Dante stesso... (1, 17).

    Il secondo libro presuppone la distinzione dei tre "stili" medioevali (umile o basso od elegiaco| medio o mediocre o comico| alto o sublime o tragico) e cerca di stabilire una sorta di coincidenza fra stile tragico e linguaggio illustre, cardinale, aulico, curiale. In concreto, egli si limita a prendere in esame la sola espressione in versi, definendola suggestivamente come "finzione retorica posta in musica" (fictio rethorica musicaque posita). Afferma poi che allo stile tragico appartiene certamente lo schema metrico della canzone, escludendone il sonetto e la ballata. Della canzone fornisce le componenti fondamentali: i versi (endecasillabi e settenari), la divisione in stanze o strofe, a loro volta distinte in "fronte, sirima, chiave di unione fra loro) e la legge della identità di posizione dei versi e delle rime nelle varie stanze. Analizza poi anche, ma più succintamente, il tipo di vocabolario e di musicalità adeguato allo stile tragico: per opposizione, cita vocaboli e suoni indegni di esso. Ma quello che a noi sembra genialmente precorritore, in questo secondo libro, è la tendenza spontanea in Dante a collegare con un certo "stile" (quello tragico) un certo preciso gruppo di "temi" (motivi ispiratori) ed un parallelo "tono lirico". Egli infatti afferma che al linguaggio illustre si addicono solo argomenti di somma dignità, cioè i valori più alti nella vita vegetativa (sopravvivenza: guerre di legittima difesa, dunque), in quella animale (amore e riproduzione) e della vita umana (virtù morali, giustizia, rettitudine). Egli privilegia nettamente l’attenzione per lo "stile" tragico e comico ( cc. 8 e 12) usando una sola volta il termine "mediocre" come sinonimo di "comico"(c. 4). Dello "stile" umile od elegiaco o basso non si parla neppure una volta, ma si pensa che ne avrebbe trattato nel libro 4, assieme allo stile medio o comico. Questi dati inducono a pensare che Dante abbia intuito distintamente tutte e tre le componenti (coscienti od inconsce) che sono alla base di quella attività artistico-letteraria, che era la sua professione e vocazione più intima. Per impulso inconscio egli ha saputo additare nella terminolgia "lirica" (tragedia, commedia, elegia) l’elemento proprio ed essenziale dell’arte e della poesia, che la dottrina del M. Evo non riuscì proprio a sospettare come elemento distintivo, specifico alla attività artistica, rimanendo disorientata dalla sua dimensione razionale e ritenendola , perciò, attività insegnabile, apprensibile, come una pura tecnica artigianale. Un corollario era che l’uso dei termini emotivo-lirici serviva solo per indicare una tecnica, in riferimento a generi letterari della letteratura latina e senza sospettare che avessero un significato ben superiore (formale) alla poesia come ad ogni forma di arte.

     

     

  7. LA "MONARCHIA" (ovvero:"De monarchia") : L’IMPERO.

 

E’ un’opera in tre libri; è scritta in latino, perchè è destinata ai dotti. Forse fu stesa in occasione della discesa di Arrigo VII in Italia (1310-13), anche se il tono pacato della trattazione potrebbe suggerire un tempo posteriore e uno spirito ormai rassegnato alla sconfitta momentanea della tesi sostenuta, pur vera e destinata al trionfo definitivo. Il libro sviluppa una tesi già difesa in Convivio 4, 4 e 5.

Il primo libro dimostra —con logica stirngente- la necessità dell’Impero, cioè di un governo civile universale e, perciò, unico per tutta l’umanità, così come unico ed universale era il governo spirituale-soprannaturale della Cristianità, cioè la Chiesa cattolica. La dimostrazione passa per questi nodi essenziali: il fine della società civile è procurare la felicità dell’uomo sulla terra; condizione minima della felicità è la pace; condizione della convivenza pacifica è la giustizia fra i cittadini; condizione di tale ordine nella giustizia è la esistenza di un giudice supremo, imparziale perchè incorruttibile e non ricattabile con la minaccia; un simile giudice è soltanto colui che ha il possesso giuridico di ogni territorio e di ogni bene in esso contenuto (possedendo tutto, non può essere corrotto), con il comando di tutte le truppe che esso può fornire (essendo potentissimo, non può essere ricattato): egli dirimerà, allora, le dispute tra i sudditi secondo giustizia.

Il secondo libro dimostra che l’impero (come potere elettivo o di scelta dell’imperatore) appartiene di diritto al popolo romano. Il tipo di prova è tipicamente medioevale: mescola storia umana e Provvidenza divina con troppa confidenza. Ecco, difatti, l’argomentazione: se Cristo, fattosi uomo per liberarlo dal peccato e riaprigli la via alla felicità eterna, ha accettato di ubbidire ai Romani, nascendo sotto il loro dominio (anzi, ubbidendo all’ordine di censimento emanato dall’imperatore Augusto) e morendo per una loro sentenza, allora è ovvio che tutti gli uomini debbano soggiacere al dominio del popolo romano. Come Cristo, anche i cristiani ed i candidati alla salvezza eterna debbono dipendere da Roma.

Il terzo libro difende la indipendenza dell’autorità imperiale da quella del papa, sostenendo la dottrina dei "due soli", cioè della parità di origine e poteri delle due autorità nel loro campo. La sostiene contro l’opposta dottrina del "sole e della luna" che guelfi e ghibellini, giuristi papali e imperiali usavano, per dimostrare ognuno la superiorità del proprio potere e la dipendenza dell’altro. Dante, distinguendo adeguatamente tra vocazione alla vita naturale (terrena) dell’uomo e la vocazione alla vita soprannaturale (divina), distingue anche le due organizzazioni ed i due supremi poteri relativi ad ognuna delle due missioni. Precorrendo la impostazione moderna del problema, Dante offre così la prospettiva teoricamente ineccepibile della diversità delle due sfere di competenza e della sovranità delle loro supreme potestà. Che nella concretezza della vita complessiva le cose non potessero giungere alla separazione dei due ordinamenti (perchè sia la sfera naturale sia quella soprannaturale comprendono la difesa dei valori morali, intorno alla definizione dei quali Stato e Chiesa non coincidono nè convergono necessariamente), Dante lo intuisce e ne accenna in chiusura d’opera, quando afferma che la sua tesi "non deve esser recepita così rigidamente (stricte), che l’imperatore non soggiaccia in qualche modo al romano pontefice, dal momento che la felicità terrena (mortale) in qualche modo è ordinata alla felicità eterna. Usi, dunque, Cesare quella riverenza verso Pietro che il figlio primogenito deve al padre..." . Questa espressione rende meno stridente il contrasto fra questa tesi e la duplice affermazione di Convivio, 4, 5, 4 ed Inferno 2, 22-4, che fanno dell’impero romano una funzione della Chiesa, cioè lo subordinano come semplice strumento provvidenziale all’opera salvifica di lei.

Accennati i vari "talloni d’Achille" della struttura logica dell’opera, resta da dire che la tendenza attuale alla unità di tutti i popoli nella Organizzazione delle Nazioni unite (ONU) ricupera una delle verità (logiche soltanto, ahimè!) del libretto di Dante.

 

F) EPISTOLAE (LETTERE).

Le lettere attribuite a Dante con discreta certezza sono tredici, secondo la edizione della Società dantesca del 1921. Per la eleganza formale, basti questa nota: le unifica un uso puntiglioso del "cursus", cioè delle clausole prosodiche che chiudono l’intero periodo e le sue suddivisioni principali con successioni di sillabe accentuate a distanza prestabilita, cioè con eleganti cadenze, secondo i quattro schemi già segnalati ( planus, tardus, velox,trispondaicus: era il "cursus" impostosi nella cancelleria papale e, da questa, diffusosi a quelle imperiale e comunali: cfr p. 92, nota 101).

Molteplice è l’interesse delle epistole per il loro contenuto. Tre sono le lettere connesse con la spedizione di Arrigo VII. Una è diretta ai re, ai principi e popoli d’Italia, per invitarli a ricevere favorevolmente l’imperatore, cui Dio ha concesso il potere per il bene dei popoli; una seconda è rivolta agli "scelleratissimi fiorentini dentro la città", affinchè si sottomettano all’inviato di Dio e temano la sua punizione se non lo faranno; una terza è indirizzata allo stesso imperatore, perchè si affretti a conquistare Firenze, covo della opposizione alla sua autorità. Commossa è la lettera ai sei cardinali italiani presenti al conclave per la elezione del papa, dopo la morte di Clemente V (1314): Dante sente che essa è inutile, dato il numero superiore di cardinali francesi o loro favorevoli; si sente profeta isolato, che prevede i mali ma non riesce ad evitarli alla Chiesa: eppure alza la voce "per la Sposa di Cristo, per la sede della Sposa, che è Roma, per la nostra Italia e, per dire con maggior pienezza, per la umanità pellegrina sulla terra"...

E’ interessante la lettera a Cangrande della Scala, che accompagna il promesso invio del primo canto del Paradiso, con la dedica a lui della terza cantica intera. Essa conferma il concetto ufficiale di poesia, che Dante recepiva dal Medioevo: è un surrogato della filosofia, che rende appetibili e piacevoli concetti difficili, avvolgendoli in immagini o connettendoli con simboli (allegorie), così da contribuire alla edificazione morale del lettore (cc. 7-16 della lettera). La parte che vi ha la "musica", intuita così chiaramente nel Convivio (1, 7) e nel De Vulgari eloquentia (2, 4), viene qui obliterata dall’ansia missionaria di Dante, che vuol essere protagonista delle sorti religiose e morali della sua generazione, con il proprio magistero in versi.

Altra lettera che desta in noi interesse particolare è quella all’anonimo amico fiorentino, per esporre i motivi che gli impediscono di accettare una amnistia offerta dal comune di Firenze a tutti i fuorusciti: egli non è colpevole e non può accettare il sia pur solo simbolico gesto di pentimento pubblico imposto come condizione (1316). Vi è in questa lettera una fierezza così viva, che lascia trasparire non solo la fibra d’acciaio dell’anima di Dante, ma anche l’aura di rispetto e di stima che lo circondava ormai, per la conoscenza delle prime due cantiche e l’ammirazione che destavano: è anche per questi fattori ambientali che Dante si sente sicuro per l’avvenire: difatti la lettera finisce con la frase: "neppure il pane mi mancherà".

Delle altre lettere basterà enunciare argomento, date e destinatari. Al cardinale d’Ostia (Niccolò Albertini da Prato) per la pacificazione tra Bianchi e Neri (1304); Ai conti Guidi di Romena, per encomio del defunto conte Alessandro (1305); all’amico Cino da Pistoia, sulla capacità dell’anima a mutare stato o passione (entro il 1306, anno in cui cessa l’esilio di Cino); al marchese Moroello Malaspina (di Villafranca?), su un amore che ha irretito fortemente l’animo di Dante (1307? 1308?); le tre lettere alla moglie di Arrigo VII, Margherita di Brabante,a nome del conte Guido di Battifolle (altro ramo dei conti Guidi nel Casentino), scritte la primavera del 1311.

 

G) EGLOGAE (Egloghe). Sono due lettere in esametri latini, nella forma dialogica delle egloghe pastorali di Virgilio. Sono state scritte in risposta a due altrettali del’umanista Giovanni del Virgilio, che lo invitava —la prima- a cantare anche nella lingua di Orazio e di Virgilio; e —la seconda- a recarsi a Bologna, dove sarebnbe stato al sicuro e trattato degnamente. Siamo nel 1319. Dante non si muoverà in nessuna delle due direzioni, volendo attendere alla poesia cui si sente inclinato spontaneamente (ormai volge verso la fine del Paradiso); e temendo insidie fuori Ravenna. Il latino è posseduto anche nelle sue caratteristiche musicali (metrica), ma non così da facilitare l’espressione di stati d’animo. Chiari i concetti, ma aridi.

 

H) QUAESTIO DE AQUA ET TERRA (Questione dell’acqua e della terra). Si tratta di una lezione tenuta a Verona il 20 gennaio 1320, nella cappella di S. Elena, presente il clero della città(dopo che era preceduta -a Mantova- una discussione sull’argomento). Egli afferma, che in nessuna località, la terra è al di sotto del livello della superficie del mare. E’ un classico esempio di tema sperimentale, abbordato illusoriamente con criteri filosofici deduttivi. Riassumiamo il pensiero di Dante, per farci un’dea della mentalità medioevale, dominante in proposito. La terra, come più pesante dell’acqua, dovrebbe essere tutta sommersa! Se essa affiora, sarà per causa cosmologica, cioè per l’influsso dei cieli sul nostro pianeta. Dante opta per l’influsso del cielo delle stelle fisse, che hanno attratto la superficie emergente dell’emisfero boreale, a forma di mezza luna, dal Gange allo stretto di Gibilterra, per 180 gradi di longitudine (la quarta parte della superficie terrestre abitabile, la gran "secca" conosciuta fino a Cristoforo Colombo). L’esposizione procede con rigore logico, con coerenza razionale degna di una grande mente, ma erra per "defectus elenchi", cioè per insufficienza dei dati sperimentali e scientifici di partenza. Diversamente che nella Commedia (Inf. 34, 121-6), qui non è citata la caduta di Lucifero come possibile causa della fuga delle terre abitabili nell’emisfero boreale da quello australe, dove prima sarebbero state poste. Tale silenzio testimonia della chiara distinzione fra scienza-filosofia (da una parte) e teologia (dall’altra): i dati della Rivelazione (vera o presunta) vengono esclusi da una trattazione che vuol essere solo scientifica. Nè si deve pensare che l’habitus philosophicus (mentalità filosofica) sia all’origine di tante deduzioni senza la preoccupazione dei dati sperimentali che, di diritto, devono precedere le deduzioni. No. Un S. Alberto Magno non sarebbe caduto in simile cavillazione, perchè portato per natura a tener conto dei dati sperimentali, come testimoniano le sue opere in materia: non è tutta la filosofia scolastica , ma solo la intelligenza di Dante che rivela i propri limiti. Dante poteva apprendere le questioni scientifiche ed amarne la trattazione: ma non aveva uno sviluppo deguato dell’emisfero destro, per apportare elementi adeguati alla loro soluzione.

 

V) LA DIVINA COMMEDIA

A) dati esteriori

Definizione e titolo. La Divina Commedia è un poema allegorico-didattico, in tre cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso) e 100 canti, in terzine di endecasillabi, a rima incatenata (ABABCBCDCDEDEFEFGFGHGHIHI...). Vi è un canto introduttivo che tradizionalmente è però considerato il primo della prima cantica: l’Inferno ha così 34 canti, mentre Purgatorio e Paradiso ne contano 33 ciascuno. In tutto i versi sono 14.233. Poema allegorico significa sostanzialmente "simbolico": è un poema i cui personaggi ed il loro contesto (particolari di tempi e luoghi) sono intesi dall’autore come allusioni a significati di verità che riguardano la vita umana in generale (in particolare, per la Commedia di Dante, le leggi religiose e morali dell’umano pellegrinaggio a Dio). Lo stesso protagonista del poema (è l’autore che compie un viaggio di conversione) è contemporaneamente personaggio storico e simbolo dell’umanità intera, invitata a risorgere dal peccato e rivolgersi a Dio. La "selva oscura" simboleggia (è allegoria del-) lo stato di peccato; il monte illuminato dal sole è allegoria della vita di Grazia; il Sole è Dio e la Sua luce è la fede; le tre fiere che si oppongono al cammino di conversione (lonza, leone, volpe) sono simbolo o dei tre vizi capitali (lussuria, supperbia, avarizia) o dei tre tipi fondamentali di peccato (incontinenza, violenza, malizia o frode); il veltro è allegoria del liberatore, che sgombrerà il mondo dalle tre fiere malefiche...

Il titolo di "Commedia" ha relazione allo stile "medio o comico", quasi ad indicare la sintesi dei tre stili medioevali: quello "umile basso od elegiaco "(Inferno), quello medio (Purgatorio) e quello "tragico" (Paradiso). Si veda, in proposito, la lettera a Cangrande (c.10). Dante chiama il suo poema "Commedia" due volte in Inferno (16, 128 e 21,2: ma la metrica lo costringe a scrivere "comedìa")); invece in Paradiso egli parla di "poema sacro (25, 1), sacrato (23,62). La posterità, a cominciare dal secolo XVI, unì in qualche modo i due termini, attribuendo al titolo originario di "Commedia" l’attributo "divina".

Origine e tempo di composizione. Per spiegarsi il primo proposito di scrivere il poema, fondamentale è il fatto della conversione di Dante, che coincide con il ritorno all’amore di Beatrice, ormai defunta e simbolo perciò dell’amore del bene morale e di Dio che ne è la fonte. La Vita Nova termina (c.42) con il proposito di "dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna":forse già in queste parole è contenuto il progetto del poema per immortalare Beatrice (a meno che in quel momento Dante non pensasse al Convivio). Certo che almeno nel 1307 va posto l’inizio della Commedia, per due motivi. Anzitutto gli avvenimenti che Dante dimostar di conoscere nell’Inferno non vanno oltre il 1309. In secondo luogo già nel 1313-14 troviamo in "Documenti d’amore" di Francesco da Barberino il primo accenno all’Inferno. Nel 1316 Andrea di Lando conosceva già anche il Purgatorio; nello stesso anno, Dante inviava, in una sua lettera, a Cangrande della Scala il commento ai primi versi del primo canto del Paradiso.

Tempo e luogo del viaggio. La data del pellegrinaggio fantastico di Dante è posta dal poeta nella primavera del 1300: dal Venerdì santo (8 aprile) al giovedì dopo Pasqua (14 aprile: le date potrebbero essere anche quelle del 25 e 31 marzo rispettivamente). Il tempo di Pasqua-primavera ha lo scopo di unire il tempo della Creazione, Incarnazione e Redenzione del mondo con quello della conversione del poeta, che a sua volta è simbolo della rinnovazione della cristianità tutta. Dopo lo smarrimento nella selva del peccato la notte sul Venerdì santo e l’incontro con Virgilio (simbolo della ragione umana) che lo guiderà per i primi due regni dell’oltretomba, la notte sul Sabato santo e tutto quel giorno visitano l’Inferno. Risalgono nell’emisfero australe dal centro della terra, percorrendo il Purgatorio nei giorni di Pasqua, lunedì e martedì successivi: al Paradiso terrestre è dedicata mezza giornata del mercoledì dopo Pasqua ed ivi Beatrice si sostituisce a Virgilio come guida. Ascendono poi al Paradiso celeste, che visitano nelle ventiquattro ore seguenti, fino a giungere alla contemplazione di Dio. Questo, il "tempo immaginario" del poema.

Quanto al luogo (geografia o struttura fantastica) del mondo ultraterreno, Dante segue ed elabora liberamente le credenze del suo tempo. L’inferno si aprirebbe presso Gerusalemme e si sprofonderebbe fino al centro della terra a forma di imbuto. Lo spaccato si sarebbe aperto per la fuga della terra davanti a Lucifero, caduto nel suo centro nell’emisfero australe. Ivi esistevano delle terre emerse, che però rifuggirono nell’emisfero boreale per ribrezzo dei demoni. La terra che occupava l’abisso infernale si sarebbe allora raccolta a fornmare la montagna del Purgatorio, emergente dall’Oceano nel disabitato emisfero australe: in cima ad esso avrebbe abitato l’uomo prima del peccato originale (paradiso terrestre). L’Inferno è immaginato diviso in nove cerchi che puniscono dapprima i peccati di incontinenza (lussuria, avarizia, gola, ira), poi di violenza e infine di malizia (frode e tradimento): un cerchio (il primo) è dedicato agli innocenti morti senza battesimo (Limbo) ed un’altro (il sesto) agli eretici e miscredenti. Il Purgatorio è diviso in sette gironi o balze , precedute dall’Antipurgatorio e seguito dal Paradiso terrestre sulla cima: resta così completato anche qui il numero perfetto del "9", nelle partizioni. L’Antipurgatorio ospita i penitenti che si sono pentiti solo in punto di morte; le sette "balze" sono occupate dai penitenti dei sette vizi capitali, posti in ordine decrescente, dalla superbia alla lussuria, attraverso l’invidia, l’avarizia, l’ira, l’accidia, la gola. Il Paradiso Il Paradiso è ordinato secondo l’astronomia tolemaica, che pone otto cieli attrono alla terra, immobile al centro dell’universo. Il nono cielo è l’Empireo, ove Dio si rivela come fuoco di carità e di felicità alle anime beate che tutte hanno sede lassù, al di fuori di ogni movimento, assieme agli angeli. Ma per far comprendere meglio a Dante la diversità dei "gradi di premio e beatitudine" propri ad ogni gruppo di anime, esse gli vengono incontro nei diversi cieli: della luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, delle "stelle fisse" e del "primo mobile o cielo cristallino". Nell’Empireo Dante fruisce per un istante della visione diretta di Dio, nel mistero della Sua vita una (nella sostanza) e triplice (nelle persone) di Padre, Figlio e Spirito Santo, comprendente in sè anche la umanità del Figlio, incarnatosi per la redenzione degli uomini.

 

       

    1. Motivi ispiratori
    2. I motivi che ispirano il capolavoro dantesco sono universali: esso abbraccia un orizzonte sconfinato, che non trascura alcun genere di realtà esistente: Dio e il mondo, gli spiriti puri (angeli) e la materia (natura inanimata), l’uomo e la sua storia, il peccato e la virtù, i fatti concreti della cronaca e le verità astratte della scienza e della filosofia... tutto l’arco dell’essere è presente in quest’opera "a cui han posto mano e Cielo e terra" (Par. 25, 2). Una sintesi potrebbe essere quella che riassume in quattro categorie fondamentali i motivi ispiratori del poema: la natura infraumana; l’uomo, la sua vita (attività) e la sua storia; Dante, personaggio del poema (autobiografismo); Dio la vita soprannaturalae, la storia religiosa dell’umanità (storia della Chiesa).

       

      La natura infraumana. Dante vi si ispira sia quando descrive il paesaggio geografico od astronomico nelle tre cantiche; sia quando ricava da cose, piante e animali delle immagini (paragoni) per esprimere stati d’animo propri o delle anime incontrate. Esemplifichiamo.

      Descrizioni dirette nell’Inferno: la selva dello smarrimento iniziale (1, 1-18) e quella dei suicidi, contorta e sanguinante (c. 13, 1-15); la struttura degradante ad imbuto della dannazione, scaglionata in gironi verso il centro della terra (c. 18, 1-18). Descrizioni nel Purgatorio: aurora nell’emisfero australe ("Dolce color d’ori"ental zaffiro...: 1, 13-27); tramonto ("Era già l’ora che volge il desio...": 8, 1-6); "la divina foresta spessa e viva" del Paradiso terrestre ( 28, 1-33). Descrizioni nel Paradiso: il panorama dei cieli e della terra (" l’aiuola che ci fa tanto feroci"), contemplato dalla costellazione dei Gemelli (22, 112-54).

      Immagini tratte dalla natura. Inferno, 2, 127-9 ("Quali i fioretti dal notturno gelo| chinati e chiusi..."); 3, 112-4 ("Come d’autunno si levan le foglie..."); 5, 40-1 ("E come gli stornei ne portan l’ali..."); ib. 82-4 ("Quali colombe dal desio chiamate..."); La velocità della freccia ("Si dileguò come da corda cocca": 17, 136); la campagna coperta di brina (24, 1-15); la sera estiva, piena di lucciole (26, 25-30). Purgatorio, 2, 124-9 ("Come quando, cogliendo biada o loglio..."); 3, 79-84 ("Come le pecorelle escon dal chiuso..."); 25, 10-2 ("E quale il cicognin che leva l’ala..."); 27, 76-87 ("Quali si stanno ruminando manse..."): sono i quattro famosi paragoni tratti dal mondo animale in sintonia con l’atmosfera intima e fraterna, mansueta e mite della seconda cantica. Paradiso, 3, 10-5 ("Quali per vetri trasparenti e tersi..."); 5, 91-3 ("E sì come saetta che nel segno percuote..."); 10, 139-48 ("Indi, come orologio che ne chiami..."); 23, 25-7 ("Quale nei plenilunii sereni...").

       

      L’uomo, la sua attività, la sua storia.

      Concezione dell’uomo in Dante: il cristianesimo umanista. L’uomo è un animale (Inf. 5, 88), informato da un’anima spirituale e immortale (Purg. 25, 61-87, Par. 7, 142-8), dotato, perciò, di intelligenza e libero arbitrio (Purg. 16, 53-84; Par. 5, 19-25). Questo non toglie che Dio influisca sull’uomo attraverso gli influssi astrali: ma è influenza che non travolge la libertà interiore e, venendo da Dio, inclina al bene (Purg. 16 cit:, Par. 112-23); L’uomo ha ricevuto la vocazione alla vita divina, cioè a partecipare alla vita soprannaturale (Purg. 10, 124-7). L’uomo, però, è incline al peccato: coloro che "la ragion sommettono al talento" ( cioè, all’istinto: Inf. 5, 39) "hanno perduto il ben dell’intelletto" (ib. 3, 18). E, difatti, l’uomo si trova in una situazione di debolezza così grave, da suscitare pena e sdegno se appena vi si riflette ("O superbi cristian, miseri, lassi...":Purg. 10, 121-9). Si veda anche tutto l’allegorismo del c. 1 dell’Inferno: Dante, simbolo dell’umanità smarrita e corrotta, non riesce a salire il colle della virtù, perchè le tre fiere, cioè le passioni, sono più forti della sua volontà. Anche il Limbo (Inf. c. 4) testimonia questa impotenza nei migliori uomini, da Aristotele a Seneca, da Socrate a Platone..., prima della Redenzione di Cristo a vivere secondo la pienezza delle esigenze morali umane (cfr. anche Purg. 3, 34-45). Soprattutto la figura di Virgilio, la persona creduta da Dante la più nobile di tutto il paganesimo, conferma la insufficienza etico-religiosa dell’uomo senza la Grazia divina. Tale condizione è dovuta al peccato originale ereditato dai progenitori. In proposito, oltre a Convivio 4, 14, si vedano i passi fondamentali di Purg. 28, 91-96; 29, 22-30; di Par. 7, 85-93 e 26, 109-42 (accenni minori in Purg. 8,99; 12, 71; 24, 115-7; 32, 37-45; Par. 32, 4-6).

      Questo non toglie che —anche al di fuori della vita redenta (Grazia)- l’umanità riesca a realizzare alcuni progressi nel campo del vero, del bello, dell’utile e del bene degni di ogni stima ed imitazione: sistemi filosofici suggestivi, capolavori di arte e poesia, invenzioni di tecnica geniale, organizzazione politico-amministrativa ammirevole, esempi di onestà eccellenti...Ma non viene raggiunta quella perfezione etico-religiosa che sola costituisce la esplicazione piena della vita e rende degni della felicità eterna. Dante non esita ad ammirare personaggi anche pagani forniti di doti eccezionali, operatori di imprese ammirevoli: il nobile castello nel Limbo (Inf. c. 4, vv. 67-147) ospita poeti (da Omero ad Ovidio), filosofi (da Socrate ad Averroè), scienziati e medici (da Euclide a Galeno), guerrieri degni di fama (da Cesare al musulmano Saladino). Il c. 26 esalta la figura di Ulisse, pur dannato come consigliere fraudolento (per il cavallo di Troia). Tra i cristiani condanati all’inferno per colpe di ogni genere, alcuni vi sono che attirano la ammirazione e addirittura la riconoscenza di Dante: Farinata degli Uberti (eretico od ateo) nel c. 10; Pier delle Vigne nel 13 (suicida); Brunetto Latini (omosessualità), nel 15; e ancora il Tegghiaio (degli Aldobrandi), Jacopo Rusticucci, Arrigo dei Fifanti e Mosca Lamberti sono citati al c. 6,79-81 come personaggi "che fur sì degni", perchè "a ben far puoser gli’ngegni". Egli sa dunque distinguere, disposto ad onorare le doti "parziali" di un uomo, anche se moralmente e religiosamente si tratta di un fallito. Al contrario, i santi (di cui il Paradiso fornisce esempi numerosissimi) sono capolavori della Redenzione, possibili solo nella economia cristiana della Grazia: e sono dati alla Chiesa in dono, per riportare il gregge dei battezzati sul cammino della giustizia (Par.11, 28-39 e 12, 37-45). Se ci domandiamo come chiamare l’atteggiamento di Dante di fronte all’uomo, ci pare di poter rispondere che è quello stesso di S. Francesco: non tanto un umanesimo cristiano, quanto un cristianesimo umanistico. Definendo l’umanesimo come "stima (dell’intelletto), fiducia (dell’emotività), amore (della volontà) per l’uomo", noi troviamo che in Dante tale atteggiamento per le creature umane rimane parziale e relativo: parziale, perchè si mescola colla compassione, diffidenza, sospetto per il suo stato di debolezza conseguente al peccato originale; relativo, perchè la visione positiva dell’uomo è una funzione della Grazia redentrice di Cristo, che risana l’uomo dalle conseguenze della colpa prima e lo rende partecipe, in più, della vita divina. Lasciato a sè l’uomo è incapace di perfezione totale e quindi non pienamente stimabile, affidabile, amabile; lasciato a se stesso è un guazzabuglio di grandezze e miserie, di debolezze ed eroismi, di colpe e virtù. Per questo, per la mentalità medioevale (e coerentemente cristiana, in genere), preferiamo parlare di "Cristianesimo umanistico" piuttosto che di Umanesimo cristiano.

       

      Le attività dell’uomo

      Dante prende in considerazione praticamente tutte le operazioni umane, nei settori particolari delle loro applicazione (sessualità, economia, arte e poesia, politica, scienze e filosofia, tecnica...), ma giudicandoli tutti sull’orizzonte della loro comune radice morale, cioè elementarmente umana.

      La moralità, minimo comun denominatore dell’umano agire, per cui il dinamismo della vita pratica si adegua in pienezza ed armonia alle tendenze ed esigenze presenti nella psicologia dell’uomo, già in Convivio è celebrata come la sorgente più autentica (anche se non unica) di nobiltà e dignità della persona (canzone del 4 libro o trattato: "Le dolci rime d’amor ch’io solia" con i cc. 16 e 17). Nel capolavoro, poi, egli ne fa il criterio definitivo pel giudizio sui vari personaggi che popolano l’Oltretomba: puniti in Inferno, penitenti in Purgatorio, beatificati in Paradiso in dipendenza dalla caratura etico-religiosa sulla terra: e qusto (lo si è visto) al di là di ogni più viva simpatia personale per qualche peccatore come Farinata, Brunetto Latini, Pier delle Vigne od Ulisse...

      In Inferno (11, 16-111), il criterio morale per distinguere la gravità dei peccati e la pena pertinente ai peccatori è preso da Aristotele (Etica a Nicomaco, 7, 1 ss.), da Cicerone (De officiis, 1, 13), dalle Istituzioni del diritto romano (4,4,2) e dal commento di S. Tommaso alla citata opera di Aristotele. L’immoralità è vista come rottura dell’ordine di giustizia e del retto rapporto tra ragione e passioni. In Purgatorio (17, 100-139), il criterio della classificazione delle colpe e la distribuzione dei penitenti dice ordine ai sette vizi capitali, considerati nelle loro conseguenze negative con l’amore del prossimo. Il loro succedersi lungo le sette balze del monte non è, perciò, del tutto identico a quello dell’elenco tradizionale che segue invece, in decrescendo, la rovinosità dei vizi nel complesso dell’esistenza umana. Al posto dell’elenco "superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia" avremo questa disposione: (girone della) superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola, lussuria. Maestro di una simile mentalità morale è soprattutto san Tommaso in S. T. I, q.40, 1; I, II, q.28, 6) L’assegnazione dei beati in Paradiso avviene ancora in base alla disponibilità d’amore, ma questa volta positiva e religiosamente informata: la misura della carità verso Dio determina il grado di santità e, quindi, di vicinanza a Lui e di felicità (3, 85-7; cfr. i canti 27 e 31). La mancanza al voto di castità (e, quindi, alla fedeltà ad un tale amore religioso), pur riparata nel pentimento susseguito, è rivelata al poeta, perciò, nel cielo della luna (il più basso e remoto dall’Empireo, ove Dio si rivela come premio), mentre la vita contemplativa di penitenza, solitudine e preghiera è rivelata nel cielo più alto (Saturno), perchè oggettivamente è la consacrazione più esauriente all’amore di Dio (un concetto che l’umanesimo di tipo rinascimentale, già presente come mentalità minoritaria ai tempi di Dante e Tommaso, fa fatica ad accettare, quando non critica ferocemente).

      Si noti bene che da questo valore definitivo, etico-religioso, origina non solo la struttura geografica e dottrinale dei tre regni d’Oltretomba, ma i motivi ispiratori, i toni lirici e la tecnica stilistica. Dante, peccatore con tutta la umanità, è il punto di partenza; la conversione è il fine del pellegrinaggio; Dio è il punto di arrivo della riconquistata pienezza di vita umana e cristiana. I registri emotivi sono coerenti con lo stato d’animo dei dannati o dei penitenti piuttosto che dei beati: l’epopea o l’idillio di questi ultimi, l’idillio e l’elegia delle anime purganti, la tragedia degli spiriti perduti. Lo stile, infine, varia nelle tre cantiche con il modo di sentire e di essere delle anime, ivi ricordate e riproposte nelle espressioni più tipiche della loro esistenza.

       

      La filosofia e la scienza , cioè le attività razionali più elevate. La indagine filosofico-scientifica è così stimata nel Medioevo che la poesia si giustifica nel suo valore come sua ancella (si vedano i cc. 7-16 della lettera a Cangrande): la poesia è interpretata, fatta accettare come strumento di verità (e di virtù) anch’essa. La scienza, d’altronde, è "filosofia naturale", cioè è ricerca della verità sull’essere creato fisico, mediante la interpretazione dei dati di esperienza. L’importanza della sperimentazione è chiara nella mente di Dante, che in Par. 2,94-6 dichiara che l’esperienza "esser suol fonte ai rivi di vostr’arte". Se questo è il punto di partenza per la ragione, la meta è la verità suprema di Dio, per cui l’uomo è fatto: la certezza su Dio risolve in sè tutte le altre verità, che sono come una scala a quella conoscenza. Qui cadono rivelatori ed espliciti i versi di Par. 4, 124-32: "Io veggio ben che già mai non si sazia| nostro intelletto, se il Ver non lo illustra,| di fuor dal Qual nessun ver si spazia.| Posasi in esso come fiera in lustra| tosto che giunto l’ha; e giugner puollo,| se non, ciascun disìo sarebbe frustra (inutile).| Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè de vero, il dubbio; ed è natura| ch’al sommo pinge noi di collo in collo".

      Esempi di problematica scientifica si possono vedere in Purg. 4, 55-84 (escursione del punto preciso d’oriente sull’orizzonte, a seconda delle stagioni); Par. 2, 94-105 (luce riflessa negli specchi da distanze diverse); ib.10, 1-27 (provvidenzialità dell’inclinazione dell’essere terrestre in funzione del variare delle stagioni e della fecondità agricola nelle zone climatiche che ne seguono); ib.13, 101-2 (ogni triangolo iscritto in una semicirconferenza è rettangolo); 33, 133-8 (impossibilità di fissare il valore preciso del numero periodico detto "pi greca")...

      Esempi di problematica filosofica: Inf. 7, 67-96 (che cosa è quella forza che noi chiamiamo "fortuna"?); Purg. 16, 52-104 (emergere della libertà umana, nonostante influssi ambientali, anche da parte degli astri); Par. 7, 139-48 (immortalità dell’anima)...

      Altro segno della presenza , fra i motivi ispiratori di Dante, dell’interesse filosofico-scientifico è il ricordo dei grandi pensatori pagani e cristiani. I primi sono presenti nel "nobile castello" del Limbo (Inf. 4, 130-44): da Aristotele, Platone, Socrate a Democrito, Diogene, Averroè, ad Ippocrate, Avicenna e Galeno...). I secondi discendono nel cielo del sole incontro a Beatrice ed al poeta, in veste precipua, ma non unica, di teologi (Par. 10, 94-138; e 12, 130-41): Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Bonaventura e Ugo da S. Vittore, Severino Boezio e Sigieri di Brabante, il grammatico Donato come Rabano Mauro (il già ricordato "precettore di tutta la Germania").

       

      L’attività poetica ed artistica. L’interesse di Dante per l’arte e la poesia in particolare è motivata esplicitamente dalla fama che esse assicurano: Stazio lo afferma in Purg. 21, 85 ("col nome che più dura e più onora": cfr. anche B.Latini in Inf. 15, 119-20: "Sìeti raccomandato il mio Tesoro| nel quale io vivo ancora; e più non chieggio"). D’altronde egli si sceglie il più grande poeta latino, Virgilio, quale guida alle prime due parti del viaggio salvifico e trova modo di privilegiare altri poeti sia nel "nobile castello" del Limbo (Omero, Orazio, Lucano, Ovidio); di farsi incontrare nel Purgatorio, da Bonagiunta degli Orbicciani (24, 19-63), Guido Guinizelli (26, 73-132) e Arnaut Daniello (ib. 136-48); e di parlare o far parlare di molti altri ( a cominciare da G.Cavalcanti: Inf. 10, 52-69; 109-14; Purg. 11, 97-99).

      Meno frequenti i nomi di di artisti figurativi. Però, accanto a Giotto e Cimabue (Purg. 11, 94-6) è citato lo scultore Policleto (Purg. 10, 32-3); e Dante esprime il suo stupore elogiativo di fronte alle bellezze della architettura romana (Par. 31, 31-6).

       

      La attività politica. Quanto profondamente sentito fosse questo motivo ispiratore da Dante, lo prova un po’ tutta la sua vita pratica e molte delle sue opere : dal De Monarchia a gran parte delle sue Epistole (lettere), a molti passi del poema. Nell’Antipurgatorio (ove soggiornano le anime pentitesi solo in fin di vita), vi è una "valletta amena" riservata ai principi, degni di onore per il solo fatto di aver esercitato un’attività così essenziale nella via dell’uomo, che per natura è "animale politico, cioè socievole". Occupa ben due canti del Purgatorio. E proprio per la pervasività della componente politica nella esistenza e storia dell’uomo, Dante dedica, con puntualità simmetrica, ogni sesto canto delle tre cantiche a tale attività, con prospettiva sempre più vasta, da quella della città di Firenze, a quella dell’Italia, a quella dell’Impero. Le idee esposte nella Monarchia vengono sostanzialmente confermate. La dottrina dei due "soli" è implicitamente richiamata in Purg. 6, 91-6 e 16, 94-131: qui Dante difende a spada tratta l’autorità dell’Impero per assicurare l’ordine e la pace. Ma anche la libertà della Chiesa è difesa a visiera alzata contro le prepotenze del potere politico, sia di quello romano, persecutore fino al sangue (Purg. 32, 100-17), sia di Filippo il Bello, asservitore del papa (Purg. 20, 85-90; 32, 148-60). Anzi una certa subordinazione delle finalità terrene dei regni politici alla missione soprannaturale della Chiesa è espressa qua e là dal poeta, a cominciare da Inf. 2, 22-4 dove si afferma che Roma e l’impero romano furono voluti dalla Provvidenza per preparare la sede e il governo del papa a salvezza delle anime ("la quale e il quale, a voler dir lo vero,| fur stabiliti per lo loco santo| u’ siede il successor del maggior Piero". Anche l’opera di Tiberio, di Giustiniano e di Carlo Magno dice ordine a tale finalità suprema (par. 6, 22-7 e 82-96). Entro queste idee precise (anche se un po’ generiche), risalta coerente lo sdegno di Dante contro quanti si appropriano del nome imperiale (ghibellini) per difendere interessi particolari; e di quanti (gulefi) all’impero si oppongono, per altrettanto partigiane finalità (Par. 6, 97-111).

       

      L’attività economica. In un mondo in cui la tecnica aveva ancora poca parte nella lavorazione delle materie prime, il guadagno del danaro non aveva ancora assunto la sua dimensione più importante , quella di essere investito in studi, ricerche, impianti, fabbricazione accelerata e meno faticosa dei prodotti utili a migliorare la vita umana. Di qui la visione pessimistica del danaro, visto quasi unicamente come occasione di peccato. Le ricchezze sono considerate come una accidentalità quanto mai precaria dell’umana convivenza, distribuita con apparente "gratuito casualismo" da una Provvidenza, che intende mettere alla prova la libera scelta morale della persona, ora con la sfida del benessere ora con quella della miseria. (Inf. 7, 70-92). Lo stimolo alla intraprendenza umana non è presa in considerazione da Dante (che a limitare la sua prospettiva influisse anche la condizione di piccolo nobile decaduto?). La ricchezza, ad ogni modo, non dona felicità e non è sorgente di nobiltà (Convivio, 4, 10-12). In compenso, è occasione a molti peccati: avarizia e prodigalità (Inf. 7, 22-6), usura (canto 17), simonia (c. 19) baratteria (cioè concussione: canti 21-22), ladrocini (canti 24-5), falsificazione di moneta (canti 29-30). Contro tali vizi, diffusi tra i laici come nel clero, ci si lamenta in Purgatorio (cc. 19 e 20) e si tuona in Paradiso (cc.9, 127-42; 18, 124-36; 21, 124-42), con particolare rigore contro il clero e Firenze, la città che "produce e spande il maladetto fiore(il "fiorino")| ch’ha disviato le pecore e gli agni| però che fatto ha lupo del pastore". Per questo stesso pessimismo "economico", il poeta non solo considera usura qualsiasi prestito ad interesse (come tutto il Medioevo cristiano), ma è contrario al possesso di beni materiali da parte degli ecclesiastici, in base a restrittive interpretazioni del Vangelo: si vedano, oltre i passi sopra citati, anche Purgatorio 16, 130-2 ("O Marco mio, -diss’io- ben argomenti;| e or discerno perchè dal retaggio| i figli di Levì furono esenti"); ed i cc. 32 e 33. Che egli fosse proprio d’accordo con Ubertino da Casale e gli altri estremisti, francescani e no, circa la assoluta illiceità del possesso economico da parte della Chiesa, non si può documentare con precisione: vi si avvicina, però, molto. Fin dal primo canto del poema (vv. 49-51; 97-99; 103-4), nella lupa ("che di tutte brame| sembiava carca nella sua magrezza" "ed ha natura sì malvagia e ria,| che mai non empie la bramosa voglia| e dopo il pasto ha più fame che pria") egli raffigura la curia romana; e nel Veltro, che deve liberare l’umanità da tutte e tre le fiere, ma soprattutto dalla lupa avara ed astuta, egli sottolinea la virtù del distacco da ogni bene terreno ("questi non ciberà terra nè peltro,| ma sapienza, amore e virtute")....

       

      L’attività sessuale. E’ vista positivamente, anche nella dimensione erotica, come funzione procreatrice di vita umana (in Purg. 25, 37-75, se ne parla con candido realismo). Intesa poi come momento contemplativo di ammirazione e devozione per la donna, allora diventa via a sublimare moralmente e religiosamente l’uomo: si tratta dell’amore angelicato del Dolcestilnovo, che induce a dominare gli istinti e ad elevarsi a Dio, bellezza suprema e creatore della bellezza femminile. In tale chiave si possono leggere i rimproveri di Beatrice a Dante nei canti 30 e 31 del Purgatorio. Naturalmente non è trascurato il pericolo di abuso con molte forme di peccato: i canti dell’Inferno sesto (adulterio: Paolo e Francesca), quindici-sedicesimo (omosessualità) e il canto ventiseiesimo del Purgatorio puniscono i peccati di lussuria, così come i canti ottavo e nono del Paradiso premiano l’amore sublimato dalla sensualità alla religiosità, dopo la penitenza delle colpe.

       

      La storia dell’uomo.

      Dopo il motivo etico-religioso, quello storico è certo il tema più frequente nel poema: personaggi di rilievo riempiono i gironi infernali, le balze del Purgatorio ed i cieli del Paradiso. Si può distinguere questa materia infinita in tre gruppi di vicende: la storia profana (pagana), la storia religiosa (cristiana), le vicende più o meno contemporanee alla vita di Dante (cronaca).

       

      La storia profana. Dante traccia le grandi linee della storia di Roma e dell’Impero nel c. 6 del Paradiso e accenna a persone e fatti precristiani sia nel Limbo (Inf. 4) sia in Purgatorio (esempi di virtù premiate o di vizi puniti tratti dalla tradizione pagana: dalla umiltà di Traiano nel c. 10 alla superbia di Ciro nel c. 12). Anzi, vengono introdotti nel poema anche personaggi mitologici, come Caronte, Minosse, Capaneo, i giganti, i centauri (Inferno, cc. 3, 5, 12, 14, 31); vengono miracolosamente salvate almeno tre anime pagane (P. Papinio Stazio: Purgatorio, dal c. 21al 32); Traiano: Par. 20, 43-8; il troiano Rifeo: ib.vv. 67-9), mentre Catone l’Uticense è posto a guardiano del Purgatorio (cc. 1, 28-108 e 2, 118-23).

      Questa salvezza concessa ai pagani, ci introduce alla questione dell’Umanesimo storiografico di Dante: oltre alla domanda che ci siamo già posti: -quale è il giudizio sull’uomo e sulla vita terrena nella coscienza del poeta?- sorge anche l’altra: -quale è il suo giudizio sulla storia umana, la civiltà o la cultura fuori della redenzione di Cristo, sia prima che dopo la Sua venuta-?. Anche qui la risposta, che d’altra parte dipende dalla prima, non è semplice. Certamente- anzitutto- Dante ha stima, fiducia, amore" per gli uomini e le società anche fuori del cristianesmo, per le conquiste sapienziali e tecniche, spirituali e materiali da loro compiute. Ma si tratta di stima, fiducia, amore parziali. Ritenute addiritutra superiori in settori civili, come le scoperte filosofiche, militari, giuridiche, politiche, artisticche, tecniche ed economiche, gli uomini di Atene e Roma risultano però così inferiori in campo religioso e morale, da essere compatiti ed anche disprezzati da Dante. I passi sono già stati citati: "le genti antiche nell’antico errore" (Par. 8, 6), che vissero "al tempo degli dei falsi e bugiardi" (Inf. 1, 72), erano in pericolo di perdizione eterna (Par. 8, 1:"Solea creder lo mondo in suo periclo..."); erano "gente folle" (Par. 17,31), che doveva sopportare il "puzzo del paganesmo"( Par. 125-6). E il significato più autentico, in tutto quel sommarsi di verità ed errori, di bellezze e deformazioni, di bene e di male, stava nella sua destinazione alla venuta di Cristo, di cui la pace dell’impero romano fu una preparazione: "la qule e il quale, a voler dir lo vero,| fur stabiliti per lo loco santo| u’ siede il successor del maggior Piero" (Inf. 2, 22-4). In conclusione si può parlare senz’altro di un umanesimo storiografico di Dante, perchè aperto e magnanimo nella valutazione positiva della cultura precristiana; ma è forse più esatto parlare piuttosto di un "cristianesmo storiogragfico umanistico", perchè tutti i valori pagani dicono ordine alla Redenzione cristiana.

       

      La storia religiosa e cristiana dell’umanità. Il poeta concede anche quantitativamente più largo spazio a questa componente, che è quella cui si relativizza l’altra. La creazione ed il peccato originale sono oggetto di domande e risposte nel c. 26 del Paradiso (vv. 97-142), mentre la montagna del Purgatorio porta in vetta l’altopiano del Paradiso terrestre, dove Dante arriva nel c. 27, accompagnandovi la processione fino ai piedi dell’albero che sta nel mezzo del giardino, quella della colpa originale (32, 34-48). Se la processione è composta dal Grifone (Cristo Signore, con la duplice natura di Dio ed uomo) che tira il carro della Chiesa, preceduto e seguito dagli scrittori del Vecchio e del Nuovo Testamento (Purg. c. 29), i canti 32 e 33 danno poi, in rapide allegorie che proprio dall’albero prendono inizio, la storia della Chiesa. Si accenna alle persecuzioni dei primi secoli; si condanna la (pseudo)donazione costantiniana come sorgente di corruzione della Chiesa invischiata nel potere politico e nella potenza economica; si depreca lo scisma dell’Oriente ortodosso e soprattutto si inorridisce di fronte alla schiavitù di Avignone ed alle nefandezze di Filippo il Bello. Finalmente si prevede e presagisce un "DVX", cioè un condottiero ( religioso o politico?) che, incarnazione del Veltro, purificherà la Chiesa stessa. La storia religioso-ecclesiastica costituisce lo sfondo che dà colore ed interpretazione al cammino della storia civile tutta, che è progettata da Dio essenzialmente per la salvezza soprannaturale dell’umanità.

       

      La storia e la cronaca contemporanee al poeta. Le vicende fiorentine, italiane ed europee nella seconda metà del Trecento costituiscono un caso a sè nella rievocazione storiografica della Commedia. sono eventi riecheggiati dalla prima giovinezza o addirittura vissuti dal poeta in prima persona. Questi fatti —di portata socio-politica generale o limitati alla cronaca cittadina- vengono nseriti spesso nella panoramica provvidenzialistica di tutta la storia umana in maniera esplicita (implicitamente, lo sono sempre). E’ così che Dante punisce i malvagi in Inferno, sia quelli a lui simpatici (da Farinata a Brunetto Latini, da Pier delle Vigne ad Ulisse) sia quelli particolarmente antipatici (Filippo Argenti: c. 8; Guido da Montefeltro: c.27; Vanni Fucci: c. 24; Mosca Lamberti: c.28; Bocca degli Abati: c. 32): essi hanno fatto camminare la storia magari con forti spinte, ma in senso antiorario, nella direzione cioè della devianza da Dio,della corruzione morale, della decadenza civile, della rovina personale. Ed eccolo minacciare re e principi viventi, per la condotta indegna (specie in Purg. c. 6 e Par. c. 19); eccolo che rimprovera, satireggia, ammonisce uomini di Chiesa per la corruzione (Inf. c. 7:avarizia; c. 19:simonia; Par. c.18, 118-36: facilità a scomunicare per motivi politici più che ecclesiali; 21, 124-42: lusso e vanità degli ecclesiastici; 22, 73-96: decadenza anche nei conventi dei religiosi; 27, 10-66: simonia del papato invalido di Bonifacio VIII; 30, 133-48: l’ipocrisia di Clemente V, che impedirà l’opera di risanamento di Arrigo VII). Egli condanna con amarezza indignata i Capetingi di Francia per la loro politica di espansione (Purg. c. 20); salva invece molti principi cristiani, magari deboli, ma sostanzialmente buoni: da Manfredi nel c. 3 del Purgatorio a Buonconte da Montefeltro nel c. 5, ai molti principi della Valletta amena (nei canti settimo e ottavo: Carlo d’Angiò, Pietro d’Aragona, Rodolfo imperatore...). Esalta infine in Pardiso i santi del proprio secolo, da Francesco a Tommaso, da Bonaventura a Domenico: cc. 10, 11, 12).

       

      L’autobiografismo (Dante personaggio del poema)

      Dante è il protagonista, oltre che l’autore, della Commedia: solitamente egli rappresenta l’umanità intera nell’auspicato pellegrinaggio di ritono a Dio, ma spesso egli fa riferimento a vicende assolutamente personali, irripetibili, trascinando allora anche amici e nemici, quasi dimensione diacronica (storica) e sincronica (sociale) della propria esistenza. I canti più autobiografici sono il primo dell’Inferno (dissipazione e tentativo di ritorno sulla retta via), il trenta-trentunesimo del Purgatorio (rimproveri di Beatrice pel traviamento dopo la sua morte) ed i canti decimoquinto-sesto-settimo del Paradiso (gli antenati di Dante nella rievocazione del trisavolo Cacciaguida, che alla fine gli profetizza gli avvenimenti del suo esilio e lo conforta alla grande missione per la purificazione dell’umanità attraverso il poema). Dante inoltre rievoca episodi particolari della sua esistenza, come la presenza all’assedio di Caprona, preso ai Pisani nel 1289 (Inf. 21,94-6) ed alla battaglia di Campaldino, nello stesso anno, contro Arezzo (Purg. 5, 91-129); si commuove nell’incontrarsi con persone amate (B. Latini in Inf. c.15; Casella, musico, in Purg. c. 2; Belacqua, liutaio, ivi,c.4; Nino Visconti, ib. c. 8; Oderisi da Gubbio, ib.c.11; Carlo Martello, figlio di Carlo II d’Angiò, Par. c. 8) od almeno stimate (Farinata, Inf. c. 10; Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari ed Iacopo Rusticucci, ivi, c. 16); ed ha una particolare attenzione ai letterati (vedremo analizzando la attività poetica).

       

      Dio, la vita soprannaturale, l’Oltretomba.

      La Divina Commedia, poema trinitario.Anche se la tematica morale e quella storica sono quantitativamente più insistenti nella Divina Commedia, tuttavia il poema, qualitativamente, formalmente, si riferisce a Dio in primo luogo, su Dio si misura, a Dio è rivolto. Giustamente, perciò, Mario Apollonio ha definito il capolavoro dantesco un "poema trinitario". E non per nulla al titolo "Commedia" fu aggiunto l’attributo di "divina". Dio, infatti, è chiamato "re dell’universo" (Inf. 5, 91); a Lui dice ordine, è finalizzata la realtà tutta,in una mirabile ascensione di valori (Par. 1, 103-41); la meta del viaggio di Dante è appunto la contemplazione di Dio (Inf. 1, 121-9) nella unità di sostanza e trinità di persone (Par. c. 33). Le anime trovano bensì nei princìpi morali il criterio di distinzione di pene e premi, ma le tre categorie fondamentali di "dannati, penitenti, beati" delle cantiche hanno la radice della loro separazione nel rapporto con Dio. La "riva malvagia" dell’Inferno "attende ciascun uom che Dio non teme" (Inf. 3, 107-8); e vi approdano quanti "hanno perduto il ben dell’intelletto" (Inf. 3, 18: il quale bene è ultimamente Dio, Intelligenza suprema, sorgente di ogni verità); gli stessi relegati nel Limbo vi sono per mancanza di fede adeguata (Virgilio dice che vi si trova "perch’io fui ribellante alla sua legge": ivi,1,125); i dannati bestemmiano Dio (ib. 3, 103: anime in attesa di Caronte; 14, 49-72: Capaneo; e 25, 1-9: Vanni Fucci), che dei loro peccati è giudice definitivo, giustiziere inesorabile (ib. 3, 1-9: "lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate"; cfr. anche 7, 19-20).

      Il Purgatorio accoglie le anime protese a Dio "che del desìo di sè veder ne accora" (5, 57).

      I cieli del Paradiso mostrano gli spiriti "che solo in Lui veder han la lor pace" (30, 102; cfr. 3, 85-7: "E’n sua voluntade è nostra pace:| ell’è quel mar al qual tutto si muove| ciò ch’ella cria e che natura face"; e 27, 1-9 "-Al Padre, al Figlio,allo Spirito Santo- comincò —gloria!- tutto il Paradiso...").

       

      Il primato della teologia, scienza di Dio. La teologia è la organizzazione sistematica, chiarita razionalmente fin dove è possibile, della rivelazione (Parola) di Dio. Le disquisizioni teologiche iniziano, mescolate a quelle filosofiche, fin dal c. 6 dell’Inferno (vv. 103-111: la resurrezione dei morti e la crescita di felicità|sofferenza delle persone beate|dannate). In Purgatorio si discute sulla indulgenza, Confessione e potere di rimettere i peccati nella Chiesa (cc. 2, 94-102; 3, 121-145; 9, 73-129). In Paradiso Dante, prima di accedere all’Empireo, affronta un triplice esame sulle virtù teologali di fede, speranza e carità, interrogato da S.Pietro, Giacomo e Giovanni; e ogni esame occupa un intero canto (24-25-26). Il canto finale del poema espone in modo limpido il mistero della Unità e Trinità di Dio e quello della umanità unita alla Persona del Figlio, con uno sforzo eccezionale di chiarificazione, pur nella coscienza dell’ineffabilità della vita divina; e con risultati artistici non supremi, ma certo sorprendenti, dato che la materia è così impegnativa per la ragione, da far pensare che non rimanga spazio per un coinvolgimento della emotività.

      Maestro per eccellenza di teologia è San Tommaso d’Aquino, la cui Somma teologica rappresenta, assieme alla Eneide di Virgilio, la premessa indispensabile alla concezione della Divina Commedia: senza tali opere, il poema sacro non sarebbe nato (Attilio Momigliano).

       

      La Chiesa, sposa di Cristo (Par. 27, 40). La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo di Cristo: reale, anche se misterioso (con altro termine si potrebbe dire "sacramentale"); ne è la continuazione sulla terra nel corso della storia. Essa risulta così il segno visibile della Sua presenza ed operosità redentiva: col magistero autentico, colla guida autorevole, coi sacramenti e la liturgia. Essa diventa così necessaria per entrare in contatto con la salvezza di Cristo. Ma è proprio tale fede (interpretata negativamente: fuori della Chiesa non c’è salvezza; e non positivamente: chiunque si salva, si salva attraverso una appartenenza, sia pur inconsapevole, alla Chiesa) a rendere Dante preoccupato, angosciato, quasi disperato per quanto egli vedeva (e in tutto il popolo cristiano e, in particolare, negli operatori più obbligati alla trasmissione della redenzione di Cristo, cioè nel clero) di indegno e corrotto e, quindi, di controproducente al fine voluto da Dio. Eccolo allora assalire gli ecclesiastici per le loro colpe, ma soprattutto per la sete di possesso sia economico che politico. Non importa che non tutti i suoi sospetti siano provati: quello che commuove in Dante è il dolore acuto, come di figlio che si senta tradito dalla madre. E’ la sofferenza di chi si sente parte della Chiesa, non estraneo a lei (come capiterà in Petrarca e soprattutto in Boccaccio). Se fin dal primo canto egli prevede e sembra invocare il Veltro contro la lupa (l’avidità) di Roma papale (Inf. 1, 49-111: e si vedano gli altri passi già citati trattando dell’attività economica dell’uomo), pure Dante dimentica ogni colpa della Chiesa e la difende a spada tratta, quando ne è in gioco la libertà di lavoro missionario. Egli la chiama "orto di Cristo" (Par. 12, 72), "santa" per definizione (Purg. 3, 137; Par. 4, 46 e 12, 107), Sposa di Cristo, nata dal sangue dei martiri ed apostoli (Par. 27, 40-5), "l’edificio santo" (Purg. 32,142), "barca di San Pietro" (Par. 11, 119-20: significa "via necessaria alla salvezza"). San Pietro è chiamato "l’alto primopilo" (comandante della prima centuria dei triari , cioè della parte più forte ed esperta della legione romana)... Sono beati quelli che han combattuto contro i suoi nemici (come Carlo Magno contro i Longobardi: Par. 6, 94-6). I persecutori della Chiesa (ad esempio, Filippo IV per la cattura del papa in Anagni nel 1303) lo sconvolgono talmente, che persino Bonifacio VIII gli appare nella sua validità e dignità di vicario di Cristo (contro le affermazioni di San Pietro in Par. 27, 22-4: "quegli che usurpa in terra il luogo mio,| il luogo mio, il luogo mio, che vaca| nella presenza del Figliuol di Dio..."): "Vedo in Alagna entrar lo fiordaliso| e nel vicario suo Cristo esser catto.| Veggiolo un’altra volta esser deriso|; veggio rinnovellar l’aceto e ‘l fele| e tra vivi ladroni essere anciso". Contro l’indegno trattamento del papato ad Avignone, si leggano ancora le proteste di Dante in Purg.32, 142-60, dove pure non esita a chiamare mostro e puttana la curia romana corrotta. Il papa è detto "marito della chiesa" (Inf. 19, 111) ed ha il potere di sciogliere e di legare i peccati. Su questo potere Dante ritorna più volte in Purgatorio: nel c. 3 (vv. 112-45) egli fa spiegare da Manfredi alcune verità cattoliche circa peccati, perdono, indulgenza, potere della Chiesa nel punire. L’autorità della Chiesa è tale che gli scomunicati che si pentono solo in fin di vita, debbono trascorrere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo trascorso in "contumacia di santa Chiesa". Che se il pentimento sincero supera anche la scomunica, è solo perchè ne implica l’accettazione: "Orribil furon li peccati mei;| ma la bontà di Dio ha sì gran braccia| che prende ciò che si rivolge a lei": Purg. 3, 121-145). L’efficacia della preghiera dei viventi in stato di Grazia ("l’altra che val, che in Ciel non è udita?": Purg. 4,135) in sollievo alle anime del Purgatorio ("chè qui per quei di là molto s’avanza": ivi, 3,145) introduce alla dottrina della indulgenza, attraverso la fede nella unità e solidarietà delle anime militanti in terra, purganti o beate nell’Altra Vita. Il sacramento della Penitenza-Confessione è descritto esplicitamente nel canto nono, ove Dante vi si sottopone per aver accesso dall’Antipurgatorio ai gironi del monte penitenziale (vv. 94-129). Cristo stesso, d’altronde, è detto "romano", mentre Roma e il Paradiso si confondono (Purg. 32, 102: "e sarai meco, senza fine, cive| di quella Roma onde Cristo è romano"). Le anime salvate, che attendono il trasporto al Purgatorio, si raccolgono a Roma, alla foce del Tevere: è la città della redenzione e della salvezza (Purg. 2, 100-5). La infallibilità della Chiesa, esplicitamente dichiarata in Convivio,2,3,10 si appresta ad esser letta come infallibilità papale in Par. 5, 76-8 ("Avete il Vecchio e il Nuovo Testamento| e il pastor della Chiesa che vi guida:| questo vi basti a vostro salvamento").

       

      Il motivo religioso, sorgente immediata delle fondamentali tonalità liriche del poema. A confermare la centralità del motivo ispiratore religioso nella Divina Commedia, sta il lirismo delle tre cantiche, differenziato proprio in base alla relazione delle anime con Dio nelle diverse condizioni di esistenza d’oltretomba. E’ dalla disperazione per la assenza di Dio come felicità (e per la sua presenza, invece, come giustizia punitrice) che nasce la tragedia infernale. E’ dal sinergismo fra tristezza (per la stessa condizione delle anime purganti) e consolazione (per la temporaneità di tale stato e la attesa sicura del godimento di Dio) che origina l’alternarsi suggestivo di idillio ed elegia nel Purgatorio.Ed è sull’estasiante godimento di Dio che insorge ora l’idillio ed ora l’epopea della terza cantica. Tale coerenza perfetta fra i registri emotivi di fondo e il vario atteggiarsi della tematica religiosa è la prova sicura che questa è la chiave di volta della struttura razionale, l’analogato primo cui si subordinano e si riferiscono tutti gli altri motivi, temi, spunti che pur sollecitano la sensibilità del poeta, ma come fattori marginali o relativi a quella assorbente di Dio e del rapportarsi a Lui di uomini ed avvenimenti, di persone e di operazioni, delle singole anime e della umanità intera.

       

       

    3. TONALITA’ LIRICHE (EMOTIVE).
    4.  

      Caratteristiche generali.

      Dante è poeta universale anche per la sua capacità di esprimere tutta la gamma emotiva, tutti i sentimenti dell’animo umano: idillio ed elegia (stati d’animo contemplativi), epopea e tragedia ( registri drammatici). Benchè (lo vedremo subito) egli sia un poeta radicalmente classico, così da rifuggire normalmente dalla simbiosi di varie tonalità emozionali, tuttavia qualche volta sfiora sia la tenerezza (idillio ed elegia sintonizzati: Pia dei Tolomei, Purg. 5, 130-6) che l’estasi (Par. 31, 1-69 e 94-142) o raggiunge la comicità (riso grottesco: Inf. 6, 40-90: Ciacco irridente a beffardo; riso malignamente sarcastico: 21, 46-57: i diavoli contro i barattieri di Lucca; riso sornionamente farsesco: Inf. 22, 1-12: strumenti musicali degni dei diavoli; riso bonariamente ironico: Inf. 23, 142-4: il frate godente Catalano canzona Virgilio, che è stato così candido da credere ai demoni; riso cinicamente satirico nelle zuffe tra dannati: Inf. 29, 124-32; e 30, 100-129; riso amichevolmente canzonatorio: Purg. 4, 97-120: qui Dante stesso sorride, per le parole del pigro Belacqua).

      Dante è poeta sostanzialmente classico. Qui non si vuol dimostrare la classicità del poema nelle sue singole parti, ma dell’animo di Dante e del poema come opera complessiva.La classicità di Dante per quanto riguarda i motivi ispiratori si dimostra dalla loro universalità ed ordinamento razionalissimo. Quanto al lirismo, per dimostrarne la classicità, faremo anzitutto leva su un dato negativo; poi difenderemo il poema da una impressione opposta, per sottolinearne, infine, la componente positiva più convincente.

      Negativamente, sta la allergia del poeta al sinergismo di vari stati emozionali, visto che la propensione ad esso è indice sicurissimo di un’anima romantica: tale era statoVirgilio; tali saranno (per fermarci in Italia) Tasso, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Pascoli e persino Carducci. Dante, che nella cantica seconda avrebbe avuto occasioni continue di amalgamare idillio ed elegia, per il loro convivere nelle anime penitenti, si limita invece ad alternarli e — neppure nei versi sublimi di Pia de’Tolomei- si sente tentato di fonderli in una simbiosi di tenerezza; nè di legarli con altre sentimenti così da ricavarne commozione (elegia con epopea) od estasi (idillio con epopea: stentata è l’estasi del c. 31 del Paradiso). L’unico segno contrario è l’accessibilità al comico: ne parleremo fra poco. Purissima è la liricità di Dante, come chiarissime sono le sue idee, i motivi che ispirano gli stati d’animo: quasi nessuna ambivalenza di lirismo, perchè nessuna ambiguità di idee. Nel delineare i caratteri stilistici del capolavoro, avremo modo di imbatterci in continue altre testimonianze di una mente limpidissima, che ordina, coordina, subordina i concetti e organizza la struttura del viaggio con corrispondenze sorprendenti e matematiche. Emozione, sì: ma espressa da una mente che signoreggia la sfera emotiva, la sa trasmettere viva con la traduzione in una espressione razionale, chiarificata e linda.

      Ed eccoci a difendere il classicismo dantesco dall’apparente commistione lirica della comicità. Ebbene, sì: il "riso" è uno stato d’animo complesso,perchè mescola la gioia della scoperta di una sproporzione a vari altri stati emozionali. Ora sarà una lieve mossa drammatica, per il finto stupore (scandalizzato od ammirativo) della rivelazione (umorismo); ora la carica drammatica aumenta con l’ostilità o addirittura l’odio del portatore di sproporzione; ora la forza epica della farsa che prescinde da odio od amicizia, ma rivela cinismo, divertimento grandioso ma incosciente, per l’esclusione di ogni rispetto morale. D’accordo: ma il riso rimane una caratteristica propria solo dell’uomo. Dante doveva averne il senso; se lo esprime, è perchè vi sono casi della umana esistenza davvero disarmanti: contro la dabbenaggine o la malizia degli uomini, non c’è difesa che tenga. Dobbiamo compiangere sempre i portatori di sproporzione; possiamo ridere della sproporzione stessa: diventa allora umana anche la comicità. Dobbiamo dire che, pur avendo nell’Inferno una materia con cui divertirsi farsescamente, alla Rabelais, egli ne usa discretanmente e brevemente. Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi, ma non è assente nelle anime più equilibrate ed educate. Il senso della comicità (dello humour) è un segno di intelligenza. E fa parte della classicità di Orazio e Carducci. Se Gesù è sorpreso dagli evangelisti a piangere,non mai a ridere, ciò è dovuto alla Sua missione eccezionale di Redentore: ma di santi umoristi è zeppa la storia della Chiesa, specie dopo l’Umanesimo.

      Ma il "sigillo" che dimostra la classicità di Dante a livello di liricità, ci sembra la naturalezza delle sue reazioni emotive, la coerenza fra realtà descritta e sentimenti destati nell’animo del poeta, la sanità,la normalità delle risposte del suo sistema neurovegetativo alle scene o condotta che egli descrive (testimone od inventore, non importa). Dante rivela un equilibrio emotivo, un’armonia di sentimenti, una dirittura di reazioni neurovegetative, da dover essere guardato come ad un esempio sicuro di sana, matura, diritta umanità. Egli, in concreto, piange o si adira fino alla disperazione di fronte al disordine infernale; egli oscilla continuamente fra tristezza e gioia immergendosi nel rimorso per i peccati e nella certezza di salvezza del Purgatorio; egli sorride o canta in Paradiso: egli esaurisce tutte le tonalità liriche, presentando un mondo in tutte le dimensioni razionalmente identificabili e reagendovi emotivamente nella più pertinente ed adeguata delle maniere. La classicità di Dante è nella completezza della tastiera emotiva e nella sicura "intonazione" della stessa in realzione alle esigenze del tema offerto dalla ragione: pianto disperato, tristezza consolata, canto estatico. Naturalmente tale classicità della psicologia di Dante si può e deve estendere al poema nel suo bilanciatissimo insieme, non alle sue singole parti. La classicità dell’Inferno e del Purgatorio si riducono alla universalità del suo pensare, sentire ed esprimersi in tutto il poema, non nella specificità della prospettiva ideale, emotiva e stilistica di queste cantiche, che della classicità sono facce complementari.

      Dante è poeta di una genialità emotiva che sta fra il miracoloso ed il patologico. D’accordo, dunque, sullo "spettro emotivo" completo, sulla "tastiera lirica" universale. Ci si aspetterebbe, però, che la indisponibilità ad apparentare fra loro stati d’animo diversi denunci una certa rigidità emotiva nel poeta, che avrebbe qualche difficoltà a transitare da una condizione sentimentale ad un’altra, da una passionalità alla sua opposta. Macchè! Molte volte Dante rivela una duttilità così sorprendente nel passare da uno stato d’animo all’altro, al solo cambiare dell’interlocutore (salvo a ritornare al primitivo registro emotivo, quando il primo personaggio riprende a parlare); una così sbalorditiva plasticità nell’adeguarsi col lirismo alla psicologia dei personaggi più diversi (per cui si può risalire dai suoi versi ad un temperamento individuale inconfondibile); una così stupefacente versatilità ad incarnarsi nei sentimenti contrastanti di anime complementari, da lasciare nel dubbio se uno spirito così proteiforme sia da assegnare ad un livello supremo di sensibilità geniale o ad un estremo di labilità emozionale, confinante con la mostruosità patologica. Si pensi alla graduale ascesa (climax, scala) dei sentimenti di Francesca da Rimini nel c. 5 dell’Inferno, che per due volte inizia dolce e gentile (vv.88-99 e121-132), due volte va accalorandosi drammaticamente nella narrazione della sua passione amorosa (100-6 e 133-6) fino a scoppiare nella tragica, duplice maledizione finale, di un sol verso (107: "Caìna attende chi a vita ci spense" e 137: "Galeotto fu il libro e chi lo scrisse"). Sullo sfondo sta l’accorato, silenzioso pianto di Paolo, che fa cadere Dante in deliquio (139-42). Ancor più sorprendente è l’orchestrazione del canto quinto del Purgatorio, forse il più bello dell’intero poema. Inizia con un "fortissimo" drammatico, per la concitazione delle anime accidiose che, quando i due poeti si stanno ormai allontanando dopo un colloquio con loro, si accorgono (finalmente!) che Dante è vivo, perchè getta ombra ai raggi del sole. Dante ne è colpito e si arresta a quella fremente meraviglia (vv. 1-9). Questo gli attira un risentito richiamo a proseguire da parte di Virgilio indignato (vv. 10-18). Il tono si fa addirittura tragico, crescendo ancora, nelle prime battute del nuovo gruppo di anime, morte di morte violenta e predisposte perciò ai soprassalti psicologici (vv. 25-42). Sempre mosso è il tono di Jacopo del Cassero, il primo che narra le vicende del suo assassinio. Ma il "fortissimo" è in calando; è solo più un vociare svagato, mondano, retorico, vanitoso. Reso più umano e spirituale, il dramma si attenua ulteriormente in Buonconte da Montefeltro, il capo dei ghibellini sconfitti a Campaldino nel 1289, il cui corpo non fu più ritrovato. Egli parla molto pacato e sapiente, con un tale distacco dalle vicende terrene che suggerisce uno stato di avanzata purificazione: se una volta la sua emotività si accende, è per protestare il suo pentimento finale e la sua salvezza, con la vendetta del demonio che, vistosi rubare l’anima "per una lacrimetta che’l mi toglie" si vendicherà sul corpo dell’ucciso, avvoltolandolo nel fiume Archiano e sottraendolo ad ogni ricerca. Egli prepara, così, il tono dolcissimo, appena sussurrato di Pia de’ Tolomei, che narra in un registro vicino alla tenerezza la sua fine immeritata, per ordine del marito, colui che "inanellata pria| disposando m’avea colla sua gemma". Anche in questo canto vi è un climax, ma degradante: dal gridato iniziale al "sottovoce spento" ultimo: dalla tragedia delle anime assassinate all’accoramento celestiale di Pia, ormai alle soglie della liberazione dal carcere penitenziale. Dall’agitazione dei pigri ed assassinati alla conformazione perfetta alla volontà di Dio, nella pace e nell’abbandono.

      Se non sempre il lirismo sembra aver un ordine programmato con logica sorprendente, pure sempre esso si adegua alla tempra del soggetto, che viene rivelato così nella sua psicologia terrena, oltre che fatto esprimere in straordinaria potenza artistica: rivelazione di una personalità e sua espressione poetica, questo è il molteplice valore (culturale e lirico) della parola, dei versi di Dante. Già nel canto quinto del Purgatorio noi sentiamo la psicologia dei pigri, che s’accorgono essere Dante vivo, quando egli sta allontanadosi ormai: pigri nel procurarsi il proprio bene; tardi anche nel percepire il mondo ad essi esterno. Viceversa i morti di morte violenta, reagiscono con sbalordita sensibilità ed impulsiva precipitazione alla sùbita percezione dell’ombra terrena di Dante. In Jacopo del Cassero noi troviamo un Pier delle Vigne in sedicesimo: uomo del giure e dei documenti ufficiali, stesi in stile cattedratico e pomposo, che finisce per immedesimarsi nella sua tecnica cancellieresca; che suggerisce un’anima ancora immersa nelle memorie terrene, non abbastanza purificato e rappacificato. Ecco, abbiamo accennato a Pier delle Vigne. Apollonio commentando il c. 13 dell’Inferno, notava come quegli aveva terminato col suicidio la sua vita, perchè l’aveva doppiamente distorta in antecedenza. Anzitutto facendo della fedeltà all’imperatore (dell’ideale imperiale) un "assoluto", il suo primo motivo di esistenza, rubando il posto a Dio e affidando i propri giorni e le proprie opere a realtà terrene (un istituto politico ed un uomo) grandi, ma non supremi nè affidabili. A questa deformazione della verità e del bene morale corrispondeva in parallelo l’artificio del comporre ("ars dictandi") non secondo che l’amore (la ragione ed il cuore) gli suggerivano dentro, ma secondo schemi imparaticci e frasi predisposte: per destare meraviglia ed, eventualmente, ingannare gli interlocutori non abbastanza avveduti. La loquela sofisticata del cancelliere imperiale e la sua stolta difesa dell’ ideale di servizio all’impero sono ben simboleggiate dalla selva arida e contorta, in cui sono impietrite le anime dei suicidi (Inf. c. 13). Dante coglie la psicologia di un uomo e la esprime ad oltranza: più vera della realtà! E non è così anche per Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti? (Inf. c. 10). E si veda la coppia parallela di Guido del Duca e Rinieri da Calboli (Purg. c. 14). In Farinata degli Uberti si rivela una personalità potente e sprezzante, incurante delle pene infernali e tuttora prigioniero delle assorbenti cure politiche, centrate sulla sorte dei ghibellini e soprattutto del proprio casato. Nel diverbio, rispettoso ma polemico, con il guelfo Dante, si inserisce la figura patetica di Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido, una personalità nervosa, timida e ansiosa. Il suo affiorare per chiedere, angosciato, della sorte del figlio, lascia imperterrito Farinata, ma serve a sottolineare il totale oblio delle ragioni del cuore, l’egoismo insomma di questo capo, carismatico ma disumano. Parallelo, analogo, ma non ripetitivo è il binomio Guido-Rinieri nel c. 14 del Purgatorio. Anche Guido del Duca ha l’animo di un capopolo, poco curante delle ferite che i suoi giudizi implacabili (nel caso: contro gli abitanti lungo il corso dell’Arno, dal Casentino a Pisa, attraverso Arezzo e Firenze; e contro i romagnoli "tornati in bastardi") generano negli uditori. Anche Rinieri da Calboli è un’anima ipersensibile, che soffre ad ogni sintomo di malizia, che vive nel timore del male, fino a presentirlo in ogni velato accenno, anzi nelle stesse reticenze (ivi, vv. 25-7): anch’egli è un pallido temperamento nervoso, più adatto a commentare la vita che a forgiarla. Ma diverso è il loro pensiero profondo: non ripiegati su se stessi o preoccupati unicamente del loro "sangue", ma aperti alla situazione della società tutta in cui sono vissuti; non legati agli effimeri valori di nobiltà e politica, ma sensibili a quei beni morali, che sono la garanzia, al di là della tecnica di governo, del benessere dei popoli. Nella diversa coscienza di fondo, i temperamenti risaltano nella loro somiglianza in maniera sorprendente: ed è ancor più ammirevole cone il poeta per due volte abbini due caratteri così diversi, li alterni nel discorrere e in poche terzine renda il colore delle loro anime, la tempra della loro personalità. Dante rivela una duttilità psicologica assolutamente sbalorditiva, potremmo dire mostruosa, subpatologica: passa da uno stile, da un tono lirico all’opposto con tutta disinvoltura: padronanza dei mezzi espressivi, genialità nel sintonizzarsi con i personaggi di cui ha letto fino in fondo l’animo più segreto.

      Il Purgatorio come la cantica più bella, più viva liricamente. Pel lettore comune, di poco spessore culturale, l’Inferno risulta la cantica artisticamente più alta: ma l’impressione è falsa. Occorre, intanto, rileggere, perchè la prima lettura ella Commedia implica uno sforzo erudito, quale richiede la lettura-comprensione di un testo in lingua straniera mediocremente conosciuta. Si vuol dire: il primo accostamento al poema ha valore non di fruizione estetica, ma di comprensione filologica: troppi i passi da tradurre in lingua moderna e da svolgere dalla sinteticità e dall’ordine peculiare di un linguaggio metrico e rimato. Ora, fra tutte le cantiche, l’Inferno, col suo stile realistico, è quella più vicina al linguaggio popolare; quindi, la più facile a comprendersi, a gustarsi. Ebbene, quando si rilegge il poema, ormai sicuri nella comprensione concettuale e storiografica, allora ci si accorge che il numero dei brani artisticamente connotati, esteticamente significativi, emotivamente coinvolgenti, liricamente fruibili perchè emotivogenetici è notevolmente maggiore in Purgatorio che nella altre cantiche. Più numerosi, d’altronde, i brani validi dell’Inferno rispetto a quelli del Paradiso, che resta così, nella sua sorprendente grandezza, all’ultimo posto. Ma il Purgatorio prevale, per quantità di versi riusciti e per intensità di estasi destata: il loro viraggio lirico è naturalemente diverso rispetto a quelli dell’Inferno, ma la intensità di idillio ed elegia è estasiante.

       

      Lirismo delle varie cantiche: la tragedia disperata dell’InfernoLirismo delle varie cantiche: la tragedia disperata dell’Inferno.

       

      La coerenza classica fra idee ispiratrici ed emozioni suggerite, fa indovinare facilmente il registro lirico delle varie cantiche. PER L’INFERNO, la dottrrina sulla condizione dei dannati è quella dell’ostinazione definitiva nel peccato e della sofferenza che la punisce, senza speranza di sollievo alcuno. Il tono lirico adeguato sarà allora l’urlo della TRAGEDIA DISPERATA, che può svariare in qualche brivido di orrore o di paura; che può attenuarsi nella ELEGIA LACRIMOSA di alcuni personaggi deboli e depressi; che può contorcersi nella COMICITA’ GROTTESCA (tetro umorismo) in altre anime, capricciose e strane già sulla terra.

      Esempi di tragedia sono nell’episodio di Caronte (c. 3), nella bufera dei lussuriosi (c. 5 prima parte), nelle figure di Farinata (c. 10), Pier delle Vigne (c.13), di Vanni Fucci (c.24) e del conte Ugolino (c.33).

      Drammaticità spaurita ed angosciata è nelle figure di Cavalcante Cavalcanti (c. 10), nelle rabbrividenti trasformazioni dei ladri in serpenti e viceversa (c. 25).

      Elegia smarrita o lacrimevole se ne trova in certe felici immagini (c. 3, 112-7: "Come d’autunno si levan le foglie...") o in episodi marginali (il suicida fiorentino anonimo del c. 13, 130-51).

      Comicità stravolta: Ciacco, condannato come goloso ad una pena sozza e fastidiosa (grandine, pioggia sporca, puzzo, latrati assordanti di Cerbero), è un temperamento strambo che ride di se stesso, di Dante, dei fiorentini tutti cinicamente insensibile alle proprie ed altrui disgrazie (6, 37-93); i diavoli beffardi contro i pubblici ufficiali di Lucca, inficiati di baratteria (21, 46-57); gli stessi demòni volgarmente sconci nelle loro mosse (21, 139 e 22, 1-12); i dannati allegramente ironici alle spese di Dante e Virgilio (23, 142-4) o malignamente sarcastici alle spalle dei propri simili (29, 124-32: contro la brigata spendereccia di Siena; e 30, 100-129: diverbio tra Sinone di Troia e mastro Adamo, due falsari).

      L’Epopea è eccezionale in Inferno: nasce dall’umanesimo dantesco, che sa esaltare virtù parziali ma eccezionali anche nei dannati. Quasi tutta epopea è l’esaltazione di Ulisse nel c. 26 (vv. 85-142); mescolata a tragedia è la dimensione epica presente nella comparsa e nell’argomentare di Farinata, nel canto decimo.

       

      La penombra fra idillio ed elegia nel Purgatorio

       

      Il Purgatorio è stato di rimorso e di espiazione, ma è anche attesa certa del Paradiso. Di qui la ambivalenza teologica e psicologica (Motivi ispiratori) e, quindi, anche lirica (emotiva) di questa cantica, che alterna idillio ed elegia come registri melodici fondamentali, giungendo talora vicino alla loro fusione. Come per l’Inferno, anche in Purgatorio eccezionalmente compaiono anche altri stati d’animo, dal dramma all’epopea, al sorriso.

      Idillio puro: dal paesaggio mattutino nell’emisfero australe (c.1, 13-27: "Dolce color d’ori"ental zaffiro..") alla descrizione della "divina foresta spessa e viva" nel paradiso terrestre, che culmina la montagna del Purgatorio (c. 28, 1-69), attraverso la recita di Compieta alla sera, nella Valletta amena ( 8, 10-18). Si aggiungano le quattro immagini tratte dal mondo degli animali domestici, che rubano il cuore: i colombi di 2, 124-9 ("Come quando, cogliendo biada o loglio..."); le pecore di 3, 79-84 ("Come le pecorelle escon dal chiuso..."), il cicognino di 25, 10-12 ("E quale il cicognin che leva l’ala| per voglia di volar e non s’attenta| d’abbandonar lo nido e giù la cala...") e le caprette col pastore di 27, 76-84 ("Quali si stanno, ruminando, manse| le capre... e quale il mandrian che fori alberga| lungo il peculio suo...").

      Elegia prevalente: la purificazione di Dante colla rugiada, ai piedi del Purgatorio (1, 109-136 "...Noi andavam per lo solingo piano,|com’uom che torna alla perduta strada,| ch’infino ad esso gli par ire invano..."); i primi nove versi del canto ottavo, col tramonto in Purgatorio ("Era già l’ora che volge il desio| ai naviganti e intenerisce il core..."); il racconto di Buonconte da Montefeltro, che inizia e termina in tono elegiaco ( 5, 85-102 e 124-9); le parole di Pia de’ Tolomei, confinanti con la tenerezza (5, 130-6: "Deh, quando tu sarai tornato al mondo| e riposato della lunga via..."); e quelle che Guido del Duca pronuncia piangendo di nostalgia in 14, 109-11:" Le donne e i cavalier, gli affanni e gli agi| che ne ‘nvogliava amore e cortesia,| là dove i cuor son fatti sì malvagi..."

      Idillio ed Elegia apparentati. Le due atmosfere liriche si alternano così da vicino, che ci si meraviglia del loro mancato fondersi, della assenza di tenerezza. Se ne è già trattato. Si legga allora l’incontro con Casella, amico che il poeta vede approdare alla riva del Purgatorio e con cui ha uno scambio di saluto (2, 76-117: "...Se nuova legge non ti toglie| memoria o uso all’amoroso canto,| che mi solea quietar tutte mie voglie,| di ciò ti piaccia consolare alquanto | l’anima mia, che, con la mia persona| venendo qui, è affannata tanto!..."). E vi è ancora, tra mestizia e consolazione, tutto il canto terzo, specialmente l’episodio di Manfredi (103-45: "...Io mi volsi vèr lui e guardai’l fiso:| biondo era e bello e di gentile aspetto,| ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso...Orribil furon li peccati miei,| ma la bontà divina ha sì gran braccia,| che prende ciò che si rivolge a lei..."). Nel canto seguente, le parole del pigro Belacqua che dapprima muovono al riso, finiscono in una sfumatura di tristezza: "O frate, l’andar su che porta?| chè non mi lascerebbe ire ai martìri| l’angel di Dio che siede sulla porta...") (4, 127-35 ). E dove lasciamo i versi di Arnaut Daniello, alla fine del c. 26?

      Il dramma, legato alla sofferenza dei penitenti ed alla memoria della loro vita terrena occupa in verità la più parte della poesia purgatoriale, anche se non ne costituisce la nota peculiare. Parla in tono risentito il collerico Catone Uticense, negli interventi dei primi due canti (1, 28-48 ed 85-108; 2, 118-23); agisce impulsivo e risoluto Sordello da Goito (6, 58-75), occasionando l’invettiva amara di Dante contro l’Italia ( vv. 76-151). Nel canto quarto, i primi 51 versi sono occupati dalla faticosa ascesa di Dante dalla spiaggia marina all’Antipurgatorio: lo sforzo penoso si trasmette drammaticamente al lettore ("Maggior aperta molte volte impruna| con una forcatella di sue spine| l’uom della villa, quando l’uva imbruna,| che non era la calla, onde salìne| lo duca mio ed io appresso, soli,| come da noi la schiera si partìne.| Vassi in San Leo e discendesi in Noli,| montasi su in Bismantova in Caccume| con esso i piè; ma qui convien ch’uom voli..."): Nel canto quinto, la prima parte è occupata dalle reazioni drammatiche prima dei pigri e, poi, degli uccisi pentitisi in fin di vita di fronte alla scoperta (tardiva e sbalordita, quella degli accidiosi; pronta e violenta, quella degli assassinati) che Dante è vivo. Anche le parole, con cui Virgilio invita Dante a non perder tempo, sono vibrate (5, 1-42) e il dramma continua nel parlare svagato e ricercato di Jacopo del Cassero (64-84), sollevando il tono anche della parte centrale nel racconto di Buoconte sulla propria morte (5, 103-123: proclamazione del proprio pentimento e salvezza). Dignitosamente polemico e deprecativo è Nino Visconti, nel c. 7 (64-84); ma ancor più vivo è il brivido che prova il lettore durante il serale assalto della mala biscia, del serpente tentatore, dopo la recita di Compieta nella Valletta amena (94-108). Personaggio collerico e discorso altamente drammatico sono quelli di Guido del Duca (14, 1-124): la sua accusa contro la Toscana e la Romagna è implacabile e veemente, anche se l’anima emotiva di lui ha una caduta in un pianto nostalgico che gli mozza il discorso di vero "laudator temporis acti", di lode e rimpianto per i tempi migliori della sua giovinezza, un pianto che afferra anche il cuore del lettore. Anche l’ultima parte del canto (vv. 127-51) che grida gli esempi di invidia punita, ha il soprassalto della violenza che spaventa. Un altro temperamento iracondo è quello di Marco Lombardo nel canto sedicesimo. Saggio ed esperto, egli spiega e giudica con serietà cattedratica e paterna severità: dramma mediocre, ma dramma. E, con molti altri brani di media drammaticità, ricordiamo ancora la fatica di Virgilio nel convincere Dante a superare il fuoco della lussuria e la sofferenza che, nell’attraversarlo, Dante patisce (27, 1-66); i rimproveri di Beatrice al suo innamorato (30, 67-145), anzi il brivido che trascorre l’animo di Dante al solo intravederla (ivi, 34-54). Benchè programmaticamente drammatici (anzi, tragici), i due ultimi canti, dedicati alla storia della Chiesa nei suoi aspetti meno edificanti ed agli avvenimenti profetizzati in concetti troppo vaghi ed in tono troppo perentorio, non convincono molto: non vi è alcun verso che si ricordi spontaneamente per sua icasticità o forza espressiva.

      Epicità. La si sente confortatrice nei primi nove versi della seconda cantica, dove Dante ne dichiara il tema ("Per correr migliori acque alza le vele|omai la navicella del mio ingegno..."); la si gode consenzienti nell’elogio per Currado Malaspina e nella risposta di lui, nella Valletta amena (8, 109-39); la si condivide gioiosi nella emancipazione di Dante, pronunciata solennemente da Virgilio nel Paradiso terrestre (27, 124-42); la si ammira estatici nella presentazione di Beatrice (30, 8-39). Sono presentimenti del Paradiso.

      Comicità. La si legga nell’amichevole ironia di Belacqua per la fretta di Virgilio e Dante (4, 97-120: egli non li sa liberi dalle leggi dei tempi di attesa nell’Antipurgatorio); sorriso benevolo di Dante su due golosi di eccezionale statura (papa Martino IV, che "purga per digiuno| le anguille di Bolsena e la vernaccia"; e messer Marchese degli Argogliosi "ch’ebbe spazio| già di bere a Forlì con men secchezza": 24, 20-4 e 31-33). Malevola è invece l’ironia di Sapìa senese contro la fatuità dei suoi concittadini (13, 151-3: "Tu li vedrai tra quella gente vana| che spera in Talamone, e perderagli| più di speranza ch’a trovar la Diana;| ma più vi perderanno gli ammiragli"). Sarcasmo è quello di Dante nel congratularsi con Firenze per l’esempio di buon governo e sagge leggi, che sono invece segni di disperazione amministrativa per la corruzione dei cittadini (6, 127-44).

       

      L’epopea esultante e l’estasi idilliaca del Paradiso

       

      La condizione delle anime beate è quella delle felicità esultante, nel godimento di Dio: l’epopea (nella gamma dei toni drammatici) e l’idillio (in quella delle tonalità contemplative) costituiscono lo spettro specifico del lirismo nella terza cantica. La classicità della tempra di Dante vi acconsente pienamente.

      Esempi notevoli di Idillio. La presentazione di Piccarda Donati (3, 37-124) è tutta tramata su un tale registro, che culmina nei versi indimenticabili ("E’n sua voluntade è nostra pace:| ell’è quel mar al qual tutto si move| ciò ch’ella cria e che natura face": 85-7). Idillio nell’immagine dei pesci che affiorano allo specchio d’acqua in attesa di cibo (5, 100-5); o nei versi finali fra i sedici dedicati a Romeo da Villanova (6, 127-42) ). Un altro caso altissimo lo troviamo nella danza dei dottori (cielo del sole: 10,139-48), paragonata all’armonico moto degli ingranaggi di un orologio da torre ("Indi, come orologio che ne chiami| ne l’ora che la sposa di Dio surge| a mattinar lo Sposo, perchè l’ami,| che l’una parte l’altra tira e urge,| tin tin sonando con sì dolce nota| che il ben disposto spirto d’amor turge;| così vid’io la glori"osa rota| muoversi e render voce a voce in tempra| ed in dolcezza, ch’esser non può nota,| se non colà dove gioir s’insempra"). Adombrata da una punta di nostaglia, ma sostanzialmente idillica, è la rievocazione della Firenze antica da parte di Cacciaguida (15, 121-6). Il paragone dell’uccello che attende la luce dell’alba tra le fronde degli alberi è in tono di puro idillio (23, 1-9) e preannuncia la similitudine sublime che seguirà di lì a poco (vv. 25-27: "Quale nei plenilunii sereni| Trivi"a ride tra le ninfe etterne,| che dipingono il ciel per tutti i seni..."), in un canto di intonazione complessivamente epica. Idillica è la figura tutta di San Bernardo (cc. 31-33) ; e idillico è, in parte, il viraggio lirico con cui egli descrive a Dante la "candida rosa" dei beati in Cielo (cc. 31-32): egli riesce a far introdurre una terzina idillica nel tessuto epico-drammatico dell’ultimo canto (33, 49-51: "Bernardo m’accennava e sorridea| perch’io guardassi in suso; ma io era| già per me stesso tal qual ei voleva")). Il caso di quasi estasi (idillio+ epopea) di 31,1-69 e 94-142 lo abbiamo già discusso a proposito della classicità del lirismo dantesco.

       

      Epopea (più o meno sublime). Programmaticamente, si intuisce che tutto il Paradiso vorrebbe essere intonato sul lirismo epico e, subordinatamente, idillico: ma non sempre Dante riesce a dimenticare "l’aiuola che ci fa tanto feroci" (22, 151) e la passione etico-politica lo trascina al tono imprecatorio, cioè fortemente drammatico (o ancora praticisticamente collerico?). Ma alcuni temi lo sublimano in una tensione ammirativa, in cui lo stupore si fa epopea. Si prenda il canto primo, tutto: sia la proclamazione dei nuovi motivi del suo canto (vv.1-36), sia il trasumanare di Dante mentre sale dal paradiso terrestre al cielo della luna (vv.37-81), sia le parole di Beatrice che spiegano l’ascendere come frutto della legge circa il finalismo delle creature tutte verso il loro Fattore, sono di una sostenutezza grandiosa (103-42), anche se non tutto è poesia sublime. Si sente la fatica per lo sforzo di elevazione alla solennità dell’argomento, sforzo che però sfocia talora in espressioni particolarmente felici (vv. 34-6: "Poca favilla gran fiamma seconda;| forse diretro a me con miglior voci| si pregherà perchè Cirra risponda") e nell’esposizione finale di Beatrice sul finalismo universale, legge che muove tutto il creato, di grado in grado, di attrazione in attrazione, verso il suo Fattore (vv. 103-42: "Le cose tutte quante| hanno ordine fra loro: e questo è forma| che l’universo a Dio fa simigliante...onde si muovono a diversi porti| per lo gran mar dell’essere, e ciascuna| con istinto a lei dato che la porti..." ). Molto più riuscita è la potenza epica delle terzine dedicate nel canto quarto (vv. 124-32) all’altro ascendere, quello gnoseologico, da una verità (inferiore) alla suprema, cioè ancora Dio: "Io veggio ben che già mai non si sazia| nostro intelletto, se’l ver non lo illustra| di fuor dal qual nessun ver si spazia.| Posasi in esso, come fera in lustra,| tosto che giunto l’ha; e giugner puollo;| se non, ciascun desio sarebbe frustra.| Nasce per quello, a guisa di rampollo,| a piè del vero il dubbio; ed è natura| ch’al sommo pinge noi di collo in collo." Altre terzine splendide di fulgore epicizzante sono quelle in apertura del canto ventisette: "Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo| cominciò-gloria!- tutto il Paradiso,| sì che m’inebriava il dolce canto.| Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso| dell’universo, per che mia ebbrezza entrava per l’udire e per lo viso.| Oh gioia! o ineffabile allegrezza!| o vita integra d’amore e di pace!| o senza brama sicura ricchezza!". Anche i canti di San Francesco e di San Domenico (canti undici e dodici) sono epicizzanti: ma l’espressione non segue sempre la intenzione; il concetto è più elevato della forma linguistico-metrica: mi pare che anche nella pur celebre rievocazione che il domenicano San Tommaso fa della vita di San Francesco, non tutto sia perfetto e sublime. Così si dica, per limitarci ad altri due casi estesi ad un intero canto, del canto sesto, con la sintesi storica sulla vita della Chiesa, perseguitata dagli uomini e soccorsa dalla Provvidenza; e del primo apparire a Dante, asceso al cielo stellato, del Paradiso e della corte beata nel canto ventitreesimo. Non tutto è perfetto, eppure non si finirebbe mai di rileggere questi versi che, se non esauriscono, avvicinano, fanno in qualche modo presagire però la grandezza pressochè impervia delle tematiche divine. Facciamo alcuni rimandi, in tal senso: 14, 70-8; 26, 64-9; 29, 13-21; 30, 34-42 ("luce intellettual, piena d’amore;| amor di vero ben, pien di letizia;| letizia che trascende ogni dolzore"); 32, 97-9 ("Rispose alla divina cantilena| da tutte parti la beata corte,| sì ch’ogni vista sen fe’ più serena").

      Fra epopea e Dramma. E’ un atteggiamento frequente in Paradiso, in brani di rimprovero

      sentenzioso, di esortazione gnomica, spesso rintracciabili nella parte finale dei canti. Si pensi a 5, 40-2 ("Apri la mente a quel ch’io ti paleso,| e fermalvi entro, chè non fa scienza,| sanza lo ritenere, aver inteso"); a 5,73-84 ("Siate, cristiani, a muovervi più gravi!| Non siate come penne ad ogni vento| e non crediate che ogni acqua vi lavi.| Avete il vecchio e il nuovo Testamento| e il pastor della Chiesa che vi guida:| questo vi basti a vostro salvamento.| Se mala cupidigia altro vi grida,| uomini siate e non pecore matte,| sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida.| Non fate come agnel che lascia il latte| della sua madre e, semplice e lascivo,| seco medesmo a suo piacer combatte!". Alla fine del canto ottavo (vv. 139-48) troviamo un’osservazione di saggezza psicologico-vocazionale, affermata con una forza che cresce nel rimprovero alla società pel comportamento opposto: "Sempre natura, se fortuna trova| discorde a sè, come ogni altra semente| fuor di sua region, fa mala prova.| E se il mondo laggiù ponesse mente| al fondamento che natura pone,| seguendo lui, avria buona la gente.| Ma voi torcete alla religi"one| tal che fia nato a cingersi la spada,| e fate re di tal ch’è da sermone:| onde la traccia vostra è fuor di strada." Al termine del c. 13 cade un monito severo contro il giudizio affrettato: "Non sien le genti ancor troppo sicure| a giudicar, sì come quei che stima| le biade in campo pria che sian mature;| ch’i’ ho veduto tutto il verno prima| il prun mostrarsi rigido e feroce,| poscia, portar la rosa in su la cima;| e legno vidi già dritto e veloce| correr lo mar per tutto suo cammino,| perire alfine all’entrar della foce.| Non creda donna Berta e ser Martino,| per vedere un furare, altro offerère,| vederli dentro al giudizio divino;| chè quel può surgere, e quel può cadere". Del c. 17 occorrerebbe citare i versi dal 37 alla fine (142): la predizione dell’esilio che il trisavolo Cacciaguida fa a Dante è colma di amarezza per le ingiustizie che questi subirà e di esultanza per la missione assolutamente eccezionale che è affidata al lontano nipote: richiamare il mondo cristiano a virtù. Ne escono versi roventi e grandiosi come questi: "Qual si partì Ippolito d’Atene| per la spietata e perfida noverca,| tal di Fiorenza partir ti convene. |Questo si vuole, questa già si cerca,| e tosto verrà fatto a chi ciò pensa,| là dove Cristo tuttodì si merca.|... Tu proverai sì come sa di sale| lo pane altrui, e come è duro calle| lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.| E quel che più ti graverà le spalle| sarà la compagnia malvagia e scempia| con la quale cadrai in questa valle;| che tutta ingrata, tutta matta ed empia| si farà contr’a te; ma poco appresso| ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.| Di sua bestialitate il suo processo| farà la prova; sì che a te fia bello| averti fatto parte per te stesso|.... Ma, nondimen, rimossa ogni menzogna,| tutta tua visione fa manifesta:| e lascia pur grattar dov’è la rogna!" Ancora una finale di canto (22,151-4) con versi indimenticabili: "L’aiuola che ci fa tanto feroci,| volgendom’io con gli eterni Gemelli,| tutta m’apparve, da’ colli alle foci.| Poscia rivolsi gli occhi agli occhi belli." (è possibile selezionare il dramma dalla epopea? ebbene, sì: ma sarebbe una vivisezione pedante, filistea, pignola: comunque, ci sono tutte e due le tonalità, alternate). Magnifico, entro l’oscillare dei due stati d’animo, l’inizio del canto venticinque: lo leggeremo, però, a proposito della tecnica stilistica. Il canto ventisettesimo è zeppo di invettive (lo vedremo nella drammaticità prevalente) ma finisce con un elevamento di tono che non è senza afflato epicizzante: "Ma prima che gennaio tutto sverni| per la centesma ch’è laggiù negletta,| ruggeran sì questi cerchi superni,| che la fortuna che tanto s’aspetta,| le poppe volgerà u’ son le prore,| sì che la classe correrà diretta;| e vero frutto verrà dopo il fiore"( 27, 142-8). Il canto trenta ha un finale burrascoso (lo leggeremo pur esso fra i brani drammatici), ma nei vv. 130-38 prevale l’epopea: "Vedi nostra città quant’ella gira:| vedi li nostri scanni sì ripieni,| che poca gente omai ci si desira.| In quel gran seggio a che tu gli occhi tieni| per la corona che già v’è su posta,| prima che tu a queste nozze ceni,| sederà l’alma che fia giù agosta| dell’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia| verrà in pria ch’ella sia disposta". Epicizzante è la preghiera di ringraziamento che Dante rivolge a Beatrice, che ha lasciato il posto all’ultima guida, San Bernardo (31,79-91): "O donna in cui la mia speranza vige,| e che soffristi per la mia salute| in inferno lasciar le tue vestigie,| di tante cose quant’i’ ho vedute| dal tuo podere e dalla tua bontate| riconosco la grazia e la virtute.| Tu m’hai di servo tratto a libertate| per tutte quelle vie, per tutti i modi,| che di ciò fare avei la potestate.| La tua magnificenza in me custodi,| sì che l’anima mia che fatta hai sana,| piacente a te dal corpo si disnodi". Nel canto trentatreesimo isoliamo solo alcuni versi: "Vinca tua guardia i movimenti umani" (v.37); "O luce eterna, che sola in te sidi (hai in te stessa la tua sorgente)| sola t’intendi e da te intelletta| ed intendente, te ami ed arridi!" (124-6).

      Drammaticità pertinace. Benchè si sia in Paradiso, Dante non dimentica la terra: la rammenta nei santi, ma anche nei vizi. Ecco allora l’amarezza, la viva sofferenza per la corruzione del mondo tutto: dei prìncipi indegni del nome cristiano (19, 103-48); dei prelati avidi (21, 127-41); dei monaci svagati (22, 73-96); del papato mondano (27, 16-63); della società corrotta (27, 121-41); dei filosofi vani e dei cattivi predicatori (29, 85-145), delle ingerenze politiche del papato contro il tentativo di rappacificazione di Arrigo VII (30, 138-48)... Non val però la pena di citare versi: il dramma è per lo più ancora passionale, segnato cioè dalla praticità della collera infastidita ed impaziente, (causata da qualche malanimo personale, da qualche venatura di risentimento?).

       

       

    5. LA TECNICA STILISTICA DEL POEMA

 

Note generali per tutto il poema

 

Si è anticipata

Si è anticipata la definizione dela Divina Commedia (poema allegorico-didattico), la composizione metrica, le date reali della sua stesura e quelle fittizie del viaggio fantastico nell’Oltretomba, la struttura geografica d’Inferno e Purgatorio e quella astronomica del Paradiso...Altre anticipazioni che riguardano (anche) lo stile, le abbiamo poste all’inizio delle Tonalità liriche (la classicità della poesia dantesca, ad esempio). Ebbene sono tutti elementi premessi per facilitare i rimandi e le citazioni di versi. Analizzeremo ora più da vicino qualcuno di questi elementi ed altri ne aggiungeremo.

 

Il realismo delle allegorie dantesche. Dante usa in misura discreta, intelligente, anzi "realistica" le allegorie: anche in questo si distingue da scrittori contemporanei, che agivano con imperterrita ed insipiente coerenza con la comune ed erronea credenza del Medioevo, secondo cui il valore della poesia stava nell’esposizione ermetica di verità scientifico-filosofico-teologiche. Ma in che consiste la "dimensione realistica" della allegoria dantesca? Si tratta di questo: la allegoria in Dante è sempre ed anzitutto un fatto o addirittura storico o almeno verosimile, che può in ogni caso avere valore narrativo alla pari con tutti gli altri episodi (fantastici, ma senza sensi simbolici) del poema. La funzione e l’interesse delle allegorie dantesche, prima di dipendere da un più o meno misterioso significato ulteriore, si ritrova nel senso ovvio e naturale delle parole. E’ ben vero che Dante stesso mette sull’avviso il lettore circa un senso nascosto, un simbolismo sottile presente in alcuni versi della Commedia, (Inf. 9, 61-3; Purg. 9, 70-2); ma è altrettanto vero che se si volesse prescindere del tutto dall’invito del poeta a cercare sensi filosofico-morali nelle descrizioni "connotate allegoricamente", non si perderebbe neppure un "iota" nè del significato razionale(del contenuto della trama, delle invenzioni della fantasia) nè della bellezza, del lirismo, delle comunicazioni emotive del poema. Se qualcuno trascurasse del tutto il vario senso allegorico delle tre fiere nel canto primo infernale; o quello vagamente simbolico delle diverse stelle purgatoriali (canti primo ed ottavo), ebbene egli non cesserebbe di capire il viaggio di Dante nè il suo significato complessivo; soprattutto, egli non cesserebbe di gustare la intensità artistica dell’opera sua. Una prova decisiva? Sul senso delle allegorie dantesche si è versato tanto inchiostro da bastare a convincere che il loro significato preciso è tutt’altro che garantito: ogni generazione propone qualche novità "risolutiva", che al più arricchisce la Divina Commedia di significati culturali generici, ma che non aiutano affatto a comprendere e gustare la sua caratura poetica. Le stesse tre fiere, almeno per il valore etico, sono tutt’altro che univocamente definite nel loro simbolismo: la lonza è la incontinenza in generale o la lussuria in particolare? il leone rappresenta la violenza o la superbia? e la lupa simboleggia la avarizia o la frode?

 

I paragoni

I paragoni o similitudini: ne sono stati contati 597 nel poema, dal primo canto ("E come quei che con lena affannata...": vv. 22-27) all’ultimo ("sì come ruota ch’igualmente è mossa": v.144). Alle similitudini degli animali domestici nel Purgatorio (i colombi: 2, 124-8; le pecorelle, 3, 79-84; il cicognino: 25, 10-2; le capre ed il pastore: 27, 76-84), aggiungiamo quella di Inf. 26, 25-30: "Quante il villan ch’al poggio si riposa,| quel tempo che colui che il mondo schiara| la faccia sua a noi tien meno ascosa,| come la mosca cede alla zanzara,| vede lucciole giù per la vallea,|forse colà dove vendemmia ed ara..."; e quelle di Par. 23, 25-7 ("Quale nei plenilunii sereni..."); e di Par. 10, 139-48 ("Indi, come orologio che ne chiami..."), che trascriviamo intere a suo luogo. Pare proprio che uno dei segni della mente poetica sia quello di scivolare spontaneamente dall’oggetto del suo discorso ad altre realtà affini, che si richiamano tanto più facilmente, quanto più l’emotività impregna la potenza raziocinante, la quale tende, di per sè, a "stare al punto", cioè al nudo oggetto della indagine.

 

L’universalità stilistica in Dante. Nell’Inferno prevale il naturalismo (verismo, realismo) che non esita ad impiegare un vocabolario volgare per descrivere condizioni di ambiente stravolte e atteggiamenti di anime disperate e malvagie. In Purgatorio lo stile è romantico, con paesaggi per lo più dolci e sfumati, con prevalenza di anime cortesi e miti, con linguaggio degno di galantuomini e gentiluomini. In Paradiso domina una espressione classica, con musicalismo ora delicato ed ora solenne, con vocabolario eletto ed innovativo nello sforzo di esprimere l’ineffabile, con ragionamenti profondi e complessi, con personaggi sublimi per eroismo, per ardore di verità e fuoco di carità. A questo modo egli si dimostra non univoco, non prigioniero di un una sola tecnica espressiva, ma aperto a tutte e tre le scuole stilistiche che lo sviluppo successivo della coscienza letteraria chiamerà naturalismo-verismo-realismo, romanticismo, classicismo, ma che già il Medioevo conosceva e che Dante stesso insegnò nel De vulgari eloquentia, coi nomi di stile basso od elegiaco, medio o comico, alto o tragico.

 

La Divina Commedia, cattedrale gotica della poesia. La stessa versatilità a tutto campo della fantasia verbale di Dante e la capacità di adeguare ad ogni argomento o situazione la tecnica espressiva, con pertinenza sorprendente, conferma la classicità quale si è rilevata per i Motivi ispiratori ed i Toni lirici. Ma la classicità, per tutto quello che di perfetto comporta tale caratteristica, come si è già detto, è nell’animo del poeta e nel risultato del poema nel suo complesso, non nelle singole parti della Commedia. L’Inferno rimane la cantica realistica, sia per il motivo ispiratore di fondo (il peccato è lo stravolgimento della natura umana), sia per i toni lirici per lo più dissoni , sia per la forma espressiva specifica, volgare o contorta. Così si dica per il "romanticismo" del Purgatorio, dibattuto fra rimorso e speranza come idea principale; diviso tra idillio ed elegia per l’intonazione emotiva; armonioso ed equilibrato nella loquela dominante per il convergere della dualità ideatrice e liricizzante nella gentilezza e sfumatura di luoghi, persone, disposizioni etico-psicologiche. Solo il Paradiso è classico anche specificamente: struttura ideale, emergenza lirica, linguaggio espressivo.

L’impressione che si ricava dalla lettura della Commedia è, allora, quella di un gotico fiammeggiante (flamboyant), di una cattedrale grandiosa, curata nei minimi particolari, che sale a Dio dalle profondità sotterranea dell’Inferno, raccogliendo nella freccia ultima il convergere delle guglie tutte, delle statue e dei contrafforti, che a loro volta coinvolgono armoniosamente i mille trafori e merlettature, le ogive ed i mosaici dei finestroni: dal Dio della nuda giustizia, al Dio della consolazione purificatrice, al Dio della somma felicità. Ecco il geometrismo delle simmetrie gotiche nel trionfo del numero perfetto, il "3": tale il numero delle cantiche; moltiplicato per undici, diventa un doppio "3", cioè un "33" nei canti di ognuna di esse e, con il canto di apertura od introduzione a tutto il poema, ecco apparire un altro numero perfetto per antonomasia: il "100". Ogni cantica termina colla stessa parola ( "stelle": "e quindi uscimmo a riveder le stelle"| "puri e disposti a salire alle stelle"| l’Amor che muove il mondo e l’altre stelle"). Ogni sesto canto delle tre cantiche tratta, in una espansione progressiva, di politica: fiorentina in Inferno; italiana, in Purgatorio; imperiale, in Paradiso. E ancora: i punti fondamentali della storia religiosa dell’umanità (Gerusalemme, montagna del Purgatorio, spaccato infernale) si trovano sullo stesso asse terrestre, che, passando per il centro del pianeta, unisce il punto centrale dell’emisfero boreale ed australe. La infiorescenza lirica del poema è saldamente imbrigliata da un telaio di razionalità non solo filosofica, ma anche matematica.

 

L’INFERNO O LA CANTICA REALISTICA (verista, naturalista)

 

La crudezza del verismo infernale è coerente con (e dipendente da) la condizione di peccato pervicace e disperazione tragica degli spiriti dannati. Eccone alcune forme generali di espressione.

Il vocabolario è spesso brutale, fino alla volgarità, anzi alla oscenità. "Cerbero, fiera crudele e diversa,| con tre gole canina-mente latra| sovra la gente che quivi è sommersa.| Gli occhi ha vermigli, la barba unta ed atra| e il ventre largo e unghiate le mani;| graffia gli spirti, iscuoia ed isquatra" (6, 13-18). Filippo Argenti è "ùn pien di fango" e "lordo tutto" (8, 32 e 39). Dante è nauseato "per l’orribile soperchio| del puzzo che il profondo abisso gitta" (11, 4-5), "qual suol venir dalle marcite membre" (29, 51). Deve assistere a scene di lurida sconcezza ( 18, 100-17; 21, 139 e 28, 22-7) o di triviale insolenza (30, 100-29), tanto che Virgilio interrompe sbrigativo la permanenza di fronte a tali spettacoli ( 18, 136: "e quinci sian le nostre viste sazie"). Altra volta deve rimproverare Dante che (forse a motivo dei bagordi nel tempo di depravazione, seguito alla morte di Beatrice) si sofferma disorientato al litigio plebeo tra Sinone (il greco del cavallo di Troia) e mastro Adamo (30, 100-48): "chè voler ciò udire è bassa voglia".

Spia acutissima della voluta ricerca di uno stile adeguato alla materia è l’impiego della parola "introcque" (nel contempo) in Inf. 20, 130. Dante nel De vulgari eloquentia (I, 14) esclude tale parola dalla lingua "illustre, cardinale, aulica, curiale", che è quella propria di quegli argomenti (motivi ispiratori) degni della "tragedia" (religione, guerre, amore). Altro caso di parlar volgare è quello di Inf. 27, 19-21: "...O tu, cui io drizzo| la voce e che parlavi pur mo’ lombardo,|dicendo:- Istra t’en va’, più non t’adizzo-". Dunque, l’Inferno certamente non fa uso di uno stile "alto, tragico"; anzi, si può estrapolare con tutta sicurezza, esclude anche lo stile medio o comico (Purgatorio): il termine garantisce, invece, che il linguaggio è quello elegiaco o basso o umile. E’ ciò che fanno notare M. Puppo e F. Montanari nel loro commento a 20, 130.

Altra indicazione della programmatica scelta di un vocabolario adeguato allo specifico linguaggio di ogni cantica, è l’impiego di tre sinonimi diversi per lo stesso concetto di " età avanzata": Caronte, in Inferno, 3, 83, è un "vecchio, bianco per antico pelo"; in Purgatorio,1, 31-33, Catone è un "veglio" "degno di tanta reverenza in vista| che più non deve a padre alcun figliuolo" ; S. Bernardo in Paradiso, 31, 58-63 è "un sene...| diffuso... per gli occhi e per le gene| di benigna letizia, in atto pio,| quale a tenero padre si convene".

La musicalità è forte e violenta. Prevalgono ora le vocali larghe (a| o| dittonghi) collegate a consonanti forti, labiali (p|b) o gutturali (ch|gh|q); oppure consonanti taglienti (dentali t|d) o stridenti (sr+dentale o gutturale) in un contesto di vocali strette (i|u) o media (e), ictate. Esempi: 3, 1-9: "Per me si va nella città dolente,| per me si va nell’etterno dolore,| per me si va tra la perduta gente.| Giustizia mosse il mio alto Fattore:| fecemi la divina Podestate,| la somma Sapienza e il primo Amore.| Dinanzi a me non fur cose create| se non etterne; ed io etterna duro:| lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate". Sempre nel canto terzo (v. 84): "gridando: Guai a voi, anime prave!". Nel canto sesto (v. 19): "Urlàr li fa la piòggia come càni": senario giambico catalettico puro). In 13, 5: "non rami schietti, ma nodosi e involti". Ivi, vv. 7-9: "Non han sì aspri sterpi nè si folti| quelle fiere selvagge che in odio hanno| tra Cécina e Corneto i luoghi colti"". Ivi ,vv. 40-42: "Come d’un stizzo verde, ch’arso sia| da l’un dei capi, che dall’altro geme| e cigola per vento che va via...". Ivi ancora, v. 128: "e quel dilaceraro a brano a brano". Ecc.

A tutto tondo sono le figure dei dannati, che sono così raffigurati come se fossero ancora prigioniere del corpo, della materia. E sono per lo più isolati nel loro peccato, nella loro disperazione, nel loro odio. Esempi: "Caron dimonio, con gli occhi di bragia| loro accennando, tutte le raccoglie;| batte col remo qualunque s’adagia" (3, 109-111); "Vedi là Farinata, che sè ritto:| dalla cintola in su tutto il vedrai...|Ed ei s’ergea col petto e con la fronte| quasi avesse l’inferno in gran dispitto"(10, 30-6). E si vedano le trasformazione dei ladri (25, 49-135), le mutilazioni dei seminatori di discordie (tutto il canto 28), la descrizione dei giganti (tutto il c. 31). In 32, 97-111 Dante dimentica che, anche in Inferno, le figure dei dannati sono solo ombre e scrive "Allor lo presi per la cuticagna| e dissi: -E’ converrà che tu ti nomi,| o che capel qui su non ti rimagna...":si tratta dell’anima di Bocca degli Abati, il guelfo traditore, che tagliando la mano al portainsegna della cavalleria fiorentina, causò lo scompiglio e la sconfitta di Montaperti...

 

IL PURGATORIO O LA CANTICA ROMANTICA

 

Abbiamo anche qui un parallelo perfetto fra Motivi ispiratori (condizione di penitenza per i peccati e di attesa del Paradiso), toni lirici (tristezza elegiaca| consolazione idilliaca) e tecnica espressiva (vocabolario di carità ed umiltà, musicalità dolce e delicata, visività anche cromatica, con figure in bassorilievo).

Il vocabolario. Una delle prime parole della cantica è "dolce" (color d’ori"ental zaffiro...": 1, 13) e ne è quasi l’icona verbale. Si rileggano i numerosi passi segnalati nei toni lirici come idillico-elegiaci e si potrà raccogliere una messe notevole di simili termni. Ad esempio, Casella intona la canzone dantesca "Amor che nella mente mi ragiona" (2,112-7) e dalla schiera degli assassinati del c. 5 che domanda attenzione ai due poeti, esce l’espressione estatica "che del desio di sè veder ne accora" . Nello stesso canto, Buonconte descrive la sua vicenda con epsressioni negative, quasi litoti che attenuano la violenza della battaglia e della agonia: il fiume Archiano sfocia nell’Arno a Bibbiena con l’espressione "là ‘ve il vocabol suo diventa vano" (cioè cessa di esser pronunciato); la morte viene attenuata con la stessa tecnica "Quivi perdei la vista; e la parola| nel nome di Maria finii..."; il demonio completa la sua vendetta così: "...sciolse al mio petto la croce| ch’io fei di me quando il dolor mi vinse...". La fine di Pia de’ Tolomei è tutta alleggerita dalla gentilezza (ella pensa alla fatica e stanchezza di Dante e gli augura anzitutto la quiete del ritorno ("Deh, quando tu sarai tornato al mondo| e riposato della lunga via..."); e, del marito che l’ha uccisa, ricorda solo il tempo felice del patto nuziale: "Salsi colui che inanellata pria| disposando m’avea colla sua gemma". Gli animali domestici che costellano la seconda cantica sono presentati con termini miti e gentili: i colombi se ne stanno "quieti, sanza mostrar l’usato orgoglio" (", 124-9); le pecorelle sono "timidette, semplici e quiete" (3, 79-84); in 25, 10-2, il diminutivo "cicognin" rende amabile l’animale, così come il fatto di essere presentato nella insicurezza e indecisione a tentare il primo volo; le caprette, poi, sono sorprese non "proterve sovra le cime", ma "ruminando manse", ammansite dopo il pasto (27, 76-84).

La musicalità è soave e tenue, con prevalenza di liquide e nasali (l|r; m|n), fruscianti (f,v, s dolce), palatali (c e g dolci; "gli") rispetto alle labiali, gutturali e dentali. La presenza delle vocali "e" (media) "i|u" (strette) è più frequente che nella norma del discorso comune e rispetto alle altre cantiche. Si esamini la presentazione della nuova cantica, nel canto primo ("Dolce color d’ori"ental zaffiro...": vv. 13-27); o la purificazione di Dante ("El cominciò: -Seguisci li miei passi...": 1, 112-29); tutto l’episodio di Casella (2, 76-116); l’inizio del canto ottavo ("Era già l’ora che volge il desìo..."); i brani dedicati ai paragoni appena commentati sopra; e la descrizione del paradiso terrestre (tutto il canto 28, che inizia "Vago già di cercar dentro ed intorno| la divina foresta spessa e viva...").

La visività riprende, dopo le tenebre infernali, il senso dei colori vivaci, splendidi. Dante lo dichiara subito, sin dai primi versi: dopo il già citato "dolce color d’ori"ental zaffiro", egli annuncia "agli occhi miei ricominciò diletto| tosto ch’io uscii fuor dall’aura morta| che m’avea contristato gli occhi e il petto" (1, 13-18). Nella valletta amena vi è un elenco di colori indicati con minerali e vegetali che ne sono i portatori più splendidi ("oro ed argento fino, cocco e biacca,| indico, legno lucido, sereno,| fresco smeraldo in l’ora che si fiacca...": 7, 73-8); nel c. 8, (28-30 e 85-93) si descrive il colore degli angeli venuti a difendere le anime dalla "mala strisica" ("Verdi come fogliette pur mo’ nate| erano in veste..."); e si accenna alle stelle che rischiarano il cielo australe ("quelle tre facelle| di che il polo di qua tutto quanto arde" ). In 28, 1-81, descrivendo la "divina foresta spessa e viva" ne addita "la gran vari"azion de’ freschi mai" e la abbondanza dei fiori "ond’era pinta tutta la sua riva".

La scultura a tutto tondo della anime infernali, isolate dal loro egoismo, si attenua nell’alto- e bassorilievo corale, che accoglie, fraternamente raggruppate, le anime già invidiose sulla terra (13, 58-72: esse si appoggiano l’una all’altra per sostentarsi nella cecità che corregge il "torto guardare" della vita prima, e tutte insieme sono addossate alla parete, da cui sembrano sporgere solo in parte, appunto come sculture in altorilievo). In bassorilievo sono le immagini scopite sulla roccia che i penitenti del primo girone devono contemplare, passandovi accanto curve sotto il peso che ne punisce la superbia: nel c. 10 vi sono esempi di umiltà premiata; nel 12°, di superbia punita.

 

IL PARADISO O LA CANTICA CLASSICA

 

Richiamiamo la solita coerenza fra idee e lirismo: alla beatitudine paradisiaca corrisponderà a priori l’epopea o l’idillio. Tra i caratteri specifici degli stilemi della terza cantica, solo la musicalità solenne appare scontata: la luminosità e la ineffabilità sono caratteristiche coerenti, ma non facilmente indovinabili. Dante ha più fantasia dei suoi lettori e critici.

La musicalità è ovviamente dolce per l’idillio, forte per l’epopea. Ma la dolcezza paradisiaca è più raffinata che in Purgatorio:la "i" sovrabbondano; le sibilanti, assieme ad altre consonanti forti, la spiritualizzano ed estenuano in una trasparenza di musicalismo. E sono frequenti anche le "u" in rima. Si legga questa terzina, che si imprime nella memoria come tipica di una certa musica paradisiaca:"Quale nei plenilunii sereni|Trivi"a ride tra le ninfe eterne| che dipingono il ciel per tutti i seni..." (23, 25-7: Trivia è la dea dalle tre denominazioni: Selene, cioè luna, in cielo; Diana, sulla terra, Proserpina, nell’Ade ). E si provi ad esaminare, da questo punto di vista, tuttto il c. 10, che contiene l’immagine dell’orologio meccanico già citata ("Indi, come orologio che ne chiami...tin tin sonando con sì dolci note...). All’inizio, nella meditazione sulla provvidenziale inclinazione della fascia zodiacale rispetto all’equatore (che risponde poi alla inclinazione dell’asse terrestre), Dante scrive: "Vedi come da indi si dirama| l’obliquo cerchio che i pianeti porta,| per sodisfar al mondo che li chiama..." (vv. 13-5). Invitato da Beatrice, Dante si smarrisce nell’orazione di gratitudine a Dio per l’approdo al cielo del sole, obliando la sua guida: "e sì tutto il mio amore in Lui si mise| che Beatrice eclissò nell’oblìo.| Non le dispiacque, ma sì se ne rise,| che lo splendor degli occhi suoi ridenti| mia mente unita in più cose divise.| Io vidi più fulgor vivi e vincenti| far di noi centro e di sè far corona,| più dolci in voce che in vista lucenti..." (vv. 59-66). Nel canto dodicesimo vi è un’altra danza, con l’arrivo di un’altra cerchia di dottori e teologi: i versi che citiamo testimoniano della presenza di rime in "u": "...canto che tanto vince nostre muse,| nostre serene in quelle dolci tube,| quanto primo splendor quel ch’ei refuse.| Come si volgon per tenera nube| due archi paralleli e concolori,| quando Iunone a sua ancella iube..." ( 12, vv.7-12). E si notino le numerose rime in "i", specie nelle terzine dei versi 103-45.

Nei passi epici, la potenza non è violenta come nella tragedia dell’ Inferno, perchè le vocali larghe ("a|o") sono ovattate da un’armonia consonantica ben temperata, con abbondanza di liquide e nasali: si rivedano i canti ricordati (primo, sesto, ventitrè) ed i passi citati nello studio del lirismo dal c. 4 (124-32), e dal c.27 (1-9). Aggiungiamo qui i versi d’apertura del c. 25, per una controprova di quanto il musicalismo si adegui agli stati d’animo. Dante è quasi alla fine del suo lavoro ed ha coscienza che non basta a spiegarlo lo sforzo umano ch’egli vi ha profuso: anche il Cielo lo ha voluto e realizzato. Ne spera, umanamente, un sol premio: esser coronato poeta sul fonte battesimale di Firenze, quasi ad unire valori religiosi e umanistici: fede e poesia. Ma c’è in questa esaltante speranza il senso della fatica per la salute logorata in sì immane impegno; e vi è il risentimento contro i concittadini che non ne han capito la grandezza e ne hanno rifiutato il lavoro politico a loro vantaggio. Allora, epopea e dramma si intersecano e combattono: anche la sonorità sarà contorta drammaticamente, specie nelle prime due terzine, librandosi in piena solennità solo alla fine. Eccoli i famosissimi versi: "Se mai continga che il poema sacro,| al quale han posto mano e cielo e terra,| sì che m’ha fatto per più anni macro,| vinca la crudeltà che fuor mi serra| del bell’ovile ov’io dormi’ agnello| nimico ai lupi che gli danno guerra,| con altra voce omai, con altro vello,| ritornerò poeta, ed in sul fonte| del mio battesmo prenderò il cappello" (1-9). Si potrebbe analizzare anche la preghiera di San Bernardo a Maria santissima (c. 33): ne ricaveremmo, però, la stessa impressione di medietà poetica, come (ci pare) dai cc. 11 e 12, sui santi Francesco e Domenico: allo slancio sincero, ma non pienamente librato, corriponde una musicalità non univoca, svariante fra dramma ed epopea.

Ma in Paradiso vi è anche il canto spiegato. La musica non è solo delle parole. C’era già anche in Purgatorio il canto, da Casella, nel c. 2, alla Compieta nel c. 8, ai canti del paradiso terrestre ( 30, 10-21 e 82-4; 31, 106-111 e 133-8; 33, 1-3), ma era più sommesso o più spezzato: qui si accompagna ad ogni cielo, assieme alla luce: e cresce con l’aumentare di quella. Il parallelismo di musica e luce inizia già nel primo canto (76-84: "Quando la rota che Tu sempiterni| desiderato, a sè mi fece atteso| con l’armonia che temperi e discerni,| parvemi tanto allor del cielo acceso| della fiamma del sol, che pioggia o fiume| lago non fece mai tanto disteso.| La novità del suono e il grande lume| di lor cagion m’accesero un disio| mai non sentito di cotanto acume" ) per raggiungere l’apogeo nei primi nove versi del c. 27 (citati). Il cantare dei dottori e teologi nel cielo del sole (cc. 10, 12, 13) è molto frequente e accompagna la danza ("Nella corte del cielo, ond’io rivegno,| si trovan molte gioie care e belle| tanto, che non si posson trar del regno;| e il canto di quei lumi era di quelli:| chi non s’impenna sì che lassù voli,| dal muto aspetti quindi le novelle.| Poi, sì cantando, quegli ardenti soli| si fur girati intorno a noi tre volte,| come stelle vicine a fermi poli,| donne mi parver, non da ballo sciolte,| ma che s’arrestin tacite, ascoltando,| fin che le nuove note hanno ricolte..". Leggiamo 14, 28-33: "Quell’Uno e Due e Tre che sempre vive,| e regna sempre in Tre e ’n Due e ’n Uno,| non circunscritto e tutto circunscrive,| tre volte era cantato da ciascuno| di quelli spirti con tal melodia,| ch’ad ogni merto saria giusto muno." E, nello stesso canto, bisogna leggere i versi dal 91 al 129 per avere un caso di eccezionale lunghezza alla fusioone di luce e musica ("...con tanto lucore e tanto robbi (rosseggianti)| m’apparvero splendor dentro a due raggi..." "E come giga e arpa, in tempra tesa| di molte corde, fa dolce tintinno... s’accogliea per la croce una melode| che mi rapiva, sanza intender l’inno...". Nella finale del c.20 (139-48) troviamo una similitudine legata alla musica: "E come a buon cantor buon citarista| fa seguitar lo guizzo della corda,| in che più di piacer lo canto acquista..."

Gli elementi di visività. Se il canto sublima la musica del Paradiso, la luminosità in un crescendo di splendore ne caratterizza le componenti visive. Le anime si riducono esse stesse a fuochi di luce, che ne nascondono la figura (solo nel cielo primo, della luna, rimane una silhouette umbratile della immagine terrena: cfr. Par. 3, 10-33: "Quali per vetri trasparenti e tersi..."). I canti più luminosi sono il primo (79-81: "parvemi tanto del ciel allor acceso| della fiamma del sol, che pioggia o fiume| lago non fece mai tanto disteso"); il decimo (è il canto del cielo del sole); quelli dei martiri della Chiesa (in cromatismo rosseggiante: cc. 14-17); quelli del cielo cristallino (cc.23-29: specialmente il trionfo di Cristo e di Maria: c.23, 19-129: "Pariemi che il suo viso ardesse tutto... Quale nei plenilunii sereni...vid’io sovra migliaia di lucerne| un sol che tutte quante l’accendea... Come a raggio di sol che puro mei (fluisca)| per fratta nube, già prato di fiori| vider, coperti d’ombra, gli occhi miei,| vid’io così più turbe di splendori| fulgorati di su di raggi ardenti| senza veder principio di splendori..." ; e i cc. 30-33, che presentano l’Empireo (spigoliamo alcuni versi da 31,1- 123: "In forma dunque di candida rosa| mi si mostrava la milizia santa...Le facce tutte avean di fiamma viva...Oh trina luce che in unica stella| scintillando a lor vista, sì li appaga!... sì per la viva luce passeggiando... vedea visi a carità suadi| d’altrui lume fregiati e di suo riso... Io levai gli occhi; e come da mattina| la parte ori"ental de l’orizzonte| soverchia quella dove il sol declina,| così, quasi di valle andando a monte| con gli occhi, vidi parte dello stremo| vincer di lume tutta l’altra fronte...". Abbiamo sottolineato la frase che precisa essere le anime luminose e per il riflesso del Lume divino e per il proprio sorriso di felicità (v. 50): è normale in Paradiso la sinonimia tra "ridere" e splendere", tra "riso" e "luce". Si veda, sempre nel c. 31, 133-5: "Vidi quivi ai lor giochi (movimenti festosi degli angeli) ed ai lor canti| ridere una bellezza che letizia| era negli occhi a tutti gli altri santi" (la bellezza, che risplende riflessa negli occhi di angeli e santi del Paradiso, è quella di Maria santissima). Ma la sinonimia è presente già nel primo canto "per le sorrise parolette brevi" v. 95), culmina in 27, 4-6 ("Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso| dell’universo, perchè mia ebbrezza| entrava per l’udito e per lo viso"), per terminare in 33, 49-50: "Bernardo m’accennava e sorridea|, perch’io guardassi suso...".

L’ineffabilità. Dante nell’ultima cantica ha sofferto il senso dell’inadeguatezza delle sue forze all’impegno immane che si è assunto, di descrivere cioè l’Oltretomba fino al Regno di Dio in Paradiso. L’espressione forse più estesa e simpatica di tale senso di insufficienza è nel c. 23, 55-69: "Se mo’ sonasser tutte quelle lingue(dei poeti)| che Polimnia con le suore fero (la musa della poesia lirica e le altre otto muse resero)| del latte lor dolcissimo più pingue,| per aiutarmi, al millesmo del vero| non si verrìa, cantando il santo riso,| e quanto (esso riso) il santo aspetto (di Beatrice) facea mero (splendente);| e così, figurando il paradiso,| convien saltar lo sacrato poema,| come chi trova il suo cammin reciso.| Ma chi pensasse il ponderoso tema| e l’omero mortal che se ne carca,| nol biasmerebbe, se sott’esso trema.| Non è pileggio (tratto di mare) da picciola barca| quel che fendendo va l’ardita prora,| nè da nocchier ch’a se medesmo parca". Ma già nel primo canto tale sproporzione tra il tema del Paradiso e le forze umane del poeta è dichiarata tre volte: nei vv. 5-6 (" e vidi cose che ridire| nè sa nè può che di là su discende"; 34-6 ("Poca favilla gran fiamma seconda:| forse dietro di me con miglior voci| si pregherà perchè Cirra risponda");70-2 ("Trasumanar significar per verba (spiegare con le parole il fatto del diventare più che umano, cioè partecipe della vita divina, ammesso alla contemplazione della Sua gloria)| non si porrìa; però l’esempio basti| a cui esperi"enza Grazia serba". Altri casi di più richiami all’ineffabilità in un solo canto si possono vedere in 10, 43-8 e 73-5; ed in 14, 79-81; 103-8; 130-9. E tre volte ancora Dante sente il bisogno di denunciare tale impossibilità, a rendere il senso dei misteri che espone, nell’ultimo canto: "Da quindi innanzi il mio veder fu maggio| che il parlar nostro, ch’a tal vista cede;| e cede la memoria a tanto oltraggio (esperienza che va oltre , oltrepassa la nostra natura)" (vv.55-57); "Omai sarà più corta mia favella,| pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante| che bagni ancor la lingua alla mammella" (vv. 106-8); e "All’alta fantasia qui mancò possa;| ma già volgea il mio desìo e il velle (volontà),| sì come ruota ch’igualmente è mossa,| l’amor che move il sole e l’altre stelle".

L’ineffabilità si rivela implicitamente nella serie davvero sorprendente di neologismi, creati da Dante per superare "l’oltraggio" (33,57: cioè la grandezza oltre le possibilità umane) della esperienza divina. Ne elenchiamo il maggior numero possibile: "per le sorise parolette brevi" (1, 95: verbo usato al passivo), inciela (3, 97: ripone in Cielo), s’india (4, 28: si fa simile a Dio), si spazia (4, 126: esiste, si libra), s’addua (7, 6: si raddoppia lo splendore di legislatore e di imperatore in Giustiniano),s’indonna (7, 13: si impadronisce), s’incinqua (9, 40: si quintuplica), s’inluia(9, 73: penetra in lui), s’io m’intuassi come tu t’immii (9, 81: se io penetrassi nel tuo pensiero come tu penetri nel mio),s’insempra (10, 48: si eterna), s’intrea (13, 57: lo Spirito Santo che forma la terza persona della SS. Trinità), s’indraca (16, 115: la famiglia Adimari che assume la ferocia del drago contro gli esiliati come Dante, di cui avevano incamerati i beni), t’insusi (17, 13: ti elevi tanto in alto, cioè fino a Dio), m’inventro (21, 84: mi rinserro), non s’impola (22, 67: non ha cardini sopra i quali ruoti), t’inlei (22, 67: penetri in lei), s’immilla (28, 93: si moltiplica all’infinito), s’immegli (30, 87: diventi migliore), s’incappelli (32, 72=ponga l’aureola, la corona di gloria sui loro capelli), oltraggio (33, 57: eccesso), come vi s’indova (33, 138: come vi trovi posto= come si possa collocare l’umanità di Cristo nella Trinità di Dio).

Nella casistica della ineffabilità può forse trovar posto anche il fatto che, per la parola "Cristo", Dante non vuol trovare altra rima se non la ripetizione dello stesso nome del Salvatore (14, 104-8; 19, 104-8; 32, 83-7).

E certo collegata e subordinata anche alla ineffabilità è l’uso non solo della lingua latina (sovrabbondante nella terza cantica), ma anche dela ebraica (7, 1-3: "Osanna, sanctus Deus Sabaòth| superillustrans claritate tua| felices ignes horum malachòth": Salve, o santo Dio degli eserciti, che colla tua luce illumini dall’alto i felici fuochi- degli angeli e santi- di questi regni"). Parte, invece, dettati dalle esigenze di metro e rima sono parole coniate crudamente sul latino, inventate da Dante o da lui recepite da certo linguaggio dotto del suo tempo. Ve ne sono a non finire. Eccone un saggio: contento (2, 114=contenuto: cfr. Inf. 2, 77), coto (3, 26: cogitatum= pensiero), colto (atto di culto=sacrificio di Ifigenia, la figlia di Agamennone, da parte dei Greci, per propiziarsi i venti, alla partenza in Aulide delle navi per Troia), carizia (5, 111: penuria, carestia e, quindi, brama ardente), mirro (6, 48: ammiro), labi (6, 51: scendi: da labor-làberis) gaggi (6, 118: premi), prode (7, 26: utilità: dal verbo "prosum- prodes)), isso (7, 92= ipsum=stesso),imprenta (10, 29), si sterna (11, 24: si stenda= si adatti, chiarisca), rattezza (11, 50: ripidità), refuse (12, 9: riflette), iube (12, 12:comanda), cupe (13, 1: desidera), compage (13, 6: densità), plage (13, 4: plaghe), si mea (13, 55: fluisca), muno (14, 33: premio), robbi (14, 94: rossi), vinci (14, 129: legami, vincoli), cacume (20, 20: cima), quiditate (20, 92: essenza), dape (23, 43: cibo), soffolce (23, 130: sostiene, contiene), adima (27, 27: abbassa), donnea (27, 88: vagheggia), vicissime (27, 100: vicinissime), testo (27, 118: vaso di terracotta= contenitore=cielo primo mobile che contiene tutti gli altri), classe (27, 147: flotta), igne (28, 25: fuoco), vimi (28, 100: legami), conflati (33, 89: fusi insieme)...

VI) LA FORTUNA DI DANTE (E DELLA DIVINA COMMEDIA in particolare)

    1. Complessità dell’influsso di Dante sui posteri.
    2. Anche senza la Divina Commedia, forse Dante avrebbe avuto una discreta eco sul pensiero e l’azione delle generazioni d’italiani nei secoli successivi. Infatti non è stato solo il capolavoro ad entrare nelle idee ed ideali della posterità. Di fatto una notevole importanza hanno avuto anche il De vulgari eloquentia e la Monarchia. E non soltanto per la genialità del pensiero con cui ha dibattuto problemi nuovi (di linguistica italiana) od antichi (rapporti fra libertà comunali e governo imperiale; definizione dei confini d’Italia come nazione; rapporti fra Chiesa e Stato), ma per la coerenza della sua condotta in rapporto alle sue convinzioni politiche, pagata oltretutto con una vita di stenti, umiliazioni ed insicurezza ("Tu lascerai ogni cosa diletta| più caramente; e questo è quello strale| che l’arco dell’essilio pria saetta.| Tu proverai sì come sa di sale| lo pane altrui e come è duro calle| lo scendere e salir per l’altrui scale": Par. 16,55-60). Specifichiamo ulteriormente quanto se ne è già accennato.

      Si è detto che, col trattatello interrotto "Sulla lingua volgare", Dante dà inizio alla nuova scienza della linguistica e, in particolare, al dibattito sulla definizione della lingua italiana. Ecco, dunque, introdotto un problema che tormenterà i nostri letterati fino all’inizio del secolo ventesimo, almeno per quanto riguarda il modo migliore per stabilire un vocabolario accettabile della nostra lingua. Ma, fino a Manzoni almeno, il problema fu più complesso, comprendendo anche questioni teoretiche, come se le poneva Dante. Nel 1529 Gian Giorgio Trissino pubblicò il trattatello di Dante facendolo conoscere al pubblico degli studiosi e, interpretando grettamente la tesi dantesca di una lingua selezionata (non in funzione solo delle composizioni poetiche più elevate, ma per l’uso degli scrittori simpliciter), si tirò addosso quanti vedevano ormai nell’uso fiorentino il paradigma definitivo della lingua nazionale: con Machiavelli in testa! Quest’ultima tesi fu ripresa dal Manzoni con un cumulo di osservazioni sensate, ma tutt’altro che definitve: Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), additando nel caso della Germania la formazione di una lingua nazionale senza necessità di una città privilegiata di riferimento, dava al "criterio dell’uso" (che condivideva col Manzoni) un senso non geografico, ma sociale. La lingua di una nazione è quella adoperata dalle sue persone colte, perchè il popolo più o meno consapevolmente finisce per la assumerla come propria. Non tanto, quindi, una unità imposta da un fatto politico (la lingua di Parigi, capitale della Francia) od economico-culturale (Firenze, centro di commerci e patria dei tre grandi scrittori del Trecento), ma da una libera competizione basata sulla congruità, nella mente dei dotti, dei nuovi vocaboli rispetto al complesso del patrimonio linguistico già in uso. E’ questo il criterio che ha finito per prevalere ed ha reso possibile uscire dalla secca di vocabolari compilati sulla adozione dei soli vocaboli usitati dagli scrittori classici del Trecento e Cinquecento fiorentino (tesi prevalsa fino al Manzoni) o dei vocaboli in uso del popolo toscano-fiorentino in ogni generazione (tesi propria del Manzoni). Ma Dante, lo si è accennato più volte, intendeva solo selezionare una lingua eletta (illustre, ecc.) per i componimenti più impegnativi, di stile alto o tragico, da imporre ai letterati: tanto che nella cantica dell’Inferno, di stile umile o basso, Dante non esita ad impegare il vocabolo "introcque" (20, 130), che nel De vulgari eloquentia egli esclude non dalla lingua italiana, ma dalla lingua "alta" della poesia tragica.

      Con la "Monarchia", Dante sostiene la parità dei due poteri, papale e imperiale (i due "soli") nel loro campo specifico di azione, ma difende anche Roma come capitale voluta da Dio per i due poteri universali, ecclesiastico e civile. Una sollecitazione semantica della tesi dantesca in un ambiente diverso, portò alla sua interpretzione "patriottica e nazionalistica", ponendo Dante a capo dei grandi del passato che avevano presagito ed auspicato la lotta per l’unità d’Italia con Roma capitale: sulla spinta di Alfieri e di Foscolo, tutta la letteratura risorgimentale (Mazzini, Gioberti, Leopardi, Niccolini, Tommaseo, Carducci...) han fatto della tomba di Ravenna (oltre che di quella del Petrarca ad Arquà) una icona dello spirito libertario ed unitario degli Italiani, desti a rinnovata coscienza nazionale.

       

       

    3. La complicata vicenda nella "fortuna" della Divina Commedia

 

La persona colta, non solo d’Italia, presume che la diffusione, ammirazione, studio del capolavoro dantesco abbia avuto un corso univoco di crescente successo. Ma non è stato così. Per un cumulo di motivi, alcuni culturali; altri, politici. Fra quelli politici, occorre tener presente l’ostilità di una parte del mondo ecclesiastico, che- col card. Egidio Albornoz (1310 ca-1367)- voleva bruciare il libro come ostile alla Chiesa. Ma tale atteggiamento non fu molto diffuso nè duraturo: il figlio maggiore del poeta, il sacerdote Pietro, commentò e diffuse l’opera paterna. Gli ostacoli maggiori e più duri a morire furono quelli culturali. A cominciare dallle difficoltà di ordine filosofico-teologico, che rendevano ostico il poema a molti lettori: ancor oggi, se la D. C. non fosse obbligatoria nel programma di studi per tutti i tipi di scuole superiori, quanti italiani avrebbero la pazienza di "tradurre" in concetti a loro accessibili il testo non sempre evidente? Vi è, infatti, un linguaggio troppo filosofico (si veda tutto il c.11 dell’Inferno; i vv. 52-105 nel c. 16 del Purgatorio; i vv. 133-9 del c. 11 e tutto il c. 33 del Paradiso). Il testo è difficile anche per quel tanto di antiquato o raro che vi è nel vocabolario (fermiamoci al c. 1 dell’Inferno: calle= sentiero; pianeta= sole; gaietta= screziata; lonza=lince; combusto= bruciato...); per quelle parole che sono imposte dalla metrica e che risultano di difficile interpretazione (Inf. 2,77: "contento"=contenuto; Inf., 2, 122 "allette"= accogli; " ib.138: "proposto"= proposito:in 22, 123, "proposto" significa invece "capo, superiore, sovrapposto"); per qualche equivocità studiata in certe allegorie (cfr. la descrizione delVeltro liberatore dalla lupa, in Inf. 1, 103-5: "Questi non ciberà terra nè peltro,| ma sapi"enza, amore e virtute| e sua nazion sarà tra feltro e feltro"=???); per certi residui di astronomia tolemaica, che sono di difficile comprensione oggigiorno (ad es. Par. 1, 27-42, ove si parla di una specie di croce triplice formata da equatore, orizzonte, zodiaco e coluro equinoziale... ; e 10, 1-27: la inclinazione dell’asse terrestre è indirettamente spiegata in riferimento alla eclittica o cerchio zodiacale).... Ma vi è un ulteriore motivo che rende ardua l’accettazione universale della Commedia ed ha a che vedere con l’estetica della poesia e della convivenza sociale. Il suo stile non esclude la forza, fino alla violenza ed alla volgarità (Taide, Vanni Fucci, Maometto nei cc. 18, 25, 28 dell’Inferno, già citati); la drammaticità giunge alla disarmonia (Inf. c. 6: il comportamento capriccioso ed i versi, ad esso coerenti, di Ciacco); i motivi ispiratori sono erronei sul piano astronomico e geografico, sono molto impegnativi su quello morale (due caratteri anche questi che urtano: dopo Galileo, il primo; sempre, il secondo). Insomma, il poema implica la maturità intellettuale, quella etico-psicologica, quella estetico-critica: è un’opera che misura il lettore dalla radice del naso in su... E, ahimè, simili fruitori nelle generazioni umane (finora) sono una minoranza. Fa bene, perciò, la società a costringere i propri giovani studenti a simile sforzo critico a diverse dimensioni (filologico, filosofico, estetico...), perchè la fatica per capire e gustare tutte le dimensioni di una tale opera fa maturare il lettore, lo fa crescere intellettualmente ed artisticamente, nelle esigenze circa la bellezza e la verità. Il plus-valore estetico è, poi, in se stesso di tale vertiginosa altezza che, nella più parte dei lettori, si fa perdonare la fatica che richiede e, almeno ad un certo punto della esistenza, fa riprendere in mano il capolavoro come uno dei non molti libri che meritino di essere goduti nella vita. Non superare un’eventuale paura dell’impegno interpretativo di fronte a Dante, rischia di far perdere un valore insostituibile al mondo: la fruizione di quello che è, con tutta probabilità, il più grande libro di poesia. E’, dunque, una sfida che va superata.

E’ da questa perfezione formidabile che nascono le vicende ambigue della fortuna del capolavoro dantesco nei secoli della storia culturale italiana: dagli entusiasmi del Trecento medioevale ai disdegni del Bembo e dei petrarchisti rinascimentali (controbilanciati a stento da un filologo della levatura di un Vincenzo Borghini); dall’emarginazione del Seicento, rozzo insieme ed affettato, all’ambiguità del Settecento, diviso fra condanne teoriche e valorizzazioni concrete, fra sostenitori convinti, ma disarmati di motivazioni, contro confusi, ma petulanti avversari, fra il brillante spregiatore Saverio Bettinelli ed il mediocre entusiasta Gaspare Gozzi. Con G. B. Vico e col Romanticismo la fortuna di Dante risorge prepotente. Dapprima, per motivi complessi ed equivocamente culturali. Il Vico vede in Dante l’incarnazione di una specie di "categoria storica", un ritorno di Omero, cioè una rinascita del popolo medioevale alla ingenua sincerità dell’anima primitiva, non filosoficamente sofisticata ma poeticamente geniale. Lo stesso Francesco De Sanctis è un po’ troppo preoccupato della grandezza morale e del significato sociale di Dante (inteso come rappresentante della coscienza religiosa e severa del Medioevo), pur intendendo il suo valore propriamente estetico. Se la filologia positivistica della seconda metà dell’Ottocento avrà il merito indiscusso di aver introdotto i lettori a capire il contesto storico e linguistico della Commedia, toccherà al Novecento raggiungere la consapevolezza sempre più chiara circa la purezza categoriale dell’arte e della poesia e la sua natura unicamente, pienamente, genialmente umana: a cominciare dalla Divina Commedia. Veniamo ora all’esame di alcune "spie" notevoli della "fortuna" della Commedia: tradizione manoscritta ed edizioni a stampa; citazioni, elogi, contestazioni; biografie del poeta; imitazioni, commenti, traduzioni; indirizzi critici degli studi danteschi e risultati filologici ed estetici dell’ultimo secolo.

Per questo aspetto della critica dantesca, seguiamo come traccia la "Bibliografia" che sta in calce allo studio dedicato da Natalino Sapegno a Dante nel volume Il Trecento nella Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1987, pp.168-190, salvo a svilupparne le indicazioni con l’aiuto del volume dedicato alla bibliografia della collana "Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana", edita da Marzorati. Tutto sommato, chi volesse riferirsi ad una sola opera per avere una fonte completa dei problemi e delle opere di critica dantesca, basterebbe rivolgersi alla ENCICLOPEDIA DANTESCA edita dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1970-78 (5 volumi con uno di Appendice).

 

Tradizione manoscritta ed edizioni a stampa.

 

Persa ogni traccia di autografo dantesco, il numero dei manoscritti prima della stampa (particolarmente nel Trecento) è così grande e vario che non si è potuto risalire ad un archetipo unico, ma solo ipotizzare delle famiglie di codici (per la loro utilizzazione, si vedrà a proposito delle edizioni critiche).

L’edizione a stampa avvenne abbastanza presto (1472: la Bibbia di Giovanni Gansfleisch da Gutemberg è del 1455) e fu realizzata contemporaneamente in tre città italiane (Foligno, Mantova, Jesi). Il secolo XVI procurerà ben quaranta edizioni: quella del 1555 (Venezia, Giolito) aggiungerà l’aggettivo "divina" al titolo originario, che rimarrà poi per sempre. Il Seicento barocco stamperà solo cinque edizioni (o solo tre, addirittura?), mentre il Settecento ne pubblicherà trentasette. Col secolo XIX nacono le prime edizioni "critiche", preparate cioè collazionando molti codici manoscritti del Trecento, nel tentativo di stabilire il testo più vicino all’originale dantesco. Il numero delle edizioni e delle ristampe diviene incalcolabile, per la obbligatorietà dello studio della opera nei programmi scolastici, oltre che pel diffondersi ed elevarsi del tenore culturale nell’Italia, la cui unificazione risorgimentale aveva trovato in Dante un profeta ed un incitamento.

 

Citazioni, elogi, denigrazioni, biografie.

Citazioni. Fin dal 1313-4 Francesco da Barberino (notaio, miniatore e poeta, toscano di Val d’Elsa:1264-1348) accenna all’Inferno di Dante nelle glosse al suo poemetto "Documenti d’amore" (cioè "insegnamenti" di etica e cortesia impartiti da Amore). Nel 1316 Andrea Lancia (notaio e letterato fiorentino, cui si è tentati di attribuire il commento anonimo alla Commedia, detto l’Ottimo: morì attorno al 1360) dimostra di conoscere anche il Purgatorio. Le citazioni ed i riferimenti, in seguito, divengono comuni.

Elogi ebbe Dante subito alla morte: Giovanni del Virgilio (quello che aveva avuto con lui uno scambio di lettere in distici latini) scrive un’epigrafe; Cino da Pistoia compone una canzone e Giovanni Quirini (rimatore veneziano del sec. XIV, che pubblicò poi altri sonetti in difesa ed elogio di lui), un sonetto di cordoglio. Nel Trecento si ha la rievocazione da parte di Giovanni Villani nella Cronica ( l. IX, c. 136), riecheggiata da Antonio Pucci nel canto 55 del Centiloquio; si hanno i numerosi e reverenti accenni di Franco Sacchetti nel Trecentonovelle e nelle Rime (ad es. la 4 e la 66); si ha soprattutto il culto da parte di Boccaccio, che ci ha lasciato un "Trattatello in laude di Dante", oltre ad aver organizzato la lettura della Commedia nella chiesa di Santo Stefano di Badia, condotta fino al c. 17 dell’Inferno ("Comento alla Commedia"). Nel Quattrocento, Leonardo Bruni, anche per difendere il "poeta volgare" dall’atmosfera di disdegno diffusa nell’ambiente umanistico, stese un vera "Vita di Dante" (1436).

Una biografia critica sarebbe però nata solo dopo le pazienti ricerche negli archivi, da parte della scuola storico-filologica a cavallo dei secc. XIX e XX: i documenti riguardanti l’attività del poeta furono man mano editi da Guido Biagi e Giuseppe Lando Passerini. Nel 1931 Nicola Zingarelli pubblicava due volumi nella collana della Storia della Letteratura Italiana (Francesco Vallardi) col titolo "La vita, i tempi e le opere di Dante". Solo nel 1940, però, Renato Piattoli completava le indagini, pubblicando, a Firenze, il volume "Codice diplomatico dantesco" (il titolo era già stato dato agli studi del Biagi). Nel 1951 Mario Apollonio sostituiva i suoi due volumi su Dante, nella Vallardiana, a quelli dello Zingarelli.

Denigrazioni, ambiguità, alti e bassi della fortuna di Dante fino al Seicento. Contro la Commedia si pone quello scriteriato di Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli) che nell’Acerba (poema in sesta rima) combatte le idee scientifiche dell’Autore (lui credeva alla astrologia, fino a morirne martire sul rogo, nel 1327) e in genere ne disprezza il capolavoro (un suo verso "qui non si canta al modo delle rane" sembra polemizzare con Inferno, 22, 25-33). Petrarca ostenta una certa sufficienza verso la Commedia, che mitiga solo per la mediazione del Boccaccio: finirà per assumerne il metro (la terzina incatenata) e l’allegorismo nei "Trionfi". Nel Quattrocento fiorentino non mancano riecheggiamenti nel Magnifico Lorenzo, ma il mito dell’antichità e della lingua latina non favorisce l’amore per l’opera in volgare. Quando si giungerà alla coscienza del Classicismo volgare col Bembo, ormai si sarà affermato il "complesso petrarchesco", in base al principio che la sua dolcezza e raffinatezza faceva degna la lingua fiorentina della nobiltà delle lingue antiche, mentre la violenza di certe parti della Commedia erano incompatibili con i caratteri della classicità. Quando si imporranno anche i canoni aristotelici delle varie unità (di tema, di luogo, di tempo) nella poesia, si troverà un altro elemento per sdegnare la complessità del lavoro dantesco, dimenticando la saldissima unità nella varietà più disinvolta. In realtà, la Commedia per certi spiriti mediocri (bembeschi) del Cinquecento costituiva una sfida troppo ardua, impervia. Non è così per Francesco Berni, che assume nel capitolo la terzina dantesca ed impara molto dallo stile realistico dell’Inferno. Più ancora Dante trovò in Michelangelo un’anima fraterna: basterebbe leggere il sonetto "Dal ciel discese" per accorgersi quanto a fondo egli abbia compreso la personalità e la poesia del compatriota. Anche Benedetto Varchi e G. Battista Gelli (ambedue "consoli", cioè presidenti dell’Accademia fiorentina) riuscirono due difensori e commentatori appassionati del poema. Il Cinquecento, poi, vide in Vincenzo Borghini il primo esplicito sostenitore della vera grandezza di Dante e della sua opera: la bellezza artistica è celebrata indipendentemente dalla dimensione dottrinale, filosofico-teologica. Nel 1572 Jacopo Mazzoni (letterato e filosofo di Cesena: 1548-98) scrisse il suo "Discorso in difesa della Commedia del divino poeta Dante": il titolo sintetizza la vicenda non univoca della "fortuna" di Dante nel sec. XVI. L’eco del poeta nel secolo seguente è minima: ed è certo uno dei segni dell’impoverimento culturale della società in Italia,almeno in campo letterario. Fr. Fulvio Frugoni fu il denigratore più stolido di quell’età, che vide, però, anche la stima del medico-scrittore Lorenzo Magalotti e le "Annotazioni alla D. C." (idedite, per altro) del critico Francesco Ubaldini.

Il Settecento e il Romanticismo. Di nuovo classico all’eccesso, il Settecento rivisse l’anceps pugna" fra coloro che disprezzavano l’arte "gotica", incarnata nel poeta più rappresentativo dell’età oscura e barbara quale era considerato il Medioevo; e coloro che sentivano e difendevano la potenza lirica ed anche la ricchezza culturale della Commedia. I primi seguivano la incomprensione ed i pregiudizi di Voltaire, che trattò Dante peggio di Shakespeare: se questo fu definito un "barbaro che non era privo di ingegno", Dante fu dichiarato bizzarro e privo di gusto (vedi in Erich Auerbach: S. Francesco, Dante, Vico: Bari, de Donato, 1970, p.42). Fra essi si distinse Saverio Bettinelli (Lettere virgiliane, 1757), che pretendeva di restringere i passi poetici della Commedia ad un gruzzolo equivalente a cinque canti al più! Contro di lui insorse Gasparo Gozzi con la "Difesa di Dante" dell’anno seguente, ma con più intuito dilettantesco che competenza critica persuasiva.

Questo secolo vide, però, anche due eccezionali estimatori di Dante: Giovan Battista Vico e Vittorio Alfieri (questi, anche imitatore). Il Vico, filosofo della storia, geniale anche se discutibile, nella sua opera "La scienza nuova" (1725| 1744) vide nel processo di evoluzione dell’umanità tre cicli a stadi costanti: l’età degli dei (della fede religiosa), l’età degli eroi e poeti (della fantasia dominante), l’età dei filosofi e degli scienziati (della ragione imperante). La prima età parrebbe la più povera, ma possiede il valore fondamentale alla sopravvivenza della civiltà: la fede religiosa, appunto. Questa, mentre va esaurendosi nelle epoche successive, genera ancora valori eclatanti (l’arte, il ragionamento), ma vede avviarsi al tramonto la stessa civiltà umana, che, senza la fede negli dei, ritorna al baratro della barbarie iniziale. Quivi, ritrovando la semplicità della religione, avvia un nuovo ciclo di sfruttamento e logoramento della forza progressiva per l’umanità. Egli vede ormai ripetuti due interi cicli: nell’età che va dalla Grecia alla caduta dell’impero romano; e ,da questa, al secolo dei lumi nel Settecento. Come Omero è il portavoce di un’intera età di Achilli, Ercoli ed artisti, così lo è Dante nella rinata cultura degli eroi, con la Chanson de Roland e i vari cicli poetici di Carlo Magno e di re Artù. Era una prospettiva stimolante e sconcertante (che sarebbe ritornata, più o meno complessificata sia nel romanticismo dei fratelli Schlegel, sia nell’idealismo di Schelling e di Hegel, sia nel positivismo di Augusto Comte), che ad ogni modo dava a Dante una statura "omerica", cioè di somma sapienza poetica: Dante è il portainsegna di un eone intero della storia umana! Si tratta di una rivalutazione non soltanto, ma soprattutto estetica: Dante è l’incarnazione stessa della poesia di un certo momento della storia umana.

Vittorio Alfieri cantò Dante come spirito fraterno nella poesia e nella passione per la libertà, sia in versi ( sonetto "O gran padre Alighier...") che nella prosa " Del principe e delle lettere" (libro 2, c.3) ed in altri passi (collezionati da Raffaello Ramat- 1905-67- in Antologia delle opere minori di V. A., Firenze, Vallecchi, 1937).

Col Foscolo, siamo ormai pervenuti alla critica romantica: Dante è guardato anzitutto e soprattutto come poeta: la critica ha scoperto il suo punto di orientamento, ha in mano la bussola adatta a studiare e parlare di Dante e della Commedia. Ne tratteremo più avanti, a proposito delle varie scuole critiche che, fissata la dimensione lirica come essenziale, si sono però distinte nel sottolineare di più ora un fattore ora l’altro della poesia nella Commedia.

Imitazioni, commenti, traduzioni. Si può dire che le imitazioni hanno preceduto i commenti: Cecco d’Ascoli contesta, ma imita! Jacopo Alighieri, notaio, figlio del poeta, prepara un compendio che espone la struttura e gli argomenti del poema paterno (capitolo "O voi che siete nel verace lume"); compone in prosa le "Chiose dell’Inferno", preoccupato dei sensi allegorici; e scrive infine il "Dottrinale", centone in versi (settenari, al modo del Tesoretto del Latini) di dottrine riguardanti l’astronomia, le scienze naturali, la morale e la politica: una povera cosa, fredda, che termina però con l’esposizione della Commedia negli ultimi capitoli. Più tardiva è la imitazione di Fazio degli Ubertini ("Dittamondo"): incompiuta, pedante esposizione della geografia terrestre come allora conosciuta, è scritta in terzine dantesche e incorniciata da una messinscena allegorica, in cui la Virtù è consigliera e l’antico geografo Solino fa da guida (come Virgilio per Dante) attraverso l’Europa, l’Asia, l’Africa. Questo discendente da Farinata, ancora in esilio e vagante da una corte all’altra nell’Alta Italia ghibellina, con questa silloge metrica di notizie sul mondo (vere o illusorie) e con il richiamo di altri dati propri della cultura medioevale, è un ultimo rappresentante della mentalità ordinatrice ed enciclopedica, che viene incontro a quel bisogno di manuali complessivi, fatti per gente che vive nella fretta di altre occupazioni e non ha l’abito dello studioso che controlla criticamente. Della fine del secolo (od ultimato ai primi del Quattrocento?) è il "Quadriregio" del vescovo e teologo domenicano Federico Frezzi: col suo poema "dei quattro regni", egli vuol far passare il lettore dal peccato alla salvezza attraverso il dominio di amore (sulla terra), di satana (Inferno), dei vizi (una specie di inferno terreno) e delle virtù (che termina in Paradiso). E’ in terzine dantesche e documentato abbondantemente da esempi storici, da allegorie, da ragionamenti scolastici; manca però di estro poetico. Grazie all’esempio dell’Alighieri, la terzina si impone e ne fanno uso Boccaccio ("Caccia di Diana", "Amorosa visione", "Ameto"); e il Petrarca ("Trionfi"). L’Ameto ed i Trionfi ereditarono pure l’uso delle allegorie, reso però troppo insistente ed arbitrario.

Alla fine del sec. XIV, la Commedia veniva pure tadotta in esametri latini dal monaco olivetano Matteo Ronto.

Altre traduzioni arriveranno solo cogli ultimi due secoli del secondo Millennio. Fra i tedeschi, Augusto Guglielmo Schlegel tradusse buona parte dell’Inferno e qualcosa del Purgatorio e Paradiso: usa la terzina, ma facendo rimare solo il primo ed il terzo verso, senza quindi la concatenazione del secondo verso con la terzina successiva. Più tardi Stephan George darà le sue traduzioni. Tutta la Divina Commedia è stata tradotta in Mittelhochdeutsch (medioaltotedesco) dal poeta Rudolf Borchardt (1877-1945).

Veniamo ai "commenti". Jacopo Alighieri, come si è visto, scrive in latino spiegazioni per la prima cantica , con intenti di decifrazione allegorica: siamo nel 1322. Due anni dopo, il notaio bolognese Graziolo Bambaglioli propone anche lui un commento al solo Inferno, con attenzione alle allegorie e dottrine teologiche, ma anche con utili notizie circa la vita fiorentina in rapporto al poema. Fra il 1325 ed il 1330, Jacopo della Lana, bolognese anche lui, commenta per primo tutta La Commedia. Ricco di notizie storiche e mitologiche, di cronaca contemporanea, egli risulta più interessante per l’estrosità piacevole della forma espositiva che per la sicurezza delle notizie offerte. Scritto in volgare, il commento viene tradotto in latino da Alberico da Rosciate. Fra il 1334 e il 1336 compare il commento detto "dell’Ottimo" (fiorentino anonimo, che aveva conosciuto il poeta): l’attributo di Ottimo gli viene dato nel corso del Millecinquecento. E lo merita: pur non citando le fonti delle notizie, dà prova però di buona conoscenza di dottrine filosofiche e di dati storici e dimostra interesse per il dato linguistico, che è di grande aiuto ai lettori moderni. Fra il 1341 e il 1348, Pietro Alighieri scrive in latino un commento completo al testo del padre, interessato alle fonti (patristiche, scolastiche, classiche) della varia cultura di Dante.

Del 1373 sono le chiose del Boccaccio ai primi 17 canti dell’Inferno, come le aveva tenute nella chiesa di S. Stefano in Badia. Ci si aspetterebbero più notizie e meno divagazioni elogiative o interpretazioni discutibili.

Fra il 1375 ed il 1380, Benvenuto da Imola commenta a Bologna, con un latino molto vicino al volgare, tutto il poema, tenendo presenti Boccaccio (per la mitologia) e Giovanni Villani (per la storia) e scrivendo in modo piacevole.

Francesco da Buti lesse Dante in Pisa a partire dal 1385. Meno attraente di quello del Benvenuto, meno interessato di lui alle notizie storico-mitologiche, dà però un buon commento dottrinale, discreto ed equilibrato tra filosofia, teologia e scienza. Scrive in volgare, più attento alla interpretazione letterale ed agli accorgimenti retorici che non ai sensi allegorici.

Nel 1481 esce il commento a stampa di Cristoforo Landino, per la edizione fiorentina della Commedia: pur non contenendo novità, anzi pretendendo di trovare in Dante più Platone che Aristotele, il commento perdura a lungo sul mercato.

Solo nel 1791 Baldassarre Lombardi pubblicherà una nuova edizione commentata! Le ulteriori edizioni con note vengono a rappresentare i vari indirizzi che nella seconda metà dell’Ottocento assume la critica letteraria in generale e quella dantesca in particolare. Ne accenneremo subito nel contesto di questa.

Gli indirizzi critici negli studi danteschi. Riassumiamo le posizioni sino al Foscolo. La prima critica dantesca, quella del Trecento, è legata alla poetica medioevale dello "splendor veri" (San Tommaso) e della "fictio rethorica musicaque posita" (Dante). Ed ecco allora l’importanza che, da una parte, la illustrazione della "verità" del poema (filosofica, teologica, morale, scientifica...) e, dall’altra, la spiegazione delle figure retoriche nascoste "sotto il velame delli versi strani" (a cominciare dalle allegorie) trovano nei commenti. Per la terza componente (fictio...posita musica), i commentatori pensavano (probabilmente come Dante stesso) solo alle regole metriche (cioè la struttura della terzina, degli endecasillabi, delle rime): cose tutte evidenti e fisse per tutto il poema..

Col Bembo e con il Cinquecento classicista e cruscante, l’interesse per la Commedia nasce soprattutto dalla ricchezza del vocabolario fiorentino che, usato da un "classico" del volgare, aveva diritto di piena cittadinanza nell’eletto linguaggio degno di affiancarsi al latino. Quanto allo "stile poetico" Dante è rifiutato come rozzo e stridente rispetto al modello elegante e soave del Petrarca. La concezione passa a molti Arcadi del Settecento, Bettinelli compreso.

Ma ecco giungere G.B. Vico, colla "Scienza nuova", colla "Lettera a Gherardo degli Angioli" e con il "Giudizio sopra Dante". Egli sottolinea l’importanza della Commedia come segno del "ricorso storico", cioè del ritorno dell’Occidente alla condizione di giovinezza spirituale, all’età dei miti e della fantasia, degli eroi e dei poeti: proprio perchè appartenente a una simile età in cui il popolo intero è poeta, Dante ha potuto donarci un capolavoro di tale grandezza. La complessità contorta dell’espressione, la ruvidità dello stile non sono segni di mancaza, ma di spontaneità della poesia, che non è studiata, ma sentita. Si intravede la ambiguità del criterio di valutazione. Da una parte, il giudizio sulla poesia è subordinato a quello sullo stato di evoluzione della società e la poesia è specchio del momento storico; dall’altra, il momento storico ha per suo valore specifico quello della poesia, che, dunque, è altro dalla cultura in generale (filosofia, teologia, scienza...). Sarà il cavallo di battaglia, affascinante ma rischioso (in ogni caso, equivoco) della critica romantica, soprattutto tedesca (Schlegel, Schelling, Hegel). Sempre nel Settecento, Vittorio Alfieri (nelle opere già elencate) esalta in Dante l’uomo fiero, libero, forte e sdegnoso, impazienmte di subordinazioni e compromessi (l’uomo alfieriano, insomma!) e, soprattutto ne fa rivivere il timbro epico-tragico dell’Inferno in molti sonetti. Anche qui affiora, dunque, un’ambivalenza: per il sovrapporsi della dimensione estetica non più con quella teoretico-intellettuale, ma con quella pratico-operativa. Il Risorgimento percorrerà tale equivoco "eroicamente", cioè con molta serietà. Vincenzo Monti imita Dante, ma con quale superficialità!Comunque sia la "Bassvilliana" che la "Mascheroniana" risentono di Dante non solo nel metro delle terzine. Anche Manzoni, nel classicismo della gioventù, esalta Dante in "Urania" e lo imita ne "Il trionfo della libertà". Il gesuita Antonio Cesari partecipava dell’entusiasmo, ma senza saperne dare una motivazione ("Bellezze della Commedia": 1824-6).

Col Foscolo nasce la vera critica dantesca. Egli si concentra su due componenti fondamentali: il "sentimento" come sorgente della bellezza, segreto del piacere artistico nella Commedia; la ricchezza della psicologia dantesca, cioè la capacità eccezionale di Dante a creare i "caratteri" poetici più diversi: si vedano gli articoli per la Edinburgh review (1818), il capitolo finale dei Saggi sul Petrarca, l’analisi dell’episodio di Paolo e Francesca in Inf. 5, un gioiello di finezza critica. Anzi vi è una terza componente importante negli interessi di Foscolo per Dante: egli sentiva la necessità di uno studio filologico (accertare il testo autentico della Commedia), storico (circa i fatti e personaggi riportati nel poema), linguistico (del vocabolario), stilistico (accorgimenti tecnici della espressione). Si legga il Discorso sul testo della Commedia di Dante (1825). Ma nè aveva i mezzi a disposizione, esule come era in Inghilterra; nè forse era altrettanto geniale nell’indagine di simili fattori, come lo era nell’intuizione delle componenti emotiva e psicologica. Anzi, lo studio del pensiero dantesco sarebbe stato contaminato dal pregiudizio che vede nel capolavoro una inportanza più "missionaria" che artistica, quasi che il compito propostosi da Dante fosse una riforma della Chiesa, in cui trovava posto un ghibellinismo ed una avversione al papato, che erano più propri di una mente segnata dalla rivoluzione francese come quella di Foscolo, che non di uno spirito guelfo (sia pure di parte bianca), come era quello di Dante!

Francesco De Sanctis ebbe già a fondare la sua "estetica della forma" durante la preparazione a lezioni sistematiche su Dante (Lezioni zurighesi del 1857-8). Dedicò molti studi a personaggi ed episodi particolari (Pier delle Vigne, Francesca, Farinata, Ugolino...). Quanto fosse cosciente dei limiti della critica precedente e dei compiti veri di ogni studio sul poema , lo si può rilevare da queste affermazioni e domande: "Dante ha avuto i suoi mille antiquari e filologi: non è egli tempo che nella grande poesia si cerchi la poesia, cioè quello per cui Dante è immortale?" Con questo consenso al sentimento del poeta, egli scrive poi le pagine della "Storia della letteratura italiana", che segnano la prima valutazione organica e documentata e la prima analisi sistematica e approfondita della Commedia. Non che tutto sia accettabile (egli ritiene poeticamente più intensa la cantica dell’Inferno, posizione critica oggi abbandonata), però le pietre miliari del lavoro critico-estetico erano poste. A dir il vero, per qualche decennio il suo lavoro sembrò inutile ed anzi fuorviante: il "positivismo" entrava a piene vele nella cultura anche letteraria italiana, proprio attorno agli anni mileeottocentosettanta, cioè quando compariva la "Storia" del De Sanctis (1870-1), la quale non è sintonizzata per nulla sulla nuova epoca, ma chiude degnamente quella precedente, del Romanticismo. Con la "critica storico- erudita" (o "storico-filologica") le indagini sulla Commedia si orientano proprio a risolvere problemi filologici, storiografici, linguistici, soppiantando l’interesse per i sentimenti, la psicologia, la filosofia della storia (o della cultura) rispecchiata nelle opere letterarie, interesse che era iniziato con Foscolo e De Sanctis. Non che la scuola storico-positivistica abbia rappresentato un fallimento: tutt’altro. Essa svolse un lavoro di indagine ingente e necessario, fino a permettere una quasi esauriente conoscenza del mondo mentale di Dante, cioè delle premesse ambientali e culturali da cui era nata la Commedia: al dilettantismo, alla occasionalità delle ricerche precedenti si sostituì la sistematicità e professionalità della "scuola storica". Fra gli studiosi di questo indirizzo vanno ricordati, come prima generazione, Giosuè Carducci (1835-1907), Alessandro d’Ancona (1835-1914), Adolfo Bartoli(1833-1894), Isidoro del Lungo(1841-1927), Giovanni Andrea Scartazzini (1837-1901); in una seconda, poi, Giuseppe Vandelli (1865-1937), Michele Barbi (1867-1941), Giuseppe Lando Passerini (1862-1931), Luigi Pietrobono (1863- 1960), Ernesto Giacomo Parodi(1862-1923). Essi frugarono sistematicamente in tutti gli archivi "sospetti" di possedere notizie sull’età dantesca; vi scoprirono documenti storici a non finire; li pubblicarono e commentarono su riviste dantesche specializzate; assicurarono edizioni critiche con la collazione di tutti i codici trecenteschi disponibili... Frutto di tale immane lavoro fu una specie di nuova scienza, chiamata magari per disprezzo "dantologia", perchè pretendeva di ridurre a tali dimensioni storico-filologiche la analisi critica della poesia dantesca. Nacquero varie riviste di studi specifici: L’Alighieri (1889: divenuto dal 1892 "Giornale dantesco"), Bullettino della società dantesca (1893; Studi danteschi (1920). Naturalmente non tutti i contributi hanno lo stesso valore, ma gli articoli migliori furono editi in volumi (Poesia e storia della D. C.; Con Dante e con i suoi interpreti, problemi di critica dantesca), mentre lo Scartazzini pubblicava in due volumi una "Enciclopedia dantesca" (Milano, 1896-99), cui Antonio Fiammazzo aggiunse come terzo volume un Vocabolario (delle opere latine ed italiane coinvolte nel capolavoro). Come si è detto, nel 1931 Nicola Zingarelli ristampava la sua "Vita di Dante", già edita nel 1903 (nel 1921 era comparsa la "Vita di Dante" di Tommaso Gallarati-Scotti, tanto brillante quanto soggettiva nelle interpretazioni): il "Codice diplomatico dantesco" compariva nel 1940 a cura di Renato Piattoli. Lo Scartazzini procurò un’edizione della Commedia con testo critico e commento informatissimo,a Lipsia, tra il 1874 e il 1882 (migliorata dal Vandelli, è ancora in commercio, per l’editore milanese Hoepli). Tommaso Casini nel 1 889 lo seguirà.

Tali indagini appassionate portarono all’edizione critica dell’Opera omnia in Italia (Oxford ci aveva preceduti con una a cura di E. Moore, nel 1894). Ci si propose una data-traguardo: il 1921, sesto centenario della morte di Dante. Se ne incaricò la Società dantesca, per i tipi dell’editore Bemporad di Firenze, sotto la guida di M. Barbi. Questi lavorò direttamente per la edizione de La Vita Nova (1907) e per le Rime (1921). Per il Convivio, Parodi fu aiutato da Flaminio (?) Pellegrini (l’edizione verrà migliorata nel 1934 da Giovanni Busnelli e Giuseppe Vandelli). Per il De vulgari eloquentia fu fatta valere l’edizione critica di Pio Rajna (1897), che nel 1937 fu migliorata da Aristide Marigo e nel 1963 da Pier Giorgio Ricci. Lo stesso Ricci sostituì con la edizione mondadoriana del 1965 il testo critico del De Monarchia, curato da Enrico Rostagno. Ermenegildo Pistelli curò la edizione delle Epistole, delle Eclogae e della Quaestio de aqua et terra (la recezione da parte della critica delle Epistole era stata assicurata dagli studi di Paget Toynbee, che aveva messo in luce il puntiglioso ritorno del "cursus romano", come garanzia della tradizionale attribuzione delle lettere al poeta). Mario Casella fornì un accurato Indice analitico di tutte le opere. Ma naturalmente il "clue" dell’impresa stava nel riuscire a procurare un testo critico della Commedia. Ce ne furono addirittura due nel giro di due anni! Sotto la responsabilità del Barbi, Vandelli procurò l’edizione della Società dantesca (Firenze, Bemporad, 1921). Nel 1923, a Bologna Mario Casella, dopo indagini personali sui codici trasmessi, otteneva un testo critico leggermente più conservativo che non il Vandelli (quindi, meno vicino all’italiano moderno). Quest’ultimo, d’altronde, continuando a pubblicare e migliorare il testo e il commento dello Scartazzini fino al quasi rifacimento (1929), raggiungeva risultati che hanno indotto Natalino Sapegno a preferire tale lettura (Firenze, La Nuova Italia, 1955) alle altre due (dello stesso Vandelli per la "Dantesca" e del Casella) ed anche a quella che Domenico Guerri aveva pubblicato nel 1933 per gli "Scrittori d’Italia" di Laterza.

Per il centenario della nascita (1965), ecco una più larga lettura di codici trecenteschi, una nuova edizione critica del testo a cura di Giorgio Petrocchi, che Giuseppe Giacalone ha preferito nella sua edizione scolastica per l’editore Angelo Signorelli (Roma, 1967). Le editrici Ricciardi e Mondadori (quest’ultima, per la Società Dantesca —testo e commento) stanno pubblicando l’Opera omnia, a cura di vari studiosi.

Ma, attenuandosi il bisogno delle notizie (o per le risposte definitive scovate negli archivi o per l’alta improbabilità a reperine di nuove), ecco che altri aspetti entrano nella prospettiva degli studiosi. Il pensiero filosofico, scientifico (astronomico), politico riprendono attorno agli anni Millenovecentoventi il loro posto accanto alle notizie filologico-storiografiche. Il positivismo va cedendo all’idealismo anche negli studi danteschi. Ed ecco apparire nel 1921 il volume di Benedetto Croce "La poesia di Dante". Egli, schernendo i dantisti come impegnati in una critica "allotria" (cioè mirata ad altro che alla poesia), riponeva, alla maniera di De Sanctis, al centro della critica il problema estetico, cioè la attenzione alla forma lirica: per Dante, come per ogni altro poeta. Con questo, il critico napoletano additava i limiti della critica storico-filologica: essa prepara la analisi propriamente artistico-letteraria, non ne costituisce l’essenza. Purtroppo egli mostrava pregiudizi teoretici altrettanto gravi quanto sensate erano le sue obiezioni agli studiosi positivisti: impacciato dal monismo idelaistico ed estetico, egli riduceva l’arte alla sola forma, fino a trovare insignificante il "romanzo teologico" che sottostà al poema ed a ridurre, di conseguenza, il valore dell’opera ad un numero di brani, non più ingenuamente quantificati alla maniera di Bettinelli, ma pur sempre avulsi dal contesto dell’opera intera. L’unità della Commedia non riusciva più a comprendersi ed a sostenersi: non-poesia risultano tute le terzine attinenti filosofia, scienza, teologia. E’ questo il corollario impazzito che denuncia l’errore della teoria tutta (anche a tacere della probabile allergia alla fede, che ha contribuito a generare una simile ipotesi suicida).

Ma, d’altronde, il gran lavoro positivistico aveva ottenuto il suo scopo: chiarificare storiograficamente il testo accertato filologicamente, proprio per rendere più accessibili i tesori di emozioni ed estasi che la lettera precisa comunica allo spirito, così che il lettore dei versi possa diventare più facilmente fruitore di arte. Il passaggio era già stato iniziato da Ernesto Parodi, che a partire dal 1906 assumeva la direzione del Bullettino della società dantesca: i suoi studi sulla comicità in Dante sono esemplari della svolta critica che sta avviandosi a cavallo dei due secoli. Ecco che anche le "Letture" ed i commenti danteschi riprendono su nuove vie. Nella seconda metà del Milleottocento due erano stati i grandi commenti al gran libro: quello dello Scartazzini e quello di Tommaso Casini del 1889, entrambi storico-linguistici, non estetici (l’ultimo fu ripreso da Silvio Adrasto Barbi, a partire dal 1921). Ora incominciano i commenti "estetici", che mirano cioè a mettere a contatto con le componenti lirico-artistiche del testo e con quelle psicologico-caratteriali dei personaggi: alla maniera di Foscolo e De Sanctis. Su tale linea si pone il volume di Mario Apollonio che nel 1951sostituisce quello dello Zingarelli nella colana di Fr. Vallardi: volume che punta troppo forse ad esprimere commenti poetici sul testo del poeta, ma portatore anche di alcune prospettive inattese e geniali nella lettura di singoli canti. Ci si prova anche Luigi Pietrobono (1863-1960), con discreto successo editoriale nel 1943 (Principato, Messina), ma senza risultati clamorosi. La palma al riguardo va invece ad Attilio Momigliano (1883-1952: ed. Sansoni, Firenze, 1945): troppo fiducioso nei lettori per la comprensione del testo e troppo sommario nelle notazioni storiografiche, egli mette però a nostra disposizione tutta la eccezionale sensibilità della sua lettura, con segnalazioni di bellezze inesplorate e con la definizione emotiva dei brani liricamente connotati. Troppo facile, però, additare i limiti del suo commento, opposti a quelli dei positivisti. Ed ecco il tentativo della editrice Sansoni di abbinare i due commenti, reciprocamente integrativi, del Casini e del Momigliano: tentativo fallito, ahimè! per la grossolanità del metodo scelto di affiancare pari pari i due commenti, senza osare nè ridurli nè fonderli, col risultato di una loro voluminosità, insostenibile al lettore comune. Più significativo il lavoro fatto da Grahber e da Sapegno che han voluto armonizzare i criteri dei due indirizzi critici, con risultati particolarmente felici nel commento dell’ultimo.

Accanto alla edizione critica ed alla ricostruzione della vita del poeta e dei fatti di moltisiimi tra i personaggi inseriti nella Commedia, l’epoca filologica e quella successiva ci han dato altri studi su Dante ed il suo poema. Così gli anglo-americani han procurato delle "Concordanze" che richiamano le opere latine, classiche o medioevali, sottostanti al testo dantesco. Oltre ad Edward Moore e Paget Toynbee (i più meritevoli fra questi studiosi) contribuirono anche gli italiani Domenico Comparetti (1835-1927: "Virgilio nel Medio Evo), Francesco D’Ovidio (1849-1925: Studi danteschi), Michele Scherillo (1860-1930). Alla fine un tedesco, Carlo Vossler raccolse in studi (fin troppo ampi) le sue proposte sui rapporti fra pensiero antico-medioevale e quello di Dante, fra l’arte letteraria di questo e quanto l’aveva preceduto. Il Moore (benemerito anche per un’edizione critica del Convivio) curò poi anche la parte astronomica del poema, trovando un precedente in p. Giovanni Antonelli (del sec. XIX) ed un interlocutore critico nell’astronomo Filippo Angelitti. Chi ha meglio approfittato degli studi astronomici in rapporto al poema, è stato Manfredi Porena, nel suo commento al testo, edito da Zanichelli (1951). Più consenzienti con l’indirizzo idealistico imperante dopo gli anni Millenovecentoventi, sono scesi in campo, l’un contro l’altro armato, due competenti del pensiero medioevale: il gesuita p. Giovanni Busnelli (1866-1944: difensore della purezza del Tomismo in Dante) e Bruno Nardi (1884-1968: sostenitore di infiltrazioni averroistiche). Sul pensiero teologico, dopo il "Dizionario dantesco" di mons. Giacomo Poletto (1885-92), è ritornato mons. Giovanni Fallani ("Poesia e teologia nella D. C.", Milano, Marzorati, 1959). Studi e commenti a prevalente interesse storico-filologico sono continuati per opera di Giuseppe Zonta, Gianfranco Contini (1912-1990), Daniele Mattalia... Ed è continuata la ricerca di significati allegorici e metallegorici, misteriosi e segreti nel poema dantesco. Dopo Foscolo e Gabriele Rossetti (1783-1954: questi, animato da spirito massonico, vedeva la Commedia come un allusivo "manifesto" di una società segreta antipapale: cfr. "Commento analitico alla D. C."), ecco Francesco Flamini (1868-1922) che scrive "Il significato e il fine della D. C." (1916); e Luigi Valli che pubblica a Bologna nel 1922, "Il segno della croce e dell’aquila nella D.C." e "La chiave della D. C." nel 1925; ed a Roma nel 1928, "Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d’amore". Gli studi sulla allegoria si fanno più analitici, ma spesso ancora sofisticati, in Pascoli che pubblica ben tre volumi ("Minerva oscura", 1898; "Sotto il velame",1900, La mirabile visione, 1902).

Con l’Auerbach (Erich: 1892-1957) realismo ed idealismo si fondono nella teoria della "dimensione figurale" che le anime assumono nell’altra vita, divenendo "figure implete", soprannaturalmente completate, in quanto chiamate a perfezionare nell’Aldilà la missione che già qui in terra hanno cercato di svolgere (imperfettamente) con la loro attività poetica o pratica,anzi con la loro stessa psicologia e presenza. La "critica figurale" che ne è nata (seguita dal Giacalone, nel già citato commento al poema) tende a scoprire la continuità fra terra e Cielo, tra vita (psicologia- missione) in terra e la operosità specifica riservata alle anime per la storia della salvezza umana attraverso l’incontro con il poeta, che ne riporterà il messaggio ai destinatari di ogni tempo e luogo. Qui idealismo e realismo, vita storica e profezia del futuro, natura e soprannatura, interpretazione storico-letterale e allegorico-simbolica tendono a fondersi in una sintesi difficile, ma invitante. Ma, a parte che lo schema può sembrare valido per qualche figura privilegiata (i dannati hanno una missione? nel senso di "perfezionare" il male già fatto?), rimane il problema di fondo: ammessa la verità di una simile "chiave di lettura", essa serve poi a capire-gustare meglio e più a fondo la poesia, il lirismo, l’artisticità del poema? Se a tale scopo non è funzionale, si tartta di un inutile fatica per difendere ipotesi arrischiate e insignificanti (anzi, direi, neppure molto chiare in se stesse).

Studiosi stranieri. Già si è accennato a traduzioni del poema ed a studiosi anglosassoni e tedeschi. La prima "Società dantesca" è nata a Dresda nel 1865, sotto gli auspici di Giovanni, re di Sassonia, che era figlio di una duchessa di Parma. Benemeriti degli studi danteschi furono, in Germania, olte i già citati, Carlo Witte, Federico Schlosser, Edoardo Bo"hmer: tutti nella linea filologico-erudita. Altri degni di menzione furono F.S. Kraus, Alfredo Basserman, Ermanno Grauert. Nel mondo anglosassone abbiamo incontrato Moore e Toynbee. Per Dante in Europa, si veda Arturo Farinelli: "Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania- Torino, 1922. Nelle antologie di studi critici (Carlo Salinari: Dante e la critica, Bari, Laterza, 1968; Giorgio Petrocchi, P. Giannantonio: Questioni di critica dantesca, Napoli, Loffredo, 1969) si possono trovare anche i nomi di ulteriori dantisti stranieri. Guidubaldi ha edito presso Olschky di Firenze uno studio "Dante europeo". Sulle ormai numerose edizioni della "Lectura Dantis" si veda nell’Appendice della citata Enciclopedia dantesca.

15.07. 1999

 

 

04/09/01Ultima modifica il .
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