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Don  Marcello De Grandi

 

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FRANCESCO PETRARCA (Arezzo 1304- Arqua’ 1374)

 

 

 

I GIORNI E LE OPERE.

 

I)                   I GIORNI.

1304: nasce ad Arezzo da ser Petraccolo ed Eletta Canigiani, fiorentini, esuli perchè di parte Bianca come Dante.[1]

1312: il padre, notaio, si reca ad Avignone per impiegarsi presso la curia papale. Si stabiliscono a Carpentras, per penuria di alloggi in città.

1316-26: E’ inviato a studiare, prima, a Montepellier; poi, dal 1320, a Bologna, per seguire la carriera giuridica, come il padre. Ma il giovane preferisce leggere poeti e abbandonarsi ai facili piaceri sensuali (lettera del 1345|9 al fratello Gherardo: Familiari, X, 3). Non arriverà mai alla laurea.

1326: muore il padre ed egli deve trovarsi una sistemazione economica. Torna ad Avignone; prende  gli ordini ecclesiastici minori, che lo abilitano al godimento di rendite su benefìci ma anche con l’impegno al celibato, sia pure non definitivo.[2] Tale decisione, dettata da mire interessate ad una sistemazione di comodo e non da ideali di vita evangelica e di impegno pastorale a servizio  della Chiesa, costituirà  forse l’errore più grave di tutta la sua esistenza. Decìsosi al celibato senza vocazione, egli oscillerà fra una vita affettivamente e sensualmente capricciosa  e le proteste  di una coscienza  sinceramente cristiana.

1327: il 6 di aprile, venerdì santo, nella chiesa di Santa  Chiara in Avignone, incontra Laura e se ne innamora appassionatamente. Ma essa (una de Noves, sposata ad Ugo de Sade?) costituisce col suo rifiuto un’altra sorgente di sofferenza inconsolabile per il poeta. Prosegue intanto la  sua formazione letteraria, che privilegia i latini fino ad escludere Dante.

1330: entra al servizio della famiglia Colonna: Giacomo, vescovo di Lombez ed il   cardinale Giovanni.

1332-7: visita Francia, Germania, Fiandre e Italia (forse anche Spagna e Inghilterra). A Liegi trascrive nel 1333 due orazioni (fra cui la “Pro Archia”) di Cicerone. A Roma rimane ammirato di fronte alle rovine grandiose dell’antichità classica.

1337: ritorna ad Avignone, ma per ritirarsi in Valchiusa, alle sorgenti del Sorga. Laura, la sua “cara nemica” lo affascina sempre più. Quella valle di Provenza sarà –  affettivamente- la sua residenza fino alla morte di lei, nel 1348. Il suo servizio presso i Colonna non è gravoso nè molto impegnativo: è una forma di amicizia onorifica e ben retribuita.

1341: per la fama procuratagli dal poema latino “Africa” gli viene tributata l’incoronazione poetica in Campidoglio, dopo essere stato esaminato a Napoli dal dotto re Roberto d’Angiò.

1342-3: il fratello Gherardo, vissuto frivolo e mondano come  il poeta alla curia di Avignone, se ne stacca e si fa monaco alla certosa di Montrieux. La crisi del fratello era iniziata, quando morì la donna cui era legato.  Francesco, che già dopo la lettura delle Confessioni di S. Agostino (1333)[3], ha cominciato  ad avvertire il pungolo della coscienza che protestava contro la incoerente  sua vita, ma non si è saputo liberare da relazioni amorose varie (anzi ne ha avuto un figlio, Giovanni, nel 1337; ed una figlia, Francesca, nel 1343), ora sente moltiplicarsi i rimorsi, i propositi, il bisogno di spiritualità e di preghiera. E, se non  dal legame dell’affetto (amerà Laura anche morta), si libererà gradualmente dalla schiavitù della sensualità. Egli pare  assegnare la data per  la conversione alla castità, al 1350, l’anno del pellegrinaggio giubilare a Roma. Mai però si staccherà dai comodi materiali, dall’ozio delle occupazioni e degli studi cari, dalla vanità ed ambizione di fama ed onori. E’ ciò che nel dialogo “Secretum” ( o meglio: “De secreto conflictu curarum mearum”: il segreto conflitto delle mie passioni) Sant’Agostino gli rimprovera, consenziente il poeta, dopo inutili tentativi di giustificazione. Anche i trattati “De vita solitaria” e “De otio religioso”  (Sulla vita contemplativa dei religosi) nascono dal clima di emulazione col fratello, che egli visita più volte nel ritiro monastico. E nel frattempo la cultura cristiana, iniziata con la lettura delle Confessioni di Agostino, si infittisce sempre più di autori ed opere e gli diviene altrettanto familiare che quella pagana.

1343-51: Torna in Italia, fra il 1343 e il 1345, ambasciatore del papa alla corte di Naploi. A Verona, nel 1345, scopre altri testi ciceroniani, fra cui i primi sedici libri delle Epistole all’amico Attico. Poi torna a Roma, per partecipare al sucecsso di Cola di Rienzo e al suo tentativo di ridare alla città una funzione ideale nell’Europa caotica (è iniziata la guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra). La simpatia per il  trascinatore di folle (che egli saluta come “salvatore del popolo e castigatore della tirannia”) gli costò il distacco dai Colonna e la perdita della loro munifica amicizia. Ma, giunto a Genova, apprendeva le notizie circa la condotta tirannica di Cola e, cessando dall’appoggiarlo, gli scrisse una lettera di rimprovero. In Italia intanto raccoglieva onori e prebende (cioè assegnamento di rendite da benefici ecclesiastici): carica e stipendio di arcidiacono al duomo di Parma, un canonicato a Padova, oltre a quello già ottenuto nella città di Pisa. Visitava luoghi cari (la casa natale di Arezzo; poi Roma per  il Giubileo del 1350) e amici (il Boccaccio, Zanobi da Strada a Firenze...). Apprende la notizia della morte di Laura, avvenuta il 6 aprile 1348, e di altri amici del cuore come il cardinal   Colonna e Sennuccio del Bene. Assieme alla pestilenza che infestava l’Italia e l’Europa (1348), alla tristezza della situazione italiana in genere (Roma ancor più squallida dopo il terremoto del 1349; il tiranno Luchino Visconti insediatosi signore di Parma; l’amico e protettore Jacopo Carrara assassinato nel 1350 in Padova), la morte della donna amata avviò il poeta alla  disullusione, ma anche alla serenità laboriosa degli ultimi decenni di vita.

1351-53: Decide di ritornare in Valchiusa (1351); poi accetta la ospitalità dei Visconti a Milano (1353).

1353-61: rientra, dunque, definitivamente in Italia, salutandola dal Moncenisio con versi latini caldi di commozione. Ospite illustre dell’arcivescovo Giovanni Visconti fu, all’occorrenza, ambasciatore, estensore di lettere (anche per la pace tra Genova e Venezia), incaricato di discorsi funebri elogiativi (per lo stesso Giovanni Visconti, ad esempio) o di esortazioni politiche a nuovi sudditi (come i Novaresi). Egli dava splendore alla corte e aveva (nella casetta presso S. Ambrogio, dapprima; poi, nel monastero di San Simpliciano) agio per gli studi  e rifiniture di opere latine: Secretum, De otio religioso, De vita solitaria, Carmen bucolicum, Epistolae metricae (lettere in versi latini), Lettere familiari... Qui iniziò pure l’ordinamento delle Rime volgari e qui iniziò e condusse a buon punto  il De remediis utriusque fortunae” (rimedi per entrambe le fortune: quella favorevole e quella avversa). Deve sostenere, per altro, critiche e rimproveri (anche da parte dell’amico Boccaccio), che vedono la sua dipendenza dal mecenatismo visconteo come un tradimento all’ideale politico della libertà.

1361-74: lascia Milano, per sfuggire alla pestilenza che si andava diffondendo nella pianura padana: è ospite a Padova di Giovanni Carrara, figlio dell’amico Jacopo. Mentre lo raggiunge la notizia della morte del figlio Giovanni (1361), la figlia Francesca, sposatasi a Milano, veniva a portargli la serenità e la gioia della famiglia. Ma nel 1362 egli rifugge a Venezia: Padova non è sicura dalla peste. Abita in riva degli Schiavoni, in una casa concessagli dal Senato in cambio della eredità alla ricca biblioteca di manoscritti. La figlia e il genero vennero ad abitare con lui. Boccaccio gli fece visita da Firenze. Poteva, a suo piacere, ritornare presso i Visconti: ed in occasioni solenni o nei mesi estivi fu a Pavia più volte. Ma a Venezia ebbe l’affronto di alcuni giovani averroisti che lo definirono “buon uomo, anzi ottimo, ma illetterato e affatto ignorante”. Rispose con l’invettiva “De sui ipsius et multorum ignorantia” (A proposito della ignoranza propria ed altrui). Attacchi di febbri malariche rattristarono gli ultimi cinque anni: egli passò allora sui colli Euganei, ad Arquà. Se ne mosse solo per pressanti richieste e con i segni del declino fisico sempre più preoccupanti. Fece testamento prima di un viaggio a Roma, interrotto a Ferrara per una sincope, con rischio di morte. Questa lo colse ad Arquà il 9 luglio 1374. La libreria andò dispersa, anche se numerosi sono gli autografi che ci rimangono di lui (alla Vaticana, ad es. i codici 3195 e 3196) e varie le opere da lui postillate.

 

II)LE OPERE.  Diamo  dapprima l’elenco, diviso in tre gruppi: le due opere in lingua volgare, le opere latine in versi, quelle in prosa. In seguito daremo i dati interessanti sul contenuto (con un eventuale giudizio estetico) sulle opere latine, in quanto ci serviranno per definire la individualità ed il pensiero del poeta. Letterariamente, quelle che interessano davvero sono  le Rime ed i Trionfi.  .          1)opere in volgare:      RIME  (o CANZONIERE: Rerum vulgarium fragmenta)

                                                 TRIONFI

           2) opere latine in versi:AFRICA (poema in 9 canti)

                                                  Epistolae metricae (66 lettere in esametri, in tre libri)

                                                  Bucolicum carmen (12 egloghe in  esametri)

                                                  Psalmi poenitentiales (7 Salmi penitenziali)

            3) opere latine in prosa:

                                                 SECRETUM (3 libri “De secreto conflictu curarum mearum”: Il segreto conflitto delle mie passioni);

                                                  FAMILIARIUM RERUM LIBRI (24 libri per 350 lettere)

                                                  Sine titulo (epistolae: 19 lettere senza il nome del destinatario)

                                                  Senilium rerum libri (17 libri per 120 lettere, scritte  dopo il 1360)

                                                  POSTERITATI (autobiografia fino al 1371)

                                                  Variae (57 lettere di argomento vario)

                                                  De viris illustribus (“Uomini illustri”: 23 medaglioni biografici)

                                                  De otio religioso (2 libri “Sulla vita contemplativa dei religiosi”)

                                                  De vita solitaria (2 libri “Sulla vita solitaria”)

                                                  Rerum memorandarum libri (4 libri “Sulle cose degne di memoria”)

                                                  De remediis utriusque fortunae (due parti dialogate sui “Rimedi contro le avversità e le lusinghe  della fortuna”)

                                                  Invectivae contra medicum 

De sui ipsius et multorum ignorantia (Sulla ignoranza propria ed altrui).[4]

 L’analisi del CANZONIERE costituirà il centro dello studio sulla poesia del Petrarca, trattandosi di un’opera di sicuro ed alto valore estetico in lingua italiana: mentre il poeta credeva che la sua fama fosse affidata alle opere in versi e prosa latina, solo le RIME del Canzoniere gli hanno assicurato notorietà e magistero presso generazioni di  fruitori-imitatori, che non mancano neppure oggi.

 Dei TRIONFI   daremo invece subito la definizione stilistica, il significato culturale e la divisione tematica (cioè motivi ispiratori), per potervi poi fare pronto riferimento, quando accenneremo al loro registro lirico ed allo stile, nel contesto della analisi del Canzoniere. Si tratta, dunque, di un poemetto in terzine dantesche, diviso in sei parti, scritto  nel corso dell’ultimo  ventennio di vita (pare iniziato nel 1351-2) e lasciato senza un riordinamento definitivo: donde la accoglienza nel testo, per motivi estetici, di una certa stesura per alcuni brani a preferenza di altre, rimandate in appendice pur avendo uguali diritti filologici alla priorità. Il motivo ispiratore di fondo è il significato della umana esistenza, alla luce delle sue vicende più significative: il modo generale di presentazione di tale prospettiva è il confronto-scontro dei valori che sono incarnati in tali vicende, fino a scoprire quello  defintivamente vincitore. Ecco allora scendere in campo per primo, glorioso e gaudioso, l’Amore, che è però disarcionato dalla Castità, che celebra così il suo (è il secondo) trionfo: Laura non ha ceduto alle tentazioni del poeta. Ma, a sua volta, la virtù umana è vinta dalla Morte, che sembra annullare tutti i valori: anche Laura vi è soggetta, pur se “Morte bella parea nel suo bel viso” (v. 72). Senonchè compare la Fama, che in qualche modo vince la morte e porta in trionfo i suoi eroi.  Ecco però il Tempo che, col cancellare la memoria, abbatte il trionfo della Fama e sembra non lasciare scampo alcuno al bisogno di vita e di senso della povera umanità: “Passan vostre grandezze e vostre pompe,| passan le signorie, passano i regni:| Ogni cosa mortal Tempo interrompe” (112-4). Ultimo cavaliere ad entrare nell’arengo è l’Eternità: “Dapoi che sotto’l ciel cosa non vidi | stabile e ferma, tutto dbigottito| mi volsi al cor e dissi: -In che ti fidi?-|| Rispose: -Nel Signor, che mai fallito| non à promessa a chi si fida in Lui;| ma ben veggio che’l mondo m’ha schernito” (1-6). Ecco che l’Eternità riscatta i valori autentici e danna quelli fasulli, separa il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto. Dio solo è garante del senso della vita umana: l’Eternità  perpetua anche la bellezza dell’anima e l’Amore puro.[5]  Se ci si interroga sulle opere che hanno suggerito alcunchè del contenuto e della forma al poemetto, si devono indicare come certe la Divina Commedia ed il Roman de la Rosa; come ipotetica, “L’amorosa visione” di Boccaccio, che non si sa, però, se abbia influenzato il Petrarca o se sia stata da questi influenzata.

Delle opere latine in versi non grande è il significato propriamente poetico: benchè Petrarca maneggiasse con disinvoltura la lingua di Cicerone, pure non era così incarnata in lui come la lingua materna toscana. E la difficoltà residua nel pensare in latino incide negativamente sull’impegno ad elevare l’espressione al plus valore estetico, cioè ad infondervi lo stato emotivo (che viene, appunto, impedito ad insorgere nell’animo, se prevalgono le preoccupazioni a fissare i concetti in una lingua non ovviamente posseduta).

L’Africa è la maggiore delle sue opere latine: la iniziò negli anni 1338-9 e gli diede fama quasi prima che fosse conosciuta: era infatti stesa solo in parte nel 1341, quando ottenne al suo autore il titolo di poeta laureato (incoronato con l’alloro). La condusse avanti negli otto mesi che, nello stesso 1341, trascorse a Parma. Interi episodi vi aggiunse anche in seguito, ma non giunse mai a colmare le lacune delle prime guerre di Scipione in Spagna (libri 4 e 5); non armonizzò, colle parti già composte,  quelle sopraggiunte in seguito; non riuscì a dare la rifinitura ultima, metrica e melodica.  Il poema è in nove libri, che cantano la seconda guerra punica, facendo perno sulla persona di Scipione l’Africano.  L’opera si apre col sogno di Scipione, cui compare il padre, ucciso da Annibale nella battaglia sul Ticino. Con la predizione delle future glorie di Roma, il sogno occupa anche il secondo libro. Il seguente accompagna Lelio nella reggia di Siface, amico incerto sul suolo africano e presenta lo sbarco di Scipione in Africa, dove Massinissa è alleato sicuro di Roma: Siface ritorna alla amicizia con Cartagine, spintovi da Sofonisba, la donna amata da entrambi. Siface è vinto; Massinissa tenta di salvare Sofonisba sposandola. Quando Scipione esige che la prigioniera resti a disposizione di Roma (con l’onta della sfilata in catene, dietro il carro del vincitore), Massinissa invia alla donna il veleno, con cui essa si uccide (libri 4 e 5). Il libro 6 vede il ritorno di Annibale a Cartagine, mentre il fratello di lui, Magone, muore di ferite durante il rimpatrio: cade qui il brano famoso delle considerazioni  dolorose di Magone sulla vita umana, ispirate direttamente al poeta, pare, dalla morte di re Roberto nel 1343. I libri 7 e 8 espongono gli avvenimenti ruotanti attorno alla battaglia di Zama ed alla pace; l’ultimo libro contiene il colloquio tra Scipione ed il poeta Ennio, che ne canterà in esametri le imprese; ed il trionfo dell’Africano.

Le 64 Epistolae metricae, tutte anteriori al 1355, ci offrono confidenze anche circa l’amore per Laura e sul contrasto interiore per liberarsene: pur toccando anche problemi politici, morali e religiosi, avvenimenti tristi o insoliti, informazioni sulla vita agreste cui si dedica, attratto dalla semplicità dei costumi e dalle opportunità lasciate aperte agli studi. Queste lettere in versi latini costitiscono un parallelo non solo delle lettere in prosa, ma anche delle Rime, in quanto appunto autobiografiche attorno all’amore ed ai tormenti annessi. In particolare è importante la lettera a Giacomo Colonna del 1338 ca (I, 6), che tratta dela propria servitù a Laura, ormai più che decennale: è la conferma che Laura è donna reale, come egli aveva già precisato in prosa nel 1336.

Le Egloghe : sono 12 poesie in esametri, composte fra il 1346 e il 1348 e revisionate fino al 1364. Imitano Virgilio, con alcune differenze: le dieci egloghe del poeta latino sono in distici elegiaci, cioè alternano un esametro ad un pentametro (metro classico per simili carmi pastorali), mentre Petrarca usa tutti esametri; l’allegoria, inoltre, appena accennata in Virgilio, qui è così insistente, che per comprenderla dobbiamo ricorrere al commento che o Petrarca stesso o un amico ci ha lasciato, con la chiave di spiegazione. Letterariamente è l’opera in versi più curata e rifinita, ma risulta molto più fredda di altre composizioni meno corrette linguisticamente e meno scorrevoli metricamente. In esse si riflettono le vicende politiche del tempo, dalla guerra tra Francia e Inghilterra all’avventura di Cola di Rienzo; la situazione religiosa, con lamenti e critiche alla curia avignonese; lutti civili, come la morte di re Roberto di Napoli o la peste del 1348; problematiche amorose, come la terza (Amor pastoralis), la decima (Laura occidens) e la  undecima (Galataea: ancora sulla morte di Laura). Ma la prima (Parthenias) e la nona (Querulus) trattano invece di questioni morali ed ascetiche: e non sono le meno appassionate. In Parthenias egli confronta la scelta puramente religiosa del chiostro (il fratello Gherardo) con la propria, di umanista che coltiva l’ozio profano della poesia, anche pagana, alla meditazione cristiana : il  travaglio interiore rende sentita l’apologia che il poeta fa della sua scelta. In “Querulus” la esperienza tragica della pestilenza del 1348 (che portò via un terzo della popolazione europea) invita a pensieri di speranza cristiana, di celebrazione dei valori eterni di fronte a quelli effimeri della terra.

I Salmi penitenziali: sono sette, scritti più verosimilmente in connessione con la egloga “Querulus” o con la crisi suscitata in lui dalla  decisione del fratello,  di farsi certosino. Rispetto ai Salmi biblici, di cui  hanno reminiscenze talora letterali, si differenziano per una posizione analoga a quella del “Secretum”: Petrarca constata le sue colpe con amarezza e tristezza; invoca perdono ed aiuto a liberarsene: ma non esprime deciso pentimento e fermo proposito neppure nel suo primo salmo, che pur imita da vicino il “Miserere”. Sono, in realtà, degli esami di coscienza costernati, ma non proseguono nella conversione efficace.

Le opere latine in prosa.

Il Segreto, cioè il segreto conflitto dei miei affanni (delle mie interne passioni): è stata l’opera in prosa  ultimata per prima. Diviso in tre libri, il “Secretum” fu condotto a termine fra il 1342 e il 1343, in occasione dell’entrata in convento di Gherardo. La cornice è costituita dalla finzione letterari di una visione: appaiono al poeta la Verità e S. Agostino. I tre libri corrispondono ai tre giorni di colloqui. La Verità assiste muta al dialogo del poeta col santo. Il motivo unico del libro è l’esame di coscienza che il poeta è costretto a fare con lucidità impietosa sotto la urgenza delle domande del santo d’Ippona. Così, oltre le colpe dell’amore disordinato, vengono a galla la vanità della gloria letteraria, l’accidia, cioè quell’amore all’ozio, all’inazione, che si pasce di studi dilettosi, lacrime di autocompassione, sogni e solitudine orgogliosa. Ma soprattutto viene svelato il fondo di una psche non contrastata da una volontà decisa: la oscillazione conseguente tra bene e male, la incapacità di propositi fermi, di decisioni definitive. Egli si sa colpevole, perchè la volontà è libera nei confronti del temperamento, almeno nel caso di scelte riguardanti la coscienza morale. Petrarca si duole ma non si pente; si rattrista ed è spiacente, ma non cambia vita. E Agostino lo rimprovera alla fine: “In antiquam litem relabimur: voluntatem, impotentiam vocas” (“ricadiamo nel solito malinteso e contrasto: tu chiami impotenza quella che è la tua non- volontà”.

            Le raccolte di lettere.

 Le familiari : 24 libri di lettere (a persone e) su argomenti familiari.La più parte sono vere lettere, scritte ad amici e conoscenti su argomenti occasionali, circostanze di vita e stati d’animo del momento: ora come effusioni confidenziali, ora come trattatelli su problemi per lo più morali. Altre sono invece lettere immaginarie, scritte a personaggi illustri dell’antichità (formano il 24. mo libro). Raramente si parla del suo amore per Laura (lettera del 1336 al cardinal Giacomo Colonna). In tutto sono 350 lettere, che coprono la vita del poeta fino al 1361 (con alcune eccezioni fino al 1366). L’idea della raccolta gli venne probabilmente dalla lettura delle “Epistolae ad Atticum” di Cicerone (1345 o poco dopo). Servono a conoscere la psicologia, l’ambiente e fatti di vita del poeta. Sono dedicate a Luigi Santo da Campinia (Ludovico Kempen), conosciuto nel 1330 in Guascogna nel circolo di Giacomo Colonna e da lui chiamato “Socrate” per la sua serenità di spirito. Curate per la pubblicazione, ma non senza alcuni ritocchi, restano talora in tre redazioni: quella spedita realmente, la copia tenuta dal Petrarca e  quella corretta da lui.

Le Senili. (Lettere della vecchiaia). Iniziano con il 1361, anno della morte di Socrate-Luigi di Campinia- e sono dedicate a “Simonide”, il fiorentino Francesco Nelli. Ne risultano 17 libri, per un totalae di 125 lettere. Meno curate delle precedenti, rimangono spesso in un solo testo, perchè tutti i codici risalgono ad un solo archetipo. La “Lettera alla posterità” (“Ad posteros” o “Posteritati”) doveva costituire il diciottesimo libro, da sola. Lasciata in abbozzo zeppo di correzioni e incopleto (giunge solo al 1351), fu pubblicata a sè, dopo paziente ricostruzione e interpretazione.

“Sine nomine” ( od anche “epistolae sine titulo”, cioè “Lettere senza il nome del destinatatario”). Scritte fra il 1342 e il 1358, in numero oggi limitato a diciannove (ma considerate di 22 pezzi nelle prime due edizioni a stampa: Venezia, 1501 e 1503), rivelano l’anticurialismo del Petrarca che vedeva in Avignone solo corruzione e interessi economici, contro la spiritualità del Vangelo. La pubblicazione a parte e senza il nome del destinatario fu atto di prudenza. Però anche le accuse sono generiche e involte in un linguaggio scritturistico, simbolico, oscuramente allusivo. Solo nelle lettere 20-21-22 egli espone (alfine!) qualche caso concreto di cinismo e di lussuria esorbitanti: ma sono quelle della cui autenticità si dubita seriamente...

Le “Varie” (lettere cioè disperse, non accolte in nessuna delle collezioni ordinate dal Petrarca). Sono 57 lettere conservate forse dai destinatari ed accolte già dagli antichi editori  fra quelle petrarchesche.

“La vita solitaria” (steso nel 1346, rifinito nel 1366, con l’aggiunta almeno del “supplemento romualdiano”, cioè l’esempio della vita di S. Romualdo, asceta solitario. Benchè il richiamo agli esempi della Scrittura e della storia della Chiesa siano frequenti; benchè egli confessi che “gli è dolce inserire in quella sua operetta il nome sacro e glorioso di Cristo”, tuttavia lo scritto non è univocamente religioso: è (come dice bene Sapegno) “la idealizzazione dei suoi ozi di Valchiusa” che iniziano al mattino con le lodi divine (la parte mattutina del Breviario o preghiera ufficiale della Chiesa) nella selva, ma proseguono in studi che informano sul passato e istruiranno le generazioni future; che temono la asprezza di certi santi penitenti come Francesco e gli anacoreti  della Tebaide; che accanto alla preghiera ed alla lettura divina, prevedono visite di amici, vagheggiamenti di paesaggi confortanti, contatto culturale con i grandi pensatori e operatori del paganesimo, da Cicerone agli imperatori saggi della romanità. Proprio per questo, il  “De vita solitaria” non è un doppione dell’altra opera “De ocio (otio) religioso (rum)” , che vediamo subito.

La vita contemplativa dei religiosi. Scritto in due libri nel 1347 e rimaneggiato un decennio dopo, è frutto dell’emozione in lui suscitata da una visita al fratello a Montrieux. “Otium” è la vita contemplativa. Si oppone al “nec-otium” o “negotium” che è la vita pratica, operativa, attiva. Questo già presso i latini: che si riferivano, però, unicamente alla vita di studi o creazione letteraria, in  opposizione al lavoro manuale od all’affaccendarsi politico. Qui, invece, la “contemplazione” è quella cristiana, dell’ascesi del chiostro, fuori non solo dalle occupazioni ma anche dalle preoccupazioni del mondo. Ed è allora anche pace interiore, serenità, santità perchè è unione con Dio nella preghiera. In quest’opera (in cui lo stesso Cicerone perde, impallidisce di fronte alla sapienza cristiana), Petrarca raccoglie le sue riflessioni intorno a due nuclei fondamentali: come fuggir il demonio e superarlo (libro 1); come fuggire gli altri pericoli, il mondo e la carne (l. 2). Naturalmente il monastero è il rifugio piò ovvio e completo contro tutti questi pericoli, ma Petrarca  non ne ha una vera esperienza positiva: preferisce, perciò, declamare  contro i mali e i disagi della vita pubblica e civile ed elevare un inno di ringraziamento (tanto più eloquente, quanto più generico) a Dio, che ci salva in Cristo redentore. Oltre tutto egli oscilla tra il primato della Grazia, che ci salva gratuitamente in Cristo con un’iniziativa esauriente (vi sono dei passi in cui egli si avvicina ad espressioni di San Paolo e di   S. Agostino: “Che cosa hai che tu non abbia ricevuto?”); e la priorità dell’uomo, che pare iniziare  lui l’opera della sua salvezza (“avvicinatevi a Dio e Dio si avvicinerà a voi”).

I “Rimedi per la buona e l’avversa fortuna” sono un’opera in due libri, di centoventidue e centotrentun dialoghi rispettivamente, in cui la ragione, dapprima, disillude gli interlocutori della fortuna favorevole (Gioia e Speranza); poi, conforta i portavoce della fortuna avversa (Dolore e Paura). Opera moraleggiante, che fa capo più ad una sapienza pagana (stoica), disillusa, che ad una speranza cristiana, proiettata verso la sublimazione della sofferenza alla luce della Resurrezione di Cristo e verso la riconoscenza a Dio dei benefici tereni, segni della Sua bontà e caparra del Premio futuro. Si ha notizia che vi lavorasse attorno nel 1354 e ancora nel 1366, ma i lavori di lima ed i ritocchi proseguirono fino a darci, a cura dei discepoli, una edizione migliorata rispetto a quella predisposta dal Petrarca in vita.

I “Libri delle cose degne di memoria” sono un’altra opera compilatoria, collezione di “virtutum exempla” od esempi di virtù, sul modello di Valerio Massimo, il quale scrisse i “Factorum et dictorum memorabilium libri”. Risente ancora della mentalità medioevale, dunque, ma con forti indizi di spirito umanistico. Infatti, pur essendo stato iniziato e condotto alla stato attuale (incompleto) a ridosso della conversione del fratello (1343-5), esclude di proposito esempi e insegnamenti esplicitamente cristiani o scritturistici. Il progetto doveva comprendere le quattro virtù cardinali e, forse, i sette vizi capitali. Ne è rimasto solo un mozzicone, in quattro libri: quello introduttivo (sulla vita di studio, sulla solitudine come premessa all’acquisto della virtù) e altri tre libri, tutti riguardanti la sola Prudenza, la prima cioè delle virtù cardinali  (Memoria, come prudenza del tempo passato; Intelligenza teoretica e pratica, come prudenza del presente; Preveggenza, come prudenza pel futuro). E’ notevole il pessimismo che pervade una trattazione, che si supporrebbe incoraggiante attraverso gli esempi di virtù addotti: predomina la condanna dei tempi a lui contemporanei (da cui, pure, trae esemplificazioni), colpevoli non solo di non produrre uomini, opere, esempi degni della grandezza passata, ma anche di aver lasciato naufragare le testimonianze della cultura e sapienza antica[6]; e prevale l’ammirazione del passato, nonostante l’incontro con frequenti testimonianze sulla corruzione di Roma in ogni età. Si  possono notare ancora la tendenza a favorire Cesare e Augusto contro lo stesso ammiratissimo Cicerone; le frequenti professioni di fede cristiana, l’incertezza del giudizio su Aristotele e la prefernza per la  mentalità che fa capo a Platone-Cicerone-Agostino.

“Uomini illustri” è la più antica delle opere in prosa, concepita per la pubblicazione: fu iniziata nel 1338,  in  parallelo al poema “Africa” e frutto delle letture (Tito Livio) per la versificazione della seconda guerra punica. Forse la prima cosa scritta fu proprio la vita di Scipione l’Africano (poi rifatta due volte, sicchè se ne hanno tre redazioni). L’opera, ripresa più volte, nel 1341-43 raggiunse le 23 biografie da Romolo a Catone il Censore e nel 1351-3 si espanse ad abbracciare anche illustri uomini relgiosi, da Adamo a Mosè. Ancora più tardi, il poeta compilò una vita di Cesare, che forse era intesa come a sè stante e, certo, era il segno di una maturazione politica: come era accaduto per Dante, poco a poco Petrarca tendeva ormai a relativizzare il tipo tecnico di governo (democratico o monarchico, popolare o tirannico) per salvare i valori di sostanza:   l’impero è preferito alla repubblica, in funzione dell’ordine e della coerenza nella società contro il caos del tempo di Cicerone, che egli vede rivivere sotto i suoi occhi. Il discepolo Lombardo della Seta che raccolse e pubblicò (in parte) le opere del Petrarca, aggiunse altre biografie, fino al numero di trentasei (tutti personaggi pagani: fino a Traiano), così come il Petrarca aveva progettato quando suggeriva i personaggi da dipingere per una sala del palazzo di Francesco da Carrara, nel tempo in cui vi dimorò, dopo aver abbandonato Milano nel 1361.

“Invettive contro un medico”: sono quattro libri scritti fra il 1352 e il 1355, in polemica contro un medico di papa Clemente VI. Vi si esprime sfiducia in genere contro la classe medica, troppo intenta ai guadagni e incerta nell’esito delle cure. Siccome, poi, l’interessato aveva risposto, egli proseguì nella polemica ed aggiunse la difesa degli studi letterari, che formano lo spirito, come superiori a quelli scientifici e utilitari, che guariscono solo il corpo. L’operetta ebbe grande diffusione: tale successo è giustificato dallo stato primordiale della scienza (medica o meno) ai tempi del Petrarca, mentre gli studi umanistici (si pensi alla filosofia di Tommaso d’Aquino od alla poesia della Commedia) erano ormai giunti a successi straordinari. Queste “Invettive”, oltre a lumeggiare chiaramente certi aspetti dell’Umanesimo rinascimentale (a sottolinearne maggiormente lo spirito, segnalandone  valori e difetti), sono una “spia acutissima” del temperamento del Petrarca, di cui avremo da parlare fra poco. Abbiam già visto che il magister Bernardus, fiorentino, risponderà a queste “Invettive” del Petrarca, provocando l’intervento di Coluccio Salutati.

“Sulla ignoranza propria e di molti altri” : è la risposta, scritta fra il 1367 e il 1371, al giudizio negativo di quattro giovani averroisti, che a Venezia l’avevano definito “uomo dabbene, ma ignorante (della filosofia aristotelica, interpretata per di più in chiave averroistica, che negava la immortalità dell’anima individuale). Egli si appella (ma la sistematicità è poca, come è povero l’ordine delle argomentazioni) ad una motivazione naturale: il fine della vita umana (felicità) ed i suoi mezzi (condotta morale) sono più importanti dei piaceri, comodità e ricchezze, che sono l’effetto delle cure mediche e degli studi scientifici: perciò gli studi umanistici sono superiori a quelli naturalistici. Egli si richiama anche ad una motivazione soprannaturale: solo la sapienza di Cristo e del Vangelo garantisce la comprensione del senso della vita umana e il raggiungimento della felicità,  poichè nè la scienza nè la filosofia di Aristotele giungono a tanto. C’è qui il prsentimento, in forme  germinali e confuse, della apologetica che sarà propria del Seicento, sia italiano (Tommaso Campanella) sia francese (Biagio Pascal). Ed è dichiarata a piena voce la coscienza della superiorità della sapienza sulla scienza, degli studi educativi e letterari su quelli puramente conoscitivi e sperimentali della scienza.

 

                        LA PERSONALITA’ 

 

Fisicamente: alto e florido (cioè robusto, ma anche grassoccio): così lo rappresentano i primi  dipinti (manoscritto del De viris illustribus, 1378: attribuito ad Altichiero; manoscritto codice vaticano 3198, del sec. XV).

Psicologicamente (temperamento): fu ( a nostro parere) un “Nervoso a prevalenza vagotonica”. Il temperamento nervoso è quello di un individuo emotivo, non attivo, primario od instabile. Ed è sempre un distonico: ora ortosimpateticoprevalaente (Dante), ora  parasimpateticoprevalente (Petrarca).

In quanto EMOTIVO egli non solo aveva emozioni (come tutti), ma le aveva in tale misura da essere capace di trasmetterle, di esprimerle in una forma fruibile da altri.

 In quanto VAGOTONICOPREVALENTE (o, più sinteticamente, “vagoprevalente”, cioè con emotività a prevalenza vagale o parasimpatetica), egli tendeva ad essere più  soggetto alle emozioni contemplative (idilliche od elegiache: o di  pace, serenità, quiete, mitezza; o di tristezza flebile,  di malinconia rassegnata, di delusione consolata) che a quelle drammatiche, esultanti o ribelli, risentite od euforiche (tragedia ed epopea, che pure sono eccezionalmente presenti). E’ questa declinazione complessivamente calma del suo “nervosismo” che lo fa apparire, a prima impressione, piuttosto un “sentimentale” che un nervoso. La stessa impressione si ha dalla ovvietà con cui egli sa legare con tutti, risultando simpatico, socialmente accetto, richiesto a gara da nobili come da liberi comuni. Dante (ortosimpaticoprevalente) non riusciva a “legare” con nessuno! Ma questo accadeva al Petrarca, non perchè fosse un “secondario od emotivamente stabile” (tali sono i temperamenti “sentimentali”), ma perchè la prevalenza vagale lo portava ad una ricerca della pace al di sopra della verità, a non esasperare i problemi, a “lasciar correre l’acqua all’ingiù”, a non insistere sulle proprie propensioni (politiche od altro), ma a rimanere su esigenze generiche di bontà morale e di buon governo, che accontentavano tutti e non lo mettevano in crisi con nessuno. C’era, dunque, in lui qualcosa di don Abbondio. Invece, la mutevolezza (anzi “indecisione”) incoercibile tradiscono la  “primarietà od instabilità” del suo temperamento in maniera inequivocabile. Lo vedremo ben presto. Ci sembra da aggiungere che è da un simile viraggio della sua distonia che egli tende ad una certa superficialità di pensiero, all’accontentarsi di intuizioni brillanti ma indimostrate, a non riuscire a mettere assieme sistemi impegnativi di pensiero o, almeno, di prove razionalmente convincenti. Ne riparleremo a proposito del tipo di intelligenza. E non insistiamo neppure su altri limiti caratteriali, che sarnno troppo favoriti dall’ambiente, nell’ambito del quale  li tratteremo: la vanità e quel complesso di “doti adolescenziali o femminee” rimaste per tutta la vita, che sono il ripiegamento su se stesso, la tendenza a protrarre l’età del diario sentimentale (sia pure in versi) oltre gli anni della adolescenza, la facilità allo stato d’animo flebile e autocompassionevole...

In quanto “NON ATTIVO” non fu solamente incapace di trascinare gli altri all’azione al suo seguito ( limite presente anche in Dante), ma addirittura si sentì avverso alla vita operativa; ne sentì il fastidio e la rifuggì in quel rifiuto del “negozio” che diventava pigrizia oltre che fascino della vita di lettura e di studio. L’aspirazione alla “vita solitaria” all’ “ozio letterario” è attitudine congenita: Valchiusa in Provenza ha, in più, la vicinanza di Laura, ma pel resto vale quanto la pace e il silenzio del convento di San Simpliciano a Milano, la distensione e libertà di Arquà presso Padova. Egli ne è cosciente: oltre che nel “Secretum”, si veda in Rerum memorandarum, II, 93. Anzi, basterà leggere la canzone “Di pensier in pensier, di colle in colle”. Era nato sfaticato, sia pure di genio. Non giunse alla laurea, ma incantava gli ascoltatori. Non organizzò nulla nella vita, ma ammirava sinceramente chi anche solo sembrasse  un organizzatore (la “cotta” per Cola di Rienzo) o lo fosse realmente stato (Cesare): ma influì enormemente con i suoi scritti, per  generazioni di letterati. Per il risultato “tattico”, a immediata efficacia, della su (in)attività, vale quanto afferma sornionamente Manzoni: “Ma è un destino che i pareri dei poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate dei fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose già risolute prima” (Pr. Sp. 28). “Introverso”: incorreggibilmente, subpatologicamente, dunque. Lo vedremo subito: fu vita irrequieta la sua, ma socialmente –almeno per il tempo immediato- insignificante. Non sapeva guadagnarsi neanche il pane: fu sempre un mantenuto di alto rango. Rifuggiva da impegni definitivi: più di un papa gli offrì la posizione di “segretario apostolico”, ma egli rifiutò sempre. Ci si può, a questo punto, domandare: rimasto laico e con mezzi di vita sufficienti, avrebbe ugualmente accettato la sfida “indissolubile” dell’amore coniugale, il peso della crescita ed educazione dei figli? E’ una questione forte a risolversi! Mancava talmente di doti manageriali o di comando, che  non sapeva neppure farsi rispettare dalla servitù: si legga quanto ne  ricorda,  commiserando entrambi, al fratello Gherardo in Familiari, X, 3. I temperamenti nervosi, avvertono gli esperti, non hanno modo di far breccia nelle vicende sociali: l’unico loro via per agire sulla storia sono le idee, gli scritti. Ma allora hanno un impatto tanto prolungato quanto ritardato. Fu il destino “cromosomico” del Petrarca.

In quanto PRIMARIO  OD INSTABILE egli era mutevole. Consideriamo tre livelli. Anzitutto vi è un ondeggiamento  nel campo stesso a lui più congeniale degli interessi intellettuali. La sua opera più estesa in prosa, sono le lettere: che parlano “de seipso, de omnibus rebus et de quibusdam aliis”. Le altre opere sono iniziate e riprese varie volte;   più di una è composta da collezioni di monografie su personaggi (“De viris illustribus”) o su virtù morali esemplificate (“Rerum memorandarum libri”); molte, incompiute (il poema Africa; e i libri “Sulle cose degne di memoria” che svolgono una sola delle quattro -o forse undici-  sezioni previste...). A questo riguardo, anche le sue idee politiche variano: repubblicano e popolare o monarchico e cesareo, guelfo con Firenze o ghibellino coi Visconti,? Vi è, in secondo luogo ed a livello volitivo, il conflitto irrisolto di tutta la sua vita etica e religiosa: mettere Dio e le esigenze della coscienza morale   al primo posto oppure lasciarvi Laura (o altri amori; o la vanità; o gli studi letterari...)? Ne riparleremo analizzando i Motivi ispiratori del Canzoniere: ma  in proposito si è confessato lui stesso con molta lealtà nel “Secretum”. Nelle “Familiari”, IV, 1 egli stesso parla di “anceps pugna laboriosissima” (battaglia ancipite, indecisa, penosissima). Vi è, infine, la notevole peregrinazione della sua vita materiale: da Arezzo a Carpentras, a Bologna, ad Avignone, in Valchiusa ed a zonzo per mezza Europa con i Colonna, a Roma e Napoli, a Firenze e Pisa, a Parma e Milano, a Padova,Venezia ed Arquà. Di un pretto temperamento nervoso si dice ch’egli “passa da una residenza all’altra” (anzi “da ammobigliato ad ammobigliato”). In fatto di residenze, Petrarca ha fatto peggio di Dante...  Nel 1353 (“Familari”, XVI, 2) confessa a Francesco Nelli, priore dei SS. Apostoli in Firenze, il  “Simonide” delle sue lettere: “Rinfranco l’animo stanco col mutar dimora”. Nel 1366 (Senili, VI, 2) al Boccaccio diceva: “Credimi, amico: a molti, e specialmente ai malati, sempre assai giova il mutar di posto...”. La tentazione di considerarlo un “sentimentale” per la “solennità e dignità fisica” di uomo robusto e, quindi, fermo o pacifico, è una illusione: egli è  variabile al massimo grado, pur non reagendo con ira (nervosismo),ma con rassegnazione alla sua incontentabilità materiale ed indecisione spirituale. E anche di questo è ben cosciente.

Il mondo fantastico. Non doveva godere di eccezionale fantasia visiva, visto che manca del tutto di quella plastica, tridimensionale. Il capolavoro, cioè la canzone “Chiare, fresche e dolci acque”, presenta Laura uscita dal bagno nel fiume Sorga: la cosa è espressa  in maniera visivamente così confusa che egli, nonostante questa temerarietà, mantiene intatto il diritto all’elogio di Foscolo di aver adornato di “velo candidissimo” l’amore “in Grecia nudo e nudo in Roma” e di aver quindi meritato di consacrarlo a Maria santissima (“rendea nel grembo a Venere celeste”). L’unica cosa che si intravede nella canzone sono i fiori che  avvolgono, cadendo da un albero, Laura sedutasi  alla sua ombra: ma è una “nube” alla maniera dell’atomo di Bohr: una  affascinante  nuvola ondeggiante di petali, che rapisce in estasi di idillio, senza lasciar vedere nulla di  preciso, di definito, di  solido, di dantescamente  definito e toccabile. In 366 composizioni del Canzoniere, di Laura la cosa più concreta che si vede sono “i capei d’oro a l’aura sparsi”: particolare che i puntigliosi filologi si affrettano a dichiarare infido, retorico,  con tutta probabilità falso, perchè reminiscenza obbligata di schemi provenzaleggianti che vogliono, la donna amata, bionda ad ogni costo! Neppure la fantasia del movimento (cinestetesia) era grande: il poema “Africa” manca anche di scatti, di impeto, di  dinamismo. poeta epico di imprese eroiche nè poeta drammatico del dialogo sulla scena. Anche nel “Secretum” il dialogo è apparente: si tratta di un monologo, in cui l’oscillazione della coscienza permette ad Agostino di assumere la parte dell’accusatore, che è  un polo della indecisione pendolare della coscienza stessa. Se il poema in terza persona non giunge alla poesia, la forma teatrale in “Io-tu” è ancora più estranea alla conformazione fantastica del Petrarca. Il Petrarca rimane così un “poeta lirico” (nel senso specifico del termine: poeta in “io”, autobiografico, che canta solo le vicende del proprio animo), un confessore di se stesso, che esprime al meglio le vicende della propria psiche, che ha come motivo ispiratore le variazioni del suo mondo sentimentale. Si tratta della  faccia conoscitiva della sua “introversione e non-attività” appetitiva (volitiva): che giunge fino a non permettergli di figurarsi, di immaginare uomini in azione coerente e verosimile. Era, dunque, molto più “inattivo” di Dante, di Virgilio e dello stesso Manzoni.

Invece, sommo era il dono della fantasia musicale, anche se in  tonalità univoca o quasi, cioè nel senso di gran lunga prevalente della dolcezza: pensieri gentili, vocabolario  eletto, musicalità carezzevole. Scatti d’ira magnanima? sì, nei sonetti 136-7-8, ma con moderazione di  termini sempre educatamente insolenti, anzi elegantemente malevoli; con musicalismo appena un poco più ruvido, pensieri di condanna attutiti dal ricordo di tempi in cui la Chiesa era santa e virtuosa... E’ la componente fantastica coerente col viraggio “vagoprevalente” nel temperamento.

Forse si deve dire che solo Ariosto e Foscolo eguagliano il tocco leggero della espressione petrarchesca: il primo, però, senza attingerne i valori lirici, sicchè solo a Foscolo sarà concesso di ripetere il miracolo di unire un contenuto melodico ed una forma armonica affini a quelli del Petrarca,  anche se ancora più intensi come plusvalore emotivo.

Il tipo di intelligenza.  L’intelligenza del Petrarca si lascia sospettare più analitica che sintetica, più acuta che profonda. Che cosa si vuol dire? Petrarca ha una intelligenza che sa  scorgere particolari sorprendenti (di cui la più parte degli osservatori non s’accorge); specialmente nella lettura della propria anima e di quella degli altri, egli “vede al di là dell’angolo”, con  una notevole capacità di intuire segrete intenzioni e di portare alla luce pensieri ripiegati nelle circonvoluzione della psiche.  Manca però della capacità di organizzare le varie intuizioni in un sistema coerente (ad esempio, di filosofia); non possiede neppure grandi facoltà per una dimostrazione, che colleghi fra loro dimensioni diverse del reale in una tesi di risultato. Le sue convinzioni restano così affidate ad una presunta evidenza ed ovvietà: il che faceva disperare naturalmente i “fisici”, cioè gli addetti alle scienze della medicina od affini. Purtroppo sarà un po’ il limite di tutto il pensiero umanistico: capace di intuizioni clamorosamente in contrasto con l’opinione corrente, manca però di una  organicità che riesca a (o, almeno, tenti di) sostituire il grandioso edificio della Scolastica medioevale: dovrà venire Cartesio nel secolo XVII a riportare  l’esigenza delle grandi costruzioni filosofiche. La stesura delle sue opere confermano tale divario tra potere di analisi e di sintesi, come si è già detto parlando della sua “primarietà od instabilità”: compilazioni di pensieri da altri autori, collezioni di biografie diverse, vari lavori non finiti (dall’Africa ai “Rerum memorandarum libri” al “De viris illustribus”), liriche brevi e comunque solo genericamente collegate dalle varie vicende interiori conseguenti al suo amore per Laura... Intelligenza geniale nel particolare, insufficiente ad un’opera complessa. Non senza una dipendenza dalla prevalenza vagotonica della sua sensibilità, come accennato.

 

                                L’AMBIENTE DI FORMAZIONE

 L’ambiente in cui si trovò a vivere il Petrarca è già stato delineato nella introduzione generale al secolo XIV (“La crisi della civiltà medioevale”). Lui  medesimo ce ne dà conferma in “Senili, X, 2”, in una lettera, cioè, del 1367 all’amico di studi Guido Setti, ormai arcivescovo di Genova. Lo stesso titolo della lettera-rievocazione è significativo: “De mutatione temporum”. Ciò significa che l’argomento si aggira sui cambiamenti (in peggio) avvenuti in Francia e in Italia dopo 1335. La degradazione della società (anche fisica: si pensi alla peste del 1348, che portò via forse un terzo della popolazione europea) potè ben essere una concausa del pessimismo di fondo dello stato d’animo petrarchesco. Che fu innescato, però, anche da molti altri fattori ambientali.[7]

Figlio di esuli, ebbe fin da fanciullo vita instabile: il che non equilibrò il temperamento incerto e mutevole. Orfano di madre a 14 o 15 anni, si trovò presto in casa la matrigna.

Avviato agli studi  lontano dalla famiglia troppo giovane (a Montpellier a 12 anni; a Bologna, a 16), egli si abbandona alla dissipazione: amori facili, successi salottieri, trascuranza degli studi giuridici e coltivazione unilaterale di quelli storico-letterari... Alla morte del padre non è ancor laureato nè pensa a farlo. Questa mancanza di disciplina negli anni della crescita fisica e  formazione spirituale,  intensificherà in lui le tendenze innate, spontanee, rendendo impossibile quell’aggancio con la realtà della vita che implica dominio degli istinti, benchè allettanti, accettazione del lavoro, anche se ostico, che sono le condizioni normali per una maturazione umana, che renda interiormente adulti. Saremo forse maligni, ma Petrarca finì per riuscire un uomo “che non sa fare niente,| ma lo sa fare bene!”

Orfano anche di padre a 22 anni, entrò nello stato ecclesiastico in cerca di sicurezza economica e di tranquillità di studi: questa menzogna coi secondi fini che soppiantano quelli religiosi ed ecclesiastici cui la tonsura lo avviava, accentua il suo pendolarismo interiore, mettendolo in contrasto con l’aspirazione alla pace anche sessuale in una vita di famiglia. Sarà forse la sorgente più tormentosa dei suoi travagli intimi, specialmente dopo che il fratello Gherardo avrà superato ogni incertezza con lo stacco totale dal mondo. Questo vivere senza la catena-stimolo-consolazione di una famiglia (e di un lavoro redditizio conseguente, fosse pure quello di segretario pontificio), accentuerà la sua instabilità, radicata certo nel temperamento, ma favorita da una vita senza impegni precisi. Ma, soprattutto, ridurrà al grottesco le sue lamentele e i suoi anatemi contro il mondo ecclesiastico corrotto, quasi che anche lui non sia un rappresentante della doppia vita, della condotta indegna di molti ecclesiastici del tempo. Gli auspici, poi, di una Chiesa senza macchie e senza rughe, come Essa sarebbe stata alla  sua nascita, diventano “astratti furori” che potevano consolare la sua superficiale coscienza, ma non possono convincere la esigente coscienza dei posteri: medice, cura teipsum! Infine, il suo vivere “tra giovedì grasso e venerdì santo” (come diceva Manzoni di Niccolò Tommaseo), il suo predicare da preteso cristiano esemplare ed il suo razzolare, ahimè, “umano, troppo umano” (“ma”nnlich, allzu ma”nnlich” di Nietzsche), lo confermano come il testimone più autorevole di quel secolo in crisi, di quella società in devoluzione dalla cultura solidamente cristiana del Medioevo dantesco a quella implicitamente pagana dello umanesimo Rinascimentale. Se la sua vita sentimentale “stassi così tra misera e felice”, di quella morale possiamo dire, parafrasando “stassi così, tra orante e peccatrice”.

Messosi al servizio della famiglia Colonna, egli inizia una vita di cortigiano, in dipendenza dal mecenatismo dei signori. Il che aggiungerà alle altre, una ulteriore ambivalenza, quella politica: guelfismo o ghibellinismo, democrazia (Firenze), oligarchia (Venezia) o signoria (Milano), tutto concorda  per questo individuo che di “carattere” ne aveva poco, usando quel po’ di fermezza che possedeeva al servizio di un solo scopo: assicurarsi una vita comoda e sicura, a costo di mutare residenza e padroni di sua iniziativa. Non era lo stesso caso di Dante, che doveva lasciare signori che si era inimicato col suo carattere fiero e impulsivo (“tuosto” dicono a Napoli). Anche la sua poesia patriottica si definisce in modo accettabile al suo ambiente,  proprio perchè rifugge dal dibattito sulla  scelta tra l’impero  universale d’Europa  ed il particolarismo dei comuni o delle signorie,  ed opta per la nazione italiana, un traguardo medio ma irraggiungibile, astratto, utopico: tutti d’accordo, guelfi e ghibellini. D’altronde egli è capace di appellarsi alla necessità  davvero moralmente urgente: salvare la libertà  (ma quale? quella di pensiero o di comodità?), nella indifferenza verso la tirannia di uno solo o di una massa. La vita cortigiana lo induce inoltre all’illusione orgogliosa che la lingua   latina (lingua artificiale, morta perchè non insegnata dalle madri) sia la lingua dell’avvenire e dell’eternità: così, senza Boccaccio, egli sarebbe morto senza aver letto la Commedia! Così, richiesto dal medesimo amico di un giudizio sul Decàmeron, egli si pronuncia senza averlo letto tutto e lo scusa della  impudenza pel fatto di essere destinato alla plebe!Ed eccoci al limite non sai se femmineo od adolescenziale della sua vanità: ne aveva la predisposizione temperamentale (lo si è detto), ma non pare dubbio che la vita disimpegnata da grandi ideali (religione, famiglia, vita politica...) accentuasse tale bisogno di consolazioni, via!, meschine. Sapegno , nel Trecento della Vallardiana, non esita a parlare di uno “spreco vanitoso che rasenta la goffaggine”: lo dice a proposito delle citazioni erudite di cui fa sfoggio nell’epistolario e, in genere, nei suoi scritti.  Ma anche il modo di farsi incoronare in Campidoglio, dopo un esame di “cultura generale” da parte di re Roberto d’Angiò, non ha in sè del ridicolo, quando si consideri che le domande le aveva preparate lui per il suo regale esaminatore? E  come poteva essere diversamente, se solo lui possedeva quella eccezionale erudizione  sulle varie materie umanistiche? Il successo pronto e continuato di cui aveva goduto, gli lasciava indosso una vanità da prima donna, che egli riconosce e piange nel “Secretum”.

Ma non tutto il bilancio della gioventù fu negativo: egli strinse amicizie sia all’università che in seguito, che influiranno positivamente su di lui, in campo intellettuale e morale. Guido Setti, arcivescovo di Genova, p. Dionigi da Borgo San Sepolcro (che, a Parigi, gli fa conoscere le Confessioni di Agostino); Barlaam di Seminara (che gli insegnerà un poco di greco: diventerà vescovo, a Gerace in Calabria), Landolfo Colonna e Simone, canonico di Arezzo (che gli danno aiuto a procurarsi copia della “Prima decade” di Tito Livio), Filippo di Cabassole (vescovo di Cabillon e, quindi, di Valchiusa), Simonide (cui dedicò le “Senili”: è Francesco Nelli, priore della chiesa dei SS. Apostoli in Firenze) che già abbiamo citato. Sono persone che lo richiamano continuamente, assieme al fratello Gherardo, alla fede religiosa ed alla virtù morale, conducendolo a vivere con più coerenza cristiana l’ultimo venticinquennio di vita.

Anche se, sul piano morale, Petrarca giunge agli anni quaranta ancora alla mercè della sua spontaneità disinibita, tuttavia si è intellettualmente perfezionato nel campo di studi a lui congeniale: poesia, storia, psicologia.  Ormai dagli uomini poco potrà imparare; anzi, a molti sarà maestro, al punto che egli è da considerarsi non più preumanista, ma  il fondatore della cultura umanistica. E’ dai libri, invece, che continua ad apprendere. Prima di tentare un elenco dei più rilevanti, sottolineiamo ancora una volta la acutezza della sua intelligenza: è grazie ad essa che egli   può leggere criticamente i volumi che ha trovati, comperati, copiati e fatti copiare, che tiene cari come un tesoro ed annota con rimandi e con riflessioni. Per Plinio, ad esempio, (che troppo facilmente colleziona leggende) egli sa spesso dubitare di credenze assurde riportate dall’antico naturalista (inizio dell’opera “De sui ipsius et multorum ignorantia). E’ questo l’umanesimo filologico.    Ed eccoci agli autori più frequentati. Vengono anzitutto i poeti: Virgilio al primo posto, Ovidio al secondo (“secundus nostrorum poetarum”: Rerum memorabilium, III, 73), poi Orazio. Ma ha una discreta conoscenza anche di Catullo, Properzio, Tibullo, Persio, Giovenale, Lucano, Stazio e Claudiano. Ha un divertito contato con i comici Plauto e Terenzio. Tra i prosatori,  precede Cicerone; vengon poi gli storici: Tito Livio, Sallustio, Svetonio, Floro, Eutropio, Giustino (Marco Giuniano, forse  del secolo III d. C.; curò un sunto od epitome  delle “Historiae philippicae” di Pompeo Trogo), Valerio Massimo, Orosio. Seguono autori di erudizione varia: Plinio e Quintiliano, Apuleio ed Aulo Gellio, Macrobio e Vitruvio,  Cassiodoro e Boezio,  Marciano Cappella e Pomponio Mela (scrittore di geografia, del I sec. d. C.). Mancano i nomi dei grandi filosofi medioevali nella sua cultura, ma in compenso si inseriscono molti padri della Chiesa: al maestro per eccellenza, S. Agostino, seguono Gerolamo, Ambrogio, Lattanzio, Paolino da Nola, Gregorio Magno...  Il che conferma la ambivalenza di Petrarca e la sua simbolicità rispetto al suo secolo. Ideologicamente, egli rimane legato alla fede cristiana, eppure   manca qualcosa in tale fede, pur molto sincera. Difatti (e dobbiamo averlo già detto),  è lui  che instaura un culto tale per i personaggi e la storia del passato da potersi dire l’iniziatore dell’umanesimo storiografico: entusiasmo per il mondo greco-romano, di fronte al quale le età successive , benchè cristiane, risultano decadenti e deludenti. Come è possibile accordare una fede piena nella redenzione di Cristo e poi stimare la cultura pagana più di quella cristiana? Tentiamo di spiegarcelo scrutando più da vicino il suo pensiero, la sua mentalità.

 

                        IL PENSIERO DEL PETRARCA

 

Nota metodologica.Dobbiamo fare una eccezione allo schema che usiamo nello studio degli scrittori, introducendo la “rubrica” del pensiero, perchè l’analisi dei motivi ispiratori nella poesia di Petrarca non assorbe molto della sua mentalità umanistica, che, d’altra parte, è fondamentale per comprendere il fenomeno rinascimentale nella sua pienezza. Le opere latine del Petrarca che quasi non interessano la sua dimensione estetica (poetica, artistica, lirica), sono invece fondamentali per introdurci nell’Umanesimo, che del Rinascimento è la componente ideale, intellettuale,  quasi filosofica.[8]

 

La mentalità generale. Ne  illustriamo un po’ più diffusamente due aspetti fondamentali, già intuibili da quanto detto a proposito della sua personalità.

Anzitutto richiamiamo il “viraggio congenito” del pensiero, la “forma mentis” innata, il modo spontaneo cioè di affrontare i problemi e la loro soluzione. Petrarca non è per le idee chiare e distinte, per l’esprit de géometrie; non ha mentalità cartesiana, non tiene alle dimostrazioni a base di “perchè causali” (poichè, weil, because, parce que, quia, epeidè), che ricerca i precedenti attivi da cui dipendono tutte le realtà esistenti del cosmo. Egli opta piuttosto per l’esprit de finesse, per la sapienza di matrice pascaliana, che sente di più  il futuro negli scopi dell’attività umana, le cause finali, gli affinchè cui mira l’intelligenza e la volontà dell’uomo (gli “auf dass, that, à fin que, ut, ìna”). Esplicitamente, messi a confronto Cicerone ed Averroè per discutere sul primato tra Aristotele e Platone, egli non prende posizione precisa, perchè non si ritiene all’altezza di farlo (Rerum memorandarum, I, 26: “Non nostrum inter  vos tantas componere lites”). Ma esplicitamente si inserisce nel filone intuitivo e sentimentale che fa capo a Cicerone ed Agostino, non ad Aristotele, a Tommaso, alla Scolastica. Si veda “Secretum”, il Proemio; “Invectivae in medicum”, l. 3; “De sui ipsius et multorum ignorantia”, passim; “Rerum memorandarum libri” I, 25, 26, 27, 31; II, 68; III, 41, 47; IV, 40. Insomma il suo mondo filosofico non è lontano da quello poetico, come appunto quello di Platone e di Cicerone (e, in parte, anche di Agostino): assomiglia più ad una nube di probabilità statistiche che non a delle verità matematiche. La sua avversione all’averroismo, senza dubbio, nasce principalmente dalla indignazione della sua fede cristiana di fronte allo sfacciato materialsimo che nega la immortalità individua, ma anche da una profonda diversità mentale che lo porta a prendere in considerazione solo l’esistente e non tutto l’essere (anche quello potenziale); e, dell’esistente, quasi solo quello vivente; e, della vita, quasi solo quella intelligente dell’uomo. Insomma, la sua filosofia tende a ridursi ad una antropologia, di cui anche la fede in Dio è al servizio.[9] La sua meditazione è concentrata sui problemi del fine della vita umana, della felicità: “unde et quo pergimus”, come dice nel “De sui ipsius et multorum ignorantia. Non lo attirano i problemi spiccioli del modo e del perchè, le questioni della scienza e della tecnica; e neppure quelli supremi del “che cosa è”, cioè  le questioni metafisiche: lui è affascinato dai problemi di moralità, di estetica, di psicologia, di storiografia, cioè da una fascia media di questioni che noi oggi diremmo esistenziali. La stessa storiografia, che pure si fa più esigente e critica in lui, egli la vede ancora come “opus rethoricum maximum” (la più grande esercitazione retorica), cioè come lavoro imparentato alla poesia, in quanto occasione per giudizi psicologici (la scoperta, cioè, delle intenzioni negli “attoiri” delle vicende umane) e per espressioni accalorate onde eccitare, con i discorsi più persuasivi, l’animo dei soldati, dei senatori, della  folla.   Nel Proemio al “De viris illustribus” egli giunge ad esprimere la propria umiliazione per il fatto che non può inventare i fatti storici, volgendo le vicende ad altre conclusioni, esteticamente più soddisfacenti; e per il fatto che non può narrarli più elegantemente degli autori latini di cui si serve! A nessuno deve sfuggire quanto una simile mentalità sia connessa al prevalente vagotonismo, alla distonia parasimpatetica, che  non ama la concentrazione e la precisione, che induce invece alla genericità e superficialità, che è più attratto dalla bellezza dell’esporre  che dalla verità delle cose esposte. Intelligenza acuta, ma non profonda, quella di Petrarca: inuitiva, ma non dimostrativa. Il sentimento vi gioca una interferenza troppo assidua e permeante.

In secondo luogo, Il Petrarca, aiutato anche dal troppo favore incontrato nel suo ambiente, è rimasto un “pendolare” del pensiero anche per il riflusso sulla sfera intellettiva del comportamento pratico. E’ stato detto giustamente che “bisogna vivere come si pensa, per non finire a pensare come si vive” (“Le démon du midi” di Paul Bourget, 1914). Egli, benchè dopo il pellegrinaggio romano del 1350 abbia “calate le vele e raccolte le sarte” sullo sfaglio più clamoroso della sua condizione di ecclesiastico e  di uomo (il libero erotismo), tuttavia mantenne una oscillazione  a livello gnoseologico che  ha la sua  radice prima nei cromosomi del suo sistema neurovegetativo, ma che trova nella sua vita erratica di tanti anni  la spiegazione del mancato riequilibrio, ad opera della coscienza morale e del libero arbitrio, alle incertezze del suo pensiero, anzi alle contraddizioni tra alcune verità della fede cristiana e alcune tessere del suo mosaico umanista. Non perchè l’umanesimo in se stesso comporti contraddizioni necessarie col credo cristiano, ma perchè  qualcuna (e radicale) ne implicava l’umanesimo rinascimentale, contrasto che un Petrarca altrettanto intelligente ma moralmente meno disorientato avrebbe potuto, come doveva, riconoscere: per ritornare un umanista coerentemente cristiano come Dante o per divenire un umanista  deista od immanentista come i razionalisti del Millesettecento. Invece, egli rimane nella incertezza anche ideologica: pur senza potersi definire un “rinascimentale” ormai chiarito e perfezionato, tuttavia è con lui che si pongono quei dogmi umanistici che, sia nella chiarezza della enunciazione di qualcuno di loro (umanesimo storiografico) come nella confusione della implicita accettazione di altri (umanesimo ideologico), condurranno sempre più alla deriva le generazioni del Millequattrocento e Millecinquecento, fino a scatenare lo sdegno ribelle di Lutero e la severità persecutoria di Riforma cattolica e di teocrazia calvinista. E’ quello che dovremo spiegare ora, chiarendo definitivamente la posizione di Petrarca fra Medioevo e Rinascimento, attraverso l’esame della  complessa attitudine umanistica, quale andava precisandosi e progredendo in lui, che rimane la figura più eminente di quel secolo di transizione quale fu il Milletrecento: l’icona vivente di società praticamente divisa tra sopravvivenze medioevali e  precorrimenti rinascimentali, in una deriva della prassi morale ed in uno smarrimento, inconscio e parziale ma oggettivo e non superficiale, negli stessi princìpi di fede.

 

L’umanesimo come sintesi del pensiero di Petrarca

 

1)      L’umanesimo filologico. Lo abbiamo già definito come “la stima e l’amore per gli scritti di quelle epoche che hanno celebrato l’uomo e la vita umana”, a prescindere, per sè, dalle motivazioni di tale stima ed amore.[10]  Si tratta di ricercare anzitutto le opere non più in circolazione (ma conservate presso biblioteche, dove possono giacere quasi dimenticate) di autori grci e latini, che devono riportare la cultura  europea a dominare le vicende di pensiero e di vita politica dei secoli  pregressi, sia  illuminando le  sacche di ignoranza  formatesi nella  lacunosa erudizione medioevale, sia imparando a leggere con senso critico (capacità a distinguere il vero dal falso) le opere ricuperate, ora mediante confronti con altri  scritti sulle stesse vicende storiche ora mediante il controllo sulle opere originali di un pensiero, conosciuto solo indirettamente  attraverso tradizioni di seconda mano. I libri si sa che esistevano, perchè l’amore per la cultura antica non era mai venuta meno nelle scuole  rimaste aperte anche durante i secoli più tormentati e disgregati del Medioevo; e si sa che tali scuole erano state anzitutto quelle nei monasteri benedettini e quelle presso le  cattedrali nelle diocesi. Anche se queste avevano l’interesse primario di tramandare la cultura tipicamente  spirituale della sacra Scrittura e delle opere patristiche (scrittori ecclesiastici dei primi secoli cristiani), tuttavia la “ratio studiorum o curriculum di studi” del Trivio e del Quadrivio (introdotto da Marziano Cappella e accettato anche dalla Chiesa come base di acculturazione per i suoi sacerdoti) imponeva l’insegnamento di una serie di opere latine porfane, che poi potevano portare  qualche spirito privilegiato ad approfondimenti specialistici o svolgimenti geniali (si pensi a Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II a cavallo del Millennio). Se gli umanisti cercarono d’istinto le grandi opere classiche del mondo pagano nelle biblioteche delle scuole suddette, è perchè sapevano bene che il luogo privilegiato per la conservazione, ricopiatura e studio di tali opere era appunto la scuola ecclesiastica. Non aveva già Cassiodoro (490 ca-583)  affidato il compito di ricopiare testi della classicità  pagana e cristiana ai propri monaci, nel Vivarium calabrese?

Pur senza esserne un ricercatore sistematico, Petrarca scoprì a Liegi due orazioni di Cicerone ed a Verona le lettere dello stesso all’amico Attico. Egli copia e fa copiare, diffonde la notizia, suscita interesse, entusiasmo, emulazione, fervore di ricerche e di edizioni. Non solo: leggendo, egli scopre errori di trascrizione e segna in margine la sua ipotesi surrogatizia; oppure, se la fortuna glielo concede, confronta copie diverse della stessa opera per sceverarne la “lectio” più verosimile e, quindi, originaria. Oppure confuta le notizie trasmesse dal testo, dimostrandole false o come tali sospettandole: nel “De sui ipsius et multorum ignorantia” vi è un elenco di notizie fantasiose date come vere dalla “Historia naturalis” di Plinio il vecchio, che egli deride (facendo presentire il sorriso malizioso di Manzoni a proposito delle stesse bubbole, ancora credute da don Ferrante a tre secoli di distanza dal Petrarca!). Altra volta gli capita di scoprire che il Lelio di cui parla Cicerone nell’operetta omonima (Laelius de amicitia) non è l’amico di Scipione l’Africano, ma l’omonimo amico di Scipione Emiliano (“De viris illustribus, XI:  “De Publio Cornelio Scipione Africano maiore”). Ne segue che i codici a lui appartenuti sono doppiamente interessanti, perchè portano le sue correzioni autografe: si veda ad esempio il “Virgilio” presso la biblioteca Ambrosiana di Milano.

Non che in tale lavoro egli possa paragonarsi ai suoi discepoli rinascimentali, che procederanno ben oltre i suoi tentativi e risultati. Ma egli è l’iniziatore e l’esempio: è il padre dell’Umanesimo filologico-erudito. Rimangono in lui errori. Ad esempio (spinto anche dalla sua parzialità per Platone ed insofferenza di Aristotele), scambia un “Isocrate” per Socrate in un’opera di Cicerone mal trascritta, sicchè accetta l’esistenza di un disprezzo vicendevole fra Aristotele e Socrate, cosa impossibile, se non altro, per la cronologia, visto che Socrate muore nel 399 e Aristotele nasce nel 384 a. C. Così pure, nelle “Invectivae contra medicum”, accetta la scrittura errata del Medioevo per il nome (Galienus per Galenus) e l’opera (Terapeutica per Therapeutica) del famoso medico greco Claudio Galeno del secondo secolo d. C.

Eppure è notevole che non si accontenti di una sola fonte per il suo “De viris illustribus”;  che egli confrotni fra loro e con altri autori Livio, Svetonio, Floro, Giustino e Cesare, non senza rimaner sorpreso ed andare in collera quando li trova discordanti fra loro. E’ su questa linea che Lorenzo Valla riuscirà a dimostrare la falsità della “donazione costantiniana”. Così pure si trovano ancora particolari di ortografia, grammatica e sintassi della lingua latina che sono residui errati ereditati dal Medioevo: il dittongo “ae” è scritto abitualmente colla semplice “e”; “mihi e nihil” (a me| niente) assumono una “c” indebita (“michi e nichil”), mentre “cunctus” (tutto) e “auctoritas” (autorità) perdono per compenso la loro “c” regolare (egli scrive “cuntus| autoritas”). Egli non si accorge che la formula sintetica “fore” in latino serve per l’infinito futuro: egli la usa come sinonimo di “esse” per l’infinito presente. Il condizionale nelle proposizioni principali, così diffuso nelle lingue romanze (“io potrei, dire, farei...”) è ingenuamente tradotto col congiuntivo imperfetto latino (“possem...”), mentre  è d’obbligo l’indicativo (possum).  Pure vi è un abisso tra il pressappochismo medioevale nell’uso della prosodia (valore musicale delle sillabe nei versi) e la quasi ineccepibile padronanza  nelle composizioni poetiche di Petrarca). Come pure ci si accorge che Dante ed i suoi contemporanei traducevano in latino dall’abitudine a parlare e pensare in toscano, mentre Petrarca è un vero poliglotta che ha imparato il toscano in famiglia  e il latino non solo a scuola ma anche nella curia di Avignone, nella lettura assidua di opere latine classiche, nel conversare e scrivere nella lingua di Cicerone con intellettuali od amici di mezza Europa. Egli si è abituato a pensare in latino e non gli torna perciò difficile veicolare attraverso quella lingua se non proprio una altissima poesia, almeno un’abituale dignità letteraria e, anzi, una patina di lirismo che sono cosa nuova e seducente (si leggano specialmente i vv. 885-918 del sesto libro dell’Africa, cioè il lamento di Magone che sente sfuggirsi la vita mentre è riportato in Africa).

 

                        2) L’umanesimo storiografico

E’ la stima, la fiducia l’amore per quelle età (società, generazioni) che, precedendo il cristianesimo, non possono essere apprezzate se non per i valori naturali (sapienza filosofica, bellezza artistica, virtù morali, progresso scientifico e tecnico...) che le hanno rese grandi e famose. In particolare la attenzione ed interesse degli umanisti, fino all’Illuminismo compreso, fa perno sulle età del V secolo a. C. in Atene (da Pericle a Socrate) e del I secolo a. C. in Roma (da Cicerone ad Augusto).

Ebbene, è a questo proposito che si verifica già con Petrarca una vera rivoluzione rispetto alla pur viva ammirazione e culto per l’antichità pagana presso Dante e molti Medioevali.   Un primo aspetto di tale rivoluzione  consiste nella coscienza che per il Petrarca non vi continuazione, ma frattura fra la classicità pagana e la cristianità medioevale. La cultura antica non è preparazione alla civiltà del Vangelo; Roma e l’impero non “fur stabiliti per lo loco santo| u’ siede il successor del maggior Piero” (Inf. 3,23-24). Non vi è più una funzionalità subordinata per cui l’evo antico dica ordine, provvidenzialmente, a quello cristiano. Le due epoche sono come entità a sè stanti, il cui giudizio di valore va pronunciato autonomamente in base a criteri desunti da altre fonti che da quelle religiose e rivelate. [11]Anche a costo di essere incoerente, per i fatti non esemplari cui l’antichità pagana lo mette di fronte; o per ritorni di fiamma della coscienza cristiana, che gli ricorda la Redenzione ed i santi della Chiesa. E’ così che il giudizio del Petrarca sull’antichità classica (che per lui non significa necessariamente un giudizio sul paganesimo) è molto più  positivo e favorevole che non quello sull’età contemporanea. Nasce, cioè, col Petrarca un vero “complesso d’inferiorità” dell’uomo rinascimentale  di fronte agli antichi. Essi si ritrovano pigmei rispetto a giganti: senza più la saggezza di osservare, come facevano i medioevali, che si tratta di pigmei (o bambini) posti sulle spalle dei padri-giganti sicchè, tutto sommato, vedono meglio di loro. [12]

Ed ecco le conseguenze nel giudizio di merito. Obliando i canoni religiosi e morali portati dal Vangelo, Petrarca rimane abbagliato e avvinto dalle singole espressioni di virtù (parziali, per di più) che l’antichità gli trasmette: “Io, posto come sul confine di due popoli e guardando insieme a quello che mi sta dietro e a quello che mi verrà innanzi, questo giudizio (di condanna della mia età) non ereditato dai padri, volli trasmettere ai posteri” (Rerum memorandarum, I, 2). E sì che egli ha troppo ben presenti i delitti vergognosi di molti, ritenuti “grandi” tra i pagani. Di fronte alla corruzione dell’età di P. Clodio Pulcro (m. 52 a. C.) esclama con Seneca (che se ne lamentava già lui nel primo secolo dopo Cristo): “Ut cum eodem Seneca concludam: -Pudet dicere: numquam apertius quam coram Catone peccatum est-“ (“sicchè collo stesso Seneca debbo concludere: Mi vergogno a dirlo mai più sfacciatamente si peccò che in presenza –cioè al tempo- di Catone”: Rerum memorandarum, II, 67). Pur posto di fronte alla sconcertante dichiarazione di Giugurta (160 ca-104 a. C.): “O urbem venalem et cito perituram si emptorem inveneris” (“O città venale, pronta a perire presto se solo trovassi un compratore”, ib. III, 54); alle ignominie di un Publio Clodio, di un Giulio Cesare (omosessualità), di Crasso, di Augusto e di sua nipote Giulia e di  molti altri romani, che cita negli stessi Rerum memorandarum libri, egli  tutto dimentica ed esclama a proposito dei propri tempi: “O età tenebrosa! e osi disprezzare la veneranda antichità che fu a te maestra e, delle arti tutte, gloriosa ritrovatrice?” (Senili, V, 2). E, alla fine delle Rerum memorandarum (IV, 31), ricordando Catone l’Uticense, Cicerone, Marco TerenzioVarrone, esclama: “Deus bone, quanti et quam illustres homines !” Anche Dante ammirava stupito gli antichi  pagani, ma relativamente alle loro opere terrene: mai mette in discussione la loro inferiorità a motivo della fede e della Grazia che rende figli di Dio e destina al Paradiso. Petrarca sa queste cose, ma le oblia: il giudizio di superiorità diventa così assoluto; i meriti del Cristianesimo vengono obliterati, gli uomini illustri nuovi (i santi) vengono cancellati dalla coscienza: lo splendore di alcuni risultati terreni abbaglia lo studioso. Neppure di fronte alla ridicola superstizione romana dell’aruspicina, alle menzogne degli oracoli (egli snobba tutto questo anche in Rerum memorandarum, IV) è richiamato ad un giudizio più realistico ed equo. Neanche basta la ostilità  di Cicerone contro Cesare (Petrarca, tutto sommato, preferisce questo a quello, l’ordine imposto dall’uomo forte al caos permesso dalla oligarchia repubblicana) a sminuire la ammirazione per  l’oratore di Arpino, “la fonte divina ed aurea dell’eloquo”  (ib. II, 68; IV, 40).

Ma non ci si aspetti coerenza dal Petrarca pensatore! Egli esce dall’estasi nei confronti dell’antichità greco-romana e, occasionalmente, riconosce la miseria dell’antichità pagana, priva della vera fede (Invectivae contra medicum, l. 3). Anzi negli stessi “Rerum memorandarum libri” deve riconoscere, a denti stretti, che l’esempio dei santi cristiani (Antonio l’eremita, Paolo, Agostino) è superiore ai modelli di onestà pagana,  quali per lui rimangono Catone, Lelio, Scipione. C’è un solo passo ove ammette cordialmente la inferiorità  degli antichi (ma, a buon conto, cita Aristotele, che non è il più stimato da lui...) rispetto alla verità e santità cristiana: è nel “De sui ipsius et multorum ingorantia”, ove una vecchierella analfabeta è detta aver più sapienza di loro![13]

 

3)  Umanesimo teoretico (ideologico)

E’ la stima, fiducia, amore per l’uomo e per la vita umana, anche a prescindere dalla sua elevazione alla soprannatura, cioè alla partecipazione alla vita divina attraverso la fede, speranza e carità (cioè, attraverso la “Grazia”, ottenuta dalla Redenzione di Cristo). Inteso in questo senso generico e generale, nessun uomo che accetti (e fosse pure penosamente) di vivere è fuori dall’umanesimo, cioè dell’attacamento ed interesse  e culto per la vita terrena. Lo stesso Leopardi, per il solo fatto che rifiutò il suicidio come soluzione delle sue frustrazioni e delusioni, rimane nell’ambito di un minimo comun denominatore umanistico.

Il senso però dell’umanesimo si specifica in base alle varie componenti sia costitutive (quali beni o valori vengono accettati?), sia motivanti (quale è la ragione ultima per cui vengono stimati e amati i beni della vita terrena?). Per questi due punti di vista,   tre principali  prospettive umanistiche si presentano nel corso delle generazioni storiche, cioè differenti sfumature del culto, dell’interesse, dell’amore, stima e fiducia nell’uomo.

 1) Vi è, dunque, un umanesimo assoluto ed indiscriminato, che accetta ed esalta l’uomo e la vita come sono, nella loro caotica mescolanza di  virtù e di peccati, di verità e di errori, di sogni esaltanti e di fallimenti inevitabili: è l’umanesimo immanentista, che prescinde da una gerarchia di valori e dalla finalizzazione dell’uomo a Dio, per la convinzione che non vi sia un disegno sapiente nè una carità provvidente nella vita e nella storia dell’uomo. Entro questa cornice di fondo, vi è posto per differenti accentuazioni del bene fondamentale da salvaguardare. Vi è un umanesimo idealistico che esalta il pensiero sulla istintività e l’agire disinteressato sull’egoismo, senza però armonizzare con regole precise il rapporto fra le due sfere di beni, che la società può solo di volta in volta rendere più o meno accessibili, in base alle esigenze   del momento storico (esigenze dettate dallo “spirito” od idea universale, che guida fatalmente le vicende umane). Vi è posto per  vari tipi di umanesimo materialistico a secondo che Freud ponga al sommo dei bisogni umani l’esercizio della sessualità o che Marx dia il primo posto all’economia o che Nietzsche predichi la volontà di potenza come bene irrinunciabile per ogni uomo degno del nome.

 2)Vi è un umanesimo, invece, che che ha il culto dell’uomo, ma in quanto essere interiormente libero, che cerca la verità anche contro l’obnubilamento delle impressioni sensorie e che si prefigge il bene morale, anche contro la seduzione della sfera emotiva ed istintiva. E’ un umanesimo di impronta spiritualistica, che concepisce l’uomo come animale ragionevole e libero, risultante da materia e spirito, capace di raggiungere un’armonia fra le due componenti, in maniera che le esigenze della ragione e della libertà interiore abbiano il sopravvento, cioè dominino la eventuale  tendenza delle passioni emotivo-istintive ad agire contro il legame voluto dalla natura umana tra il loro espletamento ed i fini per cui esse sono insite nell’organismo (legge naturale o morale). Si tratta di un umanesimo etico, cioè fondato sul primato dello spirito, sulla convinzione della capacità di quest’ultimo a realizzare il sinergismo tra spinte animali e dettato della coscienza, sinergismo che talora (o sovente) consiste nel rifiuto della sollecitazioni inferiore. E’ un umanesimo che si propone di vivere dall’interno all’esterno, cioè dal dettame della verità (percepita dalla coscienza morale) all’assunzione di beni esteriori; e non viceversa (cioè dall’attrattiva dei beni sensibili alle credenze della propria mente); è un umanesimo che non si propone il “mi piace-non mi piace”, ma l’altro principio “é bene-è male”, come criterio determinante di scelte. E’ un umanesimo che crede nella capacità dell’anima ( attraverso l’uso della zona di Wernicke, nell’emisfero cerebrale sinistro) di  pilotare il corpo e di moderarne le esigenze nel contesto del bene di tutto il “sìnolo” umano, cioè appunto dell’uomo come sussistente nell’unione di anima e di corpo. Prescindendo dalla questione (tutt’altro che oziosa) se tale umanesimo fondato sui valori morali possa costruirsi adeguatamente al di fuori di una fede religiosa, in un Dio creatore e giudice dell’uomo (di conseguenza, di una fede nella immortalità dell’anima),[14] resta il fatto che statisticamente un umanesimo di stampo morale nella cultura occidentale è sempre stato legato alla fede  religiosa, cioè con la scelta di Dio come Bene-Valore supremo; e della Sua legge come punto di riferimento ovvio per un tale comportamento dell’umanità, che realizzi la perfezione delle singole persone e della società tutta. Si tratta, dunque, di un Umanesimo etico-religioso.

3) E vi è una terza forma di Umanesimo che non è solamente etico-religioso, ma specificamente cristiano e che (certo, non in tutti i dettagli!) sostanzialmente coincide con quello di Francesco, di Dante e della cultura dominante nel Medioevo. Si tratta di una forma di Umanesimo che tien conto dei due  assi portanti, che distinguono il Cristianesimo dalla  religione naturale generica: il dogma del peccato originale e quello della Redenzione di Cristo. Il primo happening od evento nella storia religiosa dell’uomo, sottraendogli il dono della Grazia (partecipazione accidentale ma autentica alla Sua vita e, perciò, figliolanza, amicizia, eredità con Dio), lo ha ridotto ad una debolezza etico-religiosa che gli rende difficile conoscere Dio e le esigenze morali della vita umana  e gli han reso così arduo osservare la  legge morale, che l’uomo senza la restaurazione operata dall’ azione redentrice di Cristo (Dio, fattosi uomo per salvarci) non riesce più ad onorare tutti i suoi doveri morali, a vivere nella perfezione della vita umana, ad essere fedele a tutti i comandamenti del Decalogo: in una parola, ad essere integralmente onesto. Un uomo, senza la Grazia rimeritataci da Cristo, non  riesce più ad essere un uomo intero. Di qui, la già avanzata opinione che non si possa più parlare, da parte di un cristiano consapevole, di Umanesimo cristiano, ma solo di Cristianesimo umano. Il che viene a significare che il cristiano, domandato se è un umanista,  se abbia ul culto dell’uomo, si veda costretto ad uan distinzione. Egli riserva il suo culto solo a Dio, ma  ha una totale stima, fiducia, amore per l’uomo in quanto redento da Cristo ( non foss’altro  per la comparsa, col Cristianesimo di una nuova categoria di uomini, cioè i santi: davanti ai quali anche Petrarca, quando se ne ricorda,   attenua la sua ammirazione per gli uomini illustri del paganesimo). Prescindendo da tale redenzione-restaurazione, il cristiano scuote la testa desolato: se i valori morali sono quelli più alti e decisivi (al di sopra, persino, di quelli della intelligenza e della genialità, che alla vita morale sono, alfine,  funzionali e subservienti), allora l’uomo colle sole sue forze non riesce a districarsi dal ricatto dello scimmione da cui Dio ha ricavato il suo corpo; non ha le forze per discendere definitivamente dall’albero dei primati; non è in grado di uscire dalla selva dei  quadrumani e di drizzare l’occhio al cielo, di dominare la terra e di comportarsi da spirito libero, guida e padrone del corpo e dei suoi istinti. L’atteggiamento del cristiano di fronte all’uomo è equivoco od ipotetico. Se gli uomini  di cui si parla sono quelli redenti, credenti ed affidati a Cristo nella Chiesa, allora in  loro si può investire una stima, una fiducia, un amore che non deluderanno ma potranno addirittura sbalordire per la messe di frutti di eccezionale moralità (fino all’eroismo), che statisticamente non  verranno a  mancare, come la storia dei due millenni di cristianesimo sta a testimoniare. Ma se l’uomo di cui si tratta è al di fuori della luce evangelica, allora persino la sua coscienza sarà offuscata; e il suo comportamento, sempre più malvagio, con un processo di graduale, crescente corruzione: secondo il principio di San Bernardo “Nemo repente fit pessimus” (nessuno diventa “pessimo” improvvisamente).

Domandiamoci ora: a quale tipo dei tre Umanesimi delineati apparteneva il Petrarca?

Abbiamo già escluso l’umanesimo ateo, quando abbiamo esaminato le opere latine del poeta.  La sua polemica contro il materialismo è già nei “Rerum memorandarum libri” (ad es. III, 77) e diviene più specificamente antiaverroistica nel “De sui ipsius et multorum ingorantia”, non chè in “Senili” V, 2 (a Boccaccio). Petrarca fu certo a lungo un peccatore ostinato, ma miscredente, mai. Lo testimoniano lo stesso Canzoniere ed i Trionfi, i Salmi penitenziali, il “Secretum”, la Vita solitaria ed il De otio religioso (ma gli stessi libri III –nei cc. 58 e 77- e IV dei “Rerum Memorandarum libri”). Che più? Giunto alla conversione anche etica, egli progredì verso un costume ascetico fino a digiunare un giorno alla settimana e ad esser fedele ad un termine di preghiere impostesi  quotidianamente, cose che testimoniano non solo della sua fede, ma anzi, della sua devozione.

Ma, garantito il suo Umanesimo etico-religioso, possiamo  parlare di un coerente Umanesimo cristiano?  Il discorso a tale proposito si aggroviglia  e si fa complicato. Abbiam detto che due sono le  verità che connotano il Cristianesmo, due fatti storici che diventano le due colonne distintive rispetto alla religione naturale o razionale: il peccato originale e la Incarnazione di Dio, in Cristo Gesù, per la redenzione del genere umano, da quella come da tutte le colpe. Circa la fede di Petrarca in Cristo Salvatore, non esiste difficoltà alcuna: egli si rivela un cristiano cosciente e riconoscente per tale dono di Dio. Anche i “Rerum memorandarum libri”, che pur programmaticamente prescindono da esemplificazioni cristiane, invitano tuttavia a ringraziare Dio che ci ha liberati dalle tenebre  e introdotti nella luce della verità, chiamandoci al Cristianesimo (IV, 14 e 29). Dal “De otio religioso” basterà ricordare i ripetuti atti di fede in Cristo (I: “Messias enim verus Dominus iam venit, ipse est Christus”).[15] Egli, anzi, si accosta alla concezione dantesca del mondo romano come preparazione provvidenziale a quello cristiano, quando mette in parallelo le profezie delle sibille cumana ed eritrea con quelle della Bibbia; quando interpreta versi dell’Eneide su Cesare come riferiti all’opera di Cristo. C’è persino della poesia (o almeno una vibrazione sentimentale) in lui, quando esprime la dolcezza che vi sarà nel contemplare, in Cielo, Cristo rivestito di umana carne (“Quam perdulce enim spectaculum videre nostra carne nostraque anima vestitum Deum, audire verba, incessum aspicere, notare actus inter homines versantis...”). Eccolo uscire in esclamazioni di retorica esultanza di fronte al mistero della Incarnazione (“Verbum caro factum est... O inenarrabile sacramentum...”). E’ attraverso Lui che si viene salvati (“per Quem salvi fiant”): e solo attraverso Lui (“salvare Ille potens est: ego salvari nequeo”). E’ per misericordia e, quindi, per Grazia che veniamo salvati (“Misericordia Dei miseriam transcedit humanam”; “quam potenti et quam misericordi remedio huic tantae miseriae sit consultum...”;   “pro salute hominis humiliata-divinitas descendit...”). Le citazioni sulla incapacità umana alla salvezza, anzi alla integrità morale contro le insidie del demonio, del mondo e della carne si possono moltiplicare dal “De otio religioso”. Leggiamo dal secondo libro:  “carnis insidias...superare difficile est fateor, sed possibile contendo; haud aliter tamen quam si divinum non desit auxilium... Ad illum unum cui solum est succurrere in hoc intestino et domestico proelio clamandum est... Iure ergo per singulos dies obsecramus –Revela oculos meos- velum scilicet amove quo impedior ab aspectu et contemplatione coelestium et in terram premor... Laudantes invocate Deum et ab inimicis vestris salvi eritis”[16].  Anzi, troviamo espressioni che sembrano completare la dipendenza dell’uomo da Cristo per la perfezione anche intellettuale: “Per noi che siamo cristiani la filosofia può essere solo amore della sapienza: ma la Sapienza di Dio è Cristo e, perciò, noi dobbiamo amarlo, se vogliamo essere dei veri filosofi” (Familiari, IV, 4: al card. G. Colonna).

 Se un dubbio viene circa la integrità della sua  conoscenza  circa la prospettiva  rivelata  sulla condizione morale dell’uomo, è un dubbio sull’altro pilastro della storia e dottrina cristiana quello del peccato originale. A dir il vero, può sembrare che questo  fattore, corrosivo della stima-fiducia-amore per l’uomo, sia ovviamente presente nel suo pessimismo complessivo sull’uomo, nelle ripetute proteste circa l’insufficienza etica umana, nel bisogno di Cristo Salvatore per vincere gli ostacoli alla virtù. Anzi, vi sono passi espliciti su questo  evento negativo nella storia religiosa dell’uomo. In “Senili,IV,4” afferma: “Ecco l’eredità di quell’antico nostro progenitore assai più noto che utile alla sua discendenza: fame, sete, stanchezza, sonno o breve o perpetuo, che è detto morte”. Ancor prima, nel “De viris illustribus”, la vita di Adamo occupa solo una paginetta, ma non parla d’altro che del suo fallo. Ed ecco la frase centrale: “Infelice! E lo fosse stato lui solo nè avesse trascinato tutta la discendenza innocente. Chè quello fu il principio di tutta la nostra miseria”. Ma entrambi questi passi sono spie acutissime sulla incapacità del Petrarca a connettere il problema della insufficienza morale dell’uomo alla caduta dei progenitori: egli cita molti corollari penosi della colpa originale, eccetto la concupiscenza o tendenza all’abuso degli istinti (all’uso slegato dal loro finalismo). Non che gli manchi la coscienza della nostra debolezza di fronte alla tentazione. Quello che, però, gli manca è la coscienza della connessione tra impotenza morale umana e colpa originale. Al punto che in “Familiari, X, 3”, scrivendo al fratello Gherardo, preferisce far risalire ad un platonismo submanicheo la pericolosità del corpo, nemico dell’anima, piuttosto che al disordine del peccato originale che ha turbato l’armonia fra loro!

Ecco, a nostro parere, il punto debole nella visione petrarchesca della vita e la fonte dell’ambiguità (anzi, contraddizione) in certe sue posizioni, specie nell’ambito dell’umanesimo storiografico. Non tenendo presente l’insidia della concupiscenza e la nostra insufficienza a farvi fronte, a causa della colpa prima, egli può illudersi che anche fuori della redenzione di Cristo è possibile una vita integra ed esemplare; è possibile cioè essere non soltanto grande guerriero, politico, oratore, poeta, filosofo..., ma semplicemente grande uomo, moralmente integro ed anzi eroico nella virtù morale. Vi è, cioè, una dissociazione nei giudizi di Petrarca che si possono ricondurre (si devono, nella nostra ipotesi) alla obliterazione dell’effetto del peccato originale sulla psiche umana: da una parte, egli riconosce la necessità della Redenzione di Cristo per vivere onestamente (livello teoretico puro); dall’altra, egli ritiene poi che i pagani, al di fuori di tale “economia della Grazia di Cristo”, potessero facilmente riuscire a raggiungere vette esemplari di moralità (livello storiografico). Egli, infatti, non metteva in conto i delitti così ovvi nella società pagana di Roma, che non erano ricordati o condannati se non quando (caso Verre, in Sicilia) raggiungevano dimensioni di sfacciato brigantaggio. Ad esempio, nessun  romano trovava immorale che il cittadino mandato nelle colonie (“province”) a governare, dovesse lasciare a Roma (in ostaggio) la moglie e fosse quindi autorizzato, da una tradizione mai contestata, all’infedeltà coniugale (d’altronde la legge puniva soltanto l’infedeltà delle donne...). Ancora: nessun romano trovava condannabile che tali cittadini con autorità all’estero si arricchissero a spese dei popoli  loro affidati, tanto che un proconsole od un propretore, che tornasse non arricchito dal suo mandato nelle colonie, sarebbe stato deriso come ingenuo. La prova definitiva? La repubblica non assegnava  alcun stipendio al governatore “in missione” nelle province-colonie , che gli erano date, anzi, in premio stabilito per legge allo scadere del mandato annuo di responsabilità in Roma (come consoli o pretori): il che significava che era mandato all’estero a rifarsi delle spese di propaganda elettorale e di incarico  gratuito in  patria. Petrarca non connetteva la  decadenza morale della società a lui contemporanea con la esitazione,  la diminuzione o l’abbandono totale della fede cristiana; e  in tanto era portato ad esaltare  gli uomini illustri pagani, in quanto non s’accorgeva che la delusione, indotta in lui dalla società che gli stava attorno, nasceva proprio da un progressivo riavvicinarsi a quei tempi e costumi. Egli non percepiva che in tanto i suoi contemporanei lo disgustavano, in quanto erano ben lontani (a cominciare da lui stesso) dalla condotta che si ha diritto di attendersi da una società cristiana; e che in tanto alcuni “magni viri” dell’antichità pagana lo affascinavano, in quanto erano (od almeno potevano apparire) delle eccezioni, i cui princìpi morali non erano poi così distanti da quelli del Vangelo. Egli non s’accorgeva che il solo  selezionare, come  esempi di virtù, determinati  comportamenti piuttosto che altri, era un effetto dell’aver lui una coscienza cristiana. La causa è stata detta.

In pratica vi è già in Petrarca quell’oblio del peccato originale che sarà la caratteristica teoretica più importante del pensiero rinascimentale: oblio che non significa ancora negazione (come avverrà nell’Illuminismo settecentesco), ma semplicemente “ignoranza e trascuranza”. In Petrarca l’oblio è limitato: il peccato originale è percepito come causa di sofferenze fisiche e di morte, ma non della gfragilità morale dell’uomo. I prossimi suoi discepoli   faranno un passo ulteriore: ragioneranno come se la colpa originale non fosse e, quindi, l’uomo  meritasse ogni stima, fiducia, amore (culto, quasi) e opteranno per un ottimismo allegro e permissivo, che (lo si è detto) scandalizzerà il frate di pessimistica, tragicamente negativa Erfurt (Martin Lutero) e lo precipiterà nell’estremo opposto di una antropoteologia del tutto. Questa visione, adeguatamente opposta a quella rinascimentale, innescherà  il Concilio di Trento   ed esaspererà l’inquisizione, non solo cattolica, ma ubiquitaria, in ogni movimento di riforma e controriforma. In Petrarca non si ha l’effetto euforizzante (ottimistico)  conseguente all’obliterazione della colpa orginale, perchè egli riconosce la fragilità morale dell’uomo e la necessità della redenzione di Cristo,  benchè sconnesse da quell’altro dato di fede. Abbiamo una strana dissociazione, come si è già detto, nella mente del Petrarca: egli ha davanti a sè tutti i pezzi della scacchiera (insufficienza etica dell’uomo; impossibilità a vivere interamente onesti senza la Grazia di Cristo redentore; realtà del peccato originale come radice della “pena di vivere” tra fatiche e preoccupazioni, malattie e morte), ma non gli riesce di combinarli in  uno schieramento logico e  organico. I pezzi non sono tutti sinergici; ve ne è uno almeno scoordinato: e la sfida  per una comprensione soddisfacente della complessità, propria della vita morale umana, viene persa. Egli finisce per giocare una doppia partita, su due scacchiere diverse: come cristiano metterà in campo anche il dogma del peccato originale, sia pure con la sbadataggine di non  scrutarne a fondo tutto il significato e  le conseguenze nei giudizi sulle epoche storiche; come umanista, tale verità non viene  considerata, sicchè egli può esaltare la perfezione anche morale  del mondo greco-romano che, come seguace di Cristo e conoscitore a fondo dei costumi di quelle società, talvolta è pur costretto a riconoscere estremamente corrotto e, in ogni caso, non paragonabile alla santità di Paolo ed Agostino, di Antonio e Francesco. Nella problematica morale, destata in lui tanto dall’amore per Laura sposata come dal giudizio sulla storia umana, egli rimane indeciso e disorientato: ama Laura ed è trormentato dai rimorsi; elogia, come definitivamente grandi, i pagani e proclama che solo la Redenzione ha donato all’umanità i santi e la possibilità di superare le tentazioni al male. Dissociazione, disordine nelle tessere del proprio mondo intellettuale e morale.

Per questo iato nella sintesi delle sue convinzioni definitive, non parleremmo di un Cristianesimo umanistico, come per Dante e Francesco, ma di un Umanesimo ellittico a due fuochi: in uno si pone saldamente Cristo come componente necessaria all’umanità perfetta (Umanesimo cristiano); nell’altro si mette il culto per un’antichità considerata perfetta pur nella assenza di Cristo (Umanesimo rinascimentale). Una più viva coscienza sulla funzione della concupiscenza nella vita morale umana (corollario del peccato originale) unirebbe i due criteri di giudizio e li accentrerebbe in una visione coerente, circolare o sferica, con un solo centro, un solo  canone  su cui misurare uomini singoli e società intere, del tempo presente come di ogni età preterita o futura.[17]

 

Differenze dell’Umanesimo del Petrarca da quello dei Rinascimentali

            Riferendoci alle tre componenti fondamentali dell’Umanesimo (Filologico| Storiografico| Teoretico) possiamo vedere chiaramente i limiti di appartenenza del Petrarca all’Umanesimo rinascimentale ed i residui del suo spirito Medioevale.

Come i Preumanisti, Petrarca ha la passione per la filologia: ricerca di codici, il loro confronto e la correzione.

Più in là dei Preumanisti (e già come gli umanisti rinascimentali,  di cui qualcuno è suo discepolo), egli ha il culto per le età e gli uomini di Grecia e Roma che, pur pagani, hanno dimostrato un grado di civiltà da sfigurarne i tempi cristiani a lui contemporanei. E’ un po’ il padre dell’Umanesimo storiografico, di un attitudine, cioè, di pessimismo sulla propria età e di entusiasmo per la civiltà dell’antica Roma e Grecia. Tanto che, pur non essendogli ignoto il fatto del peccato originale, egli non lo mette in conto nel giudizio sugli uomini eccellenti delle culture pagane, sicchè finisce, almeno sul piano storiografico, a partecipare di quella stima, fiducia, amore per uomini e fatti dell’umanità  fuori del Cristiaanesimo, che insinua la convinzione (almeno implicita) pelagiana: l’uomo può farsi perfetto anche indipendentemente dalla Grazia redentrice di Cristo.

Eppure, diversamente dagli Umanisti rinascimentali,

a)      egli non ha la fierezza di chi sente di aver “riacciuffato” il livello di civiltà antica, il loro grado di cultura e senso critico.

b)      Soprattutto ha una forte  coscienza della necessità della Grazia o Redenzione di Cristo per una vita moralmente integra, sicchè è da dirsi, per questo, umanista cristiano, pur nel bipolarismo incoerente, in cui coesistono dissone due concezioni: senza Cristo non vi è perfezione morale; prima di Cristo, tale perfezione esisteva!

c)       Rimanendo insoluto questo sfaglio, egli ha un senso così vivo del primato della vita morale, che difende la scelta   della fuga dal mondo  e dei voti religiosi (povertà, castità e ubbidienza), fino a preoccuparsi di rispondere alle diffuse obiezioni (De otio religioso), che saranno riprese invece dai rinascimentali, come Poggio Bracciolini (Contra hypocritas), Leonardo Bruni  (Oratio in hypocritas) e Lorenzo Valla (De professione religiosorum).

d)      E, sempre con  sorprendente illogicità, ha la convinzione che i santi siano modelli di vita: convinzione espressa non solo nel De otio religioso (II, 74: S. Francesco e S. Paolo), ma anche nei Rerum memorandarum libri (III, 77: Paolo, Antonio  -l’eremita- Agostino, Giovanni -il Battista-). Anzi nella parte finale del De otio religioso, egli  insiste nel predicare la donna analfabeta, ma cristiana, più sapiente e più fortunata di  Aristotele e di ogni suo seguace.

 

LA POESIA DEL PETRARCA

 

 Ci occuperemo soprattutto del CANZONIERE o RIME (Rerum vulgarium fragmenta: “schegge di scritti in lingua volgare”): integreremo con qualche passo poeticamente significativo dai TRIONFI, dall’AFRICA e da qualche poesia “dispersa”, cioè non collezionata nel Canzoniere.

 

            MOTIVI ISPIRATORI

 

Nota introduttiva. Se abbiamo studiato a parte il pensiero del poeta, è perchè la sua visione della vita e del mondo solo molto marginalmente formano motivo ispiratore della sua poesia: solo qualche  composizione prende spunto dalla vita politica (“Italia mia”; “Spirto gentil”) o da quella ecclesiastica (nei tre sonetti 136-7-8) o da quella sociale (lamento sulla sua corruzione, nel sonetto 7). Non ci troviamo di fronte ad un poeta-vate, che cioè si proponga una missione religiosa, sociale, politica... quale certo fu Dante. No: il Petrarca è un artista ripiegato su se stesso, strettamente lirico, che parla cioè in prima persona perchè non ha altro da comunicarci che le emozioni che scaturiscono dalle peripezie  dei propri sentimenti amorosi, i quali fungono da scintilla (prima) e da mezzo espressivo (poi) degli stati d’animo che ne risultano. Se il passaggio dalla panoramica universalistica dell’Alighieri alla concentrazione egotistica del Petrarca può  tentare ad un atteggiamento di disdegno e di svalutazione aprioristica, occorre ricordare che “l’unum necessarium” (l’unica cosa necessaria) alla artisticità di una espressione è il lirismo o l’emozione pura: la poesia è tanto più alta, quanto più potente è la carica emozionale che racchiude,  esprime e trasmette. Il resto conta in sede di cultura generale e di efficienza pratica, ma non ha importanza in quanto arte e poesia. E nessuno può negare che la poesia del Petrarca è di notevole livello lirico che le assegna un  posto fra i più alti della nostra storia letteraria.

Ancora una precisazione per liberarsi da un pregiudizio troppo facile nella lettura della poesia del Petrarca: Laura è la sorgente esteriore e lontana della ispirazione petrarchesca, non il motivo prossimo e specifico: questo sta negli effetti  che la avvenenza ed attrattiva della donna generano nell’animo del poeta, cioè nei sentimenti che la presenza, il ricordo, il fascino della sua figura destano nel cuore di Petrarca. Per quanto possa apparire strano, MOTIVO ISPIRATORE FONDAMENTALE DEL LIRISMO  O DELLE EMOZIONI PURE DEL PETRARCA SONO I SENTIMENTI (PRATICI) DEL SUO ANIMO, MA NON DIRETTAMENTE L’AMORE PER LAURA,  BENSI’ LA GIOIA O LA TRISTEZZA O IL DUBBIO, NATI DAL CONSENSO-RIFIUTO DI QUELLA.[18]

 

            l) Autobiografismo psicologico. E’ questo il motivo ispiratore primo ed assorbente (cioè, quasi unico) del poeta aretino. Negativamente, ciò significa che quando Petrarca vuole esprimere poesia attraverso personaggi diversi da sè (ad esempio, quelli del poema “Africa”) deve ridurre quei personaggi a controfigure di se stesso, ad anime toccate dai suoi stessi  sentimenti di tristezza, dubbi, paure. Se tale operazione di assimilazione a se stesso (di “proiezione autobiografica”) non  riesce, i versi del Petrarca potranno essere raffinati e ben torniti, ma non trasmettono emozioni: sono aridi,  sfuocati. In concreto,  nel poema in versi latini, egli riesce a prestare espressioni poeticamente vive solo a Magone,  allorchè lo sorprende nel momento della agonia, in stati d’animo più o meno simili ai suoi: la delusione ed autocommiserazione per il fallimento (delle speranze d’amore, in Petrarca; delle promesse di gloria, in Magone: Africa, VI, 885-918).

Ancora negativamente, Petrarca non ha da parteciparci avvenimenti esteriori della sua vita: il suo “aubiografismo” non è storico-pratico. Ripiegato su se stesso, egl non è interessato nel suo intimo dalle vicende esterne, dai fatti banali o speciali della sua vita sociale: la stessa data del’innamoramento e della morte di Laura è sospetta di artificio, perchè  è in entrambi i casi un 6 aprile (ritenuto l’esatto giorno del venerdì santo nel 33 d. C., data sicura per i Medioevali della morte del Signore).

Positivamente, autobiografismo psicologico significa che i motivi innescanti il processo poetico sono le affezioni vere della sua vita interiore, sentimentale.[19] Alla radice della più solita liricità petrarchesca non stanno dunque ideali morali, progetti sociali, dottrine politiche,  sistemi filosofici o convinzioni religiose, ma sentimenti che, istigate dall’amore, ne sono già al di là e si concretizzano come le gioie e le ambasce, i timori ed i dubbi che la vicenda,quanto mai equivoca, dei suoi rapporti con Laura genera nel suo cuore. Il Canzoniere risulta così un “diario” della vita emozionale del poeta, ma non un diario delle vicende amorose con Laura, bensì dei riflessi di tali peripezie nella sua psicologia: diario delle tristezze e delle consolazioni, delle speranze e dei dubbi, dei rimorsi e della desolazione del povero poeta. Alla fin fine, si potrebeb sospettare, un  gruzzolo di motivi ispiratori davvero misero, ripetitivo, forse noioso. Ma è qui la grandezza del solitario passeggiatore di Valchiusa: aver saputo elevare a “musica in parole”, a poesia suggestiva le non molte vicende (e facilmente indovinabili e necesariamente iterative) della sua anima, ferita eppur estatica nel suo sogno d’amore.

E siccome la poesia che si ispira a tali vicende interiori, sentimentali è chiamata per eccellenza “poesia lirica”, Petrarca risulta un tipico “poeta lirico”, un “lirico puro”, chiuso cioè nella espressione in “io|mio”, escluso da quella drammatico (in “io-tu| noi-voi”) e da quella epica (in “egli-essi”).

Se ci domandiamo, ora, quali sono i momenti fondamentali dell’autobiografismo psicologico del Petrarca, potremo imbatterci in queste tappe ideali di fondo:

a)      la gioia dell’amore per Laura: il gaudio nel contemplarla (anche solo nel ricordo), nel vagheggiarla con la speranza che essa un giorno, alfine, ricambierà l’affetto del poeta;

b)      La tristezza per il mancato contraccambio della donna: delusione per gli anni passati implorando inutilmente; gemito per la resistenza perdurante; sfiducia per un futuro successo nel corteggiamento;

c)      Il tormento religioso dell’amore per Laura: rimorso e pentimento che straziano l’animo  del poeta, consapevole della iniquità dell’amore per una donna sposata, da parte di un ecclesiastico, impegnatosi al celibato;

d)      compassione per se stesso, ridotto ad uno stato pietoso, dal quale non riesce ad uscire, pel quale non vede soluzione. Egli si ripiega ancor di più sul  proprio cuore ferito e si compiange voluttuosamente.

e)      La ribellione a tale stato di cose, alla sua schiavitù psicologica, alla sua indecisione, alla battaglia senza esito, perennemente incerta che deve sostenere;

f)       La preghiera a Dio, alla Vergine per essere liberato dalla indegna catena e perdonato del lumgo indomabile errore.

In questi sei momenti ricorrenti della ispirazione petrarchesca compare quella che lui stesso abbiamo sentito chiamare “anceps pugna” (“laboriosissima”: Familari, IV, 1). La lotta indecisa ha una duplice faccia: da una parte, l’alternarsi fra “speranza e delusione” circa il risultato del suo amore; dall’altra, il contrasto fra passione amorosa e rimorso di coscienza, che lo tormenta in nome della legge morale e della fede religiosa. In entrambe queste tensioni, l’amore finisce per diventare croce e delizia, sorgente di sogno beato e di risveglio penoso. Egli ci assomiglia allora ad un adolescente intento a sfogliare una margherita, sussurrando “mi ama – non mi ama” oppure “mi libererò – non mi libererò” (i decadenti, dal Fogazzaro al D’Annunzio, preferiranno il dilemma irrisolto: “forse che sì – forse che no”), per cercare una risposta dall’esterno ai due problemi, uno dei quali dipende dalla volontà di Laura; l’altro, dalla propria incapacità a volere davvero (secondo il rimprovero di Sant’Agostino al poeta, posto come conclusione del “Secretum”).

 

2)      Motivo politico-nazionale.

 

A proposito della ideologia politica del Petrarca, si potrebbe parlare di velleitarismi e di “astratti furori”. Difatti sia la sua posizione teoretica che quella pratica, in proposito, non sono esenti da contraddizioni: da attribuirsi in parti uguali alla distonia del suo sentire, che si rifletteva, troppo poco controllata, sul suo pensare; ed al primato, nella sfera del suo volere, della ricerca del “suo  particulare”, della salvaguardia cioè della sua pace e del suo “otium intellettuale”.

Egli non crede alla riesumazione dell’impero romano: disprezza le popolazioni tedesche, barbare e culturalmente inferiori all’Italia. Eppure sente, di Roma antica, più la maestà imperiale di Cesare che non libera repubblica di Cicerone.  In parte ciò dipenderà dal fatto che Petrarca, introverso e timido,  viene attratto dai personaggi forti e decisi: a Scipione l’Africano dedicò tanto tempo, da stendere tre redazioni, sempre più estese, della vita e delle vittorie su Annibale; di Cesare scrisse in tre libri il “De gestis Caesaris” (Le imprese di C.), cioè una biografia così ampia, che si stenta a credere dovesse rientrare in quella raccolta, di mole molto più discreta, che sono le vite degli “Uomini illustri”. Ma tale preferenza doveva nascere anche dalla persuasione che la organizzazione dell’Europa intera in uno stato unico era stato un capolavoro degno di ammirazione. Resta comunque il fatto che già all’epoca dei “Memorandarum rerum libri”, cioè ben prima degli entuasiasmi per Cola di Rienzo e dell’ospitalità ghibellina presso i Visconti, egli sente sdegno per la adesione di Cicerone alla congiura contro Cesare (II, 68). Bruto poi è definito “trux et inhumanus proditor” (ivi, IV, 47-48). Ma al Petrarca rimane tanto di realismo, da accorgersi che un “impero romano” sussiste solo di nome, perchè di fatto è teutonico; e che non si può pensare di restaurare quello originario sui due piedi.

L’appoggio dato a Cola fu in vista di un governo stabile e ragionevole in Roma e, al più, di una parte d’Italia: è in funzione della caotica ed intollerabile situazione dell’Urbe, causa l’assenza dei papi e la lotta per il potere tra le fazioni nobiliari. In tal senso, egli può trovarsi casualmente e momentaneamente  in sintonia con Dante: nel deprecare divisioni e lotte fraterne e nell’esortare all’unità ed alla concordia. Come capita nelle due canzoni “Italia mia” (78) e “Spirto gentil” (53) Intese, però, in senso “risorgimentale”, tali spunti di poesia petrarchesca non spiegano la complessiva indifferenza del suo rivolgersi ora all’imperatore Carlo IV, ora ai papi, ora alle repubbliche di Genova e Venezia, ora al re Roberto d’Angiò ed ora a Cola di Rienzo, per investirli del compito di pacificare la penisola. Non ci si deve aspettare da un individuo vivacemente intuitivo ma poco sistematico un progetto preciso di unità della penisola, in uno stato libero da dominazioni straniere. Basta il suo orogoglio nazionale (virtù latina contro barbarie gotica) e il sincero desiderio di ordine e tranquilla convivenza, per giustificare il posto che, sulla  scorta dei “Sepolcri” di Foscolo, egli ottenne nel cuore dei patrioti italiani, fino all’elogio eloquente di Giosuè Carducci, che nel “Piemonte” lo accomuna a Dante nella funzione di risvegliare gli Italiani all’ideale di unità e libertà (“Italia, Italia- rispondean l’urne d’Arquà e Ravenna”). Il suo “ingenuopassare, poi, dal servizio dei Colonna all’entusiasmo per (Ni)cola (figlio) di Rienzo; il suo “candido” traghettarsi dal gulefismo fiorentino al ghibellinismo visconteo, erano particolari della cui incoerenza egli non si sarebbe neppur accorto, se non fossero sopravvenuti l’allontanamento dal servizio dei Colonna ed i rimproveri dell’amico Boccaccio.

 

3)      Motivo religioso ed eccelsiastico.

 

Petrarca non pensò mai ad una religione (virtù che regola i nostri rapporti con Dio) fuori della Chiesa, anche se la fede nella Chiesa non è  da lui  nominata espressamente come continuazione di Cristo in terra (sacramento della Sua presenza ed opera redentiva), come Suo Corpo mistico. Da una parte, perciò, la sua religiosità non  è mai separata dal suo essere cristiano (che, nel Milletrecento, coincideva con l’essere cattolico); dall’altra,  il suo atteggiamento di fronte alla curia di Avignone, a cardinali e vescovi è così poco rispettosa, che si fa fatica a vedervi l’atteggiamento di un figlio, sia pur amareggiato di fronte al malcostume dei propri padri e fratelli maggiori: trapela la tendenza  a porsi di fronte alla gerarchia corrotta come ad un corpo estraneo, non come a membro della stessa Chiesa, che hanno autorità di magistero e potere di guida,  pur nella personale indegnità. Questa coscienza della sacralità del clero, comunque corrotto, è sempre presente in Dante: non è più chiara in Petrarca. O, almeno, non è espressa: difatti, anche qui non si tratta di negare quanto il poeta credeva, ma di un oblio o relegazione del proprio pensiero nella sfera del subconscio, quando la collera offuscava la sua mente, accendendo però il suo estro poetico. Ed ecco allora i già citati sonetti 136 (“Fiamma dal ciel su le tue treccie piova”), 137 (“L’avara Babilonia ha colmo il sacco”), 138 (“Fontana di dolore, albergo d’ira”) e 114 (“De l’empia Babilonia ond’è fuggita”). Cui si possono avvicinare le lettere “Sine nomine”, cioè senza il nome del destinatario. Il contenuto è generico. Quando egli si congratula con un “innominato” che ha avuto il coraggio di lasciare il suo posto (e la speranza di carriera?) alla curia avignonese, con parole ispirate: “Efugisti, evolasti, erupisti, enatasti!”, noi ci aspetteremmo qualche esemplificazione concreta di questa maledetta corruzione avignonese. Egli non ci dà questa soddisfazione, lasciandoci con il sospetto che, alla fin fine, le sue accuse siano tutte di “terza mano”, mormorazioni generiche trasmesse “per sentito dire” e non documentate di persona. Sarà stato anche tutto vero, ma Petrarca non ci dà le prove. In base alle sole sue lettere, potrebbe trattarsi anche di calunnie. A dir la verità le lettere ventesima e ventunesima di questo gruppo, danno (finalmente!) due esempi concreti di malcostume: uno di cinica ipocrisia e uno di ridicolo erotismo. Li riferiamo, però, solo in nota: si tratta infatti delle due ultime “Sine nomine”, della cui autenticità  si dubita, perchè  solo le prime diciannove sono sicuramente di Petrarca (le ultime due si ritrovano nelle edizioni cinquecentine, non nei codici manoscritti...)[20].

Ma se questa è la “pars destruens” (partedistruttrice, critico-negativa) nella religosità del Petrarca, vi è –decisamente maggioritaria come quantità e altrettanto viva come poeticità- la “pars construens” (parte costruttrice o consenziente e positiva): pentito e orante, egli trova espressioni di sincero lirismo, che affiora nei sonetti 68 (“L’aspetto sacro della terra vostra”), 81 (“Io son sì stanco sotto il fascio antico”), 89 (“Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe”) e nella canzone alla Madonna “Vergine bella, che di sol vestita,” che chiude il Canzoniere (366). I “Trionfi” sono  tutti, almeno implicitamente, ispirati al motivo religioso, in quanto stabiliscono una “escalation” che dai beni terreni (amore, pudicizia, morte, fama, tempo) culmina nella definitiva vittoria dell’eternità, cioè di Dio, in cui le anime buone vivono perennemente. E non solo il “Trionfo dell’eternità” è esplicitamente religioso, ma lo sono anche brani del secondo (Trionfo della Fama). Inutile ripetere qui quanto si è già detto dell’opera “De otio religioso”: tutto imbevuto di fede anche nella vita di clausura e di isolamento dal mondo, purtroppo anche quest’operetta in prosa latina non attinge grandi valori lirici, pervasa come è da un ardore enfatico, che denuncia una passione (zelo religioso) non decantata ad emozione pura; uno stato di agitazione sentimentale, non liberata dall’ansia per le finalità pratiche per cui il libro veniva composto.

 

4)      Motivo etico-sociale

 

Sia il motivo politico-nazionale, sia quello religioso-ecclesiastico implicano già motivazioni di fondo a carattere etico su scala sociale. Così l’esortazione  allo “Spirto gentil” (53: canzone), perchè rimetta ordine in Roma; così il compianto su “Italia mia” (128: canzone) per le divisioni e le scorribande delle truppe mercenarie tra le popolazioni italiche, contengono spunti di rimprovero per i vizi presenti o di rimpianto per le virtù antiche, il cui tramonto è la causa dei mali d’Italia e della Chiesa.  Vi sono però anche composizioni o scritti prosastici che protestano con sdegno contro la corruzione generale, al di fuori delle motivazioni politiche ed eccelsiastiche. L’esplosione più riuscita della magnanima collera del poeta è nel sonetto settimo (“La gola e il sonno e l’oziose piume”: qui Petrarca pare accorgersi che non è solo la vita ecclesiastica e politica ad essere intollerabile, ma quella un po’ di tutto il popolo.

Il Petrarca è pessimista circa  il suo secolo e non senza giustificazioni fondate. Scrivendo verso il 1367 la lettera (ora in Senili, X, 2) all’amico Guido Setti, arcivescovo di Genova,  riesce a dimostrare in maniera inconfutabile il mutamento in peggio della Francia e dell’Italia. Alla decadenza fisico-economica stavan lavorando la guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra; la peste e la guerra di tutti contro tutti, in Italia. Quanto alla corruzione spirituale, Petrarca accumula tante prove concrete, fatti sperimentali, dati oggettivi che occorre davvero superare il sospetto che si tratti di un vecchio “laudator temporis acti” (lodatore del tempo passato) e prender atto invece di quanto dicevamo nelle pagine premesse allo studio della “Età di passaggio dal Medioevo al Rinascimento”, col titolo “La crisi della civiltà medioevale” (pp. 1-11), cioè che la  il depauperamento  morale e religioso è in atto, è documentabile, è grave. Ripetiamo: ci vorrà la voce collerica di Lutero a denunciarla efficacemente; e un giro di vite, anche con la severità delle pene, in campo cattolico non meno che calvinista, per porvi rimedio e preparare qualche secolo di  ripresa cristiana, di severità etica e, quindi, di maggior  ordine e stabilità sociale.

 

5)      Motivo letterario.

 

In Petrarca, sorgente di gioia e di commozione affettiva sono anche la rievocazione ed utilizzazione dei grandi scrittori passati o contemporanei. Il 24.mo libro delle “Familiari” è una raccolta di lettere ideali, scritte ai grandi dell’antichità: Cicerone, Seneca, Quintiliano, Tito Livio, Orazio, Omero, Virgilio... Egli, inoltre, non ama solo aver a memoria il pensiero o i versi di poeti e  letterati (come Dante), ma ama possederne i libri, così come ama citarli con erudizione vasta e vanitosa. Nel complesso un simile fenomeno è visibile specialmente nelle opere erudite, in prosa latina, ma non solo: anche nei Trionfi  noi troviamo elenchi di poeti che o han trattato materie amorose (Trionfo dell’Amore) o  si son resi famosi per scritti od opere eccezionali (Trionfo della Fama); e persino nel Canzoniere tale affetto per i poeti e le loro opere fa capolino. Così il sonetto 112 (“Sennuccio, io vo’ tu sappi in qual maniera”) confessa all’amico poeta la realtà del suo amore per Laura; lo piange poi morto nell’altro sonetto (“Sennuccio mio, ben che doglioso e solo”: 287). Di Cino da Pistoia, Petrarca cita un verso (“la dolce vista e ‘l bel guardo soave”) nella canzone 70 (“Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi”); ne piange la morte (sonetto 92: “Piangete, o donne, e con voi pianga Amore”); ricorda la poesia, accanto a quella di Dante, nel sonetto in morte di Sennuccio; rievoca la donna amata da lui (Selvaggia) nel quarto capitolo dei Trionfi d’Amore.

 

 

            LE TONALITA’ LIRICHE

 

Caratteristiche generali: Petrarca fra romanticismo e classicismo. Come l’ispirazione del Petrarca non è “del mondo esperta| e delli umani vizi e del valore” (Inf. 26,98-9) o, almeno, lo è solo marginalmente, concentrata come è sulla soggettività del poeta, che è personaggio pressochè unico della sua opera “disiecta” (frammentaria), così il suo lirsmo non “spazza” tutta la gamma delle emozioni umane, ma è limitata ad alcuni registri. Vagotonicoprevalente, temperamente nervoso subsentimentale, egli si sintonizza normalmente su tonalità contemplative –idillio ed elegia-, mentre eccezionali rimangono i casi di scatto drammatico o di esultanza epicizzante. Quella del Petrarca è una voce “bianca”: non raggiunge la maturità del tenore o la profondità del baritono, ma rimane adolescenziale o, se si vuole, un poco femminea, anche dopo l’età della toga virile. Dei due registri contemplativi, l’elegia prevale –quantitativamente- sull’idillio, mentre  talora vi è penombra o chiaroscuro lirico per una loro simbiosi, in un risultato sinergico  che rasenta la tenerezza. Dal solo fatto della  tendenza alla simbiosi fra tonalità emotive, si può dedurre sicuramente che Petrarca è poeta romantico. Ma la sua tenerezza non ha la potenza di quella di Leopardi (“A Silvia”, ad esempio) o di Manzoni (citiamo un caso famoso: “Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci”: c. 34). E  si crede di saperne il motivo.  I critici parlano della forza intellettuale     superiore alla  varia e pur forte sentimentalità del Petrarca, tanto che gli riesce di  analizzarla,  descriverla con una chiarezza  di intuito che denota una conoscenza eccezionale della propria psiche. Ma una tale acutezza di intelligenza è un fattore classico, non romantico. E, difatti, egli non concede espressione alle frange estreme dello spettro emotivo; governa e frena le proprie  affettivitài entro limiti ragionevoli, raramente cedendo all’abbandono lacrimoso (parte ultima del Canzoniere: Laura che gli appare dopo la morte). Ha quasi  pudore, ritrosia ad abbandonarsi alle sue passioni: se pianto c’è, è silenzioso, controllato. Così la impressione generale della poesia petrarchesca è quella delle raffinatezza e purezza di voce emotiva ben definita, non della consonanza polifonica di varie voci convergenti. Nella sua personalità romanticismo emozionale e classicismo intellettuale si danno la mano. Non è questo l’ultmo motivo per cui Petrarca ha avuto   accoglienza ed imitazione universali, presso spiriti  sui due versanti dello spartiacque Romanticismo-Classicismo: su Tasso non meno che su Alfieri. Solo con i realisti dell’Ottocento (a cominciare dal Manzoni!) ha cessato di affascinare gli spiriti poetici.

 

               L’idillio (gioia tenue, dolce)

Insorge e si esprime quando il poeta, obliando la realtà della mancata corrispondenza da parte di Laura, riesce ad abbandonarsi alla  immaginazione della sua  persona avvenente od al vagheggiamento di una qualche sua controfigura.

Nascono allora i sonetti “Erano i capei d’oro a Laura sparsi” (90)

                                        “Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra” (192)

                                         “Movesi il vecchierel canuto e bianco” (16),

come il breve madrigale  “Nova angeletta sovra l’ali accorta” (106).

E soprattutto fioriscono le  parti più alte della canzone-capolavoro: “Chiare, fresche e dolci acque” (126), cioè le strofe prima, quarta e quinta. Ma non van dimenticati alcuni versi dei Trionfi (vv. 133-8 nel c. 3 del Trionfo d’Amore: “e veramente è fra le stelle un sole...”; ed i vv. 10-27 nel c. 1 del Trionfo della Morte: [21]“Era miracol novo a veder ivi...”).

 

               L’Elegia (tristezza tenue, dolce)

Nel Canoniere, essa ha la sua prima sorgente nella “anceps pugna laboriosissima” che presenta  la già dichiarita duplice faccia.

 

1) Da una parte la consapevolezza dell’inutilità dei sogni, degli sforzi anzi di farsi amare da Laura, pur nella incapacità di dimenticarla, di cessare dal vagheggiarla dentro di sè; dall’altra,  il tormento etico-religioso tra il fascino della donna e il rimorso della coscienza.

 La delusione per la perseverante ripulsa di Laura induce il Petrarca  ben raramente alla ribellione (drammatica) od alla tenerezza flebile (fusione di idillio ed elegia). Egli ne ricava invece uno stato d’animo di elegia purissima: contempla cioè la sua infelicità con coscienza lucida e con dignitosa rassegnazione ed esamina i vari momenti della propria sofferenza con precisa analisi e li esprime con signorile padronanza, con misurata tristezza. Egli riconosce, in fondo, che il suo innamoramento è irragionevole; che la sua passione è iniqua; che il rifiuto della donna onesta è onorevole in lei, anche se compassionevole per lui. Egli viene a trovarsi quasi in posizione di distacco, di neutralità, di arbitrato fra sentimento struggente e ragione ammonitrice. Se un tale stato d’animo fosse del tutto equilibrato ed equipollente nelle sue due dimensioni, la poesia diverrebbe impossibile: il poeta si troverebbe nella situazione ipotizzata  dai filosofi medioevali contro  Giovanni Buridano per l’incapacità del libero volere umano di fronte a due beni affatto equivalenti.

Ma di solito, nel poeta, finisce a predominare il momento emotivo, ora di estasi nel vagheggiamento di Laura, ora di abbattimento per la sua  irragggiungibilità, che trapela poi di verso in verso, permea concetti e musicalità delle parole e si trasmette all’animo del lettore. Ma lo stato d’animo prevalente è quello elegiaco. Nel contesto ideale, cioè, della oscillazione fra gioia d’amare e pena di non essere ricambiato,  nello stato sentimentale che alterna il gaudio della  contemplazione obliosa alla tristezza della realtà presente, il lirismo più solitamente vincente è quello elegiaco.  Si è visto infatti quante poche composizioni si sono potute citare come idilliache, gioiose. Da questo punto di vista (il più importante, quantitativamente, di tutta la ispirazione petrarchesca) la  POESIA- MANIFESTO è la canzone “DI PENSIER IN PENSIER, DI MONTE IN MONTE” (129). Essa riesce infatti a mantenersi in una alternanza così armoniosa  e così prolungata (settantaudue versi!) dei due stati affettivi, da sorprendere ed affascinare. Ed essa è così rappresentativa, che contiene le contrapposizioni di concetti, sostantivi, aggettivi e verbi della psicologia del Petrarca: e questo, senza cadere nel concettismo, nell’artificio, nel gioco di parole. Il verso ottavo (“or ride or piange, or teme or s’assecura”), decimo (“si turba e rasserena”) e ventunesimo (“cangiar questo mio viver dolce amaro”) liricamente sono alla pari con “ la fera bella e mansueta” (v. 29 di “Chiare fresche e dolci acque”) e con “sì selvaggia e pia” (v. 65 della canzone 359: “Quando il soave mio dolce conforto”): le contrapposizioni non son solo “pensate” razionalmente, ma vissute emotivamente; lo stato  d’animo è bensì contemplato lucidamente a viso aperto, ma col cuore gocciolante di dolente tristezza;  la sua psicologia è bensì analizzata con intelligenza chiara e distinta, ma viene espressa con l’amaritudine di chi pur soffre e  patisce. 

L’alternanza di vagheggiamento seducente e consapevolezza deludente zampilla anche dai versi del madrigale 54: “Perch’al viso, d’amor portava insegna”.

 

2) La seconda “battaglia senza esito, ancipite” tra cuore e coscienza, tra fascino amoroso e pungolo morale, genera altre notevoli  espressioni dalla melodia dolente:

                                                “L’aspetto sacro della terra vostra” (68: sonetto ad un amico romano, mentre il poeta vi si trovava turista e pellegrino);

                                                “Io son sì stanco sotto il fascio antico” (81: sonetto);

E più di una volta si trasforma in preghiera elegiaca: la stanchezza del proprio errore, il pentimento per il peccato, la consapevolezza della propria incapacità a liberarsi da solo lo sospingono ad invocare perdono da Dio, intercessione da Maria santissima:

                                                “Padre del Ciel, dopo i perduti giorni” (69: sonetto);

                                                “Tennemi Amor anni ventuno ardendo” (364: sonetto);

                                                “I’ vo piangendo i miei passati tempi” (365: sonetto);

                                                “Vergine bella, che di sol vestita” (366: canzone).

3) Ma, al di fuori dei due conflitti irrisolti, l’elegia del Petrarca ha  altre sorgenti di afflizione e di pena. E’ la compassione che il poeta sente per se stesso, proprio perchè cosciente del duplice labirinto, di sogno insensato e di aspirazione peccaminosa, in cui è andato a perdersi. E’ una complicazione psicologica che spesso si traduce in fredde contrapposizioni di concetti e parole, rasentando il barocco: tuttavia da essa sgorgano non poche composizioni sofferte e valide nel registro elegiaco. Petrarca si affligge perchè...è afflitto da due condizioni da cui non sa o non vuole uscire. Piange insomma (sinceramente) anche per questo:  che deve prender atto di aver pianto per troppi anni e di essere destinato a piangere ancora a lungo!

                                                “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” (1: sonetto);

                                                “Quanto più m’avvicino al giorno estremo” (32: sonetto);

                                                “Solo e pensoso i più deserti campi” (38: sonetto);

                                                “Ne la stagion che’l ciel rapido inchina” (50: canzone);

                                                “Sennuccio, io vo’ tu sappi in qual maniera” 8112: sonetto);

                                                “O cameretta che già fosti un porto” (234: sonetto).

            4) Vi è ancora la morte di Laura, che non spegne il suo amore per lei e, anzi, rende la seconda parte delle Rime (“In morte di madonna Laura”: 264-366) più poetica della prima (“In vita di madonna Laura”: 1-263). Ecco esempi di malinconia toccante:

                                                “Se lamentar augelli o verdi fronde” (279: sonetto);

                                                “Levommi il mio pensier in parte ov’era” (302: sonetto);

                                                “Zefiro torna e il bel tempo rimena” (310: sonetto);

                                                “Quel rosignol che sì soave piagne” (311: sonetto);

                                                “Vago augelletto che cantando vai” (353: sonetto);

                                                “Quando il soave mio dolce conforto” (359: canzone).

Come si è già detto, questi ultimi componimenti rasentano la “tenerezza”, senza per altro concedervisi del tutto: la elegia si fa più cordiale e più affettuoso l’abbandono, che non nelle Rime in vita di Laura.

6)      Brani elegiaci sinceri sono anche nel Trionfo della Morte: si veda la prima parte, vv. 70- 2; 103-26; 157-72.

 

Dramma (tristezza veemente)

 Nel Petrarca, il tono drammatico è raro e non assurge propriamente a “tragedia”: per questo si usa in senso  generico il termine di “dramma”, che per sè è applicabile anche all’epopea, nel  significato di “toni lirici mossi, forti” (non contemplativi). Ma “dramma” vale anche, specificamente, come “tragedia sminutia, attenuata”.  E’, questo secondo, il senso con cui  usiamo qui il  vocabolo.

Vi è nel nostro poeta , come in tutte le persone sensibili, una velleità di protesta e contestazione: ma in lui prevale abitualmente il silenzio rassegnato o il lamento flebile, sicchè la ribellione rimane latente. E’ lecito sospettare che altre volte la collera giunga ad inaridire molte espressioni non decantate, che rimangono a mezza strada fra la contemplazione e il risentimento, fra l’elegia e il dramma?  Tra i versi del Petrarca non lievitati a lirismo, ce ne stanno  di quelli che elidono l’ispirazione con una dissolvenza incrociata fra tristezza ed ira, fra malinconia e  insofferenza? Frutto di tale conflitto fra stati d’animo così opposti   sarebbero anche i “concettini”, cioè i contrasti verbali costruiti dalla sola ragione e non fluenti dal cuore, nel senso che la mente, oscillante sotto la spinta dei due sentimenti, finisce per non ascoltarne nessuno e lavorare su formule intellettualistiche che  prescindono dalla sfera emozionale? Questioni di difficile psicologia. Qui  si potrà invece asserire che  le proteste di Saverio Bettinelli nel Millesettecento e di Giacomo Leopardi nel Milleottocento per il divario tra il valore poetico del Canzoniere ( buono o distinto, ma non supremo) e la fama del loro autore (superiore a quella di Dante) nasceva soprattutto da questi  componimenti o loro parti, ove trionfano i sofismi concettuali, che dichiarano bensì alla mente il tormento dell’animo ma nè lo esprimono nell’emozione pura nè, quindi, lo partecipano al cuore.

Queste osservazioni non vogliono negare ogni valore poetico a moltissime composizioni del Petrarca che brillano di luce fosforescente, ora più sul versante elegiaco ora maggiormente su quello drammatico. Si tratta di  molti versi del Canzoniere che rasentano soltanto il valore poetico, salvo ad elevarsi anche  al pieno lirismo in qualche verso o  strofa,  di mezzo al loro grigiore complessivo. E’ ciò che capita anche a Dante in più di un canto (si prenda l’undicesimo dell’Inferno ed il dodicesimo del Purgatorio  e molti del Paradiso, a  partire dal secondo, vv.49-fine); ed al Tasso in molta parte della Gerusalemme, per non parlare delle tragedie dell’Alfieri od anche di qualche brano dei Promessi (a cominciare, stavolta, della parte paesaggistica in cui è inquadrato don Abbondio, proprio in apertura del romanzo). Nello stesso Virgilio, il tono generale è quello drammatico, ma risultante da chissà quante spinte contrastanti ed elidenti, che generano il tessuto connettivo o un poco al disotto o appena al di sopra della sufficienza lirica. Per esemplificare con l’opera del Petrarca, prenderemo tre composizioni: i versi di Africa, VI, 839-918 e le due canzoni  “Spirto gentil che quelle membra reggi” (53) e “Italia mia, benchè il parlar sia indarno” (128).

Il famoso passo, ove Magone esprime, immediatamente prima di morire, le sue dolenti considerazioni sulla  fugacità della vita e la insensatezza delle umane imprese, ci sembra un caso classico di stentata sufficienza poetica, per l’intenzione elegiaca evidente, ma solo alla fine del brano prevalente di fatto sul sottofondo drammatico. C’è, infatti, un climax (gradazione) discendente, per cui dal  distratto sferragliare di versi stancamente drammatici, ci si raccoglie sempre più  nella mestizia di espressioni pronunciate a fior di labbra.  Tale variazione è ancor meglio sensibile, se si prendono in considerazione anche i versi 839-84, che narrano la partenza della nave da Genova e il vario paesaggio della Liguria e Toscana, fino all’altezza di Roma (da una parte) e della Sardegna (dall’altra). Questo brano è di timbro genericamente drammatico, senza valore poetico degno di rilettura. Coll’inizio delle riflessioni di Magone (v. 889), si  sente l’alternanza fra  la resistenza tenace dell’andatura  genericamente mossa e l’insinuarsi di note più contemplative: la melodia elegiaca è dapprima timida e dispersa fra ritorni drammatici, a cominciare (ci pare) dal verso 897 e fino a metà del verso 911. Solo negli ultimi otto versi   le cadenze melanconiche hanno il sopravvento coerente. A darci ragione in questa lettura diversificata, sta anche la accentuazione dei versi che, partendo da una quasi totale eterodinicità[22] (839-884), mescolano un sempre maggior numero di versi omodinici, finchè questi prevalgono nettamente negli ultimi otto versi.

Quanto alle due canzoni  politiche, l’alternanza di tonalità è patente. Le due parole che iniziano “Spirto gentil” sono una sintesi dell’equivoca condizione d’animo del poeta: “Spir(i)to” è parola scorciata per necessità metriche: e diventa ultradrmmatica; anzi, stonata, gracidante. “Gentil” è vocabolo dolce e mite: messo di fianco allo stridente sostantivo che lo precede,  insinua subito il sospetto  dell’ambigua tonalità nella canzone. E difatti le prime due strofe piagnucolano desolate sulla situazione di Roma derelitta e cadente; la terza ricorda le antiche glorie ed esprime l’augurio che siano restaurate dal neoeletto senatore, con tre versi che sono una conferma del già detto: “Come cre’(-do?) che Fabrizio| si faccia lieto udendo la novella,| e dice:- Roma mia sarà ancor bella-”. La stonatura di quel troncamento troppo maschio (-cre’-) e la femminilità di quell’aggettivo   “bella” (anzichè “grande|forte”, come esigerebbe il senso tutto della canzone) denuncia incertezza ed oscillazione fra dramma ed elegia: cè, in sintesi, tutto il minor Petrarca. E si potrebe continuare. Vi sono però due stacchi di una certa forza, ove il dramma prevale: sono i versi 21-28 (“Pon man in quella venerabil chioma| securamente e ne le trecce sparte,| sì che la neghittosa esca dal fango.| I’ che dì e notte del suo strazio piango,| di mia speranza ho in te la maggior parte:| che se’l popol di Marte| devesse  al proprio onor alzar mai gli occhi,| parmi pur ch’a’ tuoi dì la grazia tocchi”); e 71-6 (“Orsi, lupi, leoni, aquile e serpi| ad una gran marmorea colonna| fanno noia sovente et a sè danno:| di costor piange quella gentil donna| che t’ha chiamato, a ciò che di lei sterpi| le male piante che fiorir non sanno”). Ma ognuno può sentire le ricadute elegiache o le alternanze tra “il cafone innocuo ed il gentiluomo indifeso”[23] che tolgono forza sia alla virilità della protesta   che alla flebilità della lamentazione.

In “Italia mia” possiamo scoprire nel “congedo” la doppia, opposta ispirazione.Da una parte, il poeta   ammonisce la sua “canzone” che viene indirizzata a “gente altera...del ver sempre nemica”: ci si aspetterebbe che venga raccomandato coraggio, fortezza, magnanimità, spirito guerriero.  Invece, succede proprio il contrario: “Canzone, io t’ammonisco| che tua ragion cortesemente dica”: difatti, la “canzone-messaggio” ha paura e deve rivolgersi alla (poca) gente buona: “di’ lor: -Chi m’assicura?”-. E, a nome del  poeta, deve  garantire: “I’ vo gridando: -Pace, pace, pace”-. Con un simile pendolarismo, è molto se troviamo un paio di scatti frementi (il primo, poi, nemmeno troppo): “Latin sangue gentile,| sgombra da te queste dannose some (i mercenari tedeschi);| non far idolo un nome| vano, senza soggetto;| chè ‘l furor di lassù, gente ritrosa,| vincerne d’intelletto,| peccato è nostro e non natural cosa” (vv. 74-80); e “vertù contra furore| prenderà l’arme e fia’l combatter corto:| chè l’antico valore| ne l’italici cor non è ancor morto” (questi versi 93-96 saranno citati da Machiavelli nel “Principe” e resi, così, ancor  più famosi).

Ma vi son pur dei momenti in cui il Petarrca trova un’indignazione interiore, che lo fa sbottare in  imprecazioni feroci (“Fiamma dal ciel su le tue trecce piova”: 136, sonetto); od in  accuse sarcastiche (“L’avara Babilonia ha colmo il sacco”: 137, sonetto) od in insulti veementi “Fontana di dolore, albergo d’ira”: 138, sonetto). Sono i tre sonetti già più volte citati contro la curia avignonese.

Forse ancora migliore è  il primo impeto del sonetto 7 (“La gola e’l sonno e l’oziose piume”), che però va calando in forza di strofa in strofa sino ad una raccomandazione anodina finale (“tanto ti prego più, gentile spirto,| non lassar la magnanima tua impresa”). Nella stessa condizione è il sonetto 81 (“Io son sì stanco sotto il fascio antico”) in cui Petrarca si ribella con forza insolita alla schiavitù d’amore: ma poi la protesta si trasforma in meditazione sulla salvezza di Cristo Signore e sul suo invito a conversione. La risposta di Petrarca? Nè pentimento nè proposito chiari: solo una invocazione quasi comica: “Qual grazia, qual amore o qual destino| mi darà penne in guisa di colomba,| ch’i’ mi riposi e levimi da terra?” Il dramma iniziale si è  attutito sempre più dalla seconda quartina all’ultima terzina.

Del capolavoro “Chiare fresche e dolci acque” (126: canzone) si è deto che solo le strofe 1, 4 e 5 sono profondamente idillliche. Difatti la 2 e la 3 sono incerte fra elegia e dramma: e non sono all’altezza lirica delle altre stanze, anche se sono ancora poeticamente vive (al punto che il v. 33 riesce a far accettare senza troppo scompiglio un “ed o piéta!” che vorrebbe significare “Ed o pietosa, misera vista”).... Ed anche il già citato sonetto “Sennuccio, i’ vo’ tu sappi in qual maniera” (112) ha una prima quartina forte e risentita: sono le altre tre ad essere più propriamente elegiache.

Ma ecco che forti sino alla fine sono i due sonetti di disperazione che paragonano la sua vita ad una nave in rischio di sprofondare. Il più coerente è il 189, che riportiamo:

 “Passa la nave mia colma d’oblio

 per aspro mare, a mezza notte, il verno,

 enfra Scilla e Caribdi; et al governo

 siede’l signore, anzi’l nemico mio;

 a ciascun remo un penser pronto e rio

 che la tempesta e’l fin par ch’abbi a scherno;

 la vela rompe un vento umido, eterno

 di sospir, di speranze e di desio;

  pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni

 bagna e rallenta le già stanche sarte,

 che son d’error con ignoranzia attorto.

  Celansi i duo miei dolci usati segni;

 morta fra l’onde è la ragione e l’arte:

 tal ch’i’ ’ncomincio a desperar del porto”.

L’altro sonetto (272: “La vita fugge e non s’arresta un’ora”) pare contenere addirittura un proposito di morte volontaria (“se non ch’i’ ò di me stesso pietate| i’ sarei già di questi pensier fora”). Ma il ricordo di ore migliori passate quando Laura era in vita, rompe la continuità e coerenza di ribellione.

 

            Epopea (gioia  drammatica).

Rari i casi riusciti: il sonetto 61 sembra il più convincente (“Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno”): rievoca la prima apparizione di Laura agli occhi del poeta.

“Africa” avrebbe dovuto essere il canto solenne, spiegato della gloria di Roma e degli Scipioni, poesia epica per eccellenza. Ma il tono lirico è troppo alieno dall’estro di Petrarca. Un esempio della versificazione discreta, non mancante di un certo lieto vigore può essere quello che precede la morte di Magone e descrive il litorale ligure e tirrenico (VI, 839-84).

 

                        LA TECNICA STILISTICA

 

Se noi conoscessimo esaurientemente la anatomia e fisiologia cerebrale, potremmo, deduttivamente, intuire sia i registri lirici su cui ogni persona è sintonizzata, sia gran parte delle preferenze stilistiche, dal musicalismo della espressione verbale, alle forme sintattiche privilegiate, al viraggio stesso del pensiero (piuttosto platonico-leibniziano che aristotelico-cartesiano, piuttosto agostiniano che tomistico, piuttosto orientato alla ricerca dei fini programmati pel futuro che delle cause pregresse ad ogni atto umano, singolo o  sociale, contemporaneo o storico). La risonanza emozionale, infatti (come la parte spontanea delle forme espressive o tecnico-stilistiche) appartengono ai dati congeniti e congeniali, difficilmente modificabili dal libero arbitrio e dall’influsso ambientale, i quali agiscono invece più facilmente sul patrimonio di cognizioni e convinzioni e, quindi, sui motivi ispiratori (e sulla parte apprensibile o tradizionale del linguaggio, delle forme grammaticali e della metrica).

Noi siamo, invece, abitualmente costretti ad un processo induttivo, che risale dalla tecnica espressiva e dalle tonalità liriche espresse alla personalità (temperamento, tipo di fantasia e di intellligenza: psicologia). Una volta fatto questo processo induttivo, però, i dati sulla psicologia facilitano la  precisazione, la distinzione, la coordinazione delle varie aperture liriche e delle varie preferenze stilistiche. Con una differenza, però: se il poeta ha una personalità complessa (Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Manzoni, Goethe...), difficilmente i dati indotti dalle opere circa la personalità ridanno tutte le componenti emozionali e stilistiche: non sempre si riesce a connettere la varietà della gamma emotiva (si pensi alla comicità, ad esempio) e dei mezzi espressivi ai pochi o molti caratteri che della personalità psicologica si riesce a ricostruire induttivamente, partendo  dagli scritti. Se, invece, siamo di fronte ad una individualità tanto chiara quanto limitata, allora la coerenza fra dimensione psicologica e componenti lirico-stilistiche saranno lineari e facilmente sospettabili. E’ quello che ci è sembrato il caso di Petrarca: gli agganci fra alcuni dati della sua individualità temperamentale e della sua espressione poetica sono sorprendenti.[24]

 

            Distonia emotiva ed oscillazione espressiva.

 

Già a livello di motivi ispiratori, il contrasto insoluto fra illusione e delusione amorosa, fra peccato e rimorso, fra cielo e terra è  (anche) un corollario della distonia neurovegetativa. Ma i “motivi ispiratori” sono alla fin fine delle idee ed a questo livello la coscienza può sollecitare talmente la libera volontà, da indurla ad un notevole ricupero di stabilità e coerenza nel proprio modo di pensare e di agire. Petrarca poteva vivere con fedeltà ad una sola morale ed  con coerenza ad una sola logica. Il suo stato psicologico non era, alla fin fine, un caso patologico, così disequilibrato da sottrarlo alla padronanza-responsabilità delle sue azioni e del suo pensiero. Egli, in altre parole, poteva liberarsi dalla schiavitù all’amore di Laura (come di qualunque altro amore erotico); ed era libero di rifiutare l’eccesso di stima per i grandi pagani a lui cari, in nome dei dati presenti nelle loro biogafie e in nome della coerenza colla fede  presente nella sua coscienza. E’ vero: nel suo fondo egli avrebbe conservato una tendenza all’oscillazione, tanto da far sospettare e temere talora lo sdoppiamento della personalità: ma erano propensioni dominabili dal Petrarca per quanto riguardava gli atti riflessi, consapevoli, proprio grazie alla sua intelligenza, particolarmente chiara.[25]

Il discorso si fa invece diverso nei confronti di impressioni spontanee, come quella degli stati emotivi e delle forme della loro espressione: ivi il pendolarismo, il contrasto, l’oscillazione sarebbero affiorati necessariamente.

Quanto allo stile, troviamo allora le contrapposizioni di aggettivi, verbi e sostantivi, proprio dentro alle frasi e poesie le più liricamente suggestive. Alcuni casi li abbiamo già segnalati. Laura è la “fera bella e mansueta”, che siede “umile in tanta gloria” (126: “Chiare fresche e dolci acque). Quello del poeta è un “viver dolce amaro”, perchè la sua anima “stassi così| tra misera e felice” e “or piange or ride, or teme, or s’assecura| ed in un esser picciol tempo dura”... Espressioni quasi tutte prese da quella che abbiam chiamato la “Canzone-manifesto” della ispirazione e del lirismo petrarchesco: “Di pensier in pensier, di monte in monte” (129): poesia, che oltre tutto, rivela che il poeta è cosciente del variare continuo del suo animo, consapevole del suo stato di perenne mutabilità. Ma anche il sonetto a Sennuccio (112) è testimonianza della sua tecnica epsressiva come del suo temperamento distonico: “Qui tutta umìle e qui la vidi altéra,| or aspra or piana, or dispietata, or pia;| or vestirsi onestade or leggiadria,| or mansueta, or disdegnosa e fera;|| qui cantò dolcemente e qui s’assise|; qui si rivolse e qui trattenne il passo;| qui co’ begli occhi mi trafisse il core;|| qui disse una parola e qui sorrise,| qui cangiò il viso...”. Davvero il cuore (e la mente non meno) del povero poeta può dire “l’aura mi volve”, cioè Laura mi muta, mi plagia, mi trasforma a suo talento.

Le documentazioni di questo “pendolarismo stilistico”, effetto dell’oscillazione psicologica, prodotta dalla distonia fisiologica (a livelli insoliti di nevrosi: quasi, abbiamo insinuato, di sdoppiamento della personalità) si potrebbero moltiplicare all’infinito se, anzichè riferirci alle sole composizioni di sicura connotazione lirica, si “pescasse” anche nei componimenti non del tutto sufficienti artisticamente. Si può, nel complesso, affermare che quanto meno l’estro assiste il Petrarca, tanto più egli si abbandona al gioco delle contrapposizioni. Ma si ponga attenzione: nel Petrarca esse non sono ancora concettini arbitrari: le sottili distinzioni ed i contrasti mantengono una verosimiglianza psicologica, un fondamento nella realtà del suo animo. Per questo non sono mai del tutto aridi e raramente tendono al ridicolo. [26] Citiamo qualche caso saliente. Il bisticcio   più frequente è quello che si esprime nella opposizione “dolce mia nemica” (sonetto 179 e 202, canzone 125), di cui una variazione è nel sonetto 254 (“amata mia nemica”). La parola più abusata per l’ambivalenza del  suono è “l’aura” (cioè “Laura”). I componimenti che gli son riusciti più artificiosi  per la insistenza dei concettini ci sembrano i sonetti 118, 134 e 265. Nel 118 troviamo “L’amar m’è dolce ed utile il mio danno...| Or qui son, lasso! e voglio esser altrove;| e vorrei più volere e più non voglio,| e per più non poter fo quant’io posso;| e d’antichi desir lacrime nove...”. Nel 134: “Pace non trovo e non ho da far guerra;| e temo e spero; et ardo e son un ghiaccio;| e volo sopra il cielo e giaccio in terra;| e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio...”. E nel 265: “Aspro core e selvaggio e cruda voglia| in dolce, umìle, angelica figura...”. Nei “Trionfi” inutilmente ingegnoso è specialmente il brano sulle contraddzioni dell’ amore, nei vv. 134-166 del suo Trionfo. Purtroppo per almeno tre secoli si troveranno verseggiatori che credono di imitare il maestro, belando penosamente al ritmo binario di tali contrapposizioni: non ponevano neppure mente che, almeno a livello pratico-esistenziale, la discordia esisteva veramente in Petrarca sia nei pensieri che  nei sentimenti e creava una condizione di spirito tragicomica, mentre in essi si tratterà proprio di concettini a freddo, non corrispondenti a nessun dissidio   psicologico nè amoroso nè religioso. Hanno scritto con “codice” petrarchesco, senza riuscire a trasmettere nessun “messaggio” personale: difetto fatale per un poeta!

 

            Prevalenza vagotonica ed evasività od irrealismo dello stile petrarchesco

 

La prevalenza vagotonica, come induce una aliquale impervietà  ai toni drammatici in generale ed epici in particolare, così pare essere la sorgente dell’ attutito  senso visivo (impressionismo coloristico anzichè disegno e tridimensionalità) e della musicalità raffinata, dolce, scorrevole, elegante, armoniosissima. Ci sembra, per altro, che interferenze di natura simpaticotonica   sono intuibili nei momenti di minor poesia e di maggior intellettualismo (giochi di parole o sofismi d’amore): quando manca la preminenza vagale, avviene una dissolvenza incrociata fra i due poli emozionali, che lascia libero campo alla intelligenza sofistica.

            1) La minor razionalità e il prevalere del musicalismo sono una prima manifestazione dell’elusività espressiva del Petrarca. Per entrambi i fenomeni, un indizio sta nell’estenuazione  della componente “logica” in favore del fattore “ritmico” nella espressione. Ci riferiamo, ad esempio, all’enjambement o sinafia (inarcatura, diranno i critici del Millecinquecento, che primi notarono il valore particolare di questa componente espressiva): il “periodo logico” (la proposizione o frase) non coincide col “periodo ritmico” (il verso), ma tende a distribuirsi fra due o più emistichi (metà versi), così che gli accenti e le rime sottraggono importanza al pensiero, che viene oscurato dal predominante musicalismo. Processo spontaneo e frequente in Petrarca (solo i critici del secolo XVI si accorsero della tecnica e cominciarono ad usarla in maniera riflessa), ma non  abituale. Difatti la coincidenza o sovrapposizione di periodo logico e periodo ritmico (la  frase  inizia e finisce con il  verso) è altrettanto frequente quanto la discordanza tra i due fattori espressivi. Anche qui vi è un processo altalenante, un equilibrio pendolare, che alterna negligenza e cura della razionalità, col risultato di sminuirla ma non emarginarla. Tra l’usuale flessuosità musicale del verso foscoliano e la più solita rigidità razionale di quello manzoniano, a metà strada si pone quello di Petrarca, che sacrifica, ma  solo in parte, l’importanza del pensiero.  Si leggano con questo criterio alcune delle composizioni riuscite: ad esempio, Chiare fresche e dolci acque” (126), “Di pensier in pensier” (129) e il sonetto “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” (90). Ci si accorgerà come razionalità e musicalismo, logicità ed evasione si spartiscano il dominio della espressione, che si compensa per alternanze e interferenze di sistemi espressivi divergenti.

2) Un altro sintomo di minor razionalità lo si può vedere nelle spontanee sequenze di sostantivi e verbi, che si richiamano fra loro senza una vera necessità logica: si tratta di enumerazioni che, accumulandosi, elidono l’importanza dei singoli significati, per offrire una globalità indistinta, atta più a sottolineare l’effetto musicale che non il peso sostanziale dei termini. La mente, infatti, aggredita dal susseguirsi di tante cose non descritte particolarmente ma puramente elencate, le percepisce solo come rafforzamenti di un concetto unico, sicchè essa finisce per lasciarsi cullare dall’onda musicale del ritmo (susseguirsi piacevole delle ictazioni ) piuttosto che essere assorbita dal penetrare il senso delle singole parole. Esempi si possono ritrovare nel sonetto 61 (“Benedetto sia il giorno e il mese e l’anno| e la stagione e il tempo e l’ora e il punto| e il bel paese e il loco ov’io fui giunto| da due begli occhi che legato m’hanno...”). Ed ancora nella canzone-manifesto 129: “Di pensier in pensier, di monte in monte” (“Se ’n solitaria piaggia o rivo o fonte|...

or ride or piange or teme or s’assecura|... ne l’acqua chiara o sopra l’erba verde| veduta viva e nel troncon d’un faggio| e in bianca nube...”). Ed ecco anche il sonetto 35: “Solo e pensoso i più deserti campi” (“ monti e piagge| e fiumi e selve...”).[27]

            3) Il minor realismo e la elusività dello stile petrarchesco si manifestano più evidenti nella pochezza del senso pittorico o figurativo e nella assenza di plasticità. Già l’elenco seriale di verbi| sostantivi impedisce la “visione” dei singoli oggetti o movimenti, che scorrono via come in una proiezione di immagini,fatta a passo  più veloce rispetto a quello delle riprese. Abbiamo già citato il caso-limite del capolavoro “Chiare fresche e dolci acque”. Rièpetiamo qui quanto abbiamo scritto a proposito della poca fantasia visiva del poeta. La prima strofa dovrebbe presentare Laura uscita dal bagno nel fiume Sorga. E si fa fatica a convincersene, anche ad una rilettura. Di “vedere”, non si parla neppure. Davvero, per questo miracolo di “pudore involontario”, Petrarca conserva il diritto all’elogio del Foscolo, che lo celebra perchè l’ “ amore in Grecia nudo e nudo in Roma| d’un velo candidissimo adornando| rendea nel grembo a Venere celeste” (Maria santissima!). Solo nell’ultima stanza della canzone si intravede qualcosa: sopra Laura, assisa sotto un albero fiorito, scende una nube di petali. Ma si tratta appunto di un vagare di cose evanescenti, una nuvola genericissima e sfumata, un cromatismo senza disegno (rischia di richiamare la “nube di probabilità” che circonda il nucleo nell’atomo di Bohr...). Ma l’effetto poetico è allo zenit, perchè tale anticipo dello “sfumato” di Leonardo aiuta quella visione onirica, quell’estasi di sogno, quel rapimento fuori dalla realtà che costituisce il fascino della canzone. Assenza di realismo, ombra di sogni, eco di sospiri... Questa è la realtà del Petrarca più poeta, più riuscito, più intimo, più genialmente se stesso... Al più, di una persona (chi mai, se non Laura?), egli sa vedere qualche accidentalità cromatica: per un momento! “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” (son. 90). Ma subito Petrarca si lascia riprendere dalla confusione indefinita del movimento arruffato (“che in mille dolci nodi li avvolgea”). E c’è anche un attimo di riuscita plasticità: nel Trionfo della Fama (3, 117) egli rappresenta efficacemente il filosofo Zenone, sorprendendolo  “a mostrar la palma aperta e il pugno chiuso” (simboli, rispettivamente, di retorica e dialettica). Eppure, anche qui, la duplice contrastante indicazione (aperta| chiuso) tende a smorzare la potenza della eccezionalmente felice espressione...

 

            Temperamento inattivo e latenza del senso cinestetico.

 

A partire dalla dimensione della “inattività” nel suo temperamento (egli è, non dimentichiamolo, un “nervoso”), si comprende la scarsità e incertezza del senso cinestetico o del movimento.  Quella volta (l’abbiamo visto testè) che insorge la velleità di un moto vibrato, esso va ad esprimersi in maniera  contradditoria, per cui il dinamismo lo si intuisce nel momento stesso che si spegne.

 L’uso di verbi attivi, di moto, è frequente: ma esprimono un movimento placido, lento, quasi stanco: “Movesi il vecchierel...” (son. 16); “Solo e pensoso i più deserti campi| vo’ mesurando a passi tardi e lenti..”(son. 35). E’ un dinamismo “al rallentatore”, che rientra nello stile di passeggiate peripatetiche, di solitari pellegrinaggi meditativi.

 Anzi, la più parte delle poesie rinunciano addirittura al movimento o, almeno, surrogano quello fisico del corpo con il moto interiore della psiche. Di quest’ultimo ve n’è in sovrabbondanza: è la oscillazione intellettuale ed affettiva di cui si è parlato a più di un titolo ed il cui vocabolario tipico è rintracciabile nella documentazione della componente “distonica” dello stile (or ride or piange or teme or s’assecura|| qui cantò dolcemente e qui s’assise...).

 Ma i verbi più frequentati dal Petrarca sono intransitivi o comunque di stasi: sono verbi di attività... contemplativa(!). Il primo sonetto (“Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”) è esemplare: vi si trova impiegato sei volte il verbo “essere”; e tutte le altre tredici voci verbali (compresi gli infiniti sostantivati)  sono o intransitive (piangere, ragionare, vaneggiare) o riflessive (vergognarsi, pentersi) o indicanti moti riguardanti l’animo interiore (ascoltare, nutrire, intendere, spero, trovar, vedere, conoscere).

Anche i componimenti eccezionalmente drammatici, talora elidono la cinestesia attraverso l’uso di verbi bensì attivi, ma usati negativamente, cioè negati nella loro esistenza concreta. Si veda il sonetto 7 (“La gola e il sonno e l’oziose piume”), che è esempio preclaro: sbandita, vinta, smarrita, spento, non-lassar.

Non che manchino verbi di  operosità  fisica, esteriore: ma si rivelano poi usati in contesto o forma tale, da ridursi ad un’attività ridotta, ad un dinamismo languente. Gli infiniti sostantivati o “serviti”, cioè resi dipendenti da verbo servile (posso, voglio, debbo, soglio, comincio...) sono davvero molti nei versi del Petrarca e sono parte di un vezzo che tende congenialmente a ridurre il moto ad una sostanza fissa, cioè a negare il movimento mentre lo afferma. Nel primo sonetto si sono  già segnalate le voci “del mio vaneggiar| e il pentersi e il conoscer chiaramente”. Nel sonetto terzo, ecco l’ultima terzina: “Però, al mio parer, non li fu onore| ferir me da saetta in quello stato,| a voi armata non mostrar pur l’arco”. Nel sonetto 32: “più veggio il tempo andar veloce e leve| e il mio di lui sperar fallace e scemo”; nel 35: “dal manifesto accorger delle genti”; nel 90 “ Non era l’andar suo cosa mortale| Piaga, per rallentar d’arco, non sana”. canzone 129: “ed in un esser picciol tempo dura| viver dolce amaro| mirar lei, obliar me stesso| tener fiso| tirar mi suol| comincio a misurar cogli occhi”.

 

            Preponderanza uditivo-musicale nella fantasai e nello stile del Petrarca.

 

Alla pervasiva predominanza della musicalità nella poesia del Petrarca si è dovuto far riferimento più di una volta, a cominciare dal tentativo di definizione della sua fantasia. Vediamone ora i caratteri peculiari.

Prevale la dolcezza, la delicatezza: vi è il senso del carezzevole, se non del levigato. Ma si noti che “dolce e carezzevole” sono pressochè sinonimi, ma si oppongono parzialmente agli affini “delicato-levigato”. Si crea cioè un equilibrio di raffinata natura classica fra soavità e rigore, fra molezza e tenacità (di un salice, ad esempio). Rileggiamo alcune fra le più splendide composizioni: “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” (1), “Chiare fresche e dolci acque” (126), “Di pensier in pensier, di monte in monte” (129), “Se lamentar augelli o verdi fronde” (279), “Zefiro torna e il bel tempo rimena” (310).

Non è difficile notare il prevalere (ma non  eccessivo) di liquide e nasali in congiunzione con vocali tenui (i|u) e con le fruscianti  (di gran lunga più usata la “v” rispetto alla “f”). Dolci pure i suoni palatali “g” e “gn”. Ma non sfuggano le risentite note della labiale “p”, delle dentali  delle gutturali “q” e “ch”. Le vocali sono distribuite più armonicamente: non pare si debba parlare di predominio delle larghe rispetto alle strette o viceversa. Ma si noti: delle dentali è frequente al di là del solito, la media “d”; delle vocali, inaspettatamente rintracciabile la media “e”. Un rifuggire dagli estremi, un equilibarsri nel mezzo: la dolcezza non è sdolcinatura; la elegia, anche se giunge alla tenerezza non  approda però al pianto; la raffinatezza rivela qualcosa di virile; sotto il morbido verde della  buccia vi è un’anima di temprata durezza.

 

            Introversione caratteriologica e liricità pura della poesia petrarchesca.

 

Mediocre come verseggiatore epico (nell’Africa), raramente riuscito come espressione di stati d’animo drammatici, mai tentato di cimentarsi con la forma scenica del dialogo, il Petrarca risulta quello che si definisce un “lirico puro”, cioè un poeta capace solo di cantare  sentimenti come propri, cioè di esprimersi in prima persona singolare. Un poeta in “io”. E’ questo un effetto della introversione estrema in cui era rinchiuso: fino a rifiutare (come Orazio nei confronti di Augusto e Mecenate) più di una volta l’incarico onorevolissimo di fungere da segretario al papa. Nelle “RIME” non esiste mai il nome di Francesco Petrarca, ma in compenso il pronome “io” (assieme al possessivo “mio”) la fan da padroni: Laura non è al centro della ispirazione, la quale fa capo, invece, alla volubile oscillazione degli stati d’animo dell’autore. Esiste una composizione del Canzoniere senza il pronome di prima persona singolare, soggetto o complemento (o l’aggettivo possessivo corrispondente)? La sua emotività si anima non pensando a Laura ed alle sue vicende , ma al proprio godere e soffrire, dubbiare e tormentarsi per l’amore di lei. Il CANZONIERE è il diario dei sentimenti di un adolescente di genio, che  si trova a suo agio nella gabbia del suo “egotismo”, cioè nel piccolo mondo della propria vita psicologica, sentimentale.

Tale clausura segna dunque i limiti della ispirazione petrarchesca, ma anche del suo stile. Difatti il suo “personalismo ad ogni costo” lo porta a reinventare tutto da sè. Egli, con orgoglio raffinato, confida al Boccaccio di aver ritardato la lettura di Dante per non diventarne succube e debitore (“Familiari”, 21, 15)[28]. Ma se egli poco deve agli altri, a loro volta noi non siamo debitori verso di lui di quasi nessun neologismo: egli non è inventore di vocaboli. Semmai, di immagini. In campo amoroso risalgono al Petrarca le figure dell’amore-sole-fiamma-fuoco-fenice-tesoro, che subentrano a quelle della donna-angelo-stella-miracolo, introdotte dal Dolcestilnovo. Comuni restano alcune espressioni: l’amore che è vita e morte, tormento e delizia dell’innamorato...

In genere, però, il vocabolario resta povero: le ripetizioni sono frequenti. Accanto a quelle già citate della “cara nemica”, ecco il corpo, che vine detto “terreno incarco”, “terrena soma”, “fascio antico”. Ed ecco la morte chiamata “il passo estremo”, “il giorno estremo”, “il dubbioso passo”. Dal Sapegno riportiamo alcune parole ricorrenti e caratterizzanti il poeta: errore, vaneggiare, pentirsi, fatica, tregua, pace. Sono “parole-senhal” o “parole-icona” del suo animo e della sua poesia.[29]

            Accanto alla universalità del fenomeno amoroso (ed alla simpatia-compassione per il suo  povero-grande protagonista), questa della facilità della sua espressione fu certo una concausa della fortuna strepitosa ed immediata delle Rime petrarchesche. Certo che, prima che per queste note di usualità degli affetti e della elementarità del linguaggio, l’invito giungeva dal fascino delle grandi poesie ricordate e delle moltissime, liricamente discrete o sufficienti, che non abbiamo segnalate. Ma anche l’apparente abbordabilità del verseggiare ed esprimersi del poeta di Valchiusa dovettero illudere non pochi adolescenti e aspiranti poeti, che di fatto fin dentro il Millesettecento tentarono di ripetere il miracolo di una espressione dolce e raffinata, semplice ed elegante, confidenziale e suggestiva. Una visione a volo d’uccello della FORTUNA del Petrarca tentiamo di schizzarla qui di seguito.

 

                        LA FORTUNA DEL PETRARCA

 

Sarà bene distinguere tra la “fortuna” del Petrarca come poeta (praticamente: imitazioni, riecheggiamenti delle RIME) e la “fortuna” come “umanista”, cioè come maestro di studi filologici, come promotore di una rinascimentale visione storiografica, come sollecitatore  in genere dello spirito rinascimentale.

 

La fortuna delle RIME VOLGARI (Canzoniere).

Durante la sua vita e dopo morte, Petrarca divenne punto di riferimento per molti poeti in volgare. Le sue “Rime”, lui vivente, erano molto più note che non il poema “Africa”, mai giunto a conclusione e pubblicazione. Anzi,  nel Millecinquecento, nasce il “Petrarchismo”, che è il fenomeno particolarissimo per cui (auspice Pietro Bembo) il Petrarca diviene il “modello unico” per la poesia in volgare italico,  l’autore classico  da imitare, come Boccaccio lo doveva essere per la prosa e Cicerone lo era (da Lorenzo Valla in poi) per la prosa latina. In Francia, Inghilterra e Spagna, la imitazione, pur senza tale ipoteca  di monopolio e di lingua nazionale, divenne diffusissima, abnorme.

Ma al principio nessuno pensò ad imitarne il personalissimo motivo ispiratore di fondo, che appariva una situazione privata ed intima: quella di amante respinto e, perciò, davvero sofferente. Perciò nel secolo XIV la “fortuna” del Canzoniere fu soprattutto espressiva o tecnica, non tematica o contenutistica. Si tenta di riprodurne la scorrevolezza musicale, la dolcezza cattivante. Fra questi imitatori stanno Sennuccio Del Bene, Boccaccio, Buonaccorso da Montemagno il vecchio, Cino Rinuccini. Ancora nella seconda metà del Millequattrocento, l’influsso del Petrarca sui poeti fiorentini  (Lorenzo de’ Medici ed Angelo Poliziano) rimane entro tali limiti. A ciò avrà contribuito anche Leonado Bruni (Arezzo 1370- Firenze 1444),, coi suoi “Diaologi ad Petrum Histrum” (1401-6: Dialoghi a Pier Paolo Vergerio il vecchio). Egli, infatti, come non  scorge un contrasto tra la fiorentinità di Dante e l’Umanesimo classicheggiante, così dissipa l’opposizione fra le Rime volgari  e le opere latine del Petrarca. In questa visione armonizzatrice, non vi è posto per un’esaltazione  dell’uno o dell’altro fra i due poeti; nè per un’infatuazione della vicenda d’amore e dello stile (ora  raffinatamente dolce,  ora spiritosamente contrappuntistico) del Petrarca.

Ma, fuori Toscana, l’imitazione comincia ad abbracciare anche la tematica,  sia in Matteo Maria Boiardo (Amorum libri) che  in Jacopo Sannazaro (Sonetti e canzoni). Sono questi due i migliori imitatori: uno del centro-nord della Penisola; l’altro, del regno di Napoli. Accanto a loro si distingue Giusto de’Conti (di Roma città o della provincia) che, ne “La bella mano”  (1440), segue da vicino il poeta di Valchiusa con 150 composizioni, tutte in lode della mano della sua donna! La “maniera petrarchesca” diviene una mania nei poeti cortigiani (G. Visconti, Niccolò da Correggio, Panfilo Sasso, A. Braccesi, M. Malatesti...). Il risultato però nel complesso è deludente: si finisce per imitarne la tecnica di contrapposizione, l’intellettualsimo dei concettini,  e per peggiorare il maestro in metafore strampalate: siamo al Tebaldeo (Antonio Tebaldi, di Ferrara: 1463-1537) e a Serafino  de’ Ciminelli, detto l’Aquilano, dalla città natale (1466-1500): è quest’ultimo (che era poeta improvvisatore e musicava i suoi versi), a ribadire in senso peggiorativo il magistero del Petrarca a livello europeo. Nel Sud dell’Italia vi sono, però, altri petrarcheggianti che imitano, senza fare del Canzoniere un repertorio di formule presecentiste: stanno ad un linguaggio più immediato e cercano di esprimere una sensibilità più consona con l’argomento amoroso (fra elegiaca ed idillio, tra vagheggiamento e rimpianto). Fra essi vi è il Cariteo (Benedetto Gareth, nativo di Barcellona:1450 ca- 1514), Iacopo De Iennaro, Francesco Galeota, Giovan Francesco Caracciolo (1437 ca- dopo il 1506: segue il Petrarca fin nella divisione del suo canzoniere, sviluppando particolarmente la lode degli occhi della sua donna; esprime una vena elegiaca discreta), Giovanni Antonio Petrucci (condannato a morte nel 1486, a trent’anni circa, per  essere stato coinvolto nella congiura dei Baroni: compose in carcere 83 sonetti, in cui esprime in stile sobrio e gnomico il dramma della sua fine tragica).

 Nel secolo XVI, culmina il fenomeno del “petrarchismo”, che si spiega in tutte le sue componenti. All’inizio della “moda” troviamo Pietro Bembo, colla edizione del 1501 presso Aldo Manuzio in Venezia. Anzitutto,  dalla “ scienza poetica” rinascimentale, per cui la poesia è soltanto “classica” e lo è perchè imita “modelli di perfezione” precedenti,   si deduce il corollario per la poesia in volgare: anch’essa può diventare “classica”, purchè imiti dei  modelli di perfezione, così che possa elevarsi alla dignità e grandezza della poesia latina e greca (“classicità del volgare”). Ebbene, Petrarca diviene  il modello obbligatorio per la poesia lirica: egli, non Dante, è il poeta da imitare per elevare la lingua volgare a “classicità”, cioè a quella felicità espressiva che la renda degna di sostituire, nella poesia degli Italiani, la lingua latina (P. Bembo: Prose della volgar lingua, 1525).

 In secondo luogo, il Canzoniere diventa un testo esemplare in tutte le sue componenti. Diviene, cioè, una specie di vademecum per la vita sentimentale (e, quindi, pei motivi ispiratori) prima che di “stile” o tecnica espressiva. Il “Canzoniere”  si presenta, così, come la proposta per un cammino esemplare di amore fedele e solamente  affettivo (platonico) e  per una via di elevazione dall’amore carnale all’amicizia pura  (P. Bembo: “Asolani”, 1505). A questo modo ogni poeta deve inventarsi amori contrastati e crisi di coscienza: il Petrarchismo non è solo paradigma poetico, ma canone di vita sociale. Su tali concetti insistono i commentari  che, dopo l’edizione “aldina” del Bembo[30], scrivono Alessandro Vellutello (1525), Giovan Andrea Gesualdo (la sua edizione commentata ebbe nove  ristampe fra il 1533 e il 1581) e Bernardino Daniello (lucchese, morto nel 1565: fedele alle idee del Bembo sia nella sua “Poetica” del 1536 che nel commento al Canzoniere del 1541, fu il più esplicito sostenitore della sublimità della poesia del Petrarca, non iferiore ad alcuno dei grandi lirici di Grecia o di Roma, Orazio compreso!). Il Vellutello accompagnò l’edizione commentata con una vita del Petrarca, frutto di una disanima   di tutti i suoi scritti  e di ricerche condotte in Valchiusa per scoprire la identità di Laura. Meno critici, ma apportatori di altre notizie attendibili sono le vite scritte dal Gesualdo e da Lodovico Beccadelli (quest’ultimo si domostra, invece, dotato di un acuto senso critico nell’additare i motivi della felicità dello stile petarchesco, cioè il rapporto fra tecnica e lirsmo). Trascurando altri commenti  solo parziali, ma pure interessanti, vogliamo ricordare l’ultimo dei grandi commentatori del Millecinquecento: Ludovico Castelvetro, le cui “note” furono pubblicate postume nel 1582.

  Ma se il “petrarchismo” diede frutti critici notevoli, invece la finzione che sta alla base  della  “moda di petrarcheggiare” sul tema obbligato dell’amore non corrisposto, concorre al fallimento estetico delle composizioni  sia del Bembo che dei petrarchisti più ligi ai suoi princìpi. La più stretta ortodossia   la si trova  nei rimatori veneti, conterranei e magari amici personali del Bembo, il teorizzatore: Trifon Gabriele (1470 ca-1549), Bernardo Cappello (1498-1565), Antonio Brocardo (1500 ca-1531:dapprima fedelissimo al “bembismo” se ne staccò poi clamorosamente, senza che di questo voltafaccia rimanga però traccia nel suo breve canzoniere). Con Claudio Tolomei, senese (1492-1556) inizia un atteggiamento più indipendente, che punta sul ricupero della classicità fino alla teorizzazione di “metri barbari”, cioè fondati sulla quantità delle sillabe, come in latino e greco, pur risentendo della moda petrarchesca. Giovanni Guidiccioni (lucchese:1500-1541) pur  petrarcheggiando, riesce meglio quando esprime con  sentita partecipazione le sventure d’Italia. Francesco Beccuti (detto il Coppetta: 1509-53) cresce dalla tradizione popolare quattrocentesca   alla compostezza classica di stampo petrarchesco,  senza rifiutare però la vena scherzosa del Berni o gli argomenti religiosi e politici. Il fiorentino Giovan Battista Strozzi (il vecchio: 1505-1571) tenta l’atteggiamento bembesco di un petrarchismo serio e raffinato, ma le cose migliori sono i congeniali madrigali, numerosissimi e notevoli per la musicalità raffinata.  I poeti dell’Italia meridionale risentono del petrarchismo, ma filtrato dal Sannazaro e accentuando il realismo e le componenti visive (Luigi Tansillo:1510-68; Bernardino Rota –1508-75). In Angelo Di Costanzo (1507-91) la musicalità diviene drammatica e, concorde con la chiarezza e la logica dei concetti, ora assume il tono epigrammatico, gnomico, sentenzioso; ora approda al contrasto concettista,  che è però non gioco e arbitrio, ma sofisticata razionalità di distinzioni e quasi un sillogismo in versi (Foscolo: in lui “l’arte dei sillogismi in sonetti giunse alla perfezione”). Le poetesse del Millecinquecento, pur nella sincerità di alcuni movimenti di cuore (avremo modo di incontrare la breve, tormentata esistenza della padovana Gambara Stampa: 1523-1554; ancora più tragica la vita di Isabella di Morra, uccisa dai fratelli con l’amante a ventotto anni nel 1548: il petrarchismo del suo piccolo canzoniere sorprende per la riflessività e l’accoramento ), rientrano tutte nel “sistema bembesco”,  chi accentuando gli elementi e dottrinari e religiosi (Vittoria Colonna: 1490-1547); chi gli argomenti discorsivi della vita elegante e mondana (Veronica Gambara: 1485- 1550; Laura Battiferri: 1523-89); chi quelli della vita politica e morale (Laura Terracina); chi, infine, quelli di un amore  appassionato, ma furtivo per un giovane che morirà assassinato (Chiara Matraini: 1514- dopo il 1597).

Contro questo gregario petrarcheggiare, insorgono malevoli gli “antipetrarchisti”, come Francesco Berni, Pietro Aretino, Teofilo Folengo, Niccolò Franco e Cornelio Castaldi. Ma a segnare la fine della moda saranno, invece, i più dotati fra quanti si ritenevano pur fedeli al poeta di Valchiusa. Già Francesco Maria Molza (1489- 1544), benchè non ignori  l’esempio del Petrarca, però celebra molto più realisticamente la bellezza di Faustina Maratti sicchè, di fatto, contraddice al magistero del Bembo, mentre risente del Poliziano migliore ed anticipa arditezze barocche. Giovanni Della Casa (1503-56), nelle 64 composizioni delle sue “Rime”, più che sulle vicende amorose, insiste sulla dissonanza della umana esistenza, sulla distanza fra ideale e reale, in una malinconia che trova in alcuni sonetti autobiografici uno dei punti più alti della poesia cinquecentesca prima di Torquato Tasso.  Galeazzo di Tàrsia (1520-1553), temperamente collerico che si fece odiare da molti, tanto che finì assassinato a 33 anni, trasmette ai suoi versi  una sincerità, che sa essere delicatissima se canta l’amore per la moglie Camilla Carafa o per l’amica spirituale Vittoria Colonna (nipote della poetessa), ma sa assumere tonalità forti nelle composizioni di ispirazione politica (per l’Italia  e per Napoli). Del petrarchismo rimane una cornice, vuota di condivisione lirica. Sono questi seguaci con personalità poetica autentica che mettono in crisi il Petrarchisno bembesco: mentre il Tasso padre (Bernardo) declina inutilmente in versi i temi petrarcheschi, il figlio Torquato camminerà su strade tutte sue: abbandonando l’equilibrio  sorprendente tra emozioni e razionalità, che sono il segreto della “misura, armonia, raffinatezza, classicità” dei versi del Petrarca, egli  cede il primato alla componente emozionale, approdando (quando l’estro lo possiede) ad espressioni che  afferrano il lettore molto più nel profondo, lo coinvolgono addirittura in tonalità liriche eccezionali, composite, tanto affascinanti quanto difficili da definire. Egli diviene così, con le oltre duemila liriche, il nuovo “modello poetico”, la sfida per i verseggiatori del Milleseicento italiano. [31]

Ma, nel frattempo, Petrarca era stato conosciuto ed imitato in Francia, Spagna, Inghilterra e Portogallo. In proposito bisogna però distinguere tra l’assimilazione del Petrarca umanista della prosa (lo vedremo fra poco) e il Petrarca lirico del Canzoniere, che qui ci interessa immediatamente. E’ strano a dirsi, ma dapprima furono conosciuti ed imitati gli imitatori del Petrarca: Antonio Tebaldi (detto il Tebaldeo) e, più ancora, Serafino de’ Ciminelli (l’Aquilano) ebbero discepoli in Francia (M. Scève, Ph. Desportes, C. Marot, M. de Saint-Gelais) ed in Inghilterra (Th. Wyatt e H. H. Surrey). Poi, approdò in Francia  il Bembismo e diede origine alla “Pléiade” con Pierre de Ronsard, J. Du Bellay, J.-A. de Bai”f, R. Belleau: a sua volta questo movimento francese estese il suo influsso all’Inghilterra, sicchè Petrarca fu una componente della formazione dei padri del sonetto  elisabettiano (Thomas Watson e Philip Sidney) e della poesia di Thomas Lodge, M. Drayton, Edmund Spenser e William Shakespeare. In Spagna nel sec. XV Petrarca fu imitato direttamente (I.L. de Santillana che compone sonetti “al itàlico modo”), mentre nel Millecinquecento Petrarca è mediato da Jacopo Sannazaro (J. Boscàn Almogàver, che nel 1526 incontra Andrea Navagéro a Granada, dando inizio a nuova stagione poetica; e Garcilaso de la Vega). Il petrarchismo arrivò anche in Portogallo, attraverso F. Sà de Miranda, che, avendo soggiornato tra il 1521 e il 1527  in Italia, lo assorbì direttamente dai nostri  letterati e teorici e potè   avviare  in patria una riforma poetica.

Nel Milleseicento, il Petrarca influisce direttamente sulla lirica civile di Fulvio Testi (1593-1646). Pel resto, si ha un “petrarchismo di ritorno”, dalla “Pléiade” francese (specie Ronsard) alla poesia del ligure Gabriello Chiabrera (Savona, 1552-1638). Anche il Marino e i marinisti, con tutto il loro disprezzo di maestri e di modelli, risentono dell’influsso del Petrarca filtrato attraverso il Tasso ed i petrachisti meridionali: Tansillo, Tàrsia. E, attraverso questi artificiosi imitatori, essi peggiorano le contrapposizioni non irragionevoli del Petrarca e del Tasso, giungendo  al sofisma dei concettini, al ridicolo delle immagini più arbitrarie.

 Coll’Arcadia (1690), la tempesta del malcostume pseudopetrarchesco (cioè, appunto, del barocco letterario) ha fine e fiorisce a Bologna  la seconda scuola petrarchista. Vi è un teorico (Biagio Schiavo, 1675-1750) che diede col “Filatete” (1735) princìpi di ortodossia poetica. E, fra gli arcadi bolognesi, si trova un manipolo di discreti, gentili imitatori del poeta di Valchiusa: Eustachio Manfredi, Ferdinando Antonio Ghedini, i fratelli Giampietro e Francesco Maria Zanotti.

Dopo il Milesettecento, non è più possibile parlare di “petrarchismo” come fenomeno di “scuola”, ma certo il suo influsso non finisce per questo. Ne risente il pur così diverso Vittorio Alfieri e, tanto più, Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. A proposito di quest’ultino, possiamo ricordare che il tema del “Passero solitario” è, inzialmente, un tema petrarchesco (sonetto 353: “Vago augelletto che cantando vai”). D’altronde anche Giosuè Carducci, direttamente dal Petrarca, riprende il motivo (già per altro  inventato dal greco Alceo ed elaborato dal latino Orazio) della nave, come icona della vita umana ( si confronti il sonetto 189 “Passa la nave mia colma d’oblio” con “Juvenilia” 36 e “Rime Nuove”, 48). E se Leopardi ha altri debiti col pur poco stimato Petrarca (“d’amar si riconsiglia” è  già in “Rime” 310), Carducci gli ruba un intero verso dal sonetto 301 (“ben riconosco in voi l’usate forme”) per il suo “Attraversando la maremma toscana

Il Milleottocento (a parte i “grandi”, sopra citati) non fu molto favorevole al Petrarca per più di un motivo. Anzitutto, rispetto a Dante, apparve troppo poco “ patriota” e troppo accomodante coi vari tiranni del suo tempo . Ma ci furono anche altri motivi, oltre quelli politici. Esteticamente, la sua fama risentì del giudizio non entusiasta del Leopardi;  culturalmente in genere (cioè, umanamente), sembrò troppo chiuso in se stesso e troppo poco  disponibile alla vità sociale.

Ma se la “moda” del petrarcheggiare viene superata, resta l’influsso di un poeta che   si imprime facilmente nella memoria dei suoi lettori, sicchè si può sospettare la sua presenza in Baudelaire (sul quale Charles Augustin Saint-Beuve ha scritto che “petrarchizzava sull’orribile”), come in  Giuseppe Ungaretti od Eugenio Montale, in Vincenzo Cardarelli od Umberto Saba. E’ divenuto, cioè, uno dei “classici della poesia italiana”: degni di lettura ripetuta per la bellezza dei risultati; e facile (almeno in apparenza) ad essere imitato od almeno riecheggiato, per la adolescenzialità dei motivi ispiratori (stati d’animo autobiografici, conseguenti al fascino della donna), per la confidenzialità del linguaggio e delle forme  sintattiche, per la dolcezza dei toni lirici, limitati a quelli contemplativi di idillio ed elegia. Ma, cessato il Petrarchismo, sono iniziati gli studi critici sul poeta.

 

            Studi sul Petrarca

Il Milleottocento ci dona studi genialmente intuitivi,  come quello di Foscolo in vari “Saggi sul P.”, fra cui particolarmente importante quello sul “Parallelo fra Dante e Petrarca”; e di Francesco De Sanctis nel “Saggio critico sul Petrarca”.

La scuola storico-filologica, ci ha dato il contributo migliore nel francese Pietro de Nolhac con i suoi due volumi “Pétrarque et l’humanisme” (1907).

Col Millenovecento  ci si preoccupa anzitutto della edizione critica delle opere,  affidata alla Sansoni di Firenze e finanziata dallo stato (edizione nazionale); e ci si è interessati alle “varianti” del manoscritto del Canzoniere, per studiare il gusto e le preferenze espressive del poeta.  Sono così uscite l’Africa (1926: N. Festa), le lettere “Ad Familiares” (1933-42: Vittorio Rossi ed Umberto Bosco), “Rerum memorandarum libri” (1943: Giuseppe Billanovich), De viris illustribus (vol I: 1964: Guido  Martellotti). Di molte altre singole opere esistono ormai edizioni affidabili. D’altronde a Milano nel 1963, a cura di Emilio Bigi e con il commento di E. Da Ponte sono comparse le Opere, mentre a Torino nel 1975, a cura di A. Bufano, le Opere latine. Le “Sine nomine” sono uscite in Germania a cura di P. Piur (Halle, Niemeyer, 1925: altrimenti occorre rifarsi alla “cinquecentina”). Una buona antologia delle opere in versi e di quelle in prosa si trovano nei due volumi della Ricciardi (Milano- Napoli), 1951 e 1955.  Interessante, per gli studi sulle varianti della lingua e del metodo di lavoro nel Petrarca, l’edizione critica  del Codice Vaticano latino 3196, a cura di Angelo Romanò, 1955, col titolo “ Codice degli abbozzi”.

Tra gli studi biografici, segnaliamo A. Foresti: Aneddoti della vita di F. Petrarca- Brescia, Vanini, 1928; Ernest Hatch Wilkins: Vita del P., Milano, Feltrinelli, 1964. Tra l’una e l’altra ci stanno gli studi di Sapegno per il Trecento della Valllardiana; quelli di U. Bosco per l’Utet; di E. Carrara per l’Enciclopedia della Treccani;  di P.G. Ricci, per la Enciclopedia cattolica; di C. Calcaterra per Problemi e orientamenti (editi da Marzorati, Milano).

Per conoscere le fonti ed il mondo culturale del poeta, fondamentale è “Il petrarca letterato” di G. Billanovich, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1947.

Per lo stile, Emilio Bigi: “Dal Petrarca al Leopardi: studi di stilistica storica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954; Gianfranco Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del P. volgare, Firenze,  Sansoni, 1943.

Ancora utili alcune opere su aspetti più particolari: Angelo Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo XVI (Milano, Vallardi, 1904); P.P. Gerosa, L’umanesimo agostiniano del P., Torino, SEI, 1927; H. Hauvette, Les poésies lyriques de Pétrarque, Paris, 1931; N. Sapegno, Il P. e l’umanesimo, in Annali della cattedra petrarchesca, VIII (1938); Carlo Calcaterra, Nella selva del P., Bologna, Cappelli, 1942; G. Toffanin, L’Umanesimo italiano  dal XIV al XVI secolo, Bologna, Zanichelli, 1952; Ettore Bonora, Classici italiani nella storia della critica, Firenze, Nuova Italia, 1954.

 

 

 

 

 

 

            La fortuna del Petrarca umanista        

La prima fama ed il primo influsso del Petrarca,  (almeno fuori d’Italia), è quella dell’umanista: Johan Huizinga attesta che “Il Petrarca era stato per i suoi contemporanei soprattutto un Erasmo –avant lettre-, un autore versatile ed elegante di trattati sulla morale e sulla vita, un epistolografo, il romantico dell’Antichità coi suoi De viris illustribus e Rerum memorandarum libri IV.”(L’autunno del Medio Evo”, 1919, c. 22 “L’avvento della nuova forma”). Come umanista egli ha avuto subito una risonanza forse ancora più vasta della sua poesia. Basta contare i suoi amici e discepoli. Cominciamo da quelli che gli premuoiono.

Dionigi da Borgo San Sepolcro, conosciuto a Parigi nel 1333, è il donatore della copia delle Confessioni di Agostino; fatto vescovo di Monopoli e vissuto presso re Roberto di Napoli, muore nello stesso anno che costui (1342). A lui è diretta la lettera delle Familiari, IV, 1. Guido Setti, compagno di studi del Petrarca, poi arcivescovo di Genova, morto nel 1367 (a lui è diretta la Familiari,IV, 2). Mons. Giacomo e card. Giovanni Colonna, figli di Stefano, nobile romano: entrambi conosciuti ad Avignone (e suoi mecenati fino alla adesone del poeta a Cola di Rienzo), muoiono rispettivamente nel 1341 e1348. Varie le lettere indirizzate a loro: importante la Familiari II, 9, sulla realtà del suo amore per Laura. Lello Tosetti di Pietro Stefani, conosciuto in Guascogna, al seguito di Giacomo Colonna: era vescovo di Lombez e fu da lui soprannominato Lelio, a ricordo degli omonimi amici dei due Scipioni (l’Africano e l’Emiliano); premorì anche lui al poeta. Ludovico Santo di Campinia, fiammingo, conosciuto nell’ambito delle amicizie di Giacomo Colonna, fu da lui chiamato “Socrate” per la sua serenità inalterabile: a lui dedicò i 24 libri  Rerum familiarium (le “Lettere familiari”). Morì nel 1361. Padre Francesco Nelli, priore della chiesa fiorentina dei SS. Apostoli, fu conosciuto dal Petrarca nel 1350, quando passò dalla città: lo chiamò “Simonide” e gli dedicò le Senili. Morì di peste nel 1363. Zanobi da Strada, maestro celebrato di grammatica e retorica in Firenze, chiamato a Napoli dall’Acciaioli che se ne servì nella corrispondenza ed uffici delicati del governo; fu coronato poeta dall’imperatore Carlo IV, nel 1355 (il che pare non giovasse all’amicizia col Petrarca): morì nel 1361. Mons. Filippo di Cabassoles, vescovo di Cavaillon, da cui dipendeva Valchiusa e, quindi, giuridicamente, il Petrarca. Muore nel 1372, fatto cadinale da Urbano V. Conosciutolo nel 1337, gli si legò di amicizia duratura, con varie lettere di corrispondenza. Vi è anche un Mainardo Accursio, morto di peste nel 1348. Sennuccio del Bene, che muore per la stessa causa nello stesso anno a Firenze, aveva ricevuto le confidenze del poeta circa le sue miserabili condizioni psicologiche: ora ne piange la morte col sonetto 287 (“Sennuccio mio, ben che doglioso e solo”). Franceschino degli Albizzi, amico e parente fiorentino, anche lui morto nel 1348. Tralasciando gli amici-protettori (Azzo da Correggio, in Parma; Jacopo e Francesco da Carrara in Padova; Roberto d’Angiò in Napoli; Giovanni Visconti, vescovo di Milano...), ricordiamo invece la figura patetica dell’orefice Enrico Capra di Bergamo, che abbandona il lavoro per darsi agli studi, dopo aver ospitato il poeta in casa sua!

Dopo la sua morte, troviamo costituiti due gruppi di suoi eredi-studiosi: uno, a Padova; l’altro, a Firenze.

Padova, dove c’erano i suoi manoscritti,  predomina nell’opera di fissazione-divulgazione delle  sue opere. Lombardo della Seta, amico e discepolo del poeta, completò addirittura il De viris illustribus con le biografie da Augusto a Traiano (Petrarca si era fermato a Cesare); e finì anche il “compendio” dell’opera, già iniziato dal Petrarca. A Padova, tra il 1378 e il 1379 approda il frate francescano Tedaldo della Chiesa, che ricopiò con somma diligenza e chiarezza i manoscritti del poeta.

A Firenze vi è il Boccaccio, che ha influito sul “dantismo” del Petrarca e ne ha ricevuto influssi umanistici. Difatti le sue ultime opere sono in latino e tendono a completare il Petrarca (ad esempio,  scrivendo un De claris mulieribus in parallelo al De viris illustribus) o ad imitarlo (il Bucolicon carmen; il De casibus virorum illustrium, che fa pendant al De remediis utriusque fortunae) od a proseguirlo (De genealogiis deorum gentilium e De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris) con uno zelo per il ricupero  di nozioni sull’antichità greco-romana che fa tenerezza, ma che resta erudizione senza la coscienza del rapporto di tale ricupero nei confronti della civiltà cristiana, cui era (a modo suo, cioè superficialmente) ritornato dopo il 1350. 

A Firenze finisce la sua operosità Giovanni Malpaghini da Ravenna: era stato   dal 1364 al 1368 segretario ed amanuense del Petrarca, che lo definì “generosae indolis adolescens” (Familiari, XXXIII, 19). Per  Petrarca egli ordinò e trascrisse  le lettere “ad Familiares” e parte delle “Rime” (ora nel codice vaticano 1368).  A Firenze, come docente dello “Studio”,  ebbe come allievi il Bruni, il Bracciolini, il Marsuppini. Amico del poeta fu anche il canonico Lapo da Castiglionchio, giurista ecclesiastico e  letterato: era toscano e  morirà a Roma nel 1381, al servizio del papa come avvocato concistoriale, ma ritrovò e fece conoscere al Petrarca le Institutiones oratoriae di Quintiliano, nonchè l’orazione Pro Milone e le Philippicae di Cicerone. Naturalmente vi sono uomini come Luigi Marsili e Coluccio Salutati che furono i principali continuatori dell’opera umanistica del Petrarca. Da entrambi dipendono Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. Anche Pier Paolo Vergerio il vecchio  (1370-1444) fu amico del Salutati ed a Firenze trovò la via per apprendere il greco, insegnato nello “Studio” da Emanuele Crisolora dal 1397 al 1400, per interessamento dello stesso Salutati. Fu il Vergerio a procurare un’edizione completa di quanto il Petrarca aveva scritto del poema “Africa”. A lui il Bruni dedicò i “Dialogi ad Petrum Histrum” (era nato a Capodistria): al seguito dell’imperatore Sigismondo fu in Boemia ed Ungheria, diffondendo lo spirito umanista in Europa. Si interessò dell’ educazione dei giovani, sia attraverso la commedia “Paulus, ad iuvenum mores corrigendos” (Paolo, per la correzione dei costumi dei giovani) sia attraverso il trattato “De ingenuis moribus et liberalibus studiis” (ca. 1400), opera che ebbe larga circolazione in Europa e meritò di essere studiata e postillata dal grande educatore del Millequattrocento, Guarino Veronese. Al Salutati sono legati anche Jacopo Angeli da Scarperia (Firenze) e Roberto de’ Rossi (entrambi studiarono il greco e segnano il diffondersi della conoscenza di tale lingua: il primo infatti si recò a Costantinopoli per apprenderlo; il secondo potè impararlo a Venezia).

Giovanni di Conversino (Buda 1343-Venezia 1408), fece in tempo a divenire amico ed ammiratore del Petrarca, di cui diffuse la fama, nella sua vita alternata tra la professione di cancelliere e quella d’insegnante; e nell’opera “Rationarium vitae” (Rendiconto della propria vita, cioè autobiografia). Fu maestro a Pier Paolo Vergerio ed a Francesco Barbaro: quest’ultimo, vissuto fra il 1390 e il 1454, fu uomo politico veneziano, allievo anche di Gasparino Barzizza e del già citato Guarino de’ Guarini ( G. Veronese) e autore di un trattato in latino sul matrimonio (De re uxoria).

Va ricordato qui anche Giovanni Gherardi da Prato, poeta e narratore (1367-1446 ca): benchè non sicuramente, tuttavia gli si attribuisce un’opera giunta noi adespota, mutila e senza titolo, che il filologo e critico letterario russo Alessandro Wesselofsky ha pubblicata col titolo “Il Paradiso degli Alberti”: nella seconda parte rievoca i ritrovi ed i conversari nella villa di Antonio Alberti, dove convengono i più dotti fiorentini, fra cui gli umanisti Coluccio Salutati, Luigi Marsili e il musicista cieco Francesco Landini (detto “degli Organi”: 1325-1397).

                                                                                                           

                                                                                     Eleno Vergili.


[1] Sarà il poeta a prefrire definitivamente la forma più elegante di “Petrarca” (arca di pietra) come cognome, forma già quasi perfezionata in un documento del 1312 (Patrarca) dall’orginale “Petracco”. Il bisnonno, il notaio Garzo dell’Incisa, ha lasciato quattro composizioni in un laudario di Cortona.

[2] “Beneficio ecclesiastico” era il diritto sulle rendite di beni (immobili, solitamente: terreni o case, che potevano in casi estremi equivalere ad un feudo) appartenenti alla Chiesa (diocesi, parrocchie, abbazie... All’origine, tali “benefìci” erano assegnati solo  a chi esercitava un certo lavoro pastorale legato a quelle rendite; col tempo,  molti beneficiari potevano incassare tutte o (più solitamente) parte delle rendite senza alcun obbligo di residenza e di lavoro ministeriale.

[3] Il libro dele Confessioni gli era stato donato dall’agostiniano Dionigi di Borgo San Donnino: lo donerà a sua volta all’agostiniano Luigi Marsili.

[4] Altre opere minori  sono la guida per la visita della Palestina (Itinerarium breve de Janua –Genova- ad Jerusalem et terram sanctam; Itinerarium syriacum); alcune altre invettive: “Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientiae aut virtutis” (1355: contro il card. Jean de Caraman); “Invectiva contra eum qui maledixit Italiae (“maledixit” = parlar male, sparlare: è contro il monco Jean de Hesdin, che vorrebbe perpetuare la residenza del papato ad Avignone ed ostacola il ritorno a Roma); il “Discorso per la incoronazione”:.. Cfr. A. Hortis, Scritti inediti di F. P., Trieste, Tipografia del Lloyd, 1874. 

[5] Si noti che quella dei Trionfi è la stessa problematica “esistenziale” che affiorerà nei Sepolcri del Foscolo: ma è risolta alla luce della fede. Qui la “forza operosa” che “affatica| di moto in moto l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel”  non è il tempo caotico o casuale, ma è la Provvidenza sapiente e benefica di Dio, che sa ricavare la vita anche dalla morte.

[6] Si veda questa nota in N. Sapegno, Il trecento, Fr. Vallardi, pp. 219-20.

[7] Si noti che il temperamento “distonico vagoprevalente” è disponibile di per sè più alla gioia che alla tristezza: ma si tratta di inclinazioni su cui i fattori ambientali possono ben influire.

[8] Questo non significa che le opere latine non siano connesse alla poesia del Petrarca: come giustamente osserva Sapegno sia nella Vallardiana, Il Trecento, pp.244-62 che nella Garzantiana 1976, pp. 206-15, molti spunti ideali delle Rime o Canzoniere si ritrovano  nel suo Epistolario od in altre prose.

[9] Si pensi al differente atteggiamento di Dante, che relega al Limbo dei non battezzati Averroè, concendogli l’onore delle armi col definirlo colui “che il gran commento feo” (che fece il  grande commento ad Aristotele: Inf. IV, 144).

[10]Filologia” è per sè “amore per la parola” (scritta), cioè ricerca, ricostruzione (attraverso collazione o confronto di vari manoscritti od edizioni a stampa della stessa opera) della “lezione originaria” e,  come ideale utopico, della “copia identica all’autografo” del testo esaminato.  Ulteriori aspetti della filologia sarà il gusto di possedere l’opera attraverso copiature e diffusione; e il bisogno di saaper scrivere adeguatamente secondo il modello degli autori amati. Ma la “Filologia umanistica rinascimentale” è qualcosa di più ancora: è amore per determinate opere (antiche, greche e latine specialmente) che contengono la testimonianza di una civiltà, caduta in oblio in troppe sue parti durante le invasioni barbariche e la  disinformazione ad esse conseguita. L’umanesimo filologico rinascimentale contiene già come precursore psicologico l’umanesimo storiografico ed ideologico: stima, fiducia, amore per la cultura di società non cristiane e per la loro storia.

[11] Si veda in proposito quanto con quanto N. Sapegno afferma nel Compendio di St. d. Lett: it:, Firenze, La Nuova Italia,1963, pp. 189-90: “La novità di questo classicismo petrarchesco, non pur rispetto a quello della tradizione medioevale, sì anche rispetto ai tentativi dei preumanisti,.... consiste tutta in una consapevolezza più chiara e piena del distacco fra la cultura antica e quella contemporanea...”.

[12] Il paragone è in Bernardo di Chartres, del sec. XI e l’abbiamo trovato nel manuale di Storia della Lett. it. di M. Puppo e F. Montanari, Torino, SEI, I, p. 11.

 

[13] Egli due volte cita la “aniculam sine litteris” (vecchietta analfabeta) per preferirla allo stesso Aristotele (“che con le sue cinque sillabe solletica tanti insipienti”). Dapprima non esita ad accettare il paragone di se stesso con tale  poveretta,  perchè la comune devozione è garanzia di religione, cui è legata la sapienza: “Rideranno, non dubito, a sentire certe cose, e diranno che io faccio discorsi devoti, come una qualsiasi vecchierella senza cultura. In realtà per costoro, che sono tronfi di intellettualità, non c’è cosa più trascurabile della devozione; ma per i veri sapienti e per chi ha cultura e modestia non c’è nulla di più caro. Per questi ultimi è scritto:-religione è sapienza-” (Prose, ed. Ricciardi, pp. 718-9). Una pagina dopo, egli afferma ancora la superiorità del cristiano più semplice rispetto ad Aristotele, perchè questi ignora la vera felicità e più felice di lui e dei suoi seguaci sono la vecchierella devota, il pio agricoltore, il fedele pescatore.

[14] Nella seconda metà del secolo ventesimo, il problema della possibilità di delineare intellettualmente una legge morale a validità universale al di fuori della fede cristiana (o, comunque, di una “rivelazione religiosa”) si è andato imponendo, di fronte a due fenomeni nuovi: a) la deriva delle masse lontano dalla fede e, quindi, anche dalla fede nel decalogo e nella legge morale “rivelata” da Dio in Mosè e in Cristo Signore; b) il disorientamento conseguente, lontano dalla morale pubblica, della legislazione stessa (aborto, omosessualità, divorzio, diffusione della droga, rispetto ed obbedienza a genitori-insegnanti-autorità civili...). Ne è  risultato che la situazione di disorientamento e sbando sociale  venuto in voga ha messo dubbi nella  mente anche a quegli immanentisti, razionalisti, neoilluministi che, pur alieni dalle assurdità marxiane, nietzschiane e freudiane, si erano convinti che ognuno ha la sua coscienza e che solo quella costituisca, per ciascuno, legge morale. Essi, specie dopo il trionfo della televisione (anni Millenovecentosessanta), han cominciato a notare che lo stesso tessuto sociale non resiteva più, per la dissoluzione in atto delle famiglie e di ogni criterio di onestà oggettiva. Prima, a predicare come fondamento ultimo della morale la “ coscienza”  (che significa, poi, non la legge  morale, ma la sua conoscenza!) erano un gruppetto minoritario di atei o malcredenti, i cui dogmi liberatri, nella prassi della società concreta, erano contenuti e surrogati dalla fedeltà delle masse alla oggettività del decalogo o  di principi naturali fissati sulla falsariga di quello, sicchè il danno tragico del soggettivismo etico era tollerabile o addirittura invisibile. Di una moralità oggettiva e “valida per tutti” pareva si potesse far a meno e non doversene parlare...La sua importanza radicale è stata rivelata dalle conseguenze scardinatrici della sua assenza.

[15] Diamo qui la traduzione, in ordine di citazione, ai numerosi passi latini che seguiranno. Dal “De ocio religioso”: “Il Messia, infatti, Signore vero, è già venuto: è lo stesso Cristo”| “Quale dolcissimo spettatcolo vedere Dio rivestito della nostra carne e della nostra anima, udirne le parole, guardarne il portamento, notare gli atti di Lui che conversa con gli uomini”| “Il Verbo si è fatto carne...O ineffabile mistero..”| “attraverso il quale vengono fatti salvi”| Egli può salvare: io non posso salvarmi”| la misericordia di Dio sorpassa quella umana”| (osserva) “con quale potente e misericordioso rimedio si sia provveduto a così garnde miseria”| “per la salvezza dell’uomo la divinità, umiliata, si abbassò...”. Dalle “Familiari” : “Avrai pietà, Signore affinchè io sia degno di una Tua ancor maggiore misericordia; senza una Tua gratuita misericordia la miseria umana non può in nessun modo meritare miserciordia”. Dalle “Invectivae”: “La perfetta conoscenza del vero Dio non è (frutto) dello studio umano, ma della Grazia celeste”| “E poichè conosco la mia incapacità (a diventare migliore), chiedo aiuto dal cielo e mi diletto nelle Lettere sacre”.

[16] “Confesso che è difficle superare le insidie della carne, ma contesto che sia impossibile: non tuttavia altrimenti che sia presente (non manchi) l’aiuto divino... Dobbiamo invocare Quell’unico che solo può soccorrere in questa lotta interiore e domestica... Giustamente, dunque, ogni giorno imploriamo: -Apri i miei occhi- , togli cioè il velo  che mi impedisce la vista e la contemplazione delle cose celesti e pel quale sono premuto verso terra... Lodate ed invocate Dio e sarete salvati dai vostri nemici...”

[17] Giuseppe Toffanin, nella sua “Storia dell’Umanesimo”, Zanichelli, 1933, propone una particolare interpretazione dell’Umanesimo: sarebbe il disinteresse per le realtà infraumane (regno della scienza per eccellenza), in favore dell’interesse monotematico per la realtà “uomo”: per il senso della vita, dei valori, della storia, con particolare attenzione a quelle epoche che hanno sviluppato tali dimensione nella cultura (l’Atene di Pericle e la Roma di Cicerone). Benchè in parte vera (Leonardo da Vinci si ritrova proprio come perla isolata nel mondo umanistico-rinascimentale), tuttavia non ha fatto fortuna presso i critici: troppo è più evidente il contrasto tra Cristianesimo ed Umanesimo rinascimentale, che non quello, pur presente, tra scienza e letteratura. D’altronde lo stesso Toffanin, quando giunge all’Illuminismo si trova sconcertato: età certamente umanistica, ma decisamente aperta ad ogni tipo di scienza. Nello schema toffaniniano che nega contrasto nell’Umanesimo rinascimentale col Cristianesimo, questo giro di boa non è spiegabile, mentre è ovvio nella concezione tradizionale della tendenziale opposizione fra gli altri due orizzonti di vita: centralità assoluta di Dio in Cristo redentore, piuttosto che centralità assoluta dlel’uomo, senza Creatore nè Redentore, senza Legge divina o codice morale definitivo; opposizione mediata dalla illusione rinascimentale di poter dirsi cristiani, ignorando la caduta di Adamo, la conseguente concupiscenza e maggior inclinazione dell’uomo al male che al bene.

[18] Se vi è, dunque, un poeta che  aiuta a chiarire come l’essenza della poesia, cioè il lirismo, sono le emozioni pure, prive cioè da ogni aggancio con la praticità dell’istinto o degli stessi sentimenti utilitari dell’animo, questo è Petrarca: le emozioni espresse sono la sublimazione di sentimenti pratici, che sono la tristezza e la gioia umanissime ma praticissime che le vicende alterne di un amore ardente porta con sè. L’amore genera sentimenti pratici (timore di un no, speranza di un sì, dubbio tra i due sentimenti stessi); questi devono sublimare in idillio-elegia, in emozioni elementari, libere da ogni finalismo pratico, per poter essere poesia. Abbiamo dimostrato tutto questo nel già citato “MUSICA IN PAROLE”, Varese, 1983.

[19] Ogni persona sperimenta tali “stati passionali”, ma li traduce in  mimica facciale, in gesti, in comportamenti pratici od in parole    capaci di significare all’interlocutore il proprio stato di agitazione interiore, ma incapaci di rigenerarlo in lui. Come i sentimenti sono affezioni funzionali ad un’operazione pratica (utilitaria: di difesa, offesa, ricerca di simpatia, di aiuto, ecc.), così una espressione, attraverso parole   subordinate al finalismo di quelli, rimane prigioniera degli scopi  da raggiungere ed usa sostanzialmente la “langue” normale,  prosastica, non riuscendo a trovare la “parole” eccezionale, poetica, che è frutto di un atteggiamento distaccato da ogni bersaglio prassico, proiettato unicamente alla trasmissione dello stato emotivo. 

 

[20] I due esempi... non esemplari sono i seguenti. Un aspirante a favori particolari,  supplica pressantemente dei prelati in carrozza di essere raccomandato al papa; anzi chiede se quella mattina si è fatto il suo nome al Pontefice. I  prelati sanno che quel mattino il Santo padre non ha dato udienza; pure uno di loro asserisce imperterrito di averlo visto e di avergli parlato della sua richiesta. Nell’altra lettera, la cosa è più grossa: un cardinale decrepito ha ottenuto per la notte una giovane prostituta, ma questa si è fatta l’idea di una personalità potente, ma anche piacente: trovandosi di fronte ad un rudere di uomo, si mette a piangere; il cardinale è costretto a mettersi le insegne della sua dignità, per farsi tollerare dalla povera giovane...

[21] Dante in Par. 4, 1-6 ha così versificato la grottesca situazione: “Intra due cibi, distanti e moventi| d’un modo, pria si morrìa di fame,| che liber uom l’un recasse ai denti;|| sì si starebbe un agno intra due brame| di fieri lupi, igualmente temendo;| sì si starebbe un cane intra due dame”. E’ l’argomentazione detta dell’ “asino di Buridano”.

[22] Ad introdurre questa distinzione è stato il critico inglese Jackson Knight, autore di un prezioso studio su Virgilio (Roman Vergil, Londra 1943: trad. italiana “Virgilio”, Milano, 1949). Egli chiama “omodinici” i versi latini la cui ictazione metrica coincide con l’accentuazione grammaticale; “eterodinici”, quelli in cui l’ictus della metrica non coincide con l’accento della lettura prosastica. I primi offrono una musicalità più favorevole al lirismo contemplativo; i secondi sono più adatti alle tonalità drammatiche.

[23] La distinzione-opposizione è stata introdotta da “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Milano, 1958 Feltrinelli (nelle prime pagine del c. 4: “quel costante raffinarsi di una classe che nel coso di tre generazioni trasforma innocenti cafoni in gentiluomini indifesi”)

[24] Ecco i parametri della metrica usata nel Canzoniere o Rime (366 composizioni, di cui 263 in vita e 103 in morte di Madonna Laura): 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali.

[25] Non va dimenticato che lo stato di salute|malattia a livello neurologico non è dato da uno stato disequilibrato di una sola parte o funzione  del cervello (ad esempio, da un eccessiva  attività dei centri sottocorticali dell’ipotalamo, detti anche centri   neurovegetativi), ma dal rapporto fra (almeno) due funzioni o parti del cervello stesso, cioè dalla forza di controllo dei centri della coscienza (zona di Wernicke, principalmente) e forza sobillatrice dei centri del simpatico e del vago, cioè dei centri ipotalamici prima nominati. La nevrosi è certo uno stato di iperattività (di infiammazione) dei centri neurovegetativi,  ma che essa giunga a forme di psicosi, questo dipende dal potere inibitore ed organizzatore dei centri della razionalità situati nel lobo temporale dell’emisfero dominante (solitamente, il sinistro). Ancora due cose. Abbiamo detto “almeno due centri “ sono interessati in questo rapporto che rende sani o malati neurologicamente: in realtà subito sopra l’ipotalamo, sta la zona limbica di cui fanno parte vari organi: di essi, almeno l’amigdala ha una funzione inconsciamente inibitrice rispetto alla spinta motrice dei due centri neurovegetativi. Anche il cervelletto, attraverso le cellule stellari, a canestro e di Purkinje esercita una attività selezionatrice delle spinte emozionali.

L’ultima cosa è un dovere di professione di fede culturale: non siamo positivisti e tanto meno materialisti. Quando parliamo di “centri della razionalità” (zona di Wernicke) intendiamo le parti del cerevello che “condizionano, fanno da base necessaria ma non determinante, sono degli strumenti di lavoro per l’anima umana”, che li informa e li usa.

[26] Anche se il Petrarca non fu il primo a giocare su tali contrasti intellettualistici come surrogato dell’ispirazione lirica, egli ne diverrà ben presto il maestro più  immediato ed imitato. Già la tradizione occitanica aveva messo in orbita le “agudeze”, i giochi di parole, che Dante imiterà nella Commedia, specie nel canto di Pier delle Vigne, forse per far parlare l’anima dannata con lo stile artificioso della sua scrittura cancellieresca a servizio di Federico II  (Inf. 13, vv. 25 e 64-72). Petrarca ne farà uso  tra la spontaneità dovuta al temperamento e l’artificio dell’intelletto.  

[27] Ludovico Ariosto porterà all’estremo questo particolare stile, confermando l’assoluta indifferenza alla realtà delle cose, che servono solo per prolungare il motivo musicale che deve riprodurre l’atmosfera di sogno.

[28] Bruno Migliorini (Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960) segnala l’influsso di Cino da Pistoia, provenzalismi di Arnaut Daniello, di cui trascrive anzi un verso (canzone 70, v. 10); vi dununcia un sol francesismo. Natalino Sapegno (Garzantiana, Il Trecento) nota latinismi da Virgilio, Ovidio, Orazio più frequenti nei Trionfi che nel Canzoniere; dantismi rari e per lo più nei Trionfi (Trionfo d’amore, vv. 5-6: Paolo e Francesca in Inferno, 5; forse Purgatorio, cc. 30-31: il colloquio fra Laura e il poeta, in Rime 359, arieggia quello fra Beatrice e Dante?).

[29] Dal Migliorini riportiamo una interessante nota stilistica che rimanda alla insoddisfazione e  perfezionismo che son propri di ogni individuo nervoso: alla povertà di vocabolario,  fan riscontro le correzioni ed i miglioramenti della grafia, senza che alcuna, spesso, diventi definitiva: fera e fiera| tesoro e tesauro| proprio e propio| buono e bono| begli occhi e belli occhi; e “fenestra, condutto, impio” accanto ai  regolari “finestra, condotto, empio”, che ha finito per cancellare!

[30] Il Bembo non riuscì ad usare per la edizione del 1501 l’autografo del Petrarca, che scoprì in seguito e comprò e che ora è il codice Vat. lat. 3195. Ma la sua edizione fu così  diligente che segnò l’inizio pel trionfo del poeta. Lo stesso Bembo non solo offrì interpretazioni e commenti  su varie poesie del Petrarca nella sua opera “Prose della volgar lingua”, ma postillò una copia delle “Rime” petrarchesche forse in vista di una edizione. Le “postille” furono ricopiate da altri in una  copia di ristampa aldina del 1521 e certificano della competenza del Bembo sia nei rimandi dalle Rime ai Trionfi, sia nella conoscenza delle opere del Trecento fiorentino (Dante e Boccaccio, soprattutto), sia delle fonti classiche, di quelle del provenzale e della poesia del Duecento italiano. Per “I Commenti petrarcheschi” nel Millecinquecento, seguiamo Ettore Bonora, nel capitolo così intitolato nella “Storia” della Garzanti,  volume IV –Il Cinquecento-.

[31] Il Tasso riecheggia, per altro, il Petrarca anche nel poema. Si confronti Gerusalemme liberata, II,  strofe 16 e 96 con “Canzoniere”,  210 e164; e c. XIII, 80, con il Trionfo della Fama, II, 67-9. Il Bembo imita più da vicino  i sonetti 70, 118, 134 del Petrarca, tutti (ahimè!) preconcettisti.  Dopo che il Bembo curò l’edizione a stampa del canzoniere nel 1501, per i tipi di Aldo Manuzio in Venezia, si prese coscienza della funzione artistica della coincidenza (o meno) del periodo logico col periodo ritmico, cioè del finire o meno di un concetto (frase o periodo) nella misura del verso: lo spezzarsi  della frase tra due versi fu chiamata “inarcatura”.

 

11/07/01Ultima modifica il .
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