Don Marcello De Grandi
|
FRANCESCO
PETRARCA (Arezzo 1304- Arqua’ 1374) I GIORNI E LE OPERE. I)
I GIORNI. 1304:
nasce ad Arezzo da ser Petraccolo ed Eletta Canigiani, fiorentini, esuli perchè
di parte Bianca come Dante.[1] 1312:
il padre, notaio, si reca ad Avignone per impiegarsi presso la curia papale. Si
stabiliscono a Carpentras, per penuria di alloggi in città. 1316-26:
E’ inviato a studiare, prima, a Montepellier; poi, dal 1320, a Bologna, per
seguire la carriera giuridica, come il padre. Ma il giovane preferisce leggere
poeti e abbandonarsi ai facili piaceri sensuali (lettera del 1345|9 al fratello
Gherardo: Familiari, X, 3). Non arriverà mai alla laurea. 1326:
muore il padre ed egli deve trovarsi una sistemazione economica. Torna ad
Avignone; prende gli ordini
ecclesiastici minori, che lo abilitano al godimento di rendite su benefìci ma
anche con l’impegno al celibato, sia pure non definitivo.[2]
Tale decisione, dettata da mire interessate ad una sistemazione di comodo e non
da ideali di vita evangelica e di impegno pastorale a servizio
della Chiesa, costituirà forse
l’errore più grave di tutta la sua esistenza. Decìsosi al celibato senza
vocazione, egli oscillerà fra una vita affettivamente e sensualmente
capricciosa e le proteste
di una coscienza sinceramente
cristiana. 1327:
il 6 di aprile, venerdì santo, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, incontra Laura e se ne innamora
appassionatamente. Ma essa (una de Noves, sposata ad Ugo de Sade?) costituisce
col suo rifiuto un’altra sorgente di sofferenza inconsolabile per il poeta.
Prosegue intanto la sua formazione
letteraria, che privilegia i latini fino ad escludere Dante. 1330:
entra al servizio della famiglia Colonna: Giacomo, vescovo di Lombez ed il
cardinale Giovanni. 1332-7:
visita Francia, Germania, Fiandre e Italia (forse anche Spagna e Inghilterra). A
Liegi trascrive nel 1333 due orazioni (fra cui la “Pro Archia”) di Cicerone.
A Roma rimane ammirato di fronte alle rovine grandiose dell’antichità
classica. 1337:
ritorna ad Avignone, ma per ritirarsi in Valchiusa, alle sorgenti del Sorga.
Laura, la sua “cara nemica” lo affascina sempre più. Quella valle di
Provenza sarà – affettivamente-
la sua residenza fino alla morte di lei, nel 1348. Il suo servizio presso i
Colonna non è gravoso nè molto impegnativo: è una forma di amicizia onorifica
e ben retribuita. 1341:
per la fama procuratagli dal poema latino “Africa” gli viene tributata
l’incoronazione poetica in Campidoglio, dopo essere stato esaminato a Napoli
dal dotto re Roberto d’Angiò. 1342-3:
il fratello Gherardo, vissuto frivolo e mondano come il poeta alla curia di Avignone, se ne stacca e si fa monaco
alla certosa di Montrieux. La crisi del fratello era iniziata, quando morì la
donna cui era legato. Francesco,
che già dopo la lettura delle Confessioni di S. Agostino (1333)[3],
ha cominciato ad avvertire il
pungolo della coscienza che protestava contro la incoerente sua vita, ma non si è saputo liberare da relazioni amorose
varie (anzi ne ha avuto un figlio, Giovanni, nel 1337; ed una figlia, Francesca,
nel 1343), ora sente moltiplicarsi i rimorsi, i propositi, il bisogno di
spiritualità e di preghiera. E, se non dal
legame dell’affetto (amerà Laura anche morta), si libererà gradualmente
dalla schiavitù della sensualità. Egli pare
assegnare la data per la
conversione alla castità, al 1350, l’anno del pellegrinaggio giubilare a
Roma. Mai però si staccherà dai comodi materiali, dall’ozio delle
occupazioni e degli studi cari, dalla vanità ed ambizione di fama ed onori.
E’ ciò che nel dialogo “Secretum” ( o meglio: “De secreto conflictu
curarum mearum”: il segreto conflitto delle mie passioni) Sant’Agostino gli
rimprovera, consenziente il poeta, dopo inutili tentativi di giustificazione.
Anche i trattati “De vita solitaria” e “De otio religioso”
(Sulla vita contemplativa dei religosi) nascono dal clima di emulazione
col fratello, che egli visita più volte nel ritiro monastico. E nel frattempo
la cultura cristiana, iniziata con la lettura delle Confessioni di Agostino, si
infittisce sempre più di autori ed opere e gli diviene altrettanto familiare
che quella pagana. 1343-51: Torna in Italia, fra il 1343 e il 1345, ambasciatore del papa alla
corte di Naploi. A Verona, nel 1345, scopre altri testi ciceroniani, fra cui i
primi sedici libri delle Epistole all’amico Attico. Poi torna a Roma, per
partecipare al sucecsso di Cola di Rienzo e al suo tentativo di ridare alla città
una funzione ideale nell’Europa caotica (è iniziata la guerra dei Cento anni
tra Francia e Inghilterra). La simpatia per il trascinatore di folle (che egli saluta come “salvatore del
popolo e castigatore della tirannia”) gli costò il distacco dai Colonna e la
perdita della loro munifica amicizia. Ma, giunto a Genova, apprendeva le notizie
circa la condotta tirannica di Cola e, cessando dall’appoggiarlo, gli scrisse
una lettera di rimprovero. In Italia intanto raccoglieva onori e prebende (cioè
assegnamento di rendite da benefici ecclesiastici): carica e stipendio di
arcidiacono al duomo di Parma, un canonicato a Padova, oltre a quello già
ottenuto nella città di Pisa. Visitava luoghi cari (la casa natale di Arezzo;
poi Roma per il Giubileo del 1350)
e amici (il Boccaccio, Zanobi da Strada a Firenze...). Apprende la notizia della
morte di Laura, avvenuta il 6 aprile 1348, e di altri amici del cuore come il
cardinal Colonna e Sennuccio
del Bene. Assieme alla pestilenza che infestava l’Italia e l’Europa (1348),
alla tristezza della situazione italiana in genere (Roma ancor più squallida
dopo il terremoto del 1349; il tiranno Luchino Visconti insediatosi signore di
Parma; l’amico e protettore Jacopo Carrara assassinato nel 1350 in Padova), la
morte della donna amata avviò il poeta alla
disullusione, ma anche alla serenità laboriosa degli ultimi decenni di
vita. 1351-53:
Decide di ritornare in Valchiusa (1351); poi accetta la ospitalità dei Visconti
a Milano (1353). 1353-61: rientra, dunque, definitivamente in Italia, salutandola dal Moncenisio
con versi latini caldi di commozione. Ospite illustre dell’arcivescovo
Giovanni Visconti fu, all’occorrenza, ambasciatore, estensore di lettere
(anche per la pace tra Genova e Venezia), incaricato di discorsi funebri
elogiativi (per lo stesso Giovanni Visconti, ad esempio) o di esortazioni
politiche a nuovi sudditi (come i Novaresi). Egli dava splendore alla corte e
aveva (nella casetta presso S. Ambrogio, dapprima; poi, nel monastero di San
Simpliciano) agio per gli studi e rifiniture di opere latine: Secretum, De otio religioso, De
vita solitaria, Carmen bucolicum, Epistolae metricae (lettere in versi latini),
Lettere familiari... Qui iniziò pure l’ordinamento delle Rime volgari e qui
iniziò e condusse a buon punto il
De remediis utriusque fortunae” (rimedi per entrambe le fortune: quella
favorevole e quella avversa). Deve sostenere, per altro, critiche e rimproveri
(anche da parte dell’amico Boccaccio), che vedono la sua dipendenza dal
mecenatismo visconteo come un tradimento all’ideale politico della libertà. 1361-74:
lascia Milano, per sfuggire alla pestilenza che si andava diffondendo nella
pianura padana: è ospite a Padova di Giovanni Carrara, figlio dell’amico
Jacopo. Mentre lo raggiunge la notizia della morte del figlio Giovanni (1361),
la figlia Francesca, sposatasi a Milano, veniva a portargli la serenità e la
gioia della famiglia. Ma nel 1362 egli rifugge a Venezia: Padova non è sicura
dalla peste. Abita in riva degli Schiavoni, in una casa concessagli dal Senato
in cambio della eredità alla ricca biblioteca di manoscritti. La figlia e il
genero vennero ad abitare con lui. Boccaccio gli fece visita da Firenze. Poteva,
a suo piacere, ritornare presso i Visconti: ed in occasioni solenni o nei mesi
estivi fu a Pavia più volte. Ma a Venezia ebbe l’affronto di alcuni giovani
averroisti che lo definirono “buon uomo, anzi ottimo, ma illetterato e affatto
ignorante”. Rispose con l’invettiva “De sui ipsius et multorum ignorantia”
(A proposito della ignoranza propria ed altrui). Attacchi di febbri malariche
rattristarono gli ultimi cinque anni: egli passò allora sui colli Euganei, ad
Arquà. Se ne mosse solo per pressanti richieste e con i segni del declino
fisico sempre più preoccupanti. Fece testamento prima di un viaggio a Roma,
interrotto a Ferrara per una sincope, con rischio di morte. Questa lo colse ad
Arquà il 9 luglio 1374. La libreria andò dispersa, anche se numerosi sono gli
autografi che ci rimangono di lui (alla Vaticana, ad es. i codici 3195 e 3196) e
varie le opere da lui postillate. II)LE
OPERE. Diamo
dapprima l’elenco, diviso in tre gruppi: le due opere in lingua
volgare, le opere latine in versi, quelle in prosa. In seguito daremo i dati
interessanti sul contenuto (con un eventuale giudizio estetico) sulle opere
latine, in quanto ci serviranno per definire la individualità ed il pensiero
del poeta. Letterariamente, quelle che interessano davvero sono
le Rime ed i Trionfi. .
1)opere in volgare:
RIME (o
CANZONIERE: Rerum vulgarium fragmenta) TRIONFI 2) opere
latine in versi:AFRICA (poema in 9 canti)
Epistolae metricae
(66 lettere in esametri, in tre libri)
Bucolicum
carmen (12 egloghe in esametri)
Psalmi
poenitentiales (7 Salmi penitenziali)
3) opere latine in prosa:
SECRETUM (3 libri
“De secreto conflictu curarum mearum”: Il segreto conflitto delle mie
passioni);
FAMILIARIUM RERUM LIBRI (24
libri per 350 lettere)
Sine titulo (epistolae: 19
lettere senza il nome del destinatario)
Senilium rerum libri (17
libri per 120 lettere, scritte dopo
il 1360)
POSTERITATI (autobiografia
fino al 1371)
Variae (57 lettere di
argomento vario)
De viris illustribus
(“Uomini illustri”: 23 medaglioni biografici)
De otio religioso (2 libri
“Sulla vita contemplativa dei religiosi”)
De vita solitaria (2 libri
“Sulla vita solitaria”)
Rerum memorandarum libri (4
libri “Sulle cose degne di memoria”)
De remediis utriusque
fortunae (due parti dialogate sui “Rimedi contro le avversità e le lusinghe
della fortuna”)
Invectivae contra medicum
De sui ipsius
et multorum ignorantia (Sulla ignoranza propria ed altrui).[4]
L’analisi del CANZONIERE costituirà il centro dello studio sulla poesia del Petrarca, trattandosi di un’opera di sicuro ed alto valore estetico in lingua italiana: mentre il poeta credeva che la sua fama fosse affidata alle opere in versi e prosa latina, solo le RIME del Canzoniere gli hanno assicurato notorietà e magistero presso generazioni di fruitori-imitatori, che non mancano neppure oggi. Dei
TRIONFI daremo invece subito la definizione stilistica, il
significato culturale e la divisione tematica (cioè motivi ispiratori), per
potervi poi fare pronto riferimento, quando accenneremo al loro registro lirico
ed allo stile, nel contesto della analisi del Canzoniere. Si tratta, dunque, di un
poemetto in terzine dantesche, diviso in sei parti, scritto
nel corso dell’ultimo ventennio
di vita (pare iniziato nel 1351-2) e lasciato senza un riordinamento definitivo:
donde la accoglienza nel testo, per motivi estetici, di una certa stesura per
alcuni brani a preferenza di altre, rimandate in appendice pur avendo uguali
diritti filologici alla priorità. Il motivo ispiratore di fondo è il
significato della umana esistenza, alla luce delle sue vicende più
significative: il modo generale di presentazione di tale prospettiva è il
confronto-scontro dei valori che sono incarnati in tali vicende, fino a scoprire
quello defintivamente vincitore. Ecco allora scendere in campo per
primo, glorioso e gaudioso, l’Amore, che è però disarcionato dalla Castità,
che celebra così il suo (è il secondo) trionfo: Laura non ha ceduto alle
tentazioni del poeta. Ma, a sua volta, la virtù umana è vinta dalla Morte,
che sembra annullare tutti i valori: anche Laura vi è soggetta, pur se “Morte
bella parea nel suo bel viso” (v. 72). Senonchè compare la Fama, che
in qualche modo vince la morte e porta in trionfo i suoi eroi.
Ecco però il Tempo che, col cancellare la memoria, abbatte il
trionfo della Fama e sembra non lasciare scampo alcuno al bisogno di vita e di
senso della povera umanità: “Passan vostre grandezze e vostre pompe,| passan
le signorie, passano i regni:| Ogni cosa mortal Tempo interrompe” (112-4).
Ultimo cavaliere ad entrare nell’arengo è l’Eternità: “Dapoi che
sotto’l ciel cosa non vidi | stabile e ferma, tutto dbigottito| mi volsi al
cor e dissi: -In che ti fidi?-|| Rispose: -Nel Signor, che mai fallito| non à
promessa a chi si fida in Lui;| ma ben veggio che’l mondo m’ha schernito”
(1-6). Ecco che l’Eternità riscatta i valori autentici e danna quelli
fasulli, separa il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto. Dio
solo è garante del senso della vita umana: l’Eternità
perpetua anche la bellezza dell’anima e l’Amore puro.[5]
Se ci si interroga sulle opere che hanno suggerito alcunchè del
contenuto e della forma al poemetto, si devono indicare come certe la Divina
Commedia ed il Roman de la Rosa; come ipotetica, “L’amorosa visione” di
Boccaccio, che non si sa, però, se abbia influenzato il Petrarca o se sia stata
da questi influenzata. Delle opere latine in versi
non grande è il significato propriamente poetico: benchè Petrarca maneggiasse
con disinvoltura la lingua di Cicerone, pure non era così incarnata in lui come
la lingua materna toscana. E la difficoltà residua nel pensare in latino incide
negativamente sull’impegno ad elevare l’espressione al plus valore estetico,
cioè ad infondervi lo stato emotivo (che viene, appunto, impedito ad insorgere
nell’animo, se prevalgono le preoccupazioni a fissare i concetti in una lingua
non ovviamente posseduta). L’Africa è la maggiore delle sue opere latine:
la iniziò negli anni 1338-9 e gli diede fama quasi prima che fosse conosciuta:
era infatti stesa solo in parte nel 1341, quando ottenne al suo autore il titolo
di poeta laureato (incoronato con l’alloro). La condusse avanti negli otto
mesi che, nello stesso 1341, trascorse a Parma. Interi episodi vi aggiunse anche
in seguito, ma non giunse mai a colmare le lacune delle prime guerre di Scipione
in Spagna (libri 4 e 5); non armonizzò, colle parti già composte, quelle sopraggiunte in seguito; non riuscì a dare la
rifinitura ultima, metrica e melodica. Il
poema è in nove libri, che cantano la seconda guerra punica, facendo perno
sulla persona di Scipione l’Africano. L’opera
si apre col sogno di Scipione, cui compare il padre, ucciso da Annibale nella
battaglia sul Ticino. Con la predizione delle future glorie di Roma, il sogno
occupa anche il secondo libro. Il seguente accompagna Lelio nella reggia di
Siface, amico incerto sul suolo africano e presenta lo sbarco di Scipione in
Africa, dove Massinissa è alleato sicuro di Roma: Siface ritorna alla amicizia con Cartagine, spintovi da
Sofonisba, la donna amata da entrambi. Siface è vinto; Massinissa tenta di
salvare Sofonisba sposandola. Quando Scipione esige che la prigioniera resti a
disposizione di Roma (con l’onta della sfilata in catene, dietro il carro del
vincitore), Massinissa invia alla donna il veleno, con cui essa si uccide (libri
4 e 5). Il libro 6 vede il ritorno di Annibale a Cartagine, mentre il fratello
di lui, Magone, muore di ferite durante il rimpatrio: cade qui il brano famoso
delle considerazioni dolorose di
Magone sulla vita umana, ispirate direttamente al poeta, pare, dalla morte di re
Roberto nel 1343. I libri 7 e 8 espongono gli avvenimenti ruotanti attorno alla
battaglia di Zama ed alla pace; l’ultimo libro contiene il colloquio tra
Scipione ed il poeta Ennio, che ne canterà in esametri le imprese; ed il
trionfo dell’Africano. Le 64 Epistolae metricae,
tutte anteriori al 1355, ci offrono confidenze anche circa l’amore per Laura e
sul contrasto interiore per liberarsene: pur toccando anche problemi politici,
morali e religiosi, avvenimenti tristi o insoliti, informazioni sulla vita
agreste cui si dedica, attratto dalla semplicità dei costumi e dalle opportunità
lasciate aperte agli studi. Queste lettere in versi latini costitiscono un
parallelo non solo delle lettere in prosa, ma anche delle Rime, in quanto
appunto autobiografiche attorno all’amore ed ai tormenti annessi. In
particolare è importante la lettera a Giacomo Colonna del 1338 ca (I, 6), che
tratta dela propria servitù a Laura, ormai più che decennale: è la conferma
che Laura è donna reale, come egli aveva già precisato in prosa nel 1336. Le Egloghe : sono 12 poesie in esametri, composte fra il 1346 e
il 1348 e revisionate fino al 1364. Imitano Virgilio, con alcune differenze: le
dieci egloghe del poeta latino sono in distici elegiaci, cioè alternano un
esametro ad un pentametro (metro classico per simili carmi pastorali), mentre
Petrarca usa tutti esametri; l’allegoria, inoltre, appena accennata in
Virgilio, qui è così insistente, che per comprenderla dobbiamo ricorrere al
commento che o Petrarca stesso o un amico ci ha lasciato, con la chiave di
spiegazione. Letterariamente è l’opera in versi più curata e rifinita, ma
risulta molto più fredda di altre composizioni meno corrette linguisticamente e
meno scorrevoli metricamente. In esse si riflettono le vicende politiche del
tempo, dalla guerra tra Francia e Inghilterra all’avventura di Cola di Rienzo;
la situazione religiosa, con lamenti e critiche alla curia avignonese; lutti
civili, come la morte di re Roberto di Napoli o la peste del 1348; problematiche
amorose, come la terza (Amor pastoralis), la decima (Laura occidens) e la
undecima (Galataea: ancora sulla morte di Laura). Ma la prima (Parthenias)
e la nona (Querulus) trattano invece di questioni morali ed ascetiche: e non
sono le meno appassionate. In Parthenias egli confronta la scelta puramente
religiosa del chiostro (il fratello Gherardo) con la propria, di umanista che
coltiva l’ozio profano della poesia, anche pagana, alla meditazione cristiana
: il travaglio interiore rende
sentita l’apologia che il poeta fa della sua scelta. In “Querulus” la
esperienza tragica della pestilenza del 1348 (che portò via un terzo della
popolazione europea) invita a pensieri di speranza cristiana, di celebrazione
dei valori eterni di fronte a quelli effimeri della terra. I Salmi penitenziali:
sono sette, scritti più verosimilmente in connessione con la egloga
“Querulus” o con la crisi suscitata in lui dalla
decisione del fratello, di
farsi certosino. Rispetto ai Salmi biblici, di cui
hanno reminiscenze talora letterali, si differenziano per una posizione
analoga a quella del “Secretum”: Petrarca constata le sue colpe con amarezza
e tristezza; invoca perdono ed aiuto a liberarsene: ma non esprime deciso
pentimento e fermo proposito neppure nel suo primo salmo, che pur imita da
vicino il “Miserere”. Sono, in realtà, degli esami di coscienza costernati,
ma non proseguono nella conversione efficace. Le opere latine in prosa. Il Segreto, cioè il segreto conflitto dei miei affanni (delle
mie interne passioni): è stata l’opera in prosa ultimata per prima. Diviso in tre libri, il “Secretum” fu
condotto a termine fra il 1342 e il 1343, in occasione dell’entrata in
convento di Gherardo. La cornice è costituita dalla finzione letterari di una
visione: appaiono al poeta la Verità e S. Agostino. I tre libri corrispondono
ai tre giorni di colloqui. La Verità assiste muta al dialogo del poeta col
santo. Il motivo unico del libro è l’esame di coscienza che il poeta è
costretto a fare con lucidità impietosa sotto la urgenza delle domande del
santo d’Ippona. Così, oltre le colpe dell’amore disordinato, vengono a
galla la vanità della gloria letteraria, l’accidia, cioè quell’amore
all’ozio, all’inazione, che si pasce di studi dilettosi, lacrime di
autocompassione, sogni e solitudine orgogliosa. Ma soprattutto viene svelato il
fondo di una psche non contrastata da una volontà decisa: la oscillazione
conseguente tra bene e male, la incapacità di propositi fermi, di decisioni
definitive. Egli si sa colpevole, perchè la volontà è libera nei confronti
del temperamento, almeno nel caso di scelte riguardanti la coscienza morale.
Petrarca si duole ma non si pente; si rattrista ed è spiacente, ma non cambia
vita. E Agostino lo rimprovera alla fine: “In antiquam litem relabimur:
voluntatem, impotentiam vocas” (“ricadiamo nel solito malinteso e contrasto:
tu chiami impotenza quella che è la tua non- volontà”.
Le raccolte
di lettere. Le
familiari :
24 libri di lettere (a persone e) su argomenti familiari.La più parte sono vere
lettere, scritte ad amici e conoscenti su argomenti occasionali, circostanze di
vita e stati d’animo del momento: ora come effusioni confidenziali, ora come
trattatelli su problemi per lo più morali. Altre sono invece lettere
immaginarie, scritte a personaggi illustri dell’antichità (formano il 24. mo
libro). Raramente si parla del suo amore per Laura (lettera del 1336 al cardinal
Giacomo Colonna). In tutto sono 350 lettere, che coprono la vita del poeta fino
al 1361 (con alcune eccezioni fino al 1366). L’idea della raccolta gli venne
probabilmente dalla lettura delle “Epistolae ad Atticum” di Cicerone (1345 o
poco dopo). Servono a conoscere la psicologia, l’ambiente e fatti di vita del
poeta. Sono dedicate a Luigi Santo da Campinia (Ludovico Kempen), conosciuto nel
1330 in Guascogna nel circolo di Giacomo Colonna e da lui chiamato “Socrate”
per la sua serenità di spirito. Curate per la pubblicazione, ma non senza
alcuni ritocchi, restano talora in tre redazioni: quella spedita realmente, la
copia tenuta dal Petrarca e quella
corretta da lui. Le Senili. (Lettere della vecchiaia). Iniziano con il 1361,
anno della morte di Socrate-Luigi di Campinia- e sono dedicate a “Simonide”,
il fiorentino Francesco Nelli. Ne risultano 17 libri, per un totalae di 125
lettere. Meno curate delle precedenti, rimangono spesso in un solo testo, perchè
tutti i codici risalgono ad un solo archetipo. La “Lettera alla posterità”
(“Ad posteros” o “Posteritati”) doveva costituire il diciottesimo libro,
da sola. Lasciata in abbozzo zeppo di correzioni e incopleto (giunge solo al
1351), fu pubblicata a sè, dopo paziente ricostruzione e interpretazione. “Sine nomine” ( od anche “epistolae sine titulo”, cioè
“Lettere senza il nome del destinatatario”). Scritte fra il 1342 e il 1358,
in numero oggi limitato a diciannove (ma considerate di 22 pezzi nelle prime due
edizioni a stampa: Venezia, 1501 e 1503), rivelano l’anticurialismo del
Petrarca che vedeva in Avignone solo corruzione e interessi economici, contro la
spiritualità del Vangelo. La pubblicazione a parte e senza il nome del
destinatario fu atto di prudenza. Però anche le accuse sono generiche e involte
in un linguaggio scritturistico, simbolico, oscuramente allusivo. Solo nelle
lettere 20-21-22 egli espone (alfine!) qualche caso concreto di cinismo e di
lussuria esorbitanti: ma sono quelle della cui autenticità si dubita
seriamente... Le “Varie” (lettere cioè disperse, non accolte in nessuna
delle collezioni ordinate dal Petrarca). Sono 57 lettere conservate forse dai
destinatari ed accolte già dagli antichi editori fra quelle petrarchesche. “La vita solitaria”
(steso nel 1346, rifinito nel 1366, con l’aggiunta almeno del “supplemento
romualdiano”, cioè l’esempio della vita di S. Romualdo, asceta solitario.
Benchè il richiamo agli esempi della Scrittura e della storia della Chiesa
siano frequenti; benchè egli confessi che “gli è dolce inserire in quella
sua operetta il nome sacro e glorioso di Cristo”, tuttavia lo scritto non è
univocamente religioso: è (come dice bene Sapegno) “la idealizzazione dei
suoi ozi di Valchiusa” che iniziano al mattino con le lodi divine (la parte
mattutina del Breviario o preghiera ufficiale della Chiesa) nella selva, ma
proseguono in studi che informano sul passato e istruiranno le generazioni
future; che temono la asprezza di certi santi penitenti come Francesco e gli
anacoreti della Tebaide; che
accanto alla preghiera ed alla lettura divina, prevedono visite di amici,
vagheggiamenti di paesaggi confortanti, contatto culturale con i grandi
pensatori e operatori del paganesimo, da Cicerone agli imperatori saggi della
romanità. Proprio per questo, il “De
vita solitaria” non è un doppione dell’altra opera “De ocio (otio)
religioso (rum)” , che vediamo subito. La vita contemplativa dei religiosi.
Scritto in due libri nel 1347 e rimaneggiato un decennio dopo, è frutto
dell’emozione in lui suscitata da una visita al fratello a Montrieux.
“Otium” è la vita contemplativa. Si oppone al “nec-otium” o
“negotium” che è la vita pratica, operativa, attiva. Questo già presso i
latini: che si riferivano, però, unicamente alla vita di studi o creazione
letteraria, in opposizione al
lavoro manuale od all’affaccendarsi politico. Qui, invece, la
“contemplazione” è quella cristiana, dell’ascesi del chiostro, fuori non
solo dalle occupazioni ma anche dalle preoccupazioni del mondo. Ed è allora
anche pace interiore, serenità, santità perchè è unione con Dio nella
preghiera. In quest’opera (in cui lo stesso Cicerone perde, impallidisce di
fronte alla sapienza cristiana), Petrarca raccoglie le sue riflessioni intorno a
due nuclei fondamentali: come fuggir il demonio e superarlo (libro 1); come
fuggire gli altri pericoli, il mondo e la carne (l. 2). Naturalmente il
monastero è il rifugio piò ovvio e completo contro tutti questi pericoli, ma
Petrarca non ne ha una vera
esperienza positiva: preferisce, perciò, declamare
contro i mali e i disagi della vita pubblica e civile ed elevare un inno
di ringraziamento (tanto più eloquente, quanto più generico) a Dio, che ci
salva in Cristo redentore. Oltre tutto egli oscilla tra il primato della Grazia,
che ci salva gratuitamente in Cristo con un’iniziativa esauriente (vi sono dei
passi in cui egli si avvicina ad espressioni di San Paolo e di
S. Agostino: “Che cosa hai che tu non abbia ricevuto?”); e la priorità
dell’uomo, che pare iniziare lui
l’opera della sua salvezza (“avvicinatevi a Dio e Dio si avvicinerà a
voi”). I “Rimedi per la buona e l’avversa fortuna”
sono un’opera in due libri, di centoventidue e centotrentun dialoghi
rispettivamente, in cui la ragione, dapprima, disillude gli interlocutori della
fortuna favorevole (Gioia e Speranza); poi, conforta i portavoce della fortuna
avversa (Dolore e Paura). Opera moraleggiante, che fa capo più ad una sapienza
pagana (stoica), disillusa, che ad una speranza cristiana, proiettata verso la
sublimazione della sofferenza alla luce della Resurrezione di Cristo e verso la
riconoscenza a Dio dei benefici tereni, segni della Sua bontà e caparra del
Premio futuro. Si ha notizia che vi lavorasse attorno nel 1354 e ancora nel
1366, ma i lavori di lima ed i ritocchi proseguirono fino a darci, a cura dei
discepoli, una edizione migliorata rispetto a quella predisposta dal Petrarca in
vita. I “Libri delle cose degne di memoria” sono
un’altra opera compilatoria, collezione di “virtutum exempla” od esempi di
virtù, sul modello di Valerio Massimo, il quale scrisse i “Factorum et
dictorum memorabilium libri”. Risente ancora della mentalità medioevale,
dunque, ma con forti indizi di spirito umanistico. Infatti, pur essendo stato
iniziato e condotto alla stato attuale (incompleto) a ridosso della conversione
del fratello (1343-5), esclude di proposito esempi e insegnamenti esplicitamente
cristiani o scritturistici. Il progetto doveva comprendere le quattro virtù
cardinali e, forse, i sette vizi capitali. Ne è rimasto solo un mozzicone, in
quattro libri: quello introduttivo (sulla vita di studio, sulla solitudine come
premessa all’acquisto della virtù) e altri tre libri, tutti riguardanti la
sola Prudenza, la prima cioè delle virtù cardinali
(Memoria, come prudenza del tempo passato; Intelligenza teoretica e
pratica, come prudenza del presente; Preveggenza, come prudenza pel futuro).
E’ notevole il pessimismo che pervade una trattazione, che si supporrebbe
incoraggiante attraverso gli esempi di virtù addotti: predomina la condanna dei
tempi a lui contemporanei (da cui, pure, trae esemplificazioni), colpevoli non
solo di non produrre uomini, opere, esempi degni della grandezza passata, ma
anche di aver lasciato naufragare le testimonianze della cultura e sapienza
antica[6];
e prevale l’ammirazione del passato, nonostante l’incontro con frequenti
testimonianze sulla corruzione di Roma in ogni età. Si
possono notare ancora la tendenza a favorire Cesare e Augusto contro lo
stesso ammiratissimo Cicerone; le frequenti professioni di fede cristiana,
l’incertezza del giudizio su Aristotele e la prefernza per la
mentalità che fa capo a Platone-Cicerone-Agostino. “Uomini illustri” è la più antica delle opere in prosa,
concepita per la pubblicazione: fu iniziata nel 1338, in parallelo al
poema “Africa” e frutto delle letture (Tito Livio) per la versificazione
della seconda guerra punica. Forse la prima cosa scritta fu proprio la vita di
Scipione l’Africano (poi rifatta due volte, sicchè se ne hanno tre
redazioni). L’opera, ripresa più volte, nel 1341-43 raggiunse le 23 biografie
da Romolo a Catone il Censore e nel 1351-3 si espanse ad abbracciare anche
illustri uomini relgiosi, da Adamo a Mosè. Ancora più tardi, il poeta compilò
una vita di Cesare, che forse era intesa come a sè stante e, certo, era il
segno di una maturazione politica: come era accaduto per Dante, poco a poco
Petrarca tendeva ormai a relativizzare il tipo tecnico di governo (democratico o
monarchico, popolare o tirannico) per salvare i valori di sostanza:
l’impero è preferito alla repubblica, in funzione dell’ordine e
della coerenza nella società contro il caos del tempo di Cicerone, che egli
vede rivivere sotto i suoi occhi. Il discepolo Lombardo della Seta che raccolse
e pubblicò (in parte) le opere del Petrarca, aggiunse altre biografie, fino al
numero di trentasei (tutti personaggi pagani: fino a Traiano), così come il
Petrarca aveva progettato quando suggeriva i personaggi da dipingere per una
sala del palazzo di Francesco da Carrara, nel tempo in cui vi dimorò, dopo aver
abbandonato Milano nel 1361. “Invettive contro un medico”:
sono quattro libri scritti fra il 1352 e il 1355, in polemica contro un medico
di papa Clemente VI. Vi si esprime sfiducia in genere contro la classe medica,
troppo intenta ai guadagni e incerta nell’esito delle cure. Siccome, poi,
l’interessato aveva risposto, egli proseguì nella polemica ed aggiunse la
difesa degli studi letterari, che formano lo spirito, come superiori a quelli
scientifici e utilitari, che guariscono solo il corpo. L’operetta ebbe grande
diffusione: tale successo è giustificato dallo stato primordiale della scienza
(medica o meno) ai tempi del Petrarca, mentre gli studi umanistici (si pensi
alla filosofia di Tommaso d’Aquino od alla poesia della Commedia) erano ormai
giunti a successi straordinari. Queste “Invettive”, oltre a lumeggiare
chiaramente certi aspetti dell’Umanesimo rinascimentale (a sottolinearne
maggiormente lo spirito, segnalandone valori
e difetti), sono una “spia acutissima” del temperamento del Petrarca, di cui
avremo da parlare fra poco. Abbiam già visto che il magister Bernardus,
fiorentino, risponderà a queste “Invettive” del Petrarca, provocando
l’intervento di Coluccio Salutati. “Sulla ignoranza propria e di molti altri”
: è la risposta, scritta fra il 1367 e il 1371, al giudizio negativo di quattro
giovani averroisti, che a Venezia l’avevano definito “uomo dabbene, ma
ignorante (della filosofia aristotelica, interpretata per di più in chiave
averroistica, che negava la immortalità dell’anima individuale). Egli si
appella (ma la sistematicità è poca, come è povero l’ordine delle
argomentazioni) ad una motivazione naturale: il fine della vita umana (felicità)
ed i suoi mezzi (condotta morale) sono più importanti dei piaceri, comodità e
ricchezze, che sono l’effetto delle cure mediche e degli studi scientifici:
perciò gli studi umanistici sono superiori a quelli naturalistici. Egli si
richiama anche ad una motivazione soprannaturale: solo la sapienza di Cristo e
del Vangelo garantisce la comprensione del senso della vita umana e il
raggiungimento della felicità, poichè nè la scienza nè la filosofia di Aristotele
giungono a tanto. C’è qui il prsentimento, in forme
germinali e confuse, della apologetica che sarà propria del Seicento,
sia italiano (Tommaso Campanella) sia francese (Biagio Pascal). Ed è dichiarata
a piena voce la coscienza della superiorità della sapienza sulla scienza, degli
studi educativi e letterari su quelli puramente conoscitivi e sperimentali della
scienza.
LA
PERSONALITA’ Fisicamente:
alto e florido (cioè robusto, ma anche grassoccio): così lo rappresentano i
primi dipinti (manoscritto del De
viris illustribus, 1378: attribuito ad Altichiero; manoscritto codice vaticano
3198, del sec. XV). Psicologicamente
(temperamento):
fu ( a nostro parere) un “Nervoso a
prevalenza vagotonica”. Il temperamento nervoso è quello di un
individuo emotivo, non attivo, primario
od instabile. Ed è sempre un distonico: ora ortosimpateticoprevalaente
(Dante), ora parasimpateticoprevalente
(Petrarca). In quanto EMOTIVO egli non solo aveva emozioni (come
tutti), ma le aveva in tale misura da essere capace di trasmetterle, di
esprimerle in una forma fruibile da altri. In
quanto VAGOTONICOPREVALENTE (o, più sinteticamente, “vagoprevalente”, cioè
con emotività a prevalenza vagale o parasimpatetica), egli tendeva ad essere più
soggetto alle emozioni contemplative (idilliche od elegiache: o di
pace, serenità, quiete, mitezza; o di tristezza flebile,
di malinconia rassegnata, di delusione consolata) che a quelle
drammatiche, esultanti o ribelli, risentite od euforiche (tragedia ed epopea,
che pure sono eccezionalmente presenti). E’ questa declinazione
complessivamente calma del suo “nervosismo” che lo fa apparire, a prima
impressione, piuttosto un “sentimentale” che un nervoso. La stessa
impressione si ha dalla ovvietà con cui egli sa legare con tutti, risultando
simpatico, socialmente accetto, richiesto a gara da nobili come da liberi
comuni. Dante (ortosimpaticoprevalente) non riusciva a “legare” con nessuno!
Ma questo accadeva al Petrarca, non perchè fosse un “secondario od
emotivamente stabile” (tali sono i temperamenti “sentimentali”), ma perchè
la prevalenza vagale lo portava ad una ricerca della pace al di sopra della
verità, a non esasperare i problemi, a “lasciar correre l’acqua all’ingiù”,
a non insistere sulle proprie propensioni (politiche od altro), ma a rimanere su
esigenze generiche di bontà morale e di buon governo, che accontentavano tutti
e non lo mettevano in crisi con nessuno. C’era, dunque, in lui qualcosa di don
Abbondio. Invece, la mutevolezza (anzi “indecisione”) incoercibile
tradiscono la “primarietà od
instabilità” del suo temperamento in maniera inequivocabile. Lo vedremo ben
presto. Ci sembra da aggiungere che è da un simile viraggio della sua distonia
che egli tende ad una certa superficialità di pensiero, all’accontentarsi di
intuizioni brillanti ma indimostrate, a non riuscire a mettere assieme sistemi
impegnativi di pensiero o, almeno, di prove razionalmente convincenti. Ne
riparleremo a proposito del tipo di intelligenza. E non insistiamo neppure su
altri limiti caratteriali, che sarnno troppo favoriti dall’ambiente,
nell’ambito del quale li
tratteremo: la vanità e quel complesso di “doti adolescenziali o femminee”
rimaste per tutta la vita, che sono il ripiegamento su se stesso, la tendenza a
protrarre l’età del diario sentimentale (sia pure in versi) oltre gli anni
della adolescenza, la facilità allo stato d’animo flebile e
autocompassionevole... In quanto “NON ATTIVO” non fu solamente incapace
di trascinare gli altri all’azione al suo seguito ( limite presente anche in
Dante), ma addirittura si sentì avverso alla vita operativa; ne sentì il
fastidio e la rifuggì in quel rifiuto del “negozio” che diventava pigrizia
oltre che fascino della vita di lettura e di studio. L’aspirazione alla
“vita solitaria” all’ “ozio letterario” è attitudine congenita:
Valchiusa in Provenza ha, in più, la vicinanza di Laura, ma pel resto vale
quanto la pace e il silenzio del convento di San Simpliciano a Milano, la
distensione e libertà di Arquà presso Padova. Egli ne è cosciente: oltre che
nel “Secretum”, si veda in Rerum memorandarum, II, 93. Anzi, basterà
leggere la canzone “Di pensier in pensier, di colle in colle”. Era nato
sfaticato, sia pure di genio. Non giunse alla laurea, ma incantava gli
ascoltatori. Non organizzò nulla nella vita, ma ammirava sinceramente chi anche
solo sembrasse un organizzatore (la
“cotta” per Cola di Rienzo) o lo fosse realmente stato (Cesare): ma influì
enormemente con i suoi scritti, per generazioni
di letterati. Per il risultato “tattico”, a immediata efficacia, della su
(in)attività, vale quanto afferma sornionamente Manzoni: “Ma è un destino
che i pareri dei poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate dei fatti
conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose già
risolute prima” (Pr. Sp. 28). “Introverso”: incorreggibilmente,
subpatologicamente, dunque. Lo vedremo subito: fu vita irrequieta la sua, ma
socialmente –almeno per il tempo immediato- insignificante. Non sapeva
guadagnarsi neanche il pane: fu sempre un mantenuto di alto rango. Rifuggiva da
impegni definitivi: più di un papa gli offrì la posizione di “segretario
apostolico”, ma egli rifiutò sempre. Ci si può, a questo punto, domandare:
rimasto laico e con mezzi di vita sufficienti, avrebbe ugualmente accettato la
sfida “indissolubile” dell’amore coniugale, il peso della crescita ed
educazione dei figli? E’ una questione forte a risolversi! Mancava talmente di
doti manageriali o di comando, che non
sapeva neppure farsi rispettare dalla servitù: si legga quanto ne
ricorda, commiserando
entrambi, al fratello Gherardo in Familiari, X, 3. I temperamenti nervosi,
avvertono gli esperti, non hanno modo di far breccia nelle vicende sociali:
l’unico loro via per agire sulla storia sono le idee, gli scritti. Ma allora
hanno un impatto tanto prolungato quanto ritardato. Fu il destino
“cromosomico” del Petrarca. In quanto PRIMARIO
OD INSTABILE egli era mutevole. Consideriamo tre livelli. Anzitutto vi è
un ondeggiamento nel campo
stesso a lui più congeniale degli interessi intellettuali. La sua opera
più estesa in prosa, sono le lettere: che parlano “de seipso, de omnibus
rebus et de quibusdam aliis”. Le altre opere sono iniziate e riprese varie
volte; più di una è
composta da collezioni di monografie su personaggi (“De viris illustribus”)
o su virtù morali esemplificate (“Rerum memorandarum libri”); molte,
incompiute (il poema Africa; e i libri “Sulle cose degne di memoria” che
svolgono una sola delle quattro -o forse undici-
sezioni previste...). A questo riguardo, anche le sue idee politiche
variano: repubblicano e popolare o monarchico e cesareo, guelfo con Firenze o
ghibellino coi Visconti,? Vi è, in secondo luogo ed a livello volitivo,
il conflitto irrisolto di tutta la sua vita etica e religiosa: mettere Dio e le
esigenze della coscienza morale al
primo posto oppure lasciarvi Laura (o altri amori; o la vanità; o gli studi
letterari...)? Ne riparleremo analizzando i Motivi ispiratori del Canzoniere: ma
in proposito si è confessato lui stesso con molta lealtà nel “Secretum”.
Nelle “Familiari”, IV, 1 egli stesso parla di “anceps pugna
laboriosissima” (battaglia ancipite, indecisa, penosissima). Vi è,
infine, la notevole peregrinazione della sua vita materiale: da Arezzo a
Carpentras, a Bologna, ad Avignone, in Valchiusa ed a zonzo per mezza Europa con
i Colonna, a Roma e Napoli, a Firenze e Pisa, a Parma e Milano, a Padova,Venezia
ed Arquà. Di un pretto temperamento nervoso si dice ch’egli “passa da una
residenza all’altra” (anzi “da ammobigliato ad ammobigliato”). In fatto
di residenze, Petrarca ha fatto peggio di Dante...
Nel 1353 (“Familari”, XVI, 2) confessa a Francesco Nelli, priore dei
SS. Apostoli in Firenze, il “Simonide”
delle sue lettere: “Rinfranco l’animo stanco col mutar dimora”. Nel 1366
(Senili, VI, 2) al Boccaccio diceva: “Credimi, amico: a molti, e specialmente
ai malati, sempre assai giova il mutar di posto...”. La tentazione di
considerarlo un “sentimentale” per la “solennità e dignità fisica” di
uomo robusto e, quindi, fermo o pacifico, è una illusione: egli è
variabile al massimo grado, pur non reagendo con ira (nervosismo),ma con
rassegnazione alla sua incontentabilità materiale ed indecisione spirituale. E
anche di questo è ben cosciente. Il mondo
fantastico. Non
doveva godere di eccezionale fantasia visiva, visto che manca del tutto di
quella plastica, tridimensionale. Il capolavoro, cioè la canzone “Chiare,
fresche e dolci acque”, presenta Laura uscita dal bagno nel fiume Sorga: la
cosa è espressa in maniera
visivamente così confusa che egli, nonostante questa temerarietà, mantiene
intatto il diritto all’elogio di Foscolo di aver adornato di “velo
candidissimo” l’amore “in Grecia nudo e nudo in Roma” e di aver quindi
meritato di consacrarlo a Maria santissima (“rendea nel grembo a Venere
celeste”). L’unica cosa che si intravede nella canzone sono i fiori che avvolgono, cadendo da un albero, Laura sedutasi
alla sua ombra: ma è una “nube” alla maniera dell’atomo di Bohr:
una affascinante
nuvola ondeggiante di petali, che rapisce in estasi di idillio, senza
lasciar vedere nulla di preciso, di
definito, di solido, di
dantescamente definito e toccabile.
In 366 composizioni del Canzoniere, di Laura la cosa più concreta che si vede
sono “i capei d’oro a l’aura sparsi”: particolare che i puntigliosi
filologi si affrettano a dichiarare infido, retorico,
con tutta probabilità falso, perchè reminiscenza obbligata di schemi
provenzaleggianti che vogliono, la donna amata, bionda ad ogni costo! Neppure
la fantasia del movimento (cinestetesia) era grande: il poema “Africa” manca
anche di scatti, di impeto, di dinamismo.
Nè poeta epico di imprese eroiche nè poeta drammatico del dialogo
sulla scena. Anche nel “Secretum” il dialogo è apparente: si tratta di un
monologo, in cui l’oscillazione della coscienza permette ad Agostino di
assumere la parte dell’accusatore, che è
un polo della indecisione pendolare della coscienza stessa. Se il poema
in terza persona non giunge alla poesia, la forma teatrale in “Io-tu” è
ancora più estranea alla conformazione fantastica del Petrarca. Il Petrarca
rimane così un “poeta lirico” (nel senso specifico del termine: poeta in
“io”, autobiografico, che canta solo le vicende del proprio animo), un
confessore di se stesso, che esprime al meglio le vicende della propria psiche, che
ha come motivo ispiratore le variazioni del suo mondo sentimentale. Si
tratta della faccia conoscitiva
della sua “introversione e non-attività” appetitiva (volitiva): che giunge
fino a non permettergli di figurarsi, di immaginare uomini in azione coerente e
verosimile. Era, dunque, molto più “inattivo” di Dante, di Virgilio e dello
stesso Manzoni. Invece, sommo era il dono della fantasia musicale,
anche se in tonalità univoca o
quasi, cioè nel senso di gran lunga prevalente della dolcezza: pensieri
gentili, vocabolario eletto,
musicalità carezzevole. Scatti d’ira magnanima? sì, nei sonetti 136-7-8, ma
con moderazione di termini sempre
educatamente insolenti, anzi elegantemente malevoli; con musicalismo appena un
poco più ruvido, pensieri di condanna attutiti dal ricordo di tempi in cui la
Chiesa era santa e virtuosa... E’ la componente fantastica coerente col
viraggio “vagoprevalente” nel temperamento. Forse si deve dire che solo Ariosto e Foscolo
eguagliano il tocco leggero della espressione petrarchesca: il primo, però,
senza attingerne i valori lirici, sicchè solo a Foscolo sarà concesso di
ripetere il miracolo di unire un contenuto melodico ed una forma armonica affini
a quelli del Petrarca, anche se
ancora più intensi come plusvalore emotivo. Il tipo di intelligenza.
L’intelligenza del Petrarca si lascia sospettare più analitica che
sintetica, più acuta che profonda. Che cosa si vuol dire? Petrarca ha una
intelligenza che sa scorgere
particolari sorprendenti (di cui la più parte degli osservatori non
s’accorge); specialmente nella lettura della propria anima e di quella degli
altri, egli “vede al di là dell’angolo”, con una notevole capacità di intuire segrete intenzioni e di
portare alla luce pensieri ripiegati nelle circonvoluzione della psiche.
Manca però della capacità di organizzare le varie intuizioni in un
sistema coerente (ad esempio, di filosofia); non possiede neppure grandi facoltà
per una dimostrazione, che colleghi fra loro dimensioni diverse del reale in una
tesi di risultato. Le sue convinzioni restano così affidate ad una presunta
evidenza ed ovvietà: il che faceva disperare naturalmente i “fisici”, cioè
gli addetti alle scienze della medicina od affini. Purtroppo sarà un po’ il
limite di tutto il pensiero umanistico: capace di intuizioni clamorosamente in
contrasto con l’opinione corrente, manca però di una
organicità che riesca a (o, almeno, tenti di) sostituire il grandioso
edificio della Scolastica medioevale: dovrà venire Cartesio nel secolo XVII a
riportare l’esigenza delle grandi costruzioni filosofiche. La stesura
delle sue opere confermano tale divario tra potere di analisi e di sintesi, come
si è già detto parlando della sua “primarietà od instabilità”:
compilazioni di pensieri da altri autori, collezioni di biografie diverse, vari
lavori non finiti (dall’Africa ai “Rerum memorandarum libri” al “De
viris illustribus”), liriche brevi e comunque solo genericamente collegate
dalle varie vicende interiori conseguenti al suo amore per Laura... Intelligenza
geniale nel particolare, insufficiente ad un’opera complessa. Non senza una
dipendenza dalla prevalenza vagotonica della sua sensibilità, come accennato.
L’AMBIENTE DI
FORMAZIONE L’ambiente
in cui si trovò a vivere il Petrarca è già stato delineato nella introduzione
generale al secolo XIV (“La crisi della civiltà medioevale”). Lui
medesimo ce ne dà conferma in “Senili, X, 2”, in una
lettera, cioè, del 1367 all’amico di studi Guido Setti, ormai arcivescovo
di Genova. Lo stesso titolo della lettera-rievocazione è significativo: “De
mutatione temporum”. Ciò significa che l’argomento si aggira sui
cambiamenti (in peggio) avvenuti in Francia e in Italia dopo 1335. La
degradazione della società (anche fisica: si pensi alla peste del 1348, che
portò via forse un terzo della popolazione europea) potè ben essere una
concausa del pessimismo di fondo dello stato d’animo petrarchesco. Che fu
innescato, però, anche da molti altri fattori ambientali.[7] Figlio di esuli, ebbe fin da fanciullo vita instabile: il che non equilibrò il temperamento incerto e mutevole. Orfano di madre a 14 o 15 anni, si trovò presto in casa la matrigna. Avviato agli studi
lontano dalla famiglia troppo giovane (a Montpellier a 12 anni; a
Bologna, a 16), egli si abbandona alla dissipazione: amori facili, successi
salottieri, trascuranza degli studi giuridici e coltivazione unilaterale di
quelli storico-letterari... Alla morte del padre non è ancor laureato nè pensa
a farlo. Questa mancanza di disciplina negli anni della crescita fisica e
formazione spirituale, intensificherà
in lui le tendenze innate, spontanee, rendendo impossibile quell’aggancio con
la realtà della vita che implica dominio degli istinti, benchè allettanti,
accettazione del lavoro, anche se ostico, che sono le condizioni normali per una
maturazione umana, che renda interiormente adulti. Saremo forse maligni, ma
Petrarca finì per riuscire un uomo “che non sa fare niente,| ma lo sa fare
bene!” Orfano anche di padre a 22 anni, entrò nello stato
ecclesiastico in cerca di sicurezza economica e di tranquillità di
studi: questa menzogna coi secondi fini che soppiantano quelli religiosi
ed ecclesiastici cui la tonsura lo avviava, accentua il suo pendolarismo
interiore, mettendolo in contrasto con l’aspirazione alla pace anche sessuale
in una vita di famiglia. Sarà forse la sorgente più tormentosa dei suoi
travagli intimi, specialmente dopo che il fratello Gherardo avrà superato ogni
incertezza con lo stacco totale dal mondo. Questo vivere senza la
catena-stimolo-consolazione di una famiglia (e di un lavoro redditizio
conseguente, fosse pure quello di segretario pontificio), accentuerà la sua
instabilità, radicata certo nel temperamento, ma favorita da una vita senza
impegni precisi. Ma, soprattutto, ridurrà al grottesco le sue lamentele e i
suoi anatemi contro il mondo ecclesiastico corrotto, quasi che anche lui non sia
un rappresentante della doppia vita, della condotta indegna di molti
ecclesiastici del tempo. Gli auspici, poi, di una Chiesa senza macchie e senza
rughe, come Essa sarebbe stata alla sua
nascita, diventano “astratti furori” che potevano consolare la sua
superficiale coscienza, ma non possono convincere la esigente coscienza dei
posteri: medice, cura teipsum! Infine, il suo vivere “tra giovedì grasso e
venerdì santo” (come diceva Manzoni di Niccolò Tommaseo), il suo predicare
da preteso cristiano esemplare ed il suo razzolare, ahimè, “umano, troppo
umano” (“ma”nnlich, allzu ma”nnlich” di Nietzsche), lo confermano come
il testimone più autorevole di quel secolo in crisi, di quella società
in devoluzione dalla cultura solidamente cristiana del Medioevo
dantesco a quella implicitamente pagana dello umanesimo Rinascimentale.
Se la sua vita sentimentale “stassi così tra misera e felice”, di quella
morale possiamo dire, parafrasando “stassi così, tra orante e peccatrice”. Messosi al servizio della famiglia Colonna, egli
inizia una vita di cortigiano, in dipendenza dal mecenatismo dei signori.
Il che aggiungerà alle altre, una ulteriore ambivalenza, quella politica:
guelfismo o ghibellinismo, democrazia (Firenze), oligarchia (Venezia) o signoria
(Milano), tutto concorda per questo
individuo che di “carattere” ne aveva poco, usando quel po’ di fermezza
che possedeeva al servizio di un solo scopo: assicurarsi una vita comoda e
sicura, a costo di mutare residenza e padroni di sua iniziativa. Non era lo
stesso caso di Dante, che doveva lasciare signori che si era inimicato col suo
carattere fiero e impulsivo (“tuosto” dicono a Napoli). Anche la sua poesia
patriottica si definisce in modo accettabile al suo ambiente,
proprio perchè rifugge dal dibattito sulla
scelta tra l’impero universale
d’Europa ed il particolarismo dei
comuni o delle signorie, ed opta
per la nazione italiana, un traguardo medio ma irraggiungibile, astratto,
utopico: tutti d’accordo, guelfi e ghibellini. D’altronde egli è capace di
appellarsi alla necessità davvero
moralmente urgente: salvare la libertà (ma
quale? quella di pensiero o di comodità?), nella indifferenza verso la tirannia
di uno solo o di una massa. La vita cortigiana lo induce inoltre all’illusione
orgogliosa che la lingua latina
(lingua artificiale, morta perchè non insegnata dalle madri) sia la lingua
dell’avvenire e dell’eternità: così, senza Boccaccio, egli sarebbe morto
senza aver letto la Commedia! Così, richiesto dal medesimo amico di un giudizio
sul Decàmeron, egli si pronuncia senza averlo letto tutto e lo scusa della
impudenza pel fatto di essere destinato alla plebe!Ed eccoci al limite
non sai se femmineo od adolescenziale della sua vanità: ne aveva la
predisposizione temperamentale (lo si è detto), ma non pare dubbio che la vita
disimpegnata da grandi ideali (religione, famiglia, vita politica...)
accentuasse tale bisogno di consolazioni, via!, meschine. Sapegno , nel Trecento
della Vallardiana, non esita a parlare di uno “spreco vanitoso che rasenta la
goffaggine”: lo dice a proposito delle citazioni erudite di cui fa sfoggio
nell’epistolario e, in genere, nei suoi scritti.
Ma anche il modo di farsi incoronare in Campidoglio, dopo un esame di
“cultura generale” da parte di re Roberto d’Angiò, non ha in sè del
ridicolo, quando si consideri che le domande le aveva preparate lui per il suo
regale esaminatore? E come poteva
essere diversamente, se solo lui possedeva quella eccezionale erudizione
sulle varie materie umanistiche? Il successo pronto e continuato di cui
aveva goduto, gli lasciava indosso una vanità da prima donna, che egli
riconosce e piange nel “Secretum”. Ma non tutto il bilancio della gioventù fu negativo:
egli strinse amicizie sia all’università che in seguito, che influiranno
positivamente su di lui, in campo intellettuale e morale. Guido Setti,
arcivescovo di Genova, p. Dionigi da Borgo San Sepolcro (che, a Parigi, gli fa
conoscere le Confessioni di Agostino); Barlaam di Seminara (che gli insegnerà
un poco di greco: diventerà vescovo, a Gerace in Calabria), Landolfo Colonna e
Simone, canonico di Arezzo (che gli danno aiuto a procurarsi copia della
“Prima decade” di Tito Livio), Filippo di Cabassole (vescovo di Cabillon e,
quindi, di Valchiusa), Simonide (cui dedicò le “Senili”: è Francesco
Nelli, priore della chiesa dei SS. Apostoli in Firenze) che già abbiamo citato.
Sono persone che lo richiamano continuamente, assieme al fratello Gherardo, alla
fede religiosa ed alla virtù morale, conducendolo a vivere con più coerenza
cristiana l’ultimo venticinquennio di vita. Anche se, sul piano morale, Petrarca giunge agli
anni quaranta ancora alla mercè della sua spontaneità disinibita, tuttavia
si è intellettualmente perfezionato nel campo di studi a lui congeniale:
poesia, storia, psicologia. Ormai
dagli uomini poco potrà imparare; anzi, a molti sarà maestro, al punto che
egli è da considerarsi non più preumanista, ma
il fondatore della cultura umanistica. E’ dai libri, invece, che
continua ad apprendere. Prima di tentare un elenco dei più rilevanti,
sottolineiamo ancora una volta la acutezza della sua intelligenza: è grazie ad
essa che egli può leggere
criticamente i volumi che ha trovati, comperati, copiati e fatti copiare, che
tiene cari come un tesoro ed annota con rimandi e con riflessioni. Per Plinio,
ad esempio, (che troppo facilmente colleziona leggende) egli sa spesso dubitare
di credenze assurde riportate dall’antico naturalista (inizio dell’opera
“De sui ipsius et multorum ignorantia). E’ questo l’umanesimo
filologico. Ed
eccoci agli autori più frequentati. Vengono anzitutto i poeti: Virgilio al
primo posto, Ovidio al secondo (“secundus nostrorum poetarum”: Rerum
memorabilium, III, 73), poi Orazio. Ma ha una discreta conoscenza anche di
Catullo, Properzio, Tibullo, Persio, Giovenale, Lucano, Stazio e Claudiano. Ha
un divertito contato con i comici Plauto e Terenzio. Tra i prosatori,
precede Cicerone; vengon poi gli storici: Tito Livio, Sallustio, Svetonio,
Floro, Eutropio, Giustino (Marco Giuniano, forse
del secolo III d. C.; curò un sunto od epitome delle “Historiae philippicae” di Pompeo Trogo), Valerio
Massimo, Orosio. Seguono autori di erudizione varia: Plinio e Quintiliano,
Apuleio ed Aulo Gellio, Macrobio e Vitruvio,
Cassiodoro e Boezio, Marciano
Cappella e Pomponio Mela (scrittore di geografia, del I sec. d. C.). Mancano i
nomi dei grandi filosofi medioevali nella sua cultura, ma in compenso si
inseriscono molti padri della Chiesa: al maestro per eccellenza, S. Agostino,
seguono Gerolamo, Ambrogio, Lattanzio, Paolino da Nola, Gregorio Magno...
Il che conferma la ambivalenza di Petrarca e la sua simbolicità rispetto
al suo secolo. Ideologicamente, egli rimane legato alla fede cristiana, eppure
manca qualcosa in tale fede, pur molto sincera. Difatti (e dobbiamo
averlo già detto), è lui che instaura un culto tale per i personaggi e la storia del
passato da potersi dire l’iniziatore dell’umanesimo storiografico:
entusiasmo per il mondo greco-romano, di fronte al quale le età successive ,
benchè cristiane, risultano decadenti e deludenti. Come è possibile accordare
una fede piena nella redenzione di Cristo e poi stimare la cultura pagana più
di quella cristiana? Tentiamo di spiegarcelo scrutando più da vicino il suo
pensiero, la sua mentalità.
IL PENSIERO DEL PETRARCA Nota
metodologica.Dobbiamo
fare una eccezione allo schema che usiamo nello studio degli scrittori,
introducendo la “rubrica” del pensiero, perchè l’analisi dei motivi
ispiratori nella poesia di Petrarca non assorbe molto della sua mentalità
umanistica, che, d’altra parte, è fondamentale per comprendere il fenomeno
rinascimentale nella sua pienezza. Le opere latine del Petrarca che quasi non
interessano la sua dimensione estetica (poetica, artistica, lirica), sono invece
fondamentali per introdurci nell’Umanesimo, che del Rinascimento è la
componente ideale, intellettuale, quasi
filosofica.[8] La mentalità
generale. Ne
illustriamo un po’ più diffusamente due aspetti fondamentali, già
intuibili da quanto detto a proposito della sua personalità. Anzitutto richiamiamo il “viraggio congenito” del
pensiero, la “forma mentis” innata, il modo spontaneo cioè di affrontare i
problemi e la loro soluzione. Petrarca non è per le idee chiare e distinte,
per l’esprit de géometrie; non ha mentalità cartesiana, non tiene alle
dimostrazioni a base di “perchè causali” (poichè, weil, because, parce que,
quia, epeidè), che ricerca i precedenti attivi da cui dipendono tutte le realtà
esistenti del cosmo. Egli opta piuttosto per l’esprit de finesse, per la
sapienza di matrice pascaliana, che sente di più il futuro negli scopi dell’attività umana, le cause
finali, gli affinchè cui mira l’intelligenza e la volontà dell’uomo (gli
“auf dass, that, à fin que, ut, ìna”). Esplicitamente, messi a confronto
Cicerone ed Averroè per discutere sul primato tra Aristotele e Platone, egli
non prende posizione precisa, perchè non si ritiene all’altezza di farlo
(Rerum memorandarum, I, 26: “Non nostrum inter
vos tantas componere lites”). Ma esplicitamente si inserisce nel filone
intuitivo e sentimentale che fa capo a Cicerone ed Agostino, non ad Aristotele,
a Tommaso, alla Scolastica. Si veda “Secretum”, il Proemio; “Invectivae in
medicum”, l. 3; “De sui ipsius et multorum ignorantia”, passim; “Rerum
memorandarum libri” I, 25, 26, 27, 31; II, 68; III, 41, 47; IV, 40. Insomma il
suo mondo filosofico non è lontano da quello poetico, come appunto quello di
Platone e di Cicerone (e, in parte, anche di Agostino): assomiglia più ad una
nube di probabilità statistiche che non a delle verità matematiche. La sua
avversione all’averroismo, senza dubbio, nasce principalmente dalla
indignazione della sua fede cristiana di fronte allo sfacciato materialsimo che
nega la immortalità individua, ma anche da una profonda diversità mentale che
lo porta a prendere in considerazione solo l’esistente e non tutto l’essere
(anche quello potenziale); e, dell’esistente, quasi solo quello vivente; e,
della vita, quasi solo quella intelligente dell’uomo. Insomma, la sua
filosofia tende a ridursi ad una antropologia, di cui anche la fede in Dio
è al servizio.[9]
La sua meditazione è concentrata sui problemi del fine della vita umana, della
felicità: “unde et quo pergimus”, come dice nel “De sui ipsius et
multorum ignorantia. Non lo attirano i problemi spiccioli del modo e del perchè,
le questioni della scienza e della tecnica; e neppure quelli supremi del “che
cosa è”, cioè le questioni
metafisiche: lui è affascinato dai problemi di moralità, di estetica, di
psicologia, di storiografia, cioè da una fascia media di questioni che noi oggi
diremmo esistenziali. La stessa storiografia, che pure si fa più esigente e
critica in lui, egli la vede ancora come “opus rethoricum maximum” (la più
grande esercitazione retorica), cioè come lavoro imparentato alla poesia, in
quanto occasione per giudizi psicologici (la scoperta, cioè, delle intenzioni
negli “attoiri” delle vicende umane) e per espressioni accalorate onde
eccitare, con i discorsi più persuasivi, l’animo dei soldati, dei senatori,
della folla.
Nel Proemio al “De viris illustribus” egli giunge ad esprimere la
propria umiliazione per il fatto che non può inventare i fatti storici,
volgendo le vicende ad altre conclusioni, esteticamente più soddisfacenti; e
per il fatto che non può narrarli più elegantemente degli autori latini di cui
si serve! A nessuno deve sfuggire quanto una simile mentalità sia connessa al
prevalente vagotonismo, alla distonia parasimpatetica, che non ama la concentrazione e la precisione, che induce invece
alla genericità e superficialità, che è più attratto dalla bellezza
dell’esporre che dalla verità
delle cose esposte. Intelligenza acuta, ma non profonda, quella di Petrarca:
inuitiva, ma non dimostrativa. Il sentimento vi gioca una interferenza troppo
assidua e permeante. In secondo luogo, Il Petrarca, aiutato anche dal troppo favore
incontrato nel suo ambiente, è rimasto un “pendolare” del
pensiero anche per il riflusso sulla sfera intellettiva del comportamento
pratico. E’ stato detto giustamente che “bisogna vivere come si pensa, per
non finire a pensare come si vive” (“Le démon du midi” di Paul Bourget,
1914). Egli, benchè dopo il pellegrinaggio romano del 1350 abbia “calate le
vele e raccolte le sarte” sullo sfaglio più clamoroso della sua condizione di
ecclesiastico e di uomo (il libero
erotismo), tuttavia mantenne una oscillazione
a livello gnoseologico che ha
la sua radice prima nei cromosomi
del suo sistema neurovegetativo, ma che trova nella sua vita erratica di tanti
anni la spiegazione del mancato
riequilibrio, ad opera della coscienza morale e del libero arbitrio, alle
incertezze del suo pensiero, anzi alle contraddizioni tra alcune verità della
fede cristiana e alcune tessere del suo mosaico umanista. Non perchè
l’umanesimo in se stesso comporti contraddizioni necessarie col credo
cristiano, ma perchè qualcuna (e
radicale) ne implicava l’umanesimo rinascimentale, contrasto che un Petrarca
altrettanto intelligente ma moralmente meno disorientato avrebbe potuto, come
doveva, riconoscere: per ritornare un umanista coerentemente cristiano come
Dante o per divenire un umanista deista
od immanentista come i razionalisti del Millesettecento. Invece, egli rimane
nella incertezza anche ideologica: pur senza potersi definire un
“rinascimentale” ormai chiarito e perfezionato, tuttavia è con lui che si
pongono quei dogmi umanistici che, sia nella chiarezza della enunciazione di
qualcuno di loro (umanesimo storiografico) come nella confusione della implicita
accettazione di altri (umanesimo ideologico), condurranno sempre più alla
deriva le generazioni del Millequattrocento e Millecinquecento, fino a scatenare
lo sdegno ribelle di Lutero e la severità persecutoria di Riforma cattolica e
di teocrazia calvinista. E’ quello che dovremo spiegare ora, chiarendo
definitivamente la posizione di Petrarca fra Medioevo e Rinascimento, attraverso
l’esame della complessa
attitudine umanistica, quale andava precisandosi e progredendo in lui, che
rimane la figura più eminente di quel secolo di transizione quale fu il
Milletrecento: l’icona vivente di società praticamente divisa tra
sopravvivenze medioevali e precorrimenti
rinascimentali, in una deriva della prassi morale ed in uno smarrimento,
inconscio e parziale ma oggettivo e non superficiale, negli stessi princìpi di
fede. L’umanesimo come
sintesi del pensiero di Petrarca
1)
L’umanesimo
filologico. Lo
abbiamo già definito come “la stima e l’amore per gli scritti di quelle
epoche che hanno celebrato l’uomo e la vita umana”, a prescindere, per sè,
dalle motivazioni di tale stima ed amore.[10]
Si tratta di ricercare anzitutto le opere non più in circolazione (ma
conservate presso biblioteche, dove possono giacere quasi dimenticate) di autori
grci e latini, che devono riportare la cultura
europea a dominare le vicende di pensiero e di vita politica dei secoli
pregressi, sia illuminando
le sacche di ignoranza
formatesi nella lacunosa erudizione medioevale, sia imparando a leggere con
senso critico (capacità a distinguere il vero dal falso) le opere ricuperate,
ora mediante confronti con altri scritti
sulle stesse vicende storiche ora mediante il controllo sulle opere originali di
un pensiero, conosciuto solo indirettamente
attraverso tradizioni di seconda mano. I libri si sa che esistevano,
perchè l’amore per la cultura antica non era mai venuta meno nelle scuole
rimaste aperte anche durante i secoli più tormentati e disgregati del
Medioevo; e si sa che tali scuole erano state anzitutto quelle nei monasteri
benedettini e quelle presso le cattedrali nelle diocesi. Anche se queste avevano
l’interesse primario di tramandare la cultura tipicamente
spirituale della sacra Scrittura e delle opere patristiche (scrittori
ecclesiastici dei primi secoli cristiani), tuttavia la “ratio studiorum o
curriculum di studi” del Trivio e del Quadrivio (introdotto da Marziano
Cappella e accettato anche dalla Chiesa come base di acculturazione per i suoi
sacerdoti) imponeva l’insegnamento di una serie di opere latine porfane, che
poi potevano portare qualche
spirito privilegiato ad approfondimenti specialistici o svolgimenti geniali (si
pensi a Gerberto d’Aurillac, papa Silvestro II a cavallo del Millennio). Se
gli umanisti cercarono d’istinto le grandi opere classiche del mondo pagano
nelle biblioteche delle scuole suddette, è perchè sapevano bene che il luogo
privilegiato per la conservazione, ricopiatura e studio di tali opere era
appunto la scuola ecclesiastica. Non aveva già Cassiodoro (490 ca-583)
affidato il compito di ricopiare testi della classicità
pagana e cristiana ai propri monaci, nel Vivarium calabrese? Pur senza esserne un ricercatore sistematico, Petrarca scoprì a Liegi due orazioni di Cicerone ed a Verona le lettere dello stesso all’amico Attico. Egli copia e fa copiare, diffonde la notizia, suscita interesse, entusiasmo, emulazione, fervore di ricerche e di edizioni. Non solo: leggendo, egli scopre errori di trascrizione e segna in margine la sua ipotesi surrogatizia; oppure, se la fortuna glielo concede, confronta copie diverse della stessa opera per sceverarne la “lectio” più verosimile e, quindi, originaria. Oppure confuta le notizie trasmesse dal testo, dimostrandole false o come tali sospettandole: nel “De sui ipsius et multorum ignorantia” vi è un elenco di notizie fantasiose date come vere dalla “Historia naturalis” di Plinio il vecchio, che egli deride (facendo presentire il sorriso malizioso di Manzoni a proposito delle stesse bubbole, ancora credute da don Ferrante a tre secoli di distanza dal Petrarca!). Altra volta gli capita di scoprire che il Lelio di cui parla Cicerone nell’operetta omonima (Laelius de amicitia) non è l’amico di Scipione l’Africano, ma l’omonimo amico di Scipione Emiliano (“De viris illustribus, XI: “De Publio Cornelio Scipione Africano maiore”). Ne segue che i codici a lui appartenuti sono doppiamente interessanti, perchè portano le sue correzioni autografe: si veda ad esempio il “Virgilio” presso la biblioteca Ambrosiana di Milano. Non
che in tale lavoro egli possa paragonarsi ai suoi discepoli rinascimentali, che
procederanno ben oltre i suoi tentativi e risultati. Ma egli è l’iniziatore e
l’esempio: è il padre dell’Umanesimo filologico-erudito. Rimangono in lui
errori. Ad esempio (spinto anche dalla sua parzialità per Platone ed
insofferenza di Aristotele), scambia un “Isocrate” per Socrate in un’opera
di Cicerone mal trascritta, sicchè accetta l’esistenza di un disprezzo
vicendevole fra Aristotele e Socrate, cosa impossibile, se non altro, per la
cronologia, visto che Socrate muore nel 399 e Aristotele nasce nel 384 a. C. Così
pure, nelle “Invectivae contra medicum”, accetta la scrittura errata del
Medioevo per il nome (Galienus per Galenus) e l’opera (Terapeutica
per Therapeutica) del famoso medico greco Claudio Galeno del secondo
secolo d. C. Eppure
è notevole che non si accontenti di una sola fonte per il suo “De viris
illustribus”; che egli confrotni
fra loro e con altri autori Livio, Svetonio, Floro, Giustino e Cesare, non senza
rimaner sorpreso ed andare in collera quando li trova discordanti fra loro. E’
su questa linea che Lorenzo Valla riuscirà a dimostrare la falsità della
“donazione costantiniana”. Così pure si trovano ancora particolari di
ortografia, grammatica e sintassi della lingua latina che sono residui errati
ereditati dal Medioevo: il dittongo “ae” è scritto abitualmente colla
semplice “e”; “mihi e nihil” (a me| niente) assumono una “c”
indebita (“michi e nichil”), mentre “cunctus” (tutto) e “auctoritas”
(autorità) perdono per compenso la loro “c” regolare (egli scrive
“cuntus| autoritas”). Egli non si accorge che la formula sintetica
“fore” in latino serve per l’infinito futuro: egli la usa come sinonimo di
“esse” per l’infinito presente. Il condizionale nelle proposizioni
principali, così diffuso nelle lingue romanze (“io potrei, dire, farei...”)
è ingenuamente tradotto col congiuntivo imperfetto latino (“possem...”),
mentre è d’obbligo
l’indicativo (possum). Pure vi è
un abisso tra il pressappochismo medioevale nell’uso della prosodia (valore
musicale delle sillabe nei versi) e la quasi ineccepibile padronanza
nelle composizioni poetiche di Petrarca). Come pure ci si accorge che
Dante ed i suoi contemporanei traducevano in latino dall’abitudine a parlare e
pensare in toscano, mentre Petrarca è un vero poliglotta che ha imparato il
toscano in famiglia e il latino non
solo a scuola ma anche nella curia di Avignone, nella lettura assidua di opere
latine classiche, nel conversare e scrivere nella lingua di Cicerone con
intellettuali od amici di mezza Europa. Egli si è abituato a pensare in latino
e non gli torna perciò difficile veicolare attraverso quella lingua se non
proprio una altissima poesia, almeno un’abituale dignità letteraria e, anzi,
una patina di lirismo che sono cosa nuova e seducente (si leggano specialmente i
vv. 885-918 del sesto libro dell’Africa, cioè il lamento di Magone che sente
sfuggirsi la vita mentre è riportato in Africa).
2) L’umanesimo storiografico E’ la stima, la fiducia l’amore per quelle età (società, generazioni) che, precedendo il cristianesimo, non possono essere apprezzate se non per i valori naturali (sapienza filosofica, bellezza artistica, virtù morali, progresso scientifico e tecnico...) che le hanno rese grandi e famose. In particolare la attenzione ed interesse degli umanisti, fino all’Illuminismo compreso, fa perno sulle età del V secolo a. C. in Atene (da Pericle a Socrate) e del I secolo a. C. in Roma (da Cicerone ad Augusto). Ebbene,
è a questo proposito che si verifica già con Petrarca una vera rivoluzione
rispetto alla pur viva ammirazione e culto per l’antichità pagana presso
Dante e molti Medioevali. Un
primo aspetto di tale rivoluzione consiste
nella coscienza che per il Petrarca non vi continuazione, ma frattura
fra la classicità pagana e la cristianità medioevale. La cultura antica
non è preparazione alla civiltà del Vangelo; Roma e l’impero non “fur
stabiliti per lo loco santo| u’ siede il successor del maggior Piero” (Inf.
3,23-24). Non vi è più una funzionalità subordinata per cui l’evo antico
dica ordine, provvidenzialmente, a quello cristiano. Le due epoche sono come
entità a sè stanti, il cui giudizio di valore va pronunciato autonomamente in
base a criteri desunti da altre fonti che da quelle religiose e rivelate. [11]Anche
a costo di essere incoerente, per i fatti non esemplari cui l’antichità
pagana lo mette di fronte; o per ritorni di fiamma della coscienza cristiana,
che gli ricorda la Redenzione ed i santi della Chiesa. E’ così che il
giudizio del Petrarca sull’antichità classica (che per lui non significa
necessariamente un giudizio sul paganesimo) è molto più
positivo e favorevole che non quello sull’età contemporanea. Nasce,
cioè, col Petrarca un vero “complesso
d’inferiorità” dell’uomo rinascimentale
di fronte agli antichi. Essi si ritrovano pigmei rispetto a giganti:
senza più la saggezza di osservare, come facevano i medioevali, che si tratta
di pigmei (o bambini) posti sulle spalle dei padri-giganti sicchè, tutto
sommato, vedono meglio di loro. [12] Ed
ecco le conseguenze nel giudizio di merito. Obliando i canoni religiosi e morali
portati dal Vangelo, Petrarca rimane abbagliato e avvinto dalle singole
espressioni di virtù (parziali, per di più) che l’antichità gli trasmette:
“Io, posto come sul confine di due popoli e guardando insieme a quello che mi
sta dietro e a quello che mi verrà innanzi, questo giudizio (di condanna della
mia età) non ereditato dai padri, volli trasmettere ai posteri” (Rerum
memorandarum, I, 2). E sì che egli ha troppo ben presenti i delitti vergognosi
di molti, ritenuti “grandi” tra i pagani. Di fronte alla corruzione
dell’età di P. Clodio Pulcro (m. 52 a. C.) esclama con Seneca (che se ne
lamentava già lui nel primo secolo dopo Cristo): “Ut cum eodem Seneca
concludam: -Pudet dicere: numquam apertius quam coram Catone peccatum est-“
(“sicchè collo stesso Seneca debbo concludere: Mi vergogno a dirlo mai più
sfacciatamente si peccò che in presenza –cioè al tempo- di Catone”: Rerum
memorandarum, II, 67). Pur posto di fronte alla sconcertante dichiarazione di
Giugurta (160 ca-104 a. C.): “O urbem venalem et cito perituram si emptorem
inveneris” (“O città venale, pronta a perire presto se solo trovassi un
compratore”, ib. III, 54); alle ignominie di un Publio Clodio, di un Giulio
Cesare (omosessualità), di Crasso, di Augusto e di sua nipote Giulia e di
molti altri romani, che cita negli stessi Rerum memorandarum libri, egli tutto dimentica ed esclama a proposito dei propri tempi: “O
età tenebrosa! e osi disprezzare la veneranda antichità che fu a te maestra e,
delle arti tutte, gloriosa ritrovatrice?” (Senili, V, 2). E, alla fine delle
Rerum memorandarum (IV, 31), ricordando Catone l’Uticense, Cicerone, Marco
TerenzioVarrone, esclama: “Deus bone, quanti et quam illustres homines !”
Anche Dante ammirava stupito gli antichi pagani,
ma relativamente alle loro opere terrene: mai mette in discussione la loro
inferiorità a motivo della fede e della Grazia che rende figli di Dio e destina
al Paradiso. Petrarca sa queste cose, ma
le oblia: il giudizio di superiorità diventa così assoluto; i meriti
del Cristianesimo vengono obliterati, gli uomini illustri nuovi (i santi)
vengono cancellati dalla coscienza: lo splendore di alcuni risultati terreni
abbaglia lo studioso. Neppure di fronte alla ridicola superstizione romana
dell’aruspicina, alle menzogne degli oracoli (egli snobba tutto questo anche
in Rerum memorandarum, IV) è richiamato ad un giudizio più realistico ed equo.
Neanche basta la ostilità di
Cicerone contro Cesare (Petrarca, tutto sommato, preferisce questo a quello,
l’ordine imposto dall’uomo forte al caos permesso dalla oligarchia
repubblicana) a sminuire la ammirazione per
l’oratore di Arpino, “la fonte divina ed aurea dell’eloquo”
(ib. II, 68; IV, 40). Ma
non ci si aspetti coerenza dal Petrarca pensatore! Egli esce dall’estasi nei
confronti dell’antichità greco-romana e, occasionalmente, riconosce la
miseria dell’antichità pagana, priva della vera fede (Invectivae contra
medicum, l. 3). Anzi negli stessi “Rerum memorandarum libri” deve
riconoscere, a denti stretti, che l’esempio dei santi cristiani (Antonio
l’eremita, Paolo, Agostino) è superiore ai modelli di onestà pagana,
quali per lui rimangono Catone, Lelio, Scipione. C’è un solo passo ove
ammette cordialmente la inferiorità degli
antichi (ma, a buon conto, cita Aristotele, che non è il più stimato da
lui...) rispetto alla verità e santità cristiana: è nel “De sui ipsius et
multorum ingorantia”, ove una vecchierella analfabeta è detta aver più
sapienza di loro![13]
3)
Umanesimo teoretico (ideologico) E’ la stima, fiducia, amore per l’uomo e per la vita umana, anche a prescindere dalla sua elevazione alla soprannatura, cioè alla partecipazione alla vita divina attraverso la fede, speranza e carità (cioè, attraverso la “Grazia”, ottenuta dalla Redenzione di Cristo). Inteso in questo senso generico e generale, nessun uomo che accetti (e fosse pure penosamente) di vivere è fuori dall’umanesimo, cioè dell’attacamento ed interesse e culto per la vita terrena. Lo stesso Leopardi, per il solo fatto che rifiutò il suicidio come soluzione delle sue frustrazioni e delusioni, rimane nell’ambito di un minimo comun denominatore umanistico. Il senso però dell’umanesimo si specifica in base alle varie componenti sia costitutive (quali beni o valori vengono accettati?), sia motivanti (quale è la ragione ultima per cui vengono stimati e amati i beni della vita terrena?). Per questi due punti di vista, tre principali prospettive umanistiche si presentano nel corso delle generazioni storiche, cioè differenti sfumature del culto, dell’interesse, dell’amore, stima e fiducia nell’uomo. 1) Vi è, dunque, un umanesimo assoluto ed indiscriminato, che accetta ed esalta l’uomo e la vita come sono, nella loro caotica mescolanza di virtù e di peccati, di verità e di errori, di sogni esaltanti e di fallimenti inevitabili: è l’umanesimo immanentista, che prescinde da una gerarchia di valori e dalla finalizzazione dell’uomo a Dio, per la convinzione che non vi sia un disegno sapiente nè una carità provvidente nella vita e nella storia dell’uomo. Entro questa cornice di fondo, vi è posto per differenti accentuazioni del bene fondamentale da salvaguardare. Vi è un umanesimo idealistico che esalta il pensiero sulla istintività e l’agire disinteressato sull’egoismo, senza però armonizzare con regole precise il rapporto fra le due sfere di beni, che la società può solo di volta in volta rendere più o meno accessibili, in base alle esigenze del momento storico (esigenze dettate dallo “spirito” od idea universale, che guida fatalmente le vicende umane). Vi è posto per vari tipi di umanesimo materialistico a secondo che Freud ponga al sommo dei bisogni umani l’esercizio della sessualità o che Marx dia il primo posto all’economia o che Nietzsche predichi la volontà di potenza come bene irrinunciabile per ogni uomo degno del nome. 2)Vi è un umanesimo, invece, che che ha il culto dell’uomo, ma in quanto essere interiormente libero, che cerca la verità anche contro l’obnubilamento delle impressioni sensorie e che si prefigge il bene morale, anche contro la seduzione della sfera emotiva ed istintiva. E’ un umanesimo di impronta spiritualistica, che concepisce l’uomo come animale ragionevole e libero, risultante da materia e spirito, capace di raggiungere un’armonia fra le due componenti, in maniera che le esigenze della ragione e della libertà interiore abbiano il sopravvento, cioè dominino la eventuale tendenza delle passioni emotivo-istintive ad agire contro il legame voluto dalla natura umana tra il loro espletamento ed i fini per cui esse sono insite nell’organismo (legge naturale o morale). Si tratta di un umanesimo etico, cioè fondato sul primato dello spirito, sulla convinzione della capacità di quest’ultimo a realizzare il sinergismo tra spinte animali e dettato della coscienza, sinergismo che talora (o sovente) consiste nel rifiuto della sollecitazioni inferiore. E’ un umanesimo che si propone di vivere dall’interno all’esterno, cioè dal dettame della verità (percepita dalla coscienza morale) all’assunzione di beni esteriori; e non viceversa (cioè dall’attrattiva dei beni sensibili alle credenze della propria mente); è un umanesimo che non si propone il “mi piace-non mi piace”, ma l’altro principio “é bene-è male”, come criterio determinante di scelte. E’ un umanesimo che crede nella capacità dell’anima ( attraverso l’uso della zona di Wernicke, nell’emisfero cerebrale sinistro) di pilotare il corpo e di moderarne le esigenze nel contesto del bene di tutto il “sìnolo” umano, cioè appunto dell’uomo come sussistente nell’unione di anima e di corpo. Prescindendo dalla questione (tutt’altro che oziosa) se tale umanesimo fondato sui valori morali possa costruirsi adeguatamente al di fuori di una fede religiosa, in un Dio creatore e giudice dell’uomo (di conseguenza, di una fede nella immortalità dell’anima),[14] resta il fatto che statisticamente un umanesimo di stampo morale nella cultura occidentale è sempre stato legato alla fede religiosa, cioè con la scelta di Dio come Bene-Valore supremo; e della Sua legge come punto di riferimento ovvio per un tale comportamento dell’umanità, che realizzi la perfezione delle singole persone e della società tutta. Si tratta, dunque, di un Umanesimo etico-religioso. 3) E vi è una terza forma di Umanesimo che non è solamente etico-religioso, ma specificamente cristiano e che (certo, non in tutti i dettagli!) sostanzialmente coincide con quello di Francesco, di Dante e della cultura dominante nel Medioevo. Si tratta di una forma di Umanesimo che tien conto dei due assi portanti, che distinguono il Cristianesimo dalla religione naturale generica: il dogma del peccato originale e quello della Redenzione di Cristo. Il primo happening od evento nella storia religiosa dell’uomo, sottraendogli il dono della Grazia (partecipazione accidentale ma autentica alla Sua vita e, perciò, figliolanza, amicizia, eredità con Dio), lo ha ridotto ad una debolezza etico-religiosa che gli rende difficile conoscere Dio e le esigenze morali della vita umana e gli han reso così arduo osservare la legge morale, che l’uomo senza la restaurazione operata dall’ azione redentrice di Cristo (Dio, fattosi uomo per salvarci) non riesce più ad onorare tutti i suoi doveri morali, a vivere nella perfezione della vita umana, ad essere fedele a tutti i comandamenti del Decalogo: in una parola, ad essere integralmente onesto. Un uomo, senza la Grazia rimeritataci da Cristo, non riesce più ad essere un uomo intero. Di qui, la già avanzata opinione che non si possa più parlare, da parte di un cristiano consapevole, di Umanesimo cristiano, ma solo di Cristianesimo umano. Il che viene a significare che il cristiano, domandato se è un umanista, se abbia ul culto dell’uomo, si veda costretto ad uan distinzione. Egli riserva il suo culto solo a Dio, ma ha una totale stima, fiducia, amore per l’uomo in quanto redento da Cristo ( non foss’altro per la comparsa, col Cristianesimo di una nuova categoria di uomini, cioè i santi: davanti ai quali anche Petrarca, quando se ne ricorda, attenua la sua ammirazione per gli uomini illustri del paganesimo). Prescindendo da tale redenzione-restaurazione, il cristiano scuote la testa desolato: se i valori morali sono quelli più alti e decisivi (al di sopra, persino, di quelli della intelligenza e della genialità, che alla vita morale sono, alfine, funzionali e subservienti), allora l’uomo colle sole sue forze non riesce a districarsi dal ricatto dello scimmione da cui Dio ha ricavato il suo corpo; non ha le forze per discendere definitivamente dall’albero dei primati; non è in grado di uscire dalla selva dei quadrumani e di drizzare l’occhio al cielo, di dominare la terra e di comportarsi da spirito libero, guida e padrone del corpo e dei suoi istinti. L’atteggiamento del cristiano di fronte all’uomo è equivoco od ipotetico. Se gli uomini di cui si parla sono quelli redenti, credenti ed affidati a Cristo nella Chiesa, allora in loro si può investire una stima, una fiducia, un amore che non deluderanno ma potranno addirittura sbalordire per la messe di frutti di eccezionale moralità (fino all’eroismo), che statisticamente non verranno a mancare, come la storia dei due millenni di cristianesimo sta a testimoniare. Ma se l’uomo di cui si tratta è al di fuori della luce evangelica, allora persino la sua coscienza sarà offuscata; e il suo comportamento, sempre più malvagio, con un processo di graduale, crescente corruzione: secondo il principio di San Bernardo “Nemo repente fit pessimus” (nessuno diventa “pessimo” improvvisamente). Domandiamoci ora: a quale tipo dei tre Umanesimi delineati apparteneva il Petrarca? Abbiamo già escluso l’umanesimo ateo, quando abbiamo esaminato le opere latine del poeta. La sua polemica contro il materialismo è già nei “Rerum memorandarum libri” (ad es. III, 77) e diviene più specificamente antiaverroistica nel “De sui ipsius et multorum ingorantia”, non chè in “Senili” V, 2 (a Boccaccio). Petrarca fu certo a lungo un peccatore ostinato, ma miscredente, mai. Lo testimoniano lo stesso Canzoniere ed i Trionfi, i Salmi penitenziali, il “Secretum”, la Vita solitaria ed il De otio religioso (ma gli stessi libri III –nei cc. 58 e 77- e IV dei “Rerum Memorandarum libri”). Che più? Giunto alla conversione anche etica, egli progredì verso un costume ascetico fino a digiunare un giorno alla settimana e ad esser fedele ad un termine di preghiere impostesi quotidianamente, cose che testimoniano non solo della sua fede, ma anzi, della sua devozione. Ma, garantito il suo Umanesimo etico-religioso, possiamo parlare di un coerente Umanesimo cristiano? Il discorso a tale proposito si aggroviglia e si fa complicato. Abbiam detto che due sono le verità che connotano il Cristianesmo, due fatti storici che diventano le due colonne distintive rispetto alla religione naturale o razionale: il peccato originale e la Incarnazione di Dio, in Cristo Gesù, per la redenzione del genere umano, da quella come da tutte le colpe. Circa la fede di Petrarca in Cristo Salvatore, non esiste difficoltà alcuna: egli si rivela un cristiano cosciente e riconoscente per tale dono di Dio. Anche i “Rerum memorandarum libri”, che pur programmaticamente prescindono da esemplificazioni cristiane, invitano tuttavia a ringraziare Dio che ci ha liberati dalle tenebre e introdotti nella luce della verità, chiamandoci al Cristianesimo (IV, 14 e 29). Dal “De otio religioso” basterà ricordare i ripetuti atti di fede in Cristo (I: “Messias enim verus Dominus iam venit, ipse est Christus”).[15] Egli, anzi, si accosta alla concezione dantesca del mondo romano come preparazione provvidenziale a quello cristiano, quando mette in parallelo le profezie delle sibille cumana ed eritrea con quelle della Bibbia; quando interpreta versi dell’Eneide su Cesare come riferiti all’opera di Cristo. C’è persino della poesia (o almeno una vibrazione sentimentale) in lui, quando esprime la dolcezza che vi sarà nel contemplare, in Cielo, Cristo rivestito di umana carne (“Quam perdulce enim spectaculum videre nostra carne nostraque anima vestitum Deum, audire verba, incessum aspicere, notare actus inter homines versantis...”). Eccolo uscire in esclamazioni di retorica esultanza di fronte al mistero della Incarnazione (“Verbum caro factum est... O inenarrabile sacramentum...”). E’ attraverso Lui che si viene salvati (“per Quem salvi fiant”): e solo attraverso Lui (“salvare Ille potens est: ego salvari nequeo”). E’ per misericordia e, quindi, per Grazia che veniamo salvati (“Misericordia Dei miseriam transcedit humanam”; “quam potenti et quam misericordi remedio huic tantae miseriae sit consultum...”; “pro salute hominis humiliata-divinitas descendit...”). Le citazioni sulla incapacità umana alla salvezza, anzi alla integrità morale contro le insidie del demonio, del mondo e della carne si possono moltiplicare dal “De otio religioso”. Leggiamo dal secondo libro: “carnis insidias...superare difficile est fateor, sed possibile contendo; haud aliter tamen quam si divinum non desit auxilium... Ad illum unum cui solum est succurrere in hoc intestino et domestico proelio clamandum est... Iure ergo per singulos dies obsecramus –Revela oculos meos- velum scilicet amove quo impedior ab aspectu et contemplatione coelestium et in terram premor... Laudantes invocate Deum et ab inimicis vestris salvi eritis”[16]. Anzi, troviamo espressioni che sembrano completare la dipendenza dell’uomo da Cristo per la perfezione anche intellettuale: “Per noi che siamo cristiani la filosofia può essere solo amore della sapienza: ma la Sapienza di Dio è Cristo e, perciò, noi dobbiamo amarlo, se vogliamo essere dei veri filosofi” (Familiari, IV, 4: al card. G. Colonna). Se un dubbio viene circa la integrità della sua conoscenza circa la prospettiva rivelata sulla condizione morale dell’uomo, è un dubbio sull’altro pilastro della storia e dottrina cristiana quello del peccato originale. A dir il vero, può sembrare che questo fattore, corrosivo della stima-fiducia-amore per l’uomo, sia ovviamente presente nel suo pessimismo complessivo sull’uomo, nelle ripetute proteste circa l’insufficienza etica umana, nel bisogno di Cristo Salvatore per vincere gli ostacoli alla virtù. Anzi, vi sono passi espliciti su questo evento negativo nella storia religiosa dell’uomo. In “Senili,IV,4” afferma: “Ecco l’eredità di quell’antico nostro progenitore assai più noto che utile alla sua discendenza: fame, sete, stanchezza, sonno o breve o perpetuo, che è detto morte”. Ancor prima, nel “De viris illustribus”, la vita di Adamo occupa solo una paginetta, ma non parla d’altro che del suo fallo. Ed ecco la frase centrale: “Infelice! E lo fosse stato lui solo nè avesse trascinato tutta la discendenza innocente. Chè quello fu il principio di tutta la nostra miseria”. Ma entrambi questi passi sono spie acutissime sulla incapacità del Petrarca a connettere il problema della insufficienza morale dell’uomo alla caduta dei progenitori: egli cita molti corollari penosi della colpa originale, eccetto la concupiscenza o tendenza all’abuso degli istinti (all’uso slegato dal loro finalismo). Non che gli manchi la coscienza della nostra debolezza di fronte alla tentazione. Quello che, però, gli manca è la coscienza della connessione tra impotenza morale umana e colpa originale. Al punto che in “Familiari, X, 3”, scrivendo al fratello Gherardo, preferisce far risalire ad un platonismo submanicheo la pericolosità del corpo, nemico dell’anima, piuttosto che al disordine del peccato originale che ha turbato l’armonia fra loro! Ecco, a nostro parere, il punto debole nella visione petrarchesca della vita e la fonte dell’ambiguità (anzi, contraddizione) in certe sue posizioni, specie nell’ambito dell’umanesimo storiografico. Non tenendo presente l’insidia della concupiscenza e la nostra insufficienza a farvi fronte, a causa della colpa prima, egli può illudersi che anche fuori della redenzione di Cristo è possibile una vita integra ed esemplare; è possibile cioè essere non soltanto grande guerriero, politico, oratore, poeta, filosofo..., ma semplicemente grande uomo, moralmente integro ed anzi eroico nella virtù morale. Vi è, cioè, una dissociazione nei giudizi di Petrarca che si possono ricondurre (si devono, nella nostra ipotesi) alla obliterazione dell’effetto del peccato originale sulla psiche umana: da una parte, egli riconosce la necessità della Redenzione di Cristo per vivere onestamente (livello teoretico puro); dall’altra, egli ritiene poi che i pagani, al di fuori di tale “economia della Grazia di Cristo”, potessero facilmente riuscire a raggiungere vette esemplari di moralità (livello storiografico). Egli, infatti, non metteva in conto i delitti così ovvi nella società pagana di Roma, che non erano ricordati o condannati se non quando (caso Verre, in Sicilia) raggiungevano dimensioni di sfacciato brigantaggio. Ad esempio, nessun romano trovava immorale che il cittadino mandato nelle colonie (“province”) a governare, dovesse lasciare a Roma (in ostaggio) la moglie e fosse quindi autorizzato, da una tradizione mai contestata, all’infedeltà coniugale (d’altronde la legge puniva soltanto l’infedeltà delle donne...). Ancora: nessun romano trovava condannabile che tali cittadini con autorità all’estero si arricchissero a spese dei popoli loro affidati, tanto che un proconsole od un propretore, che tornasse non arricchito dal suo mandato nelle colonie, sarebbe stato deriso come ingenuo. La prova definitiva? La repubblica non assegnava alcun stipendio al governatore “in missione” nelle province-colonie , che gli erano date, anzi, in premio stabilito per legge allo scadere del mandato annuo di responsabilità in Roma (come consoli o pretori): il che significava che era mandato all’estero a rifarsi delle spese di propaganda elettorale e di incarico gratuito in patria. Petrarca non connetteva la decadenza morale della società a lui contemporanea con la esitazione, la diminuzione o l’abbandono totale della fede cristiana; e in tanto era portato ad esaltare gli uomini illustri pagani, in quanto non s’accorgeva che la delusione, indotta in lui dalla società che gli stava attorno, nasceva proprio da un progressivo riavvicinarsi a quei tempi e costumi. Egli non percepiva che in tanto i suoi contemporanei lo disgustavano, in quanto erano ben lontani (a cominciare da lui stesso) dalla condotta che si ha diritto di attendersi da una società cristiana; e che in tanto alcuni “magni viri” dell’antichità pagana lo affascinavano, in quanto erano (od almeno potevano apparire) delle eccezioni, i cui princìpi morali non erano poi così distanti da quelli del Vangelo. Egli non s’accorgeva che il solo selezionare, come esempi di virtù, determinati comportamenti piuttosto che altri, era un effetto dell’aver lui una coscienza cristiana. La causa è stata detta. In pratica vi è già in Petrarca quell’oblio del peccato originale che sarà la caratteristica teoretica più importante del pensiero rinascimentale: oblio che non significa ancora negazione (come avverrà nell’Illuminismo settecentesco), ma semplicemente “ignoranza e trascuranza”. In Petrarca l’oblio è limitato: il peccato originale è percepito come causa di sofferenze fisiche e di morte, ma non della gfragilità morale dell’uomo. I prossimi suoi discepoli faranno un passo ulteriore: ragioneranno come se la colpa originale non fosse e, quindi, l’uomo meritasse ogni stima, fiducia, amore (culto, quasi) e opteranno per un ottimismo allegro e permissivo, che (lo si è detto) scandalizzerà il frate di pessimistica, tragicamente negativa Erfurt (Martin Lutero) e lo precipiterà nell’estremo opposto di una antropoteologia del tutto. Questa visione, adeguatamente opposta a quella rinascimentale, innescherà il Concilio di Trento ed esaspererà l’inquisizione, non solo cattolica, ma ubiquitaria, in ogni movimento di riforma e controriforma. In Petrarca non si ha l’effetto euforizzante (ottimistico) conseguente all’obliterazione della colpa orginale, perchè egli riconosce la fragilità morale dell’uomo e la necessità della redenzione di Cristo, benchè sconnesse da quell’altro dato di fede. Abbiamo una strana dissociazione, come si è già detto, nella mente del Petrarca: egli ha davanti a sè tutti i pezzi della scacchiera (insufficienza etica dell’uomo; impossibilità a vivere interamente onesti senza la Grazia di Cristo redentore; realtà del peccato originale come radice della “pena di vivere” tra fatiche e preoccupazioni, malattie e morte), ma non gli riesce di combinarli in uno schieramento logico e organico. I pezzi non sono tutti sinergici; ve ne è uno almeno scoordinato: e la sfida per una comprensione soddisfacente della complessità, propria della vita morale umana, viene persa. Egli finisce per giocare una doppia partita, su due scacchiere diverse: come cristiano metterà in campo anche il dogma del peccato originale, sia pure con la sbadataggine di non scrutarne a fondo tutto il significato e le conseguenze nei giudizi sulle epoche storiche; come umanista, tale verità non viene considerata, sicchè egli può esaltare la perfezione anche morale del mondo greco-romano che, come seguace di Cristo e conoscitore a fondo dei costumi di quelle società, talvolta è pur costretto a riconoscere estremamente corrotto e, in ogni caso, non paragonabile alla santità di Paolo ed Agostino, di Antonio e Francesco. Nella problematica morale, destata in lui tanto dall’amore per Laura sposata come dal giudizio sulla storia umana, egli rimane indeciso e disorientato: ama Laura ed è trormentato dai rimorsi; elogia, come definitivamente grandi, i pagani e proclama che solo la Redenzione ha donato all’umanità i santi e la possibilità di superare le tentazioni al male. Dissociazione, disordine nelle tessere del proprio mondo intellettuale e morale. Per questo iato nella sintesi delle sue convinzioni definitive, non parleremmo di un Cristianesimo umanistico, come per Dante e Francesco, ma di un Umanesimo ellittico a due fuochi: in uno si pone saldamente Cristo come componente necessaria all’umanità perfetta (Umanesimo cristiano); nell’altro si mette il culto per un’antichità considerata perfetta pur nella assenza di Cristo (Umanesimo rinascimentale). Una più viva coscienza sulla funzione della concupiscenza nella vita morale umana (corollario del peccato originale) unirebbe i due criteri di giudizio e li accentrerebbe in una visione coerente, circolare o sferica, con un solo centro, un solo canone su cui misurare uomini singoli e società intere, del tempo presente come di ogni età preterita o futura.[17] Differenze dell’Umanesimo del Petrarca da quello dei Rinascimentali Riferendoci alle tre componenti fondamentali dell’Umanesimo (Filologico| Storiografico| Teoretico) possiamo vedere chiaramente i limiti di appartenenza del Petrarca all’Umanesimo rinascimentale ed i residui del suo spirito Medioevale. Come i Preumanisti, Petrarca ha la passione per la filologia: ricerca di codici, il loro confronto e la correzione. Più in là dei Preumanisti (e già come gli umanisti
rinascimentali, di cui qualcuno
è suo discepolo), egli ha il culto per le età e gli uomini di Grecia e Roma
che, pur pagani, hanno dimostrato un grado di civiltà da sfigurarne i tempi
cristiani a lui contemporanei. E’ un po’ il padre dell’Umanesimo
storiografico, di un attitudine, cioè, di pessimismo sulla propria età
e di entusiasmo per la civiltà dell’antica Roma e Grecia. Tanto che, pur
non essendogli ignoto il fatto del peccato originale, egli non lo mette in conto
nel giudizio sugli uomini eccellenti delle culture pagane, sicchè finisce,
almeno sul piano storiografico, a partecipare di quella stima, fiducia, amore
per uomini e fatti dell’umanità fuori
del Cristiaanesimo, che insinua la convinzione (almeno implicita) pelagiana:
l’uomo può farsi perfetto anche indipendentemente dalla Grazia redentrice di
Cristo. Eppure, diversamente dagli Umanisti rinascimentali, a) egli non ha la fierezza di chi sente di aver “riacciuffato” il livello di civiltà antica, il loro grado di cultura e senso critico. b) Soprattutto ha una forte coscienza della necessità della Grazia o Redenzione di Cristo per una vita moralmente integra, sicchè è da dirsi, per questo, umanista cristiano, pur nel bipolarismo incoerente, in cui coesistono dissone due concezioni: senza Cristo non vi è perfezione morale; prima di Cristo, tale perfezione esisteva! c)
Rimanendo insoluto questo
sfaglio, egli ha un senso così vivo del primato della vita morale, che difende
la scelta della fuga dal
mondo e dei voti religiosi (povertà,
castità e ubbidienza), fino a preoccuparsi di rispondere alle diffuse obiezioni
(De otio religioso), che saranno riprese invece dai rinascimentali, come Poggio
Bracciolini (Contra hypocritas), Leonardo Bruni
(Oratio in hypocritas) e Lorenzo Valla (De professione religiosorum). d)
E, sempre con sorprendente
illogicità, ha la convinzione che i santi siano modelli di vita: convinzione
espressa non solo nel De otio religioso (II, 74: S. Francesco e S. Paolo), ma
anche nei Rerum memorandarum libri (III, 77: Paolo, Antonio
-l’eremita- Agostino, Giovanni -il Battista-). Anzi nella parte finale
del De otio religioso, egli insiste
nel predicare la donna analfabeta, ma cristiana, più sapiente e più fortunata
di Aristotele e di ogni suo
seguace. LA POESIA DEL PETRARCA Ci occuperemo soprattutto del CANZONIERE o RIME (Rerum vulgarium fragmenta: “schegge di scritti in lingua volgare”): integreremo con qualche passo poeticamente significativo dai TRIONFI, dall’AFRICA e da qualche poesia “dispersa”, cioè non collezionata nel Canzoniere.
MOTIVI ISPIRATORI Nota introduttiva. Se abbiamo studiato a parte il pensiero del poeta, è perchè la sua visione della vita e del mondo solo molto marginalmente formano motivo ispiratore della sua poesia: solo qualche composizione prende spunto dalla vita politica (“Italia mia”; “Spirto gentil”) o da quella ecclesiastica (nei tre sonetti 136-7-8) o da quella sociale (lamento sulla sua corruzione, nel sonetto 7). Non ci troviamo di fronte ad un poeta-vate, che cioè si proponga una missione religiosa, sociale, politica... quale certo fu Dante. No: il Petrarca è un artista ripiegato su se stesso, strettamente lirico, che parla cioè in prima persona perchè non ha altro da comunicarci che le emozioni che scaturiscono dalle peripezie dei propri sentimenti amorosi, i quali fungono da scintilla (prima) e da mezzo espressivo (poi) degli stati d’animo che ne risultano. Se il passaggio dalla panoramica universalistica dell’Alighieri alla concentrazione egotistica del Petrarca può tentare ad un atteggiamento di disdegno e di svalutazione aprioristica, occorre ricordare che “l’unum necessarium” (l’unica cosa necessaria) alla artisticità di una espressione è il lirismo o l’emozione pura: la poesia è tanto più alta, quanto più potente è la carica emozionale che racchiude, esprime e trasmette. Il resto conta in sede di cultura generale e di efficienza pratica, ma non ha importanza in quanto arte e poesia. E nessuno può negare che la poesia del Petrarca è di notevole livello lirico che le assegna un posto fra i più alti della nostra storia letteraria. Ancora una precisazione per liberarsi da un pregiudizio troppo facile nella lettura della poesia del Petrarca: Laura è la sorgente esteriore e lontana della ispirazione petrarchesca, non il motivo prossimo e specifico: questo sta negli effetti che la avvenenza ed attrattiva della donna generano nell’animo del poeta, cioè nei sentimenti che la presenza, il ricordo, il fascino della sua figura destano nel cuore di Petrarca. Per quanto possa apparire strano, MOTIVO ISPIRATORE FONDAMENTALE DEL LIRISMO O DELLE EMOZIONI PURE DEL PETRARCA SONO I SENTIMENTI (PRATICI) DEL SUO ANIMO, MA NON DIRETTAMENTE L’AMORE PER LAURA, BENSI’ LA GIOIA O LA TRISTEZZA O IL DUBBIO, NATI DAL CONSENSO-RIFIUTO DI QUELLA.[18] l) Autobiografismo psicologico. E’ questo il motivo ispiratore primo ed assorbente (cioè, quasi unico) del poeta aretino. Negativamente, ciò significa che quando Petrarca vuole esprimere poesia attraverso personaggi diversi da sè (ad esempio, quelli del poema “Africa”) deve ridurre quei personaggi a controfigure di se stesso, ad anime toccate dai suoi stessi sentimenti di tristezza, dubbi, paure. Se tale operazione di assimilazione a se stesso (di “proiezione autobiografica”) non riesce, i versi del Petrarca potranno essere raffinati e ben torniti, ma non trasmettono emozioni: sono aridi, sfuocati. In concreto, nel poema in versi latini, egli riesce a prestare espressioni poeticamente vive solo a Magone, allorchè lo sorprende nel momento della agonia, in stati d’animo più o meno simili ai suoi: la delusione ed autocommiserazione per il fallimento (delle speranze d’amore, in Petrarca; delle promesse di gloria, in Magone: Africa, VI, 885-918). Ancora negativamente, Petrarca non ha da parteciparci avvenimenti esteriori della sua vita: il suo “aubiografismo” non è storico-pratico. Ripiegato su se stesso, egl non è interessato nel suo intimo dalle vicende esterne, dai fatti banali o speciali della sua vita sociale: la stessa data del’innamoramento e della morte di Laura è sospetta di artificio, perchè è in entrambi i casi un 6 aprile (ritenuto l’esatto giorno del venerdì santo nel 33 d. C., data sicura per i Medioevali della morte del Signore). Positivamente, autobiografismo psicologico significa che i motivi innescanti il processo poetico sono le affezioni vere della sua vita interiore, sentimentale.[19] Alla radice della più solita liricità petrarchesca non stanno dunque ideali morali, progetti sociali, dottrine politiche, sistemi filosofici o convinzioni religiose, ma sentimenti che, istigate dall’amore, ne sono già al di là e si concretizzano come le gioie e le ambasce, i timori ed i dubbi che la vicenda,quanto mai equivoca, dei suoi rapporti con Laura genera nel suo cuore. Il Canzoniere risulta così un “diario” della vita emozionale del poeta, ma non un diario delle vicende amorose con Laura, bensì dei riflessi di tali peripezie nella sua psicologia: diario delle tristezze e delle consolazioni, delle speranze e dei dubbi, dei rimorsi e della desolazione del povero poeta. Alla fin fine, si potrebeb sospettare, un gruzzolo di motivi ispiratori davvero misero, ripetitivo, forse noioso. Ma è qui la grandezza del solitario passeggiatore di Valchiusa: aver saputo elevare a “musica in parole”, a poesia suggestiva le non molte vicende (e facilmente indovinabili e necesariamente iterative) della sua anima, ferita eppur estatica nel suo sogno d’amore. E siccome la poesia che si ispira a tali vicende interiori, sentimentali è chiamata per eccellenza “poesia lirica”, Petrarca risulta un tipico “poeta lirico”, un “lirico puro”, chiuso cioè nella espressione in “io|mio”, escluso da quella drammatico (in “io-tu| noi-voi”) e da quella epica (in “egli-essi”). Se ci domandiamo, ora, quali sono i momenti fondamentali dell’autobiografismo psicologico del Petrarca, potremo imbatterci in queste tappe ideali di fondo: a) la gioia dell’amore per Laura: il gaudio nel contemplarla (anche solo nel ricordo), nel vagheggiarla con la speranza che essa un giorno, alfine, ricambierà l’affetto del poeta; b)
La tristezza per il mancato contraccambio della donna: delusione
per gli anni passati implorando inutilmente; gemito per la resistenza
perdurante; sfiducia per un futuro successo nel corteggiamento; c)
Il tormento religioso dell’amore per Laura: rimorso e pentimento
che straziano l’animo del poeta,
consapevole della iniquità dell’amore per una donna sposata, da parte di un
ecclesiastico, impegnatosi al celibato; d)
compassione per se stesso, ridotto ad uno stato pietoso, dal quale
non riesce ad uscire, pel quale non vede soluzione. Egli si ripiega ancor di più
sul proprio cuore ferito e si
compiange voluttuosamente. e)
La ribellione a tale stato di cose, alla sua schiavitù
psicologica, alla sua indecisione, alla battaglia senza esito, perennemente
incerta che deve sostenere; f)
La preghiera a Dio, alla Vergine per essere liberato dalla indegna
catena e perdonato del lumgo indomabile errore. In questi sei momenti ricorrenti della ispirazione petrarchesca compare quella che lui stesso abbiamo sentito chiamare “anceps pugna” (“laboriosissima”: Familari, IV, 1). La lotta indecisa ha una duplice faccia: da una parte, l’alternarsi fra “speranza e delusione” circa il risultato del suo amore; dall’altra, il contrasto fra passione amorosa e rimorso di coscienza, che lo tormenta in nome della legge morale e della fede religiosa. In entrambe queste tensioni, l’amore finisce per diventare croce e delizia, sorgente di sogno beato e di risveglio penoso. Egli ci assomiglia allora ad un adolescente intento a sfogliare una margherita, sussurrando “mi ama – non mi ama” oppure “mi libererò – non mi libererò” (i decadenti, dal Fogazzaro al D’Annunzio, preferiranno il dilemma irrisolto: “forse che sì – forse che no”), per cercare una risposta dall’esterno ai due problemi, uno dei quali dipende dalla volontà di Laura; l’altro, dalla propria incapacità a volere davvero (secondo il rimprovero di Sant’Agostino al poeta, posto come conclusione del “Secretum”). 2) Motivo politico-nazionale. A proposito della ideologia politica del Petrarca, si potrebbe parlare di velleitarismi e di “astratti furori”. Difatti sia la sua posizione teoretica che quella pratica, in proposito, non sono esenti da contraddizioni: da attribuirsi in parti uguali alla distonia del suo sentire, che si rifletteva, troppo poco controllata, sul suo pensare; ed al primato, nella sfera del suo volere, della ricerca del “suo particulare”, della salvaguardia cioè della sua pace e del suo “otium intellettuale”. Egli non crede alla riesumazione dell’impero romano: disprezza le popolazioni tedesche, barbare e culturalmente inferiori all’Italia. Eppure sente, di Roma antica, più la maestà imperiale di Cesare che non libera repubblica di Cicerone. In parte ciò dipenderà dal fatto che Petrarca, introverso e timido, viene attratto dai personaggi forti e decisi: a Scipione l’Africano dedicò tanto tempo, da stendere tre redazioni, sempre più estese, della vita e delle vittorie su Annibale; di Cesare scrisse in tre libri il “De gestis Caesaris” (Le imprese di C.), cioè una biografia così ampia, che si stenta a credere dovesse rientrare in quella raccolta, di mole molto più discreta, che sono le vite degli “Uomini illustri”. Ma tale preferenza doveva nascere anche dalla persuasione che la organizzazione dell’Europa intera in uno stato unico era stato un capolavoro degno di ammirazione. Resta comunque il fatto che già all’epoca dei “Memorandarum rerum libri”, cioè ben prima degli entuasiasmi per Cola di Rienzo e dell’ospitalità ghibellina presso i Visconti, egli sente sdegno per la adesione di Cicerone alla congiura contro Cesare (II, 68). Bruto poi è definito “trux et inhumanus proditor” (ivi, IV, 47-48). Ma al Petrarca rimane tanto di realismo, da accorgersi che un “impero romano” sussiste solo di nome, perchè di fatto è teutonico; e che non si può pensare di restaurare quello originario sui due piedi. L’appoggio dato a Cola fu in vista di un governo stabile e ragionevole in Roma e, al più, di una parte d’Italia: è in funzione della caotica ed intollerabile situazione dell’Urbe, causa l’assenza dei papi e la lotta per il potere tra le fazioni nobiliari. In tal senso, egli può trovarsi casualmente e momentaneamente in sintonia con Dante: nel deprecare divisioni e lotte fraterne e nell’esortare all’unità ed alla concordia. Come capita nelle due canzoni “Italia mia” (78) e “Spirto gentil” (53) Intese, però, in senso “risorgimentale”, tali spunti di poesia petrarchesca non spiegano la complessiva indifferenza del suo rivolgersi ora all’imperatore Carlo IV, ora ai papi, ora alle repubbliche di Genova e Venezia, ora al re Roberto d’Angiò ed ora a Cola di Rienzo, per investirli del compito di pacificare la penisola. Non ci si deve aspettare da un individuo vivacemente intuitivo ma poco sistematico un progetto preciso di unità della penisola, in uno stato libero da dominazioni straniere. Basta il suo orogoglio nazionale (virtù latina contro barbarie gotica) e il sincero desiderio di ordine e tranquilla convivenza, per giustificare il posto che, sulla scorta dei “Sepolcri” di Foscolo, egli ottenne nel cuore dei patrioti italiani, fino all’elogio eloquente di Giosuè Carducci, che nel “Piemonte” lo accomuna a Dante nella funzione di risvegliare gli Italiani all’ideale di unità e libertà (“Italia, Italia- rispondean l’urne d’Arquà e Ravenna”). Il suo “ingenuo” passare, poi, dal servizio dei Colonna all’entusiasmo per (Ni)cola (figlio) di Rienzo; il suo “candido” traghettarsi dal gulefismo fiorentino al ghibellinismo visconteo, erano particolari della cui incoerenza egli non si sarebbe neppur accorto, se non fossero sopravvenuti l’allontanamento dal servizio dei Colonna ed i rimproveri dell’amico Boccaccio. 3)
Motivo religioso ed eccelsiastico. Petrarca non pensò mai ad una religione (virtù che regola i nostri rapporti con Dio) fuori della Chiesa, anche se la fede nella Chiesa non è da lui nominata espressamente come continuazione di Cristo in terra (sacramento della Sua presenza ed opera redentiva), come Suo Corpo mistico. Da una parte, perciò, la sua religiosità non è mai separata dal suo essere cristiano (che, nel Milletrecento, coincideva con l’essere cattolico); dall’altra, il suo atteggiamento di fronte alla curia di Avignone, a cardinali e vescovi è così poco rispettosa, che si fa fatica a vedervi l’atteggiamento di un figlio, sia pur amareggiato di fronte al malcostume dei propri padri e fratelli maggiori: trapela la tendenza a porsi di fronte alla gerarchia corrotta come ad un corpo estraneo, non come a membro della stessa Chiesa, che hanno autorità di magistero e potere di guida, pur nella personale indegnità. Questa coscienza della sacralità del clero, comunque corrotto, è sempre presente in Dante: non è più chiara in Petrarca. O, almeno, non è espressa: difatti, anche qui non si tratta di negare quanto il poeta credeva, ma di un oblio o relegazione del proprio pensiero nella sfera del subconscio, quando la collera offuscava la sua mente, accendendo però il suo estro poetico. Ed ecco allora i già citati sonetti 136 (“Fiamma dal ciel su le tue treccie piova”), 137 (“L’avara Babilonia ha colmo il sacco”), 138 (“Fontana di dolore, albergo d’ira”) e 114 (“De l’empia Babilonia ond’è fuggita”). Cui si possono avvicinare le lettere “Sine nomine”, cioè senza il nome del destinatario. Il contenuto è generico. Quando egli si congratula con un “innominato” che ha avuto il coraggio di lasciare il suo posto (e la speranza di carriera?) alla curia avignonese, con parole ispirate: “Efugisti, evolasti, erupisti, enatasti!”, noi ci aspetteremmo qualche esemplificazione concreta di questa maledetta corruzione avignonese. Egli non ci dà questa soddisfazione, lasciandoci con il sospetto che, alla fin fine, le sue accuse siano tutte di “terza mano”, mormorazioni generiche trasmesse “per sentito dire” e non documentate di persona. Sarà stato anche tutto vero, ma Petrarca non ci dà le prove. In base alle sole sue lettere, potrebbe trattarsi anche di calunnie. A dir la verità le lettere ventesima e ventunesima di questo gruppo, danno (finalmente!) due esempi concreti di malcostume: uno di cinica ipocrisia e uno di ridicolo erotismo. Li riferiamo, però, solo in nota: si tratta infatti delle due ultime “Sine nomine”, della cui autenticità si dubita, perchè solo le prime diciannove sono sicuramente di Petrarca (le ultime due si ritrovano nelle edizioni cinquecentine, non nei codici manoscritti...)[20]. Ma se questa è la “pars destruens” (partedistruttrice, critico-negativa) nella religosità del Petrarca, vi è –decisamente maggioritaria come quantità e altrettanto viva come poeticità- la “pars construens” (parte costruttrice o consenziente e positiva): pentito e orante, egli trova espressioni di sincero lirismo, che affiora nei sonetti 68 (“L’aspetto sacro della terra vostra”), 81 (“Io son sì stanco sotto il fascio antico”), 89 (“Fuggendo la pregione ove Amor m’ebbe”) e nella canzone alla Madonna “Vergine bella, che di sol vestita,” che chiude il Canzoniere (366). I “Trionfi” sono tutti, almeno implicitamente, ispirati al motivo religioso, in quanto stabiliscono una “escalation” che dai beni terreni (amore, pudicizia, morte, fama, tempo) culmina nella definitiva vittoria dell’eternità, cioè di Dio, in cui le anime buone vivono perennemente. E non solo il “Trionfo dell’eternità” è esplicitamente religioso, ma lo sono anche brani del secondo (Trionfo della Fama). Inutile ripetere qui quanto si è già detto dell’opera “De otio religioso”: tutto imbevuto di fede anche nella vita di clausura e di isolamento dal mondo, purtroppo anche quest’operetta in prosa latina non attinge grandi valori lirici, pervasa come è da un ardore enfatico, che denuncia una passione (zelo religioso) non decantata ad emozione pura; uno stato di agitazione sentimentale, non liberata dall’ansia per le finalità pratiche per cui il libro veniva composto. 4) Motivo etico-sociale Sia il motivo politico-nazionale, sia quello religioso-ecclesiastico implicano già motivazioni di fondo a carattere etico su scala sociale. Così l’esortazione allo “Spirto gentil” (53: canzone), perchè rimetta ordine in Roma; così il compianto su “Italia mia” (128: canzone) per le divisioni e le scorribande delle truppe mercenarie tra le popolazioni italiche, contengono spunti di rimprovero per i vizi presenti o di rimpianto per le virtù antiche, il cui tramonto è la causa dei mali d’Italia e della Chiesa. Vi sono però anche composizioni o scritti prosastici che protestano con sdegno contro la corruzione generale, al di fuori delle motivazioni politiche ed eccelsiastiche. L’esplosione più riuscita della magnanima collera del poeta è nel sonetto settimo (“La gola e il sonno e l’oziose piume”: qui Petrarca pare accorgersi che non è solo la vita ecclesiastica e politica ad essere intollerabile, ma quella un po’ di tutto il popolo. Il Petrarca è pessimista circa il suo secolo e non senza giustificazioni fondate. Scrivendo verso il 1367 la lettera (ora in Senili, X, 2) all’amico Guido Setti, arcivescovo di Genova, riesce a dimostrare in maniera inconfutabile il mutamento in peggio della Francia e dell’Italia. Alla decadenza fisico-economica stavan lavorando la guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra; la peste e la guerra di tutti contro tutti, in Italia. Quanto alla corruzione spirituale, Petrarca accumula tante prove concrete, fatti sperimentali, dati oggettivi che occorre davvero superare il sospetto che si tratti di un vecchio “laudator temporis acti” (lodatore del tempo passato) e prender atto invece di quanto dicevamo nelle pagine premesse allo studio della “Età di passaggio dal Medioevo al Rinascimento”, col titolo “La crisi della civiltà medioevale” (pp. 1-11), cioè che la il depauperamento morale e religioso è in atto, è documentabile, è grave. Ripetiamo: ci vorrà la voce collerica di Lutero a denunciarla efficacemente; e un giro di vite, anche con la severità delle pene, in campo cattolico non meno che calvinista, per porvi rimedio e preparare qualche secolo di ripresa cristiana, di severità etica e, quindi, di maggior ordine e stabilità sociale. 5) Motivo letterario. In Petrarca, sorgente di gioia e di commozione affettiva sono anche la rievocazione ed utilizzazione dei grandi scrittori passati o contemporanei. Il 24.mo libro delle “Familiari” è una raccolta di lettere ideali, scritte ai grandi dell’antichità: Cicerone, Seneca, Quintiliano, Tito Livio, Orazio, Omero, Virgilio... Egli, inoltre, non ama solo aver a memoria il pensiero o i versi di poeti e letterati (come Dante), ma ama possederne i libri, così come ama citarli con erudizione vasta e vanitosa. Nel complesso un simile fenomeno è visibile specialmente nelle opere erudite, in prosa latina, ma non solo: anche nei Trionfi noi troviamo elenchi di poeti che o han trattato materie amorose (Trionfo dell’Amore) o si son resi famosi per scritti od opere eccezionali (Trionfo della Fama); e persino nel Canzoniere tale affetto per i poeti e le loro opere fa capolino. Così il sonetto 112 (“Sennuccio, io vo’ tu sappi in qual maniera”) confessa all’amico poeta la realtà del suo amore per Laura; lo piange poi morto nell’altro sonetto (“Sennuccio mio, ben che doglioso e solo”: 287). Di Cino da Pistoia, Petrarca cita un verso (“la dolce vista e ‘l bel guardo soave”) nella canzone 70 (“Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi”); ne piange la morte (sonetto 92: “Piangete, o donne, e con voi pianga Amore”); ricorda la poesia, accanto a quella di Dante, nel sonetto in morte di Sennuccio; rievoca la donna amata da lui (Selvaggia) nel quarto capitolo dei Trionfi d’Amore. LE TONALITA’ LIRICHE Caratteristiche generali: Petrarca fra romanticismo e classicismo. Come l’ispirazione del Petrarca non è “del mondo esperta| e delli umani vizi e del valore” (Inf. 26,98-9) o, almeno, lo è solo marginalmente, concentrata come è sulla soggettività del poeta, che è personaggio pressochè unico della sua opera “disiecta” (frammentaria), così il suo lirsmo non “spazza” tutta la gamma delle emozioni umane, ma è limitata ad alcuni registri. Vagotonicoprevalente, temperamente nervoso subsentimentale, egli si sintonizza normalmente su tonalità contemplative –idillio ed elegia-, mentre eccezionali rimangono i casi di scatto drammatico o di esultanza epicizzante. Quella del Petrarca è una voce “bianca”: non raggiunge la maturità del tenore o la profondità del baritono, ma rimane adolescenziale o, se si vuole, un poco femminea, anche dopo l’età della toga virile. Dei due registri contemplativi, l’elegia prevale –quantitativamente- sull’idillio, mentre talora vi è penombra o chiaroscuro lirico per una loro simbiosi, in un risultato sinergico che rasenta la tenerezza. Dal solo fatto della tendenza alla simbiosi fra tonalità emotive, si può dedurre sicuramente che Petrarca è poeta romantico. Ma la sua tenerezza non ha la potenza di quella di Leopardi (“A Silvia”, ad esempio) o di Manzoni (citiamo un caso famoso: “Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci”: c. 34). E si crede di saperne il motivo. I critici parlano della forza intellettuale superiore alla varia e pur forte sentimentalità del Petrarca, tanto che gli riesce di analizzarla, descriverla con una chiarezza di intuito che denota una conoscenza eccezionale della propria psiche. Ma una tale acutezza di intelligenza è un fattore classico, non romantico. E, difatti, egli non concede espressione alle frange estreme dello spettro emotivo; governa e frena le proprie affettivitài entro limiti ragionevoli, raramente cedendo all’abbandono lacrimoso (parte ultima del Canzoniere: Laura che gli appare dopo la morte). Ha quasi pudore, ritrosia ad abbandonarsi alle sue passioni: se pianto c’è, è silenzioso, controllato. Così la impressione generale della poesia petrarchesca è quella delle raffinatezza e purezza di voce emotiva ben definita, non della consonanza polifonica di varie voci convergenti. Nella sua personalità romanticismo emozionale e classicismo intellettuale si danno la mano. Non è questo l’ultmo motivo per cui Petrarca ha avuto accoglienza ed imitazione universali, presso spiriti sui due versanti dello spartiacque Romanticismo-Classicismo: su Tasso non meno che su Alfieri. Solo con i realisti dell’Ottocento (a cominciare dal Manzoni!) ha cessato di affascinare gli spiriti poetici.
L’idillio
(gioia tenue, dolce) Insorge e si esprime quando il poeta, obliando la realtà della mancata corrispondenza da parte di Laura, riesce ad abbandonarsi alla immaginazione della sua persona avvenente od al vagheggiamento di una qualche sua controfigura. Nascono allora i sonetti “Erano i capei d’oro a Laura sparsi” (90) “Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra” (192) “Movesi il vecchierel canuto e bianco” (16), come il breve madrigale “Nova angeletta sovra l’ali accorta” (106). E soprattutto fioriscono le parti più alte della canzone-capolavoro: “Chiare, fresche e dolci acque” (126), cioè le strofe prima, quarta e quinta. Ma non van dimenticati alcuni versi dei Trionfi (vv. 133-8 nel c. 3 del Trionfo d’Amore: “e veramente è fra le stelle un sole...”; ed i vv. 10-27 nel c. 1 del Trionfo della Morte: [21]“Era miracol novo a veder ivi...”).
L’Elegia
(tristezza tenue, dolce) Nel Canoniere, essa ha la sua prima sorgente nella “anceps pugna laboriosissima” che presenta la già dichiarita duplice faccia. 1) Da una parte la consapevolezza dell’inutilità dei sogni, degli sforzi anzi di farsi amare da Laura, pur nella incapacità di dimenticarla, di cessare dal vagheggiarla dentro di sè; dall’altra, il tormento etico-religioso tra il fascino della donna e il rimorso della coscienza. La delusione per la perseverante ripulsa di Laura induce il Petrarca ben raramente alla ribellione (drammatica) od alla tenerezza flebile (fusione di idillio ed elegia). Egli ne ricava invece uno stato d’animo di elegia purissima: contempla cioè la sua infelicità con coscienza lucida e con dignitosa rassegnazione ed esamina i vari momenti della propria sofferenza con precisa analisi e li esprime con signorile padronanza, con misurata tristezza. Egli riconosce, in fondo, che il suo innamoramento è irragionevole; che la sua passione è iniqua; che il rifiuto della donna onesta è onorevole in lei, anche se compassionevole per lui. Egli viene a trovarsi quasi in posizione di distacco, di neutralità, di arbitrato fra sentimento struggente e ragione ammonitrice. Se un tale stato d’animo fosse del tutto equilibrato ed equipollente nelle sue due dimensioni, la poesia diverrebbe impossibile: il poeta si troverebbe nella situazione ipotizzata dai filosofi medioevali contro Giovanni Buridano per l’incapacità del libero volere umano di fronte a due beni affatto equivalenti. Ma di solito, nel poeta, finisce a predominare il momento emotivo, ora di estasi nel vagheggiamento di Laura, ora di abbattimento per la sua irragggiungibilità, che trapela poi di verso in verso, permea concetti e musicalità delle parole e si trasmette all’animo del lettore. Ma lo stato d’animo prevalente è quello elegiaco. Nel contesto ideale, cioè, della oscillazione fra gioia d’amare e pena di non essere ricambiato, nello stato sentimentale che alterna il gaudio della contemplazione obliosa alla tristezza della realtà presente, il lirismo più solitamente vincente è quello elegiaco. Si è visto infatti quante poche composizioni si sono potute citare come idilliache, gioiose. Da questo punto di vista (il più importante, quantitativamente, di tutta la ispirazione petrarchesca) la POESIA- MANIFESTO è la canzone “DI PENSIER IN PENSIER, DI MONTE IN MONTE” (129). Essa riesce infatti a mantenersi in una alternanza così armoniosa e così prolungata (settantaudue versi!) dei due stati affettivi, da sorprendere ed affascinare. Ed essa è così rappresentativa, che contiene le contrapposizioni di concetti, sostantivi, aggettivi e verbi della psicologia del Petrarca: e questo, senza cadere nel concettismo, nell’artificio, nel gioco di parole. Il verso ottavo (“or ride or piange, or teme or s’assecura”), decimo (“si turba e rasserena”) e ventunesimo (“cangiar questo mio viver dolce amaro”) liricamente sono alla pari con “ la fera bella e mansueta” (v. 29 di “Chiare fresche e dolci acque”) e con “sì selvaggia e pia” (v. 65 della canzone 359: “Quando il soave mio dolce conforto”): le contrapposizioni non son solo “pensate” razionalmente, ma vissute emotivamente; lo stato d’animo è bensì contemplato lucidamente a viso aperto, ma col cuore gocciolante di dolente tristezza; la sua psicologia è bensì analizzata con intelligenza chiara e distinta, ma viene espressa con l’amaritudine di chi pur soffre e patisce. L’alternanza di vagheggiamento seducente e consapevolezza deludente zampilla anche dai versi del madrigale 54: “Perch’al viso, d’amor portava insegna”. 2) La seconda “battaglia senza esito, ancipite” tra cuore e coscienza, tra fascino amoroso e pungolo morale, genera altre notevoli espressioni dalla melodia dolente: “L’aspetto sacro della terra vostra” (68: sonetto ad un amico romano, mentre il poeta vi si trovava turista e pellegrino); “Io son sì stanco sotto il fascio antico” (81: sonetto); E più di una volta si trasforma in preghiera elegiaca: la stanchezza del proprio errore, il pentimento per il peccato, la consapevolezza della propria incapacità a liberarsi da solo lo sospingono ad invocare perdono da Dio, intercessione da Maria santissima: “Padre del Ciel, dopo i perduti giorni” (69: sonetto); “Tennemi Amor anni ventuno ardendo” (364: sonetto); “I’ vo piangendo i miei passati tempi” (365: sonetto); “Vergine bella, che di sol vestita” (366: canzone). 3) Ma, al di fuori dei due conflitti irrisolti, l’elegia del Petrarca ha altre sorgenti di afflizione e di pena. E’ la compassione che il poeta sente per se stesso, proprio perchè cosciente del duplice labirinto, di sogno insensato e di aspirazione peccaminosa, in cui è andato a perdersi. E’ una complicazione psicologica che spesso si traduce in fredde contrapposizioni di concetti e parole, rasentando il barocco: tuttavia da essa sgorgano non poche composizioni sofferte e valide nel registro elegiaco. Petrarca si affligge perchè...è afflitto da due condizioni da cui non sa o non vuole uscire. Piange insomma (sinceramente) anche per questo: che deve prender atto di aver pianto per troppi anni e di essere destinato a piangere ancora a lungo! “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” (1: sonetto); “Quanto più m’avvicino al giorno estremo” (32: sonetto); “Solo e pensoso i più deserti campi” (38: sonetto); “Ne la stagion che’l ciel rapido inchina” (50: canzone); “Sennuccio, io vo’ tu sappi in qual maniera” 8112: sonetto); “O cameretta che già fosti un porto” (234: sonetto). 4) Vi è ancora la morte di Laura, che non spegne il suo amore per lei e, anzi, rende la seconda parte delle Rime (“In morte di madonna Laura”: 264-366) più poetica della prima (“In vita di madonna Laura”: 1-263). Ecco esempi di malinconia toccante: “Se lamentar augelli o verdi fronde” (279: sonetto); “Levommi il mio pensier in parte ov’era” (302: sonetto); “Zefiro torna e il bel tempo rimena” (310: sonetto); “Quel rosignol che sì soave piagne” (311: sonetto); “Vago augelletto che cantando vai” (353: sonetto); “Quando il soave mio dolce conforto” (359: canzone). Come si è già detto, questi ultimi componimenti rasentano la “tenerezza”, senza per altro concedervisi del tutto: la elegia si fa più cordiale e più affettuoso l’abbandono, che non nelle Rime in vita di Laura. 6) Brani elegiaci sinceri sono anche nel Trionfo della Morte: si veda la prima parte, vv. 70- 2; 103-26; 157-72. Dramma (tristezza veemente) Nel Petrarca, il tono drammatico è raro e non assurge propriamente a “tragedia”: per questo si usa in senso generico il termine di “dramma”, che per sè è applicabile anche all’epopea, nel significato di “toni lirici mossi, forti” (non contemplativi). Ma “dramma” vale anche, specificamente, come “tragedia sminutia, attenuata”. E’, questo secondo, il senso con cui usiamo qui il vocabolo. Vi è nel nostro poeta , come in tutte le persone sensibili, una velleità di protesta e contestazione: ma in lui prevale abitualmente il silenzio rassegnato o il lamento flebile, sicchè la ribellione rimane latente. E’ lecito sospettare che altre volte la collera giunga ad inaridire molte espressioni non decantate, che rimangono a mezza strada fra la contemplazione e il risentimento, fra l’elegia e il dramma? Tra i versi del Petrarca non lievitati a lirismo, ce ne stanno di quelli che elidono l’ispirazione con una dissolvenza incrociata fra tristezza ed ira, fra malinconia e insofferenza? Frutto di tale conflitto fra stati d’animo così opposti sarebbero anche i “concettini”, cioè i contrasti verbali costruiti dalla sola ragione e non fluenti dal cuore, nel senso che la mente, oscillante sotto la spinta dei due sentimenti, finisce per non ascoltarne nessuno e lavorare su formule intellettualistiche che prescindono dalla sfera emozionale? Questioni di difficile psicologia. Qui si potrà invece asserire che le proteste di Saverio Bettinelli nel Millesettecento e di Giacomo Leopardi nel Milleottocento per il divario tra il valore poetico del Canzoniere ( buono o distinto, ma non supremo) e la fama del loro autore (superiore a quella di Dante) nasceva soprattutto da questi componimenti o loro parti, ove trionfano i sofismi concettuali, che dichiarano bensì alla mente il tormento dell’animo ma nè lo esprimono nell’emozione pura nè, quindi, lo partecipano al cuore. Queste osservazioni non vogliono negare ogni valore poetico a moltissime composizioni del Petrarca che brillano di luce fosforescente, ora più sul versante elegiaco ora maggiormente su quello drammatico. Si tratta di molti versi del Canzoniere che rasentano soltanto il valore poetico, salvo ad elevarsi anche al pieno lirismo in qualche verso o strofa, di mezzo al loro grigiore complessivo. E’ ciò che capita anche a Dante in più di un canto (si prenda l’undicesimo dell’Inferno ed il dodicesimo del Purgatorio e molti del Paradiso, a partire dal secondo, vv.49-fine); ed al Tasso in molta parte della Gerusalemme, per non parlare delle tragedie dell’Alfieri od anche di qualche brano dei Promessi (a cominciare, stavolta, della parte paesaggistica in cui è inquadrato don Abbondio, proprio in apertura del romanzo). Nello stesso Virgilio, il tono generale è quello drammatico, ma risultante da chissà quante spinte contrastanti ed elidenti, che generano il tessuto connettivo o un poco al disotto o appena al di sopra della sufficienza lirica. Per esemplificare con l’opera del Petrarca, prenderemo tre composizioni: i versi di Africa, VI, 839-918 e le due canzoni “Spirto gentil che quelle membra reggi” (53) e “Italia mia, benchè il parlar sia indarno” (128). Il famoso passo, ove Magone esprime, immediatamente prima di morire, le sue dolenti considerazioni sulla fugacità della vita e la insensatezza delle umane imprese, ci sembra un caso classico di stentata sufficienza poetica, per l’intenzione elegiaca evidente, ma solo alla fine del brano prevalente di fatto sul sottofondo drammatico. C’è, infatti, un climax (gradazione) discendente, per cui dal distratto sferragliare di versi stancamente drammatici, ci si raccoglie sempre più nella mestizia di espressioni pronunciate a fior di labbra. Tale variazione è ancor meglio sensibile, se si prendono in considerazione anche i versi 839-84, che narrano la partenza della nave da Genova e il vario paesaggio della Liguria e Toscana, fino all’altezza di Roma (da una parte) e della Sardegna (dall’altra). Questo brano è di timbro genericamente drammatico, senza valore poetico degno di rilettura. Coll’inizio delle riflessioni di Magone (v. 889), si sente l’alternanza fra la resistenza tenace dell’andatura genericamente mossa e l’insinuarsi di note più contemplative: la melodia elegiaca è dapprima timida e dispersa fra ritorni drammatici, a cominciare (ci pare) dal verso 897 e fino a metà del verso 911. Solo negli ultimi otto versi le cadenze melanconiche hanno il sopravvento coerente. A darci ragione in questa lettura diversificata, sta anche la accentuazione dei versi che, partendo da una quasi totale eterodinicità[22] (839-884), mescolano un sempre maggior numero di versi omodinici, finchè questi prevalgono nettamente negli ultimi otto versi. Quanto alle due canzoni politiche, l’alternanza di tonalità è patente. Le due parole che iniziano “Spirto gentil” sono una sintesi dell’equivoca condizione d’animo del poeta: “Spir(i)to” è parola scorciata per necessità metriche: e diventa ultradrmmatica; anzi, stonata, gracidante. “Gentil” è vocabolo dolce e mite: messo di fianco allo stridente sostantivo che lo precede, insinua subito il sospetto dell’ambigua tonalità nella canzone. E difatti le prime due strofe piagnucolano desolate sulla situazione di Roma derelitta e cadente; la terza ricorda le antiche glorie ed esprime l’augurio che siano restaurate dal neoeletto senatore, con tre versi che sono una conferma del già detto: “Come cre’(-do?) che Fabrizio| si faccia lieto udendo la novella,| e dice:- Roma mia sarà ancor bella-”. La stonatura di quel troncamento troppo maschio (-cre’-) e la femminilità di quell’aggettivo “bella” (anzichè “grande|forte”, come esigerebbe il senso tutto della canzone) denuncia incertezza ed oscillazione fra dramma ed elegia: cè, in sintesi, tutto il minor Petrarca. E si potrebe continuare. Vi sono però due stacchi di una certa forza, ove il dramma prevale: sono i versi 21-28 (“Pon man in quella venerabil chioma| securamente e ne le trecce sparte,| sì che la neghittosa esca dal fango.| I’ che dì e notte del suo strazio piango,| di mia speranza ho in te la maggior parte:| che se’l popol di Marte| devesse al proprio onor alzar mai gli occhi,| parmi pur ch’a’ tuoi dì la grazia tocchi”); e 71-6 (“Orsi, lupi, leoni, aquile e serpi| ad una gran marmorea colonna| fanno noia sovente et a sè danno:| di costor piange quella gentil donna| che t’ha chiamato, a ciò che di lei sterpi| le male piante che fiorir non sanno”). Ma ognuno può sentire le ricadute elegiache o le alternanze tra “il cafone innocuo ed il gentiluomo indifeso”[23] che tolgono forza sia alla virilità della protesta che alla flebilità della lamentazione. In “Italia mia” possiamo scoprire nel “congedo” la doppia, opposta ispirazione.Da una parte, il poeta ammonisce la sua “canzone” che viene indirizzata a “gente altera...del ver sempre nemica”: ci si aspetterebbe che venga raccomandato coraggio, fortezza, magnanimità, spirito guerriero. Invece, succede proprio il contrario: “Canzone, io t’ammonisco| che tua ragion cortesemente dica”: difatti, la “canzone-messaggio” ha paura e deve rivolgersi alla (poca) gente buona: “di’ lor: -Chi m’assicura?”-. E, a nome del poeta, deve garantire: “I’ vo gridando: -Pace, pace, pace”-. Con un simile pendolarismo, è molto se troviamo un paio di scatti frementi (il primo, poi, nemmeno troppo): “Latin sangue gentile,| sgombra da te queste dannose some (i mercenari tedeschi);| non far idolo un nome| vano, senza soggetto;| chè ‘l furor di lassù, gente ritrosa,| vincerne d’intelletto,| peccato è nostro e non natural cosa” (vv. 74-80); e “vertù contra furore| prenderà l’arme e fia’l combatter corto:| chè l’antico valore| ne l’italici cor non è ancor morto” (questi versi 93-96 saranno citati da Machiavelli nel “Principe” e resi, così, ancor più famosi). Ma vi son pur dei momenti in cui il Petarrca trova un’indignazione interiore, che lo fa sbottare in imprecazioni feroci (“Fiamma dal ciel su le tue trecce piova”: 136, sonetto); od in accuse sarcastiche (“L’avara Babilonia ha colmo il sacco”: 137, sonetto) od in insulti veementi “Fontana di dolore, albergo d’ira”: 138, sonetto). Sono i tre sonetti già più volte citati contro la curia avignonese. Forse ancora migliore è il primo impeto del sonetto 7 (“La gola e’l sonno e l’oziose piume”), che però va calando in forza di strofa in strofa sino ad una raccomandazione anodina finale (“tanto ti prego più, gentile spirto,| non lassar la magnanima tua impresa”). Nella stessa condizione è il sonetto 81 (“Io son sì stanco sotto il fascio antico”) in cui Petrarca si ribella con forza insolita alla schiavitù d’amore: ma poi la protesta si trasforma in meditazione sulla salvezza di Cristo Signore e sul suo invito a conversione. La risposta di Petrarca? Nè pentimento nè proposito chiari: solo una invocazione quasi comica: “Qual grazia, qual amore o qual destino| mi darà penne in guisa di colomba,| ch’i’ mi riposi e levimi da terra?” Il dramma iniziale si è attutito sempre più dalla seconda quartina all’ultima terzina. Del capolavoro “Chiare fresche e dolci acque” (126: canzone) si è deto che solo le strofe 1, 4 e 5 sono profondamente idillliche. Difatti la 2 e la 3 sono incerte fra elegia e dramma: e non sono all’altezza lirica delle altre stanze, anche se sono ancora poeticamente vive (al punto che il v. 33 riesce a far accettare senza troppo scompiglio un “ed o piéta!” che vorrebbe significare “Ed o pietosa, misera vista”).... Ed anche il già citato sonetto “Sennuccio, i’ vo’ tu sappi in qual maniera” (112) ha una prima quartina forte e risentita: sono le altre tre ad essere più propriamente elegiache. Ma ecco che forti sino alla fine sono i due sonetti di
disperazione che paragonano la sua vita ad una nave in rischio di sprofondare.
Il più coerente è il 189, che riportiamo: “Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte, il verno, enfra Scilla e Caribdi; et al governo siede’l signore, anzi’l nemico mio; a ciascun remo un penser pronto e rio che la tempesta e’l fin par ch’abbi a scherno; la vela rompe un vento umido, eterno di sospir, di speranze e di desio; pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni bagna e rallenta le già stanche sarte, che son d’error con ignoranzia attorto. Celansi i duo miei dolci usati segni; morta fra l’onde è la ragione e l’arte: tal ch’i’ ’ncomincio a desperar del porto”. L’altro sonetto (272: “La vita fugge e non s’arresta un’ora”) pare contenere addirittura un proposito di morte volontaria (“se non ch’i’ ò di me stesso pietate| i’ sarei già di questi pensier fora”). Ma il ricordo di ore migliori passate quando Laura era in vita, rompe la continuità e coerenza di ribellione.
Epopea (gioia drammatica). Rari i casi riusciti: il sonetto 61 sembra il più convincente (“Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno”): rievoca la prima apparizione di Laura agli occhi del poeta. “Africa” avrebbe dovuto essere il canto solenne, spiegato della gloria di Roma e degli Scipioni, poesia epica per eccellenza. Ma il tono lirico è troppo alieno dall’estro di Petrarca. Un esempio della versificazione discreta, non mancante di un certo lieto vigore può essere quello che precede la morte di Magone e descrive il litorale ligure e tirrenico (VI, 839-84). LA TECNICA STILISTICA Se noi conoscessimo esaurientemente la anatomia e fisiologia cerebrale, potremmo, deduttivamente, intuire sia i registri lirici su cui ogni persona è sintonizzata, sia gran parte delle preferenze stilistiche, dal musicalismo della espressione verbale, alle forme sintattiche privilegiate, al viraggio stesso del pensiero (piuttosto platonico-leibniziano che aristotelico-cartesiano, piuttosto agostiniano che tomistico, piuttosto orientato alla ricerca dei fini programmati pel futuro che delle cause pregresse ad ogni atto umano, singolo o sociale, contemporaneo o storico). La risonanza emozionale, infatti (come la parte spontanea delle forme espressive o tecnico-stilistiche) appartengono ai dati congeniti e congeniali, difficilmente modificabili dal libero arbitrio e dall’influsso ambientale, i quali agiscono invece più facilmente sul patrimonio di cognizioni e convinzioni e, quindi, sui motivi ispiratori (e sulla parte apprensibile o tradizionale del linguaggio, delle forme grammaticali e della metrica). Noi siamo, invece, abitualmente costretti ad un processo induttivo, che risale dalla tecnica espressiva e dalle tonalità liriche espresse alla personalità (temperamento, tipo di fantasia e di intellligenza: psicologia). Una volta fatto questo processo induttivo, però, i dati sulla psicologia facilitano la precisazione, la distinzione, la coordinazione delle varie aperture liriche e delle varie preferenze stilistiche. Con una differenza, però: se il poeta ha una personalità complessa (Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Manzoni, Goethe...), difficilmente i dati indotti dalle opere circa la personalità ridanno tutte le componenti emozionali e stilistiche: non sempre si riesce a connettere la varietà della gamma emotiva (si pensi alla comicità, ad esempio) e dei mezzi espressivi ai pochi o molti caratteri che della personalità psicologica si riesce a ricostruire induttivamente, partendo dagli scritti. Se, invece, siamo di fronte ad una individualità tanto chiara quanto limitata, allora la coerenza fra dimensione psicologica e componenti lirico-stilistiche saranno lineari e facilmente sospettabili. E’ quello che ci è sembrato il caso di Petrarca: gli agganci fra alcuni dati della sua individualità temperamentale e della sua espressione poetica sono sorprendenti.[24] Distonia emotiva ed oscillazione espressiva. Già a livello di motivi ispiratori, il contrasto insoluto fra illusione e delusione amorosa, fra peccato e rimorso, fra cielo e terra è (anche) un corollario della distonia neurovegetativa. Ma i “motivi ispiratori” sono alla fin fine delle idee ed a questo livello la coscienza può sollecitare talmente la libera volontà, da indurla ad un notevole ricupero di stabilità e coerenza nel proprio modo di pensare e di agire. Petrarca poteva vivere con fedeltà ad una sola morale ed con coerenza ad una sola logica. Il suo stato psicologico non era, alla fin fine, un caso patologico, così disequilibrato da sottrarlo alla padronanza-responsabilità delle sue azioni e del suo pensiero. Egli, in altre parole, poteva liberarsi dalla schiavitù all’amore di Laura (come di qualunque altro amore erotico); ed era libero di rifiutare l’eccesso di stima per i grandi pagani a lui cari, in nome dei dati presenti nelle loro biogafie e in nome della coerenza colla fede presente nella sua coscienza. E’ vero: nel suo fondo egli avrebbe conservato una tendenza all’oscillazione, tanto da far sospettare e temere talora lo sdoppiamento della personalità: ma erano propensioni dominabili dal Petrarca per quanto riguardava gli atti riflessi, consapevoli, proprio grazie alla sua intelligenza, particolarmente chiara.[25] Il discorso si fa invece diverso nei confronti di impressioni spontanee, come quella degli stati emotivi e delle forme della loro espressione: ivi il pendolarismo, il contrasto, l’oscillazione sarebbero affiorati necessariamente. Quanto allo stile, troviamo allora le contrapposizioni di aggettivi, verbi e sostantivi, proprio dentro alle frasi e poesie le più liricamente suggestive. Alcuni casi li abbiamo già segnalati. Laura è la “fera bella e mansueta”, che siede “umile in tanta gloria” (126: “Chiare fresche e dolci acque). Quello del poeta è un “viver dolce amaro”, perchè la sua anima “stassi così| tra misera e felice” e “or piange or ride, or teme, or s’assecura| ed in un esser picciol tempo dura”... Espressioni quasi tutte prese da quella che abbiam chiamato la “Canzone-manifesto” della ispirazione e del lirismo petrarchesco: “Di pensier in pensier, di monte in monte” (129): poesia, che oltre tutto, rivela che il poeta è cosciente del variare continuo del suo animo, consapevole del suo stato di perenne mutabilità. Ma anche il sonetto a Sennuccio (112) è testimonianza della sua tecnica epsressiva come del suo temperamento distonico: “Qui tutta umìle e qui la vidi altéra,| or aspra or piana, or dispietata, or pia;| or vestirsi onestade or leggiadria,| or mansueta, or disdegnosa e fera;|| qui cantò dolcemente e qui s’assise|; qui si rivolse e qui trattenne il passo;| qui co’ begli occhi mi trafisse il core;|| qui disse una parola e qui sorrise,| qui cangiò il viso...”. Davvero il cuore (e la mente non meno) del povero poeta può dire “l’aura mi volve”, cioè Laura mi muta, mi plagia, mi trasforma a suo talento. Le documentazioni di questo “pendolarismo stilistico”, effetto dell’oscillazione psicologica, prodotta dalla distonia fisiologica (a livelli insoliti di nevrosi: quasi, abbiamo insinuato, di sdoppiamento della personalità) si potrebbero moltiplicare all’infinito se, anzichè riferirci alle sole composizioni di sicura connotazione lirica, si “pescasse” anche nei componimenti non del tutto sufficienti artisticamente. Si può, nel complesso, affermare che quanto meno l’estro assiste il Petrarca, tanto più egli si abbandona al gioco delle contrapposizioni. Ma si ponga attenzione: nel Petrarca esse non sono ancora concettini arbitrari: le sottili distinzioni ed i contrasti mantengono una verosimiglianza psicologica, un fondamento nella realtà del suo animo. Per questo non sono mai del tutto aridi e raramente tendono al ridicolo. [26] Citiamo qualche caso saliente. Il bisticcio più frequente è quello che si esprime nella opposizione “dolce mia nemica” (sonetto 179 e 202, canzone 125), di cui una variazione è nel sonetto 254 (“amata mia nemica”). La parola più abusata per l’ambivalenza del suono è “l’aura” (cioè “Laura”). I componimenti che gli son riusciti più artificiosi per la insistenza dei concettini ci sembrano i sonetti 118, 134 e 265. Nel 118 troviamo “L’amar m’è dolce ed utile il mio danno...| Or qui son, lasso! e voglio esser altrove;| e vorrei più volere e più non voglio,| e per più non poter fo quant’io posso;| e d’antichi desir lacrime nove...”. Nel 134: “Pace non trovo e non ho da far guerra;| e temo e spero; et ardo e son un ghiaccio;| e volo sopra il cielo e giaccio in terra;| e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio...”. E nel 265: “Aspro core e selvaggio e cruda voglia| in dolce, umìle, angelica figura...”. Nei “Trionfi” inutilmente ingegnoso è specialmente il brano sulle contraddzioni dell’ amore, nei vv. 134-166 del suo Trionfo. Purtroppo per almeno tre secoli si troveranno verseggiatori che credono di imitare il maestro, belando penosamente al ritmo binario di tali contrapposizioni: non ponevano neppure mente che, almeno a livello pratico-esistenziale, la discordia esisteva veramente in Petrarca sia nei pensieri che nei sentimenti e creava una condizione di spirito tragicomica, mentre in essi si tratterà proprio di concettini a freddo, non corrispondenti a nessun dissidio psicologico nè amoroso nè religioso. Hanno scritto con “codice” petrarchesco, senza riuscire a trasmettere nessun “messaggio” personale: difetto fatale per un poeta!
Prevalenza vagotonica ed evasività
od irrealismo dello stile petrarchesco La prevalenza vagotonica, come induce una aliquale impervietà ai toni drammatici in generale ed epici in particolare, così pare essere la sorgente dell’ attutito senso visivo (impressionismo coloristico anzichè disegno e tridimensionalità) e della musicalità raffinata, dolce, scorrevole, elegante, armoniosissima. Ci sembra, per altro, che interferenze di natura simpaticotonica sono intuibili nei momenti di minor poesia e di maggior intellettualismo (giochi di parole o sofismi d’amore): quando manca la preminenza vagale, avviene una dissolvenza incrociata fra i due poli emozionali, che lascia libero campo alla intelligenza sofistica. 1) La minor razionalità e il prevalere del musicalismo sono una prima manifestazione dell’elusività espressiva del Petrarca. Per entrambi i fenomeni, un indizio sta nell’estenuazione della componente “logica” in favore del fattore “ritmico” nella espressione. Ci riferiamo, ad esempio, all’enjambement o sinafia (inarcatura, diranno i critici del Millecinquecento, che primi notarono il valore particolare di questa componente espressiva): il “periodo logico” (la proposizione o frase) non coincide col “periodo ritmico” (il verso), ma tende a distribuirsi fra due o più emistichi (metà versi), così che gli accenti e le rime sottraggono importanza al pensiero, che viene oscurato dal predominante musicalismo. Processo spontaneo e frequente in Petrarca (solo i critici del secolo XVI si accorsero della tecnica e cominciarono ad usarla in maniera riflessa), ma non abituale. Difatti la coincidenza o sovrapposizione di periodo logico e periodo ritmico (la frase inizia e finisce con il verso) è altrettanto frequente quanto la discordanza tra i due fattori espressivi. Anche qui vi è un processo altalenante, un equilibrio pendolare, che alterna negligenza e cura della razionalità, col risultato di sminuirla ma non emarginarla. Tra l’usuale flessuosità musicale del verso foscoliano e la più solita rigidità razionale di quello manzoniano, a metà strada si pone quello di Petrarca, che sacrifica, ma solo in parte, l’importanza del pensiero. Si leggano con questo criterio alcune delle composizioni riuscite: ad esempio, Chiare fresche e dolci acque” (126), “Di pensier in pensier” (129) e il sonetto “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” (90). Ci si accorgerà come razionalità e musicalismo, logicità ed evasione si spartiscano il dominio della espressione, che si compensa per alternanze e interferenze di sistemi espressivi divergenti. 2) Un altro sintomo di minor razionalità lo si può vedere nelle spontanee sequenze di sostantivi e verbi, che si richiamano fra loro senza una vera necessità logica: si tratta di enumerazioni che, accumulandosi, elidono l’importanza dei singoli significati, per offrire una globalità indistinta, atta più a sottolineare l’effetto musicale che non il peso sostanziale dei termini. La mente, infatti, aggredita dal susseguirsi di tante cose non descritte particolarmente ma puramente elencate, le percepisce solo come rafforzamenti di un concetto unico, sicchè essa finisce per lasciarsi cullare dall’onda musicale del ritmo (susseguirsi piacevole delle ictazioni ) piuttosto che essere assorbita dal penetrare il senso delle singole parole. Esempi si possono ritrovare nel sonetto 61 (“Benedetto sia il giorno e il mese e l’anno| e la stagione e il tempo e l’ora e il punto| e il bel paese e il loco ov’io fui giunto| da due begli occhi che legato m’hanno...”). Ed ancora nella canzone-manifesto 129: “Di pensier in pensier, di monte in monte” (“Se ’n solitaria piaggia o rivo o fonte|... or ride or piange or teme or s’assecura|... ne l’acqua chiara o sopra l’erba verde| veduta viva e nel troncon d’un faggio| e in bianca nube...”). Ed ecco anche il sonetto 35: “Solo e pensoso i più deserti campi” (“ monti e piagge| e fiumi e selve...”).[27] 3) Il minor realismo e la elusività dello stile petrarchesco si manifestano più evidenti nella pochezza del senso pittorico o figurativo e nella assenza di plasticità. Già l’elenco seriale di verbi| sostantivi impedisce la “visione” dei singoli oggetti o movimenti, che scorrono via come in una proiezione di immagini,fatta a passo più veloce rispetto a quello delle riprese. Abbiamo già citato il caso-limite del capolavoro “Chiare fresche e dolci acque”. Rièpetiamo qui quanto abbiamo scritto a proposito della poca fantasia visiva del poeta. La prima strofa dovrebbe presentare Laura uscita dal bagno nel fiume Sorga. E si fa fatica a convincersene, anche ad una rilettura. Di “vedere”, non si parla neppure. Davvero, per questo miracolo di “pudore involontario”, Petrarca conserva il diritto all’elogio del Foscolo, che lo celebra perchè l’ “ amore in Grecia nudo e nudo in Roma| d’un velo candidissimo adornando| rendea nel grembo a Venere celeste” (Maria santissima!). Solo nell’ultima stanza della canzone si intravede qualcosa: sopra Laura, assisa sotto un albero fiorito, scende una nube di petali. Ma si tratta appunto di un vagare di cose evanescenti, una nuvola genericissima e sfumata, un cromatismo senza disegno (rischia di richiamare la “nube di probabilità” che circonda il nucleo nell’atomo di Bohr...). Ma l’effetto poetico è allo zenit, perchè tale anticipo dello “sfumato” di Leonardo aiuta quella visione onirica, quell’estasi di sogno, quel rapimento fuori dalla realtà che costituisce il fascino della canzone. Assenza di realismo, ombra di sogni, eco di sospiri... Questa è la realtà del Petrarca più poeta, più riuscito, più intimo, più genialmente se stesso... Al più, di una persona (chi mai, se non Laura?), egli sa vedere qualche accidentalità cromatica: per un momento! “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi” (son. 90). Ma subito Petrarca si lascia riprendere dalla confusione indefinita del movimento arruffato (“che in mille dolci nodi li avvolgea”). E c’è anche un attimo di riuscita plasticità: nel Trionfo della Fama (3, 117) egli rappresenta efficacemente il filosofo Zenone, sorprendendolo “a mostrar la palma aperta e il pugno chiuso” (simboli, rispettivamente, di retorica e dialettica). Eppure, anche qui, la duplice contrastante indicazione (aperta| chiuso) tende a smorzare la potenza della eccezionalmente felice espressione... Temperamento inattivo e latenza del senso cinestetico. A partire dalla dimensione della “inattività” nel suo temperamento (egli è, non dimentichiamolo, un “nervoso”), si comprende la scarsità e incertezza del senso cinestetico o del movimento. Quella volta (l’abbiamo visto testè) che insorge la velleità di un moto vibrato, esso va ad esprimersi in maniera contradditoria, per cui il dinamismo lo si intuisce nel momento stesso che si spegne. L’uso di verbi attivi, di moto, è frequente: ma esprimono un movimento placido, lento, quasi stanco: “Movesi il vecchierel...” (son. 16); “Solo e pensoso i più deserti campi| vo’ mesurando a passi tardi e lenti..”(son. 35). E’ un dinamismo “al rallentatore”, che rientra nello stile di passeggiate peripatetiche, di solitari pellegrinaggi meditativi. Anzi, la più parte delle poesie rinunciano addirittura al movimento o, almeno, surrogano quello fisico del corpo con il moto interiore della psiche. Di quest’ultimo ve n’è in sovrabbondanza: è la oscillazione intellettuale ed affettiva di cui si è parlato a più di un titolo ed il cui vocabolario tipico è rintracciabile nella documentazione della componente “distonica” dello stile (or ride or piange or teme or s’assecura|| qui cantò dolcemente e qui s’assise...). Ma i verbi più frequentati dal Petrarca sono intransitivi o comunque di stasi: sono verbi di attività... contemplativa(!). Il primo sonetto (“Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”) è esemplare: vi si trova impiegato sei volte il verbo “essere”; e tutte le altre tredici voci verbali (compresi gli infiniti sostantivati) sono o intransitive (piangere, ragionare, vaneggiare) o riflessive (vergognarsi, pentersi) o indicanti moti riguardanti l’animo interiore (ascoltare, nutrire, intendere, spero, trovar, vedere, conoscere). Anche i componimenti eccezionalmente drammatici, talora elidono la cinestesia attraverso l’uso di verbi bensì attivi, ma usati negativamente, cioè negati nella loro esistenza concreta. Si veda il sonetto 7 (“La gola e il sonno e l’oziose piume”), che è esempio preclaro: sbandita, vinta, smarrita, spento, non-lassar. Non che manchino verbi di operosità fisica, esteriore: ma si rivelano poi usati in contesto o forma tale, da ridursi ad un’attività ridotta, ad un dinamismo languente. Gli infiniti sostantivati o “serviti”, cioè resi dipendenti da verbo servile (posso, voglio, debbo, soglio, comincio...) sono davvero molti nei versi del Petrarca e sono parte di un vezzo che tende congenialmente a ridurre il moto ad una sostanza fissa, cioè a negare il movimento mentre lo afferma. Nel primo sonetto si sono già segnalate le voci “del mio vaneggiar| e il pentersi e il conoscer chiaramente”. Nel sonetto terzo, ecco l’ultima terzina: “Però, al mio parer, non li fu onore| ferir me da saetta in quello stato,| a voi armata non mostrar pur l’arco”. Nel sonetto 32: “più veggio il tempo andar veloce e leve| e il mio di lui sperar fallace e scemo”; nel 35: “dal manifesto accorger delle genti”; nel 90 “ Non era l’andar suo cosa mortale| Piaga, per rallentar d’arco, non sana”. canzone 129: “ed in un esser picciol tempo dura| viver dolce amaro| mirar lei, obliar me stesso| tener fiso| tirar mi suol| comincio a misurar cogli occhi”. Preponderanza uditivo-musicale nella fantasai e nello stile del Petrarca. Alla pervasiva predominanza della musicalità nella poesia del Petrarca si è dovuto far riferimento più di una volta, a cominciare dal tentativo di definizione della sua fantasia. Vediamone ora i caratteri peculiari. Prevale la dolcezza, la delicatezza: vi è il senso del carezzevole, se non del levigato. Ma si noti che “dolce e carezzevole” sono pressochè sinonimi, ma si oppongono parzialmente agli affini “delicato-levigato”. Si crea cioè un equilibrio di raffinata natura classica fra soavità e rigore, fra molezza e tenacità (di un salice, ad esempio). Rileggiamo alcune fra le più splendide composizioni: “Voi che ascoltate in rime sparse il suono” (1), “Chiare fresche e dolci acque” (126), “Di pensier in pensier, di monte in monte” (129), “Se lamentar augelli o verdi fronde” (279), “Zefiro torna e il bel tempo rimena” (310). Non è difficile notare il prevalere (ma non eccessivo) di liquide e nasali in congiunzione con vocali tenui (i|u) e con le fruscianti (di gran lunga più usata la “v” rispetto alla “f”). Dolci pure i suoni palatali “g” e “gn”. Ma non sfuggano le risentite note della labiale “p”, delle dentali delle gutturali “q” e “ch”. Le vocali sono distribuite più armonicamente: non pare si debba parlare di predominio delle larghe rispetto alle strette o viceversa. Ma si noti: delle dentali è frequente al di là del solito, la media “d”; delle vocali, inaspettatamente rintracciabile la media “e”. Un rifuggire dagli estremi, un equilibarsri nel mezzo: la dolcezza non è sdolcinatura; la elegia, anche se giunge alla tenerezza non approda però al pianto; la raffinatezza rivela qualcosa di virile; sotto il morbido verde della buccia vi è un’anima di temprata durezza.
Introversione caratteriologica e
liricità pura della poesia petrarchesca. Mediocre come verseggiatore epico (nell’Africa), raramente riuscito come espressione di stati d’animo drammatici, mai tentato di cimentarsi con la forma scenica del dialogo, il Petrarca risulta quello che si definisce un “lirico puro”, cioè un poeta capace solo di cantare sentimenti come propri, cioè di esprimersi in prima persona singolare. Un poeta in “io”. E’ questo un effetto della introversione estrema in cui era rinchiuso: fino a rifiutare (come Orazio nei confronti di Augusto e Mecenate) più di una volta l’incarico onorevolissimo di fungere da segretario al papa. Nelle “RIME” non esiste mai il nome di Francesco Petrarca, ma in compenso il pronome “io” (assieme al possessivo “mio”) la fan da padroni: Laura non è al centro della ispirazione, la quale fa capo, invece, alla volubile oscillazione degli stati d’animo dell’autore. Esiste una composizione del Canzoniere senza il pronome di prima persona singolare, soggetto o complemento (o l’aggettivo possessivo corrispondente)? La sua emotività si anima non pensando a Laura ed alle sue vicende , ma al proprio godere e soffrire, dubbiare e tormentarsi per l’amore di lei. Il CANZONIERE è il diario dei sentimenti di un adolescente di genio, che si trova a suo agio nella gabbia del suo “egotismo”, cioè nel piccolo mondo della propria vita psicologica, sentimentale. Tale clausura segna dunque i limiti della ispirazione petrarchesca, ma anche del suo stile. Difatti il suo “personalismo ad ogni costo” lo porta a reinventare tutto da sè. Egli, con orgoglio raffinato, confida al Boccaccio di aver ritardato la lettura di Dante per non diventarne succube e debitore (“Familiari”, 21, 15)[28]. Ma se egli poco deve agli altri, a loro volta noi non siamo debitori verso di lui di quasi nessun neologismo: egli non è inventore di vocaboli. Semmai, di immagini. In campo amoroso risalgono al Petrarca le figure dell’amore-sole-fiamma-fuoco-fenice-tesoro, che subentrano a quelle della donna-angelo-stella-miracolo, introdotte dal Dolcestilnovo. Comuni restano alcune espressioni: l’amore che è vita e morte, tormento e delizia dell’innamorato... In genere, però, il vocabolario resta povero: le ripetizioni sono frequenti. Accanto a quelle già citate della “cara nemica”, ecco il corpo, che vine detto “terreno incarco”, “terrena soma”, “fascio antico”. Ed ecco la morte chiamata “il passo estremo”, “il giorno estremo”, “il dubbioso passo”. Dal Sapegno riportiamo alcune parole ricorrenti e caratterizzanti il poeta: errore, vaneggiare, pentirsi, fatica, tregua, pace. Sono “parole-senhal” o “parole-icona” del suo animo e della sua poesia.[29] Accanto alla universalità del fenomeno amoroso (ed alla simpatia-compassione per il suo povero-grande protagonista), questa della facilità della sua espressione fu certo una concausa della fortuna strepitosa ed immediata delle Rime petrarchesche. Certo che, prima che per queste note di usualità degli affetti e della elementarità del linguaggio, l’invito giungeva dal fascino delle grandi poesie ricordate e delle moltissime, liricamente discrete o sufficienti, che non abbiamo segnalate. Ma anche l’apparente abbordabilità del verseggiare ed esprimersi del poeta di Valchiusa dovettero illudere non pochi adolescenti e aspiranti poeti, che di fatto fin dentro il Millesettecento tentarono di ripetere il miracolo di una espressione dolce e raffinata, semplice ed elegante, confidenziale e suggestiva. Una visione a volo d’uccello della FORTUNA del Petrarca tentiamo di schizzarla qui di seguito.
LA FORTUNA DEL PETRARCA Sarà bene distinguere tra la “fortuna” del Petrarca come poeta (praticamente: imitazioni, riecheggiamenti delle RIME) e la “fortuna” come “umanista”, cioè come maestro di studi filologici, come promotore di una rinascimentale visione storiografica, come sollecitatore in genere dello spirito rinascimentale. La fortuna delle RIME VOLGARI (Canzoniere). Durante la sua vita e dopo morte, Petrarca divenne punto di riferimento per molti poeti in volgare. Le sue “Rime”, lui vivente, erano molto più note che non il poema “Africa”, mai giunto a conclusione e pubblicazione. Anzi, nel Millecinquecento, nasce il “Petrarchismo”, che è il fenomeno particolarissimo per cui (auspice Pietro Bembo) il Petrarca diviene il “modello unico” per la poesia in volgare italico, l’autore classico da imitare, come Boccaccio lo doveva essere per la prosa e Cicerone lo era (da Lorenzo Valla in poi) per la prosa latina. In Francia, Inghilterra e Spagna, la imitazione, pur senza tale ipoteca di monopolio e di lingua nazionale, divenne diffusissima, abnorme. Ma al principio nessuno pensò ad imitarne il personalissimo motivo ispiratore di fondo, che appariva una situazione privata ed intima: quella di amante respinto e, perciò, davvero sofferente. Perciò nel secolo XIV la “fortuna” del Canzoniere fu soprattutto espressiva o tecnica, non tematica o contenutistica. Si tenta di riprodurne la scorrevolezza musicale, la dolcezza cattivante. Fra questi imitatori stanno Sennuccio Del Bene, Boccaccio, Buonaccorso da Montemagno il vecchio, Cino Rinuccini. Ancora nella seconda metà del Millequattrocento, l’influsso del Petrarca sui poeti fiorentini (Lorenzo de’ Medici ed Angelo Poliziano) rimane entro tali limiti. A ciò avrà contribuito anche Leonado Bruni (Arezzo 1370- Firenze 1444),, coi suoi “Diaologi ad Petrum Histrum” (1401-6: Dialoghi a Pier Paolo Vergerio il vecchio). Egli, infatti, come non scorge un contrasto tra la fiorentinità di Dante e l’Umanesimo classicheggiante, così dissipa l’opposizione fra le Rime volgari e le opere latine del Petrarca. In questa visione armonizzatrice, non vi è posto per un’esaltazione dell’uno o dell’altro fra i due poeti; nè per un’infatuazione della vicenda d’amore e dello stile (ora raffinatamente dolce, ora spiritosamente contrappuntistico) del Petrarca. Ma, fuori Toscana, l’imitazione comincia ad abbracciare anche la tematica, sia in Matteo Maria Boiardo (Amorum libri) che in Jacopo Sannazaro (Sonetti e canzoni). Sono questi due i migliori imitatori: uno del centro-nord della Penisola; l’altro, del regno di Napoli. Accanto a loro si distingue Giusto de’Conti (di Roma città o della provincia) che, ne “La bella mano” (1440), segue da vicino il poeta di Valchiusa con 150 composizioni, tutte in lode della mano della sua donna! La “maniera petrarchesca” diviene una mania nei poeti cortigiani (G. Visconti, Niccolò da Correggio, Panfilo Sasso, A. Braccesi, M. Malatesti...). Il risultato però nel complesso è deludente: si finisce per imitarne la tecnica di contrapposizione, l’intellettualsimo dei concettini, e per peggiorare il maestro in metafore strampalate: siamo al Tebaldeo (Antonio Tebaldi, di Ferrara: 1463-1537) e a Serafino de’ Ciminelli, detto l’Aquilano, dalla città natale (1466-1500): è quest’ultimo (che era poeta improvvisatore e musicava i suoi versi), a ribadire in senso peggiorativo il magistero del Petrarca a livello europeo. Nel Sud dell’Italia vi sono, però, altri petrarcheggianti che imitano, senza fare del Canzoniere un repertorio di formule presecentiste: stanno ad un linguaggio più immediato e cercano di esprimere una sensibilità più consona con l’argomento amoroso (fra elegiaca ed idillio, tra vagheggiamento e rimpianto). Fra essi vi è il Cariteo (Benedetto Gareth, nativo di Barcellona:1450 ca- 1514), Iacopo De Iennaro, Francesco Galeota, Giovan Francesco Caracciolo (1437 ca- dopo il 1506: segue il Petrarca fin nella divisione del suo canzoniere, sviluppando particolarmente la lode degli occhi della sua donna; esprime una vena elegiaca discreta), Giovanni Antonio Petrucci (condannato a morte nel 1486, a trent’anni circa, per essere stato coinvolto nella congiura dei Baroni: compose in carcere 83 sonetti, in cui esprime in stile sobrio e gnomico il dramma della sua fine tragica). Nel secolo XVI, culmina il fenomeno del “petrarchismo”, che si spiega in tutte le sue componenti. All’inizio della “moda” troviamo Pietro Bembo, colla edizione del 1501 presso Aldo Manuzio in Venezia. Anzitutto, dalla “ scienza poetica” rinascimentale, per cui la poesia è soltanto “classica” e lo è perchè imita “modelli di perfezione” precedenti, si deduce il corollario per la poesia in volgare: anch’essa può diventare “classica”, purchè imiti dei modelli di perfezione, così che possa elevarsi alla dignità e grandezza della poesia latina e greca (“classicità del volgare”). Ebbene, Petrarca diviene il modello obbligatorio per la poesia lirica: egli, non Dante, è il poeta da imitare per elevare la lingua volgare a “classicità”, cioè a quella felicità espressiva che la renda degna di sostituire, nella poesia degli Italiani, la lingua latina (P. Bembo: Prose della volgar lingua, 1525). In secondo luogo, il Canzoniere diventa un testo esemplare in tutte le sue componenti. Diviene, cioè, una specie di vademecum per la vita sentimentale (e, quindi, pei motivi ispiratori) prima che di “stile” o tecnica espressiva. Il “Canzoniere” si presenta, così, come la proposta per un cammino esemplare di amore fedele e solamente affettivo (platonico) e per una via di elevazione dall’amore carnale all’amicizia pura (P. Bembo: “Asolani”, 1505). A questo modo ogni poeta deve inventarsi amori contrastati e crisi di coscienza: il Petrarchismo non è solo paradigma poetico, ma canone di vita sociale. Su tali concetti insistono i commentari che, dopo l’edizione “aldina” del Bembo[30], scrivono Alessandro Vellutello (1525), Giovan Andrea Gesualdo (la sua edizione commentata ebbe nove ristampe fra il 1533 e il 1581) e Bernardino Daniello (lucchese, morto nel 1565: fedele alle idee del Bembo sia nella sua “Poetica” del 1536 che nel commento al Canzoniere del 1541, fu il più esplicito sostenitore della sublimità della poesia del Petrarca, non iferiore ad alcuno dei grandi lirici di Grecia o di Roma, Orazio compreso!). Il Vellutello accompagnò l’edizione commentata con una vita del Petrarca, frutto di una disanima di tutti i suoi scritti e di ricerche condotte in Valchiusa per scoprire la identità di Laura. Meno critici, ma apportatori di altre notizie attendibili sono le vite scritte dal Gesualdo e da Lodovico Beccadelli (quest’ultimo si domostra, invece, dotato di un acuto senso critico nell’additare i motivi della felicità dello stile petarchesco, cioè il rapporto fra tecnica e lirsmo). Trascurando altri commenti solo parziali, ma pure interessanti, vogliamo ricordare l’ultimo dei grandi commentatori del Millecinquecento: Ludovico Castelvetro, le cui “note” furono pubblicate postume nel 1582. Ma se il “petrarchismo” diede frutti critici notevoli, invece la finzione che sta alla base della “moda di petrarcheggiare” sul tema obbligato dell’amore non corrisposto, concorre al fallimento estetico delle composizioni sia del Bembo che dei petrarchisti più ligi ai suoi princìpi. La più stretta ortodossia la si trova nei rimatori veneti, conterranei e magari amici personali del Bembo, il teorizzatore: Trifon Gabriele (1470 ca-1549), Bernardo Cappello (1498-1565), Antonio Brocardo (1500 ca-1531:dapprima fedelissimo al “bembismo” se ne staccò poi clamorosamente, senza che di questo voltafaccia rimanga però traccia nel suo breve canzoniere). Con Claudio Tolomei, senese (1492-1556) inizia un atteggiamento più indipendente, che punta sul ricupero della classicità fino alla teorizzazione di “metri barbari”, cioè fondati sulla quantità delle sillabe, come in latino e greco, pur risentendo della moda petrarchesca. Giovanni Guidiccioni (lucchese:1500-1541) pur petrarcheggiando, riesce meglio quando esprime con sentita partecipazione le sventure d’Italia. Francesco Beccuti (detto il Coppetta: 1509-53) cresce dalla tradizione popolare quattrocentesca alla compostezza classica di stampo petrarchesco, senza rifiutare però la vena scherzosa del Berni o gli argomenti religiosi e politici. Il fiorentino Giovan Battista Strozzi (il vecchio: 1505-1571) tenta l’atteggiamento bembesco di un petrarchismo serio e raffinato, ma le cose migliori sono i congeniali madrigali, numerosissimi e notevoli per la musicalità raffinata. I poeti dell’Italia meridionale risentono del petrarchismo, ma filtrato dal Sannazaro e accentuando il realismo e le componenti visive (Luigi Tansillo:1510-68; Bernardino Rota –1508-75). In Angelo Di Costanzo (1507-91) la musicalità diviene drammatica e, concorde con la chiarezza e la logica dei concetti, ora assume il tono epigrammatico, gnomico, sentenzioso; ora approda al contrasto concettista, che è però non gioco e arbitrio, ma sofisticata razionalità di distinzioni e quasi un sillogismo in versi (Foscolo: in lui “l’arte dei sillogismi in sonetti giunse alla perfezione”). Le poetesse del Millecinquecento, pur nella sincerità di alcuni movimenti di cuore (avremo modo di incontrare la breve, tormentata esistenza della padovana Gambara Stampa: 1523-1554; ancora più tragica la vita di Isabella di Morra, uccisa dai fratelli con l’amante a ventotto anni nel 1548: il petrarchismo del suo piccolo canzoniere sorprende per la riflessività e l’accoramento ), rientrano tutte nel “sistema bembesco”, chi accentuando gli elementi e dottrinari e religiosi (Vittoria Colonna: 1490-1547); chi gli argomenti discorsivi della vita elegante e mondana (Veronica Gambara: 1485- 1550; Laura Battiferri: 1523-89); chi quelli della vita politica e morale (Laura Terracina); chi, infine, quelli di un amore appassionato, ma furtivo per un giovane che morirà assassinato (Chiara Matraini: 1514- dopo il 1597). Contro questo gregario petrarcheggiare, insorgono malevoli gli “antipetrarchisti”, come Francesco Berni, Pietro Aretino, Teofilo Folengo, Niccolò Franco e Cornelio Castaldi. Ma a segnare la fine della moda saranno, invece, i più dotati fra quanti si ritenevano pur fedeli al poeta di Valchiusa. Già Francesco Maria Molza (1489- 1544), benchè non ignori l’esempio del Petrarca, però celebra molto più realisticamente la bellezza di Faustina Maratti sicchè, di fatto, contraddice al magistero del Bembo, mentre risente del Poliziano migliore ed anticipa arditezze barocche. Giovanni Della Casa (1503-56), nelle 64 composizioni delle sue “Rime”, più che sulle vicende amorose, insiste sulla dissonanza della umana esistenza, sulla distanza fra ideale e reale, in una malinconia che trova in alcuni sonetti autobiografici uno dei punti più alti della poesia cinquecentesca prima di Torquato Tasso. Galeazzo di Tàrsia (1520-1553), temperamente collerico che si fece odiare da molti, tanto che finì assassinato a 33 anni, trasmette ai suoi versi una sincerità, che sa essere delicatissima se canta l’amore per la moglie Camilla Carafa o per l’amica spirituale Vittoria Colonna (nipote della poetessa), ma sa assumere tonalità forti nelle composizioni di ispirazione politica (per l’Italia e per Napoli). Del petrarchismo rimane una cornice, vuota di condivisione lirica. Sono questi seguaci con personalità poetica autentica che mettono in crisi il Petrarchisno bembesco: mentre il Tasso padre (Bernardo) declina inutilmente in versi i temi petrarcheschi, il figlio Torquato camminerà su strade tutte sue: abbandonando l’equilibrio sorprendente tra emozioni e razionalità, che sono il segreto della “misura, armonia, raffinatezza, classicità” dei versi del Petrarca, egli cede il primato alla componente emozionale, approdando (quando l’estro lo possiede) ad espressioni che afferrano il lettore molto più nel profondo, lo coinvolgono addirittura in tonalità liriche eccezionali, composite, tanto affascinanti quanto difficili da definire. Egli diviene così, con le oltre duemila liriche, il nuovo “modello poetico”, la sfida per i verseggiatori del Milleseicento italiano. [31] Ma, nel frattempo, Petrarca era stato conosciuto ed imitato in Francia, Spagna, Inghilterra e Portogallo. In proposito bisogna però distinguere tra l’assimilazione del Petrarca umanista della prosa (lo vedremo fra poco) e il Petrarca lirico del Canzoniere, che qui ci interessa immediatamente. E’ strano a dirsi, ma dapprima furono conosciuti ed imitati gli imitatori del Petrarca: Antonio Tebaldi (detto il Tebaldeo) e, più ancora, Serafino de’ Ciminelli (l’Aquilano) ebbero discepoli in Francia (M. Scève, Ph. Desportes, C. Marot, M. de Saint-Gelais) ed in Inghilterra (Th. Wyatt e H. H. Surrey). Poi, approdò in Francia il Bembismo e diede origine alla “Pléiade” con Pierre de Ronsard, J. Du Bellay, J.-A. de Bai”f, R. Belleau: a sua volta questo movimento francese estese il suo influsso all’Inghilterra, sicchè Petrarca fu una componente della formazione dei padri del sonetto elisabettiano (Thomas Watson e Philip Sidney) e della poesia di Thomas Lodge, M. Drayton, Edmund Spenser e William Shakespeare. In Spagna nel sec. XV Petrarca fu imitato direttamente (I.L. de Santillana che compone sonetti “al itàlico modo”), mentre nel Millecinquecento Petrarca è mediato da Jacopo Sannazaro (J. Boscàn Almogàver, che nel 1526 incontra Andrea Navagéro a Granada, dando inizio a nuova stagione poetica; e Garcilaso de la Vega). Il petrarchismo arrivò anche in Portogallo, attraverso F. Sà de Miranda, che, avendo soggiornato tra il 1521 e il 1527 in Italia, lo assorbì direttamente dai nostri letterati e teorici e potè avviare in patria una riforma poetica. Nel Milleseicento, il Petrarca influisce direttamente sulla lirica civile di Fulvio Testi (1593-1646). Pel resto, si ha un “petrarchismo di ritorno”, dalla “Pléiade” francese (specie Ronsard) alla poesia del ligure Gabriello Chiabrera (Savona, 1552-1638). Anche il Marino e i marinisti, con tutto il loro disprezzo di maestri e di modelli, risentono dell’influsso del Petrarca filtrato attraverso il Tasso ed i petrachisti meridionali: Tansillo, Tàrsia. E, attraverso questi artificiosi imitatori, essi peggiorano le contrapposizioni non irragionevoli del Petrarca e del Tasso, giungendo al sofisma dei concettini, al ridicolo delle immagini più arbitrarie. Coll’Arcadia (1690), la tempesta del malcostume pseudopetrarchesco (cioè, appunto, del barocco letterario) ha fine e fiorisce a Bologna la seconda scuola petrarchista. Vi è un teorico (Biagio Schiavo, 1675-1750) che diede col “Filatete” (1735) princìpi di ortodossia poetica. E, fra gli arcadi bolognesi, si trova un manipolo di discreti, gentili imitatori del poeta di Valchiusa: Eustachio Manfredi, Ferdinando Antonio Ghedini, i fratelli Giampietro e Francesco Maria Zanotti. Dopo il Milesettecento, non è più possibile parlare
di “petrarchismo” come fenomeno di “scuola”, ma certo il suo
influsso non finisce per questo. Ne risente il pur così diverso Vittorio
Alfieri e, tanto più, Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. A proposito di quest’ultino,
possiamo ricordare che il tema del “Passero solitario” è, inzialmente, un
tema petrarchesco (sonetto 353: “Vago augelletto che cantando vai”).
D’altronde anche Giosuè Carducci, direttamente dal Petrarca, riprende il
motivo (già per altro inventato
dal greco Alceo ed elaborato dal latino Orazio) della nave, come icona della
vita umana ( si confronti il sonetto 189 “Passa la nave mia colma d’oblio”
con “Juvenilia” 36 e “Rime Nuove”, 48). E se Leopardi ha altri debiti
col pur poco stimato Petrarca (“d’amar si riconsiglia” è
già in “Rime” 310), Carducci gli ruba un intero verso dal sonetto
301 (“ben riconosco in voi l’usate forme”) per il suo “Attraversando la
maremma toscana” Il Milleottocento (a parte i “grandi”, sopra citati) non fu molto favorevole al Petrarca per più di un motivo. Anzitutto, rispetto a Dante, apparve troppo poco “ patriota” e troppo accomodante coi vari tiranni del suo tempo . Ma ci furono anche altri motivi, oltre quelli politici. Esteticamente, la sua fama risentì del giudizio non entusiasta del Leopardi; culturalmente in genere (cioè, umanamente), sembrò troppo chiuso in se stesso e troppo poco disponibile alla vità sociale. Ma se la “moda” del petrarcheggiare viene superata, resta l’influsso di un poeta che si imprime facilmente nella memoria dei suoi lettori, sicchè si può sospettare la sua presenza in Baudelaire (sul quale Charles Augustin Saint-Beuve ha scritto che “petrarchizzava sull’orribile”), come in Giuseppe Ungaretti od Eugenio Montale, in Vincenzo Cardarelli od Umberto Saba. E’ divenuto, cioè, uno dei “classici della poesia italiana”: degni di lettura ripetuta per la bellezza dei risultati; e facile (almeno in apparenza) ad essere imitato od almeno riecheggiato, per la adolescenzialità dei motivi ispiratori (stati d’animo autobiografici, conseguenti al fascino della donna), per la confidenzialità del linguaggio e delle forme sintattiche, per la dolcezza dei toni lirici, limitati a quelli contemplativi di idillio ed elegia. Ma, cessato il Petrarchismo, sono iniziati gli studi critici sul poeta.
Studi sul Petrarca Il Milleottocento ci dona studi genialmente intuitivi, come quello di Foscolo in vari “Saggi sul P.”, fra cui particolarmente importante quello sul “Parallelo fra Dante e Petrarca”; e di Francesco De Sanctis nel “Saggio critico sul Petrarca”. La scuola storico-filologica, ci ha dato il contributo migliore nel francese Pietro de Nolhac con i suoi due volumi “Pétrarque et l’humanisme” (1907). Col Millenovecento ci si preoccupa anzitutto della edizione critica delle opere, affidata alla Sansoni di Firenze e finanziata dallo stato (edizione nazionale); e ci si è interessati alle “varianti” del manoscritto del Canzoniere, per studiare il gusto e le preferenze espressive del poeta. Sono così uscite l’Africa (1926: N. Festa), le lettere “Ad Familiares” (1933-42: Vittorio Rossi ed Umberto Bosco), “Rerum memorandarum libri” (1943: Giuseppe Billanovich), De viris illustribus (vol I: 1964: Guido Martellotti). Di molte altre singole opere esistono ormai edizioni affidabili. D’altronde a Milano nel 1963, a cura di Emilio Bigi e con il commento di E. Da Ponte sono comparse le Opere, mentre a Torino nel 1975, a cura di A. Bufano, le Opere latine. Le “Sine nomine” sono uscite in Germania a cura di P. Piur (Halle, Niemeyer, 1925: altrimenti occorre rifarsi alla “cinquecentina”). Una buona antologia delle opere in versi e di quelle in prosa si trovano nei due volumi della Ricciardi (Milano- Napoli), 1951 e 1955. Interessante, per gli studi sulle varianti della lingua e del metodo di lavoro nel Petrarca, l’edizione critica del Codice Vaticano latino 3196, a cura di Angelo Romanò, 1955, col titolo “ Codice degli abbozzi”. Tra gli studi biografici, segnaliamo A. Foresti: Aneddoti della vita di F. Petrarca- Brescia, Vanini, 1928; Ernest Hatch Wilkins: Vita del P., Milano, Feltrinelli, 1964. Tra l’una e l’altra ci stanno gli studi di Sapegno per il Trecento della Valllardiana; quelli di U. Bosco per l’Utet; di E. Carrara per l’Enciclopedia della Treccani; di P.G. Ricci, per la Enciclopedia cattolica; di C. Calcaterra per Problemi e orientamenti (editi da Marzorati, Milano). Per conoscere le fonti ed il mondo culturale del poeta, fondamentale è “Il petrarca letterato” di G. Billanovich, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1947. Per lo stile, Emilio Bigi: “Dal Petrarca al Leopardi: studi di stilistica storica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954; Gianfranco Contini, Saggio d’un commento alle correzioni del P. volgare, Firenze, Sansoni, 1943. Ancora utili alcune opere su aspetti più particolari:
Angelo Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo
XVI (Milano, Vallardi, 1904); P.P. Gerosa, L’umanesimo agostiniano del P.,
Torino, SEI, 1927; H. Hauvette, Les poésies lyriques de Pétrarque, Paris,
1931; N. Sapegno, Il P. e l’umanesimo, in Annali della cattedra petrarchesca,
VIII (1938); Carlo Calcaterra, Nella selva del P., Bologna, Cappelli, 1942; G.
Toffanin, L’Umanesimo italiano dal
XIV al XVI secolo, Bologna, Zanichelli, 1952; Ettore Bonora, Classici italiani
nella storia della critica, Firenze, Nuova Italia, 1954.
La fortuna del Petrarca umanista
La prima fama ed il primo influsso del Petrarca, (almeno fuori d’Italia), è quella dell’umanista: Johan Huizinga attesta che “Il Petrarca era stato per i suoi contemporanei soprattutto un Erasmo –avant lettre-, un autore versatile ed elegante di trattati sulla morale e sulla vita, un epistolografo, il romantico dell’Antichità coi suoi De viris illustribus e Rerum memorandarum libri IV.”(L’autunno del Medio Evo”, 1919, c. 22 “L’avvento della nuova forma”). Come umanista egli ha avuto subito una risonanza forse ancora più vasta della sua poesia. Basta contare i suoi amici e discepoli. Cominciamo da quelli che gli premuoiono. Dionigi da Borgo San Sepolcro, conosciuto a Parigi nel 1333, è il donatore della copia delle Confessioni di Agostino; fatto vescovo di Monopoli e vissuto presso re Roberto di Napoli, muore nello stesso anno che costui (1342). A lui è diretta la lettera delle Familiari, IV, 1. Guido Setti, compagno di studi del Petrarca, poi arcivescovo di Genova, morto nel 1367 (a lui è diretta la Familiari,IV, 2). Mons. Giacomo e card. Giovanni Colonna, figli di Stefano, nobile romano: entrambi conosciuti ad Avignone (e suoi mecenati fino alla adesone del poeta a Cola di Rienzo), muoiono rispettivamente nel 1341 e1348. Varie le lettere indirizzate a loro: importante la Familiari II, 9, sulla realtà del suo amore per Laura. Lello Tosetti di Pietro Stefani, conosciuto in Guascogna, al seguito di Giacomo Colonna: era vescovo di Lombez e fu da lui soprannominato Lelio, a ricordo degli omonimi amici dei due Scipioni (l’Africano e l’Emiliano); premorì anche lui al poeta. Ludovico Santo di Campinia, fiammingo, conosciuto nell’ambito delle amicizie di Giacomo Colonna, fu da lui chiamato “Socrate” per la sua serenità inalterabile: a lui dedicò i 24 libri Rerum familiarium (le “Lettere familiari”). Morì nel 1361. Padre Francesco Nelli, priore della chiesa fiorentina dei SS. Apostoli, fu conosciuto dal Petrarca nel 1350, quando passò dalla città: lo chiamò “Simonide” e gli dedicò le Senili. Morì di peste nel 1363. Zanobi da Strada, maestro celebrato di grammatica e retorica in Firenze, chiamato a Napoli dall’Acciaioli che se ne servì nella corrispondenza ed uffici delicati del governo; fu coronato poeta dall’imperatore Carlo IV, nel 1355 (il che pare non giovasse all’amicizia col Petrarca): morì nel 1361. Mons. Filippo di Cabassoles, vescovo di Cavaillon, da cui dipendeva Valchiusa e, quindi, giuridicamente, il Petrarca. Muore nel 1372, fatto cadinale da Urbano V. Conosciutolo nel 1337, gli si legò di amicizia duratura, con varie lettere di corrispondenza. Vi è anche un Mainardo Accursio, morto di peste nel 1348. Sennuccio del Bene, che muore per la stessa causa nello stesso anno a Firenze, aveva ricevuto le confidenze del poeta circa le sue miserabili condizioni psicologiche: ora ne piange la morte col sonetto 287 (“Sennuccio mio, ben che doglioso e solo”). Franceschino degli Albizzi, amico e parente fiorentino, anche lui morto nel 1348. Tralasciando gli amici-protettori (Azzo da Correggio, in Parma; Jacopo e Francesco da Carrara in Padova; Roberto d’Angiò in Napoli; Giovanni Visconti, vescovo di Milano...), ricordiamo invece la figura patetica dell’orefice Enrico Capra di Bergamo, che abbandona il lavoro per darsi agli studi, dopo aver ospitato il poeta in casa sua! Dopo la sua morte, troviamo costituiti due gruppi di suoi eredi-studiosi: uno, a Padova; l’altro, a Firenze. Padova, dove c’erano i suoi manoscritti, predomina nell’opera di fissazione-divulgazione delle sue opere. Lombardo della Seta, amico e discepolo del poeta, completò addirittura il De viris illustribus con le biografie da Augusto a Traiano (Petrarca si era fermato a Cesare); e finì anche il “compendio” dell’opera, già iniziato dal Petrarca. A Padova, tra il 1378 e il 1379 approda il frate francescano Tedaldo della Chiesa, che ricopiò con somma diligenza e chiarezza i manoscritti del poeta. A Firenze vi è il Boccaccio, che ha influito sul “dantismo” del Petrarca e ne ha ricevuto influssi umanistici. Difatti le sue ultime opere sono in latino e tendono a completare il Petrarca (ad esempio, scrivendo un De claris mulieribus in parallelo al De viris illustribus) o ad imitarlo (il Bucolicon carmen; il De casibus virorum illustrium, che fa pendant al De remediis utriusque fortunae) od a proseguirlo (De genealogiis deorum gentilium e De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris) con uno zelo per il ricupero di nozioni sull’antichità greco-romana che fa tenerezza, ma che resta erudizione senza la coscienza del rapporto di tale ricupero nei confronti della civiltà cristiana, cui era (a modo suo, cioè superficialmente) ritornato dopo il 1350. A Firenze finisce la sua operosità Giovanni Malpaghini da Ravenna: era stato dal 1364 al 1368 segretario ed amanuense del Petrarca, che lo definì “generosae indolis adolescens” (Familiari, XXXIII, 19). Per Petrarca egli ordinò e trascrisse le lettere “ad Familiares” e parte delle “Rime” (ora nel codice vaticano 1368). A Firenze, come docente dello “Studio”, ebbe come allievi il Bruni, il Bracciolini, il Marsuppini. Amico del poeta fu anche il canonico Lapo da Castiglionchio, giurista ecclesiastico e letterato: era toscano e morirà a Roma nel 1381, al servizio del papa come avvocato concistoriale, ma ritrovò e fece conoscere al Petrarca le Institutiones oratoriae di Quintiliano, nonchè l’orazione Pro Milone e le Philippicae di Cicerone. Naturalmente vi sono uomini come Luigi Marsili e Coluccio Salutati che furono i principali continuatori dell’opera umanistica del Petrarca. Da entrambi dipendono Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. Anche Pier Paolo Vergerio il vecchio (1370-1444) fu amico del Salutati ed a Firenze trovò la via per apprendere il greco, insegnato nello “Studio” da Emanuele Crisolora dal 1397 al 1400, per interessamento dello stesso Salutati. Fu il Vergerio a procurare un’edizione completa di quanto il Petrarca aveva scritto del poema “Africa”. A lui il Bruni dedicò i “Dialogi ad Petrum Histrum” (era nato a Capodistria): al seguito dell’imperatore Sigismondo fu in Boemia ed Ungheria, diffondendo lo spirito umanista in Europa. Si interessò dell’ educazione dei giovani, sia attraverso la commedia “Paulus, ad iuvenum mores corrigendos” (Paolo, per la correzione dei costumi dei giovani) sia attraverso il trattato “De ingenuis moribus et liberalibus studiis” (ca. 1400), opera che ebbe larga circolazione in Europa e meritò di essere studiata e postillata dal grande educatore del Millequattrocento, Guarino Veronese. Al Salutati sono legati anche Jacopo Angeli da Scarperia (Firenze) e Roberto de’ Rossi (entrambi studiarono il greco e segnano il diffondersi della conoscenza di tale lingua: il primo infatti si recò a Costantinopoli per apprenderlo; il secondo potè impararlo a Venezia). Giovanni di Conversino (Buda 1343-Venezia 1408), fece in tempo a divenire amico ed ammiratore del Petrarca, di cui diffuse la fama, nella sua vita alternata tra la professione di cancelliere e quella d’insegnante; e nell’opera “Rationarium vitae” (Rendiconto della propria vita, cioè autobiografia). Fu maestro a Pier Paolo Vergerio ed a Francesco Barbaro: quest’ultimo, vissuto fra il 1390 e il 1454, fu uomo politico veneziano, allievo anche di Gasparino Barzizza e del già citato Guarino de’ Guarini ( G. Veronese) e autore di un trattato in latino sul matrimonio (De re uxoria). Va ricordato qui anche Giovanni Gherardi da Prato, poeta e narratore (1367-1446 ca): benchè non sicuramente, tuttavia gli si attribuisce un’opera giunta noi adespota, mutila e senza titolo, che il filologo e critico letterario russo Alessandro Wesselofsky ha pubblicata col titolo “Il Paradiso degli Alberti”: nella seconda parte rievoca i ritrovi ed i conversari nella villa di Antonio Alberti, dove convengono i più dotti fiorentini, fra cui gli umanisti Coluccio Salutati, Luigi Marsili e il musicista cieco Francesco Landini (detto “degli Organi”: 1325-1397).
Eleno Vergili. [1] Sarà il poeta a prefrire definitivamente la forma più elegante di “Petrarca” (arca di pietra) come cognome, forma già quasi perfezionata in un documento del 1312 (Patrarca) dall’orginale “Petracco”. Il bisnonno, il notaio Garzo dell’Incisa, ha lasciato quattro composizioni in un laudario di Cortona. [2] “Beneficio ecclesiastico” era il diritto sulle rendite di beni (immobili, solitamente: terreni o case, che potevano in casi estremi equivalere ad un feudo) appartenenti alla Chiesa (diocesi, parrocchie, abbazie... All’origine, tali “benefìci” erano assegnati solo a chi esercitava un certo lavoro pastorale legato a quelle rendite; col tempo, molti beneficiari potevano incassare tutte o (più solitamente) parte delle rendite senza alcun obbligo di residenza e di lavoro ministeriale. [3] Il libro dele Confessioni gli era stato donato dall’agostiniano Dionigi di Borgo San Donnino: lo donerà a sua volta all’agostiniano Luigi Marsili. [4] Altre opere minori sono la guida per la visita della Palestina (Itinerarium breve de Janua –Genova- ad Jerusalem et terram sanctam; Itinerarium syriacum); alcune altre invettive: “Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientiae aut virtutis” (1355: contro il card. Jean de Caraman); “Invectiva contra eum qui maledixit Italiae (“maledixit” = parlar male, sparlare: è contro il monco Jean de Hesdin, che vorrebbe perpetuare la residenza del papato ad Avignone ed ostacola il ritorno a Roma); il “Discorso per la incoronazione”:.. Cfr. A. Hortis, Scritti inediti di F. P., Trieste, Tipografia del Lloyd, 1874. [5] Si noti che quella dei Trionfi è la stessa problematica “esistenziale” che affiorerà nei Sepolcri del Foscolo: ma è risolta alla luce della fede. Qui la “forza operosa” che “affatica| di moto in moto l’uomo e le sue tombe| e l’estreme sembianze e le reliquie| della terra e del ciel” non è il tempo caotico o casuale, ma è la Provvidenza sapiente e benefica di Dio, che sa ricavare la vita anche dalla morte. [6] Si veda questa nota in N. Sapegno, Il trecento, Fr. Vallardi, pp. 219-20. [7] Si noti che il temperamento “distonico vagoprevalente” è disponibile di per sè più alla gioia che alla tristezza: ma si tratta di inclinazioni su cui i fattori ambientali possono ben influire. [8] Questo non significa che le opere latine non siano connesse alla poesia del Petrarca: come giustamente osserva Sapegno sia nella Vallardiana, Il Trecento, pp.244-62 che nella Garzantiana 1976, pp. 206-15, molti spunti ideali delle Rime o Canzoniere si ritrovano nel suo Epistolario od in altre prose. [9] Si pensi al differente atteggiamento di Dante, che relega al Limbo dei non battezzati Averroè, concendogli l’onore delle armi col definirlo colui “che il gran commento feo” (che fece il grande commento ad Aristotele: Inf. IV, 144). [10] “Filologia” è per sè “amore per la parola” (scritta), cioè ricerca, ricostruzione (attraverso collazione o confronto di vari manoscritti od edizioni a stampa della stessa opera) della “lezione originaria” e, come ideale utopico, della “copia identica all’autografo” del testo esaminato. Ulteriori aspetti della filologia sarà il gusto di possedere l’opera attraverso copiature e diffusione; e il bisogno di saaper scrivere adeguatamente secondo il modello degli autori amati. Ma la “Filologia umanistica rinascimentale” è qualcosa di più ancora: è amore per determinate opere (antiche, greche e latine specialmente) che contengono la testimonianza di una civiltà, caduta in oblio in troppe sue parti durante le invasioni barbariche e la disinformazione ad esse conseguita. L’umanesimo filologico rinascimentale contiene già come precursore psicologico l’umanesimo storiografico ed ideologico: stima, fiducia, amore per la cultura di società non cristiane e per la loro storia. [11] Si veda in proposito quanto con quanto N. Sapegno afferma nel Compendio di St. d. Lett: it:, Firenze, La Nuova Italia,1963, pp. 189-90: “La novità di questo classicismo petrarchesco, non pur rispetto a quello della tradizione medioevale, sì anche rispetto ai tentativi dei preumanisti,.... consiste tutta in una consapevolezza più chiara e piena del distacco fra la cultura antica e quella contemporanea...”. [12] Il paragone è in Bernardo di Chartres, del sec. XI e l’abbiamo trovato nel manuale di Storia della Lett. it. di M. Puppo e F. Montanari, Torino, SEI, I, p. 11. [13] Egli due volte cita la “aniculam sine litteris” (vecchietta analfabeta) per preferirla allo stesso Aristotele (“che con le sue cinque sillabe solletica tanti insipienti”). Dapprima non esita ad accettare il paragone di se stesso con tale poveretta, perchè la comune devozione è garanzia di religione, cui è legata la sapienza: “Rideranno, non dubito, a sentire certe cose, e diranno che io faccio discorsi devoti, come una qualsiasi vecchierella senza cultura. In realtà per costoro, che sono tronfi di intellettualità, non c’è cosa più trascurabile della devozione; ma per i veri sapienti e per chi ha cultura e modestia non c’è nulla di più caro. Per questi ultimi è scritto:-religione è sapienza-” (Prose, ed. Ricciardi, pp. 718-9). Una pagina dopo, egli afferma ancora la superiorità del cristiano più semplice rispetto ad Aristotele, perchè questi ignora la vera felicità e più felice di lui e dei suoi seguaci sono la vecchierella devota, il pio agricoltore, il fedele pescatore. [14] Nella seconda metà del secolo ventesimo, il problema della possibilità di delineare intellettualmente una legge morale a validità universale al di fuori della fede cristiana (o, comunque, di una “rivelazione religiosa”) si è andato imponendo, di fronte a due fenomeni nuovi: a) la deriva delle masse lontano dalla fede e, quindi, anche dalla fede nel decalogo e nella legge morale “rivelata” da Dio in Mosè e in Cristo Signore; b) il disorientamento conseguente, lontano dalla morale pubblica, della legislazione stessa (aborto, omosessualità, divorzio, diffusione della droga, rispetto ed obbedienza a genitori-insegnanti-autorità civili...). Ne è risultato che la situazione di disorientamento e sbando sociale venuto in voga ha messo dubbi nella mente anche a quegli immanentisti, razionalisti, neoilluministi che, pur alieni dalle assurdità marxiane, nietzschiane e freudiane, si erano convinti che ognuno ha la sua coscienza e che solo quella costituisca, per ciascuno, legge morale. Essi, specie dopo il trionfo della televisione (anni Millenovecentosessanta), han cominciato a notare che lo stesso tessuto sociale non resiteva più, per la dissoluzione in atto delle famiglie e di ogni criterio di onestà oggettiva. Prima, a predicare come fondamento ultimo della morale la “ coscienza” (che significa, poi, non la legge morale, ma la sua conoscenza!) erano un gruppetto minoritario di atei o malcredenti, i cui dogmi liberatri, nella prassi della società concreta, erano contenuti e surrogati dalla fedeltà delle masse alla oggettività del decalogo o di principi naturali fissati sulla falsariga di quello, sicchè il danno tragico del soggettivismo etico era tollerabile o addirittura invisibile. Di una moralità oggettiva e “valida per tutti” pareva si potesse far a meno e non doversene parlare...La sua importanza radicale è stata rivelata dalle conseguenze scardinatrici della sua assenza. [15] Diamo qui la traduzione, in ordine di citazione, ai numerosi passi latini che seguiranno. Dal “De ocio religioso”: “Il Messia, infatti, Signore vero, è già venuto: è lo stesso Cristo”| “Quale dolcissimo spettatcolo vedere Dio rivestito della nostra carne e della nostra anima, udirne le parole, guardarne il portamento, notare gli atti di Lui che conversa con gli uomini”| “Il Verbo si è fatto carne...O ineffabile mistero..”| “attraverso il quale vengono fatti salvi”| Egli può salvare: io non posso salvarmi”| la misericordia di Dio sorpassa quella umana”| (osserva) “con quale potente e misericordioso rimedio si sia provveduto a così garnde miseria”| “per la salvezza dell’uomo la divinità, umiliata, si abbassò...”. Dalle “Familiari” : “Avrai pietà, Signore affinchè io sia degno di una Tua ancor maggiore misericordia; senza una Tua gratuita misericordia la miseria umana non può in nessun modo meritare miserciordia”. Dalle “Invectivae”: “La perfetta conoscenza del vero Dio non è (frutto) dello studio umano, ma della Grazia celeste”| “E poichè conosco la mia incapacità (a diventare migliore), chiedo aiuto dal cielo e mi diletto nelle Lettere sacre”. [16] “Confesso che è difficle superare le insidie della carne, ma contesto che sia impossibile: non tuttavia altrimenti che sia presente (non manchi) l’aiuto divino... Dobbiamo invocare Quell’unico che solo può soccorrere in questa lotta interiore e domestica... Giustamente, dunque, ogni giorno imploriamo: -Apri i miei occhi- , togli cioè il velo che mi impedisce la vista e la contemplazione delle cose celesti e pel quale sono premuto verso terra... Lodate ed invocate Dio e sarete salvati dai vostri nemici...” [17] Giuseppe Toffanin, nella sua “Storia dell’Umanesimo”, Zanichelli, 1933, propone una particolare interpretazione dell’Umanesimo: sarebbe il disinteresse per le realtà infraumane (regno della scienza per eccellenza), in favore dell’interesse monotematico per la realtà “uomo”: per il senso della vita, dei valori, della storia, con particolare attenzione a quelle epoche che hanno sviluppato tali dimensione nella cultura (l’Atene di Pericle e la Roma di Cicerone). Benchè in parte vera (Leonardo da Vinci si ritrova proprio come perla isolata nel mondo umanistico-rinascimentale), tuttavia non ha fatto fortuna presso i critici: troppo è più evidente il contrasto tra Cristianesimo ed Umanesimo rinascimentale, che non quello, pur presente, tra scienza e letteratura. D’altronde lo stesso Toffanin, quando giunge all’Illuminismo si trova sconcertato: età certamente umanistica, ma decisamente aperta ad ogni tipo di scienza. Nello schema toffaniniano che nega contrasto nell’Umanesimo rinascimentale col Cristianesimo, questo giro di boa non è spiegabile, mentre è ovvio nella concezione tradizionale della tendenziale opposizione fra gli altri due orizzonti di vita: centralità assoluta di Dio in Cristo redentore, piuttosto che centralità assoluta dlel’uomo, senza Creatore nè Redentore, senza Legge divina o codice morale definitivo; opposizione mediata dalla illusione rinascimentale di poter dirsi cristiani, ignorando la caduta di Adamo, la conseguente concupiscenza e maggior inclinazione dell’uomo al male che al bene. [18] Se vi è, dunque, un poeta che aiuta a chiarire come l’essenza della poesia, cioè il lirismo, sono le emozioni pure, prive cioè da ogni aggancio con la praticità dell’istinto o degli stessi sentimenti utilitari dell’animo, questo è Petrarca: le emozioni espresse sono la sublimazione di sentimenti pratici, che sono la tristezza e la gioia umanissime ma praticissime che le vicende alterne di un amore ardente porta con sè. L’amore genera sentimenti pratici (timore di un no, speranza di un sì, dubbio tra i due sentimenti stessi); questi devono sublimare in idillio-elegia, in emozioni elementari, libere da ogni finalismo pratico, per poter essere poesia. Abbiamo dimostrato tutto questo nel già citato “MUSICA IN PAROLE”, Varese, 1983. [19] Ogni
persona sperimenta tali “stati passionali”, ma li traduce in
mimica facciale, in gesti, in comportamenti pratici od in parole
capaci di significare all’interlocutore il proprio stato di
agitazione interiore, ma incapaci di rigenerarlo in lui. Come i
sentimenti sono affezioni funzionali ad un’operazione pratica (utilitaria:
di difesa, offesa, ricerca di simpatia, di aiuto, ecc.), così una
espressione, attraverso parole subordinate
al finalismo di quelli, rimane prigioniera degli scopi
da raggiungere ed usa sostanzialmente la “langue” normale,
prosastica, non riuscendo a trovare la “parole” eccezionale,
poetica, che è frutto di un atteggiamento distaccato da ogni bersaglio
prassico, proiettato unicamente alla trasmissione dello stato emotivo.
[20] I due esempi... non esemplari sono i seguenti. Un aspirante a favori particolari, supplica pressantemente dei prelati in carrozza di essere raccomandato al papa; anzi chiede se quella mattina si è fatto il suo nome al Pontefice. I prelati sanno che quel mattino il Santo padre non ha dato udienza; pure uno di loro asserisce imperterrito di averlo visto e di avergli parlato della sua richiesta. Nell’altra lettera, la cosa è più grossa: un cardinale decrepito ha ottenuto per la notte una giovane prostituta, ma questa si è fatta l’idea di una personalità potente, ma anche piacente: trovandosi di fronte ad un rudere di uomo, si mette a piangere; il cardinale è costretto a mettersi le insegne della sua dignità, per farsi tollerare dalla povera giovane... [21] Dante in Par. 4, 1-6 ha così versificato la grottesca situazione: “Intra due cibi, distanti e moventi| d’un modo, pria si morrìa di fame,| che liber uom l’un recasse ai denti;|| sì si starebbe un agno intra due brame| di fieri lupi, igualmente temendo;| sì si starebbe un cane intra due dame”. E’ l’argomentazione detta dell’ “asino di Buridano”. [22] Ad introdurre questa distinzione è stato il critico inglese Jackson Knight, autore di un prezioso studio su Virgilio (Roman Vergil, Londra 1943: trad. italiana “Virgilio”, Milano, 1949). Egli chiama “omodinici” i versi latini la cui ictazione metrica coincide con l’accentuazione grammaticale; “eterodinici”, quelli in cui l’ictus della metrica non coincide con l’accento della lettura prosastica. I primi offrono una musicalità più favorevole al lirismo contemplativo; i secondi sono più adatti alle tonalità drammatiche. [23] La distinzione-opposizione è stata introdotta da “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Milano, 1958 Feltrinelli (nelle prime pagine del c. 4: “quel costante raffinarsi di una classe che nel coso di tre generazioni trasforma innocenti cafoni in gentiluomini indifesi”) [24] Ecco i parametri della metrica usata nel Canzoniere o Rime (366 composizioni, di cui 263 in vita e 103 in morte di Madonna Laura): 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali. [25] Non va dimenticato che lo stato di salute|malattia a livello neurologico non è dato da uno stato disequilibrato di una sola parte o funzione del cervello (ad esempio, da un eccessiva attività dei centri sottocorticali dell’ipotalamo, detti anche centri neurovegetativi), ma dal rapporto fra (almeno) due funzioni o parti del cervello stesso, cioè dalla forza di controllo dei centri della coscienza (zona di Wernicke, principalmente) e forza sobillatrice dei centri del simpatico e del vago, cioè dei centri ipotalamici prima nominati. La nevrosi è certo uno stato di iperattività (di infiammazione) dei centri neurovegetativi, ma che essa giunga a forme di psicosi, questo dipende dal potere inibitore ed organizzatore dei centri della razionalità situati nel lobo temporale dell’emisfero dominante (solitamente, il sinistro). Ancora due cose. Abbiamo detto “almeno due centri “ sono interessati in questo rapporto che rende sani o malati neurologicamente: in realtà subito sopra l’ipotalamo, sta la zona limbica di cui fanno parte vari organi: di essi, almeno l’amigdala ha una funzione inconsciamente inibitrice rispetto alla spinta motrice dei due centri neurovegetativi. Anche il cervelletto, attraverso le cellule stellari, a canestro e di Purkinje esercita una attività selezionatrice delle spinte emozionali. L’ultima cosa è un dovere di professione di fede culturale: non siamo positivisti e tanto meno materialisti. Quando parliamo di “centri della razionalità” (zona di Wernicke) intendiamo le parti del cerevello che “condizionano, fanno da base necessaria ma non determinante, sono degli strumenti di lavoro per l’anima umana”, che li informa e li usa. [26] Anche se il Petrarca non fu il primo a giocare su tali contrasti intellettualistici come surrogato dell’ispirazione lirica, egli ne diverrà ben presto il maestro più immediato ed imitato. Già la tradizione occitanica aveva messo in orbita le “agudeze”, i giochi di parole, che Dante imiterà nella Commedia, specie nel canto di Pier delle Vigne, forse per far parlare l’anima dannata con lo stile artificioso della sua scrittura cancellieresca a servizio di Federico II (Inf. 13, vv. 25 e 64-72). Petrarca ne farà uso tra la spontaneità dovuta al temperamento e l’artificio dell’intelletto. [27] Ludovico Ariosto porterà all’estremo questo particolare stile, confermando l’assoluta indifferenza alla realtà delle cose, che servono solo per prolungare il motivo musicale che deve riprodurre l’atmosfera di sogno. [28] Bruno Migliorini (Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1960) segnala l’influsso di Cino da Pistoia, provenzalismi di Arnaut Daniello, di cui trascrive anzi un verso (canzone 70, v. 10); vi dununcia un sol francesismo. Natalino Sapegno (Garzantiana, Il Trecento) nota latinismi da Virgilio, Ovidio, Orazio più frequenti nei Trionfi che nel Canzoniere; dantismi rari e per lo più nei Trionfi (Trionfo d’amore, vv. 5-6: Paolo e Francesca in Inferno, 5; forse Purgatorio, cc. 30-31: il colloquio fra Laura e il poeta, in Rime 359, arieggia quello fra Beatrice e Dante?). [29] Dal Migliorini riportiamo una interessante nota stilistica che rimanda alla insoddisfazione e perfezionismo che son propri di ogni individuo nervoso: alla povertà di vocabolario, fan riscontro le correzioni ed i miglioramenti della grafia, senza che alcuna, spesso, diventi definitiva: fera e fiera| tesoro e tesauro| proprio e propio| buono e bono| begli occhi e belli occhi; e “fenestra, condutto, impio” accanto ai regolari “finestra, condotto, empio”, che ha finito per cancellare! [30] Il Bembo non riuscì ad usare per la edizione del 1501 l’autografo del Petrarca, che scoprì in seguito e comprò e che ora è il codice Vat. lat. 3195. Ma la sua edizione fu così diligente che segnò l’inizio pel trionfo del poeta. Lo stesso Bembo non solo offrì interpretazioni e commenti su varie poesie del Petrarca nella sua opera “Prose della volgar lingua”, ma postillò una copia delle “Rime” petrarchesche forse in vista di una edizione. Le “postille” furono ricopiate da altri in una copia di ristampa aldina del 1521 e certificano della competenza del Bembo sia nei rimandi dalle Rime ai Trionfi, sia nella conoscenza delle opere del Trecento fiorentino (Dante e Boccaccio, soprattutto), sia delle fonti classiche, di quelle del provenzale e della poesia del Duecento italiano. Per “I Commenti petrarcheschi” nel Millecinquecento, seguiamo Ettore Bonora, nel capitolo così intitolato nella “Storia” della Garzanti, volume IV –Il Cinquecento-. [31] Il Tasso riecheggia, per altro, il Petrarca anche nel poema. Si confronti Gerusalemme liberata, II, strofe 16 e 96 con “Canzoniere”, 210 e164; e c. XIII, 80, con il Trionfo della Fama, II, 67-9. Il Bembo imita più da vicino i sonetti 70, 118, 134 del Petrarca, tutti (ahimè!) preconcettisti. Dopo che il Bembo curò l’edizione a stampa del canzoniere nel 1501, per i tipi di Aldo Manuzio in Venezia, si prese coscienza della funzione artistica della coincidenza (o meno) del periodo logico col periodo ritmico, cioè del finire o meno di un concetto (frase o periodo) nella misura del verso: lo spezzarsi della frase tra due versi fu chiamata “inarcatura”. |
|