Don Marcello De Grandi
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GIOVANNI BOCCACCIO (1313-1375) I
giorni e le opere
I GIORNI. 1313:
nasce (a Certaldo od a Firenze?), figlio naturale di Boccaccio di Chellino,
commerciante certaldese e cambiatore, benestante. Il padre tentò inutilmente di
avviare il figlio alla mercatura, prima e, poi, allo studio del Diritto
canonico, perchè la carriera ecclesiastica gli assicurasse in ogni modo una
vita agiata. Giovanni potè, alla fine, dedicarsi ai prediletti studi letterari,
autodidatta ma aiutato dall’ambiente colto della Napoli angioina, dove il
padre lo aveva collocato perchè si dedicasse alla pratica degli affari: si
veda, in proposito, la confessione dello stesso Boccaccio nella sua opera
“Sulla genealogia degli dei pagani” (De
genealogia deorum gentilium, XV, 10) 1340:
è l’anno in cui Boccaccio lascia Napoli, dove era giunto fin
dall’adolescenza. Una città popolosa e portuale presentava ovviamente un
ambiente polivalente. La corte angioina manteneva una vivacità culturale
notevole: il re Roberto sarà l’esaminatore del Petrarca per la incoronazione
in Campidoglio nel 1341. L’ atmosfera religiosa doveva essere
viva, anche se un po’ caotica: la presenza delle reliquie di San
Gennaro sono sicuramente attestate all’epoca del Nostro scrittore; il pericolo
musulmano fomentava, per contrasto, il senso dell’appartenenza all’Europa
cristiana; la estensione delle proprietà ecclesiastiche e il potere ancora
esercitato nella vita pubblica da vescovi ed abati favoriscono il senso
dell’importanza del fattore religioso in ogni momento della vita anche
sociale. Ma non mancavano certo, nell’ambiente cittadino, gli esempi di vita
spensierata e libertina, anche se Napoli non era ancora entrata nella crisi
politico-economica, che caratterizzerà dopo
pochi anni il governo disordinato di Giovanna “la pazza”(1343-82) e il
periodo di lotte per la successione, quando essa viene assassinata. La residua
ricchezza, la vanità di una corte più ambiziosa che potente (doveva essere la
capitale del guelfismo italiano, ma non riusciva a
riconquistare la Sicilia dagli aragonesi, discendenti in linea femminile
dagli imperatori di Germania), il disorientamento in campo ecclesiastico per
l’assenza del papato da Roma erano tutti fattori che facilitavano
spregiudicatezza di mentalità e disordine di costumi. Boccaccio è coinvolto
da queste componenti dell’ambiente della città partenopea, perchè le trova
in consonanza con la sua mente poco profonda
e le sue inclinazioni non molto elevate. Certo, non si può ridurre tutta la espeirenza dei
suoi anni “napoletani” alla licenziosità delle avventure amorose o allo
scetticismo che sfocerà nel gran ruolo concesso alla Fortuna nelle vicendeumane,
in molte novelle. Difatti egli potè frequentare
scienziati come l’astronomo Andalone del Negro ed uomini di lettere
come il bibliotecario Paolo da Perugia: la corte, anche grazie a simili uomini,
era un vivaio di cultura. Da queste occasioni, oltre che dagli abbozzi di studi
seguiti per imposizione paterna, nasce la conoscenza notevole del latino, il
gusto per la vita mercantile e la negromanzia, per i costumi esotici e per la
vita dei letterati, che caratterizzano pure molte novelle del Decameron. Napoli
era un centro di incontro –sia pure un po’
confuso- fra Oriente ed Occidente ed offriva spunti per una panoramica
poliedrica sulla umana esistenza:
avventurosa certo (basterebbero a documentarlo le peripezie di Andreucccio da
Perugia, capitato la prima volta in Napoli: Decameron II, 5), ma non priva di
stimoli intellettuali. Frutto immediato di tale fervore letterario, in cui
Boccaccio si lascia coinvolgere, sono le Rime,
la Teseida, il Filocolo, il Filostrato
e (se è sua) la Caccia di Diana:
opere tutte almeno iniziate (e qualcuna anche finita) durante il soggiorno
giovanile in quella città. I passatempi, però, galanti ed erotici ebbero il sopravvento. Pare fosse diventato il favorito di una certa Maria, figlia naturale di Roberto d’Angiò, sposatasi poi con un conte d’Aquino. Dobbiamo accettare però il fatto che tale personaggio è ignoto ai documenti storici del tempo. Cantata, comunque, col nome di Fiammetta, avrebbe finito per ripudiare lo scrittore, gettandolo in pene amorose, che prevenivano quelle ben più radicali della povertà che stava in agguato. Il fallimento, infatti, dei Bardi e dei Peruzzi,
banchieri fiorentini con cui il padre lavorava, decisero il rientro di Giovanni
a Firenze. 1340-9:
accanto al padre rimane poco tempo e cerca sistemazione presso corti signorili (Ostasio
da Polenta a Ravenna, Francesco Ordelaffi a Forlì). Ma nel 1348 dovette essere
a Firenze, se potè vedere di persona la sciagura della peste in quell’anno.
E’ certo che egli rientra nella città toscana alla morte del padre (1349). Ma
ben più che per la ricerca di una sistemazione per vivere, contano questi dieci anni per la scrittura delle opere
principali: continuano le Rime, vengono composte o finiti l’Ameto, l’Amorosa visione,
l’Elegia di madonna Fiammetta, il Filostrato,
il Ninfale fiesolano; inizia
la stesura del Decameron; volgarizza
(probabilmente) Livio, decadi III e IV. 1350-62:
Boccaccio è ormai famoso come scrittore; il comune fiorentino lo impiega in
ambascerie ed altri uffici: presso i signori di Romagna, il marchese del Tirolo,
la corte pontificia sia ad Avignone che a Roma. Due missioni hanno agganci
letterari simpatici: quella presso il Petrarca a Padova (1351), per offrirgli
una cattedra nello Studio fiorentino; e quella a suor Beatrice nel convento di
Ravenna, per portare alla figlia di Dante una rosa d’oro in dono, quale segno
di riparazione del comune fiorentino alla condanna ingiusta dell’esilio
inflitto al padre (1350). Di questo decennio è l’amicizia col Petrarca,
conosciuto già prima della visita a Padova; egli lo incontrerà ancora
a Milano (1359), ed a Venezia (1363) e rimarrà in cordiali rapporti con lui,
di lettere e di vicendevoli influssi letterari. Si può ritenere,
infatti, che l’amicizia col Petrarca, ormai fatto saggio dalla meditazione
sulla letteratura cristiana antica oltre che dalla conversione al chiostro del
fratello Gherardo, abbia preparatao l’animo del Boccaccio a quella svolta
radicale che la visita del monaco Gioachino Ciani doveva imprimere, nel 1362,
alla sua vita. Il religioso venne ad ammonirlo a nome di un confratello morto in
fama di santità, Pietro Petroni, perchè cambiasse vita e meditasse sulla morte
non lontana. Lo scrittore fu scosso a tal punto, dai rimproveri e dalle minacce
del monaco, che si sarebbe deciso a distruggere il Decameron, se l’amico
Petrarca, richiesto di un parere, non lo avesse dissuaso (pur avendo scorso solo
superficialmente l’opera boccaccesca). A sua volta il Boccaccio riuscì ad
avvicinare maggiormente a Dante l’amico umanista. 1362-1375:
Boccaccio aveva scritto l’ultima opera mondana, il Corbaccio,
nel 1355 circa: è un libello contro una donna che ne aveva deriso le proposte
amorose. Il Corbaccio è opera di
misoginismo: passando da un estremo all’altro, Boccaccio denuncia tutti i
difetti del mondo femminile; e si propone di dedicarsi ad opere più degne.
Anche la impressione deludente ricavata da un suo ritorno a Napoli (1362), alla
corte della regina Giovanna, dove il fiorentino Niccolò Acciaioli dominava come
“gran siniscalco”, servì a confermarlo nel cammino di conversione. Egli si
propose di riparare con opere di erudizione al libertinaggio passionale della
produzione letteraria giovanile. Aveva nel frattempo (1360) ricevuti gli ordini
minori, potendo così accedere alle rendite di qualche “beneficio”
ecclesiastico: egli attese regolarmente alle pratiche religiose che gli
incombevano in conseguenza. Così, mentre il Petrarca si concedeva alla
composizione in volgare de I Trionfi,
in terzine dantesche, il Boccaccio iniziava invece le sue scritture latine a
servizio dei dotti. Tentò di imparare anche il greco, ospitando nella sua casa
dal 1360 al 1362, Leonzio Pilato, che diede una traduzione dei poemi omerici, se
non precisa, almeno utile come prima volgarizzazione italica. E, mentre aveva
deriso il collezionare le reliquie dei santi, come facile occasione a
imbroglioni per traffici sacrileghi, ora proprio a questo si dedica, lasciando
poi la sua raccolta ad un convento di suore. Nel 1373, su incarico del Comune, inizia nella Chiesa
di Badia, il commento alla Commedia di Dante: deve interrompere però le lezioni
al c.17 dell’Inferno. Era malato, colpito dalla scabbia. Si ritira a Certaldo,
da dove scrive: “Sto semivivo e triste nella terra avita di Certaldo, da Dio
solo aspettando la medicina e la grazia”. Nè migliori erano le sue condizioni
economiche. La morte dovette essere una liberazione: lo raggiunse
il 21 dicembre 1375, a soli 62 anni. Franco Sacchetti piangeva
morta, con lui, la voce poetica più viva in Italia, dopo quella del
Petrarca. O non lo era forse proprio il Sacchetti, invece, che qui parla per la
generosità solita in un elogio funebre?
LE OPERE Distinguiamo i suoi scritti in OPERE LETTERARIE ED
ERUDITE; le prime, le raggruppiamo ulteriormente in due sezioni: IN VERSI
ed IN PROSA.
Opere in versi: Rime:
sono esercitazioni, scritte avendo presente il Dolcestilnovo, ma con mentalità
terrena e mondana e, quindi, con risultati del tutto diversi. Iniziò a
scriverne in giovinezza e continuò per tutta la vita. Dopo la convresione,
l’argomento da amoroso si fa moralistico e religioso. Ma, se è ancor più
arido in queste ultime, neppure nelle Rime giovanili è dato trovare con facilità
poesia sufficiente. Tra le composizioni amorose, segnaliamo il sonetto
“Intorn’ad una fonte, in un pratello”; fra quelle religiose, il sonetto
“O regina degli angioli, o Maria”. Migliore ci sembra quest’ultimo, perchè
l’espressione del Boccaccio –sempre intrisa di spontanei musicalismi larghi
nelle vocali e duri nelle consonanti- meglio rispecchia il pentimento e le paure
del convertito che non i sentimenti dolci e soavi dell’innamorato, solitamente
scompaginati dal contrasto fra esigenze tematiche del motivo ispiratore e
tecnica stilistica inadeguata, anzi impertinente.
Caccia di Diana: poemetto in 18 canti in terzine, che celebrano 58
gentildonne napoletane (1334 ca: di non sicura attribuzione). Filostrato
(che, nella intenzione del Boccaccio, dovrebbe significare “vinto, prostrato
d’amore”) è il poema di otto
canti in ottave, che esprime il
dramma dell’autore abbandonato da Fiammetta. Difatti, sullo sfondo della
guerra troiana, vi è un figlio di Priamo, Troiolo che si innamora, ricambiato,
di una giovane troiana, Criseida, il cui padre si è rifugiato presso gli Achei,
conoscendo, come profeta, la prossima caduta della città. Ma, una volta
concessa al padre, in uno scambio di prigionieri, essa lo tradisce con
Diomede. Troiolo, saputa la cosa, si getta nella battaglia cercando la morte del
rivale, ma incontrandola lui, invece, per mano di Achille. Fu composto, più
probabilmente, fra il 1335 e il 1340.[1]
Teseida
delle nozze di Emilia:
altro poema in ottave, in dodici canti (1339-41 ca). Celebra le vittorie di
Teseo (Atene) contro le Amazzoni e
contro Tebe, ma soprattutto la lotta fra i due amici Arcita e Palemone (entrambi
tebani prigionieri degli Ateniesi) per Emilia, sorella di Ippolita e cognata di
Teseo. Pur vincente nel torneo per disputarsi la giovane, Arcita muore per
caduta da cavallo, causata dall’ostile Venere. Emilia sposerà Palemone, su
consiglio dello stesso Arcita morente. Benchè vi sia l’intenzione di imitare
l’Eneide di Virgilio e la Tebaide
di Stazio, la cornice epica è puro pretesto al nucleo sentimentale, per il
quale influivano i “cantari” e la materia “cortese” dei poemi arturiani. Amorosa
visione:
poema allegorico in 50 canti di terzine. Composto nel 1342, è particolarmente
debole artisticamente, anche perchè tenta di attribuire valore etico-religioso
all’amore mondanamente sentito, diluendo l’uno e l’altro tema in una
noiosa erudizione storico-mitologica ed in una artificiosa tecnica retorica. Ninfale
fiesolano:
poema in 500 ottave, che narrano gli amori tra il pastore Africo e la ninfa
Mensola. Benchè i due innamorati finiscano tragicamente (la ninfa è sacra a
Diana e viene punita per la violata verginità), il figlioletto che ne nasce sarà
il fondatore di Fiesole, cui darà il nome ( favola eziologica). E’, tra le
opere in versi, la cosa migliore del Boccaccio, che sa coniugare il realismo
attinto alla poesia popolare acon l’ armonia raffinata imitata dalla poesia
illustre.[2] Opera mista di prose e versi. La
Commedia delle Ninfe (più nota col titolo datole nei codici
quattrocenteschi di “Ninfale d’Ameto”). E’ un romanzo
composto fra il 1341 e il 1342, simile alla contemporanea Amorosa visione. La
parte meno arida è quella dell’amore fra il pastore Ameto e la ninfa Lia. Ma
questa stessa trama amorosa è coartata dalla sovrapposta dimensione allegorica:
Ameto è la umanità primitiva e si avvia alla civiltà, sposando appunto Lia,
che è una delle sette ninfe, simboli delle quattro virtù cardinali (prudenza,
giustizia, fortezza e temperanza) e delle tre virtù teologali (fede, speranza e
carità). Opere letterarie in prosa
Filocolo
(nella intenzione, filologicamente errata, del Boccaccio significherebbe
“Fatica d’amore”, che sarebbe semmai “filopono”). E’ la storia di
Florio e Biancifiore, ben nota nei cantari medioevali. Il romanzo in cinque
libri narra l’amore di questi due giovani, ostacolato dal padre di Florio (il
re pagano Felice), che ignora la nobile ascendenza di Biancifiore. Questa,
venduta schiava in Egitto, è ritrovata dalle perseveranti ricerche di Florio,
sicchè alla fine, rivelati i nobili natali della giovane, il matrimonio viene
celebrato ed i parenti di Florio si convertono. L’opera risalirebbe al 1336-8.
La nota più appariscente è lo sforzo di tradurre nella lingua volgare i rigidi
schemi del periodare classico latino: l’opera
allena lo scrittore ad una delle caratteristiche tecniche del Decameron,
ma non vale più in là che per
questa preparazione implicita all’opera maggiore. Elegia
di madonna Fiammetta.
Fiammetta narra in prima persona le
sue drammatiche vicende d’amore, dall’esultanza
per la concordia con l’amato Panfilo, mercante fiorentino, ai tormenti seguiti
alla sua partenza per Napoli, da dove giungono notizie dapprima contradditorie,
ma alla fine sicure del suo tradimento (essa tenta il suicidio); sino ad una
specie di fase consolatoria, quando rievoca le simili disavventure di amanti
infelici. Il romanzo ha forte tinte autobiografiche, in cui però la realtà è
rovesciata, essendo stato l’autore tradito dalla donna (Maria d’Aquino?).
E’ la prosa migliore prima del Decameron: la narrazione è fatta senza enfasi,
con distacco e verosimiglianza, approfondimenti psicologici e lingua ormai
disinvolta. Sullo sfondo dell’ultima parte stanno le Eroìdi
di Ovidio (lettere di donne amanti e tradite). Apparterebbe agli anni 1344-5. DECAMERON. E’ il capolavoro.[3]
Si tratta di cento novelle narrate in dieci giornate (onde il titolo
dell’opera) da 7 ragazze e 3 giovani che, per fuggire dalla peste che
imperversa in Firenze (è quella tremenda del 1348) si recano in una villa e
decidono di passare il tempo raccontando ciascuno,
a turno, una novella ogni giorno, salvo il sabato e la domenica, dedicati al
riposo ed alle pretiche religiose. Ogni giornata si chiude con danze e con la
recita di brevi ballate che rivelano, se non il carattere, l’umore di ciascun
personaggio. La descrizione della peste, dell’incontro,
della decisione di scamparne, della organizzazione delle giornate e
dell’ordine di narrazione fa da cornice alle cento novelle, novella essa
stessa. Fu scritto fra il 1349 e il 1351 Corbaccio. Il significato del titolo è incerto:
potrebbe significare “frusta” (dallo spagnolo “corbacho”) oppure
“corvo” (che nella simbologia medioevale simboleggerebbe la passione
d’amore che tutto distrugge). Scritto verosimilmente fra il 1365 e il 1366, è
l’ultima opera di fantasia del Boccaccio, forse legata ad un fatto
autobiografico vero (la ripulsa di una vedova
alle sue profferte). Alla donna appare il marito in sogno, rimproverandole la
vita obbrobriosa. L’opera è una violenta requisitoria che il
medioevo conosceva come “vituperium”; ed è l’espressione di un
misoginismo, che pure affiorava qua e là in quei secoli, non solo come reazione
spiritualistica al libertinaggio sessuale diffuso,
ma anche come allegra beffa, in caricatura alle lodi e celebrazioni della poesia
d’amore cortese. Boccaccio concluede col proposito di abbandonare la
ricerca dell’amore terreno, per dedicarsi alla meditazione ed allo studio. Scritti eruditi
Consideriamo tali non solo le opere scritte in latino, ma anche quelle stese in volgare e dedicate a Dante ed alla Commedia.
Epistole: ce ne sono giunte solo 24; di esse, due sono in
traduzione italiana.
Trattatello in laude di Dante: ritratto biografico ed ideale del
poeta (ne abbiamo tre redazioni, scritte fra il 1365 e il 1370).
Esposizione sopra la Comedia di Dante: materiale derivato dal
commento ai primi diciassette canti dell’Inferno. Come la precedente, anche
quest’opera offre pochi dati storici e troppe divagazioni erudite di mitologia
ed allegorismi.
De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu
paludibus et de nominibus maris: repertorio alfabetico con
spiegazioni sui nomi di monti, selve, fonti, laghi, fiumi, ecc. che si trovano
nelle opere dell’antichità
classica (finito circa il 1360).
De mulieribus claris: sono 104 vite di donne famose, da Eva a
Giovanna di Napoli (1361-2).
Genealogia deorum gentilium: 15 libri sulla mitologia classica
(completo verso il 1365). Pur contenendo errori e lacune, costituiì per lungo
tempo una fonte utile per gli studiosi di rapporti parentali fra le divinità e
per le vicende degli eroi mitologici. Il libro XIV è famoso per la difesa che
vi si fa della poesia contro i detrattori di varie estrazioni (filosofi e medici
scolastici, teologi). Nel libro XV difende la propria vita di letterato e di
studioso.
Buccolicum carmen: 16 egloghe in distici elegiaci, di imitazione
virgiliana e petrarchesca (1367).
De casibus virorum illustrium (Fine sventurata di uomini
illustri): nove libri che espongono la sorte avversa di grandi personaggi, da
Adamo a contemporanei (1373). La Personalita’.
LA COSTITUZIONE FISICA: Così ce lo descrive Filippo Villani: “di statura
alquanto grasso, ma grande: la faccia tonda, ma col naso sopra le nari un poco
depresso: labbri alquanto grossi, nientedimeno belli e ben lineati: mento
forato, che col suo ridere mostrava bellezza: giocondo e allegro aspetto in
tutto il suo narrare”.[4]
TEMPERAMENTO: La sua
individualità emotiva e dinamica è debole e confusa, per cui è difficile
darne una definizione sicura. Fu probabilmente un sentimentale (Emotivo|
non attivo| stabile o secondario), ma con una carica così debole di emotività
e di secondarietà, da rasentare il tipo di individualità più povera: l’amorfo.
Una certa dose di emotività la possedeva, ma in misura così elementare, da
esprimersi raramente al di sopra della sufficienza. Il viraggio è quello
contemplativo, che privilegia il registro idillico, ottimistico, anzi
comico-umoristico: si tratta dunque di una emotività con prevalenza del tono
vagale o parasimpatetico. La mancanza di intraprendenza nel campo
dell’attività lo lascia alla mercè dell’ambiente: quello mondano della
Napoli spensierata, dapprima; e, poi, quello religioso della Firenze più
riflessiva e devota (e del Petrarca umanista, già avviato a conversione). Fu,
nel complesso, uno scansafatiche, inadatto agli affari; un introverso, non
propenso alla vita pratica. Egli stesso si definisce “Johannes tranquillitatum”
(Giovanni delle tranquillità) e la apologia della sua vita, nel libro XV del De
Genealogiis si basa sulla
constatazione della congeniale inclinazione alla vita letteraria. La stentata
“secondarietà” (stabilità) del temperamento lo porta
al vagabondaggio della vita affettiva[5]
ed alla moltiplicazione degli scritti romanzeschi, il cui unico punto di unione
è la centralità della trama amorosa. E la assenza di interessi storici, etici,
religiosi confermano la immaturità del Boccaccio, fermo alle esperienze ed alle
tematiche della adolescenza e prima giovinezza.
LA FANTASIA. La mobilità delle peripezie gli è congeniale:
doveva avere una notevole fantasia cinestetica, del movimento. Così,
anche, gli riesce di evidenziare
la sproporzione tra comportamento
ideale, discreto e condotta od ingenua od impertinente; fra parole equilibrate e
parlare a vanvera: ha un vivo senso della comicità. Flebile è invece sia la
fantasia figurativa che quella musicale.
Delle figure del Decamerone, poche rimangono nella memoria in un qualsiasi tratto caratteristico (frate Cipolla ed il famiglio
Guccio, in VI, 10; ser Cepparello in I, 1 o
Guido Cavalcanti pensoso fra i sepolcri in Firenze, in VI, 9). Gli stessi personaggi del Decameron si differenziano
non pittoricamente (non parliamo di plasticità descrittiva!), ma per qualche
variazione nei confronti del problema amoroso. Si tratta di figure che
egli tenta di presentare
“psicologicamente”, ma che restano troppo debolmente caratterizzate: di
riuscire a vederle, non si deve pretendere. La
fantasia musicale non gli faceva
difetto, chè altrimenti non si sarebbe sentito inclinato a scrivere in
versi. Ma non risulta poi eccezionale. La versificazione non è solo incoerente
per il miscuglio casuale di suoni forti e dolci, ma altresì per la fatica che
denuncia nella composizione. Solo nelle ottave del Ninfale fiesolano egli raggiunge quella scorrevolezza che, almeno in
alcuni brani, genera il ritmo giambico cullante. Ma è conquista laboriosa
che rimane arida: non crea l’atmosfera di sogno
idillico che ci si attenderebbe da una simile versificazione.
IL TIPO DI INTELLIGENZA. Era davvero povera, sia sul piano
analitico che a livello di sintesi. Per la “scarsità” analitica, sta
la rarità degli apporfondimenti psicologici: le trame sono di una ovvietà
disarmante oppure inverosimili (Fortuna) e surreali (magia). Per la difficoltà
nella sintesi, elenchiamo qui come limiti intellettuali quelle notazioni che
dovremo svolgere come
caratteristiche di stile: difficoltà a concordare periodi complessi con
chiarezza di esposizione od esattezza di sintassi; confusione nelle
interpretazioni storiche e contraddizioni in sede di princìpi morali. Alla
superficialità delle singole idee corrisponde la incoerenza nella loro
organizzazione. Dapprima credente che vive libertinamente, diverrà un
bigotto che fa collezione di reliquie. Si appella agli amori di Dante e del
Dolcestilnovo (Introduzione alla IV giornata del Decàmeron) per giustificare la
sensualità delle proprie novelle, come se l’amore angelicato di quelli
potesse essere paragonato alla volgarità dell’erotismo proprio. E, così, la
omosessualità solitamente deprecata ( e sia pure con lo scopo di scusare
l’adulterio), trova un’allegra accoglienza nella finale della novella IV,
10, mentre la disinvolta, anzi gaudiosa, approvazione abituale dell’adulterio
mal si accorda con l’ammirazione alla fedeltà eroica di amanti coerenti (Ghismonda
di IV, 1; Isabetta di IV, 4; Federico degli Alberighi, di V, 9; Griselda, di X,
10). Anche il tentativo di dare un alone misteriosamente altolocato ai suoi
natali (nascita a Parigi, da madre nobile) ed ai suoi amori (Maria d’Aquino,
figlia naturale di Roberto d’Angiò) è un segno di infantilismo fatuo e
sognatore. Quando, poi, si propone delle definizioni o delle
teorizzazioni, fa pena. La poesia continua ad essere concepita come scienza
adombrata in simboli. Ee questo passi: è l’errore di tutto il Medioevo! Ma
egli va oltre: la dichiara forma
di scienza più alta, perchè più difficile da interpretare nella veste
immaginosa! Anzi vien messa in parallelo con la Sacra Scrittura, perchè anche
questa usa immagini nelle profezie per rivelare in maniera oscura delle verità
che solo l’avvenire chiarirà (Trattatello
in laude di Dante, cc. IX e X). Egli accetta anche mitizzazioni
pseudostoriche, che troppo risentono della invenzione, come il presunto sogno
della madre di Dante durante la gravidanza, che preannuncerebbe la grandezza del
figlio (ivi, c.II). Anche il “Comento alla Comedia” è così povero di senso
critico, così scadente e deludente, che più di un critico si domanda se sia
veramente del Boccaccio.[6] Riassumendo, potremmo così delineare la individualità
del Boccaccio. Alto e florido, di temperamento emotivamente mediocre, con
distonia vagotonica che gli consente una disponibilità lirica pressochè unica,
quella dell’idillio bonariamente unoristico. Non attivo, pacifico anzi
indolente, egli stesso si definisce “Giovanni delle tranquillità”. Poco
stabile, tanto da far esitare se definirlo un nervoso
(primario o mutevole) piuttosto che un sentimentale (secondario o
stabile) o, addirittura, un amorfo (non emotivo, non attivo, instabile o
primario: è il tipo di temperamento più povero ed inconcludente). Di qui la
eccessiva disponibilità al libertinaggio sessuale (non pensò mai a sposarsi) e
la parallela elementarità intellettuale, che lo portano, in età matura, ad
estremismi devoti, che fan da parallelo agli estremismi erotici della
giovinezza: e dimostrano la sua incapacità a trovare un equilibrio ragionevole
alla sua vita interiore. Non profondo pensatore, egli dispone di un modesto
senso musicale che solo a fatica e tardi si costruisce una cadenza ritmica
accettabile. Più povero ancora a livello di fantasia pittorica, in prosa solo a
tratti gli riesce la descrizione di qualche macchietta fisica (frate Cipolla) o
sgorbio psicologico (Calandrino). L’ambiente L’ambiente
socio-culturale. E’ quello stesso già delineato per la Epoca di passaggio o di crisi
che si verifica nel secolo XIV tra Medioevo e Rinascimento. Qui sottolineiamo
soltanto che il Boccaccio, come già il Petrarca, con il suo vagabondaggio
intellettuale ed etico, conferma la polivalenza del suo secolo, la compresenza
cioè di due campi gravitazionali opposti, di una complessità dissona nella
mentalità e prassi della società italiana del tempo. Ma con un peggioramento
nel Certaldese. In Petrarca, mai la fede venne meno. Aleggere, invece, certe
pagine del Decameron, c’è da chiedersi davvero se il dubbio o la indifferenza
non siano penetrati nel suo animo, pur nelle tradizionali invocazioni a Dio (si
veda sia la introduzione sulla peste che la Conclusione dell’opera). La
novella terza della prima giornata (delle
tre anella) avalla come equivalenti le tre religioni monoteistiche o è semplice
celebrazione della furbizia volpina dell’ebreo Melchisedec? Ne riparleremo,
per notare che troppo è il favore del Boccaccio per gli spiriti “forti” più
o meno miscredenti, mentre non rivela
simpatia alcuna per la vita cristiana , non foss’altro attraverso qualche
leggenda sui santi, come permetteva la acrisia storiografica del Medioevo.
Inoltre, nel Petrarca il peccato non è mai stato oggetto di celebrazione nelle
sue opere e, anzi, non è mai rimasto senza il rimorso (l’incontro con le Confessioni
di S. Agostino avviene prima che compia i trenta anni). In Boccaccio la
sensualità è al centro della sua ispirazione e la conversione arriva alle
soglie della sua vecchiezza (1362: egli muore a 62 anni nel 1375). Ad ogni modo
anche il suo ritorno alla coerenza nella fede e nella vita pratica confermano la
natura bipolare della cultura del secolo. In lui ci si accorge che sono i
princìpi del Vangelo che rischiano di tramontare; che l’umanesimo
tende ad essere interpretato nel senso di “rinascita” non solo delle opere
d’arte classiche di Grecia e di Roma, ma anche dei loro parametri
etico-religiosi, cioè della relegazione
di tali valori in un angolo morto
della coscienza, in favore di beni più terreni e goderecci. Non
che si tratti solo di una anceps pugna a carattere religioso e morale. Il secolo
è ambiguo culturalmente anche per altre dimensioni più tecniche: quelle della
lingua, ad esempio. Anche qui, se il Petrarca rimane il segno della perdurante
presenza del volgare con la sua “conversione” a Dante negli anni pià
avanzati della vita, Boccaccio, invece, è testimone del progredire vittorioso
della moda umanistica: egli fa il percorso inverso a quello del Petarrca e si
consacra, nell’attività degli anni maturi, ad opere di erudizione mitologica,
cioè ad argomenti di cultura greco-latina, scovata nelle opere classiche e
diffusa nella lingua di Cicerone. La
sua formazione letteraria. Toscano (se non addirittuura fiorentino) di nascita,
amò più Dante che la letteratura
latina, con cui pure venne a
contatto nel corso di studi
intrapresi e non finiti. Non sapendo
noi molti dettagli sul concreto apprendimento
nelle scuole del Trivio e del Quadrivio, certamente frequentate, egli ci
appare come un autodidatta, che impara leggendo direttamente gli autori latini
e, quelli greci, nella traduzione
latina. Difatti i primi versi portano nel titolo il nome della dea Diana; il
Filostrato si rifà alla guerra di Trioa (all’Iliade, dunque) e il Teseida
dimostra una conoscenza dei poemi
postomerici e della mitologia (o storia mitologica) degli antichissimi Greci. Ma
il Filocolo riporta una simpatica leggenda medioevale,
mentre le altre opere minori sono intessute di vicende autobiografiche,
di riecheggiamenti da varie scuole, sia in
lingua volgare che latina. Il Decameron si attiene più alla esperienza di vita
dell’autore, comprendendo in tale fonte anche i racconti uditi e rimaneggiati,
con l’occhio rivolto a tutto il bacino del mediterraneo, che la dimora
napoletana gli aveva dato modo di conoscere
più da vicino, seppure superficialmente. Ma è ovvio che Italia e
Toscana e Firenze vengano privilegiate come luogo delle vicende vere o inventate
del suo narrare. La materia classica diventa una fonte di ispirazione marginale,
che si esprime a pieno solo nella novella ottava della IV giornata,
mentre in V, 1 ed in VII, 9 l’ambiente
è greco, ma l’atmosfera è quella medioevale. Il Boccaccio, dunque, attinge senza pregiudizi
classicistici a tutte le fonti letterarie, latine o volgari, eleganti o
popolaresche che gli si presentino. La sua formazione è polivalente: messo nel
commercio contro voglia, assorbe, però, dalla borghesia cui apaprtiene, la
esperienza e la stima per le opere realistiche; costretto a studiare il latino
per conseguire una posizione sociale distinta, egli privilegia Apuleio (L’asino
d’oro), Ovidio, Cicerone (De
inventione, Rethorica ad Herennium), Quintiliano (Institutiones)[7],
Seneca tragico, Valerio Massimo (Factorum
et dictorum memorabilium libri IX),
Tito Livio. Da Seneca, da Valerio Massimo e forse da Tito Livio traduce. Nelle
opere in versi, si rifà ad una modellatura molteplice, che va dal Dolcestilnovo
(preferisce a tutti Cino da Pistoia) a Dante, dal Petrarca, ai cantari
dei poemi in ottave ed a tutta la peoduzione popolaresca. Ma in tutta
questa varietà di spunti, egli introduce la esigenza di eleganza formale, di
scorrevolezza musicale, di elevatezza retorica che gli viene dalla frequenza
della letteratura classica di Roma, da
lui assiduamente frequentata. Ecco come si esprime il Sapegno (opera e pagina già
citate): “...la cultura borghese dell’età dei comuni...opera nel Certaldese
con un rapporto più immediato e diretto...egli ne riassume, rendendoli
espliciti e chiari, il significato e le aspirazioni e trova forme più adeguate
alle corrispondenti esigenze concrete e realistiche e ai suoi ideali di decoro e
raffinatezza: il romanzo e la novella...Non si dimentichi tuttavia che...dinanzi
a quella materia... c’è sempre l’artista che reagisce con il suo proposito
di ricomporre in suoperiore dignità e in una più classica armonia quelle
esperienze incondite e disperse, e con la sua educazione tecnica e retorica e
lirica laboriosamente foggiata sui modelli della prosa d’arte latineggiante e
dei rimatori aulici...”. .
Significato
delle opere minori Le opere del Boccaccio, al di fuori del Decameron, sono quasi del tutto prive di valori poetici: il loro significato è quello di aver formato lo scrittore alla sapienza espressiva di un periodare vario, adeguato al motivo ispiratore, risultante dalla fusione delle componenti più diverse assorbite nella sua formazione letteraria. Ecco come si esprime Carlo Muscetta: “La produzione giovanile del Boccaccio deve essere considerata non tanto per i valori di una raggiunta compiutezza di espressione, quanto per i documenti della sua curiosità intellettaule, della sua audacia e spregiudicatezza di scrittore dilettante, che non s’arresta di fronte a nessun esperimento, a nessuna mescolanza di suggestioni tematiche, di generi e tradizioni storiche” (Il Trecento, nella Storia della Letteratura italiana, Garzanti, 1976, pp.254-5). Ancor più specifico è il Sapegno, il quale parla “di una duplice tensione che caratterizza lo svolgimento dell’arte boccaccesca fino al Decameron, nello sforzo di raggiungere e di contemperare l’equilibrio degli affetti con quello delle forme...Donde una somma di incongruenze, di incertezze e di scadimenti tonali, che si risolve soltanto nella raggiunta maturità stilistica del capolavoro” (“Introduzione” alla edizione Ricciardi del Decameron (Milano- Napoli, 1952, p. XIII). Ci
limiteremo, allora, a segnalare alcuni aspetti delle opere minori che possono
suggerire premesse o
differenze rispetto al Decameron nei Motivi ispiratori; qualche barlume di
poeticità nei versi; alcune direttive di maturazione stilistica.
MOTIVI ISPIRATORI. L’amore
è il tema predominante, che assorbe in sè anche il motivo autobiografico: non
solo le Rime cantano il suo amore per
Fiammetta, ma anche le vicende delle altre opere (in versi come in prosa)
ammiccano alla sua passione d’amore, quando non vi si riferiscono con
chiara evidenza.
La mitologia e le leggende
classiche, che scompariranno quasi del tutto nel Decameron, ingombrano i
primi poemi in ottave (Filostarto e
Teseida), mettendo a servizio di trame amorose nuove la vecchia materia sia
del ciclo troiano sia di quello tebano. Ovidio (Metamorfosi
ed Eroìdi) è la fonte principale.
La materia fiabesca romanza
affiora specialmente nel Filocolo, che
rimaneggia il motivo di Florio e Biancifiore, leggenda medioevale di origine
francese.
Napoli, le sue donne, i suoi
paesgagi, i suoi costumi ritornano spesso sia nelle Rime
che nella Caccia di Diana (se è del
Boccaccio), che nel Filocolo
(Florio, nella sua perseverante ricerca di Biancifiore, vi si ferma
in cortese e amorosa compagnia). Nel Decameron, la novella di Andreuccio
da Perugia ci dà uno squarcio della Napoli peggiore (II, 5).
Firenze, la sua gente e le sue
terre vanno, poco a poco, prendendo il sopravvento: il Ninfale d’Ameto o la Commedia
delle ninfe (fiorentine) e il Ninfale
fiesolano vi si ispirano. Anche nel Decameron, Firenze fornisce personaggi e
vicende molto più che Napoli.
Motivo morale e cristiano:
magari per suggestioni esteriori (si parla del dotto ecclesiastico Dionigi da S.
Sepolcro, ad esempio), Boccaccio si sforza di sovrapporre a trame e personaggi
delle sue opere un senso allegorico, che dovrebbe trasformare in insegnamenti
morali quelle che sono in realtà pure fantasie sentimentali, se non erotiche.
Questo tentativo di sovrapposizione avviene specialmente nella Amorosa visione e nell’Ameto.
Più sentito è il proposito moraleggiante nel Corbaccio; più sincere, le intenzioni religiose nelle Rime
della vecchiaia.
TONI LIRICI. Non ci pare
esistano brani liricamente sufficienti nelle prose minori. Invece fra i moltissimi versi scritti (con facilità e aridità degne di
Ovidio), alcuni pur emergono fino a
farsi tollerare od a sfiorare addirittura il valore artistico. Riportiamone
i migliori. Dalla Teseida:
“Un bel mattino ch’ella era levata,| e’ biondi crin ravvolti alla sua
testa| discese nel giardin com’era usata:| quivi cantando e facendosi festa,|
con molti fior su l’erbetta assettata,| faceva sua ghirlanda lieta e presta|
sempre cantando bei versi d’amore| con angelica voce e lieto core” (l. V).
Sempre in tale libro, non è del tutto priva di sentimento l’ottava
“Ell’era sopra un bianco palafreno...” Nella parte in terzine
dantesche dell’Ameto, si
trovano versi tollerabili: “Tu se’ lucente e chiara più che ‘l vetro| ed
assai dolce più ch’uva matura:| nel cuor ti sento, ov’io sempre
t’impetro...| E i tuoi capei più volte ho somigliati| di Cerere alle paglie
secche e bionde,| d’intorno crespe al tuo capo legate...| Con queste (ciriege),
bianche e rosse come fuoco,| ti serbo gelse, mandorle e susine,| fravole e
bozzacchioni in questo loco...”. Più numerose le ottave riuscite nel Ninfale
fiesolano (ed un po migliori, anche): “Se tu pur fuggi, tu se’ più
crudele| che non è l’orsa quand’ha gli orsacchini,| e se’ più amara che
non è il fiele| e dura più assai ch’i sassi marmorini;... (ottava 104).
“Io non ti seguo, come falcon face| la volante pernice cattivella,| nè ancor
come fa lupo rapace| la misera e
dolente pecorella;| ma sì come colei che più mi piace| sopr’ogni cosa, e sia
quanto vuoi bella:| tu sei la mia speranza e’l mio desìo,| e se tu avessi
mal, sì l’are’io” (ottava 101). Si veda anche l’ottava 275. E non ne
mancano altre vicine a queste. Le quali tutte, però, mentre rappresentano il
meglio, denunciano anche la stentata sufficienza di una simile versificazione.
A stento ci si curerebbe di loro, se non appartenessero all’autore del
Decameron. Ciò non toglie che alcuni di essi, di derivazione ovidiana, non solo
preannunciano l’atmosfera generale (tra l’idillico e l’ironico, come
vedremo subito) della miglior produzione del Magnifico Lorenzo de’ Medici, ma
suggeriscono anche immagini (per una formulazione più raffinata e liricamente
viva) al grande Poliziano (Angelo Ambrogini), del prossimo Millequattrocento.
Quale è il tono lirico comune a questa affiorante poesia? Non
dobbiamo faticare molto a definirlo, perchè o abbiamo già incontrato nei
migliori “canterini” ed anche in altri verseggiatori , specialmente per
musica, dello stesso secolo. Vi è una fusione di idillio (prevalente) con una
sottesa variazione ironizzante. Il tipo di idillio ha una venatura di galanteria
e di vagheggiamento amoroso; la patina di ironia nasce dalla coscienza della
inverosimiglianza della vicenda immaginata. Il poeta, cioè, non è riuscito ad
immedesimarsi totalmente nella sua fanatsia e il diavoletto razionalista sorride
alle spalle del compositore impacciato fra i due atteggiamenti, fascino del
sogno e sua irrisione. Credo sia questa la tensione psicologica che crea e
disturba il ritmo danzante di un endecasillabo che vorrebbe essere sempre a
cadenza giambica pura e non sempre vi riesce. La cantilena culla e addormenta il
bimbo nella culla, ma non è così lieve e continua da evitare sobbalzi e
risvegli.
Le brevi ballate che chiudono i giorni narrativi del Decameron
meritano pure una parola di commento. Non vi è nessun capolavoro, anche se più
d’una raggiunge la tollerabilità che solo
la sesta (di Elissa) supera con una sufficienza in tonalità
inaspettatamente drammatica, tesa, sofferta. La quarta (Filostrato) ci sembra
richiami in qualche modo la ballata dell’esilio del Cavalcanti (elegia e
dramma); la quinta (Dioneo) è di un idillio tormentato, che nell’incertezza
perde ogni vigore. Il lirismo è tenue, si noti, anzitutto per la debolezza del
motivo ispiratore: mancano idee-ideali che diano spunti di variazione all’unico argomento d’amore che, pur
con sfumature psicologiche diverse, ritorna noiosamente in ognuna di esse. Vi è
poi la più solita tramatura
spontanae di una nota nervosa, drammatica, risentita nella stesura di un ordito
che di sua natura è piuttosto esigente di dolcezza idillica od elegiaca. E’
il solito contrasto ed ambiguità di cui il verseggiatore non prende coscienza e
che lo conducono alla dissolvenza incrociata.
Tra le Rime, segnaliamo
le quattro composizioni più note. Idillio discreto s’irradia dal sonetto
“Su la poppa seder d’una barchetta”; idillio ancora, ma incrinato da
impulsività esuberante, oltre che dalla vacuità del frivolo argomento, è
nell’altro: “Attorno ad una fonte in un pratello”; elegia frammista a
dramma nel sonetto di pentimento alla Madonna: “O regina degli angioli, o
Maria”; epopea mista a dramma nel sonetto: “Dante Alighieri son, Minerva
oscura”. Solo la prima composizione supera la sufficienza, con la purezza del
registro lirico: ma la mancanza di un contenuto elevato (è la contemplazione
della propria donna che fa visita ad altre imbarcazioni con a bordo donne
avvenenti) svuota alla radice l’impeto della grande poesia. Gli altri sono
tutti liricamente equivoci: vi è alternanza e sovrapposizione di due stati
d’animo, che si elidono a vicenda. Il Sapegno cita Leonardi Salviati (un filologo e
critico del Millecinquecento) che ebbe a giudicare così i conati poetici del
Boccaccio: “non fece mai verso che avesse verso nel verso”. Eccessivo? Ahimè!
quasi del tutto vero.
NOTE STILISTICHE. Meno poetico è il carattere di uno scritto in
prosa o in versi, meno interessante è analizzare lo stile espressivo: è come
sezionare una mummia... E’ meglio allora, continuando lo studio sulla
formazione letteraria del Boccaccio, esporre nel complesso il significato dei
suoi tentativi giovanili in vista degli sviluppi
posteriori, nel Decameron per la prosa; nei poeti toscani del secondo
Millequattrocento, per i versi. Frutto della
mediazione tra poesia popolare e classica sarà, in versi, la preparazione della
scioltezza e scorrevolezza danzante dell’ottava
che sfocerà nell’arte sublime del Poliziano; in prosa, il superamento di ogni
ictazione o cursus a fine periodo, per assumere la classica, ciceroniana
ampiezza che dispone ordinatamente, attorno alla principale reggente, un
corteggio di frasi subordinate, introduttive e conclusive. E’ il trasferimento
della solennità retorica della latinità aurea alla lingua toscana. E’ un
compromesso che scioglie la prosa dall’impaccio delle leggi della prosodia ,
una via di mezzo che eleva l’espressione in un impegno di dignità senza
scimmiottamenti metrici o ritmici. Ecco
due periodi a paragone, uno tratto dalla Elegia
di madonna Fiammetta; l’altro, dal Decameron.
“E posto ancora che non bastasse alla fortuna d’averci con la superficie
della terra congiunti, e ancora sotto quella cercasse di sotterrarci, sì
siamo nelle avversità anticati (abituati) che con quelle spalle con
le quali le maggiori cose abbiamo sostenute e sosteniamo, sosterremo le minori,
e però entra dove ella vuole” (è il penultimo periodo dell’”Elegia”).
“Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi
naturalmente tutte pietose siate, tanto conosco che la presente
opera al vostro giudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa
ricordanza della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che
quella vide o altramente conobbe dannosa a lacrimevole molto, la quale (mortalità)
essa (cioè l’opera del Decàmeron) porta nella sua fronte” (primo periodo,
in apertura del Decameron). Abbiamo
sottolineato le due frasi reggenti: ognuno può vedere e contare da sè il
numero delle subordinate che le precedono e seguono: corteo di dignità
letteraria o pompa di retorica noiosità? Ne riparleremo. La poesia del Decameron. La inseguiremo secondo i parametri obbligati: Motivi ispiratori, Toni lirici, Tecnica stilistica.
I
MOTIVI ISPIRATORI Diamo anzitutto la panoramica degli argomenti per le singole giornate, argomenti che, assegnati dal re o reginetta eletti diversi per ciascun giorno, offrono un punto di riferimento facile a collocare le singole novelle tra le novantanove altre compagne. Tra parentesi segnaleremo subito le novelle più interessanti, culturalmente od artisticamente.
1^ Giornata:
Tema libero
( 1: ser
Cepparello, ipocrita sublime; 3: i
tre anelli, le tre religioni
monoteiste nella astuzia dell’ebreo Melchisedec);
2^ Giornata: tema della Fortuna: dall’avversità al successo (5:Andreuccio
da Perugia; 6:Madonna Berìtola ed i cavrioli allevati
al posto dei figli creduti morti); 6: monacazione di una innamorata, cui
muore improvvisamente l’amato); 3^ Giornata: Intelligenza e destrezza nel conseguire beni
desiderati o perduti; 4^
Giornata: Amori infelici
( 1:La figlia di
Tancredi si avvelena, quando il padre le manda
in coppa d’oro il cuore dell’amato; 5: Isabetta
nasconde il capo dell’amato uccisole dai fratelli e ne piange sino a
morirne; 9: La moglie di Guglielmo Rossiglione si uccide, quando il marito le dà
da mangiare il cuore dell’amante); 5^
Giornata: Amori felici
(8: Nastagio
degli Onesti e la caccia infernale delle donne che rifiutano di corrispondere
all’innamorato; 9: Federigo degli Alberighi si riduce in miseria per la donna
amata, che finalmente lo riama quando sa che
sacrifica per lei anche il falcone da caccia); 6^
Giornata: Motti arguti
( 2: La
generosità, discrezione e arguzia di Cisti fornaio;
4:Chichibìo cuoco e la coscia della gru; 9: L’aguzia offensiva diGuido
Cavalcanti tra i sepolcri di Firenze; 10:Frate
Cipolla: il capolavoro); 7^
Giornata:Beffe di mogli ai mariti; 8^Giornata:
Beffe in generale
( 3: Calandrino,
gabbato da Maso del Saggio, Bruno e Buffalmacco, cerca la elitropia lungo il
Mugnone; 6: ancora i tre pittori in scena); 9^:
tema nuovamente libero
(4:Cecco di
Fortarrigo, perdente al gioco, si rifà con malizia alle spese del vincitore; 8:
beffe fiorentine tra Biondello e Ciacco); 10^
Giornata: Azioni magnanime
(2:La liberalità
del masnadiero Ghino di Tacco); 9 gara di cortesie fra il Soldano d’Egitto e
messer Torello di Pavia; 10: Il marchese di Saluzzo mette indiscretamente alla prova l’amore della moglie devotissima). Dei Motivi
Ispiratori, innumerabili nei particolari, possiamo
indicare quelli più più importanti o frequenti:
l’amore sessuale; la celebrazione della fortuna, spesso onnipotente; la
esaltazione della intelligenza che la contrasta efficacemente; la celebrazione
della virtù, intesa però in senso più umanistico che cristiano (magnanimità
o generosità); il gusto del magico e del surreale; l’anticlericalismo e la
empietà. Vediamoli ora più particolarmente. A)Quale Amore nel Decameron? 1)
Se per
“amore” intendiamo la volontà
del bene in assoluto (cioè anche a costo di non avere il contraccambio),
dobbiamo dire che rari ne sono i casi nel Boccaccio; e anche questi sono talora
estremizzati fino ad una specie di fanatismo irrazionale. Si prenda V, 9:
Federigo degli Alberighi ama una vedova che non lo ricambia. Egli, per
corteggiarla, spende tutto il suo patrimonio, riducendosi a vita povera, anche
se riesce a salvare qualche apparenza di benessere. La cosa più cara che gli è
rimasta è il falcone da caccia. Capitata la donna in casa sua, volendo
prepararle un pranzo dignitoso, non esita a sacrificare il falcone. Saputa la
cosa, la vedova si arrende e lo sposa. La decima giornata, dedicata alle
azioni virtuose e magnanime, contiene vari casi,
che rasentano l’amicizia, ma solo nel senso che chi abitualmente fa il
male, in determinate circostanze cessa dall’operarlo ed anzi diventa
ragionevole fino compensare quanti ha finora tiranneggiato. E’ il caso del
brigante Ghino di Tacco, (X, 2) che cattura nella maremma l’abate di
Cluny in viaggio per Siena. Non
solo lo rispetta e non lo deruba, ma riesce a guarirlo da un male allo stomaco.
A sua volta l’abate, recatosi da
papa Bonifacio VIII, lo rappacifica con il bandito, che viene chiamato
in Roma a godere del beneficio annesso ad un priorato dell’Ordine
cavalleresco di S. Giovanni (ora Ordine di Malta).
La sesta
novella presenta
Carlo
I d’Angiò che, innamoratosi ormai vecchio di una giovane, riconosce la
follia del suo sentimento e colloca in onorevole matrimonio non solo lei, ma
anche la sorella. La settima presenta Pietro III d’Aragona in
situazione analoga, sebbene stavolta
è una donna che si innamora di
lui, alla quale egli trova un
gentiluomo come marito. La novella ottava presenta un caso “romano”
parallelo a quello “greco” di Oreste e Pilade: Gisippo e Pirro si accusano
ciascuno dello stesso assassinio, da loro non commesso ma di cui sono ritenuti
colpevoli, al fine di salvare l’amico dalla morte. La loro gara di amore
commuove l’autore del delitto che si autoaccusa, liberando la coppia generosa.
La nona è una fantasia ove l’ospitalità, con l’amicizia che ne nasce,
supera l’odio tra due nemici di guerra. Ma è una pura fantasia: il Saladino
(cioè il sultano d’Egitto Yusuf ibn Ayyub Salahal-Din: 1138-1193), in
previsione di un “passaggio” (crociata) dei cristiani, viene in incognito in
Italia a prender conoscenza della situazione ed è ospitato magnificamente da
messer Torello da Strada (Pavia). Quando messer Torello sarà fatto prigioniero
in Egitto (terza crociata, 1189-90, con Federico Barbarossa), il Saladino lo
riconosce e tratta splendidamente, rimandandolo libero a Pavia. Anche la decima novella è una fantasia
indiscreta di amore irrazionalmente eroico (o un caso da manicomio, se fosse
stata reale): il marchese di Saluzzo sospetta di ogni donna e non vuol sapere di
matrimonio. Costretto a sposarsi, sceglie una contadina, cui fa passare le
sofferenze più disumane (finta uccisione dei figli; finta
convivenza con altra donna, spudoratamente introdottta in casa;
maltrattamenti che finiscono con il discacciarla in camicia da casa), salvo a
riabilitarla ed onorarla finalmente, vinto dalla pazienza di lei! [8] 2)
Se per amore intendiamo quello specificamente sessuale, ma nella intergità dei
tre “beni” voluti in correlazione naturale fra loro (affetto-erotismo-generazione),
che esiono, in nome dell’allevamento ed educazione dei figli, la
indissolubilità di un legame stabile, allora nel Decameron troviamo esempi
ancor meno numerosi. Per i figli, come per i deboli ed indifesi anche innocenti,
c’è proprio poco sapzio nell’arte di Boccaccio. Il Decameron è come la
rivista Play-boy (o, peggio, Penthouse): niente bambini, niente vecchi, niente
ammalati, che distraggano e disturbino il piacere di giovani gaudenti e...
inutili (anzi, nocivi). Vi è
una sola novella che fa davvero eccezione. In II, 6 troviamo “madonna
Beritola” che è gettata, sola, sull’isola di Ponza per un naufragio, mentre
fugge con il marito ed i figli dalla Sicilia, caduta in mano degli Angioini.
Tale è la passione materna della donna, che allatterà due caprioli appena
nati, trovati in una grotta. Tutto si risolverà poi, per il meglio: la famiglia
si riunirà e potrà rientrare in Sicilia, dopo i “Vespri” del 1282,
istigati e vinti da Pietro III d’Aragona, genero di Manfredi. Anche le novelle
di II, 8 e 9 ci mettono di fronte a famiglie perseguitate dalla malvagità di
uomini e di cose. Ma Boccaccio, in questa giornata dedicata alla Fortuna felice,
è più interessato alla soluzione fortunata della loro situazione che alla
parte che in ciò ha l’amore costante tra i membri della famiglia dispersa. 3)
Già più frequente è nel Decameron la presenza e la stima per la costanza
dell’affetto amoroso. Pur non potendo tacere sul fatto che spesso si tratta di
amori fuori del (o contro il) matrimonio; e che la fedeltà diventa una specie
di ossessione, che conduce al suicidio la donna cui è stato tolto l’uomo
amato, tuttavia va pure notato che Boccaccio non riesce a tacitare del tutto
l’ammirazione per la fedeltà nell’attaccamento alla persona amata: specie
nelle donne. A parte i casi già visti (Griselda in X, 10; Federigo degli
Alberighi, in V, 9) ci imbattiamo in novelle costruite sulla costanza
nell’amore quasi unicamente nella Giornata quarta (Amori infelici). Già, però,
la prospettiva della finale tragica
sfuoca l’importanza del tema (quasi si volesse dire: chi è fedele è uno
sventurato!); il ricorso, poi, al suicidio come testimonianza definitiva del
legame d’amore colla persona tolta alla donna dalla malvagità di altri
uomini, estremizza la vicenda e, di nuovo, la rende...sconsigliabile! Solo in un
caso di amore infelice vi è una monacazione come conclusione (IV, 6), mentre
quattro sono i suicidi per la perdita del compagno d’amore: Ghismonda, cui il
padre, principe Tancredi, uccide l’amante (si avvelena: IV, 1); Isabetta, cui
i fratelli fanno un simile tradimento (IV, 5: si lascia morire di
dolore);Simona, che si avvelena volontariamente colla stessa erba con cui è
morto l’innamorato che l’ha mangiata inconsapevole (IV, 7); la moglie di
Guglielmo Rossiglione, cui il marito ha fatto mangiare il cuore dell’amante
uccisole (IV, 9: si butta da una finestra). Anche la novella V, 8 offre uno
strano esempio di perseveranza affettiva: strano almeno per le circostanze.
Stravolgendo un esempio del Passavanti, il Boccaccio fa apparire una caccia
infernale nella pineta di Chiassi (Classe), per costringere una donna amata a
sposare Nastasio degli Onesti, che l’ha corteggiata fino ad impoverirsi, per
conquistarne la corrispondenza. Che l’inferno attenda chi rifiuta l’amore
terreno non sta scritto nel Vangelo ed è un principio che viola la libertà
umana. Anche Francesco De Sanctis parla di mancanza di “misura nella virtù
del Decàmeron” (ediz. Morano, Napoli,
p. 349). 4)
Ma questi casi, sorprendenti o
sconcertanti, sono poi emarginati nel complesso dell’opera dalle troppe
novelle di sensualità sfacciata, il cui unico principio è quello di Semiramide
“che libito fe’ licito in sua legge” (Div. Comm. Inf. 5, 56). Anzichè
l’armoniosa volontà dei tre beni (affetto-piacere-procreazione) connessi
dalla natura nel processo sessuale, troppo spesso non si ritrova neppure
l’affetto, ma il solo gioco gratuito, che pare segnare il trionfo delle
“sfacciate donne fiorentine”, già deprecata da Dante in Purg. 23, 97-101.
L’istinto irrefrenato assolve il libero amore in nome della acefala, dispotica
inclinazione istintiva[9]
(passim); difende l’adulterio in nome della insaziata brama del piacere (II,
10; VI, 7); a tempo e luogo, sorride compiaciuto anche della omosessualità
(V,10). La sottomissione all’istinto resta al centro di un’opera che non
solo testimonia, ma favorisce quella parte di umanità incapace di completare in
sè il processo dell’evoluzione fino al primato
dello spirito, primato che solo fa l’uomo maturo oltre che adulto; e rende più
difficile all’uomo di buona volontà il far prevalere la legge del bene su
quella del capriccio, il vivere dall’interno della coscienza all’esteriorità
dei beni mondani, il mettere decisamente la ragione al
timone delle proprie opzioni ed azioni, liberandosi dall’infantile
“mi piace|non mi piace; ho voglia|non ho voglia; mi sento|non mi sento....”.
Il Decameron è una battaglia persa per la edificazione della persona
intelligente e buona, un ostacolo al trionfo del bene e della verità morale.
E’ un’opera che promuove il regresso dall’essere sapiente all’animale
furbo, dal cittadino socievole all’anarchico arbitrario, dall’individuo
responsabile al primate incosciente. B) La Fortuna. Va intesa non dantescamente, come “angelo della
Provvidenza divina” (Inf. 7), ma come forza misteriosa , padrona e
determinatrice di gran parte delle azioni umane: essa è sentita tanto più
potente, quanto minore è la fede in Dio e, quindi, nella sensatezza delle
vicende umane. Alla Fortuna è dedicata l’intera seconda giornata (“chi da
diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine”).
La più nota di tali novelle è quella di Andreuccio da Perugia (II, 5)[10].
Ma altre vittorie della Fortuna sono in IV, 3; V, 2 e 3; IX, 6.
C) L’intelligenza ed avvedutezza. Dopo quello sessuale, il motivo della INTELLIGENZA DIFENSIVA ED AVVEDUTEZZA INTRAPRENDENTE è quello quantitativamente più diffuso nel Decameron e, ciò che soprattutto importa, è di gran lunga IL MAGGIOR FORNITORE DI POESIA ALL’OPERA, SOPRATTUTTO IN FORMA DI COMICITA’. Le burle degli intelligenti e le beffe degli astuti, alle spese della dabbenaggine dei semplici (siano essi colpevoli come Calandrino in IX, 5 e Chichibìo in VI, 4; oppure innocenti, come Tofano in VII, 4 e Cecco Angiolieri in IX,4) sono la più felice sorgente di arte, nel Boccaccio. La terza Giornata ha per tema “Chi alcuna cosa
molto desiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse”; la Sesta
è dedicata ai motti arguti ed alla presenza di spirito; la Settima ed Ottava,
alle beffe... Ma già nella prima Giornata
(a tema libero) troviamo che le novelle prima, quarta e sesta sono
imperniate sull’astuzia offensiva o sulla avvedutezza difensiva[11].
La sesta Giornata ci sorprende per la ricchezza di comicità (la seconda
novella: Cisti fornaio; la quarta: Chichibìo cuoco; la decima: frate Cipolla o
il farsesco capolavoro delle beffe e della furbizia). La nona Giornata, poi
(ancora a tema libero) ruota sulla intelligenza, spesso a servizio della
sessualià e della sensualità: ritornano in scena (dopo VIII, 6) Buffalmacco e
Calandrino (terza e quinta), mentre Fortarrigo surclassa in furfanteria il
collega di disordini Cecco Angiolieri ( la quarta). Nella nona, la sapienza di
Salomone risolve con brevissimi detti i problemi di due consultanti.[12]
Le novelle artisticamente notevoli le esporremo indagando i “toni lirici”
del libro.
D) Magnanimita’, Cortesia. Magnanimità, cortesia, grandezza d’animo,
generosità (anche eroica), liberalità, perseveranza, costanza e munificenza
costituiscono pure una fonte notevole dell’ispirazione bocacccesca. Se
volessimo dare un nome complessivo, non parleremmo però di virtù ma di “gentlemanliness”:
sono atteggiamenti più propri di un “gentiluomo” disposto a fare più del
dovere morale, che virtù dell’uomo onestamente giusto o caritatevolmente
santo. Oltre tutto il comportamento
non è dettato nè da motivi religiosi nè dalla coscienza morale, ma quasi
sempre dall’amore terreno per una donna. Al più è stoicismo, per amore. Già
De Sanctis notava che questo mondo di virtù manca di misura, di equilibrio.
Tutta la decima Giornata “ragiona di chi liberamente o vero magnificamente
alcuna cosa operasse intorno a fatti d’amore o d’altra cosa”. Abbiamo già
saccheggiato queste novelle a proposito del tema dell’amore (amore di
benevolenza, nel campo o sessuale o dell’amicizia).
Aggiungiamo a quelle già
citate e riassunte, la terza: il saggio e paziente Natan rivela –sconosciuto-
all’invidioso Mitridanès come si possa trovarlo solo e ucciderlo sicuramente:
quando quello s’accorge dell’identità della persona che gli rivela il modo
di eliminarlo, non solo vi rinuncia, ma gli diviene amico ed emulo. Anche III, 7
(un marito, Tedaldo, con incredibile pazienza riconduce al suo amore la moglie,
che l’aveva costretto ad esulare e si era allegramente risposata); V, 8 (Nastagio
degli Onesti) e 9 (Federigo degli Alberighi e il sacrificio ultimo del suo
falcone da caccia) ruotano attorno a tali comportamenti eccezionali di virtù-galanteria.
E) La magia. E’ per noi strano che essa trovi posto in più di una novella, chè il realismo (talora anche piuttosto volgare) è la regola. Sono influssi venuti dall’oriente o residui della astrologia che non riesce ad uscire dalla mitologia anche nella cultura cristiana del Medioevo? Boccaccio non si sottrae alla regola o di seguire o di servire il “volgo profano, il rispettabile pubblico” della opinione vulgata (oggi si direbbe “del politically correct”). Comunque sia, la novella di V, 8, (Nastagio degli Onesti) presenta un Inferno a servizio degli innamorati, con caccia spietata delle donne che non corrispondono; quella di IX, 7 narra di un sogno premonitore di un marito, la cui moglie, non dandogli retta, è davvero straziata da un lupo; e, infine, quella di X, 9 ci introduce nelle Mille e una notte, col Saldino che fa trasportare l’amico Torello dall’Egitto a Pavia, per mezzo di incantesimo!
F) Anticlericalismo
ed empietà. 1) Sarebbe strano se un simile scrittore non fosse un canzonatore del clero e addirittura un cristiano così disorientato in materia religiosa da rasentare l’empietà. In verità, se tale è l’avversario del clero, si verifica per loro il detto: “molti di questi nemici, molto onore!”. Boccaccio è un amico che impaccia e imbarazza; ed è, invece, un avversario da guadagno: quando un simile uomo applaude, mette in vergogna; quando fischia, onora quanti disprezza ed insulta, ecclesiastici e religione non esclusi. Non che mancassero (anche allora) motivi per lamentarsi del clero o dei religiosi (vedi Petrarca e Dante stesso): ma non si può generalizzare, come fa il Boccaccio, la ipocrisia di un mondo ecclesiastico quasi fosse normalmente miscredente e gaudente, sfruttatore e libertino. Dante presenta una Chiesa con macchie e rughe, ma sempre santa e per il fondamento che è Cristo, per la dottrina che è mirabile, per i santi del passato e per i cristiani degni del loro nome, anche contemporanei. Petrarca estendeva la condanna a tutta al curia avignonese, ma poi era amico e onorava cardinali e vescovi degni, religiosi e sacerdoti anche dotti. 2) Boccaccio non ha trovato nella sua memoria (o fantasia? neppure io, come già Manzoni, ve lo saprei dire) un ecclesiastico da mettere nel mondo meraviglioso del suo novellare, come esempio di virtù. Egli, inoltre, estende troppo facilmente i vizi dell’esempio addotto (vero o inventato che sia) a tutta la categoria ecclesiastica. Così, nella introduzione alla prima Giornata, la partecipazione dei religiosi alle pazzie dettate dalla disperazione per la peste è espressa in modo che può essere intesa come universale: “... e non solo le persone solute (non legate da voti), ma ancora le racchiuse ne’ monisteri... rotte dell’obbedienza le leggi, datesi a’ diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute”. Se la novella I, 4 permette ad un frate peccatore di tacitare il suo abate, colpevole lui pure di fornicazione sacrilega, la novella I, 6 è titolata addirittura “Confonde un valente uomo con un bel detto la malvagia ipocrisia dei religiosi” (proprio tutti?). La I, 7 parla della “viziosa e lorda vita de’ cherici, in molte cose quasi di cattività (cattiveria) fermo segno”, che, quindi, “senza troppa difficoltà dà di sè da parlare, da mordere e da riprendere a ciascuno che ciò desidera fare”. E si vedano III, 1, 3, 4, 8, 10; VI, 3; VII, 3, 5; VIII, 2, 4; IX, 2. Ma soprattutto ci si deve domandare: perchè ride divertito e plaudente alle malefatte dei religiosi che hanno successo nell’inganno o nel godimento illecito (frate Cipolla, VI, 10; il prete di Varlungo, avaro, oltre che sensuale: VIII, 2; il prete Felice, che educa asceticamente Puccio Rinieri, per godersi lui la moglie: III, 4), mentre li copre di ignominia solamente quando il loro peccato viene scoperto e diventa perdente (III, 3; VIII, 4; IX, 2...)? Perchè abate e badessa sono vituperate solo per la ipocrisia, mentre monaco e monaca sono difesi e lodati per aver trovato la via di continuare a peccare sessualmente? (I, 4; IX, 2). 3) Lungi dal negare Dio e la serietà della vita religiosa in generale, il Boccaccio fa rispettare il sabato e la domenica, come giorni da dedicare alla preghiera. Ma l’atteggiamento di fronte alla verità della fede cristiana, alla fede nella immortalità dell’anima, alla esistenza dell’inferno, rischia di essere ridicolizzata in più di una novella. Cominciamo dalla prima: la balorda ipocrisia con cui ser Cepparello, faccia d’impunito, gestisce la preparazione alla morte è già stata detta. Non resta qui che domandarsi: lui, il moribondo, non credeva all’Aldilà ed in particolare all’inferno; ma chi fa narrare con attitudine di ammirazione tale impresa diabolica, crede davvero nella vita eterna? Il ridicolo sul Purgatorio è specialmente presente nella tresca macabra di un abate e di una donna alle spese di Ferondo, il marito ingenuo ed ebete di lei (III, 8). La vita d’oltretomba è presentata con poca dignità da Dioneo in VII, 10, dove si deridono in particolare i legami speciali che la Chiesa stabilisce tra genitori del bambino e padrino|madrina del Battesimo (istituto del “comparatico”), sicchè la fornicazione tra genitore e comare|compare abbia del sacrilego.Ormai sappiamo che in V, 8 (Nastagio degli Onesti) si presenta la punizione in inferno delle donne restie all’amore, senza neppure specificare se si tratti di amore lecito o se Dio venga fatto complice di adulterio o fornicazione... Se a questo si aggiunge l’unilaterale derisione per le reliquie quasi fossero sempre falsificate (VI, 10: frate Cipolla, che fa credere di possedere una penna dell’arcangelo Gabriele; i carboni con cui fu bruciato S. Lorenzo martire, nonchè, racchiuso in un’ampolla, il suono delle campane del tempio di Salamone, non è che il caso più clamoroso); il miracolo finto da Martellino in II, 1; la simpatia mostrata per Guido Cavalcanti miscredente (VI, 9) e la vittoriosa proposizione della equivalenza dell’ebraismo, del musulmanesimo col cristianesimo (I, 3)..., allora è lecito sospettare in Boccaccio ateismo inconsapevole o almeno indifferenza religiosa. Ma non è neppure così. Sarebbe un pensiero troppo chiaro, una posizione troppo ragionata, responsabile, coerente; sarebbe un atteggiamento proprio di un di Guido Cavalcanti o di un Farinata degli Uberti. Boccaccio non era da tanto, ma era un disorientato che aveva confusione nella mente: amorfo o quasi, era succube dell’ambiente in cui viveva, ne seguiva l’opinione dominante, fosse il libero pensiero di Napoli o la devozione religosa di Firenze. Egli ha un’anima fanciulla, non un’intelligenza matura. E’ un po’ come l’ebreo Abramo di I, 2, che si converte alla fede cristiana, per questo sconcertante motivo: se la curia romana, con tanti peccati, non riesce a far regredire la fede nel popolo, allora occorre ammettere l’opera dello Spirito Santo e della Provvidenza! D’altronde la contraddizione che in campo morale si può sorprendere tra la solita complice approvazione dell’erotismo e la ammissioni della conseguente decadenza del costume morale, che abbiamo documentato (Introduzione alla prima Giornata: “persone... divenute lascive e dissolute”; VI, 10, dove si parla del “disfacimento di tutta Italia” per le “morbidezze venute dall’Egitto”), doveva esistere nella sua coscienza anche a proposito della fede: affermata in recto, obliata, messa in dubbio od in burla, in obliquo. G) Altri motivi?
Conclusione. Proprio per la constatazione di una tale povertà di spirito, non è il caso di preoccuparsi molto del contenuto socio-culturale nel Boccaccio. Egli accetta tutti, nobili e borghesi, popolani e stranieri, donne e uomini. detesta solo gli ingenui e dice di aborrire gli ipocriti. Ma non è l’uomo sagace che sa essere teste oggettivo e giudice equanime della società in cui vive: ha una miopia interiore che lo mette alla pari del volgo nel senso peggiore, che sfuoca la prospettiva del bene e del male secondo la misura della propria vita, perchè pensa come vive, anzichè vivere come pensa. Anche per lui, come per tutti coloro che hanno troppa poca coscienza dell’uomo e della sua psicologia, “in principio non c’è la verità, ma l’azione” (Goethe, Faust). Egli, se fosse eretto un tribunale storico per giudicare gli uomini in rapporto alla civiltà, avrebbe molte attenuanti per il pesante macigno che ha gettato sulla cultura cristiana, ma più che colpevole sarebbe “teste a carico” del suo secolo. Se non addirittura “incapace di intendere e di volere”, egli era però uno scarto di umanità, un sottosviluppato: prima a livello di intelligenza che di moralità. Ma egli è cartina di tornasole per la generazione che l’ha allevato, onorato ed ha accettato e diffuso le sue opere, Decameron compreso. Egli conferma l’impressione generale sul secolo decimoquarto in Italia: età di sfaldamento della civiltà cristiana medioevale, età di preparazione alla nuova cultura rinascimentale, età di transizione e di pendolarismo, di mescolanze e di contrasti. Paragonare il Decameron alla Divina Commedia, quasi Commedia umana? Al più si tratterebbe di una parodia della sola cantica infernale, o quasi. Ma, anche in una simile, ristretta prospettiva, il paragone non regge. Per i motivi ispiratori, anzitutto: manca un qualsiasi criterio coerente di giudizio, che dà invece senso e rilievo ad ogni episodio della Commedia dantesca. L’Inferno di Dante è un discorso unico, un poema unito alle altre due cantiche: qui, invece, ogni novella sta a sè, perchè i narratori hanno diversi criteri di giudizio: ognuno ha un suo codice morale per apprezzare o disprezzare gli avvenimenti. Addirittura Dioneo, che monopolizza l’ultima novella di ogni giornata, si è preso il privilegio di uscire dal tema generale e di raccontare novelle slegate da quello, triplicando così il caso di libertà d’argomento, già libero per tutti i racconti della prima e nona Giornata. Boccaccio segue una forma di “realismo” radicale nel Decameron, mentre quello dell’Inferno dantesco è parziale: la narrazione di scene per quanto volgari e violente, deve fare i conti con uno sfondo di moralità e di religione, che rilega ogni fatto alle categorie di peccato e punizione; ed anche dove non si tacciono le virtù (da Farinata, a Brunetto Latini e ad Ulisse), esse sono sempre inquadrate in un giudizio complessivo che le emargina nella secondarietà della valutazione definitiva sulla persona. Il Decameron è, al paragone, un libro acefalo: manca di princìpi fermi, di coerenza razionale, di umanità matura. E’ il povero libro di una povera mente.
I TONI LIRICI
1) La
comicità. E’ il sentimento più diffuso, dalla forma “graziosa” a quella “farsesca”. Esempio del primo tipo è la novella di Cisti fornaio (VI, 2): egli insegna la virtù della discrezione a messer Geri Spina che, già omaggiato di un assaggio di un vino prelibato, gli manda un servo a farsene regalare dell’altro, con un gran fiasco. L’arguto fornaio motteggia garbatamente l’inviato, assicurandolo che il padrone non lo mandava a lui, ma “ad Arno” : ad attingere acqua. E completa l’ammaestramento con la magnanimità del dono di tutta la botticella che conservava il vino squisito, dopo che messer Spina risultò estraneo alla dabbenaggine del suo domestico. Peccato che personaggi di una simile arguzia, comportamenti di una simile gentilezza siano rari nel novelliere, che privilegia, invece, la risata nascente della burla pesante, operata da personaggi plebei. Qui tutto è indovinato: l’oste dall’animo signorile; il signore dalla condiscendenza amichevole; il servo di poca levatura mentale, la battuta garbatamente canzonatoria, il gesto munifico dell’inferiore che regala al più ricco di lui, per pura simpatia e stima. Umorismo breve, ma indimenticabile. Il capolavoro del Decameron è, però, nel genere farsesco. E’ la novella VI, 10: quella di frate Cipolla, il cui nome è tutto un un programma di finta rozzezza e di furbissima malizia; così come i soprannomi del suo famiglio, detto Guccio Imbratta, Guccio Balena, Guccio Porco, ne proclamano la stolida grossolanità. Il racconto si impone per la potenza fantastica con cui il protagonista equivoca a getto continuo sulle parole, trasformando il percorso di alcune vie di Firenze in un immaginario pellegrinaggio verso la Terra santa, anzi per tutto il bacino del Mediterraneo; presentando ai gonzi Certaldesi le usanze più ovvie (come l’insaccare la carne di maiale nell’involucro dei loro intestini) quali novità strabilianti; facendo accettare le esperienze più solite in natura (il volo degli uccelli, lo scorrere dell’acqua al basso e verso il mare) come fenomeni esotici e quasi miracolosi; insolentendo l’ipocrisia di clero e religiosi con frasario apparentemente innocente e, anzi, devoto; elencando reliquie improbabili (come un’ampolletta che racchiuderebbe prigioniero alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone) come dati di provata certezza; e dimostrando infine di esser stato davvero – e con molto frutto- a scuola nei paesi di Truffìa e di Buffìa nonchè in Terra di menzogna, col far credere ai babbei compaesani del Boccaccio, di essere latore della penna dell’arcagnolo Gabriello, lasciata nelal casetta di Nazaret, quando (direbbe Dante) “venne in terra col decreto| della molt’anni lacrimata pace| ch’aperse il Ciel del suo lungo divieto” (Purg. X, 34-6). E quando, beffa nella beffa, dei giovani burloni gli scambiano la penna di pappagallo con dei carboni del camino, egli trova modo di esibirli sui due piedi come reliquie garantite di quelli adoprati per “arrostire” san Lorenzo; e, abusando sfacciatamente della credulità del popolino nel contado, se ne serve per segnarne i vestiti con crocioni in nerofumo: il tutto gli procura abbondante elemosina, il fine da cui era stata innescata la sua immaginazone ed eloquenza (raramente le parole di Beaumarchais e la musica di Rossini “all’idea di quel metallo, un vulcano la mia mente incomincia a diventar” si sono realizzate così puntualmente). Ma forse il punto più comico della novella è la citazione, in rima, delle nove virtù fondamentali del suo fante, Guccio Imbratta ecc.: “Egli è tardo, sugliardo (sudicione, ubriacone) e bugiardo; negligente, disubidiente (sic) e maldicente; trascutato (sic), smemorato e scostumato; senza che, egli ha alcune altre taccherelle (difetti) con queste, che si tacciono per lo migliore (che è meglio tacere)” Si noti, di passaggio: a proposito di questa novella –grassoccia la sua parte per l’attività marginale del famiglio Guccio e irriverente al massimo sulle cose di religione- non si pongono quasi mai[13] problemi di moralità o di fede. Veramente la materia razionale è abbassata a strumento espressivo e viene in qualche modo obliterata dal fascino della carica lirica di cui è al servizio: la risata che ne sprigiona non riesce a soffermarsi nè sulle mire matrimoniali o goderecce del povero servo nè sulla babele ideologico-morale del furbastro frate Cipolla. Se tutto il Decameron fosse all’altezza di questa novella, allora (e solo allora) si potrebbe accettare il Boccaccio come “terza corona” del Trecento italiano, dopo Dante e Petrarca; e non vi sarebbe quasi spazio per obiezioni di carattere religioso od etico. Qui il sentimento scavalca il contenuto; il plus-valore estetico fa obliare le premesse razionali; il codice intellettuale cede al messaggio comico; la lingua generica è superata dalla parola specifica; lo schema ideologico si risolve nell’uso artistico.[14] Già inferiore, ma pure gustosa, è la pur notissima novella dell’elitropia (VIII, 3), la pietra che renderebbe invisibili, come almeno i pittori Bruno e Buffalmacco riescono a far credere a Calandrino. Se ne vanno, poi, tutte e tre lungo il Mugnone a cercarla e, per convincere l’ingenuo collega che ormai lui ha trovato l’elitropia, presente fra le molte –e pesanti- messe nel grembiule ripiegato in su, Bruno e Buffalmacco non trovano mezzo migliore che insultarlo forte e colpirlo con sassate, scagliate (a caso, s’intende: solo per sfogare la rabbia) perchè quello se ne sarebbe andato col suo “tesoro”, senza avvisarli del ritrovamento fortunato! Il fine della novella è indovinabile: tornato sul mezzogiorno e trascurato dai pochi passanti in strada frettolosi, egli si convince sempre più del magico ritrovamento, finchè la moglie cerca bruscamente di svegliarlo dalla sua pazzia. Le cose finirebero ben male (Calandrino è convinto che la malvagità di monna Tessa ha rotto l'’ncantesimo), se non intervenissero i due compari (curiosi di assistere alla scenata prevista e pregustata) a mettere pace! Più famose di quanto meriterebbero ci sembrano invece altre novelle, rimaste comiche solo potenzialmente: il contenuto si presta a destare il riso, ma occorreva un artista più esperto del Boccaccio a trasmetterlo alla narrazione. Chichibìo cuoco (VI, 4) la spunta sul padrone, riuscendo (potenza della prontezza di spirito!) a dimostrare che davvero una sola e non due sono le gambe della gru, che egli serve a tavola, dopo averne regalato una coscia alla ragazza amata. Le altre beffe a Calandrino (VIII, 6; IX, 3 e 5); gli scherzi grandiosi di Cecco di Fortarrigo a Cecco Angiolieri (IX, 4) o di Biondello a Ciacco e viceversa (IX, 8)... sono canovacci per commedie o racconti di grasse risate, ma nel testo del Decameron cè solo l’ordito, le premesse, che strappano a stento un sorriso. La sesta giornata è tutta intessuta di motti arguti, ma alcuni risultano intellettualmente splendidi ed efficaci, ma liricamente aridi. Ciò vale (mi pare) per l’indovinello con cui Guido Cavalcanti (VI, 9) lascia con un palmo di naso la brigata canzonatrice: “Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace”. Essendo stato sorpreso sotto un porticato presso porta S. Giovanni, destinato ad ospitare tombe, la risposta indicava i motteggiatori quasi spiritualmente insignificanti perchè defunti, come i morti nelle arche in mezzo alle quali erano venuti a finire. E’ un modo acerbo ed intelligente per mordere la loro indiscrezione e maleducazione; non atto a destare alcuna emozione, ma solo sconcerto e curiosità a cercare il senso di quelle amletiche parole. E così si dica della pronta e mordace risposta di monna Nonna de’Pulci al vescovo insipiente ed irrispettoso (VI, 3).
2) L’Elegia patetica (tenerezza?) E’ praticamente tutto qui l’inventario artistico del Decameron? Quasi. Si badi a non cercarli in alcuni conati rimasti tali, cioè situazioni potenzialmente liriche, ma di fatto non riuscite ad attualizzarsi: tale, a nostro giudizio, il pur interessante caso di Lisabetta che bagna di lacrime la pianta di basilico, coltivata nel vaso dove ha sepolto la testa dell’amato, uccisole dai fratelli (IV, 5), ma senza riuscire a destare commozione nel lettore. Tale la novella di Federigo degli Alberighi (V, 9) che è implicitamente elegiaca, ma non si traduce in espressione contagiosa per il fruitore. Anche a livello di dramma, nella narrazione del Boccaccio non convincono le trame pur atroci della moglie suicida di Guglielmo di Rossiglione (IV, 9); nè quella di Gismonda che si avvelena perchè il padre Tancredi le ha assassinato l’amante (IV, 1); e neppure la caccia infernale della novella di Nastagio (V, 8). Occasione di idillio dovrebbero essere, nella intenzione dell’autore, le soste, le festicciole, le danze e i canti o, meglio ancora, le descrizioni dei luoghi ameni dove trascorrono le due settimane i dieci protagonisti. Invece, come la descrizione della peste all’inizio della prima Giornata è scritta senza cuore e risulta un arido elenco di incidenti particolari o di condizioni generali che non sfocia in dramma o tragedia, così queste circostanze festive sono retoricamente paludate, ma emotivamente povere.[15] Volendo prendere in esame la novella cara a Benedetto Croce, quella di Andreuccio da Perugia, dovremo constatare che essa offre spunto a molteplici stati d’animo diversi: la gioia dell’accoglienza inattesa, il dolore della congiura scoperta e dei pericoli corsi, la comicità della sua situazione di puzzolente vagabondo per le strade di Napoli e del bagno fatto nel pozzo, il dramma dei rischi nel furto in duomo e della prigionia nell’arca col cadavere del vescovo; la esultanza finale per la liberazione inattesa e la ricchezza acquisita. Ma neppure Croce che, con fin troppa buona volontà, ha ricostruito un processo psicologico di maturazione del giovane mercante perugino, si attenta a parlare di lirismo e di emotività. Son tutte occasioni perse: Boccaccio ha troppi particolari esteriori da raccontare per ricordarsi di comunicarci l’unica cosa necessaria all’arte : le emozioni appunto. Se arte vera ancora, seppur minore, vogliamo trovare, dobbiamo frugare nell’ultima Giornata, anzi nelle ultime due novelle. La penultima, dunque, ci fanno incontrare il marchese Torello di Stra’ (Stradella, nel Pavese) e sua moglie, in un alone di tale idealità magnanima, affettuosa, familiarmente felice, da strappare qualche lacrima deamicisiana, cioè pateticamente commossa. Perchè “pateticamente, deamicisianamente” e non genuinamente, ragionevolmente commossa? Perchè la coscienza del lettore avverte il margine di irrealtà e addirittura di irrazionalità presente in situazioni inverosimili o addirittura immorali. Infatti Torello spontaneamente offre una ospitalità magnifica a forestieri incontrati a caso per strada ed affatto sconosciuti. Questi risulteranno essere, poi, nientemeno che il sultano Salahal-Din in giro di esplorazione politico-militare nell’Europa cristiana, la quale si apprestava a muovergli contro una crociata per riprendergli Gerusalemme. Ed è il secondo particolare che rasenta l’assurdità. Ma anche la libertà concessa da Torello alla moglie di risposarsi entro un anno, un mese e un giorno dopo la sua partenza, se non ricevesse più notizie sue ( e difatti Torello la troverà –sia pure malvolontieri_ che sta andando a nuove nozze) esula dalla prudenza del buon senso e dalla onestà dei legami matrimoniali. Il tutto culmina con l’opera magica degli astrologi del Saladino, che riporta Torello dall’Egitto alla sua casa in una sola notte, mentre dorme. Tutte cose fuori della realtà. Il che non toglie, però, che capiti al lettore quello che succede leggendo Il Cuore di Edmondo De Amicis: vi sono frasi o pagine intere che invitano ad una tenerezza rugiadosa, lacrimevole: patetica, cioè spiritualmente malata, perchè non giustificata razionalmente, irragionbevole, fuori della realtà nelle sue cause. Il che risuccede nella ultima novella, sebbene con minor continuità: i periodi che dimostrano una Griselda devota al marito (il marchese Gualtieri di Saluzzo) fino al punto di lodare la nuova sposa, che egli finge di essersi scelto in cambio di lei (si tratta della loro figliuola ormai adolescente, che il marchese ha fatto credere di aver ucciso con il fratello, cioè l’altro loro figlio, mentre li ha solo mandati lontani da casa) sono ancora una volta strappalacrime. In realtà, a ripenarci, si tratta invece di situazioni eroicomiche; ma tant’è: il cuore (cioè la sfera neurovegetativa) non è in tutto soggetta alla ragione e si allerta anche per fantasie surreali. Vi è, dunque, in queste novelle, un tenue filone lirico: patologico, ma innegabile. “Ed è subito sera”: finisce qui, vogliamo
dire, l’arte del Decameron. Ma perchè allora “tantafera” attorno al libro, sino a definirlo
“dettato dagli dei” pur condannarlo come immorale (Foscolo)? [16]
A noi pare che interessi diversi da quelli artistici inducano alla esaltazione
di un’opera che definire, nel suo insieme, mediocre è gesto eccessivamente
benevolo. Ma si entrerebbe qui in
un ginepraio politico se non teologico. Fermiamoci allora, anzitutto, a quello che
è un dato di fatto: nella critica elogiativa in uso nel secolo
ventesimo, manca un qualsiasi giudizio estetico, cioè di individuazione e
definizione di toni lirici, a parte la comicità
da tutti riconosciuta, ma limitata a non molti casi.. Si riconoscono
atteggiamenti umanamente ammirabili (madama Beritola con i caprioli, cortesie
fra Ghino di Tacco e l’abate di Cluny, Federigo degli Alberighi ed il falcone
sacrificato per la donna amata, la gara di magnanimità fra Torello ed il
sultano d’Egitto...) o intellettualmente sorprendenti (risposte geniali, beffe
sconcertanti, inganni intelligentemente maliziosi...), ma non c’è verso di
incontrare il riferimento preciso ad un brano
concreto, ad una frase quale espressione di uno stato d’animo
affascinante (idillio, elegia), esaltante (epopea) o sconvolgente (dramma) o
commovente (simbiosi di epopea ed elegia). In realtà il chiamare in causa gli
episodi citati fra parentesi è un riferirsi a situazioni potenzialmente
artistiche, non esteticamente realizzate. E Dio sa che vogli abbiamo di chiamare
in causa troppi versaioli (anche nobelizzati) del Millenovecento, che presentano
simili risultati: sentimenti della vita pratica o riflessioni di quella
teoretica che vorrebbero sublimarsi in lirismo puro, ma rimangono a metà
strada, in una espressione elegante (od ermetica) che non comunica emozioni.
Quando critici della sensibilità di un
Foscolo o di un De Sanctis, di un Momigliano o di un Sapegno o di un Croce non riescono a
dare il nome alle emozioni liriche presenti in un’opera, che pure essi tendono
a celebrare quasi un capolavoro (salvo la comicità, limitata ai casi anche da
noi sottolineati), allora questo è un “segno mortale” per il valore
artistico di quell’opera. Pare,
cioè, impossibile a noi che gli spiriti più congeniali con la poesia, con la
quale hanno intrattenuto rapporti per una vita intera, non riescano poi
a dare un nome al timbro specifico che distingue le opere tutte di uno
scrittore od alle melodie diverse che animano i passi più vivi di un’opera. Certo
che quando un mito si è diffuso nell’opinione pubblica (per ragioni politiche
o teologiche, abbiamo insinuato), occorre allora tutto il candore di un bambino
anderseniano per gridare la verità: “Ma il re è nudo!”. Non che Boccaccio
sia privo al tutto di vestiti poetici, ma ne ha indosso così poche che qualche
elzevirista del secolo ventesimo (Montanelli, per fare un nome) meriterebbe gli
si dedichi un numero di pagine, in una Storia della Letteratura italiana,
maggiore di quante se ne sprecano per lui.
E vi è poi un altro argomento contro la grandezza poetica del Decameron, che vuol innalzare Boccaccio nella triade sublime del secolo decimoquarto. L’argomento si riduce ad una domanda realistica: chi, a parte gli addetti ai lavori per professione, ha mai riletto una seconda volta, per intero, il Decameron, alla ricerca di un diletto artistico, come si rileggono la Commedia ed I Sepolcri, I Promessi e molte delle liriche di Leopardi, Carducci e Pascoli ? Siamo onesti, finalmente! Ci sorprende perciò che anche il grande Sapegno, il principe dei critici del Millenovecento, scriva nella Introduzione al volume della Ricciardi (p. XVII) che l’opera del Boccaccio è “il libro più vivo della nostra letteratura”. A noi pare, in coscienza, che si tratti invece di un’opera ben “smorta”: che sarebbe “morta” del tutto perchè, se non ci fosse una manciata di novelle allegramente comiche (a cominciare da quella di Frate Cipolla), il libro o scomparirebbe dalla circolazione o si declasserebbe al livello dei romanzi di un Guido da Verona: di pornografia più o meno elegante, vogliamo dire.
LA TECNICA
STILISTICA Limitandoci ai fattori macroscopici della tecnica espressiva nel Decameron, ne elenchiamo quattro fondamentali: la cornice di inquadramento, il periodare ciceroniano, il realismo ed il surrealismo (o fabulosità o magia o inverosmiglianza psicologica).
1) La cornice di inquadramento consiste nel raccogliere entro un luogo e un tempo precisi la narrazione delle cento storie, ritmandole con una distinzione di giornate, di narratori, di intermezzi che costituiscono quasi una novella a ripresa quotidiana, entro la quale si attua la esposizione delle novelle particolari. Ecoola. Vi è una occasione drammatica alla origine dell’opera: la peste del 1348, che spopolò mezza Europa ed a Firenze fu particolarmente feroce. Tre giovani e sette ragazze, tutti benestanti, si ritrovano un martedì mattino in S. Maria Novella, semideserta, per pratiche religiose. Essi decidono di rifugiarsi in campagna, in una villa poco distante dalla città , con domestici e fantesche che accudiscano alle necessità materiali. Essi vi rimarranno quindici giorni, trascorrendo il tempo in narrazioni piacevoli, salvo il venerdì (per rispetto alla Passione del Signore) ed il sabato (per onorare Maria santissima, cui il giorno è dedicato). Evaderanno così dalla terrificante realtà, nella quiete di un riposo e di divertimenti, che vogliono essere, programmaticamente, onesti. Al centro di tali passatempi sta il racconto-ascolto di una novella che ognuno dei dieci offrirà ciascun giorno, secondo un tema di riferimento fissato da quello, fra la brigata, che verrà proclamato re (regina) alla sera, terminato il ciclo delle dieci novelle quotidiane. Prima eletta regina è Pampinea, che lascia tema libero. E sciolto dall’obbligo della adesione all’argomento stabilito rimane sempre Dioneo, che sarà sempre l’ultimo a narrare: egli è il più disinvolto e scapestrato della compagnia. La seconda Giornata è governata da Filomena ed ha per argomento la “fortuna”, che deve però essere a lieto fine. Con Neìfile, il terzo giorno, si narra “di chi alcuna cosa molto desiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse”. Filostarto fissa per la quarta Giornata il motivo dell’amore finito infelicemente, che Fiammetta, il giorno successivo (quinta Giornata), rovescia nel tema degli amori ostacolati ma usciti a felice compimento. Motti arguti saranno al centro della sesta Giornata, essendo regina Elissa. Dioneo nella settima, introduce nel mondo delle beffe (delle mogli ai mariti), tema che verrà mantenuto da Lauretta nella ottava Giornata, con l’eliminazione dell’ambito particolare (beffe di uomo a donna o ad uomo). E, sebbene Emilia lasci libero il tema della penultima Giornata, la nona, tuttavia essa è dominata ancora da beffe clamorose. La decima Giornata, infine, si aggira sull’argomento segnalato da Pànfilo: azioni magnanime. Il re|regina fissano anche, al siniscalco, il menu per il pranzo e il luogo della villa dove si sarebbe tenuto il convegno il giorno seguente. La sera, a turno, si canta una ballatetta (da cui si può intuire una qualche distinzione psicologica dei dieci personaggi, ma solo in rapporto alla maggiore|minore felicità od esigenze in rapporto all’amore. Si danza e si passa allegramente il tempo. “Lasciva pagina, sed vita casta” (Marziale: lo scritto è lascivo, ma la vita è pulita) potrebbe essere il motto della brigata che, libertina nei racconti, è presentata come correttissima nella condotta. Segno adeguato alla contraddizione di un secolo di oscillazioni ed incertezze, di grandi peccatori e grandi convertiti, di professione socialmente ancora (quasi) generale della fede, come di diffusissima infrazione della morale cristiana. L’accorgimento della “cornice” diverrà paradigmatica a gran parte delle raccolte di novelle successive; e non solo in Italia: nello stesso secolo, Giovanni Sercambi (Novelle) e ser Giovanni Fiorentino (Il Pecorone) la introdussero nelle loro opere; come Geoffrey Chaucer nei “Canterbury tales”; nel secolo XVI, la usarono Agnolo Firenzuola (Ragionamenti) e Giovan Francesco Straparola (Le piacevoli notti). Snobbarono invece l’artificio Franco Sacchetti nel Milletrecento (che pur cita con gran lodi il Boccaccio) e Matteo Maria Bandello nel Millecinquecento. Il Millequattrocento è secolo latino. 2)
Il periodare classicheggiante. Boccaccio approda alla espressione prosastica del Decameron dopo varie esperienze da dilettante di gusto. Nelle sue epistole latine e nelle opere tardive della erudizione senile, egli prende contatto con il cursus medioevale. Le opere in versi lo vedono passare dalla imitazione della produzione popolare nei poeti canterini agli esempi latini di Ovidio e Seneca (tragedie), a quelli del toscano illustre dello Stilnovo (Cino Rinuccini e Dante, specialmente), fino al Petrarca ed alla Commedia. Infine, con le opere di prosa toscana (Filocolo, Fiammetta) approda ad una classicità ad imitazione dei migliori scrittori latini, imitazione che si sposta da un Apuleio (preferito nella giovinezza) agli autori più seri, quali Cicerone (De inventione, Rethorica ad Herennium), Quintiliano (Institutiones), Valerio Massimo (Fatti e detti memorabili) e soprattutto Tito Livio, di cui pare abbia tradotto la terza e quarta decade. L’intenzione ultima fu quella di giungere ad imitare la complessità del periodare ciceroniano e, in genere, latineggiante nella prosa italiana, in modo da elevarla ad una dignità e varietà che la rendesse capace di esprimere dottamente ogni materia o desse veste nobile anche a materie plebee. Ci riuscì? In parte, certamente. Come si è già documentato, nella Elegia di madonna Fiammetta egli ha ormai raggiunto un periodare costruito come un organismo, solido e complicato: talora fino alla pesantezza, talora paragonabile, invece, alla robustezza elegante di una architettura in stile romanico. Una frase reggente è posta al centro di un complesso di subordinate, che in parte precedono ed in parte seguono come il corteggio di un re o di una regina (si veda alla fine del paragrafo “Significato delle opere minori”, p. 11). Il proposito era quello di bilanciare con due grappoli di proposizioni (frasi) dipendenti la frase principale del periodo, così da comunicare a questo un incedere solenne e poderoso, quasi regale. Che, poi, al di là dei buoni intendimenti, tale modo complicato di scrivere risulti spesso pesante e noioso (quando non anche falloso), questa è un’altra questione. E’ chiaro, infatti, che se Boccaccio avesse nei suoi registri emotivi il tono epico, allora il suo periodare solenne, grandioso sarebbe adeguato e pertinente: sarebbe una forma davvero ciceroniana o addirittura carducciana. Ma, ahimè, se il “Giovanni delle tranquillità” era alieno da un timbro lirico, era proprio da quello dell’epopea, il più incompatibile col suo temperamento dolce e concessivo, molle e pacifico. Questo introduce delle conseguenze negative non solo a livello artistico (leggi: noia), ma anche sintattico (leggi: anacoluti). Egli non riesce sempre, cioè, a dominare il periodo e si perde nel dedalo delle (troppe) proposizioni in gioco: il pensiero esigerebbe una espressione, ma lo scrittore vaga disorientato verso un’altra. Siamo alla scoordinazione di periodi scombinati, perchè qualche congiunzione rimane senza verbo o qualche verbo esige tutt’altra congiunzione(anacoluto: inizio di frase senza seguito). Subito in apertura della prima novella troviamo una proposizione soggettiva preparata da un “che” (esigente il modo indicativo nel verbo, quindi), ma condotta avanti col verbo al modo infinito (come in latino). Eccola: “Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sè e fuor di sè esser piene di noia, d’angoscia e di fatica, e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza fallo nè potremmo noi che viviamo mescolati in esse e che siamo parti di esse, durare nè ripararci, se spezial grazia di Dio forza ed avvedimento non ci prestasse”.[17] .Si constata, comunque, con soddisfazione che il Boccaccio scrive in tale stile paludato più che altro nelle introduzioni e conclusioni delle Giornate oppure là dove la ispirazione è stanca o latitante. Là dove l’estro prende la mano allo scrittore, il periodare è molto più vario e spezzato, obbediente al realismo del discorso concreto di botta e risposat o di semplice ma efficace dimostrazione, proprio della vita vera, al di fuori di ogni schema retorico. Il che non impedisce che, quando Boccaccio si trova in un momento felice, comica o patetico, allora anche lo stile ciceroniano –con o senza errori- serva egregiamente ad esprimere concetti sfuggenti (quelli continuamente ambigui nella predica di frate Cipolla ai poveri Certaldesi) o dichiarazioni di amore improbabile, perch’ inverosimile. E’ un divertimento leggere e rileggere i lunghi e tortuosi discorsi del frate imbroglione e la descrizione dell’attività dongiovannesca del famiglio Guccio-eccetera (Imbratta, Balena,Porco) nella decima novella della sesta Giornata E lo stesso si dica delle tenere dichiarazioni d’amore di Gualtieri alla moglie dopo tante persecuzioni inflitte per provarne la bontà d’animo, nella finale della novella X, 10; e, nella finale di X, 9, quando la moglie Adalieta riconosce il marito tornato in incognito dall’Oriente e manda a monte le nuove nozze che, contro la sua volontà, i parenti le avevano imposto dopo un anno, un mese e un giorno dalla partenza di Torello per la crociata. Anche in Boccaccio, cioè, lo stile diventa puro strumento espressivo dell’emotività, cui subserve, quando il sentimento esiste e gli agita il cuore e ne sprizza fuori esilarante o flebile, grandioso o tenue, equilibrato od eccessivo, ragionevole o patetico (cioè razionalmente ingiustificato, un po’ infantile, persino patologico), riuscendo a rivelare gli stati d’animo in qualunque veste, ciceroniana o tacitiana, nella semplicità o nella complessità del periodare. E’ però naturale che. nelle novelle basate sulla efficacia di battute spiritose o di motti arguti o di risposte mordaci, egli trapassi spontaneamente alla concisione dei periodi brevi e densi. Talvolta egli riesce cartesianamente acuto o drammatico, come un illuminista polemico del Millesettecento francese (VI, 9: Guido Cavalcanti); altra volta atticamente arguto con il “sale” degli scrittori solari di Grecia e Roma: Cisti fornaio (VI, 2); Maso del Saggio (VIII, 3: nella prima novella ai danni del povero Calandrino), come altri protagonisti di beffe, parlano con la prontezza prestidigitatoria che incanta, prima di ingannarlo, l’ingenuo e sprovveduto interlocutore ed incanta (senza ingannare!) il lettore provveduto ed intelligente. 3) Realismo e surrealismo nel Decameron. Non se ne può parlare separatamente, perchè di solito si assommano in tale confusione da costituire un ulteriore caso di “dissolvenza incrociata” già a livello di Motivi ispiratori, che poi contamina il lirismo, elidendo in radice ogni possibilità di un suo svilupparsi nella sensibilità del Boccaccio e nel cuore del leggente. Realismo significa aderenza del narrare alle cose come sono o, nelle invenzioni letterarie, alla verosimiglianza più stretta delle vicende come potrebbero accadere nella realtà della vita. Solo marginalmente significa (anche) descrizione delle persone disequilibrate o malvagie, degli avvenimenti volgari e ripugnanti, violenti od impudenti. In questo senso, il Boccaccio rappresenta certo la letteratura volgare che si è soliti attribuire od alla plebe più materialona od alla borghesia meno spirituale. In realtà, però, la plebe di Certaldo è descritta come analfabeta e incolta, ma devotissima e solo i marxisti amano credere che la classe borghese (salvo eccezioni!) fosse materialistica e costituisse la punta di diamante nella lotta per la liberazione dai pregiudizi religiosi e spirituali del Medioevo. E’ vero: che quella del Milletrecento fosse una società in crisi l’abbiamo ripetuto e soprattutto (ci illudiamo, almeno) dimostrato. Ma non è da considerare una crisi “sociologicamente connotata”, cioè come propria di alcune classi sociali piuttosto che di altre. In fin dei conti, Dante denuncia come atei dei nobili fiorentini: i due Cavalcanti, padre e figlio, e Farinata degli Uberti. Nella nobiltà non consta che sia avvenuta una evoluzione diversa, nelle posizioni culturali di fondo, rispetto agli altri, più comuni, mortali d’Italia! Certo, Petrarca è più vicino ad una mentalità raffinata, ad un lirismo etereo, ad uno stile alto, proprio della “tragedia” di cui parla Dante nel suo “De vulgari eloquio”. Ma non era un nobile: era un borghese, nato con tale specifica eredità cromosomica (materna, più che paterna, si direbbe). Boccaccio, come il Petrarca, rappresenta anzitutto se stesso: il suo mondo era basso, (elegiaco, diceva Dante), infernale, grossolano e grassoccio. Non era un’aquila. In un’altro tipo di ambiente poteva educarsi ad essere un mediocre cristiano. Invece, trovò una società dove le aquile “alla Dante Alighieri” (o almeno gli spiriti egregi disposti a seguitarlo) si avviavano a diventare (in tutte le classi sociali!) minoranza, mentre andavano aumentando gli “ominicchi, i ruffiani ed i quacquaracquà” bollati da Leonardo Sciascia (Il giorno della Civetta). In tale senso, la sua società è teste a carico della involuzione cristiana del secolo, in quanto comprò, lesse, divulgò una simile opera. La quale, certo non disdegna le latrine (II, 5: Andreuccio da Perugia) e il sudiciume (il famiglio di frate Cipolla), gli ingenui (da Calandrino ai mariti ingannati dalle consorti nella settima Giornata) e gli squilibrati nel corpo e nello spirito (ser Cepparello, omosessuale e mentitore senza coscienza, nella prima novella, ne è il prototipo). Ma non per questo il Decameron deve essere considerato come una opera “verista o naturalista o realista” avanti lettera. Difatti, a fronte di tale cumulo di malattia, malizia e sporcizia affastellata nel volume, stanno caratteristiche che non solo rendono l’atmosfera più spirituale, ma addirittura la fan passare all’estremo opposto, introducendo sia nelle peripezie che nello stile elementi i meno aderenti al reale (od al verosimile) che si possa immaginare. Cominciamo dalla tecnica stilistica. Il periodare flaccido e sovrabbondevole (lo stile ciceroniamo); il suo aggirarsi per labirinti espressivi che riescono a dire fiaccamente in dieci parole ciò che si potrebbe dire efficacemnete in una sola; le troppe giravolte del suo parlare perifrastico zeppo di relative noiose, assieme alla sbrigativa superficialità nella presentazione somatica e psicologica dei personaggi, tutto ciò aduggia la narrazione e la rende impalpabile, nebbiosa, umbratile. Avviene così che, spesso, il contenuto è realistico, ma la forma letteraria è evanescente; quello è grave e greve, questa lieve e sfuggente; il tema è concreto e quasi tattile, la presentazione è generica e vagante. Caso esemplare di questa nostra critica negativa è la descrizione della peste in apertura della prima Giornata. Il particolare dei due porci che muiono di contagio, dopo aver azzannato gli stracci di un povero defunto, sono l’unico caso singolare che si riesca a ricordare in mezzo alle indicazioni generali ed ovvie (gaviccioli, cioè bubboni, come segno della malattia, morti fulminee, parenti che abbandonano la famiglia per salvare se stessi, amici che pagano l’assistenza con la vita, venalità esosa degli inservienti, funerali di più morti con pochissimo seguito, decadenza di ogni legge divina ed umana...). E la lungaggine delle descrizioni (al rallentatore: periodi soliti di otto, ma anche di tredici righe) non solo toglie ogni vigore di dramma o tenerezza di pietà alla ricostruzione, ma non ci offre neppure qualche concretezza visiva, sicchè alla fine della lettura si riesce bensì a ricordare alcune componenti della tragedia, ma senza un particolare che susciti una partecipazione ed una memoria speciale (salvo i due... poveri porci!). Le otto pagine di resoconto non si rileggono più, se non perchè a ciò addotti da un dovere di studio. Un paragone con la peste di Manzoni in Milano? E’ insensato semplicemente proporlo. La descrizione dello scrittore milanese, oltre ad essere in pratica esauriente su cause, date, luoghi, episodi salienti (dell’esercito lanzichenecco, dell’autorità civile e religiosa, delle pazzie nella popolazione, dotta ed indotta) possiede infatti e trasmette anche una tensione drammatica, per lo spirito critico, polemico, giustizialista di cui egli anima la sua inchiesta sulle colpe di chi permise l’entrare e diffondersi del malanno in Lombardia ed a Milano. I capitoli 31 e 32 dei Promessi (assieme a quelli della monaca di Monza dei capitoli 9 e 10) hanno un po’ del sapore amaro caratteristico di tutto il Gattopardo del Lampedusiano Giuseppe Tomasi: sono una pungente riflessione sulla colpevole ignoranza della povera umanità, così come i capitoli 9 e 10 sono uno studio sofferto sulla abissale malizia della nostra natura (il padre-principe!) Le otto pagine di Boccaccio si leggono distrattamente e si accantonano con disinteresse. Ma non si tratta soltanto di stilemi inibitori di risalto, mancanti di forza, lontani dalla capacità di rendere il senso del realismo e della concretezza nelle descrizioni. Il surrealismo è presente in prima persona, cioè nel contenuto stesso delle novelle. Si consideri l’inverosimiglianza dei “colpi di fortuna” nelle narrazioni della seconda Giornata (“...si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine”) ed in più nelle novelle IV, 3; V, 2 e 3; IX, 6. E infine si vedano i miracoli della negromanzia nelle novelle V, 8 (la apparizione della caccia infernale a sostegno dell’amore di Nastagio degli Onesti); X, 5 (il negromante procura a madonna Dianora il capriccio di un giardino in fiore nel mese di gennaio) e X, 9 (il sultano d’Egitto Yusuf ibn Ayyub Salahal-Din, conosciuto da noi come il Saladino, fa trasferire messer Torello da Alessandria d’Egitto a Stradella di Pavia per incantesimo e magia). Boccaccio ha forse voluto suonare il piano in tutte le sue scale, dal profondo della volgarità al sommo della gentilezza: “Ma non eran da ciò le proprie penne” (Paradiso, 33, 139)...
LA FORTUNA
DEL DECAMERON La distinzione delle componenti di una questione complessa facilita la comprensione del problema e la sua soluzione. Sarà meglio allora esaminare separatamente la “fortuna” del contenuto da quella dello “stile”, anche se punti di contatto rimarranno pur sempre, chè i due fattori sono bensì diversi, ma non poi separati nell’opera concreta.Circa il contenuto, riprenderemo la questione della moralità del Decameron, nel giudizio dei posteri (cfr. “Motivi ispiratori- L’amore”, specie la nota 9, a p. 14). La materia o contenuto del Decameron è solo in parte sua invenzione: parte sono casi storici più o meno ingigantiti o abbelliti “giornalisticamente”; parte sono novelle già circolanti oralmente, eredità di generazioni. Non solo il Novellino, ma i molti “fabliaux” medioevali sono raccolte di novelle che esprimono ora lietezza spirituale per l’acutezza di risposte o le ingegnose soluzioni a problemi complicati; ora appagamento alla curiosità umana del clamoroso ed inatteso (fortuna o miracolo, magia o esempi di virtù|malvagità eccezionali); ora la condiscendenza all’istinto erotico, mai del tutto emarginato, nè in tempi di spiritualità medioevale nè in tempi (successivi) di censura ecclesiastica o statale la più severa. Certo è, però, che resta difficile ritrovare fonti immediate scritte per le singole novelle: quella dei tre anelli (I, 3), già presente nel Novellino, è un caso notevole perchè, appunto, raro. Ad ogni modo una collezione così vasta (cento novelle), varia (fortuna e magia, amori felici o tragici, beffe e sventure, arguzia e intelligenza, vizi e virtù...) e ordinata (la cornice della peste e dell’appartarsi pei dieci giovani) non si era mai vista nella storia dell’Occidente, sicchè destò ammirazione e imitazione (oltre le critiche morali, che vedremo). Subito dopo di lui e avendolo ben presente, sorgono il Sacchetti, il Sercambi, ser Giovanni Fiorentino ed il Chaucer: segni sicuri di un successo indiscutibile, anche se il Sacchetti non adotta la cornice. Si è già detto anche delle imitazioni del Millecinquecento, dalle Piacevol notti di G. Fr. Straparola ad Agnolo Firenzuola (Ragionamenti d’amore ); e della eccezione del Bandello. Arrivando alla vigilia dell’anno Duemila, è interessante notare come Giuseppe Bonura abbia impostato l’analisi critica di 162 romanzi, usciti in Italia dal 1970 al 1995, su una cornice echeggiante un po’ quella del Boccaccio (la neve imprigiona su un promontorio tre giovani coppie di vacanzieri, che passano il tempo sottoponendo ad esame critico libri presenti negli scaffali della casa, già da loro letti: Il Gioco del romanzo, Firenze, Giunti, 1998). E si dovrebbe ricordare anche la traduzione in opere cinematografiche. Parlando della “cornice di inquadramento”,
stiamo passando dal contenuto allo stile. Ma, prima, ci interessa un’altra
faccia
della “fortuna” dell’opera: il
giudizio morale che ne ha dato la società italiana ed europea lungo i secoli. Dapprima esso è, negli scritti rimasti, decisamente negativo. Con
questo non si vuol dire che il Decameron non fosse apprezzato ed amato: il
successo di lettori che ebbe al suo apparire; lo stesso coro di proteste che
indussero l’autore a difendersi all’inizio della quarta Giornata (segno che
egli faceva trascrivere e pubblicare le novelle, man mano che finiva una
Giornata) sono indizio sicuro della diffusione. Le imitazioni fino in
Inghilterra ne fanno intuire la vastità. Eppure il sottotitolo del libro
(presente in tutti i manoscritti) è questo: “cognominato prencipe
Galeotto”(cioè mezzano e consigliere d’amore illecito: cfr. Inferno, 5,
137: Galehault è l’intermediario tra Lanciallotto e Ginevra). Ammesso anche
che tale sottotitolazione non sia del Boccaccio, però esprime un giudizio
storico della coscienza italiana fino
al Positivismo: da Matteo Palmieri a
Giuseppe Parini, da Ugo Foscolo a Francesco De
Sanctis; e oltre. Del Palmieri è questo giudizio: “Terzo (dopo
Dante e Petrarca) è il Boccaccio, assai di lunge dai primi (maestri di
scrittura volgare toscana): pel numero delle opere da lui composte, meritamente
lodato. Volesse Iddio che i suoi libri vulgari non fussino ripieni di tanta
lascivia e dissoluti essempli d’amore, che certo credo che, avendo scritto
cose morali e precetti di ben vivere, non meriterebbe di essere chiamato
Boccaccio, ma Cristoforo. E oltra questo, grandemente gioverebbono i suoi libri
vulgari a’ nostri costumi, dove in questo modo credo abbino nociuto e noccino
a molti” (Proemio-dedica dell’opera “La
vita civile” ad Alessandro Alessandri). Del Parini sono
violenti i versi sul fetido fango che caratterizza il Decameron (“il fedo loto
ancora| ond’è macchiato il Certaldese” : Il
Giorno, Mattino, 617-8). Del
Foscolo, ricordiamo il lamento ne Le
Grazie, II, 440-5: “Or vive il libro| dettato dagli dei; ma sfortunata| la
damigella che mai tocchi il libro!| Tosto smarrito del natio pudore avrà la
rosa;| nè il rossore ad arte può innamorar| chi sol le Grazie ha in core”.
E, nei versi precedenti, si parla di “Dioneo, re del drappello” che “le
Grazie afflisse”. Come a Parini
si affiancò l’onesto prete Lorenzo Mascheroni (canzona i predicatori
che studiano la lingua italiana sul Boccaccio, che “ha molta feccia in pure
frasi accolta”), così al Foscolo succede il De Sanctis, che nella sua Storia
della Letteratura italiana condanna l’immoralità dell’opera boccaccesca
senza esitazioni. Le citazioni sono da ricavarsi dal capitolo nono: qui ne
riferiamo qualche espressione esemplare. “(Il Decameron) è il vero principe
Galeotto, titolo italiano del novelliere, velato pudicamente da un titolo
greco”. “...i racconti sono veri mezzani di amore e di piacere”. Il
Boccaccio è detto “scapolo e nemico dell’amore regolato”. “A Beatrice e
Laura succede Griselda ; all’amore platonico, l’amore sensuale; al volo
dell’anima verso la sua patria, il cielo, succede il tripudio del corpo. La
reazione è compiuta. A Dante succede Boccaccio.” “Il mondo sensuale e
licenzioso della furberia e della ignoranza, entro cui si muove, senza
mescolarvisi, un mondo colto e civile, il mondo della cortesia, riflesso di
tempi cavallereschi, vestito un po’ alla borghese...” produce
“un’impressione unica e armonica di un mondo spensierato, tutto al di fuori
nel godimento della vita, menati in qua e in là da’ capricci della
fortuna”. “Che cosa è questo mondo? E’ il mondo cinico e malizioso della
carne, rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura
buffonesca”. Ed a lui fa eco ancora nel
secolo ventesimo il discepolo Eugenio Donadoni, nella Breve
storia della Letteratura italiana, Milano, C. Signorelli, 1960, pp. 84-5.
Drastico è il convertito Giovanni Papini: “Il volgo fa gran caso di
una sua (del Boccaccio) raccolta di novelle, detta Decamerone, dove una prosa
pesante e latineggiante è usata a raccontare monotone novelle d’inganni e di
lussurie” (Dizionario dell’omo
selvatico”). E’ il positivismo che assolve lo scrittore
per la prima volta. Carducci se ne fa portavoce ne “Ai parentali di Giovanni Boccaccio”
(1875, in Prose di G. C.- Bologna,
Zanichelli, 1954, pp. 773-793). L’idealismo ha una sua strana
giustificazione. Esistono, per
Benedetto Croce, due piani distinti sia di conoscenza che di prassi: come a
livello conoscitivo si differenzia un fantasticare (che può assurgere ad
espressione artistica) ed un pensare (che ha valore di filosofia), così a
livello di prassi esiste un agire
“utilitario, economico, egoistico, particolare” ed un operare
“disinteressato, morale, altruisitico, universale”.
Le quattro attività sono tutte umanissime e si differenziano solo per il
livello di perfezione: non esiste il peccato, ma solo un bene ed un
meglio. Il male consiste solo nel pretendere di agire (a livello
razionale, cioè intellettuale; volitivo, cioè pratico) ad un livello
superiore, quando in realtà si opera a quello inferiore. Pecca il poeta che
pretende alla filosofia; pecca l’uomo economico che pretende di agire nella
sfera della moralità! Come
giustifica Croce simili ragionamenti (se tali possono chiamarsi)?. Egli parte da
questo assioma: la poesia non è tenuta alla verità, tantosi può fare arte
sublime prescindendo totalmente dalla adesione alla realtà (mitologia classica;
fantasie cavalleresche; novelle; invenzioni
in quel poema moderno che è il romanzo). Eppure l’arte non è peccato,
anzi è un’operazione degnissima dell’uomo: anche se è inferiore alla
filosofia, cioè all’uso della sfera conoscitiva su piano universale, cioè
valido per tutti perchè fedelmente
aderente alla realtà. L’arte è un conoscere particolare, per intuizione,
senza ragionamento (?), senza finalità istruttive od educative. Da questa presunta verità, egli deduce il corollario a livello
pragmatico: deve esistere un livello di azione, in cui l’uomo è attivo
secondo l’utile particolare, prescinde da finalità universali, segue il
richiamo dell’interesse, del divertimento, del piacere, della sete di potere.
Perchè dovrebbe essere peccato? Certo è meglio, perchè espressione di un
livello più alto di sentire e volere, l’azione morale, disinteressata, di
valore universale. Ma è da rispettare anche la prima, che fonda il progresso
tecnico-economico. Che cosa rispondere? Anzitutto che non esiste conoscenza umana che non sia universale, cioè
non esiste conoscenza fantastica
che non sia anche razionale: la distinzione tra un livello di conoscenza
particolare o fantastica o poetico-artistica (auroralmente umana, non logica!)
ed una conoscenza universale-filosofica se l’è sognata l’idealismo e
Croce l’ ha ingegnosamente ricondotta da una solenne, hegeliana sfera
metafisica ad un livello di attività puramente psicologica, ma sempre erronea.
L’uomo pensa anche quando fantastica: gli animali non fantasticano; la
mancanza di rapporto col reale va inteso “col reale già conosciuto”, chè il
fantasticare può essere semplicemente anticipazione di conoscenze future o
addirittura invenzione della realtà non ancor esistente. Si pensi al
fantasticare di generazioni di
uomini intorno alla possibilità di volo, da chi inventò il mito di Icaro a
Leonardo da Vinci. In secondo luogo,
anche il fantasticare o pensare è attività umana, soggetta alla legge morale. Un
altro errore di fondo, infatti, è di aver stabilito la categoria teoretica come
del tutto apratica. La categoria teoretica ricade nella prassi dell’uomo: è
una delle sue attività specifiche; se mai è categoria speciale, lo è perchè, di diritto, essa
è la prima delle attività umane (“nihil volitum quin praecognitum”: nulla
può essere voluto, se non è prima conosciuto) Che non si riesca a percepirla
all’esterno; che sia intima e segreta, non toglie che sia attività
anch’essa e, per ciò stesso, soggetta alle leggi morali. Tanto che tutti
sentono anche il fantasticare come
attività responsabile: il fantasticare una vendetta od una fornicazione è
colpa come lo stesso peccato attuato; il progettare un medicinale in guarigione
di una malattia è opera meritoria, persino se il fantasticarci attorno non
concludesse a nessun risultato utile. Come ogni attività dell’uomo,
dunque, anche il pensare-fantasticare è
soggetto alla legge generale di moralità, che è l’obbligazione di agire
(pensare, dunque) in piena conformità alla natura umana. Vogliamo
riassumere la legge morale nei confronti del nostro fantasticare-pensare? Essa proibisce, anzitutto, di negare la verità conosciuta dentro
se stessi. In secondo luogo, stabilisce
il dovere di manifestare la verità a tutte le persone che hanno il diritto di
conoscerla. L’ottavo comandamento difatti si limita a proibire la falsa
testimonianze in tribunale: per estensione, resta immorale dire falsità
a “chiunque abbia diritto di conoscere da noi la verità” (genitori,
maestri, confessori e superiori, nei limiti della loro autorità-responsabilità...).
Ma a nessuno viene in mente che si tratti di inganno, se si mente ad un
indiscreto che pretenda conoscere il nostro conto in banca; o se si cerca di
depistare l’avversario nel gioco di carte o in
altro passatempo (anche a
denaro); o se, il primo giorno di aprile,
si cerca di far credere una bufala, per
scherzo, ad un amico. E,
ovviamente, nessuno si sente ingannato perchè la poesia o il romanzo non è
conforme alla realtà, ma la inventa fantasticando.
In parallelo, nel campo di ogni altra forma di
prassi, non esiste alcun sdoppiamento di attività, l’una liberamente
assoggettantesi alle regole
morali; l’altra, arbitrariamente liberantesi da esse (sfera dell’utile od
economico distinta, a libera scelta, dalla sfera dell’onesto o del giusto). Non esiste una categoria di
azioni fuori della, ma non contro la, morale. A parte che questo imparaticcio
acritico da Emanuele Kant non si prende la briga di definire che cosa sia morale
ed affastella tre o quattro descrizioni
(atto che ha valore universale piuttosto che particolare| atto che possa servire
da modello all’agire di ogni uomo| atto che sia del tutto disinteressato| atto
che sia altruista e non implichi alcun guadagno od utilità per sè???), senza
accorgersi che mescola l’atto puramento morale (onesto: obbligatorio) con
l’atto straordinariamente morale (eroico:solitamente non obbligatorio):
l’uomo che lavora per guadagnarsi il pane è uomo onesto da ammirare, anche se
è più meritorio, di grado eroico, il lavoro del religioso che ha fatto il voto
di povertà e vive, quindi, senza intenzione di guadagno. Ma, a parte queste
complicazioni, resta il fatto che ogni operazione ha il dovere di essere conforme
alla natura umana nella sua pienezza. Così l’ubriacone non è
semplicemente un uomo che vive nella sola sfera particolare-utilitaria-economica-egoistica
(fuori della moralità per sua libera scelta), ma è persona che vive contro la
morale, perchè la natura umana integrale esige l’uso di cibi-bevande
per dissetarsi, nutrirsi, mobilitare al massimo le forze nervose, mentre il
troppo vino, debilitando il cervello, toglie addirittura (sia pure
temporaneamente) la coscienza umana, opponendosi alla natura che tale coscienza
esige, come premessa di fondo ad operare moralmente anche nelle azioni
successive al bere. Così si dica
del donnaiolo, che va contro la legge dell’accettazione del processo sessuale
nella sua integrità naturale primaria (affetto-piacere-generazione) e contro
l’esigenza naturale, secondaria ma pure fondamentale, di
veder presenti, accanto ai figli, entrambi i genitori come allevatori ed
educatori. Croce dovette disdirsi, quando Benito Mussolini gli mostrò in
pratica che cosa significasse in concreto “tenersi arbitrariamente fuori della
legge morale” instaurando un govenro di capricci personali, di tirannia ed
oppressione. Croce lo condannò, ma contraddicendosi: in fin dei conti il Duce
non faceva che attuare la dottrina di Croce, ove non esiste nessun illecito, ma
solo un livello inferiore (e non obbligatorio) di umanità. Allegro,
spensierato, godereccio,
prepotente, resta non condannabile nè discutibile: sarebbe un trattenersi nella
sfera dell’utile, senza che nessuno possa
esigere che si entri nella sfera
della moralità! Sembra di leggere alcune testimonianze di Fogazzaro sulla vita
degli studenti universitari a Torino, che distinguevano le due file di porticati
sui lati opposti di via Po, col nome della “sapienza” e della “follia”.
Chi passaggiava sotto i portici della follia si autorizzava a condurre vita poco
esemplare; e viceversa (Piero Nardi, Antonio Fogazzaro-Milano, Mondadori, 1943,
p. 51). Ma queste erano chiassate goliardiche: Croce ha preso sul serio la cosa;
anzi vi ha dato una giustificazione...metafisica! Le pagine ove il Croce espone queste teorie
sono naturalmente nel volume della filosofia dello Spirito “Filosofia
della pratica”. In più si vedano Pagine
sparse, III, 341 (cita sentenze assolutorie di Mario
Casella e dice: “la novella si risolve non in un dilettamento sensuale” ma
“in un’esaltazione della intelligenza che è fatta per il bene
dell’essere: un bene che risponde a un fine universale”); e in Poesia
popolare e poesia d’arte. Bari, Laterza, 1957, pp. 82-107 (“Giovanni
Boccaccio e Franco Sacchetti”). Sul paragone fra il Sacchetti ed il Boccaccio abbiamo
promesso di trattenerci, preannunciandolo quando si scriveva sul primo. Dopo la
chiaccherata testè fatta sul pensiero crociano a proposito di moralità e no,
sarà più facile comprendere il ragionamento
del Croce ed il suo errore. Intanto va costatato che
le riflessioni crociane sono alquanto approssimative. Boccaccio sarebbe
l’uomo della sola “economicità-utilità-egoismo-particolarità- piacere”
e, perciò, è da giudicarsi uomo incompleto (non “immorale”, ma non giunto
alla dimensione morale: fuori, non contro la moralità); il Sacchetti, invece,
sarebbe uomo più completo perchè, se nelle novelle non manca qualche nota di
libertà maliziosa, però negli altri scritti egli insegna la virtù
(le “Sposizioni dei Vangeli”, ad esempio) e, nel concreto della vita
esteriore, si dedica ad opere
sinceramente religiose. Intanto il Croce non ricorda che anche il Boccaccio a
suo modo elogia (decima giornata) la virtù (anche eroica: a suo modo); in
secondo luogo, che anche il Boccaccio, nella ultima parte della vita, si dedicò,
con quella sincerità che gli consentiva la sua povera
struttura umana, a vita religiosa, fino al punto di essere disposto a
dare alle fiamme il suo Decameron. Ma,
a parte questi pressappochismi crociani, va ricordato che la moralità (secondo
il buon senso, la tradizione occidentale ed il cristianesimo) non è quella
“della bilancia maomettana”, ma quella delle singole azioni: l’uomo non
“pesa” nella giustizia per somma e sottrazione di bene e male fatto nella
vita, ma per il valore di ogni singola operazione, ove “il bene c’è solo se
tutte le componenti sono buone; il male è presente quando anche una sola delle
dimensioni dell’atto (ad esempio, la intenzione) fosse cattiva”
(“bonum ex integra causa; malum, ex quocumque defectu”). Fuori di
immagine: Boccaccio ha da rispondere moralmente per ogni sua impresa, come il
Sacchetti, come qualunque persona mentalmente
sana e giunta all’età della ragione. Il discepolo del Croce, Francesco Flora,
ripiega su una giustificazione più semplice e comprensibile, ma riducendo la
moralità all’azione esterna. Distingue infatti tra “lasciva pagina” e
“vita proba” , come faceva Marco
Valerio Marziale, non sapendo come altrimenti difendersi dalle critiche ai suoi
troppo sbrigliati epigrammi. Marziale, però, non conosceva il Discorso della
Montagna, ove Cristo afferma con forza l’equivalenza del peccato di desiderio
con quello dell’azione esteriorizzata (Mt. 5, 27-8; cfr. d’altronde Esodo,
20, 17). Ma chi pretende di convincere Flora, “scoprendo” che i 10 giovani
narrano bensì novelle oscene, ma conducono una vita intemerata? (Storia della
Letteratura italiana, Milano, Mondadori, I, 314; e 332-6). Il male è anche (ed
anzitutto) nel “cuore”, cioè nei deisderi illeciti acconsentiti, che qui
sono sostenuti e celebrati in una difesa insistita
(inizio della Prima giornata; premessa alla quarta Giornata, in cui si tenta di
confondere l’amore angelicato del Dolcestilnovo con la sensualità del
Decameron; conclusione dell’opera). Molto più coerenti e trasparenti sono i
critici marxisti. Essi riconoscono spudoratamente la legittimità del piacere erotico
anche al di fuori del ciclo di integrità, esigito dalla natura, complessa,
dell’istinto. Perciò non hanno difficoltà a dichiarare “oscene” le
novelle del Boccaccio, visto che la oscenità non è immorale, perchè il
piacere erotico è sempre libero, dentro e fuori del matrimonio (così ci sembra
di leggere in Carlo Muscetta, G. B., ne Il
Trecento, Milano, Garzanti, 1976, pp. 251-403). Rimarrebbe da vedere se
l’oscenità è poi compatibile con l’arte, cosa da noi esclusa non senza
motivazioni in Musica in parole,
citato più volte. Suggestiva può sembrare, al primo udirla, l’ipotesi di una intenzione addirittura “edificante” , che sarebbe presente nella costruzione dell’opera: il Decameron sarebbe stato intenzionalmente impostato sul passaggio dalla malizia più balorda nella prima Giornata, alla costatazione dello strapotere disorientante della Fortuna nella seconda..., alla esaltazione della intelligenza ed abilità umana, che dapprima ottiene il dominio sulla sorte caotica degli avvenimenti, attraverso conquiste amorose, acquisti di fortune, liberazione da pericoli o danni, contraccambio di beffe e ingiustizie..., per culminare nell’ultima giornata con il trionfo della virtù morale sulle stesse passioni interiori dell’uomo. Rimangono però due obiezioni fondamentali. Anzitutto una intenzione del genere non è mai espressa dal Boccaccio; al contrario, nella già citata introduzione alla quarta giornata, egli difende la sua concezione edonistica dell’amore; e ribadisce la difesa nella Conclusione dell’opera. Ancora: la ricostruzione secondo lo schema proposto (“dal male al bene”) è inesistente nell’opera, che nella quarta giornata narra ancora amori infelici; nella quinta, vede trionfare l’amore ma, solitamente, per puro caso e, ad ogni modo, senza che l’amore sia necessariamente onesto; nelle beffe della settima Giornata riporta di nuovo a mogli che tradiscono i mariti; e talora fa intervenire la magia o la fantasticheria più inverosimile a sostituire la furbizia della ragione o la virtù del volere. Ma vi è una seconda obiezione. Ammesso anche l’intenzione cosciente di un simile “climax” (scala ascendente), rimane la immoralità del principio: “il fine giustifica i mezzi”. Ritorniamo a quanto obiettato testè al Croce: non si cancella il male fatto, con la descrizione dello erotismo o la esaltazione della prepotenza vittoriosa, mediante il (presunto) trionfo finale della virtù. Neanche se così stessero veramente le cose (come pare più probabile fosse l’intenzione del film “La dolce vita” di Federico Fellini: 1960), la difesa starebbe in piedi: la descrizione del male (e tanto più la sua difesa) conduce al male, contro ogni intenzione consapevole od inconscia. Come si è già detto: “Bonum ex integra causa; malum, ex quocumque defectu” (vi è il bene, quando tutte le componenti sono buone; se anche una sola è malvagia, allora l’azione è cattiva). Son questioni che “Il principe” di Niccolò Machiavelli ci costringerà a riprendere in esame. E veniamo alla “fortuna” nello stile. Della fortuna o meno della “cornice d’inquadramento” si è già parlato. Soffermiamoci allora sulla forma linguistica e sintattica dello stile decameroniano. Nel complesso essa è inferiore a quella di compositori e traduttori contemporanei all’opera o poco più tardivi. Di gran lunga più moderno e chiaro, attraente o almeno accettabile è il dettato di Bartolomeo da San Concordio, di Passavanti, di Caterina da Siena e di ser Giovanni Fiorentino. E’ invece certo che, paragonate a quello di un Franco Sacchetti o di un Giovanni Sercambi, la lingua e la sintassi del Boccaccio diventano ammirevoli. E per tutto il tempo che la prosa del Boccaccio dominerà sul mercato letterario italiano, essa sarà una benedizione ed una zavorra. Colpo d’ala sarà nella misura in cui lo stile classicheggiante stimolerà un impegno di eleganza, una ricerca di dignità che vorrà evitare l’improvvisazione, la faciloneria, il semplicismo. Maledizione, invece, sarà nella misura in cui la mania retorico-ciceroniana distaccherà il modo di scrivere (eletto, aulico, raffinato) dal modo di parlare (concreto, vivo, estroso: e non necessariamente banale nè sciatto). Bembo, all’aprirsi del Millecinquecento, additerà il Decameron come modello di “classicismo volgare”, cioè di scrittura illustre, non indegna del latino, nell’ormai impostosi parlare toscano. E non basterà l’imprevedibilità ingovernabile ma fascinosa di Benvenuto Cellini (noto a pochi, d’altronde, fino alla pubblicazione nel secolo XVIII) a correggere secondo buon senso tale direttiva. Non basterà Galileo Galilei a richiamare ad una classicità più equilibrata, sia nei contenuti chiari e distinti sia nella espressione limpida e pacata. Occorrerà aspettare (e siamo in pieno Millesettecento) Giuseppe Baretti con la sua “Frusta” e con le “Lettere ai familiari”; occorrerà attendere l’Alfieri con la prosa vivacissima della propria Vita; anzi non ci vorrà meno dell’esempio e degli studi del Manzoni per far piazza pulita di una tirannia che pretendeva di rendere solenni le più sciape futilità coll’ampollosità di un periodare complesso; che preferiva ricalcare modelli passati di espressione, piuttosto che farsi suggerire la parola direttamente dai concetti. Eppure, di nuovo, abbandonato ogni modello e regola e facendo riferimento al solo uso, ecco ripresentarsi il difetto opposto: la Scapigliatura ed il Futrismo, dalla seconda metà del Milleottocento alla prima guerra mondiale, predicano il liberoparolismo, snobbano la sintassi e la logica, creano vocaboli legati alla impressione musicale del movimento meccanico, predicano un ritorno al disordine della para-ipotassi, cioè alla fusione fra discorso diretto e riferimento indiretto narrativo... Spontaneità ad ogni costo; nessuna regola come unica regola. Tramontati come movimenti, restano in alcuni scrittori, rafforzati da esempi stranieri. L’Ulisse di James Joyce genererà l’Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo (1975), mentre Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Berto sono esempi di antiboccaccismo ora geniale ora deludente (e, sempre, un poco demente). E’ un corso e ricorso altalenante dall’ordine burocratico nella sintassi al caos, dalla complessità scolastica, che vuol chiarificare sofisticamente fino i minimi dettagli, alla misteriosità ermetica, dalla analiticità della scienza al volo pindarico della poesia, dal processo ragionativo quasi sillogistico alle intuizioni folgoranti quasi paranoiche. In medio stat virtus; anzi, in summo ingenio stat po”esis: la poesia, anche in prosa, sta nella genialità dello scrittore: non ci sono regole che creino un artista o che lo soffochino. Eleno Vergili. 24. 10. 1999.
[1] E’ imitazione del Roman de Troie, di Benoit de Sainte-Maure, conosciuto dal Boccaccio in traduzione. Nell’autore francese, Criseida è detta Briseida. [2] Opere minime sono la Elegia di Costanza (versi latini di gioventù); e Allegoria mitologica (parafrasi in prosa latina delle Metamorfosi di Ovidio). [3] “Capolavoro” rispetto alle altre opere del Boccaccio: in senso assoluto, l’unico capolovoro del libro ci sembra la novella di Frate Cipolla (VI, 10). [4] Seguiamo la lettura di G. d’Annunzio, ne la Prefazione a la Vita di Cola di Rienzo- Ediz. Il Vittoriale, 1939. Questa descrizione “verbale” non si addice molto con quelli pittorici, cioè con le figure che sono indicate tradizionalmente come suoi ritratti ( fatti da Andrea Bonaiuti in S. Maria Novella, cappella degli Spagnoli, nel sec. XIV; e da Andrea del Castagno nella chiesa di S. Apollonia in Firenze, sec. XV). In tali dipinti appare discretamente asciutto, se non propriamente magro. Il mondo della sua fantasia e il complesso del suo stile fa preferire la delineazione del Villani. Può darsi che i dipinti lo abbiano ritratto visto (o ricordato ai pittori da qualcuno) quando era ormai vecchio, malato. Altrimenti la individualità sarebbe quella del tipo nervoso vagoprevalente, non lontano dal tipo “amorfo”. [5] La povertà psicologica del Boccaccio, quale risulta dal suo temperamento, può rendere spiegabile (non scusabile) la parte così notevole che la sensualità ebbe nella sua vita. Egli si riconosce libertino in una lettera giovanile, definendosi “Spurcissimus Dionaeus”, cioè lurido figlio di Dione, la madre di Venere. E Dioneo, nel Decamerone, è il narratore più disinibito ed impudente: proiezione autobiografica dell’autore nella sua opera? [6] Natalino Sapegno, ad esempio, in Vallardiana, IL Trecento, p. 392. Implicite ammissioni di insufficienze razionali nel Boccaccio sono nello stesso Sapegno ed in Francesco Flora. [7] Come si è già detto, la Rethorica ad Herennium non è di Cicerone, ma di autore ignoto; Le “Istituzioni “ sono i 12 libri di Institutiones oratoriae, scritte da Marco Fabio Quintiliano nell’ultimo anno di vita (morì nel 95 d. C., a 60 anni): sono il più completo trattato di retorica (arte di scrivere letterariamente, in prosa) lasciatoci dalla antichità. [8] La insensata novella ebbe successo immeritato: Petrarca la tradusse in latino; Chacer la rimaneggiò per i suoi Canterbury tales; Goldoni la ridusse a tragicommedia... [9] Che il Decameron sia opera impudica e diseducativa, lo sa bene il Boccaccio stesso già mentre lo scrive (e ne soffrirà, come vedremo, una volta convertito). Egli infatti nella apertura alla prima Giornata non osa svelare in nome delle sette ragazze che partecipano al racconto delle novelle con questa motivavazione: “Io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per le ascoltate, nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere, che allora, per le cagioni di sopra mostrate (l’imperversare della peste e la pazzia godereccia che ne seguì per molti) erano, non che alla loro età ma a troppo più matura, larghissime”. Il problema, anche per le critiche giunte da più parti, viene ripreso nell’apertura della quarta Giornata ed ancora nella Conclusione dell’opera. Quarantacinque ci sono sembrate le novelle che hanno al centro un amore esorbitante dalla moralità tradizionale e cristiana. Le elenchiamo qui, ricordando che molte altre hanno momenti di erotismo sbrigliato, anche se esso non costituisce il motivo principale della novella: I, 4; II, 2, 3, 7, 10; III, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 10; IV, 1, 2, 3, 9, 10; V, 4, 7, 10; VI, 3, 7; VII, tutte; VIII, 1, 2, 4, 7, 8, 10; IX, 2, 3, 5, 6, 10. E nella novella di “frate Cipolla” (VI, 10) il Boccaccio rivela la coscienza che l’erotismo gratuito è cosa non solo contraria alla onestà individuale, ma rovinosa per la società intera: “E’ certo che egl (frate Cipolla) il poteva in quei tempi (precedenti di qualche generazione quelli del Boccaccio) leggermente far credere (ai Certaldesi: che una penna di pappagallo fosse una piuma caduta dall’ala dell’arcagnolo Gabriello), per ciò che ancora non erano le morbidezze d’Egitto se non in piccola quantità trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate”. Nè
si creda che l’attitudine libertina del Boccaccio di fronte all’istinto
sessuale sia l’unica difformità dalla morale cristiana e del buon senso:
furti, vendette, prepotenze sono accolti giovialescamente, cioè con sorriso
compiaciuto: il vincitore tende sempre ad avere ragione. E vi sono vari
suicidi scusati od onorati. Lo stesso scrittore, avviato ai pensieri “che
il memore, ultimo dì non muta” fu il primo a sospettare, prima, a
riconoscere, poi, l’enormità dell’aberrazione etica del suo lavoro. Ne
scrisse al Petrarca, che lo dissuase, senza averlo letto attentamente, di
distruggere l’opera (Senili, XVII, 3). Ma lo stesso Boccaccio, scrivendo a
Mainardo Cavalcanti nel 1373, scoraggia
almeno le donne dal leggere le sue novelle, che definisce “indecenti e
disoneste”; ed esprime il timore che “la sua fama ed il suo nome
potrebbero essere insozzati. ” Habemus confitentem reum, etsi
poenitentia affectum” (abbiamo il reo confesso, anche se pentito). [10] Riassumiamola in nota, perchè se ne è interessato Croce, dandole un viraggio interessante: la novella avrebbe per tema (inconscio?) la maturazione psicologica del protagonista, che da ingenuo ingannato si trova ad essere astuto ingannatore. Ma l’interpretazione crociana non è quella del Boccaccio, che vede le peripezie della novellan come un puro gioco della fortuna, da cui Andreuccio viene salvato ed arricchito, chè da sè fa ben poco. Ma vediamo la trama. Andreuccio, mercante di cavallli, capita a Napoli colla semplicità del principiante e si fa ingannare e derubare e gettare in una latrina da donne di mal affare e loro complici. In giro per la città sconosciuta, di notte, si aggrega per disperazione a dei ladri, che gli hanno insegnato, almeno, a ripulirsi calandolo in un pozzo. Entrati in duomo per spogliare degli oggetti preziosi il cadavere dell’ arcivescovo Filippo Minutolo, sepolto quel giorno stesso, tenta di ingannarli, ma è da essi superato in malizia: gli richiudono sul capo il coperchio di marmo, non avendo egli consegnato loro anche l’anello prezioso che egli voleva tenersi per sè. A salvarlo non è la sua furbizia, ma la pura casualità. Giungono, infatti, altri ladri, che egli spaventa dopo che loro hanno aperto di nuovo il sarcofago. Il povero commerciante perugino se ne esce tenendosi il rubino, che lo compensa ad iosa delle perdite subite ad opera delle male femmine (B. Croce- Storie e leggende napoletane, Bari, Laterza,19 , specialmente pp. 55-9). Ci si permetta una osservazione ulteriore: ammessa anche la cosciente od inconscia espressione di una simile “crescita dalla ingenuità alla furbizia”, essa costituisce per se stessa un valore artistico, estetico, lirico? Costituisce certo una ricchezza genericamente culturale del racconto, ma non necessariamente un plus-valore estetico. L’acutezza psicologica dei Promessi Sposi non ne fa, di per sè, un’opera d’arte: è l’arguzia che Manzoni ci mette nel rivelare il sottofondo dell’animo umano che rende le notazioni liricamente significative: e fanno rilegegre il romanzo innumeri volte. Invece la novella di Andreuccio non si rilegge una seconda volta. [11] In I, 1, ser Cepparello, diabolicamente ipocrita, anche in punto di morte inganna gli ospiti ed il frate confessore, denunciando come peccati atti di virtù scrupolosa, sicchè ottiene, lui sodomita e complice di ogni nequizia, funerali solenni e fama di santità. In I, 3 il prudente giudeo Melchisedec, per eviatre di essere “legalmente derubato” dal Saladino bisognoso di danaro, con la favola delle “tre anella” lasciate in eredità dal padre ai figli in modo che ognuno di essi s’illudesse di possedere l’originale, suggerisce l’idea che le tre grandi religioni monoteistiche si equivalgano; ed elude così la trama di persecuzione e condanna a morte (per bestemmia) architettata per lui. [12] I pittori Buffalmacco e Bruno, li vedremo meglio all’opera esaminando la novella VIII, 3 (che manda l’ingenuo ma non candido collega Calandrino alla ricerca della “elitropia”). Essi in VIII, 6 riescono a convincere il povero Calandrino che proprio lui è il ladro del maiale ucciso che gli è stato rubato: e deve pagare per l’inganno perpetrato! Ora, in IX, 3 e 5, le burle rasentano il sadismo: Calandrino è fatto giudicare in stato di gravidanza da un medico complice e deve pagare per guarire senza partorire; e non solo non otterrà le grazie dalla donna che ha circuito, ma ne sarà punito dalla moglie –monna Tessa- che è stata messa sull’avviso circa la tresca del semplice ma non onesto marito. In IX, 4, Cecco di Fortarrigo perde al gioco anche i vestiti; ma chi ne fa le spese è il vincitore Cecco Angiolieri, che i contadini accettano per ladro e spogliatore del compagno, che lo insegue seminudo per strada chiedendo la roba sua! In IX, 9, Salomone dà sentenze per motti apparentemente incomprensibili, ma molto saggi. A chi non trova amicizia neppure con la munificenza dei doni, consiglia “Ama” (cioè non cercare popolarità, ma dona amore e ne riavrai). A chi non riesce a dominare i capricci della moglie, consiglia l’uso del bastone; ma lo fa con tanta discrezione e sapienza, che i due consultanti, per comprendere il consiglio, devono ragionare non poco nel cammino di ritorno (ed il lettore, a tavolino) per adeguarsi all’idea di trilussiana disperazione “Quando ce vo’, ce vo’”: usare l’estremo mezzo delle percosse, esaurito ogni altro mezzo di persuasione. [13] “Quasi mai”: non tutta la novellaè ugualmente felice in ogni espressione. Il gioco di parole su una reliquia inventata del costato di Cristo, che l’ avvicina ad una ragazza da vagheggiare, non è così efficace da cancellare l’impressione di empietà e di bestemmia. [14] Ci si permettano dei paragoni. La lettura de I Sepolcri del Foscolo non desta serie controindicazioni per la fede nell’Aldilà, nel senso che possono esser letti, prescindendo dalle preoccupazioni etico-religiose del problema, preoccupazioni che sono tacitate dal fascino estetico, dalla carica lirica del carme. Così la fede ed il senso morale della Commedia di Dante e dei Promessi di Manzoni possono essere tacitati nel lettore non credente dalla forza della varia commozione che accompagna l’espressione del contenuto cristiano dei due capolavori. E come un prete può cantare il brano sulla calunnia, impersonata dal prete don Basilio nel Barbiere di Siviglia, così un profano può inebriarsi della sequenza gregoriana “Veni, Sancte Spiritus” senza che nessuno dei due senta per questo compromessa la propria identità ideologica. Se l’arte è riuscita e nella misura in cui è riuscita, asservisce a sè i concetti. Certo che se l’erotismo si impone, allora è indizio sicuro che l’arte non è riuscita; se arte ed erotismo si contendono il posto (cfr. Il Guado, di Lorenzo Stecchetti), allora la morale deve prevalere e “censurare” la libera circolazione di un simile testo. Per questo, si veda il nostro Musica in parole, Varese, 1983. [15] Si vedano ad esempio i brani che precedono la prima Giornata: “Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di vari arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevole a riguardare...”; “Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, i giovani insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi ed amorosamente cantando...” E’ inutile copiarne più lunghi brani: c’è la velleità di destare la gioia serena della contemplazione rapita: in realtà c’è la noia di portare avanti una lettura che non desta alcuna vibrazione emotiva; e che, perciò, stanca. E così, si deve dire del brano che chiude la giornata: “Già era il sole inclinato al vespro ed in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle delle giovani donne e de’ tre giovani si trovarono esser finite; per la qual cosa la loro reina piacevolmente disse...”. I conati in tal senso si ripetono spesso sia all’apertura che alla chiusura di molte altre giornate, ma lasciamo al lettore di cerziorarsi per suo conto, indicando solo quelli che ci risultano essere i casi più...volonterosi: “L’aurora già vermiglia” (inizio della terza Giornata); “Era sì bello il giardino e sì dilettevole” (conclusione); “Era già l’Oriente tutto bianco” (inizio della quinta); “Aveva la luna” (inizio della sesta); “Era ancora il sole molto alto” (conclusione); “Ogni stella era già dalle parti d’oriente fuggita” (inizio della settima); “Le luci, il cui splendore la notte fugge”(Inizio della nona Giornata). [16] Sulla non eccesiva artisticità del libro non siamo i soli ad essere convinti. E’ lo stesso autore a dichiarare di non credere opera artistica il proprio lavoro, all’inizio della quarta Giornata, proprio là dove difende il diritto all’impudicizia. Ecco le sue parole che, dapprima, negano il dovere di scrivere sempre in versi ed affermano il diritto di scrivere anche in prosa: “Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio; ma tuttavia nè noi possiamo dimorare con le Muse nè esse con essonoi”. Ma egli poi così prosegue: “E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne e, benchè le donne quel che le muse vagliono, non vagliano, pur esse hanno, nel primo aspetto simiglianza di quelle...” Qui la interpretazione più ovvia pare proprio questa: l’arte letteraria (sia in versi che in prosa) non è sempre lavoro accessibile, perchè non è possibile “dare appuntamento alle Muse”. Allora non è da rimproverare che sostituisca al piacere estetico della poesia (della letteratura poetica in genere) la gioia di stare in compagnia delle donne, che almeno convengono con le Muse, in quanto sono creature femminili (e, come loro, danno diletto: non indaghiamo se solo affettivo od anche erotico...). Ci sembra di avere qui il reo confesso, anzi il “buonuomo confesso”, quell’ingenuo “confitentem virum bonum” di ciceroniana memoria. Egli ammette, cioè, di non aver voluto impegnarsi, col Decameron ed a differenza delle precedenti opere in versi o in prosa, a fare un lavoro artistico, ma semplicemente a sollazzarsi ed a sollazzare. Egli previene Aldo Palazzeschi ed il suo programma “Lasciatemi divertire!”, perchè “Io non sono un poeta: sono il saltimbanco di me stesso”... Un altro personaggio, che non pare attribuire valore poetico all’opera, è il Petrarca. E’ vero che egli vuol scusare nelle sue lettere (Senili, I, 5; XVIII, 3) la scurrilità del novelliere (era il problema che il Boccaccio gli aveva sottoposto); è vero che egli lascia intendere di non aver letto tutto il libro (segno che non era poi così affascinante e che quello “assai me ne piacque” che leggeremo subito poteva essere un eufemismo), ma certo il giudizio che ne dà è piuttosto deludente. Eccolo in traduzione da XVIII, 3: “ scorrendo il tuo libro assai me ne piacque, e se talvolta mi offese alcunchè di troppo libero e lascivo, pensai che potevano servirti di scusa l’età in cui eri quando lo scrivesti, la lingua (non latina, ma volgare: cioè appunto finalizzata a “cose volgari”), lo stile, la leggerezza dell’argomento e sopra tutto la qualità dei lettori a cui era destinato...”. Questi ultimi motivi ci pare proprio che equivalgano a dire: “non trattandosi di lavoro con pretese artistiche, non è il caso di meravigliarsi neppure delle volgarità che contiene. Pare che a Petrarca non sia neanche passato per la mente che il Decameron potesse pretendere ad essere opera d’arte: troppo leggero l’argomento, troppo basso lo stile, troppo incompetenti di arte le persone cui era destinato il libro. Ancora. E’ noto che il giudizio di Francesco De Sanctis in proposito sia o timidamente o diplomaticamente equivoco. Egli parla del Boccaccio come di “un artista” e non lo definisce mai “un poeta”. (Storia della lett.It. ,Napoli, Morano, 1936, p. 347). La cosa ha meravigliato più d’uno ed il Croce è sceso in campo ad interpretare benevolmente la diversificazione (Saggio sullo Hegel- Bari, Laterza, 1958, pp. 387-95); ma ad altri, come a noi, i ragionamenti di B. Croce sono sembrati sofismi. Per il De Sanctis, cioè, il Boccaccio è un artefice abile, non un poeta geniale. Venendo al secolo ventesimo, abbiamo la sentenza di Eugenio Montale che la settima Giornata del Decameron (Beffe di mogli ai mariti) non ha nulla a che vedere con l’arte (riporto da C. Muscetta, Il Trecento, Milano, Garzanti, 1976, p. 358). Lo stesso Muscetta, convinto della validità estetica e della sanità erotica dell’opera, nell’analisi dei suoi pregi non sa additare altro che valori socio-culturali, cui egli è, marxisticamente, molto interessato ed attento. Gli è che noi si vuole invece un giudizio di poesia od artisticità, non di sociologia. Così, distratto da questa prospettiva inattinente, gli capita, allora di uscire in espressioni rivelatrici. Nel commento alla novella X, 8 (gara di amicizia fra i romani T.Q. Fulvio e Gisippo) afferma “Sterile è dunque una lettura di carattere frigidamente estetico , se non ci accorgiamo che il racconto è costruito per tratteggiare la filosofia dei personaggi, che se ne drappeggiano in atteggiamento statuario e solo in essa riescono a vivere di eloquenza” (Il Trecento, cit. p. 389). A leggere attentamente c’è da rimanere sbalroditi. E’ mai possibile una lettura “frigidamente estetica”? sono mai compatibili l’avverbio con l’agettivo? E se una lettura “estetica” è esclusa a priori, in favore di una esegesi socio-culturale, siamo ancora in sede di critica letteraria? No e poi no. Se si vuol fare della “ateologia” o della filosofia marxiana, si passi ad altra cattedra e non si attenti ulteriormente all’autonomia della attività artistica, che non va confusa con la ricerca della verità, economica o morale che sia. [17] Come esempio di periodare spropositatamente lungo e a rischio di continue sgrammaticature, riportiamo questo da II, 6 (madama Berìtola: il ritorno trionfale in Sicilia, dopo la vittoria di Pietro II d’Aragona nella guerra dei Vespri siciliani, anno 1282): “Per ciò che, essendo la festa grande ed i convitati, le donne e gli uomini, alle tavole ancora alla prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l’altre cose raccontò d’Arrighetto che, essendo egli in cattività per lo re Carlo guardato, quando il romore contro al re si levò nella terra, il popolo a furore corse alla prigione, ed uccise le guardie, lui n’avean tratto fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo, l’avevano fatto lor capitano e seguìtolo a cacciare ed uccidere i Franceschi; per la qual cosa egli sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i suoi beni ed in ogni suo onore rimesso aveva, laonde egli era in grande e buono stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto ed inestimabile festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de’ quali mai dopo la presura sua niente aveva saputo, ed oltre a ciò mandava per loro una saettìa (nave veloce) con alquanti gentili uomini, li quali appresso venìeno.” Abbiamo sottolineato in grassetto l’impianto errato della frase: o il “che” è pronome, ed allora è di troppo il “lui” della frase “n’avean tratto fuori di prigione” ; o, come è più ovvio pensare, il “che” è congiunzione, ma allora andava posto prima di “Arrighetto” e di nuovo è di troppo il “lui” (n’avean tratto fuori” ) : in entrambi i casi si ha anacoluto, per l’esistenza di un sostantivo (Arrighetto) o di un pronome relativo (“che”) i quali non hanno séguito, in quanto sono soppiantati dal pronome dimostrativo “lui” che invece non ha motivo di esserci. Ma si aggiunga che vi sono sei frasi relative e quattro implicite col gerundio, mentre il periodo infinito occupa più di diciassette righe! |
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