Don Marcello De Grandi
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CAPITOLO VIII: IL
MILLESEICENTO PREMESSE
AMBIENTALI
I) POLITICO-MILITARI Le
caratteristiche politico-militari di fondo sono il dominio spagnolo e le
ripercussioni in Italia della guerra dei Trenta anni. La politica italiana è dominata dalla presenza
spagnola, a partire dalla pace di Castel Cambrese (1559) sino a quella di
Westfalia (1648): gli unici che si attentano a dissentire sono Carlo Emanuele I
(1580-1630) e Venezia. Il primo finisce, però, col perdere Pinerolo in favore
della Francia, che poi ne dominerà la politica fino alla ribellione di Vittorio
Amedeo II, nel 1690. Venezia non riesce ad avere alcun vantaggio nè dalla
guerra contro l’impero asburgico (per la
questione degli Uscocchi, pirati dell’Adriatico: 1617), nè
dall’alleanza con la Francia per la guerra
della Valtellina (1624-6) o per Mantova ed il Monferrato (1627-30). La soggezione alla Spagna ebbe svantaggi e vantaggi.
I primi, in parte, li abbiamo già analizzati (concettismo) e in parte li
incontreremo dando uno sguardo al costume del secolo. I vantaggi più degni di
nota sono la regressione delle beghe interne italiane e dei conflitti endemici
tipici dei secoli XIV e XV, sia nel Napoletano sia al Nord (conflitti fra
Milano, Venezia, Firenze), con la calamità degli eserciti di ventura, perversi
anche in tempi di pace. E’ vero che i signorotti si permettono di farla da
tiranni nel loro feudo e coi loro bravi: l’Innominato (Francesco Bernardino
Visconti), nonchè le figure di don Rodrigo e del conte Attilio nei Promessi
Sposi ne sono un emblema. Ma in
proposito va richiamato quanto Félicité Robert de Lamennais ricordava alla
contessa di Sennft a proposito delle prepotenze di cui parla il romanzo di
Manzoni, a lui inviato in omaggio nella edizione ventisettana (1827): “Mais
qu’on lise l’Histoire des Républiques pendant le XIV, XV, XVI siècles,
celle de Florence, par exemple; c’est un ruisseau de sang. Il en faut revenir
au mot de Montaigne: -Il n’y a point de pire bete à l’homme que l’homme”-
Vi è in realtà un declino degli arbìtri e prepotenze rispetto ai secoli
precedenti, quando il controllo dei
potentati nelle singole regioni italiane non riusciva a controllare la periferia
del loro dominio, anche per le guerre perennemente in corso: ora il governo
spagnolo emette “gride” a non finire, che se non altro costringono i padroni
dei “bravi” a farne un uso sempre più cauto e rischioso. Occorreva alla
autorità spagnola un evento per far cessare tali costumi: la fine della guerra
dei Trent’anni (1648) vede declinare fino a sparire “il seme pernizioso”
dei bravi, benchè il dominio
spagnolo in Italia duri ancora sino alla pace di Rastadt (1714). Inutile
dire che tutte negative furono, invece, le ripercussioni della guerra dei
Trent’anni, sia per l’anagrafe
che per l’economia. Qui va
ricordato almeno la conseguenza tragica della peste che, portata dall’esercito
del Collalto, sceso dalla Valtellina ad espugnare Mantova nel settembre 1629,
provocò la morte di un milione di abitanti in Italia. Si calcola inoltre che
circa centocinquantamila italiani prestarono servizio in tale guerra per la
Spagna: non tutti saranno rientrati, ovviamente. La fine del primato culturale della Spagna in Italia,
dopo che la Francia ebbe vinto la
guerra dei Trent’anni, portò all’influsso di questa sulla mentalità gusti
e costumi sociali in
tutta Europa. Nonostante che la Spagna non perda alcun territorio in
Italia con la pace di Vestfalia (1648), tuttavia nel giro di un paio di
generazioni anche l’Italia si francesizza: non solo non si sente più parlare
di “bravi”, ma anche il concettismo regredisce gradualmente, fino a che, nel
1690, viene fondata a Roma l’Accademia dell’Arcadia, che segna l’inizio di
una nuova cultura e la fine (si potrebbe dire ufficiale) della letteratura
secentista. Si può essere tentati di far iniziare il Milleseicento subito dopo
la Gerusalemme liberata (1575) e farlo terminare con la pace di Westfalia
(1648): ma il persistere, nello scorcio del Millecinquecento, di produzione non
ancora del tutto secentista (“Il pastor fido” del Guarini ne è solo
l’opera migliore); e il trascinarsi di una produzione ancora inficiata di
concettismo nella seconda metà
del Milleseicento inducono a definire i limiti del secolo letterario entro
quelli cronologici, salvo l’ultimo decennio, arcade appunto.
II) PREMESSE
SOCIO-ECONOMICHE Stasi
demografica e regresso economico caratterizzano il secolo in Italia. Non si ha nel nostro secolo crescita demografica: non
per cause connesse col dominio spagnolo o per motivi economici, ma per la peste
del 1629-30 che portò via un milione di persone. Gli
Italiani rimasero fermi, così, agli undici milioni della fine del secolo
XVI. L’economia è in
calo un po’ ovunque, in genere a causa della guerra
e della pestilenza; solo nel Napoletano
potrebbe trattarsi anche di conseguenza del governo spagnolo. Al Nord,
Venezia denota il regresso economico anche attraverso il calo degli addetti
all’arsenale (costruzione e riparazione di navi): dai duemila
del 1599 si scende a 1208 nel 1641. La devastazione e spopolamento della
Germania, per la guerra dei Trenta anni, (scende dai venti milioni circa a
neppure sette) tolgono alla città lagunare l’ultimo grande cliente per il
commercio di prodotti orientali; inoltre essa perde le ultime isole dell’Egeo
(Candia nel 1669 si arrende dopo una guerra più che ventennale, che costò
uomini e soldi al Leone di San Marco). Decrescono anche le esportazioni di
drappi e oggetti di lusso, in un periodo in cui l’Europa continentale
doveva riservare il danaro al conflitto immane.
Nell’Italia meridionale succede questo fenomeno: Napoli diventa la
residenza di moltisimi nobili, che accorrono alla corte del vicerè spagnolo,
per servizi onorifici e redditizi. Le terre, abbandonate alla amministrazione di
gente venale e non sempre onesta, subiscono così un calo della produzione, con
l’impoverimento ulteriore della popolazione agricola. Declina, in particolare
nelle Puglie, la produzione di grano e di lane. Napoli si gonfia invece a
megalopoli, sovrappopolata: a metà del secolo si calcola che avesse raggiunto
il mezzo milione di abitanti. Si difende l’industria della seta (Como e Veneto) e
si mantiene viva quella delle armi (Milano, Brescia), mentre addirittura
cresce quella tipografica (a Venezia, Genova e Roma). Un segno notevole
di aumento della ricchezza è l’aumento del metallo prezioso in circolazioe.
Difatti, nel Millecinquecento l’economia europea era ancora fondata
sull’argento; nel Milleseicento la base metallica è l’oro, diffusosi in
misura crescente dalle colonie dell’America spagnola. Ma sono soprattutto le
costruzioni edili a testimoniare che,
nonostante la tassazione esosa della Spagna[1],
rimane un notevole benessere che si va estendendo anche ai ceti meno abbienti.
Si pensi soprattutto alle costruzioni ecclesiastiche, che sono realizzate di
solito con l’intervento di qualche ricco mecenate, ma che vengono sostenute
anche dalle elemosine del popolo povero. Ora le chiese ed i santuari realizzati
nel Milleseicento sono molto più numerosi che nei secoli precedenti. Sono nati
persino dei “sacri monti”, cioè serie di edifici sacri che costellano le
falde di una collina o montagna, per celebrare qualche mistero della fede. Il più
noto è quello sopra Varese (quindici chiese, ognuna dedicata ad un mistero del
Rosario, illustrato dentro le cappelle da statue a grandezza naturale, oltre che
da pitture sulle pareti). Altri famosi “sacri monti” sono quelli di Varallo
Sesia, Belmonte nel Canavese, Orta nel Novarese. Nel
secolo XVII inoltre si costruiscono i primi teatri pubblici, edifici destinati
cioè unicamente alle rappresentazioni: nel 1637 si inaugura quello di Venezia;
nel 1657 si apre quello (in via) della Pergola a Firenze. L’afflusso
abituale e frequente alle rappresentazioni dimostra che il superfluo
si era molto diffuso e che, almeno in
città come Venezia, la borghesia era un ceto molto numeroso. La Commedia
dell’arte e (lo vedremo) la diffusione del nuovo genere letterario, il romanzo
in prosa, testimoniano pure che nuove leve di lettori raggiungevano il mercato
letterario: gente che non aveva familiarità colla versificazione e non aveva il
gusto e la pazienza per goderne, ma che aveva qualche soldo (oltre la
alfabetizzazione) per concedersi strumenti di evasione fantastica, con
facilità di lettura. Minor significato sembra di dover dare, invece, alle
costruzioni dei patrizi veneziani nell’entroterra: era un impiego del danaro
che non riuscivano più ad investire in commerci, navi, viaggi e personale
assoldato: era il fasto di un impero navale in decadenza. LE
CARATTERISTICHE DEL SEICENTO IN ITALIA I)
IL
PENSIERO (MENTALITA’) Vi sono motivi
per riporre fiducia e stima nella attività culturale del secolo XVII, come ve
ne sono per lo scontento ed il disprezzo. Analizziamo
dapprima i fatti positivi. La cultura nel suo complesso è in aumento. Eccone
degli indizi. Abbiamo la prima donna in assoluto ad addottorarsi:
Lucrezia Cornaro Piscopia si laurea a Padova in filosofia e avrebbe voluto
proseguire con il dottorato in teologia, ma il vescovo di Venezia, S. Gregorio
Barbarigo, non lo permise.[2] Più significativa è la nascita di due nuove forme
di arte: il melodramma ed il romanzo in prosa. Per il primo, aveva già
lavorato Jacopo Peri con Dafne (1598) ed Euridice (1600), ma esso si sviluppa
pienamente nel Milleseicento, con le musiche di Claudio Monteverdi
(1607:Orfeo; seguiranno Arianna, Ballo delle ingrate, Il ritorno di Ulisse in
patria e L’incoronazione di Poppea). Quanto alla nuova forma di cultura
spicciolata, il romanzo in prosa, è vero che il praticamente nuovissimo genere
letterario presenta, un po’, le qualità negative della Commedia dell’arte
(ingenuità, sbrigatività); tuttavia il diffondersi del romanzo implica tempo
libero a livelli economicamente sempre più vasti, comprendenti anche strati
soltanto alfabetizzati. La cerchia dei passatempi di natura verbale e dei
loro fruitori si allarga, diffondendo in qualche modo cultura letteraria. Con gli Scolopi, fondati da S. Giuseppe Calasanzio,
venuto dalla Spagna a Roma (1558-1648), si hanno istituti di istruzione a
costi accessibili alle classi di
piccola borghesia. Per i ceti più alti continuano a lavorare Gesuiti,
Barnabiti, Somaschi. Già S. Angela Merici aveva provveduto a scuole di questo
tipo nel secolo precedente: ora, per le ragazze, si muovono anche Lucia Perotti
che fonda a Cremona un collegio per loro, coll’aiuto del gesuita p. Melina; la
beata Rosa Venerini che, appoggiata dal vescovo di Montefiascone Marcantonio
Barbarigo, fonda l’Istituto delle scuole e maestre pie. Aumentano le biblioteche:
a Roma si organizza la Vaticana e si creano la Angelica (di Angelo Roccu), la
Barberini (card. Francesco: 1636); a Milano, il card. Federico Borromeo apre la
Ambrosiana (1609). Per i gesuiti, il superiore generale S. Pietro Canisio non
concepiva un collegio che non avesse la propria biblioteca.
A monte
delle biblioteche sta la facilità della stampa a riprodurre i libri: la
tipografia vaticana risale a Sisto V (1587), mentre anche Genova e Venezia
hanno, con Roma, una industria
editoriale; Anversa, Dillingen, Ingolstadt sono le capitali della stampa in
Europa. E guardiamo ora
ai dati negativi. Ci sembra che siano sostanzialmente questi: l’assenza
di capolavori poetici sublimi, le pochissime edizioni della Divina Commedia, la
diffusa moda barocca in letteratura (concettismo, secentismo, marinismo), la
pochezza del senso critico, con la persistente credenza a leggende sia in
campo storiografico che scientifico, la presenza di pregiudizi come quelli delle
streghe e degli untori, la perdurante tortura degli imputati. Ma ci sembra
doveroso aggiungere che, sui fatti irrazionali
della cultura del tempo, pesa un’aggravante indebita: la felicissima ironia
del Manzoni nei Promessi Sposi su alcuni di questi dati (specie nei capitoli 1,
6, 18, 27, 31 e 32), che stigmatizza in maniera così brillante i dati negativi,
da non lasciar spazio per un giudizio più equo della loro entità reale e per
la considerazione delle dimensioni positive dell’epoca in cui
sono posti a vivere i promessi sposi. Naturalmente, la presentazione
unilaterale del Manzoni è un fatto che non riguarda la cultura del
Milleseicento, ma la coscienza che ce ne siamo formato noi. Fausto Nicolini
prende giustamente le difese anzitutto
di Gonzalo di Cordova: la storia vera lo documenta come un eroe
nelle armi. Sebbene meno
dotato nell’arte di governo, pur
tuttavia anche ivi risulta uomo non solo onesto,
ma molto generoso e tanto sensato, che non promosse ma solo accettò a
malincuore la guerra di Casale; e tentò di impedire, sino all’ultimo giorno
di governatorato, l’entrata dell’esercito imperiale in Italia, conscio dei
danni di un simile passaggio, anche a prescindere dalla peste. Ma anche della
vita e cultura complessiva del Milleseicento in Italia, sotto la Spagna, il
Niccolini documenta meriti sconosciuti. si leggano i suoi volumi “Peste e
untori” ed “Arte e storia nei Promessi Sposi”( Milano, Longanesi, 1958) Il secolo,
dunque, è pressochè infecondo di poesia. Per sè la cosa non dovrebbe stupire più di tanto:
i geni (anche letterari) non nascono a piacer nostro, tanto che lo stesso era già
accaduto fra la morte di Petrarca e la stesura delle “Stanze” del Poliziano
(1370 ca- 1470 ca). Ma quello che disorienta nel nuovo secolo è il fatto che,
accanto alla pochezza di lavori poetici significativi
(La secchia rapita del Tassoni, alcune
lettere ed il Dialogo dei massimi sistemi
di Galileo, Della dissimulazione
onesta di Torquato Accetto, alcune rime di Gabriello Chiabrera), si affianca una produzione sciamannata di liriche, poemi, prose e
teatro o ridicolmente concettisti o insopportabilmente
improvvisati, segno della mancanza sia di estro lirico che di buon senso
e di intelligenza, di sinderesi (coscienza del vero, del bene e del bello) e di
spirito critico. La rigatteria secentista è quello che più impressiona, al di
là della rarità della grande arte letteraria.[3]
Le poche edizioni della “Commedia”
è un fenomeno che fa parte della carenza di intelligenza e di gusto nel secolo.
Ma il dato va abbinato al regresso degli scrittori letterati di estrazione
toscana ed alla perversione del gusto causata dal marinismo concettista. Ed è
attribuibile in genere alla pochezza del livello intellettuale della massa di
ogni secolo. Le quaranta edizioni del capolavoro nel secolo precedente non
impediscono che Dante venga escluso dal canone degli autori-modello
per la classicità della lingua italiana: Petrarca e Boccaccio erano
troppo più facili ed imitabili... Lo stigma della
permanenza di un insufficiente senso critico è indubbio,
anche se non tutti gli studiosi del secolo sono dei don Ferrante.
Siamo onesti e confrontiamo questa mentalità non solo con quella del
razionalismo settecentesco successivo, ma anche con la ingenuità dei secoli
precedenti. Ci accorgeremo che le cose vanno migliorando nel Milleseicento.[4]
Prendiamo il caso delle invenzioni o
dell’accettazione di leggende, non solo agiografiche.
Certo che almeno alcune tracce di
biografie, per santi storicamente poco o nulla documentati,
quali noi leggiamo oggi, sono quelle
stesse nel secolo XVII: ma esse mettono in bella copia quanto i secoli
precedenti hanno tramandato. Non c’è bisogno di sospettare chissà quali
intenzioni falsificatrici: basta una fede acritica, cioè troppo ingenua. Che,
indubbiamente, c’era anche nel
secolo XVII. Se la confrontiamo, però, con il candore della “Legenda aurea” di Jacopo da Varazze (vite di santi, scritte fra il
1255 e il 1266 circa), ci si accorgerà che l’amore per
il miracolistico era nel tredicesimo secolo molto più comune, tanto che
ne potè uscire un’opera poetica come quella del beato domenicano. E con una
simile mente, storiograficamente sprovevduta, si poteva diventare arcivescovo di
Genova, come appunto capitò a lui. Nel
secolo XVI, come abbiamo visto, A. F. Doni, per assestare il bilancio familiare
(una famiglia sui generis, sia pure), non esitava ad inventare codici e stampe
mai esistiti, onde riempire la sua “Libraria seconda”. Eppure era persona
dotta e conosciuta che, dunque, falsificava “con senso critico”, cioè
maliziosamente... Vi è, poi, il professore universitario
Giovanni Battista Nicolucci (detto il Pigna), divenuto onorato segretario
e temuto collaboratore di Alfonso II, che scrisse nel 1570
la “Istoria de’ prìncipi d’Este”, in cui propone con la più
tranquilla impudenza ascendenti di sangue imperiale per la famiglia che serviva:
cosa a stento tollerabile persino in un poema
(il Tasso si servì di quelle bubbole per riempire il canto XVII della “Liberata”). Nel Milleseicento, invece, la
invenzione di antenati adeguati per la vanità di famiglie nobili o la
redazione acritica di leggende medioevali per la devozione religiosa, resta
nelle mani di oscuri scrittorelli di secondo grado o di romanzieri dichiarati
come Luca Assarino e F. F. Frugoni (che dichiarano la intenzione di mescolare
storia e invenzione). Si pensi piuttosto ca questi due fatti. Poco dopo il 1632,
in Francia, i “padri maurini” (benedettini riformati) pubblicavano studi di
storia religiosa (Gallia Christiana;
ecc.) e letteraria (Histoire littéraire
de la France), con trattati di regole per la cronologia, paleografia e
diplomatica che segnarono l’inizio
della storiografia scientifica moderna. Quasi
contemporaneamente (1643), in Belgio, i padri bollandisti
davano mano alle pubblicazioni critiche sulle vite dei santi celebrati
nel calendario liturgico (Acta sanctorum),
divenute esemplari per tutti i dotti d’Europa. Il
lavoro delle ricerche critiche avviene già nel Milleseicento, ad opera
di religiosi: il Settecento non farà
che proseguire. Lo stesso, o quasi, si è costretti a costatare per
le streghe e le arti magiche. Il gesuita Martino Delrio (1551-1608), citato
nel c. 32° dei Promessi Sposi come uno dei maggiori responsabili delle
“carneficine” contro gli operatori di malie, visse e scrisse per lo più nel
secolo XVI; ed egli è fra i più giovani tra
gli autori comunque implicati con simili argomenti: l’enorme maggioranza è
gente del Millecinquecento.[5]
E i gesuiti, pur avendo, oltre al
Delrio, altri studiosi... del suo calibro (Giorgio Scherer e Giorgio Stengel),
non firmarono mai una condanna della Inquisizione; ed ebbero anche confratelli
che furono contestatori
decisi di simili processi, come i padri Adamo Tanner e Paolo Laymann.
Addirittura Federico von Spee, assistente spirituale ai condannati, paragonava
quei supplizi alle persecuzioni di Nerone contro i cristiani; e pubblicava
nell’anonimato una “Cautio criminalis” (Rinteln, 1631) per protestare più
liberamente. Questo si dice per documentare una situazione in via di miglioramento, rispetto ad un secolo, il
Millecinquecento, osannato senza prove come meno retrogrado, come
più ricco di senso critico. Invece,
a proposito di simile acrisia, il peggio stava già alle spalle nel
Milleseicento, almeno a livello di studiosi, anche se tra il popolino la
credenza poteva essere più diffusa, proprio per l’influsso della mentalità,
ancor meno critica, del secolo precedente. [6] D’altronde
fu la Germania la nazione ove la credenza ed i processi per stregoneria
impazzarono: un illustre criminalista Carpzov , morto nel 1666, si vantava di
aver giudicato qualcosa come ventimila streghe nella sua carriera. In Italia i
processi contro le streghe furono molto più rari e Roma, in particolare, quasi
non ne conobbe. Addentriamoci
ora nei settori particolari del sapere (filosofia, scienze, religione, estetica). LA
FILOSOFIA.
Domina sulle cattedre l’aristotelismo, che trasmette agli studiosi una chiarezza, nella impostazione del ragionamento ed una
correttezza deduttiva, nella sua elaborazione, davvero ammirabili: non poco il
pensiero moderno deve alla logica dello Stagirita, anche se più solitamente
rifiuta le conclusioni metafisiche,
religiose, antropologiche che la “scolastica” (così è chiamata ormai la
filosofia aristotelico-tomista, perchè abitualmente insegnata nelle scuole) ne
ha dedotte. E, tra il Millecinque ed il Milleseicento, la “scolastica”
presenta novità interessanti: prima di Ugo Grozio (Huig Van Groot: 1583-1645),
il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (ultimi due decenni del
Millequattrocento- 1546), nelle sue “Relectiones
theologicae”, parla di “diritto naturale”, su cui fonda il diritto
delle genti. Il primo è immutabile
ed è la base per il secondo, cioè per una legislazione civile valida per tutta
la umanità, legislazione che va codificata in leggi, come “diritto tra le
genti”. Tra le componenti di tale diritto internazionale, immutabile ed
insuperabile, sta il diritto alla libertà per la Chiesa, al rispetto per la
vita e la integrità anche dei popoli sottomessi per giusti motivi (come gli
Indios delle Americhe, popolo da educare e far progredire, ma nella coscienza
dei suoi diritti umani) e dei popoli belligeranti, anche se sconfitti. Nell’opera De
legibusa ac Deo legislatore (1612), il gesuita Francisco Suarez
(1548-1617) continua queste riflessioni e aggiunge altre verità: la società è
coestensiva alla natura dell’uomo e non nasce per arbitrio o capriccio;
la autorità risiede nella volontà comune o consenso dei cittadini, che
può favorire sia la monarchia che la oligarchia o la democrazia; tale società
tende a comprendere l’umanità intera, ogni popolo e nazione; infine, i patti
liberamente stipulati fra i popoli devono essere rispettati.... Tuttavia non si può negare che la sequela del
“maestro di color che sanno” (Inferno, 4, 131) porta con sè qualche
conseguenza rovinosa. A
parte la tendenza della facoltà di Padova (ormai tradizionalmente inclinata ad
un aristotelismo non corretto dal tomismo,
secondo il modello di Pietro Pomponazzi) alla negazione della immortalità
personale (Cesare Cremonini, 1550-1631, fa scrivere sulla sua tomba: “Hic
iacet Cremoninus totus”), è da tener presente la rigidità filistea
nel voler “iurare in verba magistri”, cioè nella fanatica adesione
alle tesi di Aristotele. Tale attitudine acritica renderà più difficile
alla cultura universitaria non solo l’abbandonare il sistema tolemaico (lo
stesso Cremonini si rifiuterà di guardare nel cannocchiale)[7],
ma l’accettare il metodo induttivo delle nuove scienze, perchè sembrava
decapitare quello deduttivo, basato non sulla esperienza ma sulla catena dei
sillogismi, così perfettamente teorizzati dal filosofo greco e resi ancor più
maneggevoli dalla brillante nomenclatura introdotta dalla filosfia medioevale
(avremo occasione di riparlarne a proposito dell’origine del termine
“barocco”). Eppure non si può nascondere il valore del
ragionamento sillogistico e dell’argomentare secondo le regole della
logica aristotelica: essa comunica un tale ordine mentale ed una tale
chiarezza nel processo di ricerca della verità, che acuisce il senso critico della persona, cioè la capacità a
distinguere il vero dal falso, la coerenza di un procedimento di ricerca o il
suo deragliamento.[8] Anche quando un simile
argomentare, posto sulle labbra di don Ferrante nel capitolo finale dei
Promessi, si mostra infantile e ridicolo
per il semplicismo balordo delle
premesse (sono solo quattro le
“sostanze” che costituiscono il mondo: terra, acqua, aria e fuoco!), esso
presenta ancora un vantaggio fondamentale: rende del tutto facile scoprire dove
è l’errore da correggere o demolire. In fin dei conti,
i filosofi dell’Illuminismo ipercritico escono dalle scuole
aristoteliche dei gesuiti. Abbiamo letto in Natalino Sapegno un elogio del
pensiero italiano nel nostro secolo, a proposito degli studi sui rapporti fra
morale e politica: in questi studi, la formazione scolastica
si rivela nell’acutezza degli studiosi, padroni di una casistica
analitica e duttile. Abbiamo in Italia un filosofo “sui generis”, cioè singolare:
è Tommaso Campanella (Stilo, Reggio Calabria,1568- Parigi,1639), che
dovremo ricontattare come scrittore
di poesie. Le sue tesi suscitano contese non piccole,
perchè sembrano, da una parte, prevenire alcune geniali intuizioni
di Biagio Pascal e, dall’altra, riprendere le proposte
più estreme del comunismo platonico come della teocrazia medioevale.
D’altronde in lui si mescola lo sperimentalismo di Bernardino Telesio con il
platonismo di Marsilio Ficino. Un’anima molteplice, purtroppo non concorde nè
coerente. Per gli aspetti positivi, dobbiamo notare l’interesse per
l’uomo e la sua psicologia: prima conoscenza dell’uomo è il proprio
intimo, attraverso una “sapientia indita” (innata); tale conoscenza di se
stesso condiziona quella delle cose esterne, che diventano una “sapientia
addita” (aggiunta), modificazione di quella innata. Anche la sua metafisica,
che deriva dal mistero trinitario, pure risente
del dinamismo umano, come vita, intelligenza del vero e volontà di bene:
sono le tre “primalità” che stanno al
fondo di ogni essere e riflettono la Potenza del Padre, la Sapienza del Figlio e
l’Amore dello Spirito santo, sebbene nelle creature tali primalità siano
mescolate con il “non essere”
della impotenza, ignoranza ed odio. Anche in campo religioso egli rischia di
prevenire Pascal, [9]quando
afferma che il cristianesimo è lo spiegamento perfetto di quella “religio
abdita” (nascosta od inconscia:
sentimento religioso) che è presente in ogni spirito, sicchè Cristo
appare come la “razionalità universale”, il chiarimento e l’esaudimento
delle aspirazioni più profonde dell’uomo. Ma è facile intravedere qui il
primo urto di contraddizione: l’animismo universale (ed anzi una forma di
panteismo plotiniano) si concilia difficilmente con la sua fede nella verità
cristiana, proclamata nell’ultima sua grande opera (la Theologia, in 30
libri). La madornalità della sua confusione mentale si rivela, poi, nei
corollari che, imperterrito, egli deduce da questa parentela dell’universo con
la onnipotenza e la onniscienza di Dio: se nel creato è presente la prescienza
di Dio, si potrà dedurne il futuro della vita individuale (astrologia) e si
potrà dominare le forze della natura con opportune pratiche, che la mettano al
proprio servizio (ecco i venti libri “De sensu rerum et magia”;
e “Universalis philosophiae seu Metaphysicarum
rerum iuxta propria principia libri tres”). Quanto ai sogni di comunismo
ed economico e sessuale, in uno stato così dispotico da prevedere la
schiavitù e la selezione dei pronubi per garantire la salute dei
futuri cittadini (“La città del Sole”, del 1602, potrebbe, per certi
squarci, essere intitolata “La
tirannia della Malanotte”) sono frutto di quella stessa ingenuità che lo
spingeva a sognare una palingenesi universale, da cominciare con una rivoluzione
(tentata di fatto nelle terre della sua Calabria: 1599). E sono da accomunarsi
al progetto per una “Monarchia
del Messia”, la cui realizzazione affidava, prima, alla Spagna e, poi, alla
Francia, con l’intento di farvi
convergere tutti i popoli, convertiti, così da
stabilire un impero universale, in cui la Chiesa avrebbe un potere
politico pieno e diretto (Atheismus
triumphatus”, 1607). Il tutto,
quando il cardinal Roberto Bellarmino ribadiva che la Chiesa ha un potere solo
indiretto, in dipendenza dalle materie spirituali di comune dominio, sulla
potestà laica (De potestate summi pontificis in rebus temporalibus: 1610). Ma,
a spiegare le incoerenze irrisolte nel Campanella, stanno due fatti. Da
una parte, egli afferma più che dimostrare: le sue sono intuizioni folgoranti,
ma gratuite; è troppo poeta per essere un
vero filosofo ed è troppo filosofo per essere un
vero poeta. In secondo luogo, il suo pensiero si è costruito durante
periodi contrastanti della sua vita, esteriore ed interiore, che avremo modo di
scorrere a proposito delle sue poesie. Molte opere appartengono a tempi
diversi della sua esistenza intellettuale e morale, tempi che si contrappongono
per fede e miscredenza, ortodossia ed
eresia, platonismo idealistico e materialismo telesiano: come potrebbero
consentire fra loro? LE SCIENZE. Il
pensiero scientifico e le sue applicazioni tecnologiche trovano nel
Milleseicento quasi un tempo di bonaccia, con prodromi, significativi ma sparsi,
del ciclone di progresso complessivo dei secoli seguenti. In tale contesto di lampeggiamenti
premonitori, l’Italia ha le sue “cime tempestose”,
e trova una sua parola da dire con più di un inventore. E’ in Italia e
nel Milleseicento che si meccanizza il processo per lavorare la seta, come da
Venezia esce il segreto per la laminazione del vetro, custodito gelosamente da
secoli. Ma soprattutto si impongono tre personalità: Galileo Galilei,
Marcello Malpighi, Evangelista Torricelli. Il più grande è indubbiamente
Galileo Galilei, le cui
scoperte astronomiche sono praticamente contemporanee a quelle di Giovanni
Keplero, visto che questi scoprì le leggi famose già alla fine del
Millecinquecento, ma le sue pubblicazioni avvenenro solo nel 1609 (Astronomia
nova seu physica coelestis tradita commentariis de motibus stellae Martis), nel
1622 (Harmonices mundi: contiene la terza legge del moto degli astri, quella
della proporzionalità fra il quadrato dei periodi di rivoluzione nei pianeti ed
il cubo del semiasse maggiore delle loro orbite
ellittiche) e nel 1627 (Tabulae Rudolphianae: contiene la posizione
relativa dei pianeti nel sistema solare). Ora Galileo pubblicava il Sidereus
Nuncius nel 1610, il Dialogo dei
Massimi sistemi nel 1632 ed i Discorsi
intorno a due nuove scienze nel 1638. Nel 1687 Isacco Newton
pubblicherà nei “Philosophiae naturalis principia mathematica” la legge
della gravitazione universale. Non insistiamo sul contributo di Galileo alla
conferma dell’ipotesi copernicana, perchè neppure il “Dialogo” adduce
prove definitive. Piuttosto andranno sottolineati altri suoi apporti decisivi
sia alla fisica sia alla metodologia delle scienze. Egli continua l’opera di
Leonardo da Vinci: se questi aveva già scoperto la legge della “inerzia dei
corpi” (nello stato di quiete o di moto rettilineo uniforme), Galileo intuisce
che la accelerazione di un corpo in movimento è proporzionale alla forza della
spinta cui il corpo è sottoposto
(principio di “azione delle forze”); e scopre anche le leggi per la
composizione dei moti. Anche in questo campo, Newton culminerà con la
dichiarazione della legge di azione e reazione (“ad ogni azione corrisponde
una reazione uguale e contraria”). Ma fondamentale è il suo contributo al
metodo per tradurre in leggi sicure
le ipotesi di lavoro scientifico: le esperienze particolari assurgono a valore
universale, quando si riesce a mettere a punto le premesse per un esperimento che si
realizzi (o per una macchina che funzioni) solo se la ipotesi è vera (Discorsi intorno a due nuove scienze).[10]
A lui si deve anche la scoperta dell’isocronismo del pendolo (intuizione fatta
a diciannove anni!) e della bilancia idrostatica. Marcello Malpighi (Bolgona, 1628-1694) applica il microscopio
allo studio del corpo umano, giungendo a scoprire i capillari sanguigni, i
globuli rossi ed a confermare la
circolazione del sangue; e dando il suo nome sia ai “gloméruli” nei reni
che filtrano il sangue sia ai “noduli” della milza che sono aggregati
linfatici. Per questo, egli è considerato, assieme a Nehemiah Grew, il
fondatore della istologia. Evangelista Torricelli
(Faenza 1608-1647), discepolo e successore di Galileo a Firenze, è
l’inventore del barometro, basato sulla intuizione che l’aria è pesante e,
perciò, esercita pressione anche sui liquidi, compreso il mercurio.[11] LA CULTURA RELIGIOSA.
Pur con
l’aiuto di qualche provvedimento oggi sostanzialmente non condivisibile,[12]
tuttavia anche in Italia la riforma portò ad una attività di riflessione e
produzione intellettualmente impegnata, degna di ogni rispetto. Ad esempio
il “Catechismo” di Roberto Bellarmino (cardinale e santo:
Montepulciano, 1542- 1621) edito la prima volta nel 1597, ebbe nel corso del
Milleseicento qualcosa come quattrocento ristampe,
eguagliando la fortuna di quello di
S. Pietro Canisio (olandese: Nimega, 1521-1597) che conobbe, vivente l’autore,
più di duecento edizioni e la traduzione in dodici lingue. Alla diffusione di
una cultura cristiana fino nei villaggi sperduti provvidero i parroci, obbligati
dal Concilio di Trento alla catechesi domenicale
per i loro parrocchiani; ma aiutarono anche dei laici impegnati allo
stesso compito attraverso le “confraternite della dottrina cristiana”,
sviluppatesi specialmente a Roma ed a Milano. Un contributo
molto importante alla cultura storica fu dato dalla disposizione di
Trento a tenere un registro dei battesimi, dei matrimoni e dei decessi: sparirà
così la impossibilità a stabilire la data precisa di nascita che abbiamo
incontrato anche in sede di storia letteraria per vari personaggi. Fin oltre
la rivoluzione francese, i registri parrocchiali conservano la memoria delle
date fondamentali per le grandi
personalità, come per le umili persone, vissute nel mondo cattolico. La
predicazione dei religiosi, che spesso erano più istruiti del clero diocesano,
diffondeva capillarmente la istruzione con corsi straordinari in Quaresima od
altre circostanze particolari. Della sentita vita religiosa un frutto sono varie
opere di spiritualità, scritte in Italia (“Combattimento spirituale” del
teatino Lorenzo Scupoli, 1530 ca-1610: l’opera è del 1589, con un centinaio
di edizioni; quella italiana uscì nel 1616), in Spagna (“Esercizio della
perfezione e delle virtù cristiane” di Alonso Rodriguez: 1538-1616:
l’opera, in tre volumi, è del 1609) od in Francia
( “Introduzione alla vita devota”, “Trattato dell’amore di
Dio”, di S. Francesco di Sales, 1567-1622: le opere sono scritte fra il 1608
ed il 1619). Anche il laico Federigo della Valle (1560 ca- 1628) scrive tragedie
ispirate a tematiche relgiose (Ester, Judith, La reina di Scotia), così come
per un teatro cristiano scrivono il francescano Benedetto Cinquanta da Milano
(Il ricco Epulone| Il figliuol prodigo| Il fariseo e il pubblicano| Santa
Agnese| La peste del 1630: questo frate osservante
scrive fra il 1621 ed il 1632) e l’ex gesuita Emanuele Tesauro
(1572-1675: Ermenegildo). D’altronde
i gesuiti, col metodo della “ratio studiorum”,
esigevano il latino parlato fin dalle prime classi e rinnovavano i fasti
di un classicismo anche creatore, come nella scrittura e rappresentazione di
opere teatrali, recitate dagli alunni: in Germania, padre Giorgio Bidermann
(morto nel 1639) produsse tragedie
non disprezzabili (Cenodoxus| Adrianus| Philemon martyr). La diffusione della
cultura è aiutata da altri ordini
religiosi dedicati alla istruzione-educazione dei giovani: accanto ai gesuiti,
vi sono infatti barnabiti, teatini, somaschi e scolopi. Anche l’architettura delle chiese (ad una sola
navata, col pulpito quasi al centro della parete di sinistra, per raggiungere
appieno l’uditorio) facilitavano una istruzione
etico-religiosa per quanti frequentavano
le varie iniziative di predicazione, domenicale o straordinaria (specie i
“quaresimali” o corso di prediche-istruzioni quotidiane in tempo di
Quaresima). Iniziarono in questo
secolo le “missioni al popolo”, portate in Italia dai figli di quel gigante
della carità ed uomo dal multiforme ingegno che fu S. Vincenzo de Paoli:
essi giunsero qui nel 1638 e nel 1668 erano anche a Napoli. Tra i nostri
predicatori, però, il principe fu il gesuita Paolo Segneri il giovane, nipote
dell’omonimo e famoso quaresimalista del
Millecinquecento. Nato a Nettuno nel 1624 e vissuto fino al 1694, egli abbandonò
lo studio e l’insegnamento delle scienze, per dedicarsi interamente alla
predicazione: nelle corti, dove è ricercatissimo, come fra il semplice popolino
(Panegirici sacri| Quaresimale| Prediche dette nel palazzo apostolico| La manna
dell’anima| Il cristiano istruito| L’incredulo senza scusa| Lettere di guida
spirituale a suor Umilia Garzoni). Suo confratello e continuatore fu p. Fulvio
Fontana (muore nel 1723). Altri gesuiti famosi furono il beato Antonio
Baldinucci (muore nel 1717), p. Pietro Gravita, che percorre predicando la
campagna del Lazio; e S. Francesco De Geronimo, che copre colla predicazione
l’Italia meridionale, morendo nel 1716. A Torino si prodigò il beato
Sebastiano Valfré, oratoriano (della congregazione di S. Filippo Neri: muore
nel 1710). Altri predicatori efficaci furono il p. Paolucci di Calboli, il
venerabile Bartolomeo Cambi da Saluthio (nel Casentino), p. Ginepro Parascandolo.
Ma anche i laici si impegnavano sul fronte della istruzione catechistica: a Roma
fu eretta, da Paolo V, l’Arciconfraternita della dottrina cristiana
organizzata dal laico milanese Marco de Sadis Cusani; a Napoli si
impegnarono i padri gesuiti Carlo Carafa e Francesco Pavone; a Firenze,
all’origine della congregazione, messa sotto la protezione di S. Francesco, vi
è il beato Ippolito Galantini. La
fondazione di gruppi stabili per le “missioni al popolo” fu più
difficoltosa: J. B. Vives e san Giovanni Leonardi ne tentarono
l’organizzazione, ma la cosa riuscirà solo nel secolo seguente a padre
Giorgio Maria Martinelli, a Milano (1721) ed S. Alfonso M. de’ Liguori (fondatore dei Redentoristi).
Tutti questi personaggi sono benemeriti anche di una apertura mentale maggiore
della gente, anche analfabeta: senza la loro opera, la superstizione, dura a
morire nelle zone di campagna, sarebbe stata invincibile; essi portarono
chiarezza di fede e coerenza di azione in molti angoli, religiosamente
trascurati, d’Italia. Esponenti eccezionali della cultura cattolica furono
il cardinale Cesare Baronio (1538-1607), iniziatore della storiografia
ecclesiastica critica (1588); ed il
già nominato cardinale Roberto Bellarmino. Il primo con i
dodici volumi degli Annales ecclesiastici, esamina anno per
anno la storia della Chiesa a cominciare dal 1198. Benchè oggi, dopo le
scoperte di documenti ulteriori e
di una loro analisi più avveduta, gli “Annali” appaiano imperfetti,
tuttavia essi mantengono un loro valore per la vastità nella ricerca delle
fonti, per lo spirito critico usato nella loro utilizzazione, per l’onestà
radicale della disamina, sicchè ebbero edizioni fino alla ventunesima (a metà
del Millesettecento), nonchè tentativi di continuazione e riassunti ad opera di altri studiosi. Meritarono perciò le
lodi di Ludovico Antonio Muratori., tanto più giustificate in quanto
l’autore si inoltrava per un campo ancora vergine, da dissodare, si può
dire, da principio. [13]
Egli annotò pure con spirito critico il Martyrolgium romanum, cioè la
commemorazione dei santi di ogni giorno,
le cui lodi non erano
sempre appoggiate su dati certi, ma erano affidate alle pie
tradizioni di tempi poco esigenti in fatto di critica storiografica. Roberto
Bellarmino
(1542-1621) come studioso è soprattutto famoso per le “Controversie” (Disputationes de controversiis christianae fidei);
come uomo di Chiesa è noto come direttore spirituale di S. Luigi Gonzaga, come
redattore della forma definitiva della Ratio studiorum (piano di studi) per la
Compagnia di Gesù (1586, ma edita solo nel 1599), per la chiarezza ferma di
suggerimenti e pronunciamenti (famoso il memoriale a papa Clemente VIII “De
rebus reformandis” cioè sulle cose da riformare per la purificazione
ulteriore della Chiesa), per lo zelo riformatore come vescovo di Capua e per la
soluzione di compromesso sulla spinosa questione filosofico-teologica “de
auxiliis” che vedeva opposti domenicani e gesuiti.[14]
E’ notevole, inoltre, che egli lasciò l’impressione di uomo equanime e
sereno, benchè avesse avuto parte nei processi contro G. Bruno, T. Campanella
e, nel 1516, contro G. Galilei; ed avesse in più difeso la posizione della
santa Sede contro i decreti di
Venezia che aveva fatto giudicare due preti, rei di delitti comuni, dai propri
tribunali (era consuetudine secolare che essi fossero giudicati solo da
tribunali ecclesiastici); e che aveva tarpato la possibilità di acquisto e
costruzione da parte di enti ecclesistici, col sottoporla all’obbligo di un
permesso di volta in volta (Paolo V reagì col lanciare l’interdetto sulla
città, la quale scacciò i gesuiti ed i cappuccini, perchè, ottemperando
all’interdetto, sospesero la celebrazione delle Messe e chiusero le chiese).[15]
A lui risale anche la formula sintetica che definisce l’efficacia intrinseca
dei sacramenti, nonostante la indegnità del celebrante (“i sacramenti
agiscono ex opere operato e non ex opere operantis”: è tuttora il modo più
chiaro per dichiarare la fede della Chiesa cattolica al riguardo). Ma, a parte
le molte opere di catechesi e teologia, la sua fama resta legata, come si è
detto, alle “Controversie”: esse per la prima volta affrontavano tutto
l’arco delle differenze di pensiero coi protestanti e documentavano con tale
chiarezza ed efficacia la posizione cattolica, che si ebbero edizioni
dell’opera ancora nel Milleottocento; ed i Protestanti, oltre a contrapporvi
più di duecento libri diversi,
fondarono un “collegium antibellardinianum” il quale per mezzo secolo
polemizzò contro l’autore che era ritenuto il maggior loro critico. Le
“Controversie” erano scritte anzitutto con una onestà a tutto campo:
prendendo le mosse dalle posizioni protestantiche,
egli cita per intero passi delle opere più significative
sul punto controverso, di solito dalle opere del grande Martino Chemnitz,
di cui si scrisse “Si Martinus (Chemnitz) non fuisset, Martinus (Lutherus) non
stetisset” (cioè, se non ci fosse stato Martino Chemnitz, l’opera di Lutero
non avrebbe resistito). Inoltre, le citazioni
che confutano le posizioni protestantiche dimostrano una cultura e
biblica e patristica[16]
da risultare persuasive al massimo e difficilmente disputabili. Ci si meraviglierà che le grandi opere di teologia e
dogmatico-apologetica ed ascetica (lo Scupoli, il Rodriguez, Francesco di Sales)
appaiano tutti nei primi decenni del secolo: non si dimentichi che la guerra dei
Trenta anni (1618-1648) ha sconvolto il mondo non solo germanico (la Germania fu
spopolata, perdendo tre quarti della popolazione, scendendo da venti a sei o
sette milioni di abitanti), ma quello ispanico (con la metà del secolo, la
Spagna cessa di produrre opere
letterarie di grande significato) ed italiano, mentre solo la Francia esce
rafforzata e pronta a sostituire il primato culturale della Spagna in tutta
l’Europa. Dimenticare tale conflitto immane nello studio della lettere o
dell’arte visiva ecc. nel Milleseicento ci sembra una grave lacuna: ci si
preclude una delle chiavi principali per comprendere l’andamento
della cultura del secolo. Ma non mancano tensioni e sfilacciamenti nella
complessiva unità e coerenza del pensiero cattolico. A parte le credenze di
iperspiritualismo plateali (stregoneria, magia, astrologia) ed i tre casi
singolari del Bruno, del Campanella e di Galileo (già visti o da
esaminare più avanti), restano le animosità antiromane di un Sarpi,
(che studieremo) e l’eresia del quietismo, nonchè la nascita del libero pensiero con i
libertini a Venezia e gli ateisti a Napoli (che ci interessano subito). All’origine del “quietismo” sta il
teologo spagnolo Michele Molinos (1628-1696). I libri che contengono la
sua dottrina eterodossa (La guida
spirituale, ad esempio) furono scritte fra il 1675 ed il 1676; la condanna
arrivò nel 1687. Le premesse sono calviniste, ma le deduzioni sono ad un tempo
più coerenti e più rovinose. Se
la corruzione conseguente al peccato originale è definitiva ed irredimibile,
non si riesce a capire perchè ci si debba sforzare di assicurarsi la
“elezione fra i salvati”, attraverso una
onerosa condotta, che è poi predicata come pura opera della Grazia, senza
possibilità alcuna di collaborazione della volontà umana... Tanto vale,
allora, rassegnarsi alla spontaneità delle passioni e del peccato, nella
quiete più totale dello spirito, abbandonandosi
con piena fiducia a Cristo (che redime infallibilmente l’uomo, essendo i suoi
peccati frutto della discendenza da Adamo
e, quindi, inevitabili). Inutile ogni sforzo e resistenza: rimane solo la
totale fede fiduciale nella
misericordia onnipotente di Dio, per i meriti di Cristo Signore. Questo
atteggiamento poteva diventare facilmente (ed in alcuni purtroppo diventò) un
“carnevale di fatto in una quaresima di buone intenzioni”, ma è la
conclusione più coerente della dottrina della “predestinazione” ed è
posizione molto più logica che
non il rigorismo calviniano, che cerca di reintrodurre, sotto il controllo civile, la obbligazione che non trova più
un fondamento morale, per la pretesa perdita totale della libertà interiore, a
seguito della colpa prima. In
Italia Michele Molinos operò
nell’ambiente romano, ma era stato preceduto dal gesuita Achille Gagliardi,
cui si ispirò il più noto rappresentante
del movimento, il card. Pier Matteo Petrucci, che dovette ritrattare nel 1687. Meno influì in Italia il Giansenismo che
imperversò nei paesi francesi e che era una forma attenuata di calvinismo: la
coscienza della nullità morale del’uomo e della dipendenza unica da Cristo
per la salvezza condusse alla paura di accostarsi alla Eucaristia, al di
fuori del precetto pasquale;
e ad imporre il metodo del
rigorismo (o “probabiliorismo”)
per risolvere il dubbio circa la liceità o meno di una azione (mentre basta che
sia seriamente probabile la sua onestà: probabilismo)[17]. Ma tempeste ben più gravi erano già in atto, sia
pure su scala ridotta, nell’Italia del Milleseicento. Non si trattava più di
deviazioni dogmatiche all’interno della fede cristiana (eresie), ma del
rifiuto del cristianesimo tutto o addirittura dell’abbandono di ogni fede
religiosa. A Venezia, a Padova, a Roma, a Firenze ed a Pisa ci sono i primi
sintomi del “libero pensiero” che giunge da Francia ed Inghilterra, dove le
lotte religiose finiscono per screditare ogni credenza religiosa: sono i
prodromi del razionalismo, deistico od ateo, del secolo successivo.
L’accademia degli “Incogniti”, fondata a Venezia nel 1630 da Giovan
Francesco Loredano (ed a cui appartennero Ferrante Pallavicino e Gerolamo
Brusoni) è un precorrimento ed un punto di riferimento per i “libertini”
d’Italia, al passo colla gioventù ed intellettualità più sbrigliata
d’Europa, un’Europa che va sfuggendo ad ogni controllo religioso-morale dopo la
vittoria francese della Guerra dei Trenta anni. La lascivia delle pubblicazioni,
più o meno di contrabbando, che uscirono da tali circoli (ad esempio, “Il
cimiterio”, epitaffi giocosi del Loredano)
finiscono per confermare che religione e moralità si danno la mano,
sicchè ove declina l’una, l’altra ne risente e soffoca. Difatti a Napoli si
giunge a fine secolo a scoprire un gruppo di “ateisti” (1688-1697), che
completano la parabola discendente delle due catene di valori: il “giovin
signore” del “Giorno” pariniano
è in arrivo.[18] PENSIERO ESTETICO. Sarebbe forse più appropriato parlare di “poetica” che
di estetica, chè la trattatistica di cui dovremo occuparci riguarda solo la
espressione verbale con pretese artistiche. Ebbene, essa costituisce una delle
testimonianze più penose a carico della cultura del secolo. Il che è, però,
abbastanza ovvio, una volta riconosciuta come fallita, nel suo complesso, la sua
produzione letteraria. Dobbiamo,
infatti, ripetere che non è praticamente mai la moda poetica che dipende dai
dettami dal pensiero estetico, ma
viceversa questo teorizza quanto i poeti (o versificatori) da tempo vanno
attuando per estro o capriccio personale o per imitazione gregaria. Le varie
teorési poetiche sorgono infatti (le eccezioni sono ben rare) quando una
preferenza di tematiche, una tecnica di stile od un’aura di emotività già
hanno abituati i fruitori meno critici a considerare come ovvio od unicamente
autentico un certo genere di poesia. Aristotele stesso scrive la sua Poetica
appellandosi ai modelli dei poemi e del teatro greco; il Bembo eleva a modello
di vera poesia il Petrarca; Bernardino Tomitano (Quattro libri della lingua
thoscana: 1570) e Camillo Pellegrino (Del concetto poetico: 1598) teorizzano il
concettismo come essenza della poesia quando il fenomeno vigoreggiava in Italia
da molte generazioni, dietro l’affermarsi del dominio aragonese e spagnolo.
Quacquaracquà del pensiero, avevano seguito gregariamente la moda prevalente,
facendosene campioni, anzichè tener gli occhi fissi alla esperienza universale
della poesia, onde giungere alla verità perenne di lei, liberi dagli “idòla
fori et tribus”(gli idoli della piazza e della tribù) che frastornavano le
loro orecchie col clamore di chi ha successo, colla
prosopopea di chi, il successo, vuole mieterlo ad ogni costo. Ma, “così
va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo... per
non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse a toccare poi qualche
scappellotto”.[19]
Ma come non tutto il Milleseicento è secentista, così
non si deve credere che tutti i teorici di poetica del secolo siano pienamente
d’accordo col fenomeno. Il guaio è che non sostengono con dimostrazioni (con “poichè”) il residuo
buon senso, che detta loro titubanze non poche; che vorrebbe porre una misura
alla esorbitanza di immagini e giochi di parole; che suggerisce di armonizzare
le regole della retorica classica con gli esempi del nuovo stile imperversante.
E capita, allora, che questi stessi pavidi oppositori scrivano poi, succubi
dell’ambiente, con qualche concessione balorda al gusto diffuso. E, infine, la
debolezza di questi contestatori sta nell’aver affidato le loro riserve in
scritti secondari, non direttamente intesi a demolire la artificiosa proposta
concettista per riaffermare la spontaneità della espressione poetica, ma
destinati a polemiche con un singolo scrittore (come Tommaso Stigliani che si
richiama all’ideale di misura e di proprietà linguistica nell’Occhiale,
che è una stroncatura dell’Adone di G. B. Marino); oppure come parte di un
complesso di articoli di brillante taglio giornalistico, ma
dispersi su troppi aspetti del
costume del tempo (Ragguagli di Parnaso, di Traiano Boccalini). Al contrario, i
sostenitori del barocco letterario escono all’aperto con libri ponderosi e
prese di posizione perentorie. Richiamiamo brevemente i precedenti del
Millecinquecento circa la teorizzazione del concettismo. Francesco Robortello
difende il “mirabile” come qualità poetica vincente rispetto al
“leggiadro”; Bernardo Tasso, G. B. Giraldi Cinthio, G. B. Nicolucci (detto
il Pigna) e Antonio Minturno insistono sulla meraviglia come ingrediente
artistico-letterario (il Minturno giunge a scrivere. “Ma chi non sa il fine
della poesia essere la meraviglia?”). Torquato Tasso afferma poi che il poema
eroico “ha per fine la meraviglia, la quale nasce solo dalle cose sublimi e
magnifiche”. Il primo, però, che ha teorizzato la coessenzialità di
concettismo e poesia fu Bernardino Tomitano, fin dalla prima edizione dei suoi
“Libri della lingua toscana”. Si è già,
però, anche indicato che non tutti i teorizzatori di poetica del secondo
Millecinquecento sono favorevoli a ridurre l’arte al concettismo. Prendiamo in considerazione, ora, gli studiosi del
Milleseicento.[20]
Paolo Beni. Nato
a Candia nel 1572, morì a Padova nel 1625. Fattosi gesuita, uscì dalla
Compagnia per contrasti coi superiori e insegnò poi, in varie città,
filosofia, teologia, lettere classiche, inserendosi nelle polemiche letterarie
del tempo. Così, nel 1600, intervenne a sostegno del “Pastor fido” del
Guarini e della indipendenza del fatto artistico da quello morale; nel 1607
difese la superiorità del Tasso rispetto agli altri poeti epici (Comparatione
di Homero, Virgilio e Torquato tasso); si schierò per la “italianità”
della lingua (non solo parole toscane, perciò) e per la sua modernità (uso del
parlato, diremmo oggi, contro l’arcaismo trecenteggiante della Crusca);
sostenne la superiorità dei moderni rispetto agli antichi e, come ovvia, la
evoluzione delle lingue... La sua opera più importante sono i “Commentarii in
Aristotelis poeticam” (Commenti alla Poetica di Aristotele: 1613). Il suo
ragionamento rischia di essere un esempio notevole del famoso sofisma “canis a
non canendo” (la parola “cane” deriva dal fatto che il cane non canta:
“cane, dal non-cantare”. Egli infatti si dichiara tanto più vicino agli
antichi (Aristotele, Orazio), perchè e quanto più si stacca dai contemporanei!
Dopo questo principio, che egli dà per assiomatico ma che rimane tutto da
dimostrare, prosegue con altri dogmi per lui, ma non per tutti,
evidenti. La poesia è favola; dunque, è finzione; dunque è inganno.
L’inganno in tanto è concepibile in una attività umana, in quanto è
sorgente di diletto (finzione od inganno dilettevole). Il “diletto estetico”
non è specificato meglio e potrebbe così
giungere a far coincidere l’arte con l’esibizione della violenza e
con la pornografia. Non è il caso
del Beni, ex-gesuita, sì, ma ancora sacerdote coerente. Egli si contenta di
ricuperare con le sue deduzioni quasi sillogistiche, il “meraviglioso”
all’arte. Che non vuol dire
“meraviglioso concettista”. Bisogna qui puntualizzare che il Beni non tratta
dell’arte letteraria in genere,
ma di quella teatrale in particolare. Lo “sbalorditivo” si traduce nel
groviglio della peripezia. Visto che le cose ovvie e trite non suscitano nè
meraviglia nè diletto, occorre affidarsi all’incredibile per suscitare
interesse=meraviglia=diletto. Ecco allora la funzione della peripezia, come
“svolta imprevedibile dell’azione drammatica”; ecco lo splendore della
scenografia (con fiori, perle, diademi...). Il “cane” che deriverebbe il suo
nome dal “non saper cantare” non abbaierà concettini (se abbiamo ben
capito), ma farà piroette e giochi da circo equestre. La impudenza di
identificare la poesia con la
sproporzione marinista non è ancora spuntata all’orizzonte, ma comincia ad
albeggiare. Abbiamo pazienza che arriverà.
Matteo
Peregrini (o Pellegrini).
Nato a Loiano (Bologna) attorno al 1595, morì a Roma nel 1652. Fu professore di
logica e morale alla università patria, consultore della repubblica di Genova
e, infine, custode della Biblioteca vaticana. Filosofo e letterato, non compose però nulla di fittizio e puramente letterario,
ma solo trattati di morale e di poetica. Però nel 1639 scrisse l’opera intitolata Delle
acutezze che altrimenti spiriti, vivezze e concetti si appellano; e, nel
1650, “I fonti dell’ingegno ridotti ad
arte (altri trattati sono, senechianamente, educativi: Il savio in corte; Difesa del
savio in corte; Politica massima).
Sostenitore della poesia “oggidiana” (contemporanea a lui), ne vede
l’essenza nelle acutezze, di cui però condanna, in nome del “decoro”, gli
eccessivi artifici retorici. Non nega che certe espressioni siano “mera nobile
buffoneria”, ma l’acutezza rimane per lui il centro dell’arte verbale e
compendia in sè tutte le altre figure retoriche. Egli afferma che
“...l’artificio ha luogo solamente o principalmente non già nel trovar cose
belle, ma nel farle; e l’oggetto del plausibile a nostro proposito (a
nostro parere) non
s’appartiene all’intelletto, che solo cerca la verità e scienza delle cose,
ma bensì all’ingegno, il quale tanto nell’operare, quanto nel compiacersi
ha per oggetto non tanto il Vero quanto il Bello”. E benchè cerchi di salvare
qualcosa della classicità equilibrata e ragionevole, appellando alla differenza
fra le acutezze “seriose” e quelle “fittizie”, ne
affida però il criterio ad un così misterioso senso della
“acconcezza” (sic!), che essa diventa una
distinzione del tutto soggettiva. Difatti nell’altra opera, Fonti
dell’ingegno, afferma che tale facoltà (l’ingegno) non vuole pastoie,
cioè non tollera freni o regole. Esso è formato da “spiriti sottilissimi,
nobilissimi e però guizzanti, svolazzanti, scintillanti”. E, in concreto,
ammannisce esempi abbondantissimi di concettini e argutezze: fonti e, appunto,
stimoli per l’ingegno.[21] Decisamente la moda imperante, elevatasi già da
fatto a diritto con il Tomitano e lo Speroni, si accampava ora nella cittadella
della filosofia, come dottrina estetica e poetica sistematica: il futurismo
degenerava in cubismo, l’astrattismo in arte rock, il dadaismo in
pittura non figurativa, l’ermetismo in metafora insensata, il
liberoparolismo in inconscio
ulissico-jamesiano, il surreale
fantasmatico nell’astruso stefanodarrighiano di Horcinus Orca, la musica jazz
in ritmi pop...: “e più direi, ma il ver di falso ha faccia” (Gerusalemme,
IX, 23). E i critici, i mass-media, i compratori alle aste o gli editori di
libri davano loro favore, spazio e
danaro. A dar ragione ai secentisti ci si misero (segno
mortale!)[22] anche i preti, i
religiosi ed i cardinali. A parte il Graciàn, in Spagna (di lui si è parlato
testè in nota), in Italia si dan da fare il cardinale Pietro Pallavicino-Sforza
ed il gesuita Emanuele Tesauro.
Pietro
Pallavicino Sforza (1607-1667).
E’ molto più noto come
lo storico-polemista [23]
del Concilio di Trento (in opposizione all’opera di Paolo Sarpi), che non come
teorico di letteratura. Ma per tale
opera storiografica, come per quelle teologico-filosofiche,
rimandiamo in nota. Qui ci interessano i
due lavori di filosofia estetico-letteraria, cioè la parte nel trattato Del Bene (1644) che si
occupa di poetica e retorica; e tutte le Considerazioni
sopra l’arte dello stile e del dialogo (1646: ampliato nel 1662 come “Trattato
dell’arte e dello stile del dialogo”).
Egli dichiara che la poesia
per sè cerca il verosimile e non la verità, per cui partecipa bensì delle
prime due operazione della intelligenza umana (astrazione delle idee universali
dalle sensazioni particolari| collegamento delle singole idee nel giudizio o
proposizione o frase), ma non fa uso del terzo gradino della razionalità,
quello del sillogismo (o raziocinio) che mette a confronto tre idee nelle prime
due (premesse) e ne deduce la coincidenza (o meno) fra loro in una terza frase (o
giudizio o proposizione), che si chiama “conclusione”. Ora, comunque si
debba giudicare l’opinione
del Pallavicino circa la bella pretesa che la poesia non si interessi mai della verità; o la sua ignoranza che la “razionalità”
dell’arte stia specificamente nell’astrazione delle emozione dai sentimenti,
è doveroso però riconoscere che egli elabora la sua proposta nell’ambito
della “Logica” aristotelico-scolastica,
per la quale esistono bensì gradi di diversa profondità nell’uso della
intelligenza, ma per la quale anche i primi due gradi sono operazioni
unicamente umane, e quindi pienamente intelligenti e razionali, senza
possibilità di relegarli in attività prerazionali o subrazionali o, comunque,
a metà strada fra la conoscenza animale e quella pienamente umana. E’ penoso,
allora, sentir “bucinare”, a
proposito delle idee del Pallavicino, di
precorrimenti vichiani e,attraverso la dottrina
dei “corsi storici”, addirittura
idealistici.[24] Sbarazzato il terreno da questo malinteso, allora ci
si potrà fermare più distesamente sul pensiero del porporato circa il fenomeno
del barocco, senza sospettare mutamenti nè contraddizioni fra quanto sostenuto
nel trattato “Del Bene” e nelle “Considerazioni sopra l’arte dello stile del Dialogo”. Intanto egli, ignorando l’opera precedente del
Peregrini, si professa primo trattatista in assoluto del concetto! E, per lui,
concetti od acutezze sono le metafore o figure retoriche che “contengono quel
meraviglioso insieme e quell’improvviso onde si forma la breve ed acuta punta
per dolcemente ferir l’intelletto di chi ode e così meritare il titolo di
concetto” (Dello stile, c. XVI, par. 1). Dopo tale descrizione prolissa ne
tenta una più essenziale: “osservazione meravigliosa raccolta in un detto
breve”. Egli si illude, così, di avere definito adeguatamente il concettino.
In realtà, basta considerare che la formalità
del concettino è il meraviglioso, la
cui natura si guarda bene dal precisare, per comprendere come egli oscilli, poi,
fra i richiami del buon senso (e dell’educazione classica) e la difesa
dell’arguzia come il fiore migliore
della metafora antica. Di qui la condanna dell’Adone e del Marino, non solo
per la sensualità, ma altresì per i “paralogismi”, cioè concetti
sofistici e viziosi nei quali “la falsità troppo grande,... troppo
visibile” fa sì che riescano
“poco fertili di meraviglia”-.[25] E’ ancora il concetto
classico di “decoro, dignità, nobiltà” che, pur nella sua
indeterminatezza, tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè di mettere
d’accordo la tradizione retorica e la moda dominante (arte come arguzia,
acutezza, concettini). Il Pallavicino era, ci pare, come il presidente del
Tribunale della sanità nella Milano del 1629, così descritto dal
medico Alessandro Tadino: “uomo di molta bontà, che non poteva credere
dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il
comercio di questa gente, et loro robbe”[26].
Proprio così: anche il Pallavicino non riusciva a pensare che il Giansenismo
fosse una dottrina rovinosa per la religione o che i concettini fossero una
tecnica deleteria per la letteratura. Non avendo una concezione esatta
dell’arte e della poesia, si illudeva di conciliare tutto e tutti,
barcamenandosi fra tradizione e novità, in un eclettismo che riteneva aureo
giusto mezzo, moderazione e buon senso: ed era solo disorientamento estetico e,
più a monte, insufficiente profondità
di intelligenza.
Emanuele Tesauro (1592-1675). Nacque e morì a Torino, cadetto di famiglia illustre. Si
fece gesuita, operando come predicatore e insegnante, ma nel 1634, dopo aspre
tensioni con i superiori, uscì dalla Compagnia e visse come prete secolare.
Nella contesa che opponevano i fratelli di Vittorio Amedeo I (morto nel 1637)
alla vedova Maria Cristina,
reggente per il futuro Carlo Emanuele II, egli si schierò col principe Tommaso
di Savoia-Carignano, con cui stava anche il fratello cardinale Maurizio,
avversando la “madama reale” che, sorella di Luigi XIII, si
appoggiava alla (e dipendeva dalla) Francia, in guerra contro Spagna e Impero.
Il Tesauro ebbe così modo di pubblicare parecchia letteratura di parte, in
favore degli indipendentisti Carignano, e di seguire il principe Tommaso nelle
Fiandre. Pubblicò tre volumi di Panegirici (1659-60), scrisse per il teatro profano e sacro (Edippo,
Ippolito, Ermenegildo, Il libero arbitrio: 1661) e un trattato di Filosofia
morale. L’opera che oggi interessa la storia della letteratura è però
solo Il Cannocchiale aristotelico o sia
idea dell’arguta e ingeniosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria,
lapidaria et simbolica, esaminata co’ princìpi del divino Aristotele
(1654, ediz. accresciuta: 1670). E’, con quello dello spagnolo Graciàn, il
trattato più diffuso di poetica barocca, sebbene il Tesauro si illuda di
dimostrare la
coincidenza della precettistica retorica, aristotelica e classica, con il
concettismo barocco. Come il Castelvetro, egli distingue un linguaggio proprio o
grammaticale ed uno retorico od arguto. Condotta
poi (con disinvoltura degna di don Ferrante)
la retorica a coincidere con l’arguzia, ne consegue, come ovvia, la
identificazione fra classicismo e secentismo: la retorica del “divino
Aristotele”, “lucidissimo cannocchiale per esaminare tutte le perfezioni e
le imperfezioni dell’eloquenza” fa da sensale a tale equiparazione
tra la metafora
antica ed il parlare arguto (o concettoso) moderno. E arrivano le
complicazioni pseudoteologiche: “gli angeli stessi, la Natura, il grande Iddio
nel ragionar con gli uomini, hanno espresso con argutezze o verbali o simboliche
gli lor(sic!) più astrusi
e importanti secreti”. –Insomma tutto ciò che vive vive per l’argutezza e
“tanto solamente è morto, quanto dall’argutezza non è avvivato” (p. 2);
e “quanto ha il mondo di ingegnoso o è Iddio o è da Dio” (p.49).- Per
comprendere queste esilaranti
proposte, occorre ricordare che il Tesauro scriveva anche per insegnare i
concetti predicabili, cioè per fornire esempi di arguzie adatte a ravvivare la
predicazione cristiana! Dio, in altre parole, ha posto nelle realtà materiali i
simboli di altre realtà invisibili, sicchè il poeta non fa altro che imitare
Dio, allorchè concettizza od arguisce sul senso delle cose, estrapolando da una
realtà all’altra. Il Tesauro ha gettato il suo ponte fra retorica classica e
concettismo, anzi fra linguaggio biblico e arguzia secentista, ma è un “ponte
del diavolo”: quando la seconda edizione del “Cannocchiale” uscirà
riveduta ed accresciuta, i giorni dello stile barocco sono contati, la mania per
tale moda spagnoleggiante sta tramontando, col
cessare del predominio spagnolo in Europa e l’imporsi della mentalità
razionalistica francese, al seguito della vittoria di Rocroi e della pace di
Vestfalia (1648). Il Tesauro non se ne accorge, non lo percepisce e pontifica
con sicura improntitudine: nella metafora rientrano i concettini, i motti (od
“imprese”: le scritte sulle armi nobiliari), i concetti predicabili, i
simboli in generale. Dobbiamo riconoscergli un merito: è, infatti, in lui che
troviamo definita la differenza fra paragone e metafora: quella raffronta due
realtà mediante un accostamento, che è espresso dalle congiunzioni “come|quasi”;
la seconda, sopprimendo le congiunzioni, tende a fondere assieme le due realtà,
pur soltanto analogiche (cioè, solo in parte uguali): “E quegli è più
ingegnoso che può conoscere e accoppiar circostanze più lontane” (da Jannaco,
che cita dalla p. 82 della edizione 1670). Ma, nonostante la pretesa di seguire
il razionalissimo Aristotele, egli non esita a dichiarare che “la Pazzia altro
non è che la metafora, la quale prende una cosa per l’altra” (p. 93 dell’ediz.
1670). La definizione di argutezza è così
complicata che finisce per risultare generica: essa sarebbe, dunque,
“argomento cavilloso e succinto, che motteggiando alcune parole serba il
concetto altamente nascoso e mostra più ingegno che sodezza” (ib. p.7). Ed eccoci alloscopo, cioè all’effetto che si vuol
raggiungere, in cui consisterebbe la essenza dell’arte: la meraviglia. Ciò
che l’arte deve produrre nel fruitore non è la commozione, ma lo stupore,
destato in lui dall’inaspettato accostamento di due concetti-realtà
sproporzionati fra loro: “ad ogni parto arguto è necessaria la novità,
senza cui la meraviglia dilegua” (Cannocchiale, p. 116).[27]
Conclusione.
L’estetica
del barocco letterario
(cioè la poetica del secentismo| marinismo| concettismo) non è certamente
classica: accentua infatti l’estro contro la ragione, la novità contro i
modelli, la sorpresa contro la regola, la esagerazione contro l’armonia, la
sproporzione contro l’equilibrio. Ma non è neppure romantica,
perchè fonda la poesia sulla meraviglia e non sulle emozioni, sull’ingegno e
non sul cuore, sulla supponenza elitaria
e non sulla popolarità fraterna, sulla retorica
studiata e non sulla
spontaneità immediata. E non è neanche
realista, perchè preferisce l’invenzione capricciosa alla verità storica,
l’evasione fantastica all’impegno educativo, la volontà di sbalordire
contro la impassibilità dell’analisi oggettiva... Se
accettiamo di mettere la sproporzione come
segreto ultimo del concettino, saremmo in presenza di una poetica
della comicità: i secentisti in
qualche modo intuirono questa verità, quando equipararono il concettino all’arguzia.
Ma essi –teorici e praticanti, pretesi filosofi dell’arte e pretesi artisti-
fecero dell’arguzia il nucleo di tutta l’arte verbale e non di una sola sua
sezione o genere (quello comico, appunto), finendo
per creare l’estetica del ridicolo e del grottesco, perchè si illusero di
divertire in ogni caso, esprimendo i motivi ispiratori più dolorosi (tragedia),
più esaltanti (epopea), più
teneri (elegia) o infine più consolanti (idillio) con la stessa formula della
sproporzione, che è invece quella peculiare della comicità. Ora, quando un
tentativo di destare il riso fallisce, il risultato è il ridicolo,
è cioè la espressione in cui l’autore diventa oggetto e non soggetto
di comicità, per la sproporzione fra la intenzione e la esecuzione, fra il
tentativo di canzonare altrui e il risultato della propria derisione. IL PENSIERO POLITICO.
Siccome lo si è già anticipato
come continuazione e sviluppo di quello del Millecinquecento, ne riprenderemo i
risultati in sede di analisi del costume, perchè rivela lo sforzo di ricondurre la condotta politica alla norma morale, segno
della coscienza etica della società. B)
SENSIBILITA’ O GUSTO DELLA
SOCIETA’ ITALIANA NEL MILLESEICENTO Riesponiamo
alcuni princìpi psicologico-estetici per comprendere come si
possa dare una sensibilità comune in una data società di un certo tempo,
nonostante la proclamata congenialità assolutamente personale della qualità e
della forza di vita emozionale, che parrebbe
dover rinchiudere ciascuno nella sfera inviolabile ed incomunicabile della
propria specificazione emotiva. Siccome l’imporsi di una tonalità emotiva in
un’epoca storica ed area geografica, non solo in sede artistica (letteratura,
musica, arti figurative), ma anche nel costume pratico (vestiti, colori, gesti,
arredamenti, linguaggio sociale...), è dimostrata dal dato storico del loro
esistere, vuol dire che, semmai, dobbiamo rinnegare
il principio psicologico ricordato: difatti, “contra factum non valet allatio”
(contro i fatti non contano princìpi nè autorità). Ma non ce n’è bisogno. Anzitutto
tutti gli uomini sono dotati di una gamma completa di registri emozionali:
quando abbiamo parlato di toni
lirici tipici di un poeta,
ci si riferiva alla potenza eccezionale
o di tutta la gamma lirica o di un suo registro privilegiato.
Anche Petrarca, che è così specializzato nei toni contemplativi dell’idillio
e dell’elegia, ha poi qualche sonetto di violenza drammatica (La gola e il
sonno e l’oziose piume| L’avara Babilonia ha colmo il sacco| Fontana di
dolore, albergo d’ira) o di epopea esultante (Benedetto sia il giorno e ’l
mese e l’anno...) riusciti. Il privilegio sta nella potenza e frequenza
espressive: non si tratta di un “tutto o niente”, ma di “un più o di un
meno”, all’interno del lirismo sia dei poeti maggiori, sia degli artisti minori, sia dell’uomo comune,
quello capace di entrare in risonanza con gli affetti altrui, ma non di
esprimerne di propri in forma “epidemica”
(comunicativa, vogliamo dire). Come, allora, si possa imporre il fenomeno di
una moda è presto detto: avviene per una
legge psicologica che vorremmo chiamare “gravitazionale”. Tutti
aspiriamo al massimo di valorizzazione delle nostre doti e la via quasi
obbligata a raggiungere tale scopo
è quella di imitare quanti dominano in
quelle attività che sono aperte anche alle nostre facoltà (od illusioni...).
Se, dunque, all’orizzonte di una
certa società si affaccia un artista con una carica emotiva così elevata da
affascinare un po’ tutti (Petrarca), senza che essa sia, per altro, così
folgorante da scoraggiarne la imitazione (Dante), allora sorge nei “coboldi e
nei pigmei” della sensibilità il
bisogno di imitare il gigante e quasi la provocazione a sfidarlo, per
eguagliarne la grandezza o addirittura superarlo. Resta scontato che il
“genio” è un fuori classe, che prende bensì spunti
dalla moda imperante, ma sostanzialmente ne prescinde e la supera,
creandone eventualmente un’altra o
rinchiudendosi in un suo splendido isolamento.
Ne discende il fenomeno per cui una stella di prima grandezza impone
per un certo tempo la propria sensibilità ad una schiera di verseggiatori, che
cantano (discretamente) o belano (miseramente) al ritmo del suo flauto magico.
Cioè, pur potendo teoricamente ciascuno dar forma a molti spunti emozionali
attraverso la qualsiasi potenza di lettura della
sua facoltà intellettuale, gli artisti minori (della parola o del
disegno, del colore o della plasticità, dei rapporti fra pieni e vuoti o tra
note ed accordi) per la suggestione del modello finiscono per privilegiare
determinati stati d’animo (a costo di fingerli: vedi petrarchismo) e favorire
così, attraverso il loro
gregarismo, il costituirsi di una “scuola” poetica” (o, comunque,
artistica) caratterizzata da riuscite (o velleitarie)
aure ed aree liriche. Una variazione di tale spiegazione causale
dell’insorgere di mode nel campo della sensibilità o gusto letterario, vede
al principio di essa non un artista d’eccezione, ma una massa di autori
secondari, potenziati dal concorso di forze politiche ed economiche, per cui
essi -che già costituiscono una cooperativa di “mezzi uomini o di ominicchi,
di ruffiani o di quacquaracquà”- diffondono in altre regioni geografiche ed
in altre società culturali la loro predilezione per un certo atteggiamento
emozionale, silenziando od emarginando le altre tonalità. Si è creata una
“scuola poetica” anche per questa via,
con la convergenza cioè di molte
forze minori. Ricercando,
dunque, le sorgenti della
sensibilità peculiare del nostro secolo, troviamo, quale capofila
del gusto, nelle espressioni letterarie del Milleseicento, Torquato
Tasso. La sua è una sensibilità che, pur nella completezza complessiva,
privilegia entrambi i toni
drammatici (epopea e tragedia) e quello dell’elegia (dominante fra i registri
contemplativi), con qualche cedimento al fascino subpatologico
dell’esagerazione (anzi della “esaggerazione”!),
cioè con tentazioni di enfasi e di
musicalismi stentorei nel campo drammatico, di patetismi e languori nel caso
dell’elegia. Ma non
meravigliamoci se il magistero del Tasso dia frutti specialmente sulla direttiva
dell’enfasi e della stentoreità: i secentisti non insisteranno sulla elegia,
sicchè anche gli aspetti negativi della vita saranno gridati ad esprimere
orrore o terrore. Una prova? la frequente descrizione di ogni tipo di orologio
nella lirica secentesca richiama la morte, incutendo più paura che pietà.
Troppe volte l’arte barocca lascia l’impressione degli antenati di
don Rodrigo nel c. VII del capolavoro manzoniano: laici od ecclesiastici,
guerrieri o badesse, tutti incutono
terrore anche dalle tele che li raffigurano. Ma è facile capire la
emarginazione (o la traduzione in tragedia) della sensibilità malinconica: il
Tasso non era l’unico pedagogo cui guardavano gli scrittori in versi del
secolo; e gli altri “direttori d’orchestra” non erano propriamente dei
simpatizzanti per la contemplazione in genere e per la tristezza in particolare.
Vi era, poi, come sappiamo, la tradizione della
espressione ingegnosa che, da Marcabruno a Petrarca, dal Tebaldeo
all’Ariosto, dalla Canace dello Speroni al poema stesso del Tasso, urgeva
sul mondo letterario. Avanzava vistosamente
l’arte figurativa, che, dal Manierismo del dopo-Michelangelo, si
definiva ormai nei canoni propriamente barocchi , ove la pittura invade
il campo della scultura, con prospettive illusorie di
(dar la impressione di) continuare verso l’aperto , oltre la chiesa,
fino al cielo. Tutto l’insieme pare più una scenografia da teatro che una
imitazione della realtà, più una distrazione per visitatori curiosi che un
invito al raccoglimento della preghiera, più uno sfoggio di bravura che una
espressione di affetti. Troppa luce, troppa folla di personaggi, troppa
gestualità spettacolare. Noi crediamo che il teatro (che in Spagna come in
Francia, in Inghilterra come in Italia, va
affermandosi) abbia avuto la sua parte di influsso sull’arte figurativa
come sul costume sociale: esso fondeva recitazione e coreografie, danze
e piroette, pitture per le scene e musica per intermezzi o per l’intero
dramma pastorale...[28]
E
qualcosa di teatrale ha anche il costume spagnoleggiante, che invadeva
corti e città, con gli abiti a sbuffo, le gonne a campana (guardainfante), i
colori sgargianti intonati sull’autunno (dal giallo al marrone) le
“cerimonie”di incontro e di addio,
i diritti di precedenza e la distinzione perentoria fra “galantuomini
nobili” e “mascalzoni plebei”[29]:
il tutto, a colori forti, mentre lo sfumato leonardesco scompare. Non farà,
dunque, meraviglia che anche la letteratura del secolo XVII manchi di intimità,
raccoglimento, finezza e sfumature: vuole sbalordire, non commuovere;
trascinare, non sedurre; sconvolgere, non avvincere. Ecco allora lo stile
“rozzo insieme ed affettato” che Manzoni ha immortalato nella
imitazione comica della “Introduzione” al romanzo di Renzo e Lucia.
Shakespeare direbbe che nell’anima barocca vi è “Much
fuss about nothing”. Ma alle spalle di queste manifestazioni clamorose,
noi siamo propensi a vedere
l’azione di fattori neurovegetativi (di temperamento), prima che
influssi ambientali. E’ il tempo in cui prevale una cultura della
estroversione, della vita in piazza, del gridato e gesticolato come è
proprio dei popoli meridionali d’Europa (e, in Italia, più di Napoli che di
Firenze, più di Venezia che di Milano, più di Roma che di Torino). Se questo
è vero, si può tentare di
approfondirne le cause biologiche[30]. Siamo di fronte ad
un’epoca in cui ha preso il
sopravvento la cultura delle immagini e dei colori, del movimento e della
scenografia? Allora si tratta del prevalere della gente che ha più
sviluppato l’emisfero destro, dove tali doti trovano la centrale di organizzazione,
che non l’emisfero sinistro, deputato invece (con la “zona di Wernicke”) a
condizionare il pensiero astratto, la coscienza riflessa, il giudizio ed il
raziocinio (o procedimento sillogistico). E’ la cultura di Pulcinella e di
Arlecchino, cioè degli ingegnosi
guaglioni, sprovvisti di lauree o di particolare intelligenza, ma dotatissimi di
raggiri, di trappole, di imbrogli per “tirare a campà”, per arrangiarsi,
per trarsi d’impaccio: la parola non è strumento di pensiero, ma di azione;
non cerca la verità o la bellezza, ma l’utilità ed il vantaggio; è a
servizio dell’emisfero destro, specializzato nel dinamismo e nella concretezza
spaziale, cioè nel governo (management) della prassi, non nella riflessione contemplativa
ed idealizzante, cioè nella invenzione filosofica. Il
risultato, comunque, è quello detto. Mentre la plasticità muscolare di
Michelangelo era a servizio di idee pertinenti ed esprimeva ideali sublimi ed
emozioni sconvolgenti, incarnate in tutto un contesto di mimica facciale, gesti
e ambientazione, ora essa diventa sfoggio di abilità pittorica a sè stante,
che non comunica alcuna emozione estetica, perchè
ha alle spalle solo il
sentimento pratico di voler impressionare ad ogni costo: la pretesa imitazione
diventa scimmiottamento penoso, perchè rifà
la materialità della tecnica, non lo spirito delle idee e delle emozioni. In
campo letterario accade qualcosa di simile: Petrarca rimane il conclamato
maestro, sia pure mediato dal Tasso, ma alla sua intimità sofferta si
sostituisce un vociare sguaiato, un chiasso indiscreto, una grandine di
particolari, ripetizioni, similitudini, sinonimie, concettini che, anzichè
comunicare lo stato d’animo, solo intuibile sotto l’orgia delle
parole, distraggono la mente in varie direzioni curiose o sommuovono
verso l’agitazione del cuore e la dissipazione
dello spirito. D’altronde, anche la letteratura si fa ancella delle
arti figurative: il Marino ha una raccolta di versi (intitolata La
Galeria) che vogliono
riprodurre in versi, descrivendole, opere pittoriche, mentre la versificazione
sugli orologi è tema frequente (lo si è detto) dei letterati secentisti. A lasciarsi ispirare da qualche affetto gentile
rimangono solo due scrittori: l’astigiano Federigo Della Valle (autore di
tragedie che esprimono, però, non
orrore, ma elegia: è un contemplativo che piange su Maria Stuarda e segue
trepidante l’impresa della forte Giuditta nella Bibbia cristiana) ed il
napoletano Torquato Accetto (Della
dissimulazione onesta: trattato di spiritualità politica). Solo questi due
scrittori, chè anche gli altri, pur non secentisti, o polemizzano (come Paolo
Sarpi e Galileo Galilei) o ridono chiassosamente
come Alessandro Tassoni e Francesco Redi o scrivono versi
programmaticamente “pindarici, ma
enfatici e stentorei”, come Gabriello Chiabrera (in parte) e Fulvio
Testi (in tutto). Ci pare di
poter concludere che la sensibilità del Milleseicento fosse dominata
dall’enfasi,
da sentimenti esagerati nell’ambito dell’esaltazione epicizzante o
dell’orrore sconvolgente o della comicità plateale: manca, nel complesso il
senso della contemplazione nella gioia pacata e nella tristezza dolce, della
gentilezza e della commozione, delle sfumature e del pudore dei propri
sentimenti. Troppo chiasso, troppo vociare, troppo sbracciarsi: troppo
rumore per nulla. L’enfasi
deve esser considerata anche in senso negativo, come nel ricorrere ossessivo del
termine “orrore” e nelle descrizioni
di terremoti o degli orologi (clessidra, a pendolo, meccanico od “a rote”)
che conducono a meditare sul carattere effimero della vita umana e
sull’incalzare della morte (onde altre rime sulla vecchiaia, sul teschio,
sullo scheletro, sulla tomba, sul mal della pietra che affligge più di un
poeta, sulla morte stessa). Ma si
presenta anche quale esaltazione di una qualità
nuova, diversa rispetto alla poetica tradizionale , come la celebrazione delle
donne vecchie, mendiche, serve o lavandaie, balbuzienti, zoppe, nane, mute,
pidocchiose, losche (guerce), miopi (ed occhialute), spiritate, perfide,
bugiarde, scapigliate, impazzite, indemoniate, malate, sdentate,
col neo in faccia, o dai capelli neri o rossi, contro il precetto -dominante dai
Provenzali al Rinascimento- per il quale la donna affascinante non può essere
che bionda; o addirittura di una cortigiana frustata. Infine vi è la descrizione
di animali sontuosi e sgargianti, come il pavone (Adone, VI, 79-ss; Giovanni
Canale...), il pappagallo, l’ermellino; oppure velenosi (la tarantola), ovvero
minuti e deliziosi, come la lucciola (la rimeria del secolo è frequentatissima
da questo coleottero) o la farfalla; oppure fastidiose, come la mosca, la
zanzara, la cicala, la pulce (magari sul seno della donna!). Vi è poi la
celebrazione di passatempi antichi come l’uomo, ma eseguiti con strumenti
nuovi: poesie sulla caccia coll’archibugio,
con lo scoppio della miccia.... Ma non
c’è, per caso, un’attitudine della sensibilità che è almeno
parzialmente diversa, perchè è cosciente della distorsione di
quella prevalente; e ne soffre o almeno la contesta, a costo di fare ciò
alzando essa pure la voce e finendo per far coro con la tonalità maggiore della
musica dominante, che accusa
senza riuscire a mutarne il
registro? Ci riferiamo alla interpretazione che dello spirito barocco tenta
darne Carlo Calcaterra nel suo studio “Il Parnaso in rivolta”, cui vanno
aggiunte le pagine di F. Croce “La discussione sull’Adone” (in Rassegna
della Letteratura italiana, LIX, 1955, pp. 414-439) e
qualche nota nel c. I de “Il Seicento” vallardiano di Carmine Jannaco.
Purtroppo Calcaterra è più informato che preciso, più brillante che coerente,
più acuto che profondo nel suo tentativo di rappresentare l’animo del secolo.
Dapprima ruba un termine al poeta antimarinista Tommaso Stigliani e parla di “svogliatura”
del secolo: consisterebbe in una nausea per il quotidiano ed in una ricerca del
“nuovo” per uscirne fuori. Avendo trovato, poi, in un libro dell’abate
Secondo Lancillotti il titolo
“Hoggidì, overo il mondo non peggiore nè più calamitoso del passato”,
egli tenta accostare alla svogliatura tale “hoggidianesimo”,
visto che questo consisterebbe in un disorientamento dello spirito, così che
l’ideale del secolo vien posto nel “vivere alla giornata”, in un
atteggiamento che varia tra la rassegnazione e il godimento opportunistico. Si
tratterebbe di una “inconsistenza o spaccatura dell’anima in barocco”, che
si abbandona poi alla esuberanza insensata del dire e dell’agire: “alla
giornata”. A questo punto si domanderebbe invano a Calcaterra se nell’hoggidianesimo
prevalga la componente della crisi e della conflittualità o quella dello
scetticismo e del cinismo. La colorazione della sensibilità del secolo ne
uscirebbe ben diversamente caratterizzata: nel primo caso, avremmo un gusto
prevalente per il dramma e la elegia; nel secondo, una sensibilità inclinata
alla insensatezza, di cui l’enfasi e l’eccesso sono un possibile corollario.
Vogliamo dire: che alle spalle di un drogato vi sia una
condizione di delusione e di
sofferenza è spesso vero; ma che il carattere
della sua espressione, quando è in fase di ebbrezza, rimanga in ogni caso
quello carnevalesco della balordaggine esaltata, è fuori discussione. Ora, se
anche fosse vero che a monte dello spirito giocoso e ridanciano del
letterato medio secentista stia un turbamento interiore, una
insoddisfazione per mancanza di punti fermi e di certezze etico-religiose, resta
il fatto che la sua espressione è intonata piuttosto sul risultato del
superamento od emarginazione della crisi originaria, risultato che è quello
del commediante, anzi del pagliaccio o della maschera che ride senza
lasciar trasparire la propria miseria. E allora non si è approdati
ad un’altra faccia della sensibilità secentista, ma solo alla ipotesi
di una situazione pregressa, che non lascia però tracce nelle
manifestazioni concrete degli scrittori concettisti. Ricadiamo,
cioè, nell’enfasi. E si dà anche una terza proposta interpretativa
dell’anima secentista, della sua sensibilità peculiare. E’ quella della sensualità, che B. Croce predica come
caratteristica della poesia del
secolo (“Introduzione” alla raccolta “Lirici del seicento”, che fu il
volume d’apertura della gloriosa collana degli “Scrittori d’Italia” di
Laterza, nel 1910; e “Storia dell’età barocca”, Bari, Laterza 1957, p. II,
c. 5). Ora, se tale sensibilità si prende candidamente e senza suddistinzioni,
va detto che, da una parte, l’umanità ha una carica di erotismo praticamente
stabile in ogni generazione della storia e luogo della terra, per cui non può
individuare nessuna cultura; dall’altra, che la sua
manifestazione, sia figurativa che verbale, non interessa l’arte,
“per la contraddizion che nol consente”: la sensualità è attività
sommamente pratica e, perciò, sommamente lontana dall’arte, che è
espressione libera da ogni riferimento a finalismi
utilitari della vita. Ma il Croce tenta una specificazione della
sensualità secentesca, parlando di un “sentimento
sensuale”, di una “sensualità sospirosa e deliquescente pur tra i più
vivaci e caldi colori”. Ed afferma ulteriormente “Il sentimento si faceva
sensuale ed il sensualismo si faceva serio, appunto perchè, vivendo solo esso
negli spiriti, era incapace di compiersi e superarsi con altri e in altri
sentimenti, e insieme rimaneva intatto dalla riflessione intellettuale e dalla
reazione comica, che lo avrebbero collocato al suo posto e trattato con allegra
superiorità” (Storia dell’età barocca, pp. 316-7).[31]
Ma contro tale ipotesi per definire il “gusto o
sensibilità” della società italiana nel Milleseicento, stanno due obiezioni:
una deduttiva ed un’altra induttiva
Teoreticamente od “a priori”, che possa darsi un
sentimento “sensuale” ci pare una contraddizione in termini.
L’espressione “sentimento sessuale” si potrebbe anche
tollerare, intendendo l’affetto dell’uomo per la donna e viceversa,
finalizzato al (ma non ancora colorato dal) l’erotismo. Di fatto, però, non
si usa, per la troppo facile confusione, che ne nascerebbe, tra pura
affettività ed erotismo appunto. In conclusione, di un “sentimento
sensuale” è solo Croce che parla, confermando quella ottusità psicologica,
che è certamente una delle cause alla
povertà del suo sistema
filosofico. A posteriori, cioè leggendo la poesia del secolo, dobbiamo
costatare che la sensualità del Millecinquecento era ben peggio: che tutto lo
scandalo di Croce nasce dal fatto che l’espressione impudente dell’erotismo
(al modo di Boccaccio, per intenderci) era scoraggiata ed impedita e che, perciò,
gli scrittori renitenti si barcamenavano con accenni ambigui e descrizioni al
limite della oscenità. Anche il caso de La
Pastorella del Marino, citato dal Croce come esemplare in proposito, è
ben lontano da certi sonetti e dei poeti laici del Millequattrocento e di quelli
anche ecclesiastici (del giovane Della Casa, specialmente) del Millecinque.
Anzi, nella Pastorella ci sono solo alcuni settenari sui baci che, come
concetto, concedono troppo alla sensualità (i baci si danno sulla bocca): ma il
modo concreto in cui sono scritti li rende innocui, perchè ne sono una specie
di filosofia (perchè solo il bacio sulla bocca permette la giustizia della
restituzione!). Dire sensuale una tale (povera) lirica è voler cercare il pelo
nell’uovo. Caso peggiore è certo
quello dei canti sette-otto dell’Adone, ma non per nulla l’opera fu messa all’Indice dei libri proibiti, anche se
la neutralità del governo francese rispetto ai decreti tridentini ne permise la
circolazione. In coscienza, dichiarare meno corrotta, perchè più libera ed
allegra, la sensualità pretridentina
rispetto a quella delle generazioni succedute, ci sembra un giudizio nato da
preconcetti ideologici, che impediscono la visione oggettiva della realtà.
In fin dei conti, Lutero insorse proprio contro la
corruzione aperta del Rinascimento italiano: se ne è scordato il Croce,
che a Lutero è pur favorevole? Ipotizzare
una malizia peggiore di quella, aperta ed imperterrita,
per il solo fatto che, espressa indirettamente, diverrebbe più sottile
ed immedicabile, ci sembra un sofisma nato e nutrito da pregiudizi di
parte . In conclusione, neppure la proposta di Croce ci sembra
di aiuto alla comprensione del
gusto degli italiani nel Milleseicento. D’altronde, la immagine di quella
sensibilità è nel complesso intesa da tutti come esagerazione di sentimenti
ottimistici (nei casi migliori, specie in sede di arte figurativa) o addirittura
come boria ridicola (nei casi peggiori, specie in campo letterario),
per cui non ci pare valga la pena
di andare a ricercare chissà quali complessità in un fenomeno
clamorosamente, ingenuamente trasparente. Ci pare invece che rimanga un’altra domanda
fondamentale: questa enfasi spagnolesca o
secentista o barocca è comune a tutta la popolazione o limitata ad una èlite
di intellettuali, seguaci di
una moda artificiosa e ridicola? Credo che la risposta sarebbe molto difficile, se non avessimo esempi di ogni epoca
per intravedere la verità. Per
rimanere a tempi a noi vicini e, perciò, controllabili, proviamo a domandarci
se la cultura italiana, tra la fine della seconda guerra mondiale (1945)
e la caduta del muro di Berlino (1989), fu tutta (od in grande maggioranza)
permeata dal marxismo petulante ed aggressivo; oppure se tale mentalità e
simpatia furono l’atteggiamento solo di un
limitato numero di intellettuali, sia pure stentoreamente vocianti; e di
una minoranza di plebe, sia pur
violentemente militante, mentre la massa
(sia degli intellettuali che del normale popolo
italiano) costituivano la “maggioranza silenziosa” che, in parte
cristiana ed in parte razionalista, era
comunque antimarxista. In certi casi, la cultura di una società la si definisce
“a potiore” in base non tanto alla maggioranza numerica, ma
a quella qualsiasi parte che ha fatto più fracasso per la novità degli
assunti sbandierati o per la capacità di accedere ai mezzi “pubblicitari”
del tempo, così da apparire anche
quantitativamente la più forte. Questo ci pare anche il caso della sensibilità
o gusto del secolo XVII. L’enfasi, intanto, non invase la Toscana: gli
scrittori di Firenze e dintorni
rimasero “stenterelleschi”, cioè parchi di parole e densi di concetti.
Dallo spirito barocco è alieno il maggior poeta del secolo, il modenese
Alessandro Tassoni; sostanzialmente
immuni dal gusto insano rimangono l’astigiano Federigo Della Valle e il
napoletano Torquato Accetto. Anzi, in questi ultimi scrittori che, dal Piemonte
alla Campania, spazzano si può dire tutta la penisola, troviamo una mitezza ed
umiltà, un tono dimesso che è l’opposto dell’enfasi e della
vanità supponente che abbiamo sospettate sottostanti al gusto barocco.
Il ligure Gabriello Chiabrera (di Savona) ed il ferrarese Fulvio Testi
non mancano di atteggiamenti grandeggianti (pur dovendo riconoscere che
il Chiabrera è più felice nelle ariette ed odicine leggere). Il Chiabrera,
dunque, tenta la imitazione di Pindaro; Fulvio Tesi, dopo un periodo secentista
giovanile, passa ad una poesia di celebrazioni presuntivamente epicizzanti,
celebrative e sostenute, pur nello stile sobrio
della classicità. Ma essi rimangono nei limiti della ingenuità rintracciabile
in ogni secolo. Vogliamo dire: non è affatto
necessario vedervi atteggiamenti consapevolmente presuntuosi
ed enfatici; si può ben trattare, invece, di un senso di dovere ad
esaltare (e di soddisfazione nel farlo) personaggi od avvenimenti degni di
ricordo, anche se “non eran da ciò le loro penne”, cioè non avevano ali
per volare così alto. Scrittori di tale buona volontà, ma insufficienti alla
nobile intenzione, se ne trovano in ogni secolo: basti il caso del Petrarca, che
si attenta candidamente al tema
epico in “Italia mia” ed in “Spirto gentil”, con risultati poetici solo
mediocri. E siccome l’enfasi è una deviazione patologica
della tensione epicizzante, allora dobbiamo dire che
questa ultima prevale e
attinge la genialità artistica in molte opere architettoniche e scultoree, che
pure denunciano marginalmente la loro parentela con il barocco per qualche
notazione residua di eccesso, non
sublimato a puro lirismo, di dramma solenne e gioioso (epopea, appunto). Si
vedano, di Gian Lorenzo Bernini, il colonnato in piazza S. Pietro, la
coreografia dei quattro fiumi in piazza Navona, la fontana del Tritone e la
tomba di Urbano VIII, per non parlare della estasi di S. Teresa; si tengano
presenti i capolavori “in barocco” di Francesco Borromini, dalla chiesa
dell’Oratorio San Filippo a quella di San Carlino, dal collegio di Propaganda
Fide alla Basilica di San Giovanni in Laterano, da S. Ivo alla Sapienza a S.
Agnese a piazza Navona... E si potrebbe anche citare la musica di Monteverdi,
che inaugurava la composizione moderna (come
Palestrina, nel secolo XVI, aveva concluso quella medioevale, più elaborata,
col contrappunto). Anzi,
domandiamoci se gli stessi aspiranti allo stile sublime del concettismo, quasi
ad apice di ogni potere ed intellettuale ed estetico, non tendessero il loro
animo alla volontà di enfasi solo quando scrivevano e, nell’attività stessa
scrittoria, solo nei momenti ritenuti più meritevoli di tale attitudine
interiore (enfasi| epopea| solennità di intonazione), mentre procedevano,
per il resto, più umanamente semplici e spontanei.
Perchè dobbiamo riconoscerlo: vivere in
una condizione di spirito così sofisticata ed enfatica
richiedeva uno sforzo che poneva lo scrittore a rischio della nevrosi
(“esaurimento nervoso” è linguaggio superato, ma molto più adeguato al
nostro caso). In fin dei conti, il borioso spagnolo, che sfoggia abiti
sgargianti, è lo stesso che
esige, poi, nel testamento, di venir
sepolto vestito... perchè non ha
una camicia indosso (Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso). Manzoni
sentenzierebbe: “Ciò che va nelle maniche non può andare nei
gheroni”. E dice, a proposito del
“dilavato manoscritto” che egli pretende di aver decifrato: “Ben è
vero... che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla
distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere
in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per
lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano” (Pr. Sp.
Introduzione). Come volevasi dimostrare. A casa
sua, con la moglie e la famiglia, il letterato parlava alla mano, con
naturalezza e distensione: a meno che non si chiamasse don Ferrante (che è però
caso solo romanzesco, inventato “maligno” scrittore per offrire un’icona o
una sintesi del peggio, non della norma, di una anima “in barocco”).[32] Anzi, non ha tutti i torti Mario Praz che nella
Enciclopedia Treccani, alla voce “Secentismo” sostiene esservi spesso sincerità sotto le sgorbio del giochetto di parole.
Egli cita il caso della equazione barocca messa assieme da John Dunn: questi
esprime con una uguaglianza concettista
un momento tragico della propria vita familiare, giocando sul proprio cognome e
sul nome della moglie che finiscono
per identificarsi col suono di “disfatti” (John Dunn, Ann Dunn= Undone): non
poteva voler scherzare in un simile momento! E Giovanni Papini ricorda che “
Come il sublime è ad un passo dal ridicolo, anche l’alta metafisica è ad un
passo dall’assurdo e l’alta mistica ad un passo dalla eresia. Chiunque va al
fondo delle questioni e dice cose nuove è costretto a usare espressioni che
paiono giochi di parole o contorcimenti paradossisti.... Quando Gesù dice che
chi vorrà salvare la sua vita la
perderà ma chi l’avrà perduta la ritroverà; ch’è venuto a salvare il
mondo affinchè i ciechi veggano e i veggenti diventino ciechi, che a chiunque
ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha, e chiunque si
innalzerà sarà abbassato e chiunque s’abbasserà sarà innalzato, siamo di
fronte ad espressioni profondissime e divinamente esatte ma che hanno tutta la
parvenza di paradossi” (Sant’Agostino, Mondadori, p. 957: due pagine più
avanti, Papini cita molte espressioni del santo di Ippona, vicine a queste del
Vangelo e, stilisticamente almeno, a quelle degli scrittori barocchi).
Espressioni altrettanto vere nella loro aggrovigliata contrarietà si possono
vedere in Anselmo d’Aosta, quando prega così il Signore “Insegnami a
cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, nè
trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri
cercandoti, che ti trovi amandoti e ti ami trovandoti” (Proslogion, c. 1).[33]
Nell’antichità Eschilo, nella Orèsteia, introduce un messaggero ad
annunciare l’uccisione di Egisto e di Clitennestra da parte del creduto morto
Oreste, con la frase: “Dico che i morti uccidono i vivi!”.
Espressione tragica, in cui il contrasto fra realtà e
opinione crea il gioco di
parole. Ancora qualche osservazione per cercare di dimostrare
come il sentire
non è tutta la vita, anzi ne è la parte meno importante. Nei Promessi
Sposi, al c. 36, è riferito il discorso che p. Felice Casati rivolge ai
guariti dalla peste, che si avviano alla quarantena, fuori del Lazzaretto. I
pensieri furono espressi davvero: almeno se ne ha certezza sufficiente, perchè
Pio la Croce li apprese da testimoni degni di fede (anche se non oculari),
sintetizzandoli poi nella sua
“Memoria delle cose notabili successe a Milano intorno al mal contagioso
l’anno 1630”, libro edito ad un secolo preciso di distanza. Manzoni li
traduce in una forma liricamente sublime, capace
di trascinare anche un lettore non credente alla commozione. Ma è difficile
immaginare che p. Felice Casati
abbia parlato con la proprietà ed
efficacia di linguaggio del Manzoni.
Alla lettura delle parole, ti assale
un nodo di pianto, in cui si
sovrappone l’emozione elegiaca ( per l’immanità dei dolori descritti)
e quella epica (di fronte alla fede granitica ed all’eroismo dei
cappuccini volontariamente accorsi al servzio, al sollievo, alla condivisione di
quei dolori). Il brano manzoniano sembra insuperabile nel comunicare lo spirito
di carità -nei frati- e di
sofferenza – nelle persone ricoverate in quel luogo-. Insuperabile nelle
espressione verbale, d’accordo. Ma nel profondo dell’animo, nella totalità
della partecipazione personale (convinzione della mente, adesione della volontà:
pensieri, atti, parole), chi era il
più degno di quei concetti? Colui che li cantava con tanto lirismo o colui che
li accoglieva, viveva, pagava così radicalmente?
La risposta non può essere dubbia: il genio letterario si
lascia sospettare un pigmeo, rispetto al “mirabil frate”, al gigante
dell’amore cristiano. Su questa linea si potrebbe trovare una risposta
al problema posto dal Manzoni stesso di fronte ai molti libri scritti dal
cardinal Federigo Borromeo e caduti in oblio. Gli è che il cugino di san Carlo
viveva la sua missione con tutto il
suo essere, ma non necessariamente sapeva tradurla in espressione verbale
attraente e coinvolgente, artisticamente viva perchè
purificata dalle componenti pratiche e soggettive, tradotta in forma
universale perchè libera da ogni riferimento individuale. Non c’è
necessariamente adeguatezza tra intensità di partecipazione ad un avvenimento e
la sua espressione verbale o figurativa, musicale o cinematica.[34]
Un esempio “a contrario” lo si può trovare nella Chiesa di Polenta di Giosuè
Carducci: l’ode, già complessivamente grande, ascende alla sublimità nel
famoso finale (“Salve, chiesetta del mio canto...”). Se tutta la poesia è
un eccezionale omaggio all’opera civilizzatrice della Chiesa durante il caos
delle invasioni germaniche e
l’imbarbarimento conseguito, le strofe conclusive dell’ode risultanto
addirittura uno squarcio di poesia religiosa di eccezionale forza lirica. Eppure
Carducci, a stento, credeva in Dio; ed era anticristiano come si addice ad un
massone coerente. Che valore dare allora alla espressione commossa del poeta? Può
la sua relgiosità esser stata più
intensa rispetto a quella delle suore di clausura a Bologna che pregavano per la
sua conversione, ma che culturalmente ed artisticamente erano poco più che
bambine? La partecipazione emozionale (avverte la teolgia cattolica e la
ragionevolezza umana) non entra nel valore della preghiera, perchè è un dato
congeniale e spontaneo, non meritorio, in quanto non dipende dalla volontà
dell’orante. Ed è, sostanzialmente, tale volontà di bene che determina la
carità dell’azione: il fervore, piuttosto
che il silenzio, della sfera
emotiva è un plus-valore gratuito e accidentale. Venendo al nostro problema, diremo che il
momentaneo o sistematico accedere all’enfasi barocca durante l’operazione
poetica (o presunta tale) non rivela necessariamente la sostanza della
psicologia o “gusto o sensibilità” dell’autore, il quale può ben
essere non tanto un vanitoso in cerca di gloria a facile prezzo, quanto un
ingenuo che si illude di esprimersi liricamente seguendo
le regole più diffuse della
concezione poetica a lui contemporanea. Che tale “ingenuità” non deponga a
favore di una intelligenza sublime,
deve concedersi; che automaticamente debba deporre a condanna della sua
concezione e sentimento complessivo
della vita, sarebbe sproporzionato alle premesse, perchè il significato e
valore della vita di una persona non si possono eguagliare alla sua capacità di
proiezione artistica, di espressione estetica.[35]
Non dimentichiamo che proprio Manzoni non è lontano dal condividere l’idea
che il volgo ha del poeta: “un cervello bizzarro e un po’ balzano, che,
ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del
ragionevole” (c. XIV). Anzi
l’enfasi poteva nascere da un attitudine psicologica ancora più seria e
moralmente esigente. Immaginiamoci, qui, l’anima spagnola che non conosce
mediocrità o compromessi. Il sangue
dei Visigoti invasori, mescolato con quello dei romani e degli degli aborigeni,
non ha fatto altro che rendere più accentuato
quella tendenza alla semplificazione ed estremizzazione, che segnano il
temperamento del popolo ispanico già con Seneca (tragedie) e Lucano (la
Farsaglia). Posta questa psicologia della chiarezza fino
al semplicismo e della coerenza sino
al paradossale, anche la espressione della autorità diventa un
“affare di coscienza morale”: chi è a capo, ha doveri e responsabilità;
chi ha doveri e responsabilità deve avere onore e dignità, che sono condizioni
necessarie per far fronte agli impegni suddetti; chi ha onore e dignità deve
difendere tali prerogative anche nella espressione solenne e grandiosa, affinchè
i decreti autoritativi (autentici) siano rispettati con timore e osservati con
reverenza. Insomma, la difesa dell’autorità è una espressione (e
facilitazione) dell’obbligo che ha di servire i sudditi; essa, quindi, va
sostenuta per il bene stesso del popolo beneficato, pena la incapacitazione
a tale ufficio e dovere, a causa della disistima e disprezzo che possono
ricadere su di essa. Di qui la solennità anche nei documenti di governo, come
aveva già intuito (uso del “cursus” e di altre gherminelle retoriche) la
“magna curia”dell’imperatore Federico II ed il suo protagonista
indiscusso, Pier delle Vigne. Orbene,
l’effetto ovvio della esigenza di solennità nelle espressione, non
generata da genialità emotivo-epica ma da sforzo intellettuale, è appunto
l’enfasi. Aggiungiamo anche questa osservazione: gli epistolari
di Foscolo, Manzoni e Leopardi hanno delle lettere decisamente ipersensibili,
eccessive nella espressione dei sentimenti, un po’ patetiche ed un po’
enfatiche: per Foscolo, quelle scritte alle varie
amiche; per Manzoni, quelle che sono indirizzate alle signore, in genere;
quelle del Leopardi, un po’ tutte. L’epistolario rivela di solito la figura
morale e culturale dell’autore, ma attraverso le idee, prima e più che
mediante la sensibilità con cui sono espresse. La “forma” emozionale non
dice che un aspetto –e non il principale- della vita interiore dello
scrivente. Quanto alla massa del popolo, allora analfabeta per
lo più, neppure conosceva le scempiaggini del concettismo, così come aveva
sempre ignorato l’artificio della retorica e dell’ornato: il giudizio sulla
grandezza o miseria artistica di una società non può pretendere di elevarsi a
giudizio morale sulla popolazione tutta che la compone. E’ come se, nel fare
la storia del convento di Monza all’epoca dei Promessi Sposi, si dovesse tener
conto solo o principalmente di
Virginia de Leyva e delle suore che avevano tenuto mano alla sua forzata
monacazione, dimenticando le altre che “pie, occupate e ilari, le mostravano
col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci
bene” (c. X). C) IL
COSTUME (CONDOTTA MORALE) E LA VITA PRATICA IN GENERE DEL MILLESEICENTO. Si potrebbe iniziare questa panoramica con qualche
nuova espressione manzoniana, perchè i Promessi Sposi sono ambientati nel
secolo che stiamo studiando e vogliono essere “romanzo storico”, cioè
racconto aderente ai fatti realmente accaduti nella società e nel tempo in cui
sono ambientate le vicende fantastiche
dei protagonisti. E allora il giudizio è
in partenza molto negativo: non
per nulla Manzoni si era formato
nella mentalità illuministica, che disprezzava tutto ciò che aveva
caratterizzato la cultura del Milleseicento;
e gli Spagnoli, che in quel tempo avevano dominato l’Europa. Ed ecco la società
“sudicia e sfarzosa”, che parla in uno stile “rozzo insieme ed
affettato”; ecco la grottesca mancanza di senso critico nella ingenuità
erudita di quel “buonuomo” che è don Ferrante e nell’attività, pur
benintenzionata, di quella donna disequilibrata che è Prassede; ecco don
Martino di Leyva, il principe padre che per non sminuire la ricchezza del casato
con la dote per la figlia Virginia, la costringe subdolamente a monacarsi; ecco
i delitti del convento di Monza, dove Virginia
si vendica della costrizione accettando il rapporto con un malvivente che abita
a ridosso del convento e, per tacitare scomode testimonianze, non esita a
spingerlo ad un duplice assassinio; ecco il potere dell’ambizioso ed inetto
conte zio del consiglio segreto, che diventa zimbello della protervia, dei vizi
e della astuzia dei suoi nipoti; ecco don Rodrigo ed il conte Attilio appunto,
che spadroneggiano nei loro feudi, più forti della giustizia umana e incuranti
di quella divina, pur nell’ossequio formale all’autorità e civile e
religiosa; ecco il puntiglio d’onore ed i duelli che si portano dietro; ecco
l’incapacità del governo spagnolo di Milano (e anche di quello veneziano, a
dir il vero) a togliere di mezzo il
nobile, ribelle e facinoroso,
Francesco Bernardino Visconti che, assieme al fratello Galeazzo Maria, opera
indipendentemente da ogni autorità
e costringe, anzi, potenze altissime a servirsi dei suoi
uomini e della sua incoscienza per raggiungere fini che neppure con gli
eserciti erano in grado di ottenere; ecco le grida che si succedono, tanto
roboanti e minacciose quanto
inette e ridicole,contro la delinquenza dei “bravi”, cioè degli sgherri a
servizio dei nobilotti prepotenti; ecco don Gonzalo de Cordova, che si
disinteressa della fame e del pericolo della peste in Lombardia per
intraprendere una guerra di potenza ed espansione contro Casale in Piemonte,
guerra che poi perderà; ecco
l’incompetenza ed impotenza del medesimo governo a far fronte alla carestia,
alla moria per fame, alla entrata della peste in Milano, incompetenza ed
impotenza pari solo all’arbitrio e sprorporzione dei provvedimenti
spiccioli per tacitare i sintomi, mentre i mali incancreniscono e si
moltiplicano: ecco insomma tutta una situazione di stoltezza e supponenza, di
iniquità ed arbitrio, che rende possibile prendere alla lettera, emarginando
l’ironia, il lamento del capitolo ottavo: “Così va spesso il mondo...
voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”. Allora paiono
giustificarsi i giudizi negativi di Benedetto Croce
ripetuti a più riprese nella Storia dell’età barocca in Italia
(l’Introduzione, suddivisa in Controriforma, Barocco, Decadenza; e la terza
parte, sulla Vita morale), sia di Carmine Jannaco (Il Seicento, Milano, F.
Vallardi, 1963, pp. 479-80). A questo
punto, però, Manzoni deve permetterci di scopiazzare,
elaborare e rammendare un paio di
frasi dal primo capitolo del suo romanzo: “Al sentire elencare simili
accadimenti negativi, verrebbe una gran voglia di credere che tutta la società
fosse caduta in una corruzione nefanda ed immedicabile. Ma la testimonianza di
altri fatti non meno autorevoli e sicuri ci obbliga a credere tutto il
contrario”. Il duello, per
cominciare, era costume ereditato dal Medioevo più barbaro e, se gli spagnoli
lo avevano più fortemente iscritto nel loro costume, esso non era stato assente
dalle contrade italiane, sia come uso facile del coltello per decidere questioni
personali, più frequente fra i poveri delle campagne, sia come istituto
regolato da norme rigorose tra i nobili, specie professanti la vita militare.
D’altronde, tale via incivile e demente di farsi giustizia da sè, si può
dire che venne meno solo dopo la prima guerra mondiale. Ancora nel 1917, il
codice di diritto canonico colpiva di scomunica non solo i duellanti ed i
padrini, ma anche il medico ed il sacerdote che si
tenessero pronti sul posto per curare|assolvere i contendenti: segno di
una Chiesa esasperata per la persistenza del costume dissennato. Si vuol dire: anche
in questi campi, il giudizio circa la elevatezza o meno del sapere|agire va dato
in rapporto anche al passato, non solo in rapporto alle aperture
culturali successive. Allora la valutazione si fa più
equa, anche sui residui di prepotenze feudali, come la monacazione
forzata delle figlie (anche Galileo vi si abbassa, per entrambe le proprie!)
l’incoercibilità dei capricci nei signorotti, serviti da “bravi”
rispettati dagli sbirri, pur
essendo dei fuorilegge a servizio di facinorosi. Abbiamo letto quanto Lamennais
suggeriva in proposito al Manzoni, attraverso al contessa di Sennft: studiare
anche la storia dei secoli precedenti al Milleseicento, per accorgersi che
per secoli e secoli vi era
stato lo stesso (o più grave) “ruisseau de sang”,
dovuto alla presenza di prepotenti, incoercibili
per i deboli governi seguiti
alle invasioni germaniche, specie
se essi erano parenti della oligarchia al potere. Difatti, prima del dominio
spagnolo, la sola presenza degli eserciti di ventura e le continue guerre sia
nel Napoletano (per le lotte fra i Durazzo e gli Angioini, fra baroni e potere
regale) sia al Nord (Venezia e Firenze alleate contro il ducato visconteo e la
sua politica di espansione) erano sorgenti di disordini e prepotenze ben
peggiori. Viceversa, il fatto solo che nel Milleseicento ci fossero delle leggi
contro gli abusi, da parte di nobili potenti ai danni del popolo disarmato,
“gride” inefficaci ma (ciò che non avveniva nei secoli precedenti) ripetute
instancabilmente dai governatori, sta a dimostrare che
si andava rafforzando il senso della
giustizia e che mancava solo l’occasione propizia perchè l’autorità la
facesse rispettare: nella seconda metà del secolo decimosettimo, i “bravi”
e loro malefatte tendono a
sparire (rimarrà solo il “giovin signore”!). Come per la (eventuale)
biblioteca di don Ferrante, anche il malcostume dei bravacci e dei loro padroni
era lo stadio finale di uno
situazione di inciviltà, che diventava tanto più scandalosa quanto era
più eccezionale e quanto più il governo veniva
sentito come non lontano dalla capacità di porvi fine. E’ a questo punto che interviene un astigmatismo,
facile nel giudizio sulle
generazioni precedenti alla propria e che consiste nell’ignorare che un
traguardo recente e clamoroso di civiltà,
raggiunto in un certo ramo
del benessere, del sapere, della tecnica o della vita morale, non è
tutto merito proprio, quasi
miracolosamente la società abbia cambiato la mentalità e la condotta, ma è
invece il risultato di una ricerca secolare di studio e di uno sforzo
generazionale di buona volontà.[36]
Tale disorientamento nel giudizio storico diventa ingratitudine ed ingiusta
accusa contro i propri padri ed antenati, quasi ignoranti ridicoli e pietosi
ingenui, viventi nell’oscurità di tempi bui e nella menzogna di credenze
utili ai dominatori e sfruttatori, immaginati come più o meno cinici. E’ una
mentalità da “parricidio” che si è ripetuta più volte nella società
occidentale: da parte del Rinascimento contro le tenebre del Medioevo; da parte
dell’Illuminismo contro la
mancanza di senso critico (acrisia) del Milleseicento.
Al qual proposito pare lecito chiedersi che cosa penseranno -della pittura
astratta ed informale, della poesia ermetica, della musica rock e pop- le
generazioni che (speriamo presto) avranno il buon senso ed il coraggio di aprire
gli occhi sulla verità dell’arte eterna e sulla enormità del “kitsch”,
trionfante al suo posto nel secolo ventesimo. Ma ecco
testimoni a favore del troppo denigrato “Seicento” italiano.
Ricuperando dati della vita intellettuale, vogliamo ricordare i molti studiosi
di politica, preoccupati di accordare moralità e successo, escludendo il
machiavellismo senza ridurre per
questo il principe onesto a finire sempre perdente, evitando cioè che si
realizzi la eguaglianza fra “uomo buono” e “buon uomo”. Si deve essere
grati a Natalino Sapegno che elogia l’impegno di riflessione di pensatori
quali Ludovico Zuccolo e di Ludovico
Settàla come “il frutto più maturo di un travaglio speculativo, che, visto
nell’insieme, ha qualcosa di imponente e basterebbe da solo a riscattare la
troppo vituperata cultura italiana del secolo XVII” (Compendio di storia
della letteratura italiana, II, p. 285, Firenze, La Nuova Italia, 1963). Ma vi è ben altro. Per capire la stoffa morale della
società italiana del secolo, prendiamo un caso-limite, paragonando i tumulti di
Milano nel novembre 1628 con quelli
del 1814. In entrambi i casi, la
folla è alla ricerca di un capro
espiatorio contro una situazione penosa: il rincaro del pane, nel 1628; il
rincaro delle tasse per le guerre, negli ultimi anni dell’amministrazione
napoleonica. Del primo malanno è accusato
il vicario di provvisione; del secondo, Giuseppe Prina, ministro delle
finanze della Repubblica italiana fin dal 1802. Nel secolo controriformista, il
vicario è salvato dalla maggioranza ragionevole e cristiana della folla, che
impedisce l’assalto alla casa del vicario:
era la stessa gente che, svaligiato
il forno degli Scanzi, si era trattenuta
dal bruciarne un altro, alla
semplice vista di un crocefisso esposto, con due candele accese, alle finestre
dei proprietari. Nel 1814, tramontato ogni potere di coercizione della Chiesa e
subentrata la rivoluzione giacobina, portata in tutta Europa dalle truppe
napoleoniche sulla punta delle loro baionette, il povero
Prina non riuscì a salvare la vita: lo straziarono con ogni mezzo e,
secondo Giuseppe Rovani, per
interessi egoistici e nefandi.[37] Qualcosa del genere si può arguire dalla esperienza
propriamente secentista. E’ trasparente che, almeno nei concettisti veri e
propri, a cominciare dal Marino, la superbia vanitosa è al fondo dello stile
meraviglioso e (per dirla col D’Annunzio) “inimitabile”. Ma almeno quelli
si contentavano di scrivere colla penna: quando Filippo Tommaso Marinetti vorrà
imporre il futurismo al principio del secolo ventesimo, non esiterà ad usare il
manganello per zittire i critici che osavano protestare alle mostre e conferenze
del movimento. Anche qui, la differenza è abissale: e non in favore dei figli
dell’Illuminismo, ma dei discepoli (anche se miserabili) della Riforma
cattolica. La realtà storica testimonia a favore di quegli “enfatici e magari
supponenti spagnoli” che avevano per motto “Per la honra pon la vida; y pon
la dos, la honra y la vida, por tu Diòs”. E dalla maggioranza, religiosamente
consapevole ed impegnata, insorgono
le molte vocazioni religiose, le loro opere di cultura, di misericordia,
di eroismo missionario; nascono i
molti santi ed i laici mearvigliosi del tempo. Il numero
dei religiosi cresceva in misura sorprendente, specie per gli ormai tre
rami dei figli di San Francesco e per i gesuiti. Questi ultimi nel 1626 avevano
372 collegi in Europa, di cui 18 nella sola provincia religiosa che faceva capo
a Parigi e che educava circa 13.000 alunni; nel 1640, nel centenario della
fondazione, i gesuiti erano
cresciuti a più di tredicimila. Erano essi all’origine dei più arditi
tentativi missionari, da padri Matteo Ricci (1552-1610) in Cina, che adottando i
costumi locali e manifestando conoscenze scientifiche notevoli, riuscì a
farsi accogliere ed ascoltare fin nella corte di Pechino; a padre Roberto
De Nobili (1577-1656), in India, che dissipò il disprezzo dei brahmani e delle
classi alte della società indù, facendosi uno di loro in tutto quello che non
contraddiceva alla fede; alla creazione di quelle “Doctrinas o Reducciones”
nell’America spagnola, che sottrasse centinaia di migliaia di indios allo
sfruttamento di encomienderos senza scrupoli e li educò al lavoro costante ed
ordinato, fino a creare un alone di leggenda su mitiche ricchezze
da essi prodotte, che attirerà la cupidigia del governo portoghese e
condurrà alla loro eliminazione nel corso del Millesettecento.
E missionari non furono solo i gesuiti: a migliaia
partivano per le nuove colonie d’America e per l’Asia, in tempi in
cui il viaggio per mare era ancora rischio di morte per intemperie e malattie
sulle navi. Giunsero sino al punto di immischiarsi troppo direttamente in
politica, per amore delle anime, con padre Augen in Francia e p. Skarger in
Polonia: la cosa fu però condannata dal superiore generale padre Acquaviva. Accanto ai Gesuiti, nel secolo XVII rifioriscono i
figli di San Francesco. La famiglia dei Conventuali aveva 952 conventi con
15.000 membri; quella degli “Osservanti” (di più rigida aderenza alla norma
originaria) erano 30.000 all’inizio del secolo e, nel 1680, il doppio. I
Cappuccini, famiglia di rigorosa osservanza della povertà francescana,
nel 1621 uscivano dalla tutela dei Conventuali: avevano ormai 25.000 membri.[38]
Naturalmente, “in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre qualche
individuo, qualche testa...” (Pr. Sp. c. XVIII). Fra
i Cappuccini francesi, ad esempio, ci fu
Francesco Le Clerc du
Tremblay (1577-1638), detto padre Giuseppe da Parigi, consigliere di Armando du
Plessis, cioè del cardinale Richelieu: è da tale presenza discreta ma
molto influente che è nato il termine “eminenza grigia”. [39] Per i santi, ci fermiamo a quelli che hanno avuto una
dimensione sociale.[40]
Del Bellarmino (1542-1621), gesuita e cardinale, si è già parlato
per la sua attività intellettuale di scrittore. Muore, nel 1614,
S. Camillo de Lellis, che fonda i “ministri degli infermi” (Camilliani)
col voto di assistere anche gli appestati. Nel 1619 muore a Lisbona S.
Lorenzo da Brindisi, cappuccino nato nel 1552, conoscitore di moltissime
lingue, predicatore ricercato anche dalle corti,
inviato speciale del papa in una decina di nazioni europee, guardiano
generale del suo ordine, animatore eccezionale della vittoria cristiana contro
l’esercito turco ad Alba Reale in Ungheria (1601), supplice oratore ai piedi
di Filippo III di Spagna per un gioverno più umano nel regno di Napoli, il cui
popolo aveva nel cuore e che era fra i più miserabili del tempo.
Il religioso, diplomatico e guerriero, moriva durante quest’ultima
missione, così umile e filantropica. A Napoli lavorò S. Francesco de
Geronimo, gesuita: oltre a predicare missioni al popolo (specie di corsi di
esercizi spirituali per intere parrocchie), organizzò gli artigiani in
confraternita (con scopi anche sociali) e si interessò degli schiavi presenti
in città. Un compito parallelo lo assunse l’oratoriano beato Sebastiano
Valfré per la città di Torino (Verduno, Cuneo, 1629-1710): egli fu vicino
ai prigionieri e feriti delle numerose guerre ed anche ai Valdesi, incarcerati a
Torino; si dedicò alle missioni al popolo, agli ammalati negli ospedali ed
ai ragazzi; fu consigliere ricercatissimo anche dalla corte sabauda: il
re Vittorio Amedeo II lo volle suo confessore e gli ottenne l’arcivescovado di
Torino, che lui però rifiutò per umiltà. Fu lui a suggerire al duca il voto
alla Madonna di costruire la basilica di Superga, per la liberazione di Torino
dall’assedio (1705-6). S. Gregorio Barbarigo (Venezia, 1625-1697),
vescovo di Bergamo e poi d Padova, emulò le virtù eroiche di S. Carlo Borromeo,
ma fondò anche una tipografia poliglotta, un seminario ed una scuola di lingue
orientali. La beata Rosa Venerini (1656-1728) operò in favore della
elevazione della donna, seguitando l’esempio di S. Angela Merìci: fondò
l’Istituto delle “scuole e maestre pie” per la istruzione popolare della
gioventù femminile in Toscana: fu appoggiata dal vescovo di Montefiascone
Marcantonio Barbarigo (cugino di S. Gregorio). Dopo secoli, la santità torna a
lambire il soglio pontificio con il beato Innocenzo XI (Benedetto
Odescalchi: 1676-1689): è noto per aver organizzato la suprema difesa
dell’Europa contro l’assedio a Vienna del 1683, riuscendo a vincere le
diffidenze del re polacco Giovanni Sobiesky; ma non va dimenticato che egli si
era preparato al peso del papato col servizio degli appestati negli anni 1656-7,
assieme al cugino Marc’Antonio Anastasio Odescalchi ed al futuro santo,
Gregorio Barbarigo. A Roma muore a 92 anni, nel 1648, S. Giuseppe Calasanzio,
nato in Spagna nel 1556 e fondatore delle Scuole pie (1617), da cui il nome di
“Scolòpi” dato ai suoi discepoli: si diffusero in tutta l’Europa
cattolica, nonostante le traversie che il fondatore e la stessa sua opera
dovette subire, come “collaudo” delle iniziative che si ispirano a Cristo
crocefisso e risorto. In Francia intanto, andava operando quel san “Vincent
de Paul” (1581-1660) con una carità che giungeva ad insegnare a Luisa di
Marillac (una delle prime discepole e poi superiora delle figlie della carità,
la prima congregazione femminile non di clausura): “Bisogna farsi perdonare
(dai poveri) il bene che si fa (loro)”.[41] Ma queste figure sono solo la punta dell’iceberg di
una fede ravvivata ed approfondita grazie alle disposizini di Trento e che si
traduceva in una operosità
caritativa come spontaneo corollario: nascevano movimenti locali per malati,
carcerati, pellegrini, dementi (Firenze), per i poveri di ogni genere ( S.
Francesco De Geronimo, a Napoli), per le donne peccatrici (Bologna, Napoli), per
gli appestati (per i quali, a Milano nel 1629-30, non si immolarono solo i
confratelli cappuccini di p. Felice Casati, ma altresì i nove decimi del clero
diocesano locale, mentre la città aveva perso solo tre quarti dei laici). Si
fondarono anche dei Monti di Miserciordia (o Pietà), per prestiti su pegno e
senza interesse, a favore dei poveri (Napoli). Ed erano iniziative che
prendevano magari avvio dalla presenza di un relgioso o sacerdote
particolarmente dotato, ma erano sostenute, poi, da molti laici.
E’ notevole la figura del protofisico Ludovico Settàla, a Milano, che
non solo si prodigò per gli appestati negli anni 1629-30, prendendosi la peste
e rimanendone paralizzato, ma rifiutò le cattedre di medicina offerte a lui in
Italia ed Europa, per insegnare invece morale, vivamente interessato (come si è
visto) al suo rapporto colla politica. La presenza di laici moralmente e
religiosamente impegnati si può indovinare anche dalle opere letterarie
edificanti che non sono poche nel secolo, anche se di
non grande valore artistico. Abbiamo già ricordato la produzione
scenica di Federico Della Valle (Asti, 1560 ca- Milano 1628) e Torquato
Accetto (Della dissimulazione onesta: 1641). Dobbiamo aggiungere alcuni
romanzieri di contenuto edificante: Bernardo Morando (Genova, 1589-1656: accanto
a liriche mariniste e libretti per drammi musicali o balletti , scrisse il
romanzo Rosalinda, edito nel 1650);
Poliziano Mancini (Padovano, il suo romanzo “Il
prencipe Altomiro di Lusitania”
contiene, nella trama, parte fantastica e parte realistica, una convinta difesa
della fede cattolica ed ebbe due redazione: 1640 e 1650) e Giovan Battista
Manzini (Bologna 1599-1664: scrisse contro
i libri osceni e pubblicò opere di positiva moralità nella tragedia Fleride
gelosa, nella commedia L’avarizia
scornata e nel romanzo di intrighi politici Il
Cretideo). Di fronte a
questi uomini esemplari, stavano i
libertini, miscredenti sorti in varie città, che erano i precursori del
razionalismo illuministico e
massonico del secolo successivo e che giungevano a scrivere libri pieni di
calunnie, favole ed oscenità (Gregorio Leti). Confrontando le figure, la vita e
le opere dei due gruppi di persone si può serenamente affermare la complessiva
o almeno prevalente sanità morale (e frequentemente eroica) di un secolo, che certo non
era composto di soli santi, ma in cui la maggioranza conduceva una vita
spiritualmente molto superiore alle generazioni che stavano per
succederle.
D) LE FORME ESPRESSIVE (LO STILE) DEL SECOLO XVII Ci siamo già diffusi sulle forme espressive al di
fuori dell’arte, là dove si è parlato del “gusto o sensibilità”: colori
caldi, cerimonie fastose, saluti ripetitivi (le “cerimonie”),
sfarzo solenne, punto d’onore, fogge
abbondevoli di vestiti.... Qui ci
concentriamo
sulla tecnica del secentismo o barocco letterario o marinismo o
concettismo[42]. Questa nasce dalla
poetica del meraviglioso in base a questo probabile (più o meno consapevole)
polisillogismo. L’ARTE COINCIDE CON L’INTERESSANTE; L’INTERESSANTE
CONSISTE NEL NUOVO, NELL’ORIGINALE; IL NUOVO OD ORIGINALE SIGNIFICA INATTESO,
STUPEFACENTE, SBALORDITIVO, SORPRENDENTE, MERAVIGLIOSO; IL MERAVIGLIOSO SI
OTTIENE PRINCIPALMENTE CON LE ACUTEZZE O CONCETTINI...[43] Questa teoria dell’arte la si è già intravista
esaminando il pensiero estetico. Richiamiamo le espressioni più famose: “E’
DEL POETA IL FIN LA MERAVIGLIA| (DICO DELL’ECCELLENTE E NON DEL GOFFO):| CHI
NON SA FAR STUPIR VADA ALLA STRIGLIA” (G. B. Marino, Murtoleide, fischiata
33). Si veda anche Adone, IX, 2: “e detta a novo stil concetti novi”. E, di
Gabriello Chiabrera, “O TROVAR NUOVO MONDO OD AFFOGARE”. Ma che cosa è
un concettino od agudéza? Si può tentare di definirlo così: accostamento di due realtà fra
loro eterogenee, normalmente estranee, messe puntigliosamente od arbitrariamente
in rapporto per creare stupore, meraviglia, interesse... bellezza estetica (od
arte). Succintamente: IL CONCETTINO E’ L’ACCOSTAMENTO DI DUE REALTA’ OD
IDEE SPROPORZIONATE FRA LORO. La tecnica del concettismo,
pur non essendo l’unica forma del complesso fenomenno secentista o
marinista o barocco, ne è però lo strumento più caratteristico.
In Italia tale forma di espressione verbale si diffonde specialmente
nei territori governati dalla Spagna (Lombardia, Italia meridionale) o da
essa influenzati (stato pontificio). La Toscana è un’isola di classicità ed
anche il Piemonte e Venezia risentono meno della moda, così come liberi da
secentismo rimangono singoli scrittori di ogni regione d’Italia (a Napoli,
lo ripetiamo, Torquato Accetto). Diamo ora degli esempi, fermandoci alla cerchia degli
scrittori del Milleseicento.[44]
Eccone alcune di G. B. Marino: “Rimbambir della stagione” (la primavera:
Adone, 15, 93); “la bella primogenita dell’anno” (ivi,15,17); “Carta è
il ciel, l’ombra inchiostro e penna il raggio| onde cancella il dì ch’è già
compìto| e il fin del lungo corso a lett(e)re vive| d’oro celeste in
occidente scrive” (il tramonto del sole: ib.20, 248). Altrove si definiscono
“tepide brine” i sudori di Cilla; e si descrive Leandro, che attraversa
l’Ellesponto a nuoto per ritrovarsi con Ero, con questa immagine balorda
“fatto a se stesso e navigante e nave,| zappa i flutti”; o si dice di Elisa
che si pettina: “ara| con terso eburneo vomere dentato| campi d’oro
animato”. Il Marino riecheggia il
famoso distico di Catullo “Odi et amo. Cur hoc faciam fortasse requiris.|
Nescio sed haec fieri sentio et excrucior” con questi versi: “Amo o non amo?
Ohimè ch’Amor è foco| ch’infiamma e strugge ed io tremando agghiaccio.| Io
vivo e moro pur: misera sorte| non aver core e senza cor languire” (Adone, 12,
202-5); e altrove, per descrivere la disperazione in amore: “Saran fiamme
tartaree i miei sospiri,| la mia misera vita un vero inferno| fia Flegetonta il
foco dei desiri” (ivi, 21, 331) Altre citazioni... esemplari: “biade d’eternità,
stalla di stelle” è il Paradiso secondo Giuseppe Salomoni. “Se miro,
abbaglio; e se non miro, ’i moro” (Bernardo Morando). Ecco un concettoso
augurio di pace: “Spari palle d’ulivo ogni bombarda”; o una
“acuta” definizione degli occhi della donna: “Finestre
dell’aurora, usci del giorno”. Giuseppe Artale chiude meravigliato il
sonetto sulla Maddalena che bagna cogli
occhi (il sole splendente della donna) e asciuga coi capelli (lunghi e
ondeggianti come la acque del fiume Tago) i piedi del Salvatore: “Che ’l
crin s’è un Tago e son due soli i lumi,| prodigio tal non contemplò natura:|
bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi!”. Anche Ciro di Pers è sbalordito, ma
per il cacciatore che, nascosto presso uno stagno, spara sulle
anatre di passaggio, premendo sul grilletto del fucile “... stringendo un dito
solo| trar fulmini dall’acque, augei dal cielo,| far il piombo volar, piombare
il volo!” Claudio Achillini
inizia con “Sudate, o fochi, a preparar metalli” un sonetto, di cui è
interessante il contenuto ulteriore: il poeta
incìta a preparare ordigni metallici per sviscerare i monti di Paro e
trarne nobili marmi, onde immortalare Luigi XIII di Francia, vincitore della
Roccella e di Casale. Ma ecco
anche i critici, verseggiatori o poeti che canzonano, fingendo di imitarle, le
pazzie del secentismo. Salvator Rosa attribuisce ai “poeti oggidiani od
odiernissimi”, ai secentisti insomma,
la bella trovata che il sole è fanale del giorno e il suo sorgere
è fatale alla notte, sicchè esso è
“boia che tagli(a)| colla scure de’ raggi, il collo all’ombre” (
Satira seconda). Più a lungo si è divertito in tali imitazioni-parodie Tommaso
Stigliani, che vedremo in seguito. I concettini
non sono, però, l’unica
caratteristica dello stile secentista. Secondo Sapegno, ad esempio, il Marino si farebbe notare più per il
culto sfrenato della metafora che per i giochetti scempi di parole
(Compendio, II, 311). E, inoltre, si trovano in lui, come in altri scrittori del
suo stampo, iperboli (esagerazioni), sinonimie ossessive, epigrammaticità
altisonante. Ecco la
celebrazione della rosa (Adone, III, 156-7):
“Rosa, riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
della terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor de l’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo dei fior, donna sublime.
Quasi in bel trono imperatrice altera,
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzose e lusinghiera
ti corteggia d’intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu, fastosa del tuo regio manto,
porti d’or la corona e d’ostro il manto.” L’orgia delle similitudini, anzi delle metafore è
ancora più densa in Gerolamo Fontanella (La bocca): “Bella fabrica
d’accenti,| vaga culla del riso,| ricca cella d’odor, pompa del viso,|
ingemmata prigion di cori ardenti,| amoroso spiraglio onde odorato| esce al foco
del cor tepido fiato;| arco tenero e bella faretra| ch’hai di minuti avori| le
tue saette onde ferisci i cori;| prezioso d’amor nobil cancello| di corallo e
di perle uscio lucente| pellegrina conchiglia, urna vivente...”. [45] Queste
caratteristiche, mentre confermano il carattere non classico, non romantico, non
realista, ma “bizzarro”, contaminato, confuso e demente del fenomeno barocco,
lascia sospettare la pretesa di garantire all’autore la presunzione
della incontestabilità e, quindi, il plauso per la stessa sfacciataggine sua,
per la impudenza con cui osa esprimersi in maniera così assurda e capricciosa.
Almeno, questa è la psicologia di alcuni dei verseggiatori barocchi, a
cominciare dal capocordata, il Marino. Dal Croce apprendiamo infatti che lo
Stigliani attesta come quello, “dopo aver tentato di difendere certi luoghi
delle sue poesie, finiva con lo scopiare in cordiali risate” (Storia dell’età
barocca, cit. p.308). Ma alcuni ingenui ci credevano, poi, davvero... Concludiamo, ribadendo che la tecnica della
“sproporzione” è legittima, ragionevole e adeguata nell’esprimere la
comicità.
Quasi ogni battuta umoristica è basata sulla scoperta e sulla (conclamata o
subdola) denuncia di una
sporporzione fra il comportamento|parola espressi e la norma della saggezza e
dell’equilibrio. Ma il torto dei marinisti sta proprio qui: essi non sono
abbastanza intelligenti da percepire che il loro stile funziona
normalmente solo con il genere comico, sicchè lo impiegano, incoscienti,
(o vogliono, prepotenti, che sia inteso)con la maggior serietà drammatica od
idillica: e cadono, come si è già detto, nel ridicolo, cioè nella comicità
involontaria, diventando essi oggetto, anzichè soggetto, di riso. [46] Ancora una caratteristica tecnica. Come le arti
figurative vanno emulandosi, sicchè architettura, scultura e pittura tendono a
compenetrarsi ed un solo artista disegna la struttura architettonica di una
cappella, con parti aggettanti e plastiche dell’altare e del dorsale e, poi,
ne dipinge l’icona centrale e le pareti, sforzandosi di cancellare i confini e
sottolineare la continuità fra le tre arti: ebbene, pressappoco allo stesso
modo, la letteartura in versi pretende di fondere epica e lirica, intrecciando
poesia amorosa ed epica; oppure mescolando comicità ed epopea (poema
eroicomico). Del primo tipo di fusione dà esempio l’ Adone di
Giovan Battista Marino; del
secondo, La secchia rapita di
Alessandro Tassoni. LA POESIA
BAROCCA[47]
GIOVAN
BATTISTA MARINO ( Napoli, 1569-1625) LA VITA.
Figlio di un giureconsulto che inutilmente si sforza di farne un avvocato, si
mette al servizio di mecenati napoletani per realizzare la sua passione
letteraria. Ambizioso e libertino, finì tre volte in carcere (l’accusa di
sodomia si ripete). Tra il 1602 ed il 1608 si pose al servizio del cardinal
Pietro Aldobrandini, a Roma. Di qui passò a Ravenna e dal 1608 al 1611 fu alla
corte di Carlo Emanuele I a Torino. Si fece
nemico, però, a tal punto del segretario del duca (il poeta genovese Gaspare Mùrtola) che questi
attentò alla sua vita, ferendo invece un giovane che era con lui. Il Marino
intercedette per il suo nemico, salvandogli così la vita, pur avendo con lui
aspre contese a stampa (scambi di versi denigratori: Murtoleide| Marineide). Ma
il Marino, innocente in questo fatto di violenza, non lo era in altri campi
della morale: finì anche qui in prigione e cadde dalle grazie del duca. Egli
allora accettò gli inviti della vedova di Enrico IV, Maria de’ Medici e si
portò a Parigi, dove rimase dal 1615 al 1623, onorato e stipendiato. Ma, dopo
aver pubblicato a Parigi l’Adone, rientrrò a Napoli, dove morì due anni più
tardi (1625). LE OPERE. “Lira”
(1608): è una raccolta di liriche di vario metro, che riprende le “Rime”
del 1602: sonetti, canzoni e madrigali (l’opera fu messa all’Indice dei
libri proibiti).
Murtoleide (1608-9: l’opera,
divisa in “fischiate” anzichè in canti o capitoli, finì pubblicata assieme
alla risposta del Mùrtola, intitolata “Marineide”, nel 1619!).
Epitalami (1616:componimenti di
carattere cortigianesco, per cerimonie nuziali ecc.)
Sampogna (1620: idilli
pastorali, fra cui La Pastorella, che
comprendono anche cinque egloghe ed un poemetto lirico: Sospiri
di Ergasto).
Galeria (1620: illustrazione,
in versi, di pitture e sculture vere o fantastiche: sonetti, madrigali,
canzonette, stanze: vennero dapprima edite in due tempi, col titolo di
“Pitture”, 1619; e Sculture, 1620).
La strage degli innocenti
(poemetto sacro, pubblicato postumo nel 1632).
ADONE, poema edito nel 1623:
non è un capolavoro, ma il suo
capolavoro, cioè opera superiore alle altre composizioni.
Dicerie sacre (1618: sono
spunti di oratoria accademica sulle arti della pittura e
della musica e sul cielo: è opera in prosa).
Lettere (raccolte in parte fra
il 1627 ed il 1629, sono state pubblicate integralmente solo nel 1912). POESIA E NO.
Le liriche Segnaleremo alcune composizioni liriche degne di
nota; poi esamineremo più attentamente l’Adone. Ecco un elenco di cose sufficienti o addirittura
discrete, con brevi notazioni critiche.
“Pallidetto mio sole”: è
un madrigale già presente nelle “Rime” giovanili ed è un idillio galante,
cioè sospeso tra vagheggiamento affettuoso e sorriso umoristico.
“Apre l’uomo infelice allor che
nasce”: sonetto, in cui le quartine si difendono bene, per una coerente
tonalità epico-drammatica, mentre le terzine,
che introducono un contenuto idillico
pur mantenendo un musicalismo forte, scadono per dissolvenza incrociata.
“O del silenzio figlio e della
notte”: sonetto, in cui succede il contrario: la musicalità drammatica
delle due quartine disturba il motivo di ispirazione elegiaca, mentre sono
convincenti le due terzine, che trovano finalmente una armonizzazione sonora
meno inadeguata, perchè almeno le consonanti –liquide, nasali, fruscianti-
sono conformi alla tematica mesta, anche
se le troppe vocali larghe sminuiscono la
caratura lirica, denunciando una disarmonia fra centri emozionali e corticali,
fra materia espressa e mezzo espressivo.
“Tonate, o bronzi concavi e
sonori”: sonetto della Lira, al
duca di Savoia Carlo E. I: è stentoreo, enfatico, fra epopea e tragedia. Per intuire, invece, il difetto più solito della
retorica intellettualistica che tenta di supplire alla carenza di sufficiente
ispirazione emozionale, si potrà vedere, ad esempio, la canzone “Ahi
vita, ahi vita breve”.
L’ADONE. E’ un poema in ottave, di venti canti,
5123 ottave e 40.984 versi. La
sua trama si aggira su un tema mitologico-amoroso. Amore (o Cupìdo, figlio
di Venere) viene punito dalla madre, perchè ha indotto ancora una volta Giove a
cadere in una passione adultera. Allora Cupìdo si vendica, facendo sbarcare
sull’isola di Cipro (ove Venere regna sovrana) il bellissimo giovane Adone e
fa cadere la madre in amore per lui. In un viaggio amoroso,visitano dapprima il
giardino del piacere, distinto in cinque parti, secondo i cinque sensi
dell’uomo. Si recano quindi a visitare la fonte di Apollo e, poi, i primi
cieli dell’universo tolemaico, dove attingono il piacere dell’intelletto
(poesia e scienza). Ma la gelosia di Marte perseguita Adone, che viene fatto
uccidere da un cinghiale, durante una caccia. Siamo al canto diciottesimo. Gli
ultimi due canti sono spesi a descrivere una pomposissima sepoltura ed i giochi
funebri in onore dell’eroe. La trama, come ci si può accorgere, è esile e
stentata: il Marino non ha grandi idee da comunicare (
Dante) nè grandi commozioni da esprimere (Petrarca) nè grandi
avvenimenti da cantare (Tasso). Non ha passione nè per la filosofia nè per la
storia. Ha solo descrizioni da colorire, descrizioni di paesaggi naturali o di
affetti psicologici o di piaceri sensuali (ma solitamente accennati e
abbandonati, vista la pressione psicologica, urgente, dell’opinione pubblica
rinnovata, anche senza il timore di
veti all’edizione, in Francia, nonostante che anche l’Adone fosse subito
posto all’Indice). In ogni caso, egli non riesce a ricavare dai suoi motivi
ispiratori stati d’animo commossi e commoventi. I tentativi che egli fa per
suscitarli in sè e nei lettori si risolvono in enfasi ed orge descrittive:
descrizioni sovraccariche di particolari minuti e noiosi oppure complicati
aridamente con allusioni metaforiche, forzate secentescamente a sproposito. Per
riempire venti canti, egli ricorre a divagazioni e peripezie, gonfiando il poema
a 5.123 ottave (più quattro versi di “argomento” premessi ad ogni canto) ed
a 40.984 versi; e riuscendo così (come si propse consapevolmente) a superare
quantitativamente non solo la Gerusalemme del Tasso, ma anche il Furioso
dell’Ariosto! I motivi ispiratori. Primo
e fondamentale è la passione d’amore Pretestuosamente si dovrebbe
trattare di un amore affettivo (modello il Petrarca), ma effettivamente, come si
indovina dalla trama, prevalente è quello erotico (duci, Boccaccio ed Ariosto).
Nonostante, infatti, la esaltazione dell’amore casto di Imene (20, 475-77);
nonostante il fatto che l’erotismo non è esplicito, tuttavia l’argomento
sensuale è pervasivo, la impudenza plateale:
con accenni alla anatomia femminile, alla nudità ed a circostanze
particolari dei rapporti venerei che solo la inettitudine del verseggiatore (o
il timore della censura?) rendono meno piccanti.[48] Tale
mancanza di pudore ha attirato sul poema le tre condanne
“all’Indice” del 1625, 1626, 1627, anche se la spudoratezza è ben al di
qua dell’oscenità divertita e coinvolgente delle novelle boccaccesche o di
alcuni scritti rinascimentali.[49]
Inutile aspettarsi palpiti di affettuosità idillica o drammatica, epica od
elegiaca da un simile motivo, troppo proteso all’istinto , cioè ad una di
quelle affezioni indirizzate alla prassi, che allontanano perciò l’autore
dalla presa di coscienza degli eventuali stati emotivi (concomitanti la passione
bruta); e, quindi, inibiscono la sua capacità di esprimerle nella loro purezza
ed assolutezza, come esige l’operazione artistica. Al secondo posto metterei la
passione descrittiva, con l’annessa mania mataforica,
per cui l’oggetto descritto viene affogato sotto l’orgia di paragoni ed
immagini che ne vorrebbero esaltare la bellezza. Ecco le descrizioni di paesaggi di natura, ad esempio in I,
88-107 (antro di Nettuno); ivi, 126-8 (Cipro), fino a 20, 7-10. Ecco le bellezze
artificiali (come ne La Galeria): nel
canto secondo, il palazzo d’amore; nel duodecimo, quello di Falsirena; e si
vedano anche 11, 26; 12, 160... Ecco la descrizione del corpo umano: nel c. 16
vi è la gara di bellezza maschile per meritare il trono di Cipro; nel c. 20, la
descrizione dei vari partecipanti alle gare funebri... Ecco la descrizione di
atteggiamenti psicologici: ad esempio in 7, 229-250 (Talia canta
l’amore). Il motivo favolistico, mitologico e magico.
Benchè il poema non sia classico ma intimamente romanzesco (perchè prevalgono
i particolari sulla unità della trama e manca quindi l’equilibrio ed anzi lo
stesso senso unitario della materia
cantata), tuttavia l’argomento è pesantemente mitologico e, quindi, in
continuo riferimento alla religione pagana di Omero,
alla sua elaborazione nelle metamorfosi di Ovidio ed alle invenzioni
affini del Marino: il tutto nello spirito della seconda parte del Roman de la
Rose. Ecco allora le frequenti favole mitologiche (c. 2: giudizio di Paride;
c.4: Psiche; c. 7: usignolo| amori di Marte e Venere; c. 5: Narciso| Ercole|
Ganimede| Atteone...; c.19: favola di Giacinto| Pampino| Alcide| Carpo| Leandro|
Achille... Per la novellistica cavalleresco-amorosa, si vedano i canti 12, 13,
14 (la fuga, la prigione, gli errori= viaggi avventurosi)
dedicati all’amore di Falsirena per Adone ed ai tentativi di lei di
ottenere il contraccambio dal giovane, fedele a Venere. Queste parti
novellistiche ricordano Boccaccio ed i poemi di Boiardo ed Ariosto. Non mancano allocuzioni paganeggianti nei colloqui
con gli dei, negli indirizzi ed
allocuzioni con loro: in 15, 99-102, Venere è detta “adorata dea”,
nonostante che nel complesso del poema è simbolo del peccato (in XVI, 229, Cupìdo
supplica la madre “dea benigna; in XVII, 13-14, Venere chiama Adone
“idoletto gentil di questa vita”).[50] Vi sono bestemmie e
ribellioni di Cupìdo verso gli dei (XVIII, 201-7) e della stessa Venere
(18,146). Nel canto 19 vi è un dissennato paragone fra il pianto di Cristo su
Lazzaro e il dolore per la morte di Adone... Motivo scientifico e fantascientifico.
Incerto fra Tolomeo e Galileo, fra astrologia e astronomia, il Marino pretende
imitare Dante con tale tematica. Presenta il cielo come materia che si muove:
materia però animata, donde gli influssi sulla terra e sugli uomini. Nel canto
decimo (strofe 43-7), con le arti del Trivio e del Quadrivio, viene descritto
anche il cannocchiale di Galileo. Vi è posto anche per gli oroscopi: quello su
Adone (vita breve, morte violenta: XI, 171-183) è oggetto di derisione da parte
di Venere, ma è confermato dalla chiromanzia, esposta minutamente nel canto XV,
38 e seguenti. L’astrologia è detta non necessitante, superabile dalla
prudenza umana (Venere, cc. XI e XV), ma verifica le sue predizioni puntualmente
nella cruda realtà dei fatti (c. 18). Motivo encomiastico, adulatorio e politico.
Dedicato a Luigi XIII di Francia (I, 5-8| X, 185-224| XVIII, 60); vi si elogia
Maria de’ Medici (XI, 1-170); vi si ricorda Enrico IV (c. XI); si celebra la
Francia (XX, 377-515); i duchi sabaudi sono esaltati nei cc. X e XX (353-376);
gli Asburgo nei cc. X e XX (377-478); il papato nel c. X; si auspica una
alleanza tra Francia e Austria contro la Inghilterra (XX, 444-470). Anche le
glorie dei Romani sono rievocate in XX, 306-333. Motivo letterario. La letteratura fa, anche nel Marino, da
motivo ispiratore: egli nel c. IX scorre una lunga serie di poeti da i greci a
Dante, da Petrarca e Boccaccio al Tasso ed al Guarino; e fa della satira contro
i poetastri contemporanei. Sarebbe interessante seguire su una edizione annotata
(quella dei Classici Mondadori, ad esempio) tutte i riferimenti, rievocazioni,
citazioni dai poeti più diversi. Egli stesso confessava di “leggere col
rampino”: ma ad una memoria eccezionale non soccorreva una carica emotiva
adeguata, sicchè egli rivela una “erudizione” letteraria straordinaria, ma
una povera “cultura” poetica: anche del Tasso, l’autore più saccheggiato,
egli risente le cose meno
significative, non i punti più alti della Gerusalemme o delle liriche. Motivo relgioso. E’ rara la nota religiosa cristiana
(mentre, come si è detto, dominante è quella pagana): Lepanto è ricordato in
XVII, 173-5; contro gli Ugonotti, in XX, 500-513. Del richiamo quasi blasfemo al
pianto di Gesù su Lazzaro per quello in morte di Adone, si è già detto. Conclusione. Il Marino non “ci ha pensato su” abbastanza:
egli non divenne mai cosciente che,
in realtà, lavorava su un duplice motivo ispiratore di fondo: il tema
amoroso, che per sè è lirico, contemplativo e dolce; ed il tema epico-tragico
che consisteva ( tale era la sua intenzione-illusione)
nell’esaltare tale vicenda come
una esperienza inimitabile e sublime; e nel pretendere di ricondurre la morte
tragica di Adone ad una circostanza eroica.
La mancata chiarezza ed unità del poema la si può sospettare anche dal
solo fatto della evoluzione radicale nella
sua stesura: voleva essere, in un primo tempo (alla fine del 1500) un
lavoro di tre soli canti, ma fu “accresciuto e impinguato”, “dilatato con
digressioni ed altri lussureggiamenti”, rischiando di prolungarsi fino a
ventiquattro (come si ricava dalle sue lettere: cfr. Nota bibliografica all’edizione ricciardiana, curata da
Giuseppe Guido Ferrero, 1954, p. 6). Alla ambiguità dei due motivi ispiratori
–amore ma enfatizzato dalla volontà celebrativa- corrisponderà una miscela
incongrua ed anzi autoelidente dei toni lirici, con
una abituale insignificanza dell’equilibratissimo e scorrevolissimo
musicalismo espressivo: il risultato coerente sarà il fallimento
estetico dell’opera Le tonalità liriche.
Si è già detto della pochezza di brani poeticamente rilevanti. Solo alcune
strofe della gara fra il musico e l’usignolo raggiungono un livello discreto
di arte: gli altri passi che
segnaleremo sono appena sufficienti. Il patetismo e l’enfasi
(quando ci sono) surrogano le emozioni armoniose, sane, profonde (che non
ci sono quasi mai). Quanto a
definire la tonalità di fondo, intuibile pur nella sua
flebilità, è un problema insolubile: aver scelto, come oggetto di un
poema intenzionalmenmte epico (modelli Virgilio ed il Tasso), un argomento
tipico della contemplazione idillico-elegiaca (l’amore) rende abitualmente
ambigua l’atmosfera . Come si è già anticipato nella “Conclusione”
ai motivi ispiratori, si perviene ad una dissolvenza
incrociata abituale: il dramma entra in collisione “morbida” con l’idillio
dell’amore e ne finirà silenziato, pur condannando alla insgnificanza, a sua
volta, la vena contemplativa del tema amoroso. L’analisi stilistica ce ne
darà la conferma: il lirismo sostenuto,
epicizzante è sempre minato da una “onda di fondo” contemplativa, così
come il tema addirittura tragico del poema (morte di Adone) è snobbato dalla
dispersione verso la dolcezza dell’amore e la tenerezza dei paesaggi, mentre
il musicalismo medio risulta inattinente agli episodi che richiedono forza,
impeto, grandezza di gioie o di dolori: salvo le eccezioni che segnaleremo
subito. Il poema non risulta, dunque, nè lirico nè epico-drammatico, ma arido
e noioso: anche per l’intervento delle continue “digressioni e
lussureggiamenti”, che distraggono il poeta e lo
disperdono a livello di motivi di ispirazione, di tonalità
accennate e subito spente, a livello del timbro stesso della espressione,
onnivalente e nulladicente. L’unico
brano esteticamente davvero riuscito è quello della gara fra il
suonatore di liuto e l’usignolo in VII, 32-56:
il piccolo pennuto non vuol cedere all’uomo ed imita tutte le sequenze di note
e le variazioni di toni, finchè muore esausto per lo sforzo. Quale è il
registro di queste strofe? Sostanzialmente è epico: sia l’elogio
dell’uccello prima della gara (strofe 35-6)[51], sia la
narrazione della sfida (str. 43-54)[52].
Vi è spazio per altro a due note elegiache (strofa 40, vv. 7-8; e i primi
quattro versi della strofa 55)[53]
e, due volte, per versi idillici (strofa 42, 1-4; e 45, 5-8)[54].
Se tutto il poema fosse stato così sentito, sofferto, goduto dall’autore,
quanta ricchezza per la umanità, quanto gaudio per i fruitori, che invece
debbono sorbirsi la noia di più che quarantamila versi di ben diversa natura... Altri brani famosi e non del tutto spregevoli sono
quello sulla rosa (già riportato) che è sempre in tonalità epicizzante,
ma alquanto stentorea e supponente, per il fuororeggiare di immagini e metafore
secenteggianti; e l’altro, del tutto simile, sul gallo (II, 7). Anche alcune
strofe del canto ventesino sono riuscite: ad esempio la 7, 8 e 10; e la 85
(sulla danza della sarabanda e della ciaccona) e sono in tonalità maggiore e festosa, cioè appunto tendente
all’epopea. [55] In XIX, 231 abbiamo invece l’abituale miscuglio di
drammaticità nel motivo (Polifemo disperato vien traformato in Mongibello dal
padre Nettuno), l’incerta musicalità nella esecuzione verbale (troppe “i”
ictate e in sede di rima, oltre le consonanti equilibrate fra dolcezza e forza).
Nell’episodio, poi, di Leandro (XIX, 252- 292), l’epicità dell’ardore nel
voler raggiungere Ero attraversando l’Ellesponto fra Abido e Sesto; e la
tragedia del suo annegamento nel mare in tempesta –motivi sommamente
drammatici- sono elisi e rovinati non solo dalla costituzionale dissolvenza coi residui della passione amorosa
(che si manifesta in aggettivi di tenerezza ed in una musicalità incerta tra
vocali larghe e consonanti tuttofare);
ma anche dalla mania concettista del voler sbalordire: esagerazioni, giochetti
di parole, contrapposizioni forzate...: neppure le strofe centrali (276-86)
convincono. Il lettore sembra scoprire una melodia (drammatica, in questo
episodio) che poi lo delude, spezzata come è dal contrasto di altri
suggerimenti morbidi o ridicoli. Tendenti alla elegia (sulla scia dei notturni del
Tasso), oltre i versi già sopra citati e riportati dal c. VII, si vedano IX,
200 (almeno i due versi 7-8) e XVIII, 45. Idillici sono XII, 196; XIII, 34; XV, 11 e 13., oltre
i due casi citati dal canto settimo. Note stilistiche. L’ambiguità dei motivi ispiratori,
attraverso i registri lirici ambivalenti, si riflette in tutta la tecnica espressiva e, più clamorosamente, nella
musicalità del poema. Poema incerto fra l’epicità drammatica ed il
lirismo contemplativo, l’Adone surroga spesso l’azione (anzi le molte
digressioni) con effusioni sentimentali e loquaci, con cicalate pseudoaffettive:
all’evolversi di un’azione complessa ma
chiara, si sostituiscono discorsi d’amore o di pene; il Marino si sfoga in una
chiaccherata salottiera, di gente oziosa e (almeno nel suo caso)
viziosa. E con tale logorrea metricamente perfetta, egli poteva
dilungare il poema all’infinito: senza dir nulla di interessante. La musicalità e la padronanza del verso.
Il dominio della metrica è tale che, a parte i brani citati per qualche
intonazione particolare (allora la
musica si adegua discretamente al lirismo, ora con
pravalenze di suoni forti, ora con intensificazione di quelli dolci), si
deve riconoscere che neppure il melodioso Petrarca ha una armonia così uguale
e accarezzante quale sa esprimere il Marino. I versi fluiscono naturali, con gli accenti quasi costanti su
quarta, sesta, ottava, decima, senza urti, senza angolosità, senza sforzo:
la stessa ottava d’oro dell’Ariosto, metricamente e musicalmente,
impallidisce al confronto, perchè non è così scorrevole ed elegante.[56] La sonorità delle parole presenta una leggera
prevalenza della dolcezza per quel che riguarda l’impasto delle consonanti:
frequentissime liquide (vi è forse un lieve predominio della “r”,
che si trova raramente,
però, in combinazione stridenti o rafforzate), nasali (leggero vantaggio
per la “n”?) e fruscianti (prevale sicuramente la “v” rispetto alla
“f”). Le tronche sono rare ed emarginate, tanto che non si avvertono, mentre è
sensibile e ammorbidente la presenza delle parole sdrucciole.
Ma la prevalenza è appena percepibile: difatti sono frequenti anche
le consonanti forti (labiali od esplosive, zeta e doppia zeta, gutturali e
dentali).[57]
Il contesto vocalico, invece, ci pare equilibratissimo, con larghe
e tenui, con la media “e” in misura comune, prosastica. Gli iati non sono
frequenti e non disturbano: si inseriscono bene e non urtano l’orecchio, al
punto che quasi non ci si accorge della loro presenza. Eppure, con tanta abilità metrica ed equilibrio
musicale, ad un certo punto ci si accorge che le
rime (il fattore musicale precipuo nelle lingue romanze), ebbene, sì,
che le rime... non ci sono! Cioè,
non si sentono. Il lettore sconcertato
finisce per avvertirle solo a seguito di un impegno critico specifico.
Questo conferma che si tratta di una musicalità da maschio evirato:
tanto gentile, scorrevole, carezzevole, quanto impotente (può essere
anch’essa un indizio di omosessualità?). La voce di questo
poema è quella di un soprano adulto, ma mutilato: voce soavissima,
vellutata perchè smascolinata. Vien davvero la tentazione di citare Dante
(Inferno XXVIII, 126): “Com’esser può...”, completando “quel sa che i
versi scrisse”. O forse non lo
sapeva neppure lui: non aveva una coscienza critica ed autocritica
all’altezza. Altrimenti avrebbe stracciato i suoi versi.[58] L’abilità descrittiva del Marino è tale, che una
cosa da lui ritratta sembra avere la stessa chiarezza e facilità di una pagina
in prosa. Citiamo qui XV,
119-172, dove la scacchiera, le varie figure del gioco e le loro mosse nella
partita sono descritte mirabilmente, con l’aggiunta delle furberie di Mercurio
che tenta ingannare Venere e favorire Adone. Ma la
raffinata lucentezza non
muove il cuore, sperso dietro a troppi conati di lirismo, elisi l’uno
dall’altro. Si veda, per un confronto illuminante, la forza della più breve
ma decisamente epicizzante
presentazione della scacchiera e di quella ironico-drammatica della partita a
tric e trac, nel Giorno (Parini, Il Mezzogiorno,1143-1179). In
definitiva il Marino può e deve essere accomunato
a verseggiatori felicicissimi, ma per lo più insignificanti come P. Ovidio
Nasone, Vincenzo Monti, Gabriele D’Annunzio. Per tutti costoro vale l’accusa
del poeta: “Odio il verso che suona e che non crea” (non commuove). Se ci si riferisce a tale contrasto fra dimensione armonica (eccezionale) e componente melodica
(assente, per lo più) del verso mariniano, allora si capisce il giudizio
del contemporaneo Alessandro Tassoni: “Piacesse a Dio ch’io facessi i versi
così belli come li sa fare il Marino, che mi basterebbe l’animo di fare il
resto meglio di lui”.[59] Il metaforeggiare insistente
è un’altra caratteristica dello stile marinista: egli ripete con paragoni,
immagini, metafore la stessa idea. Di qui, l’uso di apposizioni continuate
o di frasi relative per dire con
altre parole lodi o caratteristiche di cosa|persona in argomento. Si comincia
dalla prima strofa con la esaltazione di Venere. Ecco le apposizioni: “santa
madre d’Amor| figlia di Giove| bella dea d’Amatunta e di Citèra” Ed ecco
le “relative descrittive-elogiative-celebrative: “te, pr cui si volge e
move| la più benigna e mansueta sfera....| te, la cui stella....de la notte e
del giorno è messaggiera;| te, lo cui raggio lucido e fecondo| serena il cielo
ed innamora il mondo” (I, 1). Dopo la madre, ecco
Cupìdo, onorato da Nettuno con filastrocche di elogi (I, 116); ecco il
gallo (II, 6) ed ecco la rosa (III, 156-60)... fino alla variazione di paragoni
sulla condizione del poeta stesso che si avvia ad ultimare
l’opera e si eguaglia, nell’apertura del c. XX, al cavaliere, al
cigno, all’orologio (che sta per scoccare l’ora), alla lucerna (cui vien
meno l’olio), al pellegrino (giunto stanco alla meta), al nocchiero (che sta
per arrivare in porto), a Leandro (che arriva
a Sesto: XX, 1-4). Ed approdiamo ormai ai concettini. Che
gioverebbe fare un elenco anche solo di rimandi, quando ve ne sono dappertutto?
La seconda strofa del c. I ne è già zeppa: “di pacifico stato, ozio
sereno” (ripetizione variata); “ addolcito, il Furor tien l’ire a freno”
(Furore-ire-dolcezza); “lo dio de l’armi e de la guerra| spesso suol
prigionier languirti in seno” (Marte, da vincitore,diventa prigioniero di
Venere); “guerreggia in pace” (è sempre Marte che pare precorrere gli
Hyppies nel proclamare “noi facciamo l’amore, non la guerra”). Dal c. VII
abbiamo già riportato la strofa 35, che finisce l’elogio dell’usignolo in
questi termini: “o ch’altro sia che la
liev’aura mossa,| una voce pennuta, un suon volante?| e, vestito di penne,
un vivo fiato,| una piuma canora, un canto alato?” Mille altri se ne potrebbero riportare, ma preferiamo
rimandare il curioso lettore a passi del poema, con una parziale collezione in
nota.[60] Oratoria, retorica, discorsi ad un tempo altisonanti
e miserabili
ingombrano gran parte del poema, dove i persoanggi parlano troppo e agiscono
troppo poco. Vi sono sfoghi impotenti di stati d’animo velleitari, detti ma
non espressi: Polifemo che, accecato, si lamenta è proprio l’analogato
superiore del povero poeta, cieco di emozioni anche se fluente di musicalità:
“Tutti questi discorsi all’onde, ai venti| sparge il meschino e l’ode il
vento e l’onda...” (XIX, 216). Aria rifritta, direbbe Montanelli: acqua
stracotta, diciamo noi. Documentazione,[61]
attraverso rimandi in nota. Mancanza di coerenza psicologica e di verosimiglianza. A parte la favolistica che è alla base dell’opera, fermiamoci su un solo particolare: Venere, dopo tutti i pianti sul defunto Adone, eccola sorridere ai giochi funebri, mentre premia il primo vincitore (XX, 60; e si vedano anche le strofe 193| 217| 474. Di Adone non si parla più.[62] [1] Che la Spagna fosse esosa (“in Sicilia rosicchaiva, a Napoli mangiava ed a Milano divorava”) è forse un mito nato sulle inesorabili gravezze imposte dalle necessità della guerra. Guerra che la Spagna non aveva voluto: la “defenestrazione di Praga” del 1618, con cui i protestanti interruppero di prepotenza le trattative coi cattolici che volevano il rispetto delle clausole della pace di Augusta (1655), era un chiaro atto di guerra. E, d’altra parte, la clausola del “reservatum ecclesiasticum” (per cui i prìncipi o titolari di benefici ecclesiastici, che fossero passati o passassero al protestantesimo dopo il 1552, dovevano lasciare alla Chiesa cattolica i possedimenti ecclesiastici) non era solo una clausola economica: era il tentativo serio di impedire che l’abbandono della fede tradizionale fosse causata da motivi egoistici anzichè religiosi (come era avvenuto ed avvenne troppo spesso: i beni della Chiesa, o venivano incamerati dai prìncipi o dai loro titolari che, sposandosi, li rendevano ereditari. Le strettezze dell’economia spagnola sono dimostrate dalla incapacità a pagare gli interessi sui prestiti: nel 1557, nel 1575 e nel 1607 essa dovette dichiarare bancarotta. [2] Per molte di queste notizie, ci riferiamo a Gregorio Penco, Storia della Chiesa in Italia, Milano, Jaka Book, 1977. Per il dato riportato nel testo, cfr. v. II, p.72. [3] E’ noto che il termine “barocco letterario” è venuto dall’arte visiva: ne riparleremo a suo luogo. Qui si pone la questione del valore estetico della produzione figurativa: non tanto dei grandi e riconosciuti “poeti del barocco visivo”, dalla architettura del Vignola (Jacopo Barozzi, detto il: 1507-1573) a quella del Borromini (1599-1667), dalle scultura di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) alla pittura di Pellegrino Tibaldi (1527-1596) e dei tre Carracci (Annibale –1560-1609, il fratello Agostino –1557-1602, il cugino Ludovico, 1555-1619); quanto piuttosto della grande schiera dgli artisti che lavorarono nella seconda metà del Millecinque e nel Milleseicento. In proposito ci sembra di poter dire: anche questi artisti operarono sotto la pressione di un mercato urgente ed esigente; anch’essi si rifugiarono in abilità tecniche (la prospettiva, ad esempio, in pittura) od enfatizzarono l’espressione emotiva; anch’essi in qualche misura spagnoleggiarono, nel privilegiare colori caldi (autunnali, tendenti al marrone), sbuffi dei vestiti ed esagerazione dei sentimenti espressi (eccessivi quasi sempre, quando non esasperati addirittura); spesso anch’essi ricercarono un effetto ad ogni costo (volevano impressionare e stupire, destare orrore od estasi). Ma questo non impedisce che opere di sufficiente artisticità, talora in espressione sana e universalmente valida, talora in chiave patetica od enfatica, siano uscite dalle loro menti e dal loro cuore. Una rivalutazione di certe manifestazioni del barocco figurativo è cosa ormai acquisita. [4] Una motivazione a priori del cammino verso una acribia maggiore, ci sembra questa: la natura non fa salti. Ora che si passi in Italia di punto in bianco dall’ingenuità più acritica (nel Milleseicento) alla attitudine più esigente nel controllo della verità (nel secolo seguente) pare proprio uno di quei salti difficile da accettarsi. Il sospetto è che le cose si siano svolte gradualmente; che, cioè, la crescita del senso critico sia avvenuto anche durante il secolo XVII. [5] Girolamo Cardano, di Pavia, visse tra il 1501-1576; Andrea Cesalpino, di Arezzo, tra il 1519 ed il 1603; Jacopo Grévin, francese, dal 1538 al 1570; Ambrogio Paré, francese, dal 1517 al 1590; lo Schenchio (Schlenk) di Grafenberg, dal 1530 al 1598. Solo il romano Paolo Zachia, medico alla corte pontificia, dal 1584 al 1659 visse in pieno secolo XVII (non siam riusciti a trovare le date di Pietro Salio, faentino). Anche il processo per gli untori, presunti cause della peste nella Milano del 1629-30, fu uno degli ultimi casi clamorosi: già nel sec. XVII la credulità per streghe e malìe andava scemando. [6] D’altronde, dopo la svolta critica dell’Illuminismo, come spiegare il ritorno alla fiducia negli oroscopi dei nostri tempi dottissimi; la follia della sequela di Nietzsche e di Marx fino a guerre e rivoluzioni assurde e ben più tragiche della caccia alle streghe; e il culto di Freud, che è sempre meno creduto eppure ha sempre più seguito? Un articolo di U. S. News & World Report, del 19 ottobre 1998, titola: “Burying Freud and praising him”, cioè “Seppellendo Freud e lodandolo”. Le due forme di incultura si possono spiegare, ma con fattori differenti: nel secolo XX, non è un difetto della mente, cioè la ignoranza, che travia il giudizio, ma è l’impazzare di istinti ed emozioni che oscurano la ragione. La differenza non torna ad onore dei nostri tempi progrediti: là, vi era una sopraestimazione di valori spirituali per un eccesso di fede acritica; qui siamo in presenza di una sopravvalutazione di valori animali, quali il sesso, il benessere ed il potere, per mancanza di onestà morale... [7] Si veda la denuncia fatta dallo stesso Galieleo nella edizione nazionale delle “Opere”, XI, p.165. Cremonini adduce questa scusante: “quegli occhiali m’imbalordiscono la testa: basta, non ne voglio saper altro”. [8] I termini “crisi, critica, cribro e cribrare, acribia ed acrisia, (in)discreto ed (in)discrezione” derivano tutti dal verbo greco “crìno”. Esso significa, in senso materiale e primitivo, “scegliere, separare” (onde “cribro, cribrare”) e, in senso traslato e spirituale, “giudicare” (cioè separare il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo). Da questo secondo senso derivano sia i termini che affermano ora lo stato di lotta per la scelta fra due stati di salute o di animo (“crisi”), sia quelli che dichiarano la potenza analitica o separatrice, la acutezza di visione (di “scanning”) della intelligenza (senso critico ed acribia) o del senso morale (discrezione); oppure la negano (acrisia, acritico, indiscreto). [9] Veramente per Biagio Pascal (1623-1662) l’appello dell’uomo alla rivelazione cristiana ed alla redenzione di Cristo nasce da una situazione non ontologica o metafisica dell’uomo, ma dalla sua condizione storico-psicologica, conseguenza della colpa dei progenitori. Il cristianesimo si rivela l’unica via per spiegare il “mistero dell’uomo”, cioè il groviglio di bene e male che rende incomprensibile la contradditoria psicologia umana, senza le verità sulla “storia religiosa dell’umanità”, manifestate dalla religione ebraico-cristiana (peccato originale). Come si vede, se in Campanella può esserci un presentimento delle “ Pensèes” di Pascal, in Pascal vi è più di un precorrimento del pensiero esistenzialistico. [10] Durante il Millecinquecento gli italiani avevano contribuito allo sviluppo dell’Algebra, mediante la invenzione di formule per la soluzione delle equazioni cubiche o di terzo grado (Niccolò Tartaglia: Brescia, 1500 ca –1557) e di quelle di quarto grado ( Ludovico Ferrari: Bologna 1522-1565). Il merito per la riduzione degli esperimenti a legge scientifica è usurpato a Galileo da Francesco Bacone (1561- 1626), che però non sa specificare la differenza fra l’experimentum crucis (esperimento cruciale o decisivo) e gli altri precedenti. La proposta della costruzione di una macchina che funzioni solo se l’ipotesi di lavoro è vera, dà valore universale all’esperimento che vi si conduce. Tale contributo è fondamentale anche per la metodologia della dimostrazione filosofica, perchè stabilisce la sostanziale identità fra metodo induttivo e metodo deduttivo, in quanto entrambi necessitano di una “universale” per assurgere dalla intuizione alla dinostrazione. La differenza rimane, ma è accidentale ( “geografica”, vorremmo chiamarla), in quanto il tipico metodo induttivo prende le mosse da una esperienza particoalre e giunge ala conclusione inserendo la universale in un secondo momento, mentre il tipico sillogismo deduttivo pone come prima premessa una universale, salvo a porre in secondo luogo la proposizione particolare, da cui scendere alla conclusione. Ne consegue, allora, che la decantata “fecondità” del metodo induttivo, rispetto alla pretesa “sterilità” di quello deduttivo, sta tutta e solo nella genialità dello sperimentatore, non nella “magia” del metodo usato. D’altronde, anche la filosofia usa sillogismi che prendono le mosse da un giudizio particolare, salvo ad inserire la premessa universale in un secondo momento. E, parallelamente, la scienza abbina, ad esperienze minute e sfibranti, intuzioni generali per giungere a conclusioni innovatrici: in realtà la ipotesi di lavoro nasce solitamente da una deduzione generalissima operata su leggi universali precedenti, messe a confronto con sperimenti particolari recenti: usa anch’essa, cioè, un processo deduttivo ed induttivo assieme, da confermare con la elevazione alla universalità degli esperimenti singoli, attraverso l’esperimento di laboratorio. [11] Certo che il contributo di altri popoli europei al progresso scientifico fu molto maggiore. Così la introduzione delle lettere al posto dei numeri in algebra è del francese Francesco Viète (1540-1603); francese è anche Biagio Pascal (1623-1662) che inizia il calcolo delle probabilitàla, il perfezionamento del calcolo degli indivisibili, la teoria delle coniche; inventa il torchio idraulico e la prima macchina calcolatrice; ed alla Francia appartengono Renato Cartesio (1596-1650) che, più noto come filosofo, è pure l’inventore delle coordinate, della geometria analitica e del sistema per correggere le aberrazioni cromatiche delle lenti sferiche; Denis Papin (1647-1714), inventore dell’autoclave, premessa all’impiego del vapore come forza motrice; e Pierre Fernet, che imposta il calcolo differenziale, prima parte di quello infinitesimale; ed appartiene alla Francia anche la invenzione della bilancia di precisione e della trafilazione di rame e ferro, nonchè la invenzione delle “corde orizzontali” (a Lione) che migliorano i meccanismi per disegnare le stoffe. E mentre le Fiandre trovano il metodo per tranciare e stampare oggetti metallici, l’Olanda, che ha inventato il cannocchiale (abbinando le lenti convesse, per accrescerne l’efficacia di ingrandimento), giunge alla costruzione dell’orologio a pendolo, con correzione delle differenze nel tempo, sfruttando la scoperta dell’isocronismo galileiano (1657); ed alla invenzione del bilanciere a molla per orologi da tasca (1675: Christiaan Huygens, 1629-1695). Il Roemer, basandosi sulle leggi di Keplero e di Newton, riesce a misurare la velocità della luce, attraverso la differenza fra il tempo preciso di un eclisse dei satelliti di Giove e l’ora della sua percezione dalla terra (1675). La Germania è pure presente: Otto von Guericke, con gli emisferi di Magdeburgo (1654: creato il vuoto al loro interno, resistono alla trazione opposta di due cavalli) riesce a dimostrare la forza della pressione atmosferica; Guglielmo Leibniz nel 1684 pubblica per primo e con migliore metodo gli studi sul calcolo integrale, che Newton già aveva usato nel contempo, complemento a quello differenziale del Fernet. Ma è la Inghilterra che domina. John Napier (scozzese: 1550-1617) inventa i logaritmi; Isacco Newton (1642-1727) sintetizza nella legge gravitazionale le tre formule di Keplero, estrapolando dal sistema solare alla comprensione dell’universo tutto; concorre con Leibniz alla scoperta del calcolo integrale e costruisce il primo telescopio a riflessione (1668); Thomas Savery applica la forza-vapore al pistone (la coppia cilindro-pistone ha alle spalle sia Huygens che l’irlandese Roberto Boyle -1627-1691-, l’inventore di una delle leggi sulla dinamica dei gas) per sollevare l’acqua dal fondo delle miniere (1698): questo permetterà di giungere, nel primo Ottocento, con Giorgio Stephenson, alla locomotiva (1814) per il treno su rotaie (1825). Sempre in Inghilterra si costruisce la prima nave a tre pontili (1637), del peso di 1500 tonnellate; e Cristoforo Pohlem escogita il modo di fabbricare la ghisa. E la serie di invenzioni continua con uno stillicidio che prepara la rivoluzione, prima tecnica che industriale, del secolo seguente: vi è la meccanizzazione per produrre calze e bottoni, la filatura e tessitura meccanica (a Danzica si raggiunge la lavorazione di 40 pezze di stoffe contemporaneamente)... [12] Per le notizie di questo paragrafo, ci rifacciamo a Hubert Jedin, Storia della Chiesa, v. VI: Riforma e Controriforma; ed a Gregorio Penco, Storia della Chiesa in Italia, Il Seicento, Milano, Jaka Book, 1977. Con “ provvedimenti non del tutto accettabili” ci riferiamo a parte della concezione teoretica e del metodo pratico nei processi inquisitoriali. Tali obiezioni si riferiscono sicuramente a tre suoi aspetti: il sottoporre a giudizio gli eretici, cioè quanti pensavano diversamente dal Magistero cattolico in materia di rivelazione; l’impiego della tortura contro degli imputati per estorcere confessioni autoaccusatorie; la persecuzione delle streghe. A scusante del primo atteggiamento va però ricordato che la teoria per cui solo la verità ha diritto di diffondersi e che l’errore va, perciò, inibito era ritenuta candidamente da tutta la società (i protestanti condannavano e bruciavano non meno dei cattolici, ahimè!): si trattò , insomma, di un tragico errore, non di malizia interessata e responsabile. Quanto alla tortura siamo di fronte ad una eredità romana, rafforzata dalla violenza dei popoli germanici, entrata nella Chiesa con la loro conversione, che denuncia la povertà intellettuale e morale di tutta l’umanità, da cui solo una minoranza di coscienze privilegiate si sottraeva (abbiamo citato i gesuiti contesatori). Pur escludendo malizia anche in questo caso (non dimentichiamo che un papa proveniente dal Supremo tribunale della Inquisizione è nel catalogo dei santi, Pio V: 1566-1572), riteniamo pertinente che papa Giovanni Paolo II abbia fatto, durante la Quaresima dell’Anno santo Duemila, una richiesta di perdono alla umanità su questa materia. Il terzo ambito della Inquisizione, su cui oggi non si sa se piangere o ridere, è la confusione fra malattie mentali e stregoneria. Pure, per il primo e terzo caso ci sono attenuanti non piccole: l’eresia luterana finì presto in contrasto politico-militare e la eliminazione dell’eretico finiva per rientrare (specie in Spagna) nei mezzi di difesa della nazione; quanto alla lotta alle streghe, essa si confuse con la lotta alla droga, di cui pare proprio che almeno alcune, indiziate come possedute dal demonio, fossero spacciatrici. Infine, una nota di distinzione e riflessione. Nessuno pensa più ad una soluzione meno che rispettosa delle discrepanze ereticali, cioè confessionali, fra interpretazioni diverse del Vangelo. Altro, invece, è il caso del rifiuto totale di fede in Dio, cioè il problema dell’ateismo. Spieghiamoci. L’esistenza e predicazione di Cristo (e la fondazione della Chiesa, che ne consegue) sono avvenimenti storici, cioè tali che alla loro credenza la ragione è condotta anche da elementi emotivi (fiducia nel valore testimoniale degli scrittori dei Vangeli e del Nuovo Testamento in genere) e volitivi (decisione di credere in base alle prove della ragione, in base cioè alla accettabilità di quelle testimonianze), sicchè la fede in tali realtà non risulta di primaria evidenza e non può essere oggetto, quindi, del giudizio, accettazione o rifiuto dello Stato, ma solo di discussione e prove degli studiosi e delle singole coscienze. Viceversa la accettazione di Dio dipende da un puro ragionamento filosofico; ed i filosofi seri (fra questi, possiamo metterci anche noi?) non esitano ad affermare che le loro dimostrazioni sono nè più nè meno che scientifiche: il che viene a dire che la dimostrazione della esistenza di Dio è partecipe della evidenza razionale della scienza. Si può allora negare una simile conclusione filosofica? Noi ci pronunciamo indirettamente: la laicissima Grecia classica condannava alla pena di morte gli atei, costringendo a bere la cicuta il religiosissimo Socrate, caduto in sospetto di irreligiosità; chiamando in giudizio Alcibiade per la “ermocopia” o sacrilegio della decapitazione delle statue di Mercurio da parte dei suoi soldatacci, la notte della partenza verso la tragica spedizione in Sicilia (1415); portando in tribunale anche l’atea Frine (e sia pur rimandandola libera, perchè troppo bella!..). E non potrebbe essere che lo stesso Epicuro si limitasse a negare la Provvidenza di Dio, ma non la sua esistenza, per timore di tale legge vigente ad Atene, dove insegnò la sua ideologia? Visto che siamo in argomento, ricordiamo ancora che l’Inquisizione, ufficialmente, nacque per perseguire il catarismo disumano, che condannava ogni cosa materiale come opera del demonio, predicando come perfezione suprema il lasciarsi morir di fame. E’ lecito ad uno Stato anche laicissimo permettere la diffusione di simili dottrine? No, tanto è vero che anche lo stato neoilluminista dell’Occidente proibisce la predicazione del suicidio, da parte di sette pseudoreligiose; ed anzi impedisce con la forza il suicidio per inedia. Vogliamo dire: lo Stato o direttamente (una volta divenuto maggiorenn oppure attraverso la Chiesa (se si ritiene incompetente in talune materie), certe enormità deve proibirle e scoraggiarle. D’accordo, la pena di morte (per non parlare della assurdità della tortura) potrebbe ora sembrare eccessiva: ma in secoli in cui la cultura era minima e il dialogo praticamente impossibile, che cosa si poteva fare d’altro? E le conseguenze (dobbiamo averlo già detto) della abolizione della Inquisizione non è parte nelle cause dei massacri durante la Rivoluzione farncesea causa delle le guerre di Napoleone e di Bismarck; e dei sogni deliranti di un Nietzsche e di un Marx che hanno accumulato decine di milioni di cadaveri con le loro dottrine disumane ed atee? Bisogna “pensarci su”... [13] Come fine immediato, il Baronio si propose di controbattere, in base a documenti precisi, le tesi sostenute dal protestante Mattia Vlicic nella sua Historia ecclesiastica (1559-1574). La stima che si attirò per la sua apertura mentale, oltre che per la santità di vita, è testimoniata dalla offerta del papato in più di una elezione, offerta che dovette faticare a respingere; dal fatto che papa Clemente VIII lo elesse a suo confessore; dal consiglio fatto prevalere di accettare la conversione di Enrico IV di Navarra, abbandonando l’appoggio alla casa di Guisa in Francia, per giungere ad una pace religiosa, che solo evitasse la contraddizione di un re ugonotto in una nazione sostanzialmente cattolica. [14] La questione “de auxiliis” riguardava il problema della cooperazione fra la Grazia di Dio e la volontà umana nelle singole azioni , questione non facile visto che si trattava di rispettare, da una parte, la onnipotenza divina e, dall’altra, la libertà dell’uomo. Alla fine del Millecinquecento, la questione “de auxiliis” era dominata da due sistemi di soluzione, quello di Domenico Banez (domenicano) che pareva sacrificare la libertà della creatura per rispettare la sovranità assoluta del Creatore; e quella del gesuita Luis de Molina, che viceversa pareva arzigogolare sul modo di intervento di Dio nell’operare dell’uomo, per salvare ad ogni costo la libertà di quest’ultimo. Paolo V, su suggerimento del Bellarmino, fermò la disputa col dichiarare sostenibili sia il Molinismo che il Banezianesimo e riportando così la pace nel mondo dei teologi e degli ordini religiosi, che erano schierati animosamente in favore del sistema difeso dal proprio confratello. [15] Il diritto dei vescovi a risolvere in processi ecclesiastici, davanti a tribunali propri, le marachelle anche civili dei propri preti, era una eredità del Medioevo, quando lo stato ricevevea troppi benefici dalla Chiesa proprio nella amministrazione della giustizia, per non dare in contraccambio privilegi di tale genere (che evitavano anche il clamore dello scandalo, troppo normale nelle colpe di sacerdoti). Ma il governo di Venezia era sempre stato piuttosto libero nei rapporti coll’autorità ecclesiastica e trovò un difensore nel padre servita Paolo Sarpi (di cui dovremo occuparci). Certo, i tempi stavano cambiando e alcuni privilegi potevano essere aboliti: ma a tal fine vi erano le vie diplomatiche dei “legati” e degli ambasciatori, per cui, stando all’uso tradizionale, i provvedimenti unilaterali erano certo un abuso di potere in sede di diritto interstatale. Ma è altrettanto vero che il non aver capito le oggettive condizioni di un clero che possedeva troppe aree fabbricate in Venezia, sicchè il provvedimento, benchè unilaterale, aveva questa volta basi di ragionevolezza notevoli, fu il torto di papa Paolo V (Camillo Borghese: 1604-1621), che dovette ritirare l’interdetto, per il boicoittaggio da parte del clero diocesano e di parte di quello religioso. [16] “Patristico” significa “riguardante i Padri della Chiesa”, cioè quegli scrittori dei primi sette secoli dopo Cristo, riconosciuti come ortodossi (per lo più vescovi o sacerdoti, ma con qualche rappresentante laico, a cominciare dal martire del secondo secolo, San Giustino, un convertito dal giudaismo, professore di filosofia a Roma). [17] Adduciamo un esempio chiarificatore per una casistica morale non semplice. Intanto premettiamo: se il dubbio riguarda la esistenza o meno della legge morale attinente il caso in questione (può un cattolico non sposato prendere in moglie una protestante divorziata, visto che la religione di questa le permette di risposarsi?), non posso agire se non dopo aver raggiunto la sicurezza circa la legge stessa, perchè non posso mettere a repentaglio la mia adesione al bene ed a Dio, autore della legge morale. Ma se il dubbio riguarda solo la dipendenza incerta della mia situazione dalla legge conosciuta, allora posso orientarmi, in caso di urgenza nella scelta, verso indizi oggettivi per decidere se l’azione che mi attrae di più è lecita o meno (la incertezza riguarderà più facilmente azioni che non sono peccato in se stesse, ma occasioni di peccato, come il seguire uno spettacolo televisivo a scopi seriamente culturali, pur sapendolo inquinato qua e là di scene impudiche o commentato, da chi lo conduce, in senso contrario alla fede): il consenso del confessore in precedenti casi simili o il comportamento di persone fattivamente cristiane nella mia stessa situazione possono essere indizi sufficienti a ritenere lecita la scelta, una volta assicurata la volontà limpida di non voler accedere alle suggestioni di peccato. Si noti che, per coerenza, il “probabiliorismo o rigorismo” dovrebbe proibire di viaggiare in automobile, perchè la scelta “più probabile” di sicurezza personale è il camminare a piedi o in treno o in aereo, tutti mezzi di trasporto più sicuri dell’automobile. Quanto al giansenismo in Italia, esso approderà, in maniera significativa, solo tardi, con il governo austriaco, dopo il Congresso di Vienna: esso lo favoriva ponendo sulla cattedra di teologia a Pavia professori che lo insegnassero ai futuri sacerdoti; lo sosteneva, perchè il giansenismo finiva per coincidere col “giurisdizionalismo”, in quanto attribuiva allo stato poteri di intervento e controllo anche in campi strettamente religiosi (elezione di vescovi, contenuti dell’insegnamento nei seminari, permessi per leggere in chiesa documenti pontifici...). [18] Rileggiamo allora, i punti forza ed i punti deboli dell’autorità della Chiesa negli stati cattolici, dopo il Concilio di Trento. Per quel che riguarda l’autorità del papato all’interno della Chiesa cattolica, leggiamo quanto ne dice H. Jedin nella Storia della Chiesa, v. VI, pp. 611-2 della traduzione italiana (Milano, Jaka Book): “La restaurazione del potere papale favorita dal Concilio di Trento non fu...un abile trucco di curialisti avidi di potere, come affermarono scrittori anticlericali quali il Vergerio e il Sarpi, ma la naturale conseguenza della riforma cattolica portata avanti lealmente, anche se non sempre con rigorosa coerenza e pieno successo. Il nuovo centralismo che sostituì quello di carattere fiscale del Medioevo, posava su basi religiose e spirituali. Il papato aveva messo in vigore le norme del Concilio di Trento: una sola Bibbia, la Volgata; una sola liturgia, la romana; un unico codice garantivano l’unità, anzi creavano una uniformità di vita religiosa quale non era mai esistita nella Chiesa pretridentina”. La Chiesa aveva anche creato degli organismi di controllo e prevenzione di eresie ed immoralità, di cui si è già parlato: l’Indice dei libri proibiti e la Inquisizione. Nel 1538 si censurano i libri solo per le materie religiose; l’Indice del 1559 elenca anche quelli proibiti per motivi morali. Nel 1571 si stabilisce una Congregazione romana dell’Indice. Qualche esagerazione ci fu. Siccome l’Indice del 1559 era sostanzialmente quello redatto dalla università di Lovanio, finirono per essere condannate tutte le opere di Erasmo! Così pure, la proibizione di tutti i libri che non portassero il nome di autore e stampatore finiva per escludere troppe opere (non sempre inutili o nocive) dai paesi cattolici, chè di stampatori anonimi si fa il conto che ne esistessero 61 in tutta Europa e 16 solo a Basilea. Pure, la proibizione colpiva molte opere di scienze occulte (negromanzia, chiromanzia, geomanzia...) dannose oltre che scempie. Nel 1542 fu istituita la nuova forma di Inquisizione, centralizzata a Roma e perciò detta “romana o del santo Uffizio”. Ma perchè tali strumenti funzionassero, occorreva la collaborazione dei governi degli stati cattolici. Che fu ben lungi dall’essere adeguata. La Spagna accetta le decisioni di Trento, ma “senza pregiudizio per i diritti regali” (questi vanno dal “placet” -permesso regio- per la pubblicazione di documenti papali, al diritto di “recursus” contro gli abusi del potere spirituale, alla autonomia della Inquisizione spagnola ed al patronato sulle colonie spagnole in materie religiose). La Francia, a livello di potere politico, non accettò mai Trento: Enrico IV promise formalmente di accettarlo all’atto della conversione, ma non mantenne la parola data. Gli “Stati generali” (gallicaneggianti) respinsero formalmente l’introduzione dei decreti tridentini nel 1614. A livello dello stesso episcopato, essi furono accettati solo nel 1615; e solo da allora iniziarono le riforme dei seminari, le visite pastorali, ecc. In Germania le cose stavano peggio ancora. Qui l’imperatore Massimiliano II (1564-1576) era addiritura incline al protestantesimo. Comunque, per le clausole della pace di Augusta nel 1555, l’impero qua tale non poteva neppure pronunciarsi sul Concilio; tanto meno imporne i decreti. Il bisogno di pace è così ossessivo, che anche gli stati rimasti cattolici mantengono un atteggiamento di riserbo di fronte alle decisioni di Trento. All’inizio della riforma cattolica, il clero era largamente concubinario e opponeva una resistenza passiva alle innovazioni disciplianri. I capitoli delle cattedrali, col privilegio di scegliere il loro vescovo, non votavano i fondi per erigere i seminari. L’opinione pubblica era disorientata, anche perchè l’ignoranza fra i laici era grande, mancando una catechesi sistematica. Solo alla fine del secolo XVII muta la mentalità: la nuova generazione di vescovi inizia ad attuare i decreti del concilio e, con ciò stesso, una vera riforma del clero e del popolo. La casa d’Asburgo, nel frattempo, cominciò ad aiutare la riforma: eppure anche in Austria, i decreti del Concilio furono promulgati in tutte le diocesi solo dopo la fine della guerra dei Trent’anni (1648)! In Germania, meritarono più i Wittelsbach regnanti in Baviera che non i vescovi renani, signori di molti feudi: questi, solo tardi e mediocremente si impegnarono per la riforma. Così, la scarsezza del clero impediva di sostituire i concubinari o i preti di dubbia ortodossia con altri più fedeli. Fino a Napoleone ebbe vigore ancora l’accumulo di vescovadi, i più importanti dei quali erano appannaggio tradizionale dei cadetti di Baviera o d’Austria: in Renania al secondogenito di casa Wittelsbach; ai cadetti Asburgo, i vescovadi di Passau, Strasburgo, Breslavia, Olmutz... D’altronde protestanti ed anglicani (per non parlare della dittatura calvinista a Ginevra) usavano mezzi coercitivi non minori: Giovanni Fisher ( vescovo di Rochester) e Tommaso Moro, cancelliere del Regno, sono solo le due vittime più illustri dello strappo di Enrico VIII in Inghilterra (1534); e se Maria Stuarda fece vittime nei cinque anni di restaurazione cattolica (1553-8), non meno feroce fu Elisabetta I che riportò l’Anglicanesimo: 124 sacerdoti e 61 laici ne furono vittime, mentre una multa era imposta ai cattolici che frequentavano la Messa. Entrato il calvinismo in Scozia (Presbiterianesimo: rifiutano i vescovi), molti vescovi cedono, ma non tutti: Giovanni Hamilton, arcivescovo di Andrews (con 4 sacerdoti) e Beaton, di Glasgow, se ne devono andare dalle loro sedi. Era proprio un errore comune: solo la propria verità ha diritto alla diffusione: gli erranti o si convertono o se ne vanno in esilio o vengono uccisi. [19] Cucitura di due espressioni dei Promessi: la prima, dal capitolo ventisettesimo e la seconda, dall’ottavo. A proposito, anche i tentativi di definire il romanticismo come poesia spontanea (1798: fratelli Schlegel), nasce dopo che Herder , Goethe e Schiller l’avevano anticipata di una trentina d’anni con lo Sturm und Drang,. [20] Seguiremo Carmine Jannaco, Il Seicento, Milano, Fr. Vallardi, 1963. Pochi mesi prima del Giraldi Cinthio (Discorso intorno al comporre dei romanzi: 1554), un suo discepolo –G.B. Nicolucci- (il “Pigna”: lo conosciamo come autore de “La Istoria de’ principi d’Este”)- pubblicò nello stesso anno il trattato “I romanzi”: di qui una diatriba sulla paternità delle idee. Ma ecco alcuni autori del Milleseicento che hanno comunque trattato di estetica. Publio Fontana si esprime in favore di una poesia educatrice ed elevante spiritualmente; Alessandro Tassoni, è contro la superiorità degli antichi e le regole pseudoaristoteliche, ma non è favorevole ai concettini; Benedetto Fioretti (cioè Udeno Nieseley, nato a Mercatale di Vernio, Pistoia, nel 1579 e morto a Firenze nel 1642), che nei suoi “Proginnasmi poetici” è incerto nei criteri teoretici (regole antiche? gusto moderno? fine educativo-morale dell’arte?), si mostra invece sicuro nel gusto e nella discrezione del giudizio estetico su opere poetiche di ogni tempo; Tommaso Stigliani (Matera 1573-Roma 1651), primo stroncatore dell’Adone nel già citato suo “Cannocchiale” del 1627, ne aveva già fatto la parodia nel quarto libro del suo Canzoniere (1625), presentando metafore strampalate per rifare il verso ai poeti “oggidiani”, secentisti cioè, pur cadendo anche lui talvolta negli stilemi alla moda (oltre il Canzoniere, scrisse in versi il poemetto Polifemo ed il poema epico Il Mondo nuovo; e ci ha lasciato anche le Lettere); Scipione Errico (Messina 1592-1670) è favorevole al Marino ( di cui difende l’Adone nelle due commedie “Rivolte in Parnaso” e “Liti di Pindo”); scrisse anche favole pastorali (Deidamia| Endimione| Arianna), Rime e Poesie liriche; ma interessa soprattutto per il suo romanzo “culturale” Le guerre di Parnaso, opera allegorica critico-letteraria; Nicola Villani (Pistoia 1590-Roma 1636), poco importante come poeta (Rime giocose; il non finito poema su Fiorenza difesa; due satire in latino) è un altro caso di buon gusto letterario, perchè sa apprezzare gli spunti di poesia anche nel Marino e, pur conoscendo profondamente Aristotele e gli studiosi di poetica del Millecinquecento, non si affida a princìpi astratti per giudicare di arte e, per questo, sa denunciare anche i troppi difetti dell’Adone, che egli esamina senza pregiudizi, difendendolo entro certi limiti, a costo di scendere in diatriba con tro lo Stigliani ed altri critici (Uccellatura di Vincenzo Foresi; Considerazioni di messer Fagiano sopra la seconda parte del Cannocchiale del cavalier Stigliani); Daniello Bartoli (Ferrara 1608 –Roma, 1685) è liberale in sede linguistica (Il torto e il diritto del –Non si può-: 1665) ed in sede di scrittura del toscano (nel Trattato dell’ortografia italiana fu piuttosto contro la Crusca); in materia di poetica è in favore del buon senso, del realismo, per cui la espressione si deve attenere alla natura –anche scientifica- delle cose descritte; anzi giunge alla intuizione della essenza della poesia, quando dice: “tanto è più vero quanto è più naturale lo stile degli affetti”; moderato ed anticoncettista in teoria, egli è turgido e lussureggiante nelle descrizioni, per cui è considerato il prosatore barocco esemplare, pur non usando nè metafore sproporzionate nè concettini; Francesco Fulvio Frugoni (Genova , 1620 ca-Venezia 1686 ca: da non confondere con Carlo Innocenzo, l’abate verseggiatore del Millesettecento), discepolo di Emanuele Tesauro, nell’opera più nota (Il cane di Diogene: 7 volumi postumi, 1689) ed in altre (Ritratti critici, 1669), vede nell’opera d’arte il convergere di razionalità, moralità e fine utile (politico, morale...), diletto ed estro: dall’estro, fervore eccezionale e misterioso che riesce ad armonizzare utile (morale, politico...) e diletto, nascono i concettini, da lui stesso usati con sfoggio eccezionale (ad esempio i capitoli del “Cane di Diogene” sono chiamati “Latrati”: il “latrato” più interessante per la letteratura è il quinto: “Il tribunale della critica”; gli altri sono dedicati, attraverso i viaggi e le avventure del cane Saetta, a satireggiare un mondo “scongegnato”); ma le sue idee sono astratte, generiche ; Benedetto Menzini (Firenze 1646-Roma, 1704: ecclesiastico) fu assunto al servizio di Maria Cristina di Svezia, convertita e scesa ad abitare a Roma; fu tra i fondatori dell’Arcadia alla morte di lei e fu membro dell’Accademia fiorentina e della Crusca; scrisse liriche (amorose, eroiche, sacre), elegie, un’opera mista di versi e prosa (Accademia tusculana), un poemetto in sciolti di argomento morale (Etopedia) e tredici Satire in terza rima, ma astiose, perchè polemiche contro i vizi dei nemici personali; di lui ci interessa qui l’Arte poetica (1688), anch’essa in terzine dantesche: già dal titolo, preso dall’opera di Nicolas Boileau che l’aveva edita nel 1674, si possono arguire le tendenze classicheggianti del Menzini, che difatti vi stronca i secentistio per il loro “parlar spropositato e matto” e pone a base della poesia il buon gusto e la misura o ragionevolezza (di stampo oraziano); condanna la licenza sensuale ancora sussitente nella letteratura, si appella alla filosofia ed al contenuto educativo, ma richiede anche “il grande ed il decoro” quali segreti della “interna, alta armonia”, non sa apprezzare Dante, è incerto fra Tasso, Alemanni ed Ariosto, accenna ad una capacità di far sì che “uno sia il detto e la sentenza doppia” come caratteristica dell’arte tragica. Alla fin fine non si riesce a ricavare dal suo linguaggio generico ed astratto, vago ed incerto, quella chiara controffensiva classicistica che caratterizza i suoi stessi versi e la riforma arcadica: egli non è gran che come verseggiatore, ma è ancora minore come teorico e filosofo; Federico Mennini (Gravina di Puglia, 1636-1712) fu medico e scrisse poesie di stampo barocco: nel suo Ritratto del sonetto e della canzone, egli si rivela un tardo seguace del Marino; vede in lui e nel Chiabrera il culmine della poesia italiana; ripete la tesi di Giorgio Vasari applicandola alla lirica (la poesia del Milleseicento segna l’apogeo dell’arte verbale italiana, dopo di che non può venire che il declino, come è stato dall’arte visiva dopo Michelangelo)! Più occasionali altri accenni critico-estetici: Belisario Bulgarini (Siena, 1539-1619 ca) afferma che il diletto e non l’utilità è il fine dell’arte (1608: Considerazioni sopra la prima parte della -Difesa di Dante- di Jacopo Mazzoni; 1616: “Antidiscorso” in cui si ribadiscono le censure a Dante); Ludovico Zuccolo, che, oltre che di politica, si interessò di poetica nel “Discorsi delle ragioni del numero del verso italiano”, accenna ad una nuova concezione dell’arte, perchè dipendente da un senso che “discorre senza discorso”, cioè sfugge alla ragione pur essendovi ricollegato; anche Agostino Mascardi (1590-1646) combatte le regole e si appella a quella “maniera particolare e individua di ragionare e di scrivere, nascente dal particolare ingegno di ciascun componitore...” (Dell’arte istorica”: 1636 e 1648). [21] Con tale poetica esplicitamente concettista, il Peregrini anticipa lo spagnolo Baltasar Graciàn y Morales, che per altro rimane il trattatista più famoso del fenomeno secentista. Il Graciàn, infatti, scrisse il famosissimo “Agudeza y arte de ingenio” solo fra il 1642 ed il 1648, cioè tre anni dopo l’opera del Peregrini. Vissuto fra il 1601 ed il 1658, gesuita riottoso e indocile, scrisse anche lui opere sulle competenze e doveri del “gentiluomo” (El heròe| El polìtico| Fernando| El discreto| El oraculo manual| El criticòn). [22] “Segno mortale” è una notazione ironica di Manzoni alle considerazioni del notaio criminale sul rapporto folla-soldati il giorno dopo la rivolta di S. Martino del 1628 (c. XV). Essa ci pare vera anche nel caso che stiamo esaminando: quando anche il clero vien coinvolto in errori madornali, allora pare che Dio non abbia altro mezzo per salvare la dignità della Chiesa, che quello di far tramontare l’errore o la prassi disumana. Qui però lo usiamo anche noi ironicamente: il secentisnmo, benchè sregolatezza del pensiero e mancanza di buon senso, fu però un’aberrazione tale da muovere Dio alla sua dissoluzione, quasi costituisse un pericolo per la Chiesa. [23] Nato e morto a Roma (1607-1667: ma la famiglia, nobile, era di origine parmense), studiò presso i gesuiti del collegio romano, divenne prete diocesano ed entrò nella curia romana, dove iniziò una carriera che lo sfavore di Urbano VIII troncò: fu allontanato coll’eleggerlo governatore ad Jesi, Orvieto, Camerino. Superata l’opposizione del padre, entrò allora nella Compagnia di Gesù, insegnando, prima, filosofia e teologia, poi, allo stesso collegio romano in cui era stato alunno: fra i discepoli ebbe anche p. Paolo Sègneri. Fece parte anche di commissioni teologiche per l’analisi di dottrine sospette, non esclusa quella dei giansenisti (nel giudicare le cinque proposizioni incriminate, egli fu dalla parte minoritaria della commissione, che le riteneva erronee e prossime alla eresia, ma non propriamente eretiche, come fu invece giudicato). Nel 1655 divenne papa Fabio Chigi (Alessandro VII), suo amico fin dall’infanzia, che nel 1659 lo creò cardinale: del papa scrisse anche una biografia che rimase incompleta ed edita solo nel sec. XIX, perchè morirono nello stesso anno 1667 biografo e biografato. Il Pallavicino fu anzitutto teologo, filosofo e storiografo, anche se si interessò vivamente ai problemi della poetica. Abbiamo di lui otto volumi di Observationes theologicae (1649-52) e le Disputationes in Primam Secundae S. Thomae (1653: dispute sulla prima sezione della seconda parte nella Somma teologica di S. Tommaso), il volume di difesa del suo ordine religioso (1649: Vindiciae seu vindicationes Societatis Jesu, cioè “Rivendicazioni della Compagnia di Gesù”), il poema Fasti cristiani (1636), la tragedia del martire Ermenegildo (1644), il trattato ascetico Arte della perfezione cristiana (1665) e infine l’opera per cui resta più famoso (Istoria del Concilio di Trento:1656). Le stesse prime proposte di estetica letteraria sono contenute in un capitolo dell’opera filosofico-morale dal titolo “Del Bene” (1644: tradotto in latino col titolo “Philosophia moralis” ed edito a Colonia nel 1646); nel 1646 scriveva però le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo, specificamente filosofico-letterarie. Riservando al testo l’analisi delle idee sulla poesia, diciamo qui una parola sulla sua Istoria, in attesa di analizzare più da vicino quella del Sarpi, cui egli si oppose. Intanto la intenzione di scrivere tale “Istoria” non fu sua, come non furono suoi gli studi principali del lavoro: era stato incaricato un suo confratello gesuita, il p. Terenzio Alciati, che però moriva nel 1551 senza aver finito l’opera. La riprendeva il Pallavicino che, di suo, consultava anche manoscritti conservati nelle biblioteche Barberini, Borghese, Spada, Medici...; e potè dare anche una occhiata agli “Atti del Concilio” custoditi allora in Castel Sant’Angelo. Inutile dire che egli lasciò l’impronta nello stile della stesura ultima dell’opera. I due volumi “in folio” del 1656 ebbero successo; nel 1663-4 potè uscire (in “quarto” ed in tre volumi, questa volta) la seconda edizione; nel 1666 comparve una edizione latina, senza le polemiche antisarpiane; nel 1670 (ad Amsterdam) comparve l’edizione latina completa; ancora nel secolo XIX uscirono le traduzioni in francese, tedesco e spagnolo. L’opera è storicamente valida, perchè è basata non su seducenti processi alle intenzioni (come quella del Sarpi), ma su documenti. Dobbiamo ammettere però che ha tre limiti. Il primo è la sua incompletezza: mentre quanto dice è provato, egli però tace avvenimenti disdicevoli a carico dei cattolici. Il secondo sta nel far prevalere la parte apologetica, che prende la mano all’autore: lo stesso Pallavicino la definì “una apologia, mescolata di storia”. Egli si sente, cioè, quasi un avvocato, il quale deve dimostrare che certi fatti non avvennero per oscuri scopi di potere, ma solo in continuità e coerenza con una tradizione che attraversa tutta la storia della Chiesa, risalendo al Vangelo. Troppi, poi, i ragionamenti rispetto ai fatti: con il risultato della noia nel lettore. Per questo Hubert Jedin, prefazionando la sua esemplare “Geschichte des Konzils von Trient” (traduzione: Brescia, Morcelliana, 1949) afferma giustamente: “Da Sarpi a Pallavicino, vale a dire da trecento anni, il mondo attende una storia del Concilio di Trento che sia qualcosa di più di una semplice polemica di accuse e di difese”. Il terzo limite è lo stile, sul quale, in beme ed in male, riportiamo il giudizio di N. Sapegno: “Nell’opera del Pallavicino lo studio dello stile, attraverso l’armonia un po’ schematica delle clausole e la sapiente ricerca delle antitesi, prende il sopravvento sulla materia e s’accampa in primo piano. Se per questo rispetto il libro ha un suo posto, non piccolo nè secondario nello sviluppo della prosa d’arte secentesca, come opera storica dà spesso l’impressione di un lavoro imposto ed eseguito a freddo, e pertanto privo di nerbo” (Compendio di St. d. lett. it., II, 299, Firenze, la N. Italia, 1963). Quest’ultima qualità “negativa” è certo anche a carico delle idee contrastanti circa la letteratura in cui l’autore si era formato – classicismo retorico e barocco incombente- ma è soprattutto a carico della non geniale intelligenza del Pallavicino, della sua, diremo, “spuntata acutezza” (se si permette anche a noi un concettino, che è poi una figura retorica: l’ossimoro, cioè la congiunzione di due qualità opposte). Anzi è proprio dai limiti intellettuali dell’uomo che nascono i difetti della sua teorési estetica, come del suo stile ridondante. Se di tali carenze innate soffrano anche le sue (dimenticate) opere filosofico-teologiche, “noi lo sospettiamo; gli eruditi lo sapranno” ( l’espressione sbarazzina è di Manzoni: ma dove, nel capolavoro?). Egli aveva una personalità più completa che geniale: come il cardinal Federigo dei Promessi Sposi, era un ambidestro che tanto sapeva farsi stimare dai discepoli e da una certa classe di lettori (quella che fa opinine letteraria, comunque), quanto sapeva accontentare le persone a lui affidate da governare, perchè aveva discrete doti intellettuali e pratiche, di pensatore ed operatore sociale. Ma era mediocre in entrambi i campi di azione. Non era questione di “formazione” (behaviour), ma di “cromosomi” (Gestalt): ci si può domandare quanta parte delle sue teorie estetico-letterarie egli recepiva dalla cultura dominante e quanta combinava invece con il sostrato non geniale della sua mente, che aveva bisogno di regole e di tecniche, perchè non aveva il dono della poesia in se stesso nè, quindi, poteva intuire quanto di spontaneo e di estroso essa comportava. [24] Giambattista Vico nella “Scienza nuova” offre una sua “storia” dello sviluppo dell’uomo dalla esistenza primitiva (età dei sensi e degli dei) alla vetta della sua perfezione (età della ragione o dei filosofi), attraverso una età media (della fantasia, dei poeti e degli eroi). Dopo quanto detto nel testo, è chiaro che per il Pallavicino la concezione, vichiana risulterebbe del tutto errata: per il pensiero scolastico, l’uomo non è mai esistito con una sensazione senza astrazione di idee (altrimenti non si avrebbe un uomo, ma un primate); e neppure con una fantasia senza potere raziocinativo o filosofico. Tanto meno poteva esserci, per il cardinale gesuita, una attività pratica di irresponsabilità morale (machiavellismo, edonismo...), parallela alla arbitraria prerazionalità della fantasia poetica. Talvolta si ha l’impressione che l’idealismo crociano dovesse affidarsi a processi alle intenzioni, per trovare qualche presentimento nella storia del pensiero umano, tanto era rivoluzionaria e gratuita la ipotesi di una forma di conoscenza umana, esclusa dalla piena razionalità; e di un livello di scelte volitive, estranee alla legge morale. [25] Riportiamo da C. Jannaco, Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 1963. p. 47: tra virgolette, le parole del Pallavicino. [26] Ricitiamo dai Promessi Sposi, c. 28. [27] Anche G. B. Marino, il principe dei poeti secentisti, trova modo di inserirsi fra i teorici del concettismo, con una sua terzina divenuta emblematica del fenomeno, nonostante la cautela generica avanzata nel secondo verso: “E’ del poeta il fin la meraviglia| -parlo dell’eccellente e non del goffo-| Chi non sa far stupir, vada alla striglia” (in Fischiata 33.a della Murtoleide). E anche nell’Adone la dottrina è adombrata in IX, 2 “e detta a novo stil concetti novi”. Anche Gabriello Chiabrera, l’altro grande corifeo della lirica del Milleseicento (non secentista, però), afferma lo stesso principio nell’autobiografia “o trovar novo mondo od affogare”. Del valore etico-sociale di tale concezione dell’arte accenneremo dando uno sguardo al “costume o dimensione pratica” del secolo. [28] Nelle arti figurative, sembra quasi che il canone primo sia quello di celebrare la grandezza e la potenza: di Dio, anzitutto, ma non solo; e non tanto per direttive ecclesiastiche, quanto per il prevalere negli stati europei della autorità imperiale o monarchica, che trasmette più il senso del potere eccelso, inaccessibile, che non quello della vicinanza e del servizio fraterno. Anche la fede risente di tale atmosfera politica e tende a sottolineare l’adorazione piuttosto che l’amore, l’aspetto della infinita maestà di Dio piuttosto che quello della Sua paternità e misericordia. E forse a tale unilateralità della concezione relgiosa, più veterotestamentaria che evangelica, si è pervenuti anche per le ricadute in ambito cattolico della dottrina luterano-calvinista circa la totale nullità morale dell’uomo a seguito del peccato originale; e dell’assoluta iniziativa di Dio per le sue sorti eterne, sino alla predestinazione di salvezza o di dannazione. A celebrare questa onnipotenza sovrana, questa maestà terribile sta la grandiosità di architettura, scultura e pittura. Di qui la massiccia solidità delle costruzioni del Milleseicento, che si tenta di alleggerire, poi, facendo di scultura e pittura delle ancelle dell’architettura. L’unità delle tre arti sottolinea sporgenze e nicchie, volute e cornicioni, specialmente nelle chiese, mentre la padronanza delle leggi di prospettiva permette di incaricare la pittura a fornire delle “quasi statue, incorniciate in finte nicchie: la tecnica del trompe-l’oeuil è usata ed abusata. Sì, perchè la grandiosità diventa anche autocelebrazione dell’artista, che vuol mostrare la bravura nel rappresentare mantelli svolazzanti (quasi mossi dal vento), figure che seguono lo spettatore da una angolatura all’altra di osservazione (coll’apparente rigirare degli occhi, viso e corpo intero verso di lui), capacità scenografiche (col riempire ogni angolo dell’affresco|tela con figure, edifici, animali vegetazione, ecc., che neppur sempre sono pertinenti al tema del dipinto; e con i colori afosi, autunnali, dal rosso al giallo al marrone). [29]Per la gara di precedenza, tutti abbiamo in mente la diatrìba fra Ludovico ed il signor “Tale” che finisce con lo scontro alla spada e più di un morto sul terreno: il tutto , per il diritto di camminare rasente al muro (P.Sposi, c. IV). Ma nel romanzo vien anche rispecchiato il punto d’onore, la frequenza dei duelli e la loro regolamentazione puntigliosa e ridicola (c. VI) e la dura, crudele traduzione della differenza fra popolo e nobili in quella fra galantuomini e mascalzoni (c. XI: questi ultimi “Chi sa che ci siano? Sono come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un padrone; gente di nessuno”). Che il romanzo sia, su questo punto, psicologicamente storico, lo dimostrano troppi fatti. Persino al Concilio di Trento ci furono momenti di imbarazzo e di tensione per la precedenza, fra l’amasciatore spagnolo e quello francese, nel ricevere la incensazione durante la Messa. E dal “cerimoniale veneziano” di commiato, in cui fra inchini ed altre cerimonie rituali, veniva ripetuto all’infinito l’ossequio “schiavo suo|schiava sua”, è disceso il saluto, oggi onnipresente, “ciao”: attraverso la declinazione di “slavo” (erano, a Venezia, i lavoratori dei servizi più umili e pesanti, assoldati dalla vicina costa dalmata) a “sciao” (trasformazione imposta dall’orecchio musicale veneto, troppo sintonizzato sulla dolcezza per sopportare il termine duro, invalso in un pirmo momento) e, infine a “ciao”, esigito dalla più armoniosa musicalità dell’orecchio toscano, una volta che l’espressione si è estesa all’Italia tutta. [30] “Cause biologiche” da intendersi come sollecitazioni a parlare e comportarsi in una determinata maniera, soggetta però al controllo del libero arbitrio razionale. Ma questo interviene, coi suoi veti o le sue permissioni, solo quando si presenta un dilemma avvertito dalla coscienza come moralmente importante: che non era il caso del gusto, a proposito dell’enfasi nel parlare,vestire, gestire ecc. In tali casi, emarginata la coscienza morale, l’uomo medio segue la moda, l’influsso più attraente o più urgente: politico, economico od artistico che esso sia. [31] Nelle stesse pagine, il Croce attenta anche una specie di eziologia o studio delle cause: “Dispersi o infiacchiti tutti gli altri sentimenti e interessi, speculativi, etici, politici, restava la sensualità o, per chiamarla in modo più proprio, il sentimento sensuale”. [32] Durante il secolo XIX, si incontra un altro scrittore che, in stile più classico, ma non meno enfatico e retorico, scrive il romanzo Margherita Pusterla e le parti introduttive ai suoi volumi di Storia universale, lasciando la impressione di una povera mente: è Cesare Cantù (1804-1895). Quando però si cominciano a leggere i capitoli di storia, si è di fronte a tutt’altro scrittore e pensatore: stile sobrio e conforme al parlato, selezione dei dati e loro organizzazione in base al miglior buon senso, conoscenza di fatti significativi insoliti...: insomma, libri di una erudizione sorprendente (anche se definitiva) in una forma espressiva classica. E’ come se ci si imbattesse in un caso di sdoppiamento della personalità (un dato che altri comportamenti della sua vita pratica tendono a confermare, come l’esser riuscito a rompere i rapporti con il Manzoni, per avergli rubato la idea della storia della Colonna infame, che non esitò a pubblicare prima dell’Amico imprudente. Quello che nel Cantù era forsefrutto di uno stato subpatologico, negli scrittori concettisti poteva ben essere l’effetto di una condizione sociale, che disorientava e legava la loro intelligenza non eccezionale, il loro gusto non geniale, alla moda imperante. [33] Di espressioni tecnicamente concettiste, ma spiritualmente sublimi, abbiamo esempio già nelle sette lettere che S.Ignazio di Antiochia scrisse alle varie comunità cristiane, vicine ai porti dove si fermava la nave che lo conduceva al martirio in Roma: egli usa immagini al limite della ragionevolezza, ma di una forza sconvolgente: “Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. Io sono frumento di Dio. Bisogna che io sia macinato dai denti delle belve, affinchè sia trovato puro pane di Cristo” (lettera ai Romani). Del secolo XIV vi sono le espressioni di s. Caterina da Siena; del secolo XVII, quelle di Luis de Gòngora (1561-1627), del mistico tedesco Jakob Boehme (1575-1624) e di Angelus Silesius (1624-1677). Nel secolo XX troviamo padre Pio da Pietrelcina, il sacerdote stigmatizzato e carismatico, tra le cui espressioni ve ne sono alcune che sembrano concettiste, mentre sono semplicemente esaltanti (o formidabili: dipende dal grado di adesione a Cristo cui si è pervenuti): “Ti affanni a cercare il Sommo Bene: ma in verità è dentro di te e ti tien disteso sulla nuda croce, alitando fortemente per sostenere il martirio insostenibile e, ancora, per amare amaramente l’Amore”; e “Di’ anche tu al dolcissimo Signore: -Voglio vivere morendo, perchè dalla morte venga la vita che non muore e aiuti la vita a risuscitare i morti-”. Benedetto Croce, nella corrispondenza con Carlo Vossler, pretendeva che espressioni di questo tipo non fossero barocche, perchè non animate dallo spirito concettista. Negava (ed il Vossler lo richiamava alla arbitrarietà del suo monismo che gli impediva di assentire alla evidenza: carteggio, lettere del 10 agosto e 9 settembre del Croce; del 5 settembre, del Vossler) che potesse esistere una tecnica barocca neutra, sucettibile di essere informata talora da un atteggiamento superficiale di enfasi o comicità balorda (concettismo), tal altra da un atteggiamento psicologico serio e profondo (sentimento religioso o lirismo drammatico o comicità riuscita). Se non ci fosse il dualismo di tenica espressiva e di pensiero-sentimento espresso, come riconoscere la parentela (apparente, per Croce; autentica, per i comuni mortali) tra le due classi di espressione? Su tutta la questione, si veda il nostro “Benedetto Croce e il seicento”, Milano, Marzorati, 1962, specie le pp. 59-76; 115-126; 185-225; 216-8. [34] Il nostro giudizio non positivo sulla “artisticità” degli scritti del cardinale Federigo è una deduzione da quel poco che ne accenna Manzoni alla fine delllo schizzo biografico del porporato (c. 22 dei Promessi). Invece è stata una esperienza deludente tutta nostra quella della lettura, fatta a tredici anni, del primo volume sulla storia della Chiesa scritto da don Bosco. L’ammirazione che avevo per la vita e l’operosità del santo (indiscussa ancora adesso) si trovò confrontata con una prosa che, a distanza di decenni dalla “rivoluzione manzoniana”, seguiva ancora canoni di retorica classicheggiante o si adagiava in una sciatteria del tutto incurante della dimensione estetica della comunicazione. Ma sono stati proprio i contatti con le gli scritti dei poeti e con la loro vita a costringermi a distinguere fra genialità nell’espressione delle emozioni e sincerità nella esperienza dei sentimenti. Don Bosco non avrebbe trascinato, ai propri ideali religiosi ed etici, folle di giovani e di adulti di ogni classe sociale, senza una adesione interiore alle idee insegnate, che non avevano bisogno di sublimazioni estetiche nè di fascino artistico: la vita parlava in lui e per lui. [35]
Siamo onesti: se tutto il valore dei poeti italiani del Millenovecento,
eccezion fatta per Guido Gozzano e Carlo
Alberto Salustri detto Trilussa, si dovesse ridurre all’impeto lirico dei
loro versi, che giudizio si potrebbe dare sulla loro vita e personalità? Diòs
nos valga! [36] Unica eccezione documentabile nella storia è stata la “rivoluzione cristiana” in campo religioso e morale: essa non trova precedenti significativi in nessuna generazione precedente, ma è in gran parte un “rovesciamento di princìpi”. [37] Narra Giuseppe Rovani nei “Cento anni” che a decidere della morte del Prina fu il capo dell’arte dei muratori milanesi, il quale era stato incaricato (e verrà abbondantemente pagato, ad assassinio eseguito) dai coniugi Arese. Il marito di Antonietta (sì, proprio la amante del Foscolo, celebrata nell’ode All’amica risanata) era avvocato ed uomo di fiducia del Prina. A questi, come ministro delle finanze, non era permesso comperare all’asta i beni incamerati di persone ricche, ostili a Napoleone o andate in fallimento; ma egli si permetteva di farne acquisto attraverso l’avvocato suo amico, che ne restava il proprietario nominale: almeno fin quando il Prina aveva potere e forza dalla sua parte. Caduto Napoleone, gli Arese prezzolarono chi togliesse di mezzo il personaggio cui avrebbero dovuto consegnare i beni acquisiti. E dimostrarono la differenza fra la moralità cui indirizzava la educazione (sia pure aiutata dalla censura) postridentina e lo spirito rivoluzionario, cui istigava l’illuminismo agnostico, deista od ateo. [38] Erano stati approvati da Clemente VII solo per l’Italia nel 1525; ottennero con Gregorio XIII libertà in tutta la Chiesa, sia pure sotto la “tutela” dei Conventuali (1574) e S. Lorenzo da Brindisi (1559-1619) ne favorì la diffusione nei paesi della Germania con la sua attività di infiammato predicatore in molte lingue e di animatore della resistenza ai Musulmani, fermati ad Alba Reale nel 1601, grazie anche alla sua presenza come cappellano delle truppe cristiane. [39] D’altronde, anche altri ordini religiosi, dai Carmelitani agli Agostiniani, riprendono la severità della loro regola originaria (venivano chiamati “recollecti”). Fra i laici, le “confraternite” rinnovano (in maniera più ordinata che nel Medioevo) l’adesione del laicato al rinnovamento religioso: accanto a quelle della “Dottrina cristiana”, la più nota è la confraternita del SS. Sacramento, sorta a Roma nel 1539 e diffusasi poi a Milano e un po’ dappertutto (a Milano nasce nel 1537 la pratica dell’adorazione continuata per quaranta ore, con turni di fedeli anche di notte, per implorare la pace, entrata di nuovo in pericolo in seguito alla annessione del Milanese da parte dell’Impero). Nei collegi dei gesuiti nascono le “congregazioni mariane”, che prepareranno dei laici davvero impegnati nella pratica delle opere di misericordia, a cominciare dalla difesa e diffusione della fede. L’accesso all’ Eucaristica comincia a divenire da obbligatorio (almeno una volta all’anno), frequente: nei collegi dei gesuiti si favorisce la Comunione settimanale, mentre i confratelli del santissimo Sacramento invitano alla Comunione mensile. Si diffondono le processioni per la festa del Corpus Domini, mentre l’altare centrale delle chiese postridentine vien staccato dalla parete ultima e dotato di un dorsale, cioè di una una specie di trono, su cui esporre l’Eucaristia con una luminaria di candele per corteggio. Sempre nel Milleseicento i confessionali si diffondono nella forma durata oltre tre secoli e parzialmente trasformata solo nei decenni successivi al Concilio ecumenico Vaticano II. La recita del Rosario si propaga, con le “litanie” in lode di Maria SS. (dette “lauretane” dal santuario di Loreto, ove sarebbe stata trasferita la casa di Nazaret per sottrarla alle profanazioni musulmane). La stessa superstizione circa le streghe, le malie, gli untori testimoniano di una religiosità viva, anche se disorientata. Notiamo ancora che nel 1620 i figli di S. Filippo Neri fondano il parallelo ordine femminile delle suore oratoriane. [40] Degli altri santi diamo qui una carrellata veloce. Nel 1607 muore a Roma, carmelitana scalza, S. Maria Maddalena de’Pazzi. Tutto del Milleseicento è S. Giuseppe da Copertino, tanto rozzo di mente e povero di abilità da essere rifiutato dai francescani minori e cappuccini: i primi lo riassunsero per compassione come addetto alla stalla. Ma aveva il soprannaturale sfacciatamente dalla sua parte, tanto che fu accettato, poi, come frate converso e potè cavarsela agli esami, inaspettatamente, per diventar sacerdote. Vinse poi anche i timori del S. Uffizio che sospettava l’opera del demonio nel fatto che egli viveva di miracoli continui, tra voli estatici e portenti in favore del popolo che (dovunque lo scaraventassero gli ordini della Curia romana, perchè non destasse rumore), accorreva a chiedere grazie ed a venerarlo. Morì a 60 anni, nel 1663 ed è invocato dagli scolari in difficoltà negli studi, lui che chiamava se stesso “frate Asino”, ma che aveva una fede tetragona ed una sapienza, religiosa e morale, eccezionale. Il francescano S.Carlo da Sezze (Latina, 1613-1670) restò umile frate converso, senza mai giungere al sacerdozio, ma servendo come cercatore, cuciniere, ortolano: la Autobiografia scritta per ordine del confessore ce ne attesta l’obbedienza e letizia di spirito, nonostante le umiliazioni dell’ultimo posto che teneva in convento. Siamo in Toscana col beato Antonio Baldinucci, gesuita (Firenze, 1665-1717), che, non potendo partire per le missioni estere a causa della salute fragile, nel corso di venti anni tenne ben 448 missioni popolari in trenta diocesi del centro Italia (fece capo per sua attività a Frascati e Viterbo). Ebbe successi strepitosi di folle e di conversioni. Seguace di Paolo Sègneri il giovane, puntò sui tre mezzi per il successo della predicazionie: gli esercizi spirituali per i sacerdoti, le processione di penitenza per il popolo, la fondazione di Congregazioni mariane, per la perseveranza e la formazione continuata di gruppi più aperti o preparati al cammino spirituale. [41] Fra le altre testimonianze sulla “bontà dei tempi” si possono elencare anche queste altre: il cardinal Federigo Borromeo fu malvisto a Madrid per la intrepidezza con cui protestava contro le prepotenze spagnole; per motivi simili, i cardinali Cesare Baronio, Agostino Galamini e Giulio Sacchetti furono eslcusi dal papato per il veto spagnolo (per onestà va tuttavia ricordato che la occupazione, in questo secolo, delle Filippine da parte della Spagna non conobbe nè prepotenze nè schiavitù). Se il numero delle vocazioni al sacerdozio in Sicilia (dall’uno e mezzo al tre per cento della popolazione) e nel Meridione in genere (a Capua, su seimila abitanti, vi sono 136 preti beneficiati) è un dato equivoco (molti rimangono in famiglia e ne diventano il sostegno), in compenso preti eroici durante la peste non ci furono solo a Milano, ma un po’ dappertutto; se le monacazioni forzate rimangono una macchia sociale, si devono però anche ricordare Maria Cristina, moglie di Vittorio Amedeo I, che fece della corte sabauda un convento teresiano; la venerabile Chiara Maria della Passione, fondatrice del monastero Regina Coeli (Roma) delle Carmelitane scalze, che era una principessa Colonna Barberini; Caterina Farnese (principessa di Parma) ed Eleonora d’Este ( figlia del duca Francesco I), che entrarono in Carmelo. Ancora: se la religiosità di Claudio Monteverdi era sincera e seria, quella di Lorenzo Bernini era addirittura severa; fra i gruppi di Dottrina cristiana, eretti in confraternite per la diffusione della conoscenza della fede, v’era chi si flagellava; con il beato Innocenzo XI, gli Scolopi istituiscono scuole professionali (primo caso in Italia); in Capitanata i gesuiti mettono a cultura terre abbandonate, formando nuclei di futuri villaggi; tra le opere di misericordia (ospizi per mendichi, monti di pegni e frumentari, ospedali, monasteri per donne pentite...) quelle di Genova erano le meglio organizzate d’Europa, oggetto di visite per imitazioni; Paolo V prosciugò paludi presso Ferrara; in Roma l’edilizia è favorita dallo splendore di vita di cardinali nepoti e lascia opere famose: palazzo e villa Borghese, villa Doria-Panphili, villa Aldobrandini, biblioteche e collegi. [42] “Concettini” traduce presso di noi le “agudézas” dello spagnolo; “concettismo” sta ad indicare l’acutezza intellettuale degli accostamenti impensati; “marinismo” è nome tratto dall’autore dell’Adone, che è il principale rappresentante della poetica concettista; “secentismo” deriva dal nome del secolo in cui si diffuse la moda; “barocco letterario” dalla affinità della tecnica concettista con le arditezze delle arti figurative, la cui denominazione (barocco) spiegheremo nel testo. [43] Ognuno può scoprire facilmente i vari sofismi o passaggi indebiti del ragionamento. L’arte è molto interessante, ma l’interesse non è destato solo dall’arte (curiosità, scandalo, erotismo, ideologie socio-politiche, eroismi, scoperte storiografiche, filologiche, scientifiche: ogni fatto clamoroso, nel male come nel bene, tende ad essere interessante), per cui artistico ed interessante non coincidono. Il “nuovo od originale” è certo interessante, ma non è l’unica sorgente di interesse (vedi sopra: i fatti clamorosi interessano a lungo, anche se ripetitivi). Il nuovo od originale può essere interessante come può lasciare indifferenti o suscitare disgusto: dipende dal tipo di “novità-originalità” di cui si tratta. Che il meraviglioso si ottenga principalmente con i concettini, è tutto da provare: lo sbarco sulla luna e altri happening del genere sono decisamente cose meravigliosi: e non contengono concettini... [44] Sia il barocco figurativo che quello verbale sono ben più antichi di Marcabruno e (per fare un altro nome solo mediocremente illustre) di Pellegrino Tibaldi. A Baalbek, nella valle della Bekaa, in Libano, vi sono rovine di un tempio che nulla hanno da invidiare al barocco del nostro Milleseicento. Eugenio D’Ors (Du baroque, 1935) tratta il barocco come una forma eterna (eone) dello spirito umano, che di tanto in tanto prende il sopravvento. E non a torto G. Toffanin sostiene che gli scrittori latini Ovidio, Seneca, Lucano erano anime in barocco. Già abbiamo ricordato le “acutezze” della Divina Commedia, da “amor che nullo amato amar perdona” (Inf. 5, 103) ad “Io credo ch’ei credette ch’io credesse” (Inf. 13, 25); del Petrarca , da “L’amar m’è dolce ed utile il mio danno” (118) a “O viva morte, o dilettoso male” (132), da “E vorrei più volere e più non voglio| e per più non poter fo quanto io posso...” (118) a “Pace non trovo e non ho da far guerra| e temo e spero ed ardo e son di ghiaccio...” (134) e su su fino all’Ariosto ed al Tasso. Ma si è anche detto, al seguito del Toffanin, che la teorizzazione della tecnica si ebbe attrono al 1542-5 a Padova, alla scuola dello Speroni e del suo discepolo Bernardino Tomitano, che riportò la dottrina del maestro nei “Ragionamenti della lingua toscana” . Delle teorizzazioni ulteriori di Paolo Beni, di Matteo Peregrini (Pellegrini), del card. Pietro Pallavicino Sforza, di Emanuele Tesauro e dello spagnolo Baldassar Graciàn y Morales si è già detto. Qui val la pena invece di ricordare che la moda ebbe sviluppi anche fuori di Spagna ed Italia e anche oltre il “Seicento”. In Spagna, oltre Luis de Gòngora, anche Lope de Vega e Calderòn de la Barca sono ricchissimi di concettini; e Shakespeare non ne fa economia anche in opere tragiche come Romeo e Giulietta: venivano incontro ad un certo gusto del pubblico. E, se è lecito dire una verità ovvia ma pericolosa, che cosa è l’ermetismo nel secolo XX se non un concettismo più elaborato e sofistico? Si leggano gli esempi riportati da A. Galletti nelle pagine 547-553 del volume della Vallardiana sul “Novecento”. Ma nacquero anche vere scuole di versificazione o poesia in stile barocco sia in Francia (il “preziosismo” nel salotto di Catharine Pisan de Vivonne, marchesa di Rambouillet, canzonata dal Molière nella commedia “Les précieuses ridicules”), sia in Inghilterra , dove è detto “Eufuism” (leggi: IUFIUISM) , da Euphues, titolo di un romanzo di John Lyly (1553-1606); ivi è detto anche “Poesia metafisica” ed il suo più noto rappresentante è Richard Crashaw (1612-1649). [45] Chi ha elencato nel modo più completo le varie forme dello stile secentista è forse Bruno Migliorini nella sua Storia della lingua italiana ( Firenze, Sansoni, 1966, pp. 416-422). Egli, oltre che di iperboli, parla di accumulo di metafore, di rovesciamento nel rapporto aggettivo-sostantivo, di enigmi, di contrasti (fra concreto ed astratto, fra solenne e triviale), di rime difficili, di paronomasie o bisticci, di riporto al senso etimologico da quello ormai imposto dall’uso, di antonomasia, di enumerazioni, di sinonimie e di lingua ionadattica (identificazione del senso di due parole, per il fatto che hanno consonanti identiche: il Migliorini porta come esempio “fagioli=fagiani”; aggiungerei: sbarazzarsi=sbizzarrirsi). [46] Resta sempre interessante la conoscenza delle origini dei termini, perchè la filologia aiuta a comprendere più a fondo il loro significato. Abbiamo la parola BAROCCO che interessa per la sua provenienza “nobile”, in quanto pare discenda, almeno in parte, dal vocabolo-sigla della logica sillogistica propria della filosofia scolastica più raffinata. Una parentela, a dir il vero, la si sospetta anche con il portoghese “barrueco”, che era il nome dato alle perle irregolari, scaramazze. Ma il riferimento più persuasivo (o, comunque, più ghiotto) è quello rappresentato dalla parola simbolica “Baroco”, nelle cui vocali gli scolastici medioevali erano riusciti a racchiudere un cumulo di significati relativi alle caratteristiche delle tre proposizioni di un particolare tipo di sillogismo (sillogismo è la forma perfetta del ragionamento razionale: quella più semplice e chiarificatrice e, perciò, la più persuasiva o la più aperta alla falsificazione; la più probante o la più evidentemente falsa). La “A” indica che la proposizione prima del sillogismo è universale e positiva; la “O” indica che la seconda frase e la terza sono particolari e negative. Ecco degli esempi: “Tutti i ladri temono la prigione| ma (atqui) alcuni uomini politici non temono la prigione| dunque (ergo) alcuni uomini politici non sono ladri” (dalla Enciclopedia filosofica Garzanti, voce “sillogismo”). Eccone altri, riguardanti il nostro secolo letterario: “I grandi poeti sono liberi da enfasi. Atqui il Marino non è libero da enfasi. Quindi il Marino non è un grande poeta”; oppure “Tutti gli scrittori barocchi sono concettisti. Atqui il Galilei non è concettista. Ergo il Galilei non è scrittore barocco”. Si noti che questa forma sillogistica in “BAROCO” è una delle diciannove esatte e concludenti sulle 256 ipotizzate da Aristotele. Ma la forma è contorta e spiacevole. Ecco allora il perchè del passaggio ad indicare una forma d’arte complicata e sgradita, come è praticamente sempre quella barocca letteraria e spesso anche quella figurativa. Si noti che la scolastica medioevale ha inventato solo le formule simboliche dei sillogismi (pare sia stato Pietro Ispano, poi papa Giovanni XXI, negli anni 1276-7, nelle Summulae logicales), che però rendono l’esame circa la esattezza del procedimento razionale “in formis” (cioè tecnicamente perfetto: il sillogismo, appunto), analizzabile quasi matematicamente (anche al computer) e per di più modificabile con facilità, in modo da ridurre tutte le forme sillogistiche alle quattro del primo gruppo, che sono le più semplici, chiare e convincenti, anche se di esse, a noi qui, interessa solo la prima e perfettissima formula, quella del sillogismo in “BARBARA”, FORMATO CIOE’ DA TRE UNIVERSALI POSITIVE. Difatti la prima delle consonanti di Baroco indica proprio che il nostro sillogismo può essere ricondotto alla formula di Barbara. La consonante “R” non ha significato tecnico: è un riempitivo per dar suono alla parola “baroco”. La terza consonante “C” è invece anch’essa simbolica: suggerisce che per trasformare un sillogismo in “Baroco” in uno in “Barbara” occorre ridurlo ad una formulazione assurda. Possiamo tentare in questa maniera: Chi teme la prigione è un fuorilegge e ladro; Atqui è assurdo pensare che tutti i politici temano la prigione; ergo è assurdo pensare che tutti i politici siano dei fuorilegge e ladri.| Gli scrittori concettisti sono tutti barocchi; atqui è impossibile che persone intelligenti come G. Galilei siano scrittori concettisti; Ergo è impossibile che gli scrittori intelligenti come G. Galielei siano barocchi.| Solo chi è libero da enfasi può essere un grande poeta. Atqui è impossibile (assurdo) che uno scrittore barocco (come il Marino) sia libero da enfasi; ergo è impossibile (assurdo) che uno scrittore barocco (come il Marino) sia grande poeta.
[47] A parte opere comunque importanti (Adone| La secchia rapita| Dialogo dei massimi sistemi| Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze| Tragedie, del Della Valle| La dissimulazione onesta, di T. Accetto| Canzoni, del Chiabrera) ci rifacciamo sostanzialmente ai volumi sul Seicento, della Storia della letteratura italiana, sia di F. Vallardi (Milano, 1963), sia della Garzanti (Milano 1967|1976); ed ai volumi della collezione de La letteratura italiana, storia e testi, editi da Ricciardi, Milano- Napoli, sui vari autori del secolo : li citeremo come “Vallardiana| Garzantiana| Ricciardiana”. La Storia dell’età barocca di B. Croce (Bari, Laterza, 1957 ed i già citati Il Concilio di Trento di H. Jedin (traduz. Brescia, Morcelliana, 1949-85) e la Storia della Chiesa in Italia, di G. Penco, Milano, Jaka Book, 1978, sono altri libri tenuti presenti . [48] Si legga già la seconda strofa del primo canto, ove si celebra Venere come pacificatrice del dio della guerra, Marte, in questi termini: “Tu dar puoi sola altrui godere in terra| di pacifico stato ozio sereno.| Per te Giano placato il tempio serra,| addolcito il Furor tien l’ira a freno;| poichè il dio de l’armi e de la guerra|spesso suol prigionier languirti in seno,| e con armi di gioia e di diletto| guerreggia in pace, ed è steccato il letto”. Impudenza somma, ma non propriamente oscena: lascia sbalorditi per la temerarietà, ma non eccitati alla sensualità. Si veda anche la seconda strofa del canto ottavo, dove si accenna al piacere erotico con il termine spudorato ma spuntato di “ultima dolcezza”. [49] Nelle introduzioni in prosa a molti canti, il Marino gioca la carta della allegoria per giustificare il peccato descritto più o meno spudoratamente: in fin dei conti (sembra dire) l’amore tra Venere e Adone non paga, perchè esso genera gelosia ed il giovane ne viene coinvolto ed ucciso. Ma il tentativo è di una ipocrisia penosa: nel corso della narrazione non vi sono appigli per elevarsi ad un sovrasenso della trama: è una imposizione arbitraria, dettata da troppo evidenti motivi di convenienza sociale. D’altronde l’allegoria proposta al canto ottavo conferma solo la sensualità del contenuto, che l’autore si propone solo di trattare sotto il velame di circonlocuzioni ed eufemismi... [50] Si intravede nell’Adone il peggioramento di una certa tendenza del Rinascimento, bloccato dalla riforma cattolica, ma che riprenderà più sfrontato nella letteratura del Neoclassicismo e farà scrivere a Manzoni che “la mitologia è idolatria”. [51] Riportiamo anche queste tre strofe, perchè rivelano virtù e difetti del lirismo mariniano. Eccole, dunque: “Fa della gola lusinghiera e dolce| talor ben lunga, articolata scala:| quinci quell’armonia, che l’aura molce,| ondeggiando per gradi in alto essala;| e poi ch’alquanto si sostiene e folce,| precipitosa a piombo alfin si cala.|Alzando a piena gorga indi lo scoppio,| forma di trilli un contrappunto doppio.|| Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra| rapida rota o turbine veloce.| Sembra la lingua, che si volge e vibra,| spada di schermidor destro e feroce.| Se piega e’ncrespa, o se sospende e libra| in riposati numeri la voce,| spirto il dirai del ciel, che in tanti modi| figurato e trapunto il canto snodi.|| Chi crederà che forze accoglier possa| animetta sì picciola cotante?| e celar tra le vene e dentro l’ossa| tanta dolcezza un atomo sonante?| o ch’altro sia che la liev’aura mossa,| una voce pennuta, un suon volante?| e vestito di penne, un vivo fiato,| una piuma canora, un canto alato?” (VII, 35-37). [52] “Rapito allora e provocato insieme| dal suon, che par ch’a sè l’inviti e chiami,| da le cime de l’arbore supreme| scende pian piano in su i più bassi rami;| e ripigliando le cadenze estreme,| quasi ascoltarlo ed emularlo brami,| tanto s’appressa e vola e non s’arresta| ch’alfin viene a posargli in su la testa.|| Quei che le fila armoniche percote,| sente, nè lascia l’opra, il lieve peso,| anzi il tenor de le dolenti note| più forte intanto ad iterare ha preso.| E ’l miser rosignuol quanto più puote| segue suo stile ad imitarlo inteso.| Quel canta e nel cantar geme e si lagna,| e questo il canto e ’l gemito accompagna.| E quivi l’un sul flebile stromento| a raddoppiar i dolorosi versi,| e l’altro a replicar tutto il lamento,| come pur del suo duol voglia dolersi;| tenean con l’alternar del bel concento| tutti i lumi celesti a sè conversi,| ed allettavan pigre e taciturne| vie più dolce a dormir l’ore notturne.|| Da principio colui sprezzò la pugna| e volse de la’ugel prendersi gioco.| Lievemente a grattar prese con l’ugna| le dolci linee, e poi fermossi un poco.| Aspetta che’l passaggio al punto giugna| l’altro, e rinforza poi lo spirto fioco,| e, di natura infaticabil mostro,| ciò ch’ei fa con la man, rifà col rostro.|| Quasi sdegnato il sonatore arguto| de l’emulazion gli alti contrasti,| e che seco animal tanto minuto,| non che concorra, al paragon sovrasti,| comincia a ricercar sovra il liuto| del più difficil tuon gli ultimi tasti;| e la linguetta garrula e faconda,| ostinata a cantar, sempre il seconda.|| Arrossisce il maestro, e scorno prende| che vinto abbia a restar da sì vil cosa.| Volge le chiavi, i nervi stira e scende| con passata maggior fino a la rosa.| Lo sfidator non cessa, anzi gli rende| ogni replica sua più vigorosa;| e secondo che l’altro o cala, o cresce,| labirinti di voce implìca e mesce.|| Quei di stupore allor divenne un ghiaccio| e disse irato: -Io t’ho sofferto un pezzo.| O che tu non farai questa ch’io faccio,| o ch’io vinto ti cedo e’l legno spezzo-.| Recossi poscia il cavo arnese in braccio| e, come in esso a far gran prove avezzo,| con crome in fuga e sincope a traverso,| pose ogni studio a variare il verso.|| Senza alcun intervallo e piglia e lassa| la radice del manico e la cima,| e come il trae la fantasia, s’abbassa,| poi risorge in un punto e si sublima.| Talor trillando al canto acuto passa,|e col dito maggior tocca la prima;| talora ancor con gravità profonda| fin de l’ottava in su ’l bordon s’affonda.|| Vola su per le corde or basso or alto| più che l’istesso augel la man spedita;| di su, di giù con repentino salto| van balenando le leggiere dita.| D’un fier conflitto e d’un confuso assalto| inimitabilmente i moti imìta,| ed agguaglia col suon de’ dolci carmi| i bellicosi strepiti de l’armi.|| Timpani e trombe e tutto ciò che, quando| serra in campo le schiere, osserva Marte,| i suoi turbini spessi accelerando,| ne la dotta sonata esprime l’arte,| e tuttavia moltiplica sonando| le tempeste de’ groppi in ogni parte;| e mentr’ei l’armonia così confonde,| il suo competitor nulla risponde.|| Poi tace e vuol veder se l’augelletto| col canto il suon per pareggiarlo adegua.| Raccoglie quello ogni sua forza al petto,| nè vuol in guerra tal pace nè tregua.| Ma come un debil corpo e pargoletto| esser può mai ch’un sì gran corso segua?| Maestria tale ed artificio tanto| semplice e natural non cape un canto.|| Poi che molte e molt’ore ardita e franca| pugnò del pari la canora coppia,| ecco il povero augel ch’alfin si stanca,| e langue e sviene e infievolisce e scoppia.| Così, qual face che vacilla e manca,| e maggior nel mancar luce araddoppia,| da la lingua, che mai ceder non volse,| il dilicato spirito si sciolse.” [53] “Tacean le selve, e dal notturno velo| era occupato in ogni parte il cielo” (VII, 40); “Le stelle poco dianzi innamorate| di quel soave e dilettevol canto| fuggir piangendo, e da le logge aurate| s’affacciò l’alba, e venne il sole intanto”(ivi, 55). [54] Si vedano i primi quattro versi della strofa 42 (“L’infelice augellin, che sovra un faggio| erasi desto a richiamare il giorno,| e dolcissimamente in suo linguaggio| supplicava l’aurora a far ritorno...”); e gli ultimi quattro della strofa 45 (“tenean con l’alternar del bel concento...”), citati nella nota precedente. [55] Per scoprire una intenzione di epopea rovinata dal concettismo, si veda XX; 9; delusa, invece, dal musicalismo inadeguato è quella delle strofe 159-160 del canto XX. [56] Uno degli accorgimenti per controllare fino a che punto la metrica è fluida, può essere quello di esaminare quei pochi versi che urtano leggermente l’orecchio. Ci siamo posti il problema solo verso la fine del poema: gli esempi, dunque, vengono dal canto ventesimo. Il verso della strofa 39, 7 è regolare: la lieve dissonanza nasce dla fatto che l’accento della sesta sillaba cade su una congiunzione (mentre), attenuando la forza dell’ictazione : difatti il vocabolo ictato (accentato secondo le leggi della metrica) deve essere un sostantivo, verbo od aggettivo; le altre parti del discorso reggono pienamente alla loro funzione musicale solo se sono tronche (perchè, finchè...); 342, 8 stona un po’ perchè la rima ha trasformato in “griso” l’aggettivo “grigio”; 393, 6 appoggia l’accento della sesta silaba sull’articolo “la” (gli elmi infocati, la cui tempra è fina); 405, 1 suscita disarmonia per un “dialogi” anzichè “dialoghi” (“dialogi di sguardi e di sospiri”). Ma I, 2 (v.5), assorbe molto bene la stranezza de “lo dio” anzichè “il dio”: piccoli nei, quisquiglie. [57] Il Marino chiama “molle e lusinghiera” la propria musa (VIII, 3), ma il contesto si riferisce al contenuto lascivo: pure la definizione ci sembra applicabile anche allo stile, per questa prevalenza di dolcezza metrica e consonantica. [58] Che la intelligenza del Marino non fosse delle più acute (non diciamo “profonde”) lo può dimostrare il suo tentativo di dare nelle prose allegoriche una interpretazione “virtuosa” al suo poema che egli stesso definisce “”poesie tenere e lascive”, “carte men pudiche”, scritte con “penna oscena” (VIII, 3 e 6). E lo può confermare l’analisi fatta puntigliosamente della sua sintassi dal curatore della edizione dell’Adone nei Classici Mondadori, ove si costata che lo scrittore è limitato nelle subordinate e privilegia le coordinate, rivelando una mentalità elementare, una intelligenza semplice ed infantile. [59] La citazione viene dal “Compendio” di Sapegno, II, p. 332. Lo scompenso tra il motivo ispiratore evidentemente epico e la versificazione splendidamente inerte è rintracciabile in tutti i venti canti, salvo i pochi brani segnalati. Noi qui rimandiamo a casi notevoli degli ultimi due canti. Il caso di XIX, 276-86 (sul mito di Leandro, che perisce mentre attraversa a nuoto l’Ellesponto per recarsi all’appuntamento con Ero, in una notte di tempesta) è già stato citato: non vi si sente nè dramma nè tragedia, perchè la “musica” è la stessa delle narrazioni amorose o delle descrizioni paesaggistiche, non avendo il Marino “sentito nel cuore” la dimensione commovente o sconvolgente dell’episodio. Così avviene in XIX, 296 (Teti rievoca Achille); XX, 388-9 (scontro fra due campioni: si rilegga invece in Tasso, VI, il duello fra Tancredi ed Argante); e XX, 7-10; 388-93. Due versi da XIX, 360, li riportiamo perchè costituiscono, nel contrasto di qualità fra i suoni emessi dagli strumenti musicali, una spia acutissima delle contraddizioni mariniane che producono la dissolvenza incrociata del suo musicalismo eccellente ed insignificante: “e rauchi e fiochi e languidi e soavi| sospiravano i fiati ai bronzi gravi” (ma tutta la strofa è vacillante: “Sei quadriglie d’araldi e di trombetti| ivano innanzi all’orrido ferètro,| a cui di cavalier fra gli altri eletti| due lunghe file poi ne venian dietro:| quei sovra ubini e questi in su giannetti| di pel conforme a l’armi oscuro e tetro;| e rauchi e fiochi e languidi e soavi| sospiravano i fiati ai bronzi cavi”). Si noti il contrasto fra “trombetti| orrido! ferétrop| tetro” e gli “ubini e giannetti” (cavalli di costituzione minuta) ed i suoni “fiochi, languidi, soavi”: si affloscia la intenzione epicizzante del poeta, affiorante da tutto il contesto (dalla strofa precedente, ad esempio che, fra tendenze epicizzanti e sottofondi tragici, ci pare difendere una sua sufficienza). [60] I passi cui rimandiamo appartengono per lo più alla seconda metà del poema: II, 43; IX, 2| 4| 5| 11| 159; XIV, 180| 181| 183| 185| 310| 323| 331| 356| 360| 364|384; XV, 9| 10| 14| \7| 24| 26| 196| 226| 228| 229| 237; XVI, 4| 43| 128| 131| 241| 254| 267| 269; XVII, 25| 30| 31| 42| 185; XVII, 17| 18| 31|35| 45| 51| 57| 65| 72| 83| 131| 139| 184| 185| 192| 210| 222| 223| 246; XIX, 6| 11| 13| 107| \30| 144| 184| 193| 194| 203| 211| 212| 225| 227| 235| 255| 269| 270| 272| 273| 276| 277| 279| 280| 282| 289| 190| 291| 322| 335| 339| 404| 408| 411; XX, 9| 13| 25| 37| 48| 77| 116| 155| 160| 237| 240| 248| 282| 285| 294| 333| 387| 397| 400| 4°2| 404| 429| 445| 479. Contro il concettismo dell’Adone, il contestatore più convincente –oltre che il primo- fu Tommaso Stigliani. Ecco che cosa ne dice Franco Croce, “Critica e trattatistica del barocco”, in Storia della Letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1976, Il Seicento, p. 431: “Importante è anzitutto il conservatore, l’accusatore dell’Adone ed iniziatore –con il suo Occhiale- della polemica... Il suo non è l’allarme generico di chi vede messi in crisi gli idoli della vecchia cultura, Petrarca ed Aristotele, ma è il giudizio preciso sul risultato, cui la spinta innovatrice ha portato la letteratura italiana, su quel poema sterminato e lussuoso, gonfiato ad accogliere un po’ tutti i toni e tutti i generi letterari, che i marinisti propongono come assoluto capolavoro davanti al quale tutte le opere del passato apparirebbero imperfette. Così, se egli si rifà al regolismo aristotelico per combattere la disordinata costruzione dell’Adone, se si rifà ad un bembismo molto annacquato, più linguistico che stilistico, per opporsi ai neologismi mariniani, tuttavia l’accento del suo Occhiale non batte solo su quei princìpi tradizionali messi in crisi, bensì anche sulla concreta qualità del poema mariniano. Il tema delle unità violate, perciò, diventa un mezzo per descrivere criticamente le strutture del’Adone: -poema di madrigali-, in cui le singole parti -mole ruunt sua- (procedono per impulso proprio, separate dal tema centrale), in cui l’apparente ricerca di varietà non nasconde l’intima povertà tematica e addirittura verbale (il poema si reggerebbe su di una cinquantina di parole) mentre la denunzia dei difetti di stile e di vocabolario, pur condotta con un puntiglio pedantesco, conduce ad un inventario parecchio interessante dei modi irregolari del Marino...”. [61] Adone, XI, 97|; XII, pressochè tutto, dopo la strofa 175; XIII, 117-124; XIV, 226-79| 356-60; XV, 17-23; XVII, 21-27; XVIII, 23-33| 109-112| 123-128| 133-46| 154-61| 176-7| 180-4| 234-5; XIX, 169-229| 247| 257| 261-6| 414| 417. [62] Tale “distrazione” da una sezione all’altra del lavoro, la si ritroverà in Italo Svevo, La coscienza di Zeno : il fatto della schiavitù al fumo, che assorbe ossessivamente tutto il primo, lungo capitolo, ma esce di scena per tutto il resto del romanzo, salvo richiami occasionali, brevissimi ed insignificanti, non è che l’esempio più clamoroso di una trama costruita a tavolino, con poca testa e nessuna partecipazione emotiva.
LIRICI
SECENTISTI Praticamente tutti
i lirici concettisti del secolo ruotano
attorno al Marino, magari per opporsi, ma
per lo più per affiancarsi, pur essendo più anziani di lui. Così Cesare
Rinaldi (Bologna 1559-1636), visse abbastanza
per subire il fascino tanto del Tasso che del Marino, essendo stato amico di
entrambi.[1]. Invece (lo abbiamo già visto) Tommaso Stigliani finì
per inimicarsi col Marino e fare la satira del suo stile concettista: ma egli,
pur difendendo il classicismo
petrarchesco (Occhiale), tuttavia
non riesce ad abbandonare del
tutto, nella sua produzione lirica, la tecnica barocca imperversante.
Cominciamo, dunque, da lui a dare notizie meno telegrafiche ed a riportare, in nota,
qualche verso. Tommaso Stigliani nacque a Matera nel 1573 e trascorse la
giovinezza a Napoli: fu a Milano e soprattutto presso i Farnese di Parma, ma morì
a Roma nel 1651. Nel 1600 pubblicò il poemetto Il
Polifemo, in ottave; proseguì con le
Rime (poi riedite nel Canzoniere); si
impegnò nei 34 canti de Il Mondo nuovo
(1628: celebrazione della impresa di C. Colombo). Già nella prima edizione di
questo poema (1617) egli satireggiò il Marino, definendolo “pesciuomo”:
l’epiteto suscitò una viva polemica tra il Marino e lo Stigliani, cui presero
parte i sostenitori dell’uno e dell’altro poeta. Come si è già letto nelle
note di Franco Croce ( Garzantiana), egli
espose poi in un’opera impegnata ed intelligente (Occhiale: 1627) i motivi della sua opposizione al Marino, di cui fa
una critica severa ma motivata. Si divertì anche a far la caricatura delle su
immagini sproporzionate con imitazioni parodistiche
(Canzoniere, libro IV nell’ediz.
del 1623). Il compromesso cui lo Stigliani approda, fra la ripulsa
all’estremismo mariniano e la duplice tradizione
di petarchismo e moda concettista (già in atto prima del Marino), è un
ritorno al manierismo, cioè alla concezione
per cui, per fare vera poesia, occorre unire (come afferma il suo amico
Francesco Balducci, prefazionando l’opera or ora citata) “la purità e
l’affetto del Petrarca colla vivezza delle arguzie moderne e colla varietà
dei soggetti”: classicità e fantasia
arguta, dunque. Ecco degli esempi. Il sonetto che lamenta di aver
posto lo sguardo su donna troppo sublime (o troppo altera), sicchè può essere
intitolato “Amor tropp’alto”canta così: “Io veggio a’ miei desir
tant’alto il segno,| ed è fra quello e me spazio sì lungo,| che, non che con
la mano, appena il giungo| cogli occhi de la fronte e dell’ingegno.|| Ben di
spiegar lassù talor m’ingegno| l’ali d’Amor ch’agli omeri
m’aggiungo;| ma o poco da terra mi dilungo,| o
caggio in mar di pianto, Icaro indegno.|| Come il fanciullo ch’a toccare
imprende| le stelle in cielo e indarno verso quelle| la semplicetta man più
volte stende,|| tal io le voci (ahi lasso!) e ’l cor con elle| drizzo invan
sempre ove tropp’alto splende| un sol
diviso in due lucenti stelle”.[2] Ecco tre strofe del madrigale “In lode della
signora Settimia Romana, figliuola del signor Giulio Romano”. Le riportiamo
per mostrare come lo Stigliani riecheggia ed
imita da presso il Marino, mentre lo critica: il modello sono evidentemente le
ottave dell’Adone (VII, specie le strofe 50-2) per la gara fra l’innamorato
e l’usignolo. “Or volanti passaggi,|or affetti e sospiri,|ora fughe e
viaggi,| or riposi e respiri,|ora suole alternar dolci durezze,| ora suole
intrecciar dure dolcezze.|| Quando schiude un accento| tremolante e soave,|
quando move un concento| armonioso e grave,| quand’alto forma il canto e
quando basso,| quando vivace il fa, quando il fa lasso.|| E, quasi un rio
corrente,| qui mormorar appena,| là gemere altamente| tu l’odi in nota
piena;| qui gir quieta e placida l’ammiri,| là gorgogliar con tortuosi
giri”. Ecco un esempio di ispirazione idillica spento dalla
mania elencativa (sia pure non metaforeggiante) del secolo: “Ripigliate,
augelletti,| i vostri dolci canti.| Già vien coi zefiretti| la stagion degli
amanti;| e ne’ prati è rinata| la famiglia odorata.” Dopo di che segue
l’elenco di ben undici fiori (girasole compreso!), inquadrati in dodici versi
(praticamente, un nome ed un aggettivo per
ogni settenario). Diamone i primi due: “Ride il fresco giacinto,| il gelsomin
nevoso...”. Ed il lettore, che si aspetta la continuazione, anzi una
intensificazione dell’idillio e non sa che farsi di una lezione di botanica,
sbadiglia annoiato. Del sonetto (uno dei molti del secolo)
sull’orologio da polvere, diamo la prima quartina, che ha un piglio
drammatico, rovinato dal mito inventato nelle due strofe seguenti (Aristeo ama
inutilmente Tirrena e muore di dolore: lei lo rinchiude, fatto polvere, nei
vetri della clessidra) e la terzina conclusiva, che ha un guizzo degno di
Marziale nell’ultimo verso, confezionato però in una “vivezza”
concettista: contrapposizione di stato nella continuazione del tormento:
“Questa in duo vetri imprigionata arena,| che l’ore addita e la fuggente
etade,| mentr’ognor giù, quasi filata, cade| rapidamente per angusta
vena....” “Oh crudel degli amanti e dura sorte!| Serban l’arse reliquie
anco il prim’uso:| travaglian vive e non riposan morte”. Semplicemente stolida è questo paragone fra Nice e
gli strumenti della pesca: “Tutta nella tua faccia,| Nice, raccolta l’arte
hai della pesca:| in fronte hai la bonaccia,| ne’ capegli la rete,| negli
occhi l’amo e nello sguardo l’esca.| Solo l’accesa face| non hai del
pescatore:| chè quella in vece tua l’ho io nel core”. Peggiore è quest’altro madrigale sulla “celeste
frittata”: “Matarazzi del cielo, oscure nubi,| ch’or tenete celata| la
celeste fritatta:| scopritela, vi prego, agli occhi miei;| perch’al lume di
lei| io scriver possa alcune rime sdrucciole:| non ho più gatta[3]
e non si trovan lucciole”. Ma con questa scempiaggine (salvo la conclusione
epigranmmatica, che può esser citata per scherzo in più di una situazione
della vita) siamo al quarto libro del Canzoniere, che rifà la moda secentista
per amore di satira contro il Marino e seguaci (come, un tempo, anche lui era
stato). Ma qualche particolare
interessante della diatriba fra lo
Stigliani e l’ex maestro ed amico
lo rimandiamo in nota: vi si
trovano scherzi dello Stigliani decisamente scriteriati, da codice penale. [4] Claudio Achillini. Giurista e poeta, nato e morto a Bologna
(1574-1640), insegnò nelle università della città oltre che a Ferrara e a
Parma; soggiornò anche a Roma, dove fu fatto membro della Accademia dei Lincei
e divenne segretario del futuro papa Gregorio XV (Alessandro Ludovisi); ed a
Torino, alla corte di Carlo Emanuele I. Marinista convinto, difese il maestro nella polemica con lo Stigliani.
E’ “vir unius libri”(scrittore di un solo libro): Rime e prose (1632). Più volte ristampato, fu un modello del
virtuosismo barocco, con immagini sorprendenti e sconcertanti. Manzoni ne cita
il sonetto Sudate o fochi (c.
28) e ne riprende le argomentazioni sulle cause della peste, mettendole
ironicamente in bocca a don Ferrante (c. 37: cfr. lettera del 1630 Sopra
le presenti calamità). Citiamo anche noi anzitutto il sonetto dove “loda
il gran Luigi re di Francia, che
dopo la famosa conquista della Roccella venne a Susa e liberò Casale”: si
indovinerà facilmente che, mentre nel contesto manzoniano il primo verso sembra
un invito a fondere armi per la guerra, invece il componimento è
un’esortazione a fabbricare strumenti con cui estrarre marmo dalle montagne,
onde costruire un monumeto a Luigi XIII, per le due vittorie, del 1628 e del
1630, accennate nel titolo. Due brevi madrigali ed un sonetto mostrano fin dove
giunge –temeraria e non censurata (l’Indice non era poi così pignolo!)- la
impudenza del Milleseicento (li accenenremo in nota). E si noti che nelle sue
lettere ritorna il coraggio di rimproverare,
al Marino stesso ed agli amici comuni, la lascivia dell’Adone, pur da
lui celebrato come il maggior poema della letteratura italiana, da paragonarsi
alla stessa Eneide di Virgilio. E come si rallegra per la morte cristiana del
Marino, così, con saggezza letteraria
oltre che pedagogica, esalta un padre
cappuccino per la forza di fede con cui predica Cristo crocefisso, tralasciando
gli ornamenti retorici, che egli chiama “tenebre dell’apostolato”, cioè
rovina della predicazione. (lettere al Marino, a Girolamo Preti, ad Antonio
Lamberti, riportate dalla Ricciardiana). “Sudate,
o fochi, a preparar metalli, e
voi, ferri vitali, itene pronti, ite
di Paro a sviscerare i monti per
innalzar colossi al Re de’Galli. Vinse
l’invitta rocca e de’ vassalli spezzò
gli orgogli a le rubelle fronti,
e machinando inusitati ponti
diè fuga ai mari e gli converse in valli.
Volò quindi su l’Alpi e ’l ferro strinse, e
con mano d’Astrea gli alti litigi, temuto
solo e non veduto, estinse Ceda
le palme pur Roma a Parigi: chè
se Cesare venne e vide e vinse, venne,
vinse e non vide il gran Luigi.[5] Girolamo Preti (Bologna? 1582-1626). Fu uomo di corte,al
servizio dei cardinali Pio di Savoia e Francesco Barberini, nipote di Urbano
VIII: al seguito di quest’ultimo, morì a Barcellona a 44 anni, per malattia
contratta durante una violenta tempesta di mare. Come poeta, fu seguace
del Marino, ma trattò la maniera amorosa con
spirito platonico e dolcestilnovista, sostenendo la sua posizione
anche teoreticamente, nel discorso Intorno
alla onestà della poesia (1618). Le sue
Poesie (1614) ebbero successo,
con edizioni anche dopo la sua morte. In questo sonetto (Un pastore descrive l’amenità d’un luogo e le sue pene amorose)
ci sembra che l’idillio si salvi nonostante qualche espressione “preziosa”
e benchè le terzine tirino per i capelli il paesaggio a diventar figura del
poeta, infelice amante ( tanto che il bel verso finale non sai se leggerlo in
tono epigrammatico-arguto -secondo il
suggerimento delle terzine- o in tonalità idillica -secondo il senso suo più
ovvio ed il registro delle quartine): Un
rio, qui gorgogliando in fra le sponde,
con tributo d’argento al Ren deriva;
qui fa un’ombrella il platano e l’oliva,
rami a rami intrecciando e fronde a fronde.
Al garrir de gli augelli Eco risponde;
qui tempra un venticel l’arsura estiva;
molle il suol, fresco il rio, verde è la riva;
qui fan letto l’erbette e specchio l’onde.
Quanti augelletti, o Cinzia, ascolti e miri,
in quel linguaggio lor piagner, cred’io,
de la fierezza tua, de’ miei martìri!
Anzi, mossi a pietà del dolor mio,
vanno emulando i pianti e i miei sospiri,
spirando l’aura e mormorando il rio”. Su quest’altro (Per un cavallo barbaro del signor
Vitale de’ Buoi), condividiamo il parere di Giuseppe Guido Ferrero, espresso
nella nota del volume su Marino e i Marinisti della Ricciardina (p. 716):
“Enfatico e reboante: ma dall’insieme vien fuori il senso di quella veemente
vitalità e di quella rapidità fulminea: “Figlio
de l’aura, emulator de’ venti,
cursor
veloce e volator senz’ale,
di cui
vola più tardo alato strale,
volan per
l’aria i fulmini più lenti;
lo tuo corso a mirar corron le genti,
ma per seguir tuo corso occhio non vale;
non
corre il cielo a le tue piante eguale,
men veloce il pensier movon le menti.
Tuona il
nitrito, e la ferrata zampa
sparge de
le faville i lampi intorno
e pur
selce non tocca, orma non stampa
Te brama il sol per lo suo carro adorno;
ma, traendo del dì l’ardente lampa,
breve faresti col tuo corso il giorno.” Ma il Preti
ha due nemici in agguato contro qualche spunto di ispirazione riuscita:
il metaforeggiare temerario del concettismo e una minor
chiarezza espositiva. Ecco un concettino nella terzina finale del sonetto
“Un pastor
descrive un luogo dove la sua ninfa stava solazzandosi”: “I’ giurerei
che quella rupe, amante| è di lei fatta, e quella fonte viva| è di pianto
amoroso onda stillante”.[6]
Ed ecco delle “vivezze”, che aiutano a determinare la insufficiente
perspicuità della seconda, fra le
sette ottave dedicate a “L’oriuolo” (orologio a pendolo): “Grave al
canape torto il piombo appeso,| aspirando al suo centro, in aria pende;| contro
al piombo maggior più lieve è un peso,| e con moto contrario un sale, un
scende.| La machina dal pondo a lei sospeso,| quasi da Intelligenza, il moto
apprende;| chè, girando la fune un polo immoto, dà un sol motore a cento moti
il moto”. Questo non toglie che, nel complesso, le ottave diano un vago senso
della potenza epica del meccanismo e della inesorabile tragicità
del tempo che fugge. Per questo, pur col solito eccesso di rumore e
immagini, la strofa migliore ci sembra la sesta, che descrive il battere delle
ore sulla campana. La riportiamo:
“Ferro percotitor s’alza pesante
sovra il cavo metallo, e d’alto piomba:
tuona ai colpi di lui squilla sonante,
ch’a le guerre del tempo è quasi tromba;
tromba, che a noi funesta e minacciante
numera quanti son passi a la tomba,
gridando a l’uomo, al numerar de l’ore,
che quanto ei vive più, tanto più muore” Ciro di Pers (1599-1663): nacque e visse nelle sue terre del
Friuli, salvo il soggiorno a Bologna per gli studi (ove conobbe l’Achillini ed
il Preti) ed a Malta, dal 1627 al
1629, quando, come cavaliere gerosolomitano, prese parte ad una spedizione
contro i Turchi. Fu un poeta che partecipò pienamente allo spirito della
riforma cattolica, ma fu anche un esponente del gusto marinista. Imitò Fulvio
Testi in rime moraleggianti e politiche, senza grandi risultati; invece riesce
ad esprimere con sincerità la sofferenza per la
caducità della vita (prossimità della la morte, squallore della tomba)
ed un drammatico senso della vanità delle grandezze terrene, proprio nei versi
che più risentono della moda di concettini arguti e di metafore forzate. Oltre
al canzoniere, intitolato semplicemente Poesie,
scrisse una tragedia (L’umiltà esaltata
o vero Ester regina):
entrambe le opere furono edite dopo la sua morte, ma le rime ebbero una
seconda edizione nel 1689. Anch’egli canta la donna amata, ma si
insinua il sospetto che si tratti di finzioni, sia per il variare dei
nomi della donna (Nicea, Lidia, Iola, Filli), sia per i sonetti dedicati a varie
giovani, sorprendentemente belle nei lavori più diversi (cucito, ricamo,
filatura, danza...), sia per l’insistenza con cui presenta l’invecchiamento
e la morte di lei, sia per il richiamo continuo al “paradiso”, alla donna
come angelo, al giudizio di Dio contro i peccati umani, presente nei cataclismi
(terremoto); sia per la coscienza spesso
affiorante della vanità di ogni cosa terrena,
proprio a cominciare dalla
bellezza femminile, dai piaceri dell’amore; sia per il fatto che egli era
frate gerosolomitano, con una fede coerente, che si rivela anche nella prontezza
ad esporsi al rischio della morte, nel combattimento contro gli infedeli che
pirateggiavano ancora nel Mediterraneo. Il fatto è che le poesie d’amore
(sonetti, per lo più) non sono il meglio della sua produzione e contengono artifici secentisti frequenti.[7]
Questo non toglie che almeno uno dei sonetti per la sua donna sia degno di nota:
ma è il quinto sui sette della
collana intitolata “Lidia invecchiata vuol parere giovane”: leggiamo in nota
la meditazione sopra la vanità del tutto, non dimenticando che il Pers non
esita, altrove, a citare il Qoélet per chiarire il suo pessimismo di fondo.[8] All’estremo opposto vi sono canzoni libere (se gli
riesce, fa rimare gli ultimi due versi della stanza), che sono quasi
prive di concettini, ma non raggiungono la sufficienza lirica, pur
facendosi leggere con curiosità,
non solo perchè il contenuto è serio e viene svolto con particolari
interessanti, ma anche perchè vien messo in versi con un musicalismo
piacevole -fra discreta prevalenza di suoni soavi e non rari vocaboli
sdruccioli- che rende scorrevole e suadente la lettura (almeno la prima volta!).[9] Fra questi due estremi, vi sono i sonetti
drammatici, sia tendenti alla epicità che alla tragedia, in cui il
temperamento “da guerriero” (anzi, “da crociato”) dello scrittore riesce
a dare il meglio di sè. Già il sonetto su “Lidia invecchiata” non si può
dire amoroso quanto piuttosto
meditativo, ammonitore ed esortativo: è oratoria sacra, insomma, al modo del
grande predicatore che minaccia e rimprovera con solennità drammatica.
Ecco altri sonetti del medesimo timbro ed ispirazione. Cominciamo con
“ Miseria umana”:
L’uom, che sì poche de la vita ha l’ore,
e ne conta a fatica una gioconda,
è di sospir, di pianto un’aura, un’onda: piangendo
nasce e sospirando muore.[10]
Aura ch’avviva un inonesto ardore,
onda che sprezza una discreta sponda;
aura che scuote una caduca fronda,
onda che irriga un momentaneo fiore.
E benchè aspiri a sempiterno vanto,
per quelle vie che strepitose corse
a pena un lieve suon mormora alquanto.
Mentre l’uomo formò, Prometeo forse
il duro fango distemprò col pianto,
e co’ sospir lo spirito gli porse.” Rientrano in questo orizzonte di ispirazione ed in
questo registro di emotività i vari sonetti sugli orologi (da polvere| da rote|
da sole). Riportiamo nel testo quello sull’orologio
“da rote”:
Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE.
Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core;
nè del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.
Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo che sembra, in un, timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’età vorace.
E con que’ colpi, onde il metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e, perchè s’apra, ognor picchia a la tomba.[11] Il terremoto
ispira due sonetti di contenuto
moralistico e di tonalità drammatica: ne riportiamo il primo.
Deh, qual possente man con forze ignote
il terremoto a crollar spesso riede?
Non è chiuso vapor, com’altri crede,
nè sognato tridente[12] il suol percuote.
Certo la terra si risente e scuote
perchè del peccator l’aggrava il piede;
e i nostri corpi impaziente chiede
per riempir le sue spelonche vote.
E’ linguaggio del Ciel che ne riprende
il turbo, il tuono, il fulmine, il baleno;
or parla anco la terra in note orrende,
perchè l’uom, ch’esser vuol tutto terreno,
nè del cielo il parlar straniero intende,
il parlar della terra intenda almeno.”[13] Fin qui, il senso drammatico propende verso la
tragedia. Ma vi è spazio anche per una drammaticità festosa, epicizzante.
Leggiamo il sonetto “Loda l’affaticarsi”:
“Varcar col nuoto il rapido de’ fiumi,
l’erto de’ monti superar col corso,
di feroce destrier reggere il morso,
varie genti cercar, vari costumi;
errar per aspre balze ed aspri dumi,
il bavoso cinghial tracciando e l’orso;
del profondo oceàn fendere il dorso,
benchè frema orgoglioso, irato spumi;
la sete al fonte trar, la fame al bosco;
per le nevose balze e per l’aduste
sudar col Nasamon, gelar col Mosco,[14]
di ferrea scorza aver le membra onuste,
quando è’l ciel luminoso e quando è fosco:
delizie ed agi son d’alme robuste.” Ecco la caccia in palude, con l’archibugio: benchè
l’ultima strofa meriti la citazione in tutte le antologie
per la moltiplicata contrapposizione giocosa, tuttavia non si può negare
che il sonetto vibri di una sua potenza ed alacrità, di una sua
seriosa epicità:
Solo e notturno uccellator tonante
chiama l’usato can, la fune accende;
cinto di grave cuoio il piede errante,
laberinti palustri e cerca e fende.
Immoto al fin su riva ascoso attende
tra soffi d’aquilon lo stuol volante,
ch’alla valle s’invola e al mar si rende,
mentr’a l’aurora il dì bacia le piante.
Vibra Giove alle fere unico un telo,
ma questi a lo scoppiar d’un colpo solo
mille alati cader fa al flutto, al gelo.
Che più? s’ei può, stringendo un dito solo,
trar fulmini dall’acque, augei dal cielo,
far il piombo volar, piombar il volo![15] In realtà Ciro di Pers rivela una sua vena limitata
ma sicura:
egli fa spesso poesia, nonostante il barocco di immagini forzate, di
contrapposizioni grottesche, di giochi di parole. Insomma, non fu un genio di
prima grandezza, ma aveva una sua genialità nell’accordare i centri
emozionali coi centri della razionalità, sicchè riusciva a
concepire e manifestare stati d’animo artistici, cioè
discretamente universalizzati mediante la purificazione dai più soliti
finalismi pratici. Non fu però abbastanza intelligente da essere un uomo intero
e sottrarsi al “finalismo pratico” del concettismo, che lo spingeva a
scrivere per farsi ammirare anzichè concentrarsi sulle emozioni del cuore,
libero da ogni riguardo di moda o di pubblico. Un mezzo uomo soltanto, dunque.
Ma trovare una tempra simile fra i letterati secentisti è una sorpresa ed una
gioia. Che egli sia alieno dai toni contemplativi di idillio
ed elegia e sia, invece, aperto solo a quelli dramamtici della tragedia e della
epopea, lo si è detto. Ora rimane da sottolineare la sicura coerenza di un
musicalismo vocalico potente (a|o), rafforzato da un consonantismo adeguato,
di cui subito corre all’orecchio la predominanza delle “erre” (e
l’aggettivo “orrendo”!), spesso in contesto aspro per concorso della sibilante “s”, magari con dentali od
esplosive. Si riveda qualcuno dei versi citati. Girolamo Fontanella
(Napoli ?Reggio Emilia?, 1612 ca-1644 ca). Morto a poco più di trent’anni,
pubblicò tre libri di poesie: Nove cieli|
Odi| Elegie. A noi sembra
un secentista molto simile al
Marino per un complesso
di caratterizzazioni: concettini (anche se moderati), eleganza
espressiva, ricchezza di immagini, scorrevolezza descrittiva[16], musicalismo ambivalente
e... incerto rendimento lirico. Gli
esempi che adurremo dovrebbero rivelare meriti e limiti, anche nelle poche cose
(le migliori), che riportiamo. Intanto però vogliamo chiarire due delle affinità
accennate. Dapprima il musicalismo: vocali larghe prevalenti in posizione
ictàta (con notevole frequenza della media “e”); consonanti prevalenti nel
concorso di liquide (invadente, la “r”; frequente, la “l”;
latitanti, le nasali) e fruscianti (“v|f”). Discretamente presenti i
sostantivi sdruccioli; più che le labiali, si fanno sentire le poche dentali,
gutturali e le sibilanti doppie (“zz|ss”). E’ da tale musicalismo che si
comunica eleganza, scorrevolezza, armonia espressiva. La seconda vicinanza al
caposcuola sta nella migliore riuscita dei versi drammatici (ma di quelli
volgenti al tragico più che all’epicità). Cominciamo da questi ultimi: “Meditazione
della sua morte”.
Verrà la Parca e di pallor gelato
l’insegna spanderà sopra il mio volto, e dentro un
letto di miserie accolto con angoscia
trarrò l’ultimo fiato.
Il mio duro avversario avrò da lato
ad accusarmi innanzi a Dio rivolto;
posto di qua di là fra dubbio stato,
sarò fra téma e fra speranza involto.
Deh! tu, Vergine Donna, alta reina,
da quelle empiree e luminose squadre
ver’ me le luci tue pietosa inchina.
Sarà ver me sdegnato il Sommo Padre;
ma tu, che’n grembo hai la Pietà divina,
vogli al soccorso mio mostrarti madre”. Meno felice, ma pur tollerabile, è questo sonetto
con cui “Dona pappagallo alla sua donna”:
la celebrazione dovrebbe essere epicizzante, ma il poeta non ne è cosciente
ed oscilla allora tra la esaltazione del volatile ed il vagheggiamento
degli aspetti eleganti e galanti del dono, sino a terminare con una freddura
secentista (che, però, non distrugge ogni forza epigrammatica):
Questo de l’indo ciel pomposo augello
peregrino volante, alato mostro,
che discepolo apprese, accorto e bello,
distinto il suon de l’idioma nostro;
mira com’ha leggiadro il curvo rostro,
come liscia la piuma e terso il vello;
ha bocca di smeradlo e bocca d’ostro,
che ridice talor quant’io favello.
In così vaga prigionia raccolto,
miralo com’è vago e come arguto,
come alla tua beltà si sta rivolto.
Ma temo, oimè, ch’in tuo poter venuto,
stupido a lo splednor del tuo bel volto,
ove garrulo fu, non torni muto.” Ed ecco un presentimento romantico (anzi,
leopardiano) nell’ Infelicità, un
sonetto che però non commuove gran che: vi sono ripetizioni nella prima strofa;
condizioni non propriamente tristi nella seconda (è pretesa indebita che la
disciplina educativa sia per tutti causa di dolore; e che tale sia
necessariamente l’amore giovanile...); troppa più tensione
raziocinante (“perchè”) che non impressione
dolente nella terza, mentre la strofa
ultima chiude col solito sforzo
epigrammatico che vuol distinguere ad ogni costo, per confermare all’eccesso
la condizione umana di totale infelicità. La musicalità, manco a dirlo, segue
il pendolarismo fra i moduli della dolcezza elegiaca (limpida o quasi, solo nei
primi due versi) e quelli più cadenzati e drammatici
della restante composizione:
“Piange l’uomo infelice, allor che viene
fanciullino a spirar l’aura vitale;
e per mostrar che varca un mar di pene
celebra con le lacrime il natale.
Piange, quando in età più ferma sale,
sotto maestra man ch’a freno il tiene;
e piange punto d’amoroso strale
quando al regno d’Amor servo diviene.
Piange, poichè l’età vede fornita,
sotto il freddo de gli anni aspro rigore;
quando ecco in un sospir chiude la vita.
Così fra pianto e duol passando l’ore,
senza aver mai felicità compita,
piangendo nasce e sospirando muore.” L’equivoco della ispirazione incerta, che finisce
per elidere in dissolvenze incrociate il lirismo e si effonde in un musicalismo
ambivalente, è uscito allo scoperto in una composizione delle “Ode”,
intitolata “Si detestano le delizie del secolo presente”. Le prime tre
quartine (si tratta sempre di endecasillabi a rime alterne) e le ultime otto
condannano lusso e sprechi di un mondo così
decaduto dalla semplice e sincera “età dell’oro”, ma il centro
della composizione, in ben quindici strofe, pare addirittura una celebrazione
della ricchezza e del progresso tecnico. B. Croce ne ha approfittato per abbreviare maliziosamente
il titolo (Delizie del secolo), mentre il suo discepolo Ferrero lo ha
restituito intero, pur condividendo l’accusa al Fontanella di
sentire davvero le delizie del suo tempo, condannandole solo per
“preoccupazioni moralistiche” (intellettualistiche?), che darebbero origine
a “riflessioni... frigide e convenzionali”. Ora,
la nostra impressione è invece
che tutte e tre le sezioni siano ugualmente (sia pur solo sufficientemente)
valide, sia le strofe discretamente drammatiche e deprecatorie, sia quelle
centrali intenzionalmente ancora di condanna, ma di fatto celebrative
e discretamente epicizzanti. Siccome nessuno
dei tre gruppi di strofe è un
capolavoro, ci limitiamo a riportare un paio di strofe per ognuna delle
tre sezioni (asprezza iniziale e finale, gaudiosa esaltazione nelle
strofe intermedie): il lettore confronti (confermando o rifiutando) il nostro
giudizio con il proprio. Strofe 1 e 2:
“Giace il mondo fra lussi, e l’uomo insano
rende sudditi ai sensi i propri affetti;
prezza crapole e giochi; amante vano,
veste pompe, usa lisci, ama belletti.
Negli agi immersa effeminata e folle
la propria gioventù marcir si vede:
regna il sonno e le piume, e l’ozio molle
su le morbide coltri a l’ombra siede”. Strofe 4-5-6:
“In quel primo vagir del mondo infante
era stanza il tugurio a l’uomo imbelle;
or da la terra emulator gigante[17]
edifici sublimi alza a le stelle.
Fa sviscerar da peregrini monti
superbo ingegno i più pregiati
marmi,
per farne o logge o preziosi fonti,
che del Tempo guerrier durini a l’armi.
Fa ch’i suoi tetti a riguardar sì belli
siano d’arte maestra ultima prova;
novi Dedali chiama, e novi Apelli
al suo regio lavor pròdigo trova”. Strofe 19| 22| 23:
“Ahi, ch’onesto rossor più non inostra
in donnesca bellezza il bianco viso;
lascivetta in andar gli abiti mostra,
lussureggia nel petto, arde nel riso.....
Oh d’umana follia prova superba!
sa ch’ogni opra de l’arte al fin rovina,
sa che sparsa nel Tebro arena ed erba
ricopre ancor la maestà latina.
Cadde Menfi superba e Caria illustre,
cesse a l’armi del tempo Argo e Micene,
e sepolta in oblio fosco e palustre
fra le nottole sue sta cieca Atene...” Sincero in entrambe le impressioni e convinzioni,
Fontanella si dimostra poeta talora
sufficiente, ma uomo dal pensiero
indeciso, dal lirismo mortificato,
dallo stile oscillante. Promosso,
allora, ma non certo a pieni voti! Giuseppe Battista. Nato a Grottaglie (Taranto) nel 1610 e morto
a Napoli (1675), scrisse versi in latino (Epigrammata) ed in italiano (Poesie
meliche, Epicedi eroici). In prosa
scrisse Le giornate accademiche, la Poetica
(trattato sul poema eroico; postumo: 1676), oltre alle Lettere. E’ un esempio tipico del barocco letterario
sbrigliato, più facile a ritrovarsi nel mezzogiorno d’Italia. Ecco il sonetto
che pare il più riuscito:
“Un
Caucaso di nevi ho su le chiome
e precipito gli anni in occidente;
pur l’anima che chiudo in scorza algente,
curva non cade a faticate some.
Alzano a me le più faconde Rome
tra le pareti mie rostro eloquente,
e d’una Atene, a risvegliar la mente,
scritto in picciol museo contemplo il nome.
Quando così predestinò la sorte,
per farmi di dottrine inclito erede,
apritemi, licei, le sacre porte!
Chi sa pur
troppo e di saper non crede,
tra’l confin della vita e della morte
il libro ha in mano e sulla tomba il piede”. Eccone i pregi: il concetto è
forte, potente, orgoglioso: grande concetto di sè e sicurezza di vivere
immortale per le proprie opere poetiche; la realizzazione lirica è, però, solo
sufficiente: dramma epicizzante; la
espressione, nel complesso, è pure adeguata (la rima si divide fra la larga
consonante “o” e le media “e”-prevalenti nettamente sulla “a”-;
dentali numerosissime, esplosive e gutturali in buon numero...). Eccone i difetti:
aliquale oscurità residua nel verbalizzare i concetti (“faticate
some” sono i carichi pesanti degli anni; “le più faconde Rome” saranno
oratori degni di quelli famosi di Roma; ecc.); suoni dolci negli sdruccioli
molto frequenti, nelle “r” e in qualche palatale (“picciol| risvegliar|
algente). Così, per queste incertezze, il risultato lirico è sufficiente, ma
non oltre. Un altro paio di cose sufficienti, perchè coerenti
nella tonalità drammatica, li riportiamo in nota[18] Molte altre composizioni falliscono o si riducono ad
una sufficienza stentata perchè soffrono di sbilancio ora fra motivo ispiratore
(amoroso o, comunque, dolce, contemplativo)
e sensibilità forte; ora fra tema
celebrativo-epicizzante e forma scherzosa (barocca). Ecco un caso di contrasto
fra argomento mite e forme marziali. Il titolo è “L’uomo
esser dee pacifico”; la concretizzazione
è in questo sonetto...notevolmente guerriero:
Per non cader squarciato all’altrui morso
ha le zampe falcate il fido alano,
e se talor guerreggia il toro insano,
dalle corna lunate ottien
soccorso.
Unghia laceratrice aguzza l’orso,
e dente avvelenato il mostro ircano,
l’aquila ha il rostro, e l’istrice montano
selva d’acuti strali erge sul dorso.
Ha lorica di squame il pesce avaro,
arma dedala pecchia ago mordace,
cela serpe crudel veleno amaro.
Natura sol, nell’opre sue sagace,
fa l’uomo inerme. Ed argomento è chiaro
ch’altro non vuol, se non ch’ei viva in pace”.[19] Ed ecco un soggetto contemplativo, rovinato dallo
stambureggiare del musicalismo drammatico: è il sonetto intitolato Il
mandorlo (il primo albero a fiorire dopo l’inverno):
Prima cura di Flora, occhio de gli orti,
bella pompa del popolo frondoso,
che portando sul crin fregio odoroso
dell’esequie del verno annunzio apporti;
al tuo gaudio garrisce i suoi conforti
l’esercito pennuto armonioso;
e,sciogliendo da’ ghiacci il suo riposo,
correr il fiume all’oceàno esorti.
Fa mostra pur di tua bellezza altera:
chè, mentre nel fiorir precorri a tutti,
porti la primavera a primavera.
Tu, mentre chiami il riso e scacci i lutti,
maestro sembri alla ramosa schiera
d’aprire i fior che son forier de’ frutti. Giacomo Lubrano (Napoli 1619-1693). Ricopiamo dalla breve
introduzione di Giuseppe Guido Ferrero nel volume ricciardiano “Il Marino e i
Marinisti”, p. 1033: “Gesuita napoletano, ebbe molta fama come oratore
sacro. Nato a Napoli nel 1619, morì nel 1693. Lasciò parecchi volumi di
prediche e un volume di poesie latine; oltre alle rime che qui sotto si
registrano..... Fu il rimatore più
delirante del secolo di cui si disse che delirava: tipico rappresentante di quel
“secentismo del secentismo” di cui discorre il Croce (“Saggi , cit., p.
401: si tratta ovviamente dei Saggi sulla
letteratura italiana del Seicento): che si sviluppò a Napoli tra il 1660 e
il 1690. Ma indubbiamente egli riesce a trovare nuove e inaudite analogie
fantastiche. Trascrivo dall’edizione: “Scintille
poetiche o poesie sacre e morali di
Paolo Brinacio napoletano... Il Quadrio, registrando cotesta raccolta di rime,
nota che Paolo Brinacio è nome anagrammatico di Iacopo Lubrano.” Il
concettismo del Lubrano supera, dunque, quello di altri secentisti? Sì, ma non
per la spettacolarità della sproporzione, quanto piuttosto per la frequenza
permeante delle metafore, che finiscono per corrodere la poeticità di certe sue
rime, coerenti per il resto.
Infatti nel Lubrano non vi è dissolvenza incrociata fra le componenti di ogni opera artistica: d’istinto egli si
orienta su motivi ispiratori drammatici, cui corrispondono fedeli il vocabolario
e la musicalità. Citiamo, allora, tre sonetti, fra quelli che ci son sembrati
significativi per la coerenza fra motivo ispiratore (come si è detto,
drammatico) e musicalità adeguata (aspra, collerica). In essi l’elisione
a livelllo lirico avviene o per le sproporzionate immagini e analogie; o per il
fine moralistico che detta il
finale di ogni sua composizione; o per il figurarsi nel tardo Milleseicento
della società che fa da contorno al giovin signore pariniano Ecco, del
primo tipo, la “Stravaganza velenosa
della tarantola”: “De l’apulo terren rettile maga,| picciola Erinni in
velenosi umori,| onde apprendesti ad eternar la piaga,| viva al ferire e postuma
ai dolori?|| Mordi insieme e tradisci; e pur non paga| di tesser bave e vomitar
malori,| fai che di novi spasimi presaga| bolla la prima punta ai sirii
ardori.|| Non è sì crudo il ciel: l’ire frementi| smorza in un colpo sol,
benchè saetti;| e i fulmini ad un tuon cadono spenti.|| Oh di strega Natura
empi dispetti!| pien di più strali a funestar viventi,| rinova il tosco un
atomo d’insetti”[20]
Ed ecco, del secondo tipo, il
sonetto sul gelato, golosità recente: “Abuso
d’intemperanze nelle pozioni agghiacciate”: “Doni del ciel, gratuiti
tesori| cadono giù le nevi, e in bianca mole| si rapprendon penose, onde la
prole| làttin poi, sciolte, a rustici lavori.|| E pure il lusso l’offre in
tazze d’ori| per estri a Bacco e fomiti alle gole,| e benchè arrabbi,
ingiuriato il sole,| mira tremar l’està, freddi gli ardori.|| Ebri Epuloni, o
voi che in laute cene| fate brillar voluttuoso il verno,| ne’ dì canicolari
entro le vene,|| tempo verrà che nel profondo Averno| impetrar non potrete,
arsi da pene,| un’istantanea stilla al foco eterno”. Ecco, infine, del terzo
tipo, anche il sonetto
su L’occhialino: “Con qual magia di cristallina lente,| picciol
ordigno, iperbole de gli occhi,| fa che in punti d’arena un Perù fiocchi,| e
pompeggi da grande un schizzo d’ente?|| Tanto piacevol più, quanto più
mente:| minaccia in poche gocce un mar che sbocchi;| da un fil, striscia di
fulmine che scocchi;| e giuri mezzo tutto un mezzo niente.|| Così se stesso adùla
il fasto umano,| e per diletto amplifica gl’inganni,| stimando un mondo ogni
atomo di vano.|| Oh ottica fatale a’ nostri danni!| Un istante è la vita,
e’l senso insano| sogna e travede eternità ne gli anni”).[21]
Per la ricchezza di concettini, si leggano i sonetti sulla zanzara e sulla
caccia al pesce spada. Giuseppe Artale, siciliano di Mazzarino (Caltanissetta), morì
a Napoli (1628-1679). Fu uomo d’armi e combattè a Candia contro i Turchi. E
fu autore di un romanzo (Cordimarte),
di una tragicommedia (Guerra tra vivi e
morti) e di rime (Enciclopedia poetica).
E’ un tardosecentista. Egli
davvero rappresenta il culmine d’immaginazione aberrante! Riportiamo due
sonetti. Il primo è
un intarsio di verbi, sostantivi ed aggettivi accoppiati
“a contrasto”: dovrebbe “abbagliare” e divertire e, invece, annoia ed
indispettisce. Si intitola “Bella donna
sdegna molti che l’amano e ama un solo, che l’odia”: “Molti uccido,
un m’uccide, e quindi io bramo,| desiata da molti, un solo amante;| fuggo e
seguo, odio e prego, arsa e gelante;| e sprezzata ed amata, abborro ed amo.||
Usa a negar pietà, pietade esclamo,| riverita e schernita in un istante,| e
costante in un punto ed incostante| nel medesimo tempo amo e disamo.|| Tal vinco
avvinta; e la Fortuna in dono| mi diè palme e cipressi, onde dimoro| già fatta
in un la fulminata e ’l tuono.|| Così, cagion de l’altrui morte, io mòro,|
vivo idolatra idolatrata, e sono| diva devota ed adorata adoro.” Il secondo
rischia di superare in ingegnosità “Il cacciatore d’archibugio” di Ciro
di Pers, perchè questi dedica
molti versi ad una animata descrizione della caccia, prima di uscira nella
barzelleta finale (“stringendo un dito solo|, trar fulmini dall’acque, augei
dal cielo|, fare il piombo volar, piombare il volo”); qui, invece, tutto il
sonetto è dedicato a far accettare
il grandioso calembour finale, che pretende
rovesciare gli effetti dell’acqua e del sole
in virtù di pura magia
vocabolaristica. Eccolo: può venir intitolato “Santa Maria Maddalena”.
“Gradir Cristo ben dée di pianto un rio,| torrente ov’egli bee, d’alme
assetato;| se su l’acque vagò spirito e Dio,| su l’acque a passeggiar torna
incarnato,|| e se la pace a chi l’offese offrìo| giusto ben fu, poichè
pietoso e grato| videsi a’ piè di chi piagarlo ardìo| l’aureo crin, che
l’insegna è del peccato.|| L’occhio e la chioma in amorosa arsura| se’l
bagna e’l terge,avvien ch’amante allumi| stupefatto il fattor di sua
fattura;|| chè il crin s’è un Tago e son due Soli i lumi;| prodigio tal
non contemplò natura:| bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi”.[22] Ciò non toglie che almeno una volta è riuscito ad
esprimere un suo tono drammatico nell’accompagnare il regalo alla sua donna
del teschio di un turco da lui ucciso in battaglia: la battuta
concettista dell’ultima terzina non riesce a spegnere il tono un po’ troppo
burbanzoso, ma anche sinceramente fiero della presentazione complessiva:
“Questo, che morto ancora il ciel disfida,|orrido teschio di terribil
trace,|mira, Lidia, mio sol: l’empio omicida| sprezzator d’ogni legge e
pertinace.|| Questo, de’Traci e capitano e guida,|drizzò pronto di man,
d’ingegno audace,| ferrata scala, e perchè arda e uccida,| portò ai muri
sovente e ferro e face.|| Poggiava al fine, ed io sul collo invitto| tal
percossa avventai, che ’l busto forte| senza capo restò fra’ morti
ascritto.|| Or mira, e fa’ che sdegno il guardo apporte:| perchè può tua
pietà d’un uom trafitto| far vita per miracolo la morte”. Giovanni Canale (Cava de’ Tirreni: incerte le date di
nascita e morte). Oltre le rime, scrisse un poema (L’anno festivo ovvero I fasti sacri) ed un romanzo (L’Amatunta). Non è migliore dei soliti secentisti che rovinano le
composizioni oscillando fra diversi aspetti del motivo ispiratore centrale, ne
elidono la forza originaria in un miscuglio di conati lirici
differenti e di musicalismo incoerente, salvo ad aggravrae la espressione
con qualche oscurità o con qualche freddura concettista. Leggiamo quello che il
Croce ha intitolato “Il tamburo”: “Sorte perversa! In vil tugurio nato,|
per secondar fatiche e accrescer stento,| di paludosi umori e fien cibato,|
diedi lena ostinata al mio tormento.|| Dal peso de gli affanni alfin sgravato,|
(chè d’essere vivuto ora mi pento),| una cassa portatile tornato,| della mia
pelle accoglio al seno il vento.|| A mille e mille colpi il fiato scioglio,| in
campo marziale indi venuto| a portar nuove glorie al Campidoglio.|| Se vivo
tacqui in essere battuto,| morto assordo col suono, e ben mi doglio| che chi mi
batte è assai di me più bruto”. Si noti come il tema è essenzialmente
drammatico, perchè il Canale lo ha
pensato come protesta dell’asino per la doppia disdetta: battuto da vivo e da
morto (la ispirazione è tratta da Fedro). Ma il secondo verso è oscuro; la
prima terzina sembra cantare le vittorie militari cui egli contribuisce, ormai
divenuto tamburo, col suo suono; nella terzina finale l’asino ha il buon tempo
di pronunciare una contrapposizione forzata (da vivo, l’asino non ha taciuto
affatto alle percosse, ragliando spesso per protesta) e di fare una osservazione
moralistica discutibile (in una guerra giusta, il tamburino battendo sulla pelle
dell’asino fatta tamburo, non è affatto più “bruto”, cioè più
irrazionale dell’asino vivo). Il musicalismo è esso pure oscillante:
sulle “a” discretamente presenti in posizione ictata, prevalgono la
media “e” e persino la “u”; la “o” è sempre attenuata dal contesto
consonantico “gl” palatale (scioglio|Campidoglio). Se volessimo concludere
con una battuta secentista, dovremmo dire
che l’unica coerenza è la incoerenza, nel motivo ispiratore e nella tecnica
espressiva, mentre le tonalità liriche scompaiono, ingoiate l’una
dall’altra. Riportando
qui adesso un altro suo sonetto, abbastanza citato per dei princìpi di elegia
indubbiamente presenti, ne dobbiamo segnalare il fallimento complessivo per l’assommarsi
di altre intenzioni liriche conseguenti ad altre attenzioni intellettuali
(diversi motivi ispiratori insinuano altri tentativi emozionali) e per immagini
e contrapposizioni indiscrete, sicchè l’esito finale
è ancora insufficiente: “L’uom ch’al volto ha le rughe, al crin la
neve|, incurvato da gli anni è
reso un gioco;| trema nel piè, che’l passo ha lento e breve,| da un legno aitato, e non mai giunge al loco.|| L’offende lo
spirar d’un’aura lieve,| e nel più estivo ardor a grado ha il foco;| il
tacer, il parlar gli è noia greve:| poco
intende, e il suo dir è inteso poco.|| Nel suo freddo vigor l’ira
l’accende,| ogni lungo piacer l’infastidisce,| nulla
gli piace e ad ogni cosa attende.||
Quando più sano appare, allor languisce;|
mentre schivo a se stesso e altrui
si rende,| fra miserie la vita egli finisce.”[23] Pier Francesco Paoli
(nato a Pesaro in anno imprecisato, morì a Roma, dove era stato al servizio di
casa Savelli, fra il 1637 ed il 1642. Pubblicò lui stesso le Rime
e la Seconda parte delle rime (1609 e
1619), mentre postume uscirono le Rime
varie, nel 1637. Questo verseggiatore è esemplarmente secentista: canta
solo l’amore, ma da ogni situazione descritta,
in qualsiasi forma stilistica (sonetti, canzonette, madrigali) il tema è solo
occasione a calembour, a metafore sproporzionate, a concettini ed agudézas.
Perchè allora lo ricordiamo fra i meno peggiori dei seguaci del Marino? Per un
motivo non trascurabile: egli ha due canzonette che in qualche mossa prevengono
le due migliori del Metastasio; una, anzi ha fornito il titolo stesso al poeta (La
Partenza; l’altra si intitola All’amante
lontano). Non che gli siano paragonabili nella intensità lirica (anche
tecnicamente sono diverse: nel Paoli ai prevalenti settenari si mescolano molti
endecasillabi; ma, soprattutto, in entrambe è la donna, non l’uomo, che si
lamenta, piange e implora), ma esser stato suggeritore a Pietro Trapassi non è
merito da poco. Si noti che entrambe le composizioni hanno come sottotitolo
“Idillio”: e sviluppano invece il tema (drammatico) della sofferenza per la
lontananza della persona amata, invocando disperatamente il suo ritorno. La loro
somiglianza costringe a ripetere anche le medesime parole. All’amante lontano inizia con “Torna, deh torna omai,| se tu non
vuoi, mia vita,| che l’alma dal mio cuor faccia partita”; e La
Partenza termina “Torna, e più Amor non veggia| ch’a mendicare io vada|
alimento vitale| dal terreno e da l’aure, baciando e respirando;| ma ch’io
viva immortale,| mentre raccoglierò dolci e vivaci| da le tue labra in un
sospiri e baci”. Ed ecco, in questa finale, spuntare la sproporzione: la
donna, in assenza dell’innamorato, tenta di consolarsi andando sui luoghi dove
lui era solito vivere ed operare, respirando quell’aria a lui già consueta!
Tale situazione al limite del ridicolo (La
Partenza inizia: “Tu partisti, mia vita,
ed io non moro”!) sostituisce la mirabile analisi psicologica in cui il
Metastasio incarna l’amara elegia
o il risentimento nostalgico delle sue due canzonette. “Idillio” vorrebbe
essere pure la canzonetta “Donna fugace”, che però comincia: “Fermate, o
fiumi, il corso,| fermate , o venti il volo” e continua così,
fra grida che vorrebbero esprimere amore disperato, ma si rivelano
finzioni nelle immagini di gioco
che ne fanno una involontaria
commedia (“pronti avrete quest’occhi e queste labra,| che ben possono a
gara| co’ larghi pianti e co’ sospiri ardenti| ministrar acque ai fiumi e
fiati ai venti”). Sono queste la
continuazione delle
contrapposizioni arbitrarie, suggerite da metafore fatue, di cui diamo qui
qualche saggio. Il breve madrigale “Capelli
rossi” si esalta nella meraviglia: “Al color de la chioma| sembri cometa
ardente,| ed ai lampi de gli occhi un sol lucente.| Spieghi crine sanguigno,|
spargi lume benigno:| oh forme altére e sole!| sotto crin di cometa occhi di
sole.” Quest’altro madrigaletto, che s’intitola “Bellissima signora che,
venendo di villa, era tutta polverosa”, termina col prevedibile epigramma:
“Null’altr’opra d’amor questa pareggia:| foco che cener copre arde e
lampeggia”. Nel sonetto “Lettera a bella donna che sta in villa”egli
invita la donna a riconoscere,
nelle bellezze per sè distensive e consolanti della natura, il segno delle
sofferenze del poeta che non l’ha più vicina: e l’idillio si inasprisce nel
dramma, mentre il dramma si dissolve nel concettismo. Dice dunque il Paoli alla
donna: (Vedrai) “ne l’aure alate il mio pensier volante,| ne’ fior caduchi
il mio sperare incerto,| ne le pallide foglie il mio sembiante;|| ne le glebe
infeconde il sen deserto,| ne le canne agitate il cor tremante,| ne le querce
divise il petto aperto”...[24] Ludovico Lepòreo (istriano, di Cormons,
1582-1655 ca) lo citiamo qui, riportandone qualche verso, strampalato se mai
altri, dalla Storia dell’età barocca del Croce (p. 27, n. 3), perchè
vogliamo,con tali eccessi di fine secolo, segnare il passaggio dalla
poesia alla prosa barocca. Difatti, accanto ai “Leporeambi
alfabetici” (1639) ed ai “Leporeambi
nominali alle Dame et Accademie d’Italia” (1641), scrisse anche la “Prosa
rimata curiosa ritrovata da Ludovico
Lepòreo Amico corporeo dei prosatori primari verseggiatori volgari scrittori
singolari” (1652). Dai Leporeambi
Croce riporta questa quartina...esemplare: “Cinthia, se mài, con gli occhi gài
sincèri| tuoi lusinghièri, e dolci mi rimìri,| gioie m’inspìri, e gli egri
miei pensièri| ergi ai sentièri degli Empirei giri...”.[25]
LA PROSA
BAROCCA Si è detto che alle spalle dello stile
concettista-marinista- barocco-secentista sta un atteggiamento di solennità
sproporzionata ed indiscreta. Esso può ben esser nato da un senso della
importanza di certi documenti ufficiali e, quindi, da un sincero (anche se
deformato) sentimento del dovere a sostenere l’autorità e gli atti da essa
affidati alla scrittura. Altre volte scaturisce, invece,
da una presunzione ingenua o maliziosa della genialità e valore della
propria espressione letteraria. In entrambi i contesti, tale stile
finisce per concretizzarsi nella tecnica dell’enfasi, di cui la
manifestazione principe (ma non unica) è il concettino od agudèza. Se tale
ipotesi è vera (l’esempio viene dall’alto), le “gride” dei governatori
di Milano e dei vicerè di Napoli possono considerarsi il modello, che dettano
il “la”a tutta l’ossessione di grandezza e di sostenutezza che pervade la
prosa barocca in Italia. A cominciare dal romanzo.
IL ROMANZO
Il dato, infatti, più importante all’interno della prosa
barocca è l’imporsi del romanzo . Sorto in epoca ellenistica (Longo
Sofista: Gli amori pastorali di Dafni e Cloe) e romana (Satyricon, di Petronio),
ha in Rabelais (Gargantua: 1532), Montemayor (Diana:1559) e Barklay (Argenis) i
più diretti precursori della rinascita ed espansione di questa “epopea
moderna” (Hegel). Esso
rimane più o meno saldamente legato alla moda secentista, pur nei limiti che il Manzoni riconosce nel mitico manoscritto
che finge di trascrivere nella Introduzione ai Promessi: noi completeremo
qui la citazione già iniziata a p. 28: “Ben è vero... che quella grandine di
concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il
buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi,
nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben
più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato!
com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a
sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza
spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili
o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar meraviglia, o di far
pensare, a tutti que’ passi
insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma di rettorica discreta, fine,
di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del
proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più
opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme ed affettato, nella stessa
pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo...”. [26] Ovviamente, non
è solo il romanzo ( o le gride degli spagnoli governanti) il rifugio
della prosa secentista: la prosa del gesuita Daniello Bartoli, storiografo
della Compagnia e, come tale, attento ai fatti ed alle date ed alieno dai
concettini, cade però nell’enfasi
nel corso di descrizioni di paesaggi o costumi che hanno del meraviglioso. Tornando al romanzo, che qui ci interessa, sappiamo
già che esso è conseguenza anche del
benessere economico, che provoca anche una maggior diffusione della cultura,
la quale acquisisce nuove
fasce sociali, meno esigenti, più sentimentali, eventualmente
aliena dalla fatica dei versi (piccola borghesia
e mondo femminile?). Una simile clientela trova di suo gusto le nuove
tecniche espressive e ed ama
le tonalità patetiche? Se il
verso, anche quello ariostesco e mariniano,
è almeno in parte costretto ad
una certa sobrietà e stringatezza
dal rigore metrico di rime e accenti,
la prosa si estenderà prolissa in descrizioni dilavate su amori infelici ed
eroi perseguitati; se la cultura imposta dai modelli poetici supremi (da Omero
al Tasso) obbliga ad una sanità e maturità di emozioni, la novità del
“genere romanzo”, non soggetta a regole aristoteliche o paradigmatiche,
permetterà lo scadere nel patetismo o nell’enfasi, nel lagrimevole o
nell’eccitante, in
sentimentalismi cioè infantili,
così cari e diffusi tra il popolino. Come per il teatro, occorrerà preparare
presto testi graditi al “rispettabile pubblico”, non importa se “volgo
profano”. Già allora, insomma,
scrittori ed editori erano spesso dei capocomici cui interessavano anzitutto
lettori molti e solventi, sicchè si facevano disposti a sacrificare il valore
lirico all’utile economico: la quantità delle vendite prendeva il sopravvento
sulla qualità del prodotto. Così andavano le cose....
già nel secolo XVII. Infine, il nuovo genere letterario non è invenzione
autoctona italiana: ci
arriva dalla Francia, sia pure su precorrimenti tosco-italici, quali le
novellistica ed opere complesse come il romanzo pastorale Arcadia, del
Sannazaro, scritto nell’ultimo ventennio del secolo XV. Avviandosi al declino
l’influsso spagnolo, la nostra cultura,anche letteraria, inizia quella
dipendenza dalla vicina Francia, che durerà sino alla fine della seconda guerra
mondiale, quando diverrà una scialuppa della nave ammiraglia
statunitense. Pure, l’innovazione francese, destinata a soppiantare il
poema epico, risente della tradizione della materia novellistica e cortese ed in
particolare della recente produzione di Miguel de Cervantes (Galatea, 1585; e “Dodici novelle esemplari”, 1613: il don Quijote resta
inimitabile) e dell’Aminta (Tasso:1573; edito 1581) come del Pastor fido
(Guarini: 1589). Ma il primato di un vero e proprio lavoro di fantasia e di
lunga lena, scritto in prosa,appartiene ad Honoré d’Urfé (Marsiglia,
1567-1625). Questi scrisse il poema
pastorale Sirena, una tragicommedia pastorale (Sylvanire), un poema (inedito) in
onore dei Savoia (Savoysiade) e le Epistole morali, mostrando grande interesse
per gli scrittori di novelle e di opere pastorali sia italiani che spagnoli: dal
Sannazaro al Tasso, da Jorge Montemayor (che con la sua Diana, gli fornì il
modello prossimo per la Sirena) al Cervantes. Nel 1607 pubblica il primo volume del suo romanzo-fiume Astrée
(Astrea), scritto in prosa ed in versi e diviso in sei parti, di cui l’ultima
fu edita postuma, completata dal suo segretario, nel 1627. L’opera completa fu
edita nel 1632-3. Vi si tratta di avventure che nascono da amori contrastati o
da malintesi, da circostanze impensate, da guerre, ecc. con un felice
scioglimento finale. La trama sentimentale-amorosa e quella
avventurosa-cavalleresca si intrecciano a dare interesse all’opera. E’ la
prima...telenovela o sit.com! In Francia nascono poi i “romanzi preziosi”,
usciti cioè dal salotto di Catherine
de Vivonne, marchesa di Rambouillet, dove si coltivava una forma particolare di
linguaggio, vicino al nostro barocco, detto “preziosismo” che, da una parte,
darà origine al “Grande dizionario delle preziose” (1660) e, dall’altra,
ispirerà la satira spietata di Molière nella commedia Les précieuses
ridicules” (1669). Qualunque sia il valore (più negativo che positivo) del
fenomeno letterario, esso diede incremento alla moda del romanzo. Gautier de La
Calprenède scrive Cassandra (1642-60), Cleopatra (1646-57) e Faramond
(1661-70); e Mademoiselle Madeleine de Scudéry (1607-1701), che diventa il
punto di riferimento del salotto,
dopo che Madame de Rambouillet se ne ritira a metà secolo,compone (in
collaborazione col fratello Georges) Ibrahim (1641), Ciro il grande (1649-53) e
La Clelia (1654-60). Dopo la seconda metà del secolo, Maria Maddalena de La
Fayette (1634-1692) pubblica La principessa di Clève, che è il
capolavoro del genere e culmina la serie dei suoi “romanzi psicologici”, che
comprendono anche La principessa di Montpensier (novella: 1662), Zayde (romanzo,
ambientato in Spagna al tempo dei mori: 1670) e La contessa di Tenda (novella
postuma: 1720). Il vescovo romanziere Pierre Camus influenzò, a quanto pare, il
nostro Bernardo Morando, coi suoi romanzi edificanti. A loro volta, parecchi
nostri romanzieri trovarono larga eco in Europa: Soprattutto ebbe fortuna Giovan
Francesco Biondi, ma anche Giovanni Ambrogio Marini (il maggiore romanziere
italiano del secolo) ed il Loredano
(Giovanni Francesco) con la sua Dianea, tradotta in francese.[27] Dei romanzi italiani del Milleseicento, tutti intrisi
di retorica bolsa, con lungaggini descrittive insopportabili, nessuno è degno
di nota, anche se si deve distinguere il Calloandro fedele di G.
Ambrogio Marini come il meno peggiore; ed anche se val la pena di ricordare
la Historia del cavalier perduto di
Pace Pasini, perchè una delle sue trame pare proprio anticipare alcuni
particolari sia dell’ordito dei Promessi Sposi, sia del linguaggio
che il Manzoni ha ricalcato per confezionare la sua mirabile Introduzione
al romanzo. “Il falso manoscritto” non è poi del tutto inventato. Scontato,
comunque, il fallimento estetico della produzione, bisognerà aggiungere che
nessuna di tali opere attinge almeno l’acutezza di penetrazione psicologica
che madame de La Fayette ha rivelato nella Principessa di Clève.[28] Si è tentato distinguere diversi filoni di motivi
ispiratori nei romanzi del secolo (amoroso, cavalleresco, religioso-morale,
politico, storico...), ma la sistemazione
si rivela solo un comodo
accorgimento per la memoria: praticamente nessun romanzo si ispira ad un
argomento monolitico, ma solo a tematiche prevalenti, che non escludono la
presenza delle altre. Limitiamoci allora ad un elenco degli autori, degni in qualche modo di menzione: rimandiamo
alla Garzantiana (Storia della Lett. it.,1967|76) per un elenco e notizie più
completi. Il criterio di catalogazione è complicato: primati cronologici,
estetici, culturali si intrecciano e non la facilitano. Forse il primo vero romanzo italiano appartiene a Giovan
Francesco Biondi, la cui Eromena
è del 1624. Seguirebbero quelli di Francesco Pona (La Lucerna: 1625; Messalina:
1627). Vien poi Gian Francesco Loredano, la cui Dianea sarebbe stata edita nel 1627, sebbene di tale prima edizione
non rimangano documenti, che esistono invece per quella del 1635. Antecedenti al
1640 sono pure la Historia del cavalier
Perduto (“Perduto” è nome proprio, sia pure molto simbolico: 1634) di Pace
Pasini; Ormondo, del Pona
(1635); La Stratonica, di Luca
Assarino (1635); Il Cretideo, di Giovan
Battista Manzini (1637); Il Dernando,
di Giovanni Pasta (1638); La
fuggitiva, di Girolamo Brusoni (1639); La regina sfortunata, di Carlo Bortolomeo Torre (1639); Ercole
novello, di Luca Assarino (1639).[29]
L’anno 1640 è quello della esplosione
del fenomeno “romanzo”: escono in quell’anno Il principe Altomiro (Poliziano Mancini), Armelinda (Luca Assarino), I
lussi del genio esecrabile di Clearco (Giovanni Battista Moroni); e la prima
edizione di quello che, attraverso mutamenti di titolatura e rimaneggiamenti di
trama e di forma, sarà il meno peggiore fra essi: Calloandro
sconosciuto diventa Endimiro creduto
Uranio, poi Endimiro smascherato (1641)
ed infine Calloandro fedele (1652-3),
di Giovanni Ambrogio Marini. Dopo il 1640 la produzione assume un
crescendo che solo alla fine del secolo, con il programma di buon senso e
discrezione espressiva (Arcadia, primo Illuminismo) raffrenerà. E’ interessante notare le città ove l’editoria è più attiva: Venezia detiene il
primato; Genova, Milano, Bologna seguono con numerose pubblicazioni. Roma è
pure ben rappresentata; invece Firenze e Napoli sono quasi assenti, sebbene per
motivi ben diversi (Firenze non partecipa al malcostume secentista; Napoli è
troppo povera). I motivi
ispiratori più frequenti son spesso mescolati fra loro, trovandosi il romanzo al confluente tra
la novella, il poema cavalleresco e la favola pastorale, da Boccaccio al
Cortegiano, dall’Amadigi al Tasso, dal Sannazaro al Cervantes: l’amore, le avventure (con la peripezia più o
meno dettata dal caso o dal fato), lo sfondo storico con la martellante
problematica politica (la ragion di stato) rendeva allettante la tentazione ad
“aggirarsi tra i Labirinti de’ Politici maneggi et il rimbombo de’ bellici
oricalchi”. Il Marini è uno dei pochi ad essere immune dalla tematica
politica. GIOVANNI AMBROGIO (Ambrosio) MARINI
(Genova ca. 1594-Venezia, ca.1662) nel suo Calloandro
fedele (1640-1653: Calloandro in greco
significa “uomo bello”) intreccia
i motivi cavalleresco e novellistico, col risultato di una trama
labirintiaca. Calloandro e Leonilda, pur non essendo nè fratelli gemelli
nè lontani parenti, nascono “simillimi” e nello stesso giorno; a parte gli
equivoci e scambi, le cose si complicano per il fatto che il protagonista si
maschera sotto tre nomi diversi (Cavaliere di Cupido, Cavaliere della Luna,
Selim), per la ostilità delle rispettive famiglie, per vicende
arbitrario-casuali, per malintesi. Ma finiranno
per sposarsi felicemente (vedi sintesi, in nota). Accanto all’amore
intralciato ma fedele, alle guerre incombenti ed incessanti, al caso con le sue
sorprese ed alla società che interferisce, sta però una moralità (una
tentazione in cui Calloandro cedeva paradossalmente nelle edizioni prime, viene
fatta superare in quella definitiva) garantita... dalla identità sacerdotale
dell’autore. Sì, il Marini era prete e forse per questo le due
parti della prima edizione erano finte pubblicate in Germania, con
anagramma dell’autore. Ed egli scrisse anche opere attinenti la sua
professione: in latino “Cras et numquam
moriemur” (Moriremo domani e mai); in italiano: “Il caso non a caso; La
schiavitudine mondana ridotta in libertà; La settimana santa ben
aventurosamente sfuggita). Ridusse a forma teatrale il Calloandro e scrisse
altri due romanzi: Le nuove gare dei
disperati; Gli scherzi di fortuna a pro dell’innocenza). Ancora nel secolo
XVIII il Calloandro fu riedito,
dopo il successo senza pari nel secolo XVII.[30]
Ma nessuno lo ritiene più sopportabile: “romanzo spropositato, tagliato alla
brava” lo definisce Carmine Jannaco (p. 527). Adduciamo un solo particolare:
la duchessa Crisanda è innamoratissima di Calloandro; lui si dichiara invece
cavaliere fedele alla castità, disinteressato all’amore. Dopo di che: “Fremeva
la duchessa a tai discorsi dentro se stessa; e così cianciando
erano arrivati in un bellissimo sito...” (parte I, libro II: Ricciardiana,
Trattatisti e narratori del Seicento, 1960, p.773). Abbiamo messo in corsivo due
verbi che indicano, oltre tutto, la mancanza di coerenza psicologica nei
personaggi: è l’autore che “ciancia”, senza partecipare emotivamente alle
vicende dei suoi personaggi. Gian Francesco Loredano
(Venezia, 1606-1661): di famiglia patrizia, fu senatore, consigliere del doge,
inquisitore di stato e morì
provveditore della Signoria a Peschiera. Fondò nel 1630 la Accademia degli
Incogniti (1630) che albergava eresia e libertinaggio.[31]
Amico del Marino, fu esponente dello spirito di bizarria barocca e di retorica
altisonante, di spregiudicatezza morale e di
anticlericalismo ed
antitridentinismo. Scrisse versi in italiano ed in veneziano, un’opera
allegorico-satirica (Bizzarrie
accademiche), opere comiche come
gli Scherzi geniali, Il Cimiterio,
Epitaffi giocosi, Novelle
e dubbi amorosi, Le freddure
estive, Ragguagli di Parnaso, L’Iliade giocosa (versione comica dei primi
sei libri del poema omerico). Scrisse (come poteva, data la leggerezza del
carattere) di storia ecclesiastica (Vita
di papa Alessandro III Pontefice Massimo) e civile
(Morte e ribellione del Valenstein,
Historia de’ re Lusignani). Lasciò numerose Lettere,
interessanti per conoscere la temperie culturale e morale dell’epoca, non solo
in Italia. L’opera per cui è più noto resta il romanzo La Dianea (1625|37).
Romanzo breve che, ai comuni ingredienti di amore (erotismo), vicende militari,
elementi favolosi, aggiunge questioni politiche
(ragion di stato), l’esaltazione
di Venezia, l’ammirazione per il Wallenstein e la critica contro la curia
romana. Si è potuto sospettare che il romanzo
fosse una allegoria della guerra dei Trenta anni. Ebbe in pochi anni
sette edizioni a Venezia; fu tradotto in latino ed in francese. Circa la trama,
Jannaco se la cava così: “nello svolgimento caotico, nell’atmosfera di
mistero, nelle strane e complicate liaisons dei personaggi viene esaltato il
peculiare carattere del romanzo, l’incertezza; senonchè –anche qui, come
sempre- abbiamo vicende più spesso raccontate
dai personaggi che vedute in atto” (o. c. p. 526) Pace Pasini, vicentino (1583-1644), fu accademico Incognito e
cadde in sospetto di materialismo, di
negazione della immortalità dell’anima (scuola di Cesare Cremonini, a
Padova?): dovette emigrare a Zara. Fu anche in corrispondenza col Keplero.
Scrisse un Trattato de’ passaggi
dall’una metafora all’altra (vi si
rivela un sostenitore del barocco moderato), che unì alla edizione delle sue Rime:
1617 e 1642). Ma è famoso per il romanzo Historia
del cavalier Perduto (1634). C.
Jannaco parla del romanzo come di uno di quelli più leggibili, meno noiosi del
secolo. Si tratta di avventure complicate, che si ispirano all’amore (anche
erotico) ed alle avventure cavalleresche.
Tra le molte vicende secondarie, vi
è quella del conte di Custodia, Druso (figlio di Mirone) che ama Luciana e, per
liberarla dal capobanditi Strappacuori, se ne fa uno dei bravacci. Egli
partecipa così alla cattura del cavalier Perduto, che ne distingue però il
comportamento da gentiluomo, sicchè combina con lui la liberazione di Luciana e
la fuga dal castello. Strappacuori non esita a fare strage dei suoi
collaboratori, più o meno colpevoli della fuga dei prigionieri.[32] Giovan Francesco Biondi:
nato sull’isola di Lesina, in Dalmazia, fu a servizio di Venezia come
diplomatico in Francia ed Inghilterra (1572-1644). Dalmata come S. Gerolamo, ne
partecipò il temperamento forte, attivo, ma instabile.
Membro dell’Accademia degli Incogniti, amicissimo del Loredano,
condivise la fronda ideologica e pratica degli adepti, anzi la esasperò. Al
seguito del vescovo di Spalato, Marc’Antonio de Dominis, fuggì in
Inghilterra, dove pare abiurasse la fede cattolica. Morì ad Aubonne, nel canton
Vaud in Svizzera. Scrisse L’istoria
delle guerre civili d’Inghilterra tra le due case di Lancastro e Iorc
(1637-47), in cui si trovano spunti di machiavellismo. Vi si stabilisce,
infatti, una netta distinzione tra la virtù
privata e politica: quella è morale; questa è “utilitaria” , poichè
la vita pubblica deve seguire altre regole di condotta. La mansuetudine, ad
esempio, è virtù nella vita privata, ma comportamento dannoso nel governo
degli stati (“non giudicandosene le virtù e i vizi per termini morali e
teologici ma per gl’effetti buoni, o
mali che gliene possono addivenire”). Rivela anche acutezza psicologica nel
giudicare il carattere di personaggi e popoli; e pone attenzione alla parte che
nelle guerre ha la situazione economica. La sua fama si dilatò a livello europeo attraverso
la trilogia romanzesca: L’Eromena
(1624), La donzella desterrada (1632) e Il
Coralbo (1632). Le tre vicende coinvolgono Mauritania, Sardegna, Corsica,
attraverso rivalità in amore e guerre susseguenti. Eccone il sunto accennato
dal Varese: “Polimero, principe di Mauritania, dopo una grave contesa col
fratello primogenito Metanone, prepotente e ingiusto verso il cadetto, lascia la
patria e, attratto dai racconti di alcuni cavalieri, si interessa in un primo
momento e poi partecipa alla guerra scoppiata fra il re di Sardegna Aruto ed
Epicamedo, re della Corsica. Perosfilo, figlio del re di Sardegna, è ucciso
dall’ammiraglio di Sassari, della cui moglie quello era stato l’amante. Da
ciò la guerra tra la Corsica, nella quale l’ammiraglio si era rifugiato, e la
Sardegna. Intorno a questo nucleo si annoda la vicenda che è insieme amorosa e
politica, di Eromilla, già fidanzata del morto Perosfilo e moglie poi di
Polimero, nonchè quella degli amori di Metanone e di Eromena” ( Garzantiana, p. 535). I romanzi seguenti si
ricollegano al primo mediante il trafugamento del piccolo principe Coralbo,
nascosto in una fantastica isola deserta, in attesa del suo destino. Maiolino Bisaccioni:
nato a Ferrara nel 1582, conte, fu alle corti degli Estensi, di Venezia, dei
Savoia, del papa. Si dedicò alla vita diplomatica e militare, che lo condussero
in Francia, Austria e Russia. Tradusse dal francese
“Cleopatra”, di Gautier de Costes, signore de La Caprenède, autore
di romanzi pseudostorici (Cassandra, Cleopatra, Faramond); nonchè
“Artamane” e “La Clelia”,di Madeleine de Scudéry.
Scrisse inoltre opere di storia (sulla
guerra dei Trenta anni, fino a Gustavo Adolfo: Commentario
delle guerre successe in Alemagna: parte I: 1633; parte II: 1637;
Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi: 1654; Memorie
istoriche: 1654). Morì a Venezia nel 1663. Storia e
fantasia si mescolano nel suo romanzo Il Demetrio moscovita, istoria tragica (1643), dove tratta di
avvenimenti quasi contemporanei, ma rimaneggiandoli liberamente. E vi mescola
anche una tesi politica: non basta la virtù per governare i popoli; occorre una
dote ulteriore, la prudenza, cioè
una particolare saggezza od astuzia (tacitismo, mantenuto entro i limiti del
buon senso): difatti, Demetrio, pur essendo principe giusto, che si ribella al
tiranno Boride, cade vittima della sua imprudente bontà. Bernardo Morando (Sestri Ponente, 1589- Piacenza, 1656), fu
poeta (teatrale e non) alla corte del ducato di Parma e Piacenza e scrisse Amor
messaggero e Gareggiamento d’amore e d’Imeneo, drammi per musica (Il
ratto di Elena), soggetti per balletti (Ercole
nell’Erimanto| Le risse pacificate
da Cupido) e le già viste rime di stampo marinista (Fantasie
poetiche| Poesie sacre). Nel
secolo XIX furono edite due brevi opere: Dialogo
della nobiltà (era stato fatto conte nel 1651) e La peste del 1630 in
Piacenza. Con lui il romanzo si pone al servizio di una finalità religiosa
ed apologetica. Rosalinda (1650) vede
entrare in convento sia la protagonista, sia il fidanzato Lealdo sia
Edmondo, nipote del conte di Essex, pur lui innamorato di Rosalinda: la
decisione avviene dopo vicende avventurose, da cui si sentono liberati per la
protezione della Provvidenza divina. I due fidanzati, figli di due ricche
famiglie genovesi che vivono a Londra, fuggono dall’Inghilterra, persecutrice
dei cattolici. Dopo vicende avventurose, in cui Rosalinda salva
da tragiche situazioni Edmondo, i due fidanzati giungono al porto di
Genova, dove però la nave viene bombardata come musulmana, perchè inalbera
ancora la bandiera islamica, furbescamente issata in mare per sfuggire alla
caccia della mezzaluna. Lealdo viene anzi ferito. E’ la grande peripezia della
loro vita, che li deciderà alla vita religiosa; Edmondo si farà cattolico e
frate, dopo un naufragio sulle coste genovesi. Si noti il significato simbolico
altamente morale dei nomi (Rosa la pura, Aldo il leale). Ma se il
romanzo “edificante” del Morando attira attenzione e rispetto, è perchè ha
altre doti che, se non sono decisive per la sua intronizzazione nel regno
apollineo dell’arte, pure gli assegnano una posizione stilistica singolare.
Gli è che la sua esperienza ed abilità di
poeta, sia lirico che teatrale, colora il romanzo, così che esso risulta
in alcune parti quasi un “libretto” per
recitazione; ed in ogni caso si alterna fra prosa prevalente e
verseggiatura insistente: è vicino all’Arcadia del Sannazaro ed all’Astrea
del d’Urfè. E come la poesia si intreccia alla prosa senza disturbare
eccessivamente, così anche la dichiarazione di intenti moralistici è netta, ma
intelligente. Ad esempio l’autore ha tanta cultura da ricuperare il detto di
Rossane (figlia di un satrapo persiano, che non vuol essere violata da
Alessandro Magno, sicchè questi dovrà sposarla) “malo mori quam foedari”
(preferisco morire piuttosto che venir
macchiata: la frase è poi divenuta il motto dell’ermellino); e
fa cantare a Rosalinda questo detto,
quando essa è in prigione. Claudio Varese difende poi anche l’amore
dell’autore per la sua Genova, nonostante che esso gli detti un capitolo a se
stante del romanzo: “Le digressioni, sia di carattere e di polemica religiosa
o addirittura teologica, sia di riferimenti alla realtà contemporanea e
soprattutto alle glorie di Genova, non disdicono in quanto sono in parte
dominate ed amalgamate dallo stesso tono di riflessione e di dimostrazione che
accompagna il racconto” (Garzantiana, p. 577). Sì, a parte l’inclinazione a
metaforeggiare e concettizzare già incontrate nell’esame della sua opera in
versi, il romanzo del Morando si esclude dall’arte proprio perchè è opera
prevalentemente dimostrativo-educativa, quando non addirittura polemica (contro
i protestanti): il Manzoni avrà anche un simile intento, ma lo sottometterà
decisamente alla volontà di
esporre una vicenda intellettualmente
coerente ed emotivamente partecipata, sicchè è proprio il primato del suo
plus-valore estetico che garantisce
l’efficacia della moralità, contenuta nella drammatica vicenda dei
“promessi”, elevata ad
epopea della Provvidenza e degli umili. Poliziano Mancini, gentiluomo di Padova, pur essendo di
famiglia nobile, ci ha lasciato ben poche notizie
della sua vita: le date sono quelle delle due edizioni del suo romanzo
Il prencipe Altomiro di Lusitania (1640 e 1650). Mescola vicende favolose
(lotte di cavalieri e draghi) con accenni a vicende e personaggi contemporanei
all’opera, a discussioni politico-morali, come le guerre d’Olanda, le
imprese dei missionari cattolici in Cina, la questione dell’uso della forza
nella propagazione della fede, le pretese libertà gallicane, il duello... E’
un libro impegnato nel senso della Riforma cattolica. Altomiro sarebbe il re di
una Cina già fatta cattolica dai missionari (tentativo di Matteo Ricci a
cavallo fra i secoli XVI e XVII), ma la finzione si intreccia col racconto di
vere guerre e conquiste del tempo. La
sorgente più evidente di personaggi e vicende surreali è la Gerusalemme
liberata: modellata su
Clorinda, sta Alidea, principessa cattolica, che converte e battezza il principe
pagano Biliguanto, innamoratosi di lei durante una tragica battaglia navale in
cui Alidea gli uccide il padre. I due fidanzati si trovano poi condotti al
patibolo per intrighi di nemici ma, come Olindo e Sofronia, ne verranno
liberati. E vi è anche una specie di Armida,
in Magabella che tenta sottrarre forze al campo cattolico con la menzogna
di una presunta persecuzione. Il meraviglioso nasce anche dalla
descrizione di paesaggi, costumi e animali esotici e il tutto fa da sfondo degno
alla nobiltà, eroismi, valori morali di una civiltà cavalleresca. Occorre
riconoscere infatti che il Mancini difende una cultura in cui la nobiltà dei
natali ha una importanza decisiva: solo essa garantisce lo studio e la saggezza,
sicchè persino la teologia e le posizioni gerarchiche della Chiesa vanno
riservate ad essi, come a depositari dell’ordine religioso oltre che civile. I
disordini succeduti al libero esame della Bibbia, messa in mano a laici incolti
(Anabattisti; dissensi fondamentali fra Lutero, Zwingli e Calvinismo) erano pel
Mancini la prova che solo una perseveranza
nello status quo sociale poteva salvare gli stati e le anime. Discussioni di
questo genere sono frequenti nel romanzo, che esalta Luigi XIV per la presa
della Roccella agli Ugonotti e difende l’opera missionaria in Oriente, dalla
Cina alle Filippine e Giappone, sostenendo la libertà delle conversioni e la
estraneità sostanziale delle armi nell’accesso dei nuovi popoli al
cristianesimo. Spirito reazionario? Fino ad un certo punto: lo scrittore non
esita a combattere la moda del duello, che era bensì fatto tornato di moda, ma
antico come la barbarie germanica e residuo autentico del Medioevo; e delimita
la superstizione astrologica, lascito
della cultura romana. Nel complesso, al dire del Varese, la apologia del
cattolicesimo portata avanti dal romanzo Altomiro è fra le più pensate ed
efficaci della letteratura controriformistica, così come la parte del
concettismo è molto moderata nello stile: vi è piuttosto una esuberanza di
particolari nelle descrizioni, quale ritroveremo in Daniello Bartoli. Tante
qualità positive, che però non salvano l’opera dal punto di vista estetico.
Valgono, infatti, anche qui le osservazioni fatte per il Morando: la difesa
della relgione e della morale assorbe l’attenzione del Mancini, che non ha poi
“tempo ed energie” per sentire ed esprimere emozioni e commozione attraverso
quello che racconta.[33]
Giovanni Battista e Luigi Manzini
(fratelli, di Bologna: il secondo, benedettino)
si trovano sulla stessa scia di apologetica cattolica. Più discretamente il
primo (con il Cretideo, 1637); con
tutto il candore della sua professione religiosa, il secondo, che si ispira
direttamente alla Bibbia per i suoi romanzi (Il
dragone di Macedonia estinto è la
storia di Ester in Assiria; Le turbolenze
d’Israele seguite sotto il governo di due re Seleuco il Filopatore ed Antioco
il Nobile; Le battaglie d’Israele,
La vita di Tobia, Flegra
in Betuglia, cioè la storia di Giuditta). Giovanni Battista Manzini nacque nel 1599 e morì nella
sua città nel 1664, ma dopo aver molto viaggiato. Fu simpatico a molti
principi, a cominciare dai papi, da Urbano VIII ad Alessandro VII, sino al re di
Francia, ai regnanti di Savoia, di
Toscana, di Parma e di Modena. In gioventù polemizzò contro Matteo Pellegrini
(bolognese pure lui) che aveva tentato di tracciare un codice di condotta per
“Il Savio in corte” (1624): egli vi oppone Il
servire negato al savio, parte della composizione più ampia I
furori della gioventù. Esercizii rethorici di Gio. Battista Manzini (1629).
Due anni dopo pubblicava una tragedia regolare (la Fleride
gelosa), mentre solo nel 1643 pubblica Amori
innocenti di Dafne e della Cloe. La commedia L’avarizia
scornata è di un anno solo
precedente la morte. A metà del cammin di sua vita, egli pubblicò il romanzo Cretideo
(1637). Egli, convinto difensore del romanzo come genere letterario superiore ad
ogni altro, lo ritiene valido anche per scrivere
vite di santi poco conosciuti, di cui fantastica le vicende complementari,
asserendo che le biografie dei santi sono le più feconde di quel meraviglioso
che rende grandi i romanzi! His fretus, cioè su questi bei fondamenti, scrive
la Vita di San Eustachio martire
(1631). L’azione del Cretideo parte dalla crudeltà del re di Creta che
minaccia uccidere la moglie se gli partorirà ancora
bambine: la sostituzione della nuova
figlia con un bimbo non suo, darà origine a vicende strane e complicate,
che per di più sono facilmente occasione a discussioni morali, soprattutto
sulla ragion di stato. Ma l’azione resta chiusa nell’isola e manca quel
riferimento a vicende contempooranee che sono invece in Mancini. Anche il
viraggio cristiano dato alla religione del luogo non convince (Giove adorato
quasi fosse il crocefisso!). Luigi Manzini (Bologna 1604- 1657) fu consulente a Roma del
cardinale Maurizio di Savoia e morì per una archibugiata spagnola, mentre
navigava sul Po. Scrisse tragedie (L’Aristobulo|
L’Ottone), Rime, i romanzi già segnalati, nonchè il trattato Il
principe ecclesiastico. La trama dei romanzi è dettata dal testo biblico e
le interpolazioni fantastiche hanno poco spazio. La dizione è barocca e
contribuisce a far perdere interesse. Citiamo con il Varese, da p. 589 della
Garzantiana: “Il reo superbo (Aman) avvilì in un momento. Non ebbe più
cuore, nè per resistere, nè per difendersi. Eclissato il sole della grazia del
re, per l’interposizione della regina che n’era la luna, egli smarrì il
sentiero dell’alterigia e quello della fortuna. Il Dragone divenne tanto vile,
chè ne meno seppe fuggire.” Luca Assarino ( Siviglia, nato da padre genovese: 1607-1672). Fu
al servizio della corte sabauda (e fatto cavaliere dei ss. Maurizio e Lazzaro) e
fu scrittore di storia contemporanea
(Rivoluzioni di Catalogna; Delle
guerre e successi d’Italia... dall’anno 1613 fino al 1630) e di opere
edificanti (Il tormento vilipeso, ossia il
martirio dei santi Alfio, Filadelfo e
Civino; Vita e miracoli di
Sant’Antonio di Padova). Come letterato, si occupò di stile nella Notomia
della Rettorica ed anche nell’epistolario
che lo vede vivace interlocutore con Chiabrera, Loredano, Brignole Sale. Pubblicò
anche versi (I lavori di Aracne).
Imitando il Boccalini, scrive Ragguagli
d’Amore del regno di Cipro (arguzie, novelle, motti sparsi nelle dispute
sull’amore, la cortesia e la donna). Egli porta nei suoi romanzi
entrambe queste finalità: La Stratonica (1635), L’Ercole
Novello (1639), Armelinda (1640), Il
Demetrio (1643). Il suo intento è scrivere
piuttosto che romanzi storici, storie romanzate: “Io non alterando
parte alcuna del testo di Giustino sono andato sovra di esso fabbricando la
serie di quegli avvenimenti, nei quali è verosimile che potessero incontrare
Astiage e Mandane...” (Prefazioine a L’Armelinda).
Ma, attraverso la sua storia romanzata, egli ha di mira di aiutare
i lettori a formarsi una coscienza morale: afferma di aver scelto di
raccontare le avventure di Demetrio, perchè esso contiene “mille varietà
d’accidenti atti ad erudire i prìncipi”. A tal fine, i suoi romanzi non
sono molto estesi, pur affidandosi a peripezie contorte, perchè devono condurre
ad una soluzione che istruisca ed educhi. Egli
credeva funzionale a tali scopi l’uso di una lingua arzigogolata
(l’ingegno stilla finezze preziose), cioè baroccheggiante, fino al punto di
ritenere la rigorosa sequela del toscano un impaccio più che un aiuto:
giustificava tale opinione con la convinzione che fosse la via per una maggior
diffusione ed efficacia dei suoi scritti (in realtà era solo
un corollario estremo dello stile barocco). La sintesi[34]
che il Varese dà del “Demetrio” e la pagina esemplare che ne riporta sono
conferme dei difetti ed intenti delle opere dell’Assarino e parrebbe
giustificare il suo giudizio conclusivo: “Una vita avventurosa ed inquieta,
una ricerca di paesi e di climi nuovi, una varietà di tentativi letterari,
l’ammirazione per lo stile del Mascardi[35],
come esemplare si concludono dunque in questo – favoleggiar
sull’istorie-“. Quanto egli
aggiunge (“Gli intrecci e le sovrapposizioni sono aspetti di una civiltà che
non ha un centro preciso e di una cuiltura letteraria risolta nella retorica”)
merita invece una precisazione: molti letterati del Milleseicento dimostrano di
essere gente disorientata, ma non tutti; e nel complesso il popolo di quelle
generazioni ebbe un chiaro senso (quello cristiano) della vita,anche quando
accettava ingenuamente, dalla moda, una maniera di esprimersi enfatica e
scriteriata. Don Ferrante e donna Prassede, in proposito, possono essere
paradigmatici: Manzoni li dipinge come gente macante di senso critico nella vita
teoretica e pratica, ma sostanzialmente, profondamente buona. Non tutti avevano
un gusto letterario così acuto da
preoccuparsi del fatto espressivo in se stesso. Quel che contava era il
contenuto. E, in proposito, non pare irragionevole chiedersi
se ancora nel secolo XX la società occidentale abbia tratto profitto
dalla carica di convinzioni e sapienza, di buon senso e di virtù,
giunta a maturazione nei popoli cattolici grazie alla riforma
tridentina in quel secolo. Pagando lo scotto di una minor attenzione alla
ragionevolezza della tecnica espressiva. Girolamo Brusoni (ca. 1610- dopo il 1686),nato
nel Polesine (Badia di Vangadizza) fu un poligrafo ed un avventuriero.
Entrato nell’ordine certosino e due volte uscitone (la seconda volta finì in
prigione), visse in Emilia ed in Toscana, finchè non lo accolse Venezia, dove
si legò alla Accademia degli Incogniti, in amicizia con il Loredano ed il
Pallavicino (Ferrante, quello che finì giustiziato,
ad Avignone, per eresia). Finì per sistemarsi nel 1676 alla corte di Torino
come storiografo. Forse la sua passione più vera fu proprio la
storia: nel 1656 pubblicò Le
guerre d’Italia dall’anno 1653 fino il
1655, con cui si
attirò odi e polemiche, perchè l’opera era fortemente antispagnola; e la
Historia d’Italia (vicende dal 1627 al 1680). Scrisse anche quattro
novelle impudenti (L’Eccellenza delle corna) che
raccolse con versi in veneziano ed in italiano, con lettere
e con un panegirico a Venezia ne Il
Camerotto (1645: il “camerotto” è la prigione).
Ma le cose più importanti sono i romanzi, anche se i primi sono prove
maldestre,calchi della cronaca scandalistica o addirittura rimaneggiamenti da
opere straniere. Cominciò, dunque, erotico-scandalistico. La
fuggitiva (1639) è la storia romanzata di un fatto di cronaca del tempo,
nell’ambito di casati nobili bolognesi (Bentivoglio, Cappello, Manzoli): amori
extraconiugali, puniti dal figlio con la uccisione della madre, peccatrice
impudente. L’Ambizione calpestata (1641)
parrebbe invece la storia allegorica della impresa di Gustavo Adolfo, il re di
Svezia, caduto in battaglia a Lutzen nel 1632. Con Lo scherzo di Fortuna(1641),
egli passa al tema amoroso puro,
rivelando acutezza di introspezione psicologica (lo pubblicò assieme a Ragguagli
di Parnaso); lo continuò ne L’amante
maltrattato (1654: è il
rimaneggiamento di un libretto francese, a sua volta derivato da un testo
spagnolo). Degli amori tragici (1658:
già edito come La turbolenza delle Vestali), è libro scandalistico, che
–sotto la corruzione delle Vestali romane- velava
quelle di un convento
contemporaneo, ma senza fondamenti storici, nonostante la connessione
operata da scrittori successivi con un monastero di Napoli.[36]
Ma è nella trilogia La gondola a tre remi
(1657); Il carrozzino alla moda (1658)
e La peota[37]
smarrita (1662) che il Brusoni giunge alla migliore espressione di sè,
pur non attingendo mai l’arte: interessa il contemuto. In questi tre
romanzi, in cui il protagonsita Glisomiro incarna un don Giovanni di provincia
ed è in parte autobiografico, egli abbandona il surreale cavalleresco e la
introspezione della passione amorosa, per creare il romanzo di costume
(realistico-borghese). Egli ritrae (o inventa) gli aspetti deteriori della
società veneta avviata alla decadenza, mentre dà spazio alla curiosità
intellettuale con le conversazioni brillanti dei salotti,
con la concretezza dei riferimenti alle situazioni vive del momento e con
lo spirito di arguzia proprio di una mente scanzonata se non
lincea: acuta nella percezione dei particolari,
ma superficiale
nell’unilateralità delle prospettive, sorprendenti perchè parziali e, perciò,
apparentemente giustificanti ogni permissivismo. Si passa così dalla proposizione di versi
alla narrazione di vicende storiche di rilievo (imprese del Wallenstein, difesa
della Dalmazia e di Candia da parte di Venezia), al giudizio sulla società del
tempo, che Glisomiro ritiene
superiore ad ogni altra precedente, mentre
qualcuno ne propone un quadro
del tutto pessimistico. Si discute di libertà naturale (interpretata
praticamente come anarchica) e sottomissione di fatto a prìncipi che si
mantengono al potere con la forza (gli eserciti e le fortezze non servono a
difendersi dai nemici, ma a tener servi i popoli!) e si pone allegramente lo
stato di totale libertà come esigito dalla natura e lo stato di sottomissione
ai dèspoti come esigito dalla rivelazione e legge di Dio! Questo
frate sfratato ci rende avvertiti di due componenti della cultura che stanno
variando: in peggio, il contenuto di idee e di costumi; in meglio la forma
espressiva. Troviamo in lui uno stile sobrio, alieno da ogni metaforeggiare o
concettizzare secentesco; troviamo discusssioni
se non vivaci almeno disinvolte ed anche un comportamento dei personaggi psicologicamente più
coerente: il miglioramento dipende anche dal tramonto della cultura spagnola e
dal sopravvento di quella francese, dopo la guerra dei Trenta anni. Della prosa
barocca, è rimasto il descrittivismo chiaccherone, che si sofferma su un cumulo di particolari inutili: al di
fuori delle rievocazioni storiche, i vari viaggi (distinti in “scorse” di
gondole, carrozzini...) si riducono a gran desinari, accenni a vicende amorose
(Glisomiro è in libera convivenza
con la gelosissima Laureta) e commenti
sul tempo, sui paesaggi incontrati e, talvolta, persino su argomenti
impegnativi. Quello che in Boaccaccio era la “cornice”, che poneva poi al
centro delle novelle personaggi e fatti distinti, interessanti almeno pel
contenuto, qui diventa la novella stessa: un lungo viaggio con peripezie meno
che mediocri e chiaccherate talvolta persino interessanti! In peggio ci ritroviamo di fronte ad una inquietudine
di vita, ad una stranezza di amicizie (il Loredano, il Pallavicino), alla
sfrontatezza sensuale che sanno molto di Rinascimento;
e soprattutto ad un semplicismo riduttore nella impostazione dei problemi, da
far rabbrividire un filosofo serio, ma da affascinare un salotto galante. E’
il quadro del cosiddetto “libertinismo italiano”. Sono tutti
sintomi di uno sfaldamento
che sta ripetendosi: un’altra “trahison des clercs” è in vista: spiriti
brillanti alla deriva dalla disciplina morale e dalla fede religiosa.
Porteranno, attraverso l’ottimismo intellettuale e l’allegria immorale
dell’Illuminismo, ad un altro rivolgimento, ma molto più sanguinoso e
demolitore di quello luterano: sarà la rivoluzione farncese. Nota bene
C. Varese: “Tra il Brusoni e G. A. Marini corre una differenza netta ed evidente di impostazione, di
linguaggio, di civilità... il Calloandro fedele parte dal poema cavalleresco e
vi tende, i romanzi del Brusoni invece sembrano riprendere modi e forme di una
commedia di costume che invece in Italia non c’è stata” (Garazantiana, p.
601). E potremmo fermarci qui. Ma alcuni altri romanzieri
interessano per motivi culturali singolari: due, John Barclay e Gian Vittorio
Rossi, perchè scrissero romanzi in latino; Francesco Fulvio Frugoni perchè
la sua individualità di avventuriero lo avvicina al Brusoni nella vita girovaga
e nella scrittura poligrafa; e perchè sorprende la complessità,
stilisticamente ricchissima, del suo minestrone barocco. John
Barcaly scrisse in latino Argenis,
in cui le vicende religiose inglesi sono considerate in prospettiva
cattolica. Il romanzo fu tradotto in mezza Europa e divenne emblematico, assieme
all’Astrée del d’Urfè, per aver
adombrato in vicende antiche personaggi e avvenimenti del proprio tempo o
comunque recenti: era un modo per
avviare il romanzo storico. In Italia fu tradotto
da Francesco Pona e da Carlo Antonio Cocastello fra il 1525 ed il 1530. Gian
Vittorio Rossi (latinamente, Janus Nicius Erythraeus: Roma, 1577-1647). Fu
allievo dei gesuiti e scrisse in latino molte opere, fra cui il romanzo Eudemia
(1637).[38]
I Dialogi (1642-3) sono 27
e trattano di problemi etici e culturali; la Pinacotheca
imaginum illustrium virorum... (1643-8), è una galleria a stampa (ritratti
di personaggi del tempo) ed ebbe diffusione europea; le Epistulae ad diversos (1545-9) e molte opere religiose (Omiliae,
Documenta sacra ex Evangeliis, Exempla virtutum et vitiorum) testimoniano di
una attività intellettaule inesauribile, con una unità di intenti e
intelligenza di esecuzione che contrastano con l’immagine stereotipa
di una società “oggidiana”, cioè disorientata, in crisi e ipocrita,
del secolo. Il romanzo Eufemia è
allegorico: il Varese ne parla così: “il motivo di un viaggio e di un approdo
in terra sconosciuta serve per una ricostruzione reale e fantastica della Roma
contemporanea”, compresi personaggi singolari dell’Europa tutta (Gustavo
Adolfo, Campanella (Garzantiana, p. 567). Il
Rossi rifiuta esplicitamente
l’ermetismo del metaforeggiare concettista, ma non è lontano dalla effusività
loquace di Daniello Bartoli: il Varese addita come sempio la descrizione delle
fontane delle ville romane, coi loro giochi d’acqua. FRANCESCO
FULVIO FRUGONI
(1620 ca.- 1684 ca.) fu uno dei tanti personaggi di Genova che illustrò (a suo
modo) la cultura italiana del Milleseicento. Dopo aver trascorso la adolescenza
in Spagna (vi conobbe davvero Il Gòngora
e Francisco de Quevedo?), si fece relgioso, fra i Minimi di S. Francesco di
Paola (fondati nel sec. XV) e, messosi al servizio di Anton Giulio Brignole
Sale, ambasciatore della repubblica, ebbe modo di viaggiare in Italia, Olanda,
Inghilterra, Francia e di tornare con lui in Spagna. Rientrato a Genova,
appoggiatosi presso casa Spinola, finì per divenire il difensore della
figlia Aurelia, vedova di Ercole Grimaldi principe di Monaco; e si diede da fare
a sostenerne i diritti, facendo la spola tra Genova, Monaco e
Parigi. Sistemata la posizione di lei, volle stabilirsi a Torino,
ma non riuscì a rimanervi più di tre anni: era un girovago per natura,
perchè temperamento nervoso ed instabile. Venezia era la città più ospitale
per un simile individuo: vi si recò, dunque, dopo aver toccato Bologna e
Piacenza. Dovette accorrere però a Parigi nel 1670,
ad assistere la contessa Aurelia in fin di vita. Dopo un anno trascorso a
Milano, nel 1679 approdava di nuovo (e pare definitivamente) nella città
lagunare, dove uscì (1687-9) il suo capolavoro, quando lui era già morto: non
ci ha lasciato gli estremi della propria anagrafe, nè di nascita nè di morte. Era
stato amico e discepolo di E. Tesauro. Scrisse molto e di molti generi: del 1643
è il poema giocoso La guardinfanteide;
del 1661, il romanzo La vergine parigina
(ispirato al martilogio francese della vergine e regina Aurelia, interpretata
come la donna di alto sentire, che viene perseguitata fino alla morte); del 1669
i Ritratti critici; del 1673 L’eroina
intrepida (4 volumi massicci
per la vita romanzata della duchessa Aurelia Spinola di Valentinois,
la sua protetta); del 1675, il melodramma Epulone. Postumo
uscì il capolavoro Il cane di Diogene (1687-1689). La recentissima riedizione del
“quinto latrato” (Il tribunal della critica) per la Fondazione Pietro Bembo,
presso Ugo Guanda editore (Varese, 2001), nel risvolto della sopracoperta così
puntualizza il duplice carattere dell’opera: “L’idea di scrittura come
artificio e quella di letteratura come gesto pedagogico di moralizzazione sono
le due spinte propulsive della singolare proposta frugoniana, -opera massima- in
cui -il desiderio del mio lettore troverà tutto ciò che può saziar la
curiosità di sapere, un mappamondo geografico in cui si vede la terra delineata
in compendio”: Si tratta di un romanzo allegorico-satirico-autobiografico, in
cui “Saètta” racconta le avventure capitate al seguito di vari padroni,
fino al ritorno al filosofo cinico. I giudizi del cane si identificano
per lo più con quelli del Frugoni. E la conoscenza di storia antica e moderna,
dei principali paesi europei, di lingue innumeri, dà modo allo scrittore di
presentare le più diverse
condizioni di professione, cultura,
costumi e mentalità, sia nei differenti personaggi con cui il cane deve vivere
sia nelle varie vicende in cui vengono coinvolti. Il cane non parla, ma abbaia: di
qui la divisione dell’opera in sette “latrati” (libri) che contengono
ciascuno uno o più stralci di vita sociale di ogni tempo, sicchè nei sette
latrati si raccolgono dodici racconti. Il primo è dedicato
particolarmente alla vita dei dotti (La scuola di Antistene) ed alla moda (La
moda smoderata); il secondo, alla
dimensione morale della vita cittadina (La biblioteca di Attico| Atene
esplorata); il terzo, alle corti ed ai loro vizi (pare descritta quella
di Parigi: Le corti dell’Asia| Il solitario sgomento); il quarto si interessa di molti argomenti (I padroni variati| Gli
incontri diversi); il quinto, intitolato “Il tribunale della
critica”, è consacrato ai letterati (volume di 658 pagine, risulta un esame
delle letterature d’Italia, Francia e Spagna); il sesto,
intitolato “La barca di Charonte”, è imitato su Luciano e consta di 37
dialoghi sui costumi (i vizi, in particolare) e le sventure degli uomini; il
settimo è intitolato “La lucerna del cinico” e narra
della passeggiata di Saetta (sottratto da Mercurio a Caronte e riportato
presso Diogene) per la città di
Corinto, dove incontrano forme le più diverse di corruzione e di insipienza: il
laureando in giurisprudenza che puntualmente sa le formule a memoria senza
comprenderne il senso; il giudice venale, così frequente che fa ricordare i
versi di Petronio Arbitro (“Quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat| aut
ubi paupertas vincere nulla potest?”) o quello di Giovenale (“ Rara avis in
terris, nigroque simillima Cygno”). Per sottolineare
l’amore assorbente di Diogene per la Verità, egli gli contrappone la adulazione menzognera
di Aristippo “adusato ai (vini) Falerni di Siracusa, commensal di Dionigi,
perchè alla tavola dei Tiranni, la Verità Colomba non comparisce se non
isgozzata, pelata, ed arrostita”. Nella farragine di notizie storiche, di invenzioni
fantastiche, di giudizi letterari e morali, il tema che più riaffiora ed
attrae le frecciate dell’autore è la sensualità, vista annidata
specialmente nelle donne e nelle
corti dei prìncipi. Manca però un motivo ispiratore positivo che
unifichi la gran mole della erudizione e della
passione moralizzatrice, visto che “il suo vero interesse
è quello di rappresentare e toccare lo spettacolo del mondo”, ciò che
lo rende dispersivo ed inferiore al valore culturale di un Rabelais o di un
Quevedo. Dice il Varese: “non partecipa di nessuna delle civiltà che giudica
e non ha un suo mondo da contrapporre a quello dissestato che ritrae”: o
almeno non lo sa esprimere, perchè al Frugoni non si può negare fede e zelo
morale in chiave cristiana.[39]
Neppure, in tanta fretta di scrivere le migliaia di
pagine pubblicate (i sette volumi o latrati assommano a ben 4.364 pagine, di cui
bel 246 di molteplici prolusioni!), è dato incontrare un alito di emozione
lirica: neppure nel campo dell’umorismo. La satira è troppo collerica, cioè
il sentimento non sa purificarsi ed
universalizzarsi. Ecco che, allora, il Frugoni, per quel che riguarda la
dimensione letteraria, ci ha lasciato quasi solo un documento di barocco
letterario, anzi il caso
complessivamente riassuntivo ed esemplare di
prosa secentista, nelle sue molteplici componenti. Motivo di interesse
critico, allora, nel Cane di
Diogene, diventa lo stile dell’opera. Non si deve pensare solo ai concettini (che non
mancano, come vedremo) ma, in primo luogo, alla organizzazione tutta dell’opera,
che riflette la... disorganizzazione del cervello nel suo autore. Si
può e si deve parlare di scioperataggine da grande fantasista, di
sfoggio da superlativo erudito e di sfogo da appassionato moralista: siamo di
fronte al prodotto di una più che discreta intelligenza, che però non riesce a
tenere in pugno la spinta emozionale. Questa
mobilita e scuote i centri della memoria e della parola, sicchè la
massa delle nozioni assume la forma di un ricamo visto dal rovescio: alla
scapigliatura interiore fa riscontro, nella espressione, una struttura
policentrica ed ingarbugliata. In essa il
barocco si manifesta, poi, nella giustapposizione dei generi
letterari, così come le arti figurative si imparentavano fra loro nelle
cupole delle chiese o nelle volte dei palazzi: la prosa si mescola con i
versi (sonetti, canzonette, quartine, distici); il dialogo scettico di Luciano
si accosta alla novella cinica picaresca ed allo sciocchezzaio maccheronico;
l’improvvisazione si rivela attraverso
la ripetuta presentazione dei personaggi con cui polemizza, nella
mescolanza tra racconto realistico, proiezione simbolica ed eventuali paralleli
storici o mitologici; la indisciplina mentale si tradisce attraverso una incontentabilità
di riprese del soggetto, che viene schizzato anche in postille stampate a
margine del testo, per ribadirne il senso e legarlo a princìpi
filosofici, per sottolineare la insipienza e ridicolaggine dell’episodio
oppure per spiegare le dizioni metaforiche meno trasparenti. Per
mantener vivo il caleidoscopio in cui tenta imprigionare il mondo intero,
egli “si vale della
scomposizione, della proiezione, dell’insistenza e della proliferazione”
(Garzantiana, p. 643). Ne nascono stilemi affini al concettismo: “elenchi di
parole e di sinonimi...sfilata di fatti, di persone, di simboli, di oggetti, di
case, di palazzi, di animali” (ib.). Intanto
nell’intreccio di lingua dotta e
dialetti volgari, le parlate francese e spagnola, il latino classico e
quello maccheronico si assommano al gergo secentista, ai neologismi, ai giochi
di parole. Ma
attenzione, chè il Frugoni (discepolo di Emanuele Tesauro) distingue tra
“concettini” e “concettoni”: “quei che scrivono con giudicio
virile non anfaneggiano a seminar le carte loro, con una superficiale
vaniloquenza, di vetri luccicanti e lievi, ma di gemme luminose, sode, perciò
durevoli. Nell’aria svagano le lucciole: nel cielo fissan le stelle: queste
durano tutto l’anno, e quelle per pochi giorni compaiono. Tali sono i
lumetti dei concettini, paragonati agli astri dei concettoni” [40]D’accordo,
anch’egli talora bamboleggia (simile agli adolescenziali lirici secentisti,
melensamente petrarcheggianti) , come nel descrivere la rosa: “Nata sul
regio trono d’un tronco, tra la porpora natia, coronata d’oro, pur lagrimosa spunta
colla rugiada e, svenata dalla punta d’un raggio, langue svenuta per sincope d’un deliquio” (L’eroina intrepida); oppure “Vide... che vide? Oh Dio, la penna
interizza (si intirizzisce), gela
l’inchiostro, sviene lo stile. Vide nel mezo di quella stanza letteraria
un’Ombra...” (ib.). Pure egli aspira a metafore che
si traducano in un giudizio critico, un confronto virile, un principio
morale: “L’Istoria è maestra dei costumi, e perciò ha da portar lo
staffile, per lasciarlo ad uopo scorrere con qualche manrovescio addosso ai mal
viventi”.[41]
E’ così che egli giustifica il suo parlare alla moda nella premessa alla Vergine
parigina, con il criterio della Gerusalemme: “per istuzzicare con la
stravaganza dei successi varii l’allettamento dei palati molto svogliati, o
delli spiriti poco svegliati, perchè siamo in tempi sì finti, che bisogna
fingere per dir il vero, e intesservi fregi, adornando in parte le narrative,
ancorchè siano delle gesta dei santi, d’altri diletti che di quelli del
cielo, acciò dagl’inganni ricevano vita i mortali”.
Ecco, dunque, un esempio
dei... concettoni frugoniani: Aurelia, principessa di Francia, ostacolata dai
genitori regali alla sua entrata in convento “non si crocifigge sopra lo
specchio, ma si specchia nel Crocefisso. Se la penitenza gli serpeggia sul volto
co’ suoi smortigni pallori, la modestia glielo ricolorisce col bel vermiglio
de’ suoi redivivi cinabri; se sè col digiuno si pasce, con la contemplazione
dell’eterna vita si sfama”. Ahimè, dietro i propositi di virilità e
serietà, sta solo il temperamento drammatico, non controllato da una mente adeguatamente intelligente: i concettini non sono quelli
svampiti degli innamorati, ma sono quelli teatrali degli esaltati; non
sono aerei e frivoli bensì massicci come quelli di un predicatore
sacro...aggiornato alla moda barocca. Eccolo a tentare in tutti i modi di far
accettare l’ossimoro del “romanzo verace” sulla “Eroina
intrepida” : egli la chiama “Historia adornata” e, dopo aver discettato
sulla verità che deve essere nuda ma coperta
di ornamenti, conclude: “ Scrivo un Romanzo Verace, nè dovrà il
mio lettore far inchiesta più d’avventure sognate, di sogni venturosi, che
invogliano la curiosità, per tradire la sincerezza. Bastano queste non finte
peripezie per occupare con la verità lo stupore, col riflesso l’imitazione.
Invito a commiserare ogni affetto, ad encomiar ogni eloquente, a giudicar ogni
retto, ed a correggersi ogni reo”. Del principe Ercole Grimaldi dice: “Fu
Ercole del culto divino severissimo zelatore, nè mai la chiesa l’accolse
feroce perchè lasciava sul
limitare di essa la pelle del lione, indossandola dell’agnello”. Nell’Epulone,
egli parla di Anna Bolena che, donna di bassa condizione
soppiantò Caterina d’Aragona (moglie di Enrico VIII, regina
d’Inghilterra), in questi termini che iniziano con una equivocazione (pedina=
donna di umile estrazione) e continuano con tono di oratoria sacra: “La pedina
diè scacco matto (e veramente matto perchè fe’ impazzire il più savio de’
regi regnante nel settentrione) ad una dama la più pudica che mai infiorasse il
talamo maritale”. Nelle 246 pagine che fanno da introduzione all’inizio vero
e proprio del Cane di Diogene, egli trova modo di
mettersi in compagnia dei grandi prosatori satirici
dell’antichità -da Luciano a Petronio- e della età di mezzo
–Rabelais-. Quest’ultimo è così introdotto: lo “sfacciato, più che
faceto, Rebellezio, ribelle alle venerande leggi dell’onestà critica”.[42]
Ma la grandine di metafore e di concettini
dura così a lungo, da lasciar sospettare quella costituzione fisica eccezionale che la incisione a
principio della edizione conferma: per aver fiato a scrivere centinaia
di pagine sempre sul tono esaltato della girandola di immagini balorde e
di giochi di parole, occorrevano anche un cuore in piena forza, un vigore
neurovegetativo inesauribile, una dedizione allo studio e scrittura da
maniaco: ed anche, però, uno zelo tempestoso,
degno di un predicatore infuocato, contro la corruzione ed in
sostegno della virtù (zelo di convertito, dopo la
dissipazione giovanile e l’ingresso fra i Minimi,
attorno ai 23-25 anni). Difatti egli, nei panni dello Spartano, può
affermare “Ho per costume, non che salutare, instruttivo, di non istringermi
troppo, o mio ingegnoso, col sonno, per essere questo fratello uterino
dell’ignoranza”. Eccolo
ribadire per mezzo di concettini: “Tanto ho preteso far io, pescator di
penna, col filo del discorso, con l’amo dell’arguzia e con l’esca della
dottrina... Posso accertarti, amico (se amico mi sei, e se non sei amico, poco
mi preme, perchè sarai un furbo) che in questa mia fatica fatidica ho spremuto
quasi che tutto il midollo del mio ingegno, attento, per comportene un vital
elisire nel mio inchiostro epitomico (condensato),
lambiccato al fervore dell’intelletto acceso, chiarificandolo per infeltrirlo
(renderlo più spesso, sostanzioso) più volte con una riflessiva
revisione ed assottigliandolo in alcalizzarlo (ridurlo
ad alcali, come la soda caustica) sovente con uno scintillante
riflesso....”. Egli è innamorato
del lavoro libresco, pel quale si
accolla tutte le fatiche dell’amore: “Osservastovo (sic!
“Avete voi osservato”) mai sollecito innamorato, se pur non pazzo, che
sotto la finestra dell’idolatrata sua dama, gelato alle brine, geloso ai
sospetti, sta intirizzito più dalla pazienza che dal freddo, e divenuto pietra
sul sasso, di là non parte sino a che nol
discacci Morfeo?” Coloro che, pretendendo a grandezza, vivono in ozio, si deve
convenire “ non aver altr’entrate di giorno che le uscite notturne; altre
rendite che il non rendere ciò che debbono; altri capitali che i capi loro,
come ramosi, fruttiferi; altri frutti che i furti; altr’arte che
l’artificio; altra fatica di mano che ’l gioco e il gioco di mano; altro
impiego che ’l piegarsi ad ogni sconcio; ed altro negozio che l’ozio”. Ed
ecco una grandinata di metafore proprio sull’ozio: “rugine della
ragione, tarlo del cuore, lebbra dell’anima e corrosivo della virtù. Calma
che fa verminire l’acqua stagnante; nebbia che offusca la luce sorgente;
cancro che mangia il petto più forte; seppia che intorbida l’umor più
chiaro; torpedine che stecchisce il braccio più valoroso”. E, per Saetta,
accumula questi elogi: “Eccoti hormai, mio generoso Molosso, mio fido Veltro,
mio Segugio sagace, mio Alano intrepido, mio veloce Levriero, mio bravo Melampo,
mio Mercuriale Mastino, mio Apollineo SAETTA!”.
Ad un certo punto le due figure
retoriche si alleano, si mescolano, si fondono nello stesso periodo:
“Affamano (languiscon di fame) i
virtuosi, che son all’ingegno fenici e camaleonti al digiuno; sguazzano
gl’ignoranti, che sono asinoni all’ozio e maiali al truogolo”; “Raccolgo
le vele del mio discorso, spiegate soverchio dalla mia confidenza all’aura
della benignità vostra, o cortese amico; e conchiudo che si doverebbe intagliar
a lettere cubitali, già che le lettere oggidì, se grosse non sono (se
non sono come quelle scritte sulle monete, cioè il danaro stesso), non sono
intese, sopra le porte d’ogni Commune queste parole fatidiche, suggeritemi da
un valent’uomo di esperienza: “Conviviorum et vestium luxuria aegrae
civitatis indicium” (il lusso dei
banchetti e delle vesti sono indizio di una città malata) (Ricciardiana,
cit, pp. 920; 925; 927; 941). Insomma, ci siamo lasciati rubare tempo da un
caposcarico che ha esploso i fuochi d’artificio del più ingegnoso barocco, a
conclusione degna di una stagione letteraria indegna: un anno dopo l’edizione
completa del “Cane di Diogene”, gli Arcadi abiuravano (quasi in presenza di esorcisti, chè il primo custode dell’Arcadia è
l’arciprete G. M. Crescimbeni!), a tutte le rigatterie dello
spumeggiante e spagnoleggiante secentismo. Il Frugoni, vissuto dapprima come libertino e poi come frate
avventuriero, era l’uomo adatto a pronunciare
l’elogio funebre sulla salma. “Requiescat in pece”, avrebbe detto fra’
Bernardino da Siena (da tradursi con un “va all’inferno!?”). Vogliamo concludere con un giudizio di C. Jannaco
su un limite generalissimo di questa produzione secentista: benchè riguardi, di
per sè, solo i Motivi ispiratori, tuttavia
esso indica troppo giustamente una causa fondamentale del fallimento di
questi romanzi o, meglio, una delle fondamentali deficienze interiori
–intellettuale- di questi scrittori: la
genericità. A p. 531 del volume più volte citato della Vallardiana,
egli afferma dunque che “... l’infrazione di ogni misura e... l’ipertrofia
narrativa,... non è solo gusto spiccato della divagazione, ma impossibilità di
cogliere in pochi tratti un’immagine e di dominare la materia del racconto. Si
vedano i personaggi: incapaci di individualizzare, questi scrittori devono
rifugiarsi nel tipico, ignorandone tuttavia le brevi ed essenziali
determinazioni: l’eroe di forza mirabile, ma pronto ad una facile e femminea
commozione, il cavaliere errante, la donna guerriera, le eroine di altezzosa
virtù, il sovrano dignitoso e solenne, gli eroi gravi e prudenti, i corsari, i
malvagi, i personaggi travestiti; sono pochi convenzionali caratteri che si
ripetono a sazietà, quasi simbolo di sentimenti passioni e situazioni note a
priori; poichè questo tipo di scrittura tende tutt’al più alla mera
aggressione del sentimentalismo e non chiede al lettore l’adesione, il
convincimento o la scoperta, ma solo la passiva accettazione di una materia già
presente nel gusto comune per lunga consuetudine e che ha le sue ricorrenti
situazioni: duelli, tornei e battaglie, fughe, assalti di pirati, agnizioni,
rapimenti, travestimenti (particolarmente di fanciulle), tempeste e naufragi,
equivoci e calunnie, morti presunte, separazioni di amanti e di fratelli
fanciulli, e loro repentino inaspettato ricongiungimento; elementi favolosi e
prodigiosi (che peraltro andarono progressivamente perdendo di rilievo): sogni,
balsami miracolosi, incantagioni, giganti, draghi. Se si guarda al contenuto,
quindi, riesce evidente come tutta la tradizione, anzi tutte le convenzioni
narrative affluiscano qui come in una specie di repertorio complessivo...”[43]
LA
NOVELLISTICA Anton Giulio Brìgnole Sale,
genovese (1605-65), figlio del doge Giovanni Francesco, dapprima si diede alla
vita pubblica, avendo come segretario F. F. Frugoni; a 43 anni si fece sacerdote
e nel 1652 entrò nella Compagnia di Gesù. Si dedicò a quasi tutti i generi
letterari, dal trattato politico- morale, che “setaccia, cioè purifica”
Tacito (Tacito abburattato: 1634), al poema in versi (Maria Maddalena peccatrice e convertita), dal romanzo galante, in
prosa, (Istoria spagnuola o il Celidoro:
1640-6) ad una collezione di sonetti e canzoni (Il carnevale)... Oggi lo si ricorda più che altro per il volume di
novelle Le instabilità dell’ingegno,
in cui ha voluto dipingere lo stile di vita di una certa fascia sociale. Lo
schema è, tutto sommato, boccaccesco: quattro giovani e quattro dame, per
fuggire la peste, si rifugiano su un colle, cercando di ammazzare l’ozio con
gli svaghi più diversi. A questo modo, la cornice boccaccesca diventa gran
parte del libro, sviluppando le attività
marginali del Decamerone ad occupazioni
di tutta la giornata (un giorno ogni dama deve rallegrare col canto; un altro,
ogni personaggio lancia una sfida che gli altri devono accettare e superare;
nella terza giornata, ognuno deve impersonare una figura storica e recitare un
componimento adeguato... ). A parte che ogni giornata, per un verso o l’altro,
diventa occasione per qualche recita di versi (si
mettono in ottave novelle del Boccaccio!) od altra invenzione che colla
letteratura ha a che fare (una lettera di Tancredi, prigioniero di Armida, a
Clorinda!), la giornata ultima, la ottava, vede tutti impegnati a rintracciare
nella memoria qualche vicenda che possa essere tema di un dramma: le otto
novelle che ne escono sono tutte macabre, dovendo fornire spunti per tragedie.
La letteratura è considerata come cosa seria dal Brìgnole e, come tale,
trattata con cura e impegno che allunga e rallenta la narrazione: manca la
sintesi geniale della poesia. Giovanni Sagredo (1617-1668: patrizio veneziano, ambasciatore
nelle corti più importanti -Parigi, Londra e Vienna- giunto alla carica di
Procuratore di S. Marco). Scrisse le
Memorie istoriche de’ monarchi ottomani
(1673). A sollievo di tanta ufficialità, egli scrive L’Arcadia in Brenta o vero la melanconia sbandita (1667). Lo
schema boccaccesco è variato a fondo: tre gentiluomini e tre gentildonne
passano la fine del carnevale evadendo dalla città, sul Brenta, verso le
colline attorno a Padova, appunto alla ricerca della mitica pace arcadica.
Anche qui la novella principale è il viaggio stesso con le sue varie
stazioni; a variarlo si introducono ospiti occasionali che portano scherzi,
motti, allegria: fra questi personaggi di passaggio, Sagredo inventa un certo
Fabrizio Fabroni da Fabriano, che sarà ripreso da Carlo Porta nei suoi versi
satirici. Non vi si cerchino concettini
ispano-barocchi, ma piuttosto l’esprit
francese, il bon mot salottiero: oltre al Decamerone, sullo sfondo del libro sta
l’opera del francese Le Metel d’Ouville “Contes aux heures perdues”
(1644). In parallelo all’ottava
giornata nella Instabilità dell’ingegno, qui, nella terza, si propongono racconti non tragici, ma arguti: vi sono
madrigali, canzonette, battute in versi, ma senza esiti lirici di rilievo. Anche
due personaggi famosi come Bertoldo (lo vedremo presto) e Pasquino non offrono vena ad una comicità
citabile. Passatempi, che preludono alla nuova cultura filofrancese,
che forse suggeriscono il nome alla grande Accademia che sta per sorgere
in Roma nel 1690, ma che non hanno valore lirico proprio. Giovan Battista Basile ( Napoli,
1565-1632). La sua opera principale è la raccolta di novelle in dialetto
napoletano. I posteri lo han chiamato Pentamerone, cioè un “decamerone
dimezzato” (Cinque giornate con cinquanta novelle). Ma il titolo originario è
Cunto de li cunti, overo trattenemiento de’ peccerille (1634-6:
postumo). Non raggiunge il lirismo, ma è interessante per le trame, cioè per
la curiosità del contenuto: per questo l’opera ha suggerito spunti, nel
Milleottocento, sia ai fratelli Grimm che a Ludovico Tieck. Del resto, il Basile fu uomo d’arme (al servizio di
Venezia) e di corte (presso i Gonzaga di Mantova). Rientrato nel Napoletano, fu
fatto governatore in varie terre.
Fu amico di Giulio Cesare Cortese, il padre della letteratura dialettale
napoletana ed ammiratore entusiasta del Marino.
Sempre in dialetto, egli scrisse nove Egloghe (Le
muse napolitane), anch’esse edite postume nel 1633. Si noti che , anzichè
a spirito pastorale, esse sono ispirate a realismo comico-satirico, con intento
moraleggiante. Per le opere napoletane si servì dello pseudonimo Gian Alesio
Abbatutis. Ma scrisse anche opere in lingua: Il
pianto della Vergine (poemetto religioso: 1608), Madriali
e ode: 1609-17), Egloghe amorose e
lugubri (1612), Idilli (il più
notevole è Aretusa: 1619), un
poemetto romanzesco (Teagene: 1637) e
le due prose: Osservazioni intorno alle
opere del Bembo e del Della Casa
(1618); e “Imagini delle più belle dame
napoletane ritratte da’ lor propri nomi in tanti anagrammi (1624). Giulio Cesare Croce
(San Giovanni in Persiceto, Bologna, 1550-1609).
Figlio di un fabbro, ad un certo punto della sua vita lo troviamo cantastorie
popolare in lingua ed in dialetto; e poeta buffonesco presso famiglie bolognesi.
Scrive in terzine ariostesche (quelle delle Satire) la sua autobiografia: Descrizione
della vita del Croce. Stentò la vita (con una famiglia, oltre tutto,
numerosa) con il ricavato delle sue esibizioni sulle pubbliche vie, distribuendo
a pagamento i foglietti delle strofe che cantava: fra le molte conservate, è
interessante quella intitolata Lamento
della povertà per l’estremo freddo del presente anno MDLXXXVII. Scrisse
testi per teatro: in bolognese preparò “Vanto
di dui villani cioè Sandron e Burtlin sopra l’astuzie tenute da essi nel
vender le castellate quest’anno (1607); in italiano scrisse Il banchetto de’ Mal cibati, commedia in terzine dantesche sulla
carestia del 1590, allegorica, ma non senza qualche spunto di riflessione
sociale, sui poveri oppressi dalla fame ed i benestanti che se la cavano sempre;
e La farinella (1609). Morendo a 59
anni, logorato dalla miseria, si confessa anche scontento della sua vita di
poeta (Sclamazione ad un amico). Ma il Croce è famoso per la triade di “Bertoldo,
Bertoldino e Cacasenno”: Le sottilissime
astuzie di Bertoldo| Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino|
Novella di Cacasenno, figliuolo del semplice Bertoldino. Ma qui bisogna
intendersi. Il Croce trascrisse il “Bertoldo” da un antico, anonimo testo
(“Dialogus Salomonis et Marcolphi”,
tradotto anche in italiano) liberandolo dalle citazioni bibliche e dandogli una
impostazione più moderna: al posto di Salomone vi è la corte del re longobardo
Alboino; in luogo di Marcolfo, troviamo Bertoldo. Contadino astuto e
sagace, Bertoldo è accolto a corte come consigliere del re ma, mentre
inventa battute che gli moltiplicano ammirazione e potere, combina anche delle
malizie che gli attireranno la
inimicizia della regina, per la quale egli viene condannato a morte per
impiccagione. Con un’ultima trovata egli eviterà la forca. Chiede, infatti
una grazia: la scelta dell’albero
cui venir appeso. Optando egli per una pianta di fragola, se la cava. [44]
Salvo a morire per il rifiuto dei medici a lasciargli mangiare i cibi semplici e
salutari della campagna (rape cotte sotto la cenere e fagioli
bolliti con cipolle). Ottenuto
successo con questo rifacimento, Giulio Cesare Croce vi volle aggiungere il
libro di Bertoldino, figura inventata da lui: ma egli non riesce, come
inventore, a “tener botta” con trovate all’altezza dell’anonimo
precursore: concepito come l’opposto del padre (ingenuo lui, quanto è astuto
il genitore), il Croce tenta
cavarne divertimento per i lettori inventando locuzioni in cui lo scambio di
significato in parole ambivalenti rivelino la “semplicità” di Bertoldino;
ma tali equivoci non rivelano acume sufficiente a divertire. Le favole
raccontate in questa seconda opera e la crescita di importanza della donna
(Marcolfa) nella società, non bastano a salvarla dalla velleità e dalla
insufficienza. La Novella di Cacasenno
è stata aggiunta nel 1641 da Adriano Banchieri, che ne volle fare una
continuazione del Betoldino. Ma neppure lui riesce a riproporre la malizia
intellettuale e la arguzia giocosa dell’anonimo autore quattrocentesco.
LA PROSA
D’ARTE (Daniello Bartoli) Seguendo sempre Claudio Varese, nel volume sul
Seicento di Garzanti, 1976, diamo uno sguardo a Daniello Bartoli, storico della
Compagnia di Gesù; ed all’oratoria sacra,
vicina o meno al secentismo. Daniello Bartoli nacque a Ferrara nel 1608 e morì a Roma nel
1685. Entrasto presto tra i Gesuiti, aspirò inutilmente a partire per le
missioni nei paesi non ancora cristianizzati. Accettò con solerte zelo (cioè
come un surrogato della vita di missionario) dapprima il compito di insegnamento
e di predicazione e, dal 1646,
quello di storico ufficiale della Compagnia. Dal 1671 al 1674 fu rettore del
prestigioso Collegio romano. Al collegio romano morì nel 1685. La sua produzione scrittoria è enorme: spazia dai
volumi sulle origini e vicende
della Compagnia di Gesù alle opere di interesse fisico e scientifico, ma tocca
anche l’agiografia, la polemica teologica, la riflessione letteraria e qualla
ascetica. Ecco gli scritti più importanti. Istoria della
Compagnia di Gesù, edita fra il 1650 ed il 1673 in sette parti: Della vita e
dell’istituto di S. Ignazio; L’Asia; La missione al gran Mogor del p.
Ridolfo d’Acquaviva; Il Giappone; La Cina; L’Inghilterra; L’Italia. Opere
riguardanti lingua e stile: L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645); Il torto e ’l diritto
del –non si può- dato in giudizio sopra molte regole della lingua italiana
(1670). Opere
esplicitamente religiose
(agiografiche, ascetiche):
benchè la preoccupazione religiosa si manifesti in ogni scritto del Bartoli (ad
esempio, “L'uomo di lettere difeso ed emendato” comprende anche
“emendazioni” morali e non solo stilistiche), tuttavia egli
consacrò la sua penna anche ad opere esplicitamente ispirate alla vita
morale e religiosa. L’agiografia (biografie di santi) comprende le vite dei
maggiori uomini della Compagnia, da S. Ignazio a S. Francesco Borgia, da Niccolò
Zuccoli e S. Stanislao Kostka a S. Roberto Bellarmino. I libri di riflessione
spirituale [45]
iniziano con L’eternità consigliera (1650) e proseguono con La povertà
contenta descritta e dedicata ai ricchi non mai contenti (id.), L’uomo al
punto cioè l’uomo in punto di morte (1657), Dell’ultimo e beato fine
dell’uomo (1670), Della ricreazione del savio in discorso con la natura e con
Dio (1659), Della geografia trasportata al morale (1664),
Delle due eternità dell’uomo, l’una in Dio e l’altra con Dio
(1675), Dei simboli trasportati al morale (1677), Delle grandezze di Cristo
(id.), Pensieri sacri (postumi). Possiamo far rientrare in questa categoria
anche la polemica teologica, contro il quietismo (Che orazione sia quella che
chiamano di “Quiete” e come si pratichi| Esame della risposta ad una
scrittura il cui titolo è –Che orazione sia ...-). Negli scritti su esperimenti naturali, è più vicino
allo sperimentalismo che alla genialità: La pressione e la tensione disputanti
qual di loro sostenga l’argento vivo nei cannelli dopo fattone il vuoto
(1677), Del suono de’ tremori armonici e dell’udito (1679), Del ghiaccio e
della coagulazione (1681). Non che il Bartoli sia un grande scrittore, ma una
sottile esigenza di efficacia letteraria si insinua in ogni sua opera, risultando particolarmente
evidente in alcune parti della storia delle missioni della Compagnia,
dove il Bartoli confessa: “E’ questo il campo... dove ho preso a descrivere
le industrie, i travagli, e le fatiche, che nel coltivamento d’esso hanno
sofferte i figli di S. Ignazio, per seminarvi la Fede, e raccoglierne
frutto conveniente a’ sudori e al sangue, che v’hanno sparso. Nel che
fare, spero che non m’andrà fallito, che questa mia fatica, qualunque ella
sia, non riesca a’ lettori di non minor piacere che giovamento”[46].
E’ vero che egli subito dopo attribuisce la sorgente del piacere e giovamento
al contenuto della sua esposizione (“scoprimento di nuovi e incogniti paesi,
conversioni e battesimi di re, e di regni barbari e idolatri, ambascerie fino
all’ultimo capo del mondo...”), ma giustamente osserva il Varese: “Perciò
il documento e lo scrupolo descrittivo si alleano con la meraviglia e la
meraviglia si allea col documento. I lunghi viaggi per mesi nelle immense
caracche portoghesi, le improvvise tempeste e gli improvvisi approdi, la
bellezza selvaggia o raffinata dei luoghi, i cieli e i climi più strani e
diversi sono il teatro delle imprese pie insieme ed umanamente ardite di San
Francesco Saverio, del padre Matteo Ricci e del padre Ridolfo d’Acquaviva. La
descrizione geografica più precisa può diventare perciò un modo per
accrescere prestigio agli eroi della fede.
Tuttavia l’autore vi si dimentica e porti, golfi, baie, foreste sono dipinti
come pannelli autonomi. L’isoletta di Ormuz brilla come esempio della
bravura del prediletto Bartoli in una pagina della Crestomazia
leopardiana...”. E’ inutile riportare brani dalle opere del Bartoli:
l’ammirazione che destano in noi tanti costumi esotici, paesaggi
sorprendenti e fenomeni sconvolgenti, nasce tutta dal contenuto,
perchè la descrizione appassionata non riesce a tradursi in uno stato
emotivo, libero dalla tensione pratica di suscitare appunto meraviglia: la
scrittura rimane perciò prolissa e analitica, l’espressione è al più quella
sentimentale ed enfatica, non lirica od emotivogenetica. Egli accumula
particolari per stupirci, non accorgendosi che la meraviglia poetica nasce dalla
sintesi spontanea ed estrosa di una intuizione geniale , non dalla studiata e
diligente analisi di un ricercatore solamente
ingegnoso. I limiti della intelligenza discreta ma non suprema
del Bartoli si riversano poi anche sulla parte puramente documentaria della
ricostruzione storiografica: egli, onesto e
diligente nella ricerca ed esposizione dei dati di fatto, si lascia vincere
dalla passione per la causa della fede e tende a vedere troppo
entusiasticamente uniti la verità (quella cattolica, nel caso) con il
successo; e viceversa: non si è accorto che, in Europa, la guerra dei Trenta
anni, vinta da Svezia, Francia e La”nder protestanti, stava smantellando
almeno in parte quel fervore di iniziative, quel numero di vocazioni e quel
periodo di successi che era dovuto
certamente al Concilio di Trento, ma non senza l’apporto della vittoria
spagnola e la pace di Castel Cambrese, favorevole
ai popoli ed alla educazione cattolica
d’Europa. Vi è un ritorno alla ingenuità medioevale, che si rivela anche
nella superficialità delle analisi psicologica dei personaggi e
nel semplicismo della causa di riferimento per le decisioni prese da prìncipi
(l’interesse è la chiave unica –e perciò illusoria- per spiegare le mosse
dell’Inghilterra nella sua politica antispagnola ed anticattolica). Così il
suo favore senza dubbi al sistema monarchico di governo, nonostante la vastità
delle sue conoscenze storiche; o l’accettazione indiscussa
dell’eliocentrismo, nonostante l’ammirazione per l’astronomia e la
scienza, testimoniano che il limite
maggiore del Bartoli è nella misura della sua intelligenza. Egli aveva troppa
stima per la facoltà visiva dell’uomo.
Pure la sua non è orgia descrittiva nè egli merita di essere detto “il
Marino della prosa” (l’infelice definizione è di Francesco De Sanctis): il
suo eccesso di analisi ed una certa verbosità non sono concettismo nè
gioco,bensì il segno di una
intelligenza non sublime che non
riesce a stringere in poche note sintetiche un contenuto ricco e affascinante;
non sono il programma di una mente balorda che si vuol mettere in mostra,
scherzando sull’oggetto del suo discorso od evadendone attraverso collegamenti
arbitrari e divagazioni capricciose, ma il tentativo sincero (anche se non del
tutto felice) di far apprezzare dal lettore quello che ritiene degno di
ammirazione. Ecco che cosa ne dice il Varese: “La sua arte letteraria
costruisce con eguale, instancabile sollecitudine i nessi e i passaggi,
le cadenze e i richiami da parola a parola, da proposizione a proposizione, da
peridodo a periodo con una coscienza vigile del rapporto tra logica evidenza e
armonia di suono, di immagine, di equilibrio e di calcolo psicologico.
L’evidenza, la logica e la proporzione delle parti sono gli elementi che hanno
nella consapevolezza dello stesso autore (come nell’ultimo capitolo dell’Uomo
di lettere) e spesso nel giudizio dei critici allontanato questa prosa dal
concettismo”. La serietà del pensiero e dell’attività libresca
del Bartoli la si può ammirare allora, meglio nelle opere di riflessione
morale. Ivi lo stile è più sobrio
e le osservazioni morali ed educative sono, se non geniali, pure ricche di
sapienza ed esperienza etico-religiosa. Vi è spazio per una spontaneità e
cordialità che non si sospetterebbero rimanendo prigionieri del mito circa la
rigidità e uniformità della formazione gesuitica: che è un’altra
“leggenda nera”, perchè nessuno che abbia conosciuto da vicino i membri
della Compagnia può negare la varietà e spontaneità con cui i vari
temperamenti e ingegni riescono ad esprimersi, entro le maglie non soffocanti
della morale evangelica e delle regole patenti[47] della Compagnia stessa.
L’ORATORIA
SACRA Anche le prediche ed i predicatori spagnoleggiarono[48]
e concettizzarono nel secolo barocco. Ma, ovviamente, non tutti: la più parte
dei sacerdoti (e non solo di campagna) si può scommettere che non sapevano
neppure della esistenza del fenomeno (come, oggi, la più parte di loro, anche
di città, non sa che cosa sia lo “strutturalismo”: per fortuna!):
predicavano quello che avevano studiato sui banchi di teologia, alla maniera
che consentiva loro la maggior o minor intelligenza, le maggiori o minori
doti artistico-letterarie. Il che non toglie che la moda era quella, al punto
che il Marino scrisse e pubblicò le Dicerie
sacre (1614) che, lungi dall’iniziarne il movimento, lo seguivano,
sfruttandolo. Infatti le “dicerie sacre” non sono prediche, ma
“nobili discorsi su soggetti in parte anche sacri”: delle tre
“orazioni”, la prima, incentrata sulla Pittura, si estende anche alla Sacra
sindone; la seconda, dalla Musica passa alle sette parole di Cristo in Croce; la
terza, impostata sul Cielo, tratta in modo allegorico della sfera! Ma il titolo
fa pubblicità al libro, facendo leva su un costume invalso. L’andazzo non aveva un crisma ufficiale, anzi!
Infatti i concili (Lateranense nel 1516; Tridentino nel 1545-63) avevano
raccomandato di nutrire la predicazione con idee teologiche fondate sulla
Scrittura e sullo studio dei Padri della Chiesa. Ma pur potendosi
intuire che oppositori di simile abuso siano sempre esistiti, a farne
cessare del tutto la moda dovette intervenire papa Innocenzo XI con una apposita
bolla del 1680. Al centro dello stile barocco della oratoria sacra
stanno i “concetti predicabili”, che consistono in interpretazioni
allegoriche di un passo della Bibbia, di uno
scrittore di cose religiose e morali, di un fatto di natura od anche di
una notizia profana: frasi o fatti interpretati
metaforicamente per servire da immagine, da analogato maggiore per far penetrare
meglio la idea teologica che il predicatore svolge.[49]
Spiegamo la cosa, al seguito di Jannaco, con esempi[50]
tratti dal più famoso predicatore secentista, p. Emanuele Orchi,
cappuccino (di Como, morto a Procida nel 1649). Le sue Prediche quaresimali (solitamente citate come il Quaresimale)
furono edite postume nel 1650, ma il confratello che ne curò la pubblicazione,
pur elogiando come angelico l’intelletto di p. Orchi e parlando
dello splendore della sua predicazione come di un “meraviglioso in
eccesso”, doveva riconoscere che esse non potevano servire da modello,
poichè la “fioritezza soverchia del dire è diametralmente opposta a
quel fine della conversione delle anime, ch’esser dee l’unico oggetto”
della predicazione. Riassumiamo il
primo esempio. Chi è il peccatore incallito? è colui che si comporta col
peccato come i Parti, “de’ quali scrive Giustino Historico, che mai smontano
da cavallo”. Riportiamo il secondo. Quale è l’attitudine con cui il
cappuccino lascia Napoli, dopo
avervi predicato il Quaresimale? E’ un atteggiamento di amore, espresso però
in forme che rischiano di
essere offensive non solo del buon senso, ma dello stesso pudore: “Il
predicatore parte recando con sè l’Amore nel cuore stesso concepito per il
suo pubblico napoletano, nutrito e fatto quasi Gigante dalla amorosa nodrice la Nobilissima Udienza. Tale amore dunque “dalle
vostre poppe slattato con l’aloè di questa amara partenza, si pascerà
all’avvenire co’l cibo solido del massiccio mio affetto, nè volarammi dal
seno, prima che dal mio seno esali la vita mia: anzi, dopo morte ancora viverà
eterno nella mia mente d’immortale cibo pasciuto, che ben di cibo immortale
egli è capace, essendo di sostanza tutto spirituale. Amando sempre io dunque,
starò sempre desiderando di nuovamente servirvi; e già questa brama è una
gravidanza matura d’animo amante, vedete, Signori a qual termine amandovi, io
son ridotto, che sin’a tanto che l’effetto di servirvi non segua, starò
sempre co’ dolori del parto. Pregate voi almeno che favorevole Lucina mi sia
la gratia dal Cielo, acciocchè presto avventurosamente un nuovo maschio
Quadragesimale figlir’io possa alli servigi vostri già inaugurato...”.
“E quinci sian le nostre orecchie
sazie,|| chè perder tempo a chi più sa, più spiace”. Crediamo, infatti,
inutile qualsiasi commento, che a stento si potrebbe astenere dalla insolenza. Jannaco
discorre ancora di altri predicatori barocchi: Luigi Giuglaris di Nizza
(1607-1653), Tommaso Caraffa (Dicerie,stampate
nel 1631, 17 anni dopo la sua morte) e Giacomo Lubrano (1619-93: napoletani
entrambi). Se non altro per la titolatura, le “Sacre ringhiere” di Fr. F. Frugoni invitano ad accostarle
allo sbracato stile dell’Orchi: ma il Frugoni aveva almeno un cervello più
vario e brillante, anche se non molto più profondo od organizzato. Fedeli alla serietà del contenuto ed alla sobrietà
della forma restarono particolarmente i figli di S. Filippo Neri (gli “Oratoriani”). Anche il più famoso predicatore del secolo, il
gesuita p. Paolo Ségneri[51]
si astenne dalla moda imperversante, almeno nella sostanza. Nativo di
Nettuno (1624: morirà a Roma nel 1694), alunno del Collegio romano ed entrato
nella Compagnia di Gesù a tredici anni, fu destinato alla predicazione al
popolo, nonostante il suo desiderio di portarsi invece nelle missioni tra i non
cristiani. Si preprarò con lo studio approfondito delle sacre Scritture e dei
Padri della Chiesa, dei libri di Agostino e Tommaso, di Teresa d’Avila e di S.
Ignazio; ma anche con la lettura delle orazioni di Cicerone. Dal 1651 al 1692
predicò in gran parte d’Italia, specie negli Stati pontifici ed in Toscana.
La predicazione più impegnativa era quella dei Quaresimali, che occupavano
quotidianamente tutto il periodo prepasquale. Nel 1679 fu pubblicato il suo
Quaresimale: ebbe molte edizioni ed ancora oggi lo si può consultare con
frutto, per la ricchezza del contenuto e la chiarezza e forza della esposizione.
Ma per capirne la efficacia (concorso di folle e conversioni clamorose, stima e
richiesta anche di personaggi potenti, come Cosimo III di Toscana, che se ne
servì per missioni delicate e lo fece membro
della Crusca; e papa Innocenzo XII, che due anni prima della morte lo chiamò in
Vaticano come predicatore apostolico e teologo
della Penitenzieria) occorre tener presente anche la penitenza con cui p.
Segneri personalemente concludeva la predicazione (flagellazione pubblica sul
pulpito) e che esigeva anche dai
fedeli, con la organizzazione di processioni penitenziali. Egli segue uno schema
di predicazione comune ai suoi tempi: divisa in due parti (una pausa di riposo e
di riflessione le separa), “nella prima, la più lunga e nutrita, abbiamo la
dimostrazione del tema e il vero e proprio svolgimento, mentre nella seconda
parte... avviene la perorazione conclusiva, destinata al riepilogo della materia
ed al sommovimento degli affetti”. Quando il tema è propriamente morale, la
oratoria del Segneri è incisiva e davvero efficace, con una sua forza
trascinante, ottenuta anche con ripetizioni di brevi sentenze assiomatiche, che
traggon valore dalla fede o dalla evidenza razionale: sono frasi latine che
valgono come pro memoria di tutta la dottrina spiegata con ragionamenti
filosofici, con esempi storici, con episodi della Sacra Scrittura, con
l’esperienza di tutti i giorni. Ora, per incitare alla fuga delle cattive
compagnie, vi è, martellante, il monito “Stabit ex adverso” (si ergerà
come avversario) a richiamare che
il consigliere malvagio non si alzerà a discolpa al tribunale di Dio, ma
sarà invece un accusatore impudente e pervicace; ora, per ricordare l’amore
con cui Dio ci segue e ci vuole salvi, si richiama a molti casi di amore
materno, nei pericoli sia fisici che spirituali dei propri figli. Ecco, questo
richiamo generico non è che una avanguardia dei molti esempi storici e persino
di novelle, di scenette riportate dal vivo (terrificanti come quella dell’uomo
che muore impenitente per morboso attaccamento alla donna con cui aveva
convissuto scandalosamente; ovvero consolanti, come quello di Dio che ama
l’uomo come questi ama i propri lavori: come la donna, ad esempio, ama il
ricamo che ha fatto colle proprie mani): era un materiale
così significativo, che ne furono fatte stampe a parte in diversi
volumetti. Diciamone pure anche i limiti: egli, certo, si rivela più
sensibile ai temi della morale
naturale (le virtù e le opere buone, i vizi ed il peccato, il timore di Dio e
la chiamata a conversione attraverso il sacramento della Penitenza) che a quelli
della religione soprannaturale (la adozione a figli di Dio, l’Amore di Dio, la
eredità del Paradiso, la dimensione sacramentale della Chiesa...); egli, per
inclinazione congenita e per formazione umanistica antiluterana,
sente più fortemente la parte che deve avere l’uomo nell’opera della
salvezza, la sua responsabilità, pur senza rinnegare la necessità della
Redenzione e della Grazia[52];
egli non ha la magnificenza della mente di Dante (o di Bossuet, per citare un
contemporaneo francese, come fa giustamente Jannaco) per elevarsi a tematiche
universali che rivivano il senso provvidenziale della storia passata o si
proiettino profeticamente verso quella futura... Pur tuttavia resta, oltre che
un pensatore di non comune livello, uno psicologo acuto e talora anche profondo,
un comunicatore eccezionale: forse più adatto ad un uditorio medio che ad uno
di professori o studenti di Università, ma certo straordinario nel fascino ed
efficacia della sua parola sulle masse; ma certo anche un catechista che non si
asteneva dal trattare il problema sociale sull’uso della ricchezza; ma
certo un santo che viveva, anche nella penitenza, la passione di
annunciatore del Vangelo e convertitore di anime.[53]
IL TEATRO
BAROCCO Si è già parlato del “Teatro dell’arte”, cioè
della “Commedia improvvisa o delle maschere”. Oltre a questa produzione, occorrerà tener presente
la esistenza di altre tecniche più vicine al teatro regolare, perchè imitato
su quello spagnolo contemporaneo. Ma mentre questo poteva contare su alcuni
compositori geniali,[54]
da noi si imitò soltanto il sottobosco plebeo delle rappresentazioni
eroicomiche, romanzesche, violente, truci o buffonesche, che non si
differenziavano, nello spirito, dal teatro dell’arte improvvisa. Un aiuto
provvidenziale per conservare un minimo di dignità a simili rappresentazioni fu
dato dalla Chiesa con la censura. Sappiamo in particolare, da Niccolò Barbieri
(Discorso famigliare intorno alle commedie,
Venezia, 1628, pp.54-5: cfr. Jannaco, p. 370), della convezione tra S. Carlo
Borromeo ed i Comici. Riferisce lo Jannaco che tutto il Discorso del Barbieri tende a sostenere la necessità di
“distinguere la comedia honesta dall’inonesta”; e che la
efficacia di tale opera della Chiesa
fu questa: “ora la comedia è corretta in modo che si può recitare
sino ne’ Monasteri”. Nessun’opera merita
di essere ricordata. Va qui notato che i primi luoghi di rappresentazioni
teatrali al coperto furono le corti o le case di grandi signori: erano aperte
gratuitamente, ma solo dietro invito e riservati, quindi, ad élites di gente
benestante ed acculturata: Mantova, Firenze e Roma (il palazzo Barberini, dei
parenti di papa Urbano VIII, aveva
una sala capace di tremila spettatori). I primi teatri pubblici, a pagamento ma
aperti a tutti, furono edificati a Venezia (1637) e Firenze (in via della
Pergola: 1657): nel corso del secolo, ben altri sedici teatri
pubblici vengono inaugurati (Garzantiana, p. 474). L’impetuoso successo di
simile nuovo trattenimento fa moltiplicare la quantità dei libretti, a scapito
di verosimiglianza nella trama e
dignità della forma. La sola musica è attesa con impazienza negli assolo
(cavatine) dei cantanti. Circa il nessun valore del teatro improvviso, si veda
p. 381 del “ Settecento” garzantiano.. LA
LETTERATURA DEL MILLESEICENTO NON SECENTISTA NON TUTTA LA LETTERATURA DEL MILLESEICENTO E’
SECENTISTA. Benchè non proprio impermeabile a qualche spiffero
della moda imperversante, tuttavia complessivamente tradizionale, classica,
sobria, aderente alla realtà rimane la prosa in Toscana, dove la
maschera regionale di Stenterello non sarà solo sinonimo di “ parsimonioso”
nel danaro (che “stenta” a
dare), ma anche “sobrio di parole” (le misura sulla ragione e non sulla
fantasia).[55] In genere, poi, gli scienziati, gli storiografi più
in vista ed i politologi (i trattatisti di tacitismo) rimangono fedeli ad
una prosa asciutta e filosofica, mentre anche gli scrittori di poemi epici e di
tragedie si mantengono lungo la linea classico-tradizionale, cioè nei limiti di
una espressione severa. Lo stesso poema eroicomico concede alla moda quel
tanto di “sproporzione” che serva a destare comicità, attraverso la
contrapposizione fra dizione ed intenzione, fra espresso direttamente e
suggerito implicitamente: è la tecnica della comicità indiretta od allusiva. Nella
stessa produzione lirica, vi è un gruppo di poeti che si attengono
alla (o rifluiscono verso la) classicità più rigorosa, salvo ad aggiungere
alla imitazione dei poeti latini, quella dei greci, dal lieve e femmineo
Anacreonte al solenne e maschilissimo Pindaro: sia pure su traduzioni latine,la
lirica greca è ben presente a Gabriello Chiabrera, ad Alessandro Guidi, a
Fulvio Testi ed a Vincenzo Filicaia. Nella “conversione dal marinismo al
classicismo” del Guidi e del Testi vi è anzi la testimonianza patente del
declino nel primato spagnolo e dell’imporsi della cultura francese, dopo la
pace di Vestfalia: subentra il modello di una cultura nata da un temperamente
razionale, introverso, orgoglioso, riservato, autolesionista e sottilmente
nevrosico, rispetto alla psicologia iberica (o visigotica?) intuitiva ed
estroversa, millantatrice ed
esuberante, presuntuosa e sovrabbondantemente vitale.
LA POESIA NON SECENTISTA LA
POESIA TRAGICA Daremo spazio specialmente alla produzione dei
collegi gesuiti, perchè quantitativamente dominante; ed a quella di Federico
Della Valle e di Carlo de’ Dottori, perchè essi ci han dato le cose migliori
del secolo. I Gesuiti,
per il loro teatro, si ispirarono alle “Commedie dei santi” spagnole, che non si
preoccupavano di regole classiche e si concedevano al gusto del pubblico,
mescolando nelle trame realtà e romanzo, materia sacra e scene profane. Nelle
tragedie, gli autori gesuiti, per
motivi sia di edificazione
religioso-morale, sia di semplice divertimento
pei giovani collegiali, indulgono al meraviglioso attraverso non solo la
componente soprannaturale ed eroica, propria della realtà di molti santi, ma
anche attraverso quanto la leggenda riconosciuta o le tradizioni romanzesche dei
secoli medioevali, storicamente disinformati, metteva loro a disposizione. Ne
nascono rappresentazioni altrettanto inverosimili e superficiali quanto la più
parte della produzione laica del tempo, che non escludono neppure le peripezie
ed agnizioni di origine greco-latina. Meritano un ricordo Ortensio Scarmacca,
gesuita siciliano (1562-1648) che scrisse 45 tragedie, in cui va riconosciuta la
serietà e l’impegno etico, oltre che storico e critico: egli si appassiona
nella discussione della legge naturale con razionalità acuta, che pur non
attingendo la poesia, si atttira interesse e stima. Inizia una guerra contro la
mitologia pagana che trionferà col Romanticismo: nel suo Oreste, egli sostiene, con la legge morale più ovvia, che non tocca
ai figli (Oreste, appunto) punire le colpe dei genitori
(Clitennestra) e che la scusante del “fato” è un assurdo di comodo.
Anche il mito della fatale Elena, la cui bellezza giustificherebbe la guerra di
Troia, è smantellato e ridicolizzato. Emanuele Tesauro, scrivendo l’Ermenegildo, rinnova la casistica
drammatica, fornendo nuovo ossigeno al materiale “tragediabile”,
fermo altrimenti alla stanca ripetizione delle trame mitologiche antiche. Il che
si può dire anche del Cromuele (1671)
di Gerolamo Graziani: l’autore ( 1604-1675: poeta alla corte di
Modena, scrisse anche il poema epico Il
conquisto di Granata) non è, dunque, un gesuita, ma cooperò a rompere le
rigide regole classiche ed a fornire nuovi motivi ispiratori al teatro,
nell’ambito di una interpretazione cattolica della storia recente. Possiamo
aggiungervi i drammi edificanti del francescano (Minori osservanti) padre
Benedetto Cinquanta: Il ricco epulone (1621), La
peste del 1630 (forse la migliore), Il
figliuol prodigo (1633), Il fariseo e
il pubblicano (1634), Santa Agnese
(1635).[56] Federigo
Della Valle, nato attorno al 1560 nelle Langhe (Asti), morì nel 1628[57].
Passò dal servizio dei Savoia a quello degli Spagnoli a Milano, dove pubblicò
due tragedie bibliche ed una di storia moderna: Iudith
(1627), Esther (idem), La
reina di Scotia (1628). Aveva composto una tragicommedia (Adelonda
di Frigia) pubblicata postuma (1629) e qualche altra opera poetica minore.
Nell’Adelonda due tempeste di mare
separano e poi riuniscono due fidanzati di rango regale, che cadono nelle mani
delle Amazzoni e devono sacrificare od essere sacrificate all’idolo
dell’isola. Importanti davvero sono le tragedie, due delle quali
però peccano delle loro...virtù. Il Della Valle, infatti è un poeta lirico,
cioè contemplativo, con poco senso del movimento e dell’azione. I personaggi
rivivono situazioni passate e si proiettano verso quelle future, ma debole
rimane la trama, che si svolge quasi più fuori, nelle quinte, che sulla scena.
Degli stati d’animo contemplativi, gli è più congeniale quello elegiaco: una
tristezza nobile, pensosa, quasi una patina di timidezza e rassegnazione, una
nebbia di pessimismo e abbandono, che domina la vicenda e sostituisce gli
scontri drammatici ed il terrore pei pericoli e la morte imminente. Tale
atmosfera caratteristica permea sia La
reina di Scotia che termina con la morte violenta dell’eroina protagonista
(Maria Stuarda) sia la Judith e la Esther
che invece vedono –sia pure solo alla fine- il trionfo dei personaggi cari
all’autore ed ai lettori cristiani. E’ un’impronta digitale, un’aura
poetica che firma i versi dello scrittore, indipendentemente dal motivo
ispiratore. Il Della Valle fu probabilmente il primo a mettere in
scena la vicenda tragica di Maria Stuart, prigioniera e vittima della cugina
Elisabetta d’Inghilterra: la scene più lodate sono in II, 2 e IV, 1, entrambe
mestamente, non tragicamente intonate. La Esther
vive più di un principio politico-psicologico (l’incostanza del potere
regale) che della paura per l’imminente massacro del popolo ebraico. Anche
Mardocheo, il rappresentante più consapevole dell’addensarsi della tempesta
sul popolo in esilio, è personaggio flebile e timoroso, non tetragono e
combattivo. Il personaggio malvagio, Aman, che vuole la morte di Mardocheo e del
suo popolo perchè si è rifiutato di adorarlo, è reso più degno di
compassione che di obbrobrio per il contesto creatogli attorno da Della Valle (è
la moglie Zares che sobilla la sua superbia alla congiura di morte). Ester non
occupa il posto centrale nell’opera: l’autore non ha saputo farne un personaggio psicologicamente risoluto, intraprendente,
magnanimo, all’altezza della situazione, che dovrebbe lacerarsi fra insulti di
disperazione, volontà di reazione ed esaltazione
al martirio. Capolavoro dello scrittore e più vicino allo spirito
tragico è la Judith: vi è in essa azione e dinamismo, intraprendenza eroica e
situazione formidabile, sviluppo di vicende ragionevolmente adeguate al
rovesciamento della situazione. L’azione si impernia sul contrasto fra due
personalità volitive e risolute in senso opposto: Oloferne (il generale che
assedia la città ebraica di Betulia) è passionale ed orgoglioso, sprezzante ed
aggressore; Giuditta (la giovane vedova avvenente) è casta ed umile, fiduciosa
solo in Dio e consapevole del dovere di un’uccisione progettata solo in nome della legittima difesa. Essi
incarnano e sintetizzano in sè non
solo due situazioni di fatto (il campo assiro, che è luogo di empietà,
sensualità, presunzione e violenza; la città di Betulia, che è invece
un’oasi di virtù, di relgiosità, di sofferenza), ma anche due concenzioni di
vita in perpetua lotta fra loro: la città del mondo, potente di armi e di
ricchezze, ma disorientata nella empietà ed
in preda all’edonismo; quella di Dio, umanamente disarmata, ma
luminosa per la fede e coerente nella vita morale. Ritorna il confronto
fra Davide e Golia. Nel contrasto, all’inizio tutto è favorevole
all’assalitore pagano e prepotente, ma alla fine Dio darà la vittoria alla
virtù, disarmata ma fidente in Lui. Il campo assiro è vittima dei suoi vizi:
Oloferne succube del vino e della libidine, è sorpreso da Giuditta mentre, in
attesa del piacere, è caduto in preda del sonno; a preparare la disfatta
universale, serpeggia nel campo assiro un senso di disordine e di dissolvimento
dopo il banchetto orgiastico. Il presentimento della fine precipita in panico e
disperazione quando esce sulla scena Giuditta, vittoriosa di Oloferne, cui ha
reciso il capo: allo sbando dei guerrieri assiri si oppone l’entusiasmo del
popolo di Betulia che, accese le luci sulle mura della città, accorre a
completare la vittoria. Questa vicenda psicologicamente così ben congegnata
è piaciuta molto ad Attilio Momigliano, che ha proclamato capolavoro l’opera,
nella sua Storia della Letteratura italiana (Milano-Messina,Principato, 1935).
Capolavoro, sì, rispetto alle due precedenti e smorte tragedie, ma non in
assoluto. Si pensi che, nell’atto finale, la scena del banchetto orgiastico rimane celata nella tenda di
Oloferne, sullo sfondo del palco,
sicchè tutti i momenti salienti (baldanza iniziale, richiesta del generalissimo
alla accondiscendenza della fuggitiva ebrea, attraverso il suo
luogotenente Vagao, ebbrezza dei convitati) sono narrati sulla scena da
soldati che escono dal convito, in dialogo con il coro. Rimane cioè il
“peccato originale” della staticità e “contemplazione” a scapito del
dinamismo, movimento, drammaticità. Occorre che attori eccezionali traggano
brividi di commozione in un pubblico già ben disposto ad una specie di “sacra
rappresentazione”, in stile solo “quasi classico”, perchè i molti
settenari mescolati agli endecasillabi lo avvicinano ad un dramma pastorale. Carlo de’
Dottori.
Di nobile famiglia padovana, visse fra il 1618 ed il 1685. Egli stesso mise in
versi la sua esistenza con le Confessioni,
che già dal titolo agostiniano fa presentire la vita di sbandamento
morale,dapprima e la conversione, poi. Della vita e delle opere minori
rimandiamo in nota i particolari più salienti.[58] La tragedia Aristodemo
la comprenderemo meglio tenendo presente quanto dell’autore dice Francesco
Flora: “Uomo di umor melanconico, di spiriti veementi ed estrosi, in una vita
spesa talvolta senza misura, il Dottori non poteva dissiparsi nel facile riso:
c’era nel fondo della sua anima, nell’orgoglio del suo sangue impaziente ed
amaro... un sentimento tragico delle cose: e questo si manifestò nella tragedia
Aristodemo... la più grave e lirica che abbia il Seicento, in uno stile
rattenuto ed essenziale anche nei motivi descrittivi” (Storia della
Letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1947, II, II, pp. 781-5). Noi parlemmo,
più sinteticamente, di un temperamento collerico, trascinato all’azione
impulsivamente e variabilmente, secondo le coordinate “emotivo| attivo|
instabile o primario”. Il motivo è classico: è un episodio narrato da
Pausania come avvenuto nelle guerre tra Sparta ed i Messeni. Questi temono la
sconfitta per il sacrilegio compiuto da due giovani che, durante una incursione,
hanno fatto credere di essere Castore e Polluce. L’oracolo di Delfo impone,
come espiazione, il sacrificio di una fanciulla della nobiltà più autentica
dei Messeni. Due le possibili candidate: messe nell’urna, è destinata Arena e
salvata Merope, figlia di Aristodemo. Ma il padre di Arena fugge con la figlia
sicchè Aristodemo, pur spedendo un arciere ad inseguire Arena con l’ordine di
ucciderla, decide di sacrificare la figlia. Il fidanzato Policare, giovane
ardente ed innamoratissimo della mite Merope, più disposta al sacrificio e
quasi da sempre presaga del fato triste che le incombe, tenta uno stratagemma:
inventa una gravidanza della candida Merope, che, non essendo più vergine, non
varrà più come vittima accetta di riparazione. Il disorientamento di
Aristodema sospende quella che sembrava la catastrofe ovvia dell’azione: egli
acconsente al matrimonio della figlia. Ma poi si riprende: egli deve in
coscienza punire la figlia che ora è due volte sacra alla giustizia, del popolo
e degli dei. E si precipita lui stesso a sopprimere Merope, che non s’attende
un tale immolatore!. Anche Arena è stata raggiunta e uccisa, ma si scopre che
essa pure era figlia di Aristodemo! Questi, allora, si suicida. La figura di Merope è, almeno nella stesura
definitiva del 1657, concepita in chiave prettamente religiosa, anzi cristiana:
Merope si sente la vittima destinata a liberare il suo popolo col proprio
sacrificio ed aderisce intimamente con umiltà e vera “pietas” a questa
vocazione straordinaria. Ma, poi, accade
per lei quello che avviene per le figure create dal Della Valle: il personaggio
declina verso l’elegia anzichè rimanere nella sfera del dramma: non
l’Antigone, ma la Elettra di Sofocle è il suo riferimento classico. La figura
di Arostodemo, viceversa, è troppo tagica: il suo agire diventa un agitarsi, il
suo procedere diventa maniacamente razionalistico, anzi sofistico: il suo modo
di ragionare è un sillogismo paranoico, un entimema, cui manca sempre un
elemento per abbracciare tutta la verità e dedurne una regola di comportamento
ragionevole, umana. Per questi due personaggi
–l’uno imperfetto per mancanza di forza e l’altro, per eccesso di
violenza- la tragedia stenta a convincere: cade nell’inverosimile. Che poi
nella sua illogica coerenza siano coinvolti problemi di politica
machiavellico-tacitiana; che, cioè, il senso del dovere si confonda con
l’orgoglio di salvare l’onore e la figura sociale del capo (l’imperterrita
giustizia lo rende degno del
regno), questa è una componente secondaria, storico-sociale, che ha facilitato
il disorientamento nella coscienza di Aristodemo, il quale però è
“vittima” anzitutto e soprattutto della psicologia sviata e disequilibrata
del suo creatore, Carlo de’Dottori. Questi difetti non tolgono che nell’opera vi siano
versi e brani toccanti. Il passo
migliore è la espressione di Policare, che non vuol rassegnarsi alla morte
della promessa: alle parole con cui Merope
lo esorta ad una maggior fortezza d’animo, a trattenere le lacrime, risponde
commosso: “piango le cose umanamente amate” (atto III, scena 3). [1] Nel Canzoniere (che, nel 1601, raccolse i Madrigali e le Rime già editi nell’ultimo decennio del Millecinquecento; ed al quale si aggiunsero le “Rime nuove” nel 1603) egli dimostra una certa fatica nella costruzione del verso, sicchè singole parole o immagini intere assumono forme strane più che sorprendenti. Così la punta di una onda gigantesca è detta monte; così il verbo “oltraggiare” sta per “superare le onde del mare, gettarvi un ponte sopra ” (“Ecco d’onda spumosa ogni gran monte| d’altezza gareggiar non che di moto...”; “ma candido voler, ma cor devoto| oltraggia il gonfio mar d’un ricco ponte...”); così si avviano all’ermetismo immagini come queste: “Gemme de l’Appennin, frondose piante,| ornamento alla selva e reti al vento, | scatenate a la danza il piè d’argento,| scosso più d’un amor dal sen pregnante”. [2] Abbiamo posto in corsivo le due “vivezze od agudéze o concettini” più clamorosi. Inutile spiegare che le “due stelle” che, assieme, formano e gareggiano col sole, sono gli occhi della donna amata. [3] Il primo a paragonare gli occhi delle gatte (nell’ospedale di Sant’Anna) a due fuochi accesi, a due lucerne nel buio è stato il Tasso in un suo sonetto giocoso. [4]E’ B. Croce nei due volumi di “Saggi (e “Nuovi Saggi”) sulla Letteratura italiana del Seicento”, Bari, Laterza, 1911| 1929, ad aver sgrovigliato la matassa dello scherzo ingiurioso orchestrato dallo Stigliani contro il Marino. Si tratta di questo. Come egli aveva già foggiato versi strambi nell’ultimo libro del suo Canzoniere (1623), per satireggiare la moda secentista (ed in pariticolare il caposcuola, a lui ormai ostile), così ne l’Occhiale (1627) egl inventa versi con giochi di parole semplicemente ridicoli, ma li attribuisce a due presunti verseggiatori secentisti, seguaci del Marino. Si chiamerebbero Vanetti e Sissa: il primo, autore di Rime; il secondo, di Idilli. Eccone il fior fiore, sulla scia dei Nuovi Saggi del Croce, a p. 12-14: “Ove in ceruleo trono il dio salato| coll’acquatico rostro all’onde impéra” (Nettuno che governa le onde con il tridente: onde la satirica accusa al Vanetti di aver convertito Nettuno in baccalà!); “il cristato bargel de le galline” (il gallo); “candido camerier del Re raggiante” (il crepuscolo); “fioriscon gemme e gemmano fioretti” (all’apparire delle belle nife); “Saliva dagli Antipodi ai Postipodi| il radioso tesorier del Numine,| a cui son sacri i delficani tripodi” (il sole, venerato dai greci, come Apollo –cui è sacra Delfo- percorreva il cielo dall’aurora al tramonto); “ricamato a macigni il corpo mostra” (S. Stefano, primo martire)... Per far valere la invenzione calunniosa, egli non esitò a far pubblicare una finta lettera del Marino, quasi risposta ad una sua che gli omaggiava i volumi dei due inesistenti poeti, che il Marino dichiarava (pretende lo Stigliani) “felicemente arditi” nelle metafore. Gli amici del Marino (ormai già morto) scoprirono l’inganno e scesero in campo ancor più incolleriti contro lo Stigliani... [5] Riportiamo il madrigale “Sparge Amarilli mia di nere croci| del seno il latte, ond’io| con la vista nudrìa il bel desio:| Deh, che sperar più deggio,| misero me!, se veggio| scritto, mirando in sì bel foglio intento,| con caratteri infausti il mio tormento?” L’altro madrigale (su un appuntamento notturno mancato, nonostante la promessa della donna) ed il sonetto (la soddisfazione del poeta nel contemplare il seno della donna) sono più realistici. Dopo di che l’Achillini è il tipo che ammonisce le donne circa la effimerità della loro bellezza; e gli amanti, circa la necessità di sciogliersi dalla schiavitù d’amore, perchè vecchiaia e morte incombono su tutti (canzone senza rime, scritta per recita in teatro). [6] Il sonetto “Fra la solitudine della villa biasima la corte” descrive il paesaggio campestre (anzi “selvaggio”, cioè boscoso) con diciassette sostantivi e diciotto aggettivi, raccolti nelle due quartine (“Verdi poggi, ombre folte, ermi mirteti...”) che non riescono a defnire una atmosfera lirica: le terzine completano il silenzio lirico, con una minor chiarezza nell’elogio alla solitudine della natura contro la vanità delle corti. [7] Ecco, da “In morte di Nicea”, la terzina conclusiva: “Chè senza lei, che sovra i cieli è gita,| un’oscura prigion mi sembra il mondo,| una morte crudel parmi la vita”; ecco la seconda quartina di quello per “Bella di nome Mercuriola...”: “Provo, in un punto sol, la state e’l verno,| e sono insieme misero e contento| in fra speme e timor, gioia e tormento,| e nel ciel mi ritrovo e ne l’inferno”; ecco la finale del sonetto “Lidia invecchiata vuol parer giovine”: “Stanca pur l’arte, il tuo primier colore| mentisci pur: chè nel tuo volto fai| un sepolcro dipinto al morto Amore”.... [8] La citazione dal Qoélet (1, 13) è nei versi 132- 5 della canzone “Della miseria e vanità umana” (la ricerca dei “perchè” del mondo e della vita è “travaglioso pensier, insana cura,| che forse il Cielo diede| per occupar de l’uomo| la curiosa mente...”). Ed ecco il sonetto su Lidia invecchiata: “Ah come poco incontra il tempo dura| di caduca beltà raggio terreno,| che sen fugge qual rapido baleno| e ritenerlo invan l’arte procura.|| L’etade, o Lidia, al crin gli ori ti fura| e gli ostri al volto e gli alabastri al seno,| e turba della fronte il bel sereno,| e de’ begli occhi il chiaro lume oscura.|| Nel Giardin de le Grazie e de gli Amori| solca indiscreto il vomere degli anni| non perdonando ai più leggiadri fiori.| E tu sciocca cultrice in van t’affanni,| che per nutrir d’esca mentita i cori| vai tra que’ solchi seminando inganni”. [9] Della canzone “A Iola” che racconta i viaggi fatti con le navi maltesi dei Gerosolomitani in caccia di navi turche , non senza scontri e catture, da Malta alla Sicilia, dalla Libia alle isole greche dell’Ionio, citiamo sparsi versi citabili: “Freme il ciel, mugge il mar, rimbomba il lido” (148); “Fugge timido il giorno| tra dense nubi ascoso,| che celando l’orror l’orrore accrersce” (153-5). Ecco un concettino per dire come, tra le rovine di Alicarnasso, stanno i resti di una delle sette meraviglie del mondo antico, il sepolcro che Artemisia fece erigere al marito Mausoleo. “chè tra l’arena e l’erba| è lo stesso sepolcro ancor sepolto”. Dell’altra intitolata “Della miseria e vanità umana”, ecco la finale, uguale per ognuna delle undici stanze: “Misera sorte umana,| e che cosa è qua giù che non sia vana?”; ed ecco la seconda strofa che dà una idea generale dei 267 versi: “E’ la vita mortale| vana un’ombra che passa,| lieve un’aura che fugge;| quasi a’ raggi del sole opposta nebbia,| che tosto si dilegua;| un lampo che, venendo, è già sparito;| un fior che, nato appena,| o lo rode la greggia,| o lo tronca la falce,| o lo svelle l’aratro,| o lo recide l’unghia,| o lo calpesta il piede,|o turbine l’abbatte,| o grandine l’oltraggia,| o da soverchio ardor, soverchio gelo,| inaridito inlanguidito cade.| Misera sorte umana,| e che cosa è qua giù che non sia vana?” [10] G. Guido Ferrero nelle note del volume 37 della Ricciardiana, dedicato appunto a “Marino e i Marinisti”, parla di preromanticismo e fa riferimento all’Alfieri: la cosa mi sembra vera a metà, cioè solo per la musicalità sostenuta, drammatica, chè la forza con cui Alfieri vive e sente il contenuto è notevolemnte superiore. In senso opposto, allora, si può e si deve accennare anche ai precorrimenti leopardiani: benchè in un musicalismo ben diverso, pure alcuni pensieri sembrano usciti fuori dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, non solo in questo verso (che ritroviamo in G. Fontanella). [11] Ecco anche i due sull’ “Orologio da polvere”. Il primo: “Poca polve inquieta, a l’onda, ai venti| tolta nel lido e’n vetro imprigionata,| de la vita il cammin, breve giornata,| vai misurando ai miseri viventi.|| Orologio molesto, in muti accenti| mi conti i danni dell’età passata,| e de la Morte pallida e gelata| numeri i passi taciti e non lenti.|| Io non ho da lasciar porpora ed oro;| sol di travagli nel morir mi privo;| finirà con la vita il mio martòro.|| Io so ben che’l mio spirto è fuggitivo;| che sarò come tu, polve, s’io mòro,| e che son come tu, vetro, s’io vivo.” Il secondo: “Polve cadente in regolato metro| mi va partendo in ore il giorno e l’anno,| ma nè pur una, oimè, scarsa d’affanno| dal mio duro destin già mai n’impetro.| La cuna addita l’un, l’altro il ferètro,| di quei duo vetri che congiunti stanno;| e dritto è ben che segni il nostro danno| e la polve inquieta e’l fragil vetro.|| Con l’acqua i Greci opra simìl formaro,| che per quelle stillava anguste porte;| ma ne la polve alfin l’onda mutaro.|| E tal si volge ancor la nostra sorte:| poi ch’è de l’uomo in questo mondo amaro| pianto la vita e cenere la morte.” Ed ecco l’orologio da sole: “Con l’ombra sua del sole i giri immensi| misura un lieve stilo al sole esposto;| e ben di questo dì, che muor sì tosto,| l’ore con l’ombra misurar conviensi.|| Di quell’ombra al girar forza è ch’io pensi| che co’ suoi passi al tumulo m’accosto;| nè m’è il tenor di quelle note ascosto:| parlan del mio morir con chiari sensi.|| Saette son, ch’avventa arco di Morte,| quelle linee ch’io miro; e’n van riparo| di tempra oppongo adamantina e forte.|| A lo splendor del sol veggo pur chiaro| che del giorno vital son l’ore corte;| e ch’io son vanità da l’ombra imparo.” Anche il sonetto “Al sonno” conclude con riflessioni sui Novissimi: “Ma ciò che mi ti rende assai più caro| è ch’all’orror dell’aborrita morte| io col tuo mezzo ad avezzarmi imparo”. [12] “Sognato tridente” significa: mitico tridente (di Nettuno, con cui i pagani credevano fossero scossi la terra e il mare). Si noti che il secondo sonetto sul terremoto termina con più di un concettino: “L’anime, che stanno a tanto moto immote,| addormentate elle non son, ma spente”. [13] Anche l’inizo d’anno è occasione a pensieri tetri e drammatici, che non son guastati da scontri di parole, purtroppo veri: “Già rinovato è l’anno. Ah come corte| l’ore son de la vita! Omai vicine| fansi le méte estreme, e solo al fine| fia che ’l novo anno un novo mal n’apporte.|| Ei fanciul fa noi vecchi; e ognor più forte| cresce a recare altrui danni e ruine.| Causano i suoi princìpi il nostro fine,| e le nascite sue la nostra morte.|| Pur ieri ei nacque, e con novel candore| le nevi oggi apparir canuto il fanno;| ma’n vecchio aspetto ha giovenil vigore.|| Come rapido il tempo in nostro danno| fia che voli a portarne a l’ultim’ore,| se, nato appena, incanutisce l’anno|”. [14] “Nasamone” era un popolo della Cirenaica, paese caldo; “Mosco” sta per Moscovita, in paese freddo. [15] Pur mantenendo la musicalità forte, di cui parliamo nel testo, ecco un sonetto (Per lo tirar di balestra a gli uccelletti) in cui l’incertezza od ambiguità del motivo ispiratore (dinamismo felice della caccia| riflessioni sul paesaggio e sulla vita umana) conclude ad una dissolvenza incrociata, alternando accenni di epicità, di malinconia, di retorica concettista (ultima terzina): “Spesso men vado, accompagnato o solo,| co’ passi lenti misurando il piano,| e di tosco istrumento armo la mano (è la balestra caricata a palle di terra rassodate, forse inventata in Toscana)| a guerreggiar contro il pennuto stuolo.||Quindi per torre agli augelletti il volo| volan globi di creta; e il pensier vano,| pur come augello, intanto erra lontano,| or in mar, or in terra, or sovra il polo.|| Ma la balestra mia spesso non erra,| scoccando ad or ad or colpi fatali,| onde gl’incauti volatori atterra.|| Apprendete timor, quindi, o moratli:| ecco chiusa è la morte in poca terra,| e per fuggir da lei non bastan l’ali”. [16] Avremmo voluto scrivere “facilità e felicità descrittiva”, perchè abitualmente tale è la sua abilità a delineare cose ed azioni, ma abbiamo dovuto correggerci. In realtà le descrizioni scorrono chiare e piane, ma non proprio del tutto. Si legga questa strofa, che pur riesce a conservare un impeto epicizzante, che si perde poi nel resto del sonetto (“Alla remora”): “Va torreggiante in su le vele a volo| spedita, a tutto andar, nave corrente;| di ricche merci e di guerriera gente,| scorre con aura amica infido suolo”. Ebbene: a parte ripetizioni (spedita| corrente| a volo), vi è la banalità del “a tutto andar”; l’assenza dell’aggettivo “carica, fornita” di ricche merci del terzo endecasillabo; l’imprecisione dello “scorrere un infido suolo”, nel quarto. La chiusa del sonetto “Al garofalo” è banale nel primo verso (“Di rogiada o di linfa egli si pasce”), ermetico negli altri tre versi, che vogliono celebrare la capacità di moltiplicarsi per semplice talea e vanno a tirare in scena l’idra di Lerna per dirne la capacità di risorgere nelle sue parti tagliate (“sorge, reciso e, pullulando ardito,| quasi mostro lerneo sempre rinasce”). Anche l’ultima terzina del sonetto “Ai capelli” ci sembra una sciarada: “e canuti in età pur belli siete:| benchè in neri cangiar vi veda il mondo!” (che voglia dire che i parrucchieri sapevano già nel Milleseicento decolorare i capelli, rifacendoli neri?). [17] Le parole che scriviamo in corsivo sono spie acute della permanente condanna, pur nella complessiva celebnrazione. Anche in altre delle strofe centrali si trovano espressioni denigratorie: “ambiziose voglie| languido corpo| donzellette lascive| altéra scena...”. [18] “Lo schioppo”: “Questa di man germana (germanica) opra guerriera,| se di zolfi nitrosi accende il seno| ed a piombo pennuto allenta il freno,| fulmine par de la tonante sfera.|| Svena in mezzo al fuggir partica fera,| benchè, rapida il piè, scorni il baleno,| e di subita morte atro veleno| porta ne’ globi alla volante schiera.|| Erutta il tuono e partorisce il lampo,| fa d’estinti guerrieri il suol fecondo,| e di vermiglio umor lastrica il campo.|| Lascia, o Morte, la falce, inutil pondo,| e con l’ordigno, a cui non giova scampo,| dal mondo impara a fulminare il mondo”. “Democrito ed Eraclito”: “Democrito tu ridi e col tuo riso| tutte le umane cose a scherno prendi,| e, sia del fato o mesto o lieto il viso,| con lieto viso ogni accidente attendi.|| E tu col mento in su la destra assiso| piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi:|forse che quanto è fra di noi diviso,| lacrimosa tragedia esser comprendi.|| Ma siate pur al pianto o al riso intenti:| chè ’l riso e’l pianto a me rassembra intanto| vano delirio delle vostre menti.|| I mali di quaggiù gravi son tanto| che, per guarir le travagliate genti,| è vano il riso ed è più vano il pianto.” [19]
Ecco invece “La
lettera” che è sonetto celebrativo, ma attraverso negazioni continue (che finiscono in un calembour), sicchè
l’esaltazione della potenza (benefica o dannosa) della missiva epistolare
si elide nelle contrapposizioni, ricercate per la mania barocca di
produrre ad ogni costo la meraviglia: “Figlia del mio pensier, nuncia
veloce| che corri senza piè, voli senz’ale| rapida più che vento e più
che strale,| e dove l’aere agghiaccia e dove coce; |palesi la mia mente e
non hai voce,| ordisci tradimenti e sei leale| erba non sei di Colco e sei
letale| non sei libica belva e sei feroce.| Spirto de’ passi miei, lingua
del core| mi conduci colà dov’io non sono| e chiedi quanto vuoi senza
rossore.| Delle tue note, allor che note sono, ha la suora d’Encelado,
minore| ne’ vanni il moto e nella tromba il suono”. L’erba
di Colco (Colchide) è velenosa, sicchè è detta “letale”, che dà
morte; nel verso dodicesimo, “note” dapprima è sostantivo (segni di
scrittura) e, poi, agettivo (conosciute); infine la “sorella
d’Encelado” è la Fama.
[20] Chiarimenti: “bolla”= ribolla (è voce verbale, da ribollire); “sirii ardori” sono i raggi della canicola, quando il sole è in congiunzione con la stella Sirio; tòsco” è il veleno; “atomo d’insetti”= animale piccolissimo. [21] Chiarificazioni: “un Perù fiocchi”= in un granello di sabbia, l’occhialino ti illude a vedere i tesori dell’argento del Perù; “”un schizzo d’ente”= un accenno di realtà (ente=essere qualsiasi); “da un fil...”= da un semplice filo ti illude a vedere il lampo del fulmine che cade; “e giuri...”: quel quasi niente, che sono le creature, sei tentato di giurare che siano quasi infinite quanto il Creatore. [22] Oltre tutto, ci si può accorgere facilmente che l’Artale è poco chiaro, sicchè troppe sue espressioni richiedono spiegazioni o interpretazioni: il Lubrano è trasparente al confronto, oltre che molto più moderato nelle figure barocche. Ecco qualche chiarimento al sonetto che egli intitolò colla sola dedica “A Maria Maddalena Loffredo, principessa di Cardìto): “di chi piagarlo ardìo” è la Maddalena che ferì il Signore col peccato; i capelli biondi non sono tanto “insegna del peccato”, ma eventualmente “tentazione ad amori illeciti e, quindi peccaminosi: eventualmente! “in amorosa arsura” non si capisce davvero: forse intendeva “in amorosa gara”; l’amante (la Maddalena, fatta amante di Dio col pentimento); “alluma” ci pare significhi “abbaglia” il suo Creatore per il rovesciarsi dell’effetto del “Tago= delle acque di quel fiume cui assomigliano le chiome ondeggianti della Maddalena” (e che dovrebbero, quindi, non asciugare, ma bagnare) con quello del “sole”, cioè dei due occhi piangenti della donna, occhi che per l’amante sono di solito “lumi, stelle e soli” (che dovrebbero quindi bruciare e non bagnare). [23] Oltre agli autori citati ed esemplificati nel testo, riportiamo qui qualche notizia e verso dagli altri poeti marinisti documentati dal volume della Ricciardiana. Il nostro interesse è triplice: anzitutto ricercare la causa prima del loro fallimento estetico, cioè la dissolvenza incrociata fra la loro ispirazione e musicalità più congeniali (che per lo più di tempra drammatica) e la scelta infelice del tema amoroso, offerto e quasi imposto dalla tradizione petrarchesca tuttora imperante (almeno teoricamente), che è invece presuntivamente contemplativo; in secondo luogo, additare la parte che il concettismo detiene nel fallimento stesso; in terzo luogo, cercare di vederci chiaro nella inguaribile sensualità di questa produzione, avendo presente la stessa componente nella lirica del Rinascimento. Marcello Macedonio (ultimo quarto del secolo XVI- poco dopo il 1620: gentiluomo fattosi poi carmelitano scalzo; le sue composizioni sono raccolte ne “Le nove muse” del 1615). Per lui dobbiamo ripetere il rimprovero: temi idillici (paesaggi|amore), mescolati a spunti drammatici (amore trionfante, amore tormentoso, contrasti fra apparenze esterne e realtà interiore) generano dissolvenze incrociate, che si rispecchiano in musicalismi incerti e polivalenti, mentre le troppe metafore od elenchi di paragoni celebrativi finiscono per inaridire i versi. Ci sembra esemplare la canzonetta “Disfida dell’acque e dell’aure”, dove i vanti delle due potenze naturali si basano per lo più su qualità ed azioni di bellezza, cioè su componenti contemplative: la loro dichiarazione in tono di gara e di battaglia le trascina verso la drammaticità che tutto rovina. Si notino tali difetti pur in queste due strofe non del tutto insipide : “Noi siam tesor del prato,| argento fuggitivo|, zaffiro molle e vivo,| diamante distillato.|| In petto a le montagne| filze di perle fine,| e serpi cristalline| sembriam per le campagne”. Anche il sonetto “Sopra un fiore che nasce nell’India e mostra i segni della passione di Cristo” ha coerenza drammatica (tema, lirismo, musicalità) solo nella prima strofa: “Signor, l’acute spine e l’aspra e santa| colonna e la crudel sferza vermiglia| e i tormentosi tuoi chiodi somiglia| misterioso fior d’indica pianta.” Stessa equivocità nel pur chiaro e non così concettista Scipione Caetano (romano, morto del 1612, anno in cui furono pubblicate, postume, le sue Rime, dedicate a Maria de’ Medici). La bellezza della sua donna messa a ripetuto confronto con la bruttezza della vecchia sua ambasciatrice rovina il sonetto “Alor che immerso in tenebrosi errori”; il tormento perchè deve contentarsi di guardare la casa che accoglie|nasconde la sua amata, fa altalenare pensiero, lirismo e musicalità nel sonetto “Corinna, alor che il rimirarvi è tolto”; e l’elogio iperbolico della lucciola (superiore alle stelle!), che gli ha fatto da guida alla casa dell’amata in una notte fosca, elide il vagheggiamento e la dolce simpatia per l’umile coleottero, con cui si apre, idillicamente, il sonetto (“Pargoletto animal, cui diè natura”). Giambattista Manso (Napoli, 1561-1645) fu protettore del Tasso, di cui fu il primo biografo. L’unico suo sonetto riportato dal Ferrero nella Ricciardiana è un capolavoro di ambivalenza rovinosa. Vuol descrivere la natura nel momento più suggestivo (Croce lo ha intitolato “Il ritorno della Primavera”) ed esprime invece il suo rifiuto a goderne,da quando la donna gli ha negato corrispondenza in amore. I primi due versi dicono già la mescolanza indiscreta: “Questi fior, queste erbette e queste fronde,| di novella stagion pompa superba...”; la finale ne è l’assassinio definitivo “Chè, quand’orrido è il mondo, allor mi piace”! I singoli sonetti citati per Gaspare Murtola (il segretario del duca di Savoia che attentò alla vita del Marino: era di Genova e pubblicò nel 1603 una raccolta di Rime e nel 1608-9 i sonetti della Marineide; nel 1608 pubblicò anche il poema “Della creazione del mondo”; morì nel 1624 ) e per Giuliano Bezzi (di Forlì, autore di rime, del dramma pastorale La maga innocente e del melodramma Le Pleiadi) vogliono canatre d’amore ma si affidano entrambi a similitudini di ostilità (Murtola cita la rosa e il riccio, il cardo, l’istrice e cent’altri esseri viventi, che hanno spine, ma non così aspre come quelle dello sguardo della donna amata; il Bezzi accusa la gelosia-persiana di impedirgli di vedere la sua donna e minaccia di incenerirla coi propri sospiri...): il ridicolo accentua la dissolvenza incrociata dei motivi ispiratori contrastanti fra idillio e dramma. Quest’ultimo ci pare il difetto anche dei sonetti di incerto autore pubblicati a pp. 685-686. Porfirio Canozza, incarna il contrasto in due amori di risultato opposto: “Ama due donne in un punto, una cortese, l’altra crudele” (i versi “L’uno è pace dolcissima del core,| per l’altra in guerra mantener mi sento” potrebbero diventare una icona della situazione o pendolare o incerta o straziante dei più tra i rimatori marinisti; un lapsus della loro psicologia ambigua, una spia acutissima della sorgente intima al fallimento del loro poetare). Idem per Riniero Grillenzoni, che tratta del proprio amore col paragone scontato della nave in mare: solo l’ultima terzina si arrende al dramma del fallimento (e sono i versi migliori del sonetto); gli altri versi si aggirano indecisi fra speranze e disperazione; per Francesco Balducci (Palermo 1579; muore nel 1642 a Roma) che non sa decidersi se contemplare amorevolmente il figlio della donna amata o esprimere l’ardore e le attese del ricambio al proprio amore. Più coerente nei suoi versi è Francesco della Valle (calabrese, pubblicò le sue Rime nel 1618), che nel sonetto “Or che’l dì nasce e la mia bella e cruda” si concentra con qualche efficacia sul tormento e dramma dell’amore non corrisposto. Marcello Giovanetti: nato ad Ascoli Piceno nel 1598, fu giurista a Roma, dove morì a soli 33 anno nel 1631. Pubblicò un volume di Poesie nel 1626, ma scrisse anche una favola pastorale (Cilla). Anche lui canta d’amore, ma sempre in situazioni drammatiche, con un risultato conflittuale poco significativo anche nel dramma e peggiorato dalle arguzie barocche abbondevoli. Di incipientemente idillico leggo questa quartina del sonetto “Vedendo lontano il paese della sua donna”: “Ecco al fin pur ti scopro, amato colle,| che’n breve giro ascondi ampio tesoro;| ove non giunge il piè, prende ristoro| lo sguardo almen, che di dolcezza è molle”. Il sonetto continua in contrapposizioni e concettini, che rovinano anche la pretesa sofferenza drammatica del poeta (?) che è vicino alla donna solo con la immaginazione (“Traggami, dunque, il cielo ove il ciel vuole,| chè far non puote ingiuriosa eclissi| lunga terra interposta al mio bel sole”!). Confrontandosi con un suo ritratto, lo trova freddo perchè non esprime la passione che lo divora; e conclude: “Ma, lasso! ardono a me l’alma invaghita| perpetue fiamme, e tu non senti ardore:| chè già fora la tela incenerita”. Le ottave su “La Bella dormiente” contengono metafore, paragoni, accostamenti surreali, che culminano in questa strofa in cui si meraviglia che, stesa a dormire lungo le sponde, il fiume non asciughi per la vicinanza di un tale sole di bellezza: “Ben si vedean per le beate sponde| arder vicine a lei quell’erbe e queste,| languir le piante, inaridir le fronde,| chinare i fiori l’odorate teste;| e già foran asciutte anco quell’onde,| che per l’erbe muovean tremole e preste,| s’io con l’urne colà del pianto mio| non dava piogge al prato ed acque al rio”. E c’è di peggio: “alga o scoglio non è, che non s’infiori;| fiore, che non si specchi entro quell’onda;| onda, che non sfavilli a tanti ardori”. Pure gli capita di descrivere (od inventare) una situzione in cui gli aspetti delicati dell’amore vengono emarginati, mentre riescono ad allearsi la forza del dramma e la latente comicità delle metafore: è nel cantare la sua “Bella donna vestita da turca di carnevale”. “Ecco la mia bellissima guerriera,| trovando al suo rigor conforme spoglie,| entro fascie barbariche raccoglie| d’attorto e bianco lin la chioma altera;|| e con sembianza vaga, ancor che fera,| fra quei lacci d’orrore Amore accoglie;| chè barbara impietà grazia non toglie| a questa sol di cor barbara arciera,|| che, contra me cercando arme novella,| or con arco di Tracia arma la mano,| fatta turca d’amore, empia e rubella.|| E s’a caso talor l’arco inumano| falla in lanciar le rapide quadrella,| l’arco del ciglio non saetta invano”. Giovan Leone Sempronio (Urbino 1603-1646): oltre alle rime (La selva poetica, 1648l: la Ricciardiana ne riporta solo sonetti), scrisse un poema (Boemondo) ed una tragedia (Il conte Ugolino).Tentazioni idilliche doveva sentirne, ma persino nei versi “Raccorda al signor Gioseppe Ferrari le delizie che goderono insieme nello Studio di Bologna”, che sono quasi romantici come tema (nostalgia del tempo goliardico) non riesce ad escludere le interferenze drammatiche: “In fin di qua dal mio natio terreno| parmi sentir, o mio gentil Ferrari,| che tra i cristalli suoi limpidi e chiari| mormori ancor le nostre gioie il Reno.|| Ivi l’aria tranquila e ’l ciel sereno| e i dì godemmo luminosi e cari,| e mille or dolci amori or colpi amari| n’arsero il core o ne feriro il seno ...” Ma il dramma lieto, tendenzialmente epicizzante (l’impeto del ballo, ad esempio) gli era decisamente più congeniale: salvo quando prevale il concettismo a rovinare anche questa tonalità. Ecco un sonetto in cui la vivacità si comunica nonostante contrapposizioni e paragoni discutibili; e nonostante il calembour finale: “D’una sonora cetra a’ dolci imperi,|move Lilla le piante agili e snelle;| e con sembianti umilemente alteri| danzando preme ora quest’alme or quelle.|| Su quei vasti lassù ricchi emisperi| men vezzose di lei, di lei men belle,| passi movendo or tremoli or leggeri,| co’ piè d’oro nel ciel danzan le stelle.|| Natura la creò, la fece Amore| mobil di corpo e molto più di fede,| lieve di pianta e molto più di core.|| Oh che bei labirinti ordir si vede| con vario stil, ma con eguale onore,| Dedalo con la man, Lilla col piede!” Ma non sempre è così: lo vedremo nella prossima nota. [24] Continua la nota sui “minori e minimi marinisti”, completando il quadro di Giovan Leone Sempronio. Talora il lirismo riesce a permeare una, due strofe del sonetto; poi la finale epigrammatica tradisce l’intento prevalente della composizione: sbalordire con l’accostamento...improbabile: “Stuol di fanciulle in giro accolte| davanti a la mia Clori un dì sedea,| ed ella molte in tesser tele e molte| in far trapunti ad instruir prendea||.....|| -O ténere- diss’io- vaghe donzelle,| ch’or questi ite annodando or quei lavori,| ch’ite pungendo or queste tele or quelle;| guardate ancor non imparar da Clori,| nemiche di pietà, d’amor rubelle,| a punger l’alme, ad annodare i cori”. Nell’altro sonetto “La sua donna giocava ai dadi” sono forti le quartine (“Quelle, che in mezzo a spettatrice schiera| picciol’ossa, giocando, agiti e tiri,| denti fur già de la più vasta fera | che ne’ gran lidi suoi l’India rimiri.|| Quindi, s’a loro il tuo pensier raggiri,| o mia dolce d’Amor bella guerriera,| t’avvedrai dove al fin termini e spiri| orgolgiosa beltà, fierezza altera” ), ma le terzine si sperdono nel confronto tra la magra fine della ferocia nella tigre (i denti ridotti a dadi da gioco) e della crudeltà nella donna ( i suoi dinieghi divenuti motivo di riso). Ma più spesso la ricerca dell’impensabile coincidenza degli opposti (figura retorica dell’ossìmoro) prende decisamente il sopravvento. Ecco le terzine del sonetto “Non poteva aver dalla sua donna altro che sguardi”: “Miro morendo ogni or, moro mirato;| ed usurpando i propri uffici al core,| amo con gli occhi e son con gli occhi amato.|| Or chi dirà che in tenebroso orrore| abbia d’oscuro vel l’occhio bendato,| s’altro non è che un solo sguardo Amore?”. La sua donna, fasciati i capelli appena lavati, sembrerebbe un turco col turbante, se non ci fosse una diversità: “Ma differente è sol quello da questa,| ch’ella due soli interi in fronte porta,| e mezza luna a lui riluce in testa”. E ch’egli sia servo della sua donna, (“quanto barbara più tanto più bella” ) lo ripete alla noia nelle terzine del sonetto su “La bella serva”: “Tu serva, io servo. Al tuo gentil signore| tu stai soggetta, al mio soggiaccio anch’io;| tu porti lacci al piede, io lacci al core.|| Ma in ciò lo stato tuo vario è dal mio:| tu serva di Fortuna ed io d’Amore,| tu d’uom mortale, ed io di cieco dio”. Altri sonetti chiedono rispetto e pace sulla tomba di un grillo che, “ maestro” ed “inventor del trillo”, ha aiutato i sonni del poeta in vita. Altri ancora sottolineano il contrasto fra bianco e nero della sua donna: “Mentre de l’idol mio contemplo e scerno| il bruno ammanto e’l candidetto viso,| l’un mi par co’ suoi raggi un paradiso,| l’altro con l’ombre sue parmi un inferno”: Concludiamo segnalando un sonetto sulla facilità a rivelare lo stato d’animo interno, attraverso indizi anche involontari (“lapsus” diremmo noi, oggi). Ecco le due terzine: “L’occhio dell’uom è una finestra aperta,| onde si puote ogni suo chiuso affetto| ed ogni voglia sua mirar scoperta.||Un cenno, un gesto, un movimento, un detto,| testimonio assai buon, prova assai certa| pòn far altrui di ciò che chiuda il petto”). Gianfrancesco Maia Materdona : è un pugliese, di Mesagne, membro dell’Accademia degli Umoristi, in Roma. Ecclesiastico di cui non si hanno notizie precise neppure sulla nascita e morte, scrisse anche opere educative (Le lettere di buone feste, 1624; L’utile spavento del peccatore, 1629) e alcune raccolte di versi: Rime pescherecce (1628), Rime (1629), Rime nuove (1632). Che sia duro, aspro nelle rime, lo confessa più di una volta il poeta stesso, pur attribuendo la loro drammaticità ad altre cause che non la propria natura. Ecco il madrigale “Dono di rime”: “Le chieste rime invio: ma sien degne di scuse e di perdòno,| se dolci elle non sono.| Nascer da spirto in amarezze immerso| già non può dolce verso.| Fa’ ch’io giunga una volta| ai dolci labri tuoi| quest’alma amara, in un sol bacio accolta:|ch’ella saprà da poi,| presa la qualità ch’oggi non have,| verso formar soave.” Finisce così un altro madrigale a Fulvio Testi: “ Amor m’ha punto e morso, divino animaletto:| se’l dolce suon diletto| di tua lira ingegnosa or non m’aìta,| non avrà pace mai l’aspra ferita”. Reo confesso di asprezza espressiva, neppure l’enfasi o il concettismo riescono a spegnere del tutto la la forza del sonetto su una zanzara: “Animato rumor, tromba vagante,| che solo per ferir talor ti posi,| turbamento de l’ombre e de’ riposi,| fremito alato e mormorio volante;|| per ciel notturno animaletto errante,| pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi;| invan ti sforzi tu ch’io non riposi:| basta a non riposar l’essere amante.|| Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza| vattene; e incontro a lei quanto più sai| desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.|| D’aver punta vantar sì ti potrai| colei ch’Amor con sua dorata frezza (freccia)| pungere ed impiagar non potè mai”. Conosce anche accenti tendenti alla epicità, per l’arrivo del “Primo maggio” o per celebrare la felicità del suo amore. Riportiamo quest’ultimo: “La ninfa sua d’orgoglio amica e d’ira| altri pur chiami e rigida e ribella;| s’io miro la mia ninfa, ella mi mira;| s’io d’amor parlo, essa d’amor favella.|| S’io rido o scherzo, e scherza e ride anch’ella;| piange ai miei pianti, ai miei sospir sospira;| s’io lei mia gioia, essa mio ben m’appella;| vuol ciò ch’io vo’, ciò ch’io desio desira.|| Ella è ver’ me pietosa, i’ ver’ lei pio;| de’ suoi cenni io fo legge, ella de’ miei;| ella a me cara e caro a lei son io.|| Ella tutta in me vive, io tutto in lei;| io spiro col suo spirto, ella col mio;| e s’a lei do tre baci, ella a me sei”. Dramma sufficiente traspare anche dalle antitesi per gli incurabili di Napoli, tra cui egli prende di mira quelli affetti da sifilide e, quindi, ammalati per colpa ed imprudenza propria: “Ahi mondo, ahi senso! or ve’ qui tanti e tanti| in tende anguste, ancor che auguste, accolti!| Di profana beltà fur tutti amanti,| tanto or tristi e meschini quanto pria stolti.|| Per picciol riso hann’or continui pianti,| portan l’inferno ai cor, la morte ai volti,| vita speranti no, vita spiranti,| morti vivi e cadaveri insepolti.|| Questi è in preda al martìr, quegli al furore,| un suda, un gela, un stride, un grida, un freme,| un piange, un langue, un spasma, un cade, un more.|| Quinci impara, o mortal: dolce è l’errore,| breve è il gioir; ma pene amare estreme| dà spesso al corpo, eterne sempre al core”. Antonio Bruni (Manduria –Lecce- 1593; Roma, 1635). Segretario dei Della Rovere ad Urbino, amico del Marino e suo imitatore, autore di rime raccolte ne “Le tre Grazie” (1630), è intricato nel suo concettismo che lascia del tutto indifferente il lettore. I due sonetti riportati confermano il giudizio del Ferrero “imitatore del Marino, di assai scarsa originalità”. L’autore incerto, di cui la Ricciardiana riporta quattro sonetti dalla Raccolta di Giacomo Guaccimanni (Ravenna 1623), si esaurisce nei concettini: il sonetto “Per una mora veduta alla finestra con bella donna” è basato sul contrasto fra sole e luna, notte e giorno, luce e tenebre, splendori e orrori (anzi genera l’ossimoro “splendidi orrori”); quello in cui “Bella donna, andando in carrozza, fu rivolta nel fango” consola la luna per le sue macchie, “or che tutto macchiato è il sole ancora” (il viso della donna, naturalmente!); ecc. Scipione Errico (messinese, 1592-1670: attivo a Roma e Venezia; autore della commedia “Le rivolte di Parnaso” oltre che delle “Poesie liriche”). Questo è veramente verseggiatore sensuale, perchè proclama in Contra l’amor platonico “Ceda al tatto la vista, al labro il lume (gli occhi)”. Pure non siamo ai termini erotici espliciti del Millecinquecento. D’altronde, oltre a tali spunti di lascivia, ha da esprimere soltanto i ritriti concettini, la solita girandola di immagini sregolate. Prendiamo una sola ottava dal poemetto “La via lattea” in cui vuol cantare la trasformazione, in quell’ammasso di stelle, di ninfe bellissime e senza vestiti ammirate da Giove, in vena di vagheggiamenti non puramento estetici: “La donna è un ciel: -diceano- ha il capo aurato,| di Berenice i lucidi capelli;| porta ne gli occhi il Sagittario armato,| porta ne gli occhi i lucidi Gemelli;| gli occhi, ond’ è vago un Orion formato,| gli occhi, Soli de l’alma amati e belli,| gli occhi che, vòlti, in varie e gentil arti,| sembran Veneri ed Orse e Giovi e Marti”. [25] Oltre le rime interne nella prosa-poetica e nei versi, si possono notare le allitterazioni, bisticci di parole, ecc. Il Croce cita un autore spagnolo, padre G. Caramuel, che nella sua opera “Metametrica” del 1663 scriveva una prosa (anche lui!) “leporeambica”: la lettura annoia subito, altrimenti ci sarebbe da schiattare dalla compassione o dalla rabbia. Noi, invece, continuiamo la lettura dei minori secentisti. Biagio Cusano (di Vitulano, Benevento: nel 1636 pubblica le rime col titolo Armonia) ha un sonetto tra il serio ed il faceto per un uomo che finalmente si è rasa la barba, come ha desiderato la cortigiana, sua amante: il risultato è deludente perchè eliso dalla duplice, contrastante intenzione. Giovanni Andrea Rovetti (genovese, pubblicò nel 1625 i “Mormorii d’Elicona”): suggerisce ma si vergogna (pudore sincero o convenzione sociale?): “Tu chiedi quel ch’io voglio,| quando a mensa talor ti premo il piede?| Ah che ne gli occhi ogni tuo sguardo il vede!| Lusingando t’infingi,| e ’l bianco volto in bel rossor dipingi.| Vorrei, dolce mio ben...| Lasso, ch’ a dirlo, m’arrossisco anch’io!” Bartolomeo Tortoletti (di Verona, pubblicò le Rime –1645- molto dopo il poema Giuditta vittoriosa -1628) suggerisce in un sonetto l’ipocrisia per salvare l’onore della donna: “Lilla, fa’ a modo mio; non ti dispiaccia| ch’io ti venga a trovar sì parcamente| ch’altri non creda i nostri amori e taccia”. Ma non è poi così sicuro che la ipocrisia nasconda l’erotismo: la quartina precedente ha due affermazioni che paiono contradditorie: “Amiamoci di buon cuor: queste le vere| parti son d’amor puro, amor celeste.| Oh bell’inganno ad altrui fa chi veste| gli amorosi pensier d’arti severe”. Mbeh?! Paolo Giordano Orsino (di Bracciano, 1581-1656): nelle Rime del 1648 ha un sonetto sulla “Bugia”, che fallisce per le troppe intenzioni: a parte le circostanze che danno alla menzogna valori morali diversi (dalla barzelletta alla adulazione), vi si celebra il modo di vestire, perchè esso denuncia inequivocabilmente la inclinazione del nostro animo politico (o filofrancese o filospagnolo). Michelangelo Romagnesi ha un sonetto sulla Tomba, che ha una seconda quartina citabile (“Ad erger tombe Egitto età consumi;| ciò che i secoli fanno, un dì risolve:| tutte un oblio le umane cose involve,| come in sè accoglie il vasto mare i fiumi”), mentre il resto è rovinato da reminiscenze mitologiche. Gennaro Grosso (di Napoli, è autore di due volumi di rime: La Cetra, del 1650 e L’arpa febea, del 1656): il sonetto sui Santi Innocenti è debilitato dai concettini, di cui riportiamo l’ultimo: “pargoletti vassalli a un rege infante, |guerrier fanciulli a capitan bambino”. Antonino Galeani (nessun dato rintracciabile: le sue rime sono riportate in una Raccolta curata da Giacomo Guaccimanni già nel 1623, a Ravenna: si tratta ovviamente di autori del primo Seicento) è maliziosamente reticente (Sii cauta, o bella; di quei nastri ei trama| lacci a l’onore; e, credi a me, n’avrai,| via più che fregio al crin, sfregio a la fama;|| chè l’indegno amator già tra’ caprai| gloriando si va (vedi se t’ama!)| ch’avranne in cambio... Io nol vuo’ dir: tu’l sai!”. Anche Cesare Abbelli (Bologna, 1604-1683: scrisse il poema Il seno di Abramo; una tragedia intitolata La Gerusalemme liberata; e le Rime) si descrive come felice “Amante che va di notte”, ma ciò che deve sorprendere non è la introvabile lascivia, ma quella empietà che nel tardo secolo va presentandosi coi termini di “idolo e adorare” e che si diffonderà nel classicismo del secolo seguente. Ecco l’ultima terzina: “Così con nova idolatria, ne’ giri| del cielo il bel di quel sembiante adoro,| favellando tra lor gli occhi e i sospiri”. “Idolatria” sarà proprio il termine usato dal Manzoni per motivare il rifiuto della mitologia e la preferenza accordata al romanticismo! Anche Anton Giulio Brignole Sale (genovese, fattosi gesuita a 47 anni e morto nel 1665 a sessanta anni) riproponendo il tema de La Cortigiana frustata, sembrerebbe inclinare a sadico erotismo. Macchè! Come il Giovannetti (“Bella cortegggiana frustata”) , egli è alla ricerca di concettini: stavolta è il rapporto rovesciato tra il cuore ed il sangue (“In quelle piaghe agonizzando ei langue;| ma nel languir non è il primier costume| che il sangue corra al cor: ei corre al sangue”). Discreto nella elegia, tranne la prima quartina, il sonetto “Per la morte di Emilia Adorni Raggi”: “De l’arrabbiato Can sotto i latrati,| sotto il ruggir de l’anelante fiera,| io t’ho visto esalare, o primavera,| di moribondo odor gli ultimi fiati.|| E pur sorgi di nuovo, e i pregi usati| teco hai di molli fior, d’aura leggiera:| rinascer tosto entro la guancia altera| miro di rose iblee gli ostri beati.|| Ma d’Emilia gentil che si morìo| più non vedrò le belle guance e i rai,| dove un april rilusse, un sol fiorìo.|| De gli anni tuoi, mia vita, or che farai?| Vengan pur rose, escan pur gigli, oh Dio,| ch’un aprile per me non fia più mai!” In Pietro Michiele (poeta veneziano del primo Milleseicento, membro degli Incogniti, le lodi all’inverno si fondano sulla pochezza delle fatiche e il maggior tempo libero ai piaceri, fra cui quelli venerei sono accennati indiscretamente nella seconda strofa della canzonetta. Invece in un sonetto di Antonio Fortini (Amante segreto) si elogia un amore così aereo da non osare neppure manifestarsi (“Chi dolce canta e chi lodato scrive| offra sue rime a bella donna in dono| e scopra del suo amor le fiamme vive.|| Io, che solingo amante e muto sono,| queste oscure mie note e di suon prive| al silenzio consacro, a l’ombre dono”). Questo sonetto richiama una realtà più frequente di quanto il lettore moderno sospetti: si tratta di amori imitati dietro l’esempio del maestro Petrarca, ma che sono tutt’altro che reali. Per almeno due di questi autori siamo sicuri, per loro confessione esplicita: Girolamo Fontanella (Amor finto) e Giuseppe Battista (Che l’amor suo è finto). Giuseppe Salomoni (di Udine, si ignorano altri dati: scrisse Delle Rime, Parte prima e Parte seconda: 1615 e 1627). La sensualità si rivela nei sonetti “Sguardi, abbracciamenti e baci”, “Baci mordaci”, “Ninfa che si ciba di fragole”. Citiamo le terzine sia del primo sonetto “Bramo in Argo novello esser rivolto,|di farmi un Briareo sarei contento| e’l volto de la Fama aver nel volto:|| per mirar te con cento lumi intento,| per serbar te con cento braccia accolto,| per poterti baciar con bocche cento”; che del terzo: “O bocca, alta cagion de le mie faci,| quanto somigli il cibo delicato| di cui pascer te stessa or ti compiaci!|| De le fraghe hai l’odor nel dolce fiato,| de le fraghe il sapor ne’ cari baci,| de le fraghe il color nel labbro amato”. Ma pel Salomoni non si può tacere del concettismo: egli può venire a competizione con l’Artale e col Pers per il Nobel della temerarietà nelle metafore con la finale “a razzo” del sonetto “Stato umano” “L’uomo è nel mondo un corridore umano(!),| e’l cavalier che l’ammaestra è Dio,| che, se talvolta egli si fa restio,| col piè lo spinge in corso e con la mano.||E se talor, precipitoso insano,| s’avventa ove’l trasporta il suo desìo,| con duro fren, che di sua mano ordìo,| dal mortal precipizio il tien lontano.|| E se superbo calcitra e sdegnoso,| stancandolo per strade alpestri e felle| nel maneggio si fa più rigoroso.|| Se poi gli scopre alfin sue vogli ancelle| e corre seco al ciel, gli dà, pietoso,| biade d’eternità, stalla di stelle”. Del resto, sensualità e secentismo a parte, il Salomoni è piuttosto faticoso nella espressione, che lo costringono a circonlocuzioni e lo inducono a lunghe canzoni, in cui si dice proprio poco pur con molte parole e sfoggio di immagini. Ecco l’inizio di quella su “La Cicala”: “O rauca sì, ma rara,| stridola sì, ma cara,| de la dea biondeggiante| messaggera volante;| de la stagion più fruttuosa e calda| canora insieme e strepitosa aralda;...”. Bernardo Morando (genovese, visse qualche tempo a Parma, presso i Farnese; morì nel 1656). Le sue opere complete sono divise in quattro parti nella edizione definitiva, postuma, del 1662: Fantasie poetiche; Poesie drammatiche; Poesie sacre e profane; La Rosalinda (romanzo). Come ispirazione, egli spazia dal paesaggio all’amore, alla religione. In tutte le espressioni ha un timbro drammatico, che svaria dal viraggio epicizzante al lamento sofferto della tragedia. Il tema amoroso genera qualche verso che lascia sospettare desideri erotici, che però si concretizzano in accenni di immodestia nella descrizione della donna (“China il sen, nuda il braccio, accesa il volto”; cfr. anche “Bellissima natatrice”): ma non si va oltre questi lapsus momentanei. Anche perchè il tema si risolve per lo più in concettini o iperboli o immagini squinternate. Il Morando è tra i più inventivi, insistenti e fastidiosi creatori di ingegnosità secentesce. E succede allora la solita doppia dissolvenza: il paesaggio primaverile e l’incanto amoroso si soffermano sui particolari “aspri e selvaggi” dell’inverno che se ne va o sul diniego della donna gelida e severa (Il primo giorno di maggio); viceversa, il paesaggio estivo può mantenere nostalgie di dolcezze e soavità (Invito alla poesia, nel principio della State); anche i temi sofferti soffrono (!?) poi di barocchismi che ne impediscono l’approfondimento e la intensità (Per la beatissima Vergine...). Esemplifichiamo. Ecco il poeta divenuto “Amante vagheggiator con gli occhiali”, perchè le lacrime nate dal rifiuto della donna si sono trasformate in cristalli, necessari agli occhi abbagliati dal sole d’amore: “Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto,| di sferici cristalli i lumi armai;| chè se per te mancò già spirto al petto,| or luce agli occhi, ecco mi manca omai.|| Fui lince pria, ma poi gli occhi alzai| de’ tuoi begli occhi al troppo chiaro oggetto,| quasi gufo dal sol vinto restai:| nacque da la tua copia il mio difetto.|| Indi per tua fierezza io piansi tanto,| che questi umori incristalliti in giro| da le vene del cor trassi col pianto.|| Ma che pro, s’a me l’alma onde t’adoro| manca, non che la luce onde ti miro?| Se miro, abbaglio, e se non miro, i’ moro”. Grazie all’ultimo verso (in cui si noterà l’uso medio-passivo della voce “abbaglio”: “vengo, rimango abbagliato”) anch’egli merita un posto accanto al Pers, al Salomoni, all’Artale, come inventore di una fra le più geniali trovate barocche! Sovente, per assicurare la dimensione drammatica alle rime amorose, sceglie donne mal messe nella salute, nel fisico, nella fortuna (“Bellissima spiritata”| “Bellissima donna cui manca un dente”| “Febbre maligna di bella donna”). In questo, il Morando si pone a lato di Giovan Leone Sempronio (“La bella zoppa”, “La bella nana”, “La bella serva”). Il tono epicizzante si smorza per il ridicolo della situazione nel “Nano gobbo, bravo, innamorato, di nome Amico”: la ingegnosità si rivela nella distanza fra la realtà del corpo deforme e le pretese virtù del soggetto. Ecco qualche strofa della canzonetta: “S’al di fuori altrui son scherno,| ne l’interno| non la cedo al magno Atlante:| picciol son ne la sembianza,| ma in sostanza corpo nano ha cor di gigante||.... Poco son, ma tutto core,| e timore| non alberga nel cuor mio;| temo sol quando m’assale| col suo strale| picciol nano qual son io.|| Questo è Amor, che, pargoletto,| al mio petto| guerra fa con forze estreme:| ei mi fere e strugge in duolo,| m’arde, e solo| tal nemico AMICO teme”. E’ ancora la ricerca della meraviglia espressiva attraverso le antitesi, le ripetizioni o le iperboli (esagerazioni) che attutisce il valore del sonetto “Nulla in amore appaga”: “Ben veggo, Amor, che il cibo tuo non pasce,| o pur pascendo accresce fame al core;| a pena un tuo desio tramonta e muore,| Ch’un altro sorge e pargoleggia in fasce.|| Un sol desio che muore avvien che lasce| ben cento eredi, ognun di sè maggiore:| idra se’ tu di mille capi, Amore,| a cui più d’uno, al troncar d’un, rinasce.|| Sei di Tantali mille un lago Averno,| una ruota immortal d’alme meschine,| dei cori umani un avvoltoio eterno.|| Sei mar che non ha termine o confine,| confin di questa vita e de l’inferno,| inferno in cui l’ardor non ha mai fine”. A conferma che il Morando ha voglia di scherzare stanno i due sonetti contrapposti “Il bacio appaga” e “Il bacio non appaga”. La canzonetta “Per la beatissima Vergine... che calpesta il serpente infernale” pecca per l’eccesso di realismo nella parte prima (strofe 1-3), che descrive la bruttezza e malvagità del demonio (“Squallido, atroce, immondo,| di mortiferi fiati ingombro e pieno,| ad infestare il mondo| spira l’Angue d’Averno ira e veleno;| e da l’infame strozza| vomita rabbia e spuma orrenda e sozza”); pur molto migliore, anche la seconda parte si svilisce (strofe 4-6) per le antitesi insistenbti con cui il poeta espone la miserabile condizione umana di inferiorità al tentatore (“ Egra, colma di guai,| o nostra umanità caduca e frale,| misera, onde avrai| ostacolo al furor, rimedio al male?| Tu vil, forte è il nemico,| tu guerriera inesperta, egli oste antico.|| Non pugna in campo aperto,| ma tende insidie al pie’ tra l’erbe e i fiori;| d’arte e di frodi esperto,| col velen del peccato ancide i cori.| Sallo Eva, onde siam tutti| per infetta radice amari frutti.”; nella terza parte (strofe 7-8), che è preghiera alla Madonna, ritornano ripetizioni, crudezze, iperboli, rime sofisticate (“O del celeste impero| Tu che reggi lo scettro, Imperadrice,| schiaccia al nemico altero| col poderoso piè l’empia cervìce;| calca il pestifero angue,| e dà salute a chi per lui già langue”) o giochetti di parole, che rovinano la finale di una strofa -l’ultima- che ha un paio di versi di incipiente accoramento (“Diva del ciel, ben puoi| al ribelle del Ciel frangere il dorso;| a’ tuoi divoti, a’ tuoi| miseri infermi, ah! non negar soccorso.| Soccorri: hai ben virtute,| tu che Salute sei, di dar salute”. [26]Il “dilavato manoscritto” Giovanni Getto lo ha forse ritrovato nella Historia del cavalier Perduto di Pace Pasini. Proseguiamo con gli ultimi poeti marinisti e coi due criteri di indagine (sconcerto tra motivi e musicalismo| sensualità eventuale) sulle loro composizioni. Paolo Zazzaroni ( nativo di Verona, pubblicò nel 1641 le sue liriche col titolo secenteggiante: Giardino di poesie, distinto in Mirti, Viole, Rose, Allori, Cipressi, Spine, coltivato da P. Z. Si deve riconoscere la tempra drammatica del verseggiatore, come mostra l’unico sonetto univoco nel motivo ispiratore (“Verno”) e nel tono drammatico: la sufficienza poetica gli è negata dai ghiribizzi secenteschi: esagerazioni (orrido, fiero) e metafore sproporzionate (il cimiero degli alberi, cioè le loro frondi; austri baccanti, cioè venti tempestosi): “Nel partir de l’autunno a noi ritorno| fa di repente il verno orrido e fiero;| e già col suo stendardo oscuro e nero| torna la Notte a trionfar del Giorno.|| La quercia, il cerro e con l’abete l’orno| depongon de le frondi il bel cimiero;| e quel ch’era di fior vago sentiero| già molle di pruìne appar d’intorno.|| Da le piagge del ciel piogge sonanti| grondano al suolo in rapidi torrenti,| e fremono per l’aria austri baccanti.|| Misero! ma tante acque e sì gran venti| per eterno mio mal, non son bastanti| a spegner del mio cor le fiamme ardenti.” Per l’assenza di tali difetti, almeno alcuni dei 129 epitaffi da lui scritti per personaggi famosi, reggono discretamente, come questo per Diogene: “In questa tomba umìl Diogéne stassi,| dal doglio (botte) sùo qui trasportàto a torto;| ma perchè si temea ch’ancor che morto| mordesse altrui, rinchiuso fu tra’ sassi”; e questo per Cane e Gatto: “Morgante ed Aquilin quest’arca serra,| quella d’ugna crudel, questo mordace.| Fur vivendo nemici ognor in guerra;| qui siedon doppo morte amici in pace”. Il contrasto, invece, rovina il resto della produzione, assumendo spesso la forma di incertezza, segnalata dalla congiunzione “Ma” che introduce una diversa interpretazione della situazione (“Ma mi disse un pensiero: Indarno prega| costei, che sì crudel m’affligge ognora;| chè non trova mercè chi altrui la nega”; “Ma teco forse a torto ora mi sdegno...”; “Ma credo –e’l mio pensier s’accerta a l’opre...”). Interviene per altro anche la contraddizione fra argomento comico e tensione seriosa (addirittura epicizzante) del canto: così una “pulice” che morde il seno alla sua donna è celebrato come guerriero vittorioso, punitore della crudeltà di lei; un’altra pulce (o la stessa?) canta come eroica la propria esistenza, in un sonetto-epitaffio al suo sepolcro! Il titolo del sonetto al primo di questi pidocchi ne indica la sensualità (“Ad una pulice, per cagione della quale vide scoperto il seno a bella donna”), che si riduce però ad un solo verso nella prima quartina, che si limita a ripetere la imposta immodestia indicata nel titolo: “Tu ch’avido di strage il piè leggero| per dolci prede a la tenzon movesti,| e da quel sen le spoglie alfin togliesti, quasi in trionfo intrepido guerriero...” : il resto del sonetto è focalizzato sull’animale battagliero! Federico Meninni (di Gravina, 1636-1712: fu medico ed operò a Napoli). I cinque sonetti offerti dalla Ricciardiana (pp. 1048-51) rivelano una temperie drammatica , sia tragicizzante (Fugacità dell’uomo| La bugia regina del mondo) sia, soprattutto, epicizzante (Il pavone| La carta geografica), messa in scacco non tanto dal tema amoroso, appena presente, ma dal concettismo balordo. Eccolo all’opera, in particolare, nelle terzine de “Gli alberi e la sua donna” (“Parla a te sospirando il pero, il moro,|mentre par che sue frondi in lingue cange:| -Io péro, o Nice; innnamorato, io mòro.-|| Il pesco, acceso, il proprio sen si frange;| per te serba l’arancio i pomi d’oro,| per dolcezza d’amor il fico piange”). Lo si ritroverà anche alla fine dei due sonetti che riportiamo perchè, nel complesso, sufficienti nel tono drammatico-risentito, che rivela, anzi, residui di grandiosità vicina all’epica, il tono più consono al Meninni. Ecco “La fugacità dell’uomo”: “Questi libri, da cui più cose imparo,| e che divoro anco di Lete a scorno,| altri, per innalzar forte riparo| contro l’oblio, divoreranno un giorno.|| In questo albergo, in cui ricovro ho caro,| mentre le cure a riposar qui torno,| se’l ciel non fia di sue vicende avaro,| altri faranno in altra età soggiorno.|| In questo letto, ove fra l’ombre assonno| perchè rechi a’ miei sensi alcun ristoro,| altri ancor chiuderà le luci al sonno.|| Quindi rodermi il cor più d’un martòro,| solo in pensar che qui durar ben ponno| cose che non han vita, ed io mi mòro!”. Ed ecco la requisitoria contro La bugia: “Sol menzogne ravviso ovunque il guardo| de l’intelletto e de le luci io giro.| Se d’un nume terren la reggia io guardo,| mille di falsità ritratti io miro;|| se’l piè talora entro i musei ritardo,| iperboli dipinte, i lini ammiro;| lusinghiera beltà viso bugiardo| m’addito, allor che a vagheggiarla aspiro.|| Turba di fole entro i licei dimora,| nè di finte apparenze il cielo è avaro, quando a l’iride un arco il sol colora.| Ma che giova schernir gli altri che alzaro| trono superbo a la bugia, se ancora| bugie da Febo, io che ragiono, imparo?”. L’inizio di quest’ultimo sonetto sarà ripreso dal Metastasio (“Ovunque il guardo io giro| immenso Dio ti vedo...”); la finale presenta una motivazione scialba (l’arcobaleno) in una immagine mitologica giocata infelicemente, tanto da apparire inattinente. [27] Proseguiamo coi lirici minori marinisti. Lorenzo Casaburi, di Napoli, pubblicò nel 1669 Le quattro stagioni (La primavera, Suggetti amorosi. La state. Suggetti eroici. L’autunno. Suggetti morali. Il verno. Suggetti lugubri e sacri). Costui rivela tentazioni sensuali frequenti: basta contare le volte che parla (anzi, scrive) dei “seni” della donna e degli “abbracciamenti” con lei; o leggere i due sonetti di donne irritate o contro il marito filosofo che trascura i piaceri del matrimonio (“Amori e vezzi entro le carte accogli,| e di sdegni e rigor mi colmi il core;| legando i carmi in musico tenore,| le braccia dal mio sen, lassa! disciogli.”); o contro quello guerriero che vuol partecipare ad una spedizione contro i Turchi (“Ma di penne, a fuggirmi, il capo adorna;| chè porterai nel tuo trionfo altero| della luna ottomana ambe le corna!”). Ma più forte, nel verseggiare, è il fascino dell’arguzia, specie nella finale della strofa, che smorza anche la lascivia. Ecco un calembour nella terzina di chiusura del sonetto per il “Dono di un opale a bella donna”: ora al petto vi sono due “mostri”, quello delle gemme e quello dei seni! Altrove (“Consolo bella donnna...”), egli conforta la donna, che si lamenta perchè l’orologio che porta sul petto si è fermato, ipotizzando una vittoria sul Tempo, che si sarà bruciate le ali di fronte alla sua bellezza o si sarà raggelati i piedi di fronte al rigore del cuore crudele di lei verso gli amanti: in ogni caso la donna non invecchierà più... In una specie di oraziano “Exegi monumentum aere perennius”, egli si vanta di aver ottenuto, coi suoi versi, trionfi quali neppure Orfeo (che con il suono della lira placò l’inferno, riuscendo dapprima ad ottenere la liberazione di Euridice) ha potuto raggiungere: egli si trascina dietro “cieli di beltà”, cioè donne di celeste belelzza (“Mi glorio di me stesso”). Se vuol condannare la ipocrisia di Clizia, non trova di meglio che metaforeggiare per dodici versi su fenomeni celesti illudenti (arcobaleno, lampo) su animali ingannatori (dal serpente al cigno, dal polipo alla talpa...). Più riuscito è il sonetto ove la lascivia è confinata sullo sfondo (A bella donna che fa molti giochi sulla corda) mentre nel descriverne i giochi ginnici ha modo di esprimere la congenialità privilegiata del suo spirito colla sfera drammatica delle emozioni: “Corre Clorinda in sui ritorti lini| qual per l’aeree vie stella cadente,| e formano un meandro aureo lucente,| agitati dall’aure, i suoi bei crini.|| Or non sospiro più gli orti latini,| ch’in aria architettò la prisca gente,| s’in un florido qui volto ridente| godo più belli i penduli giardini.|| Cade e sorge in un punto, onde deriso| vien l’occhio altrui, mentre gli dona e fura| del suo vago sembiante il paradiso.|| E quindi istupidito ogni uom la giura,| del piede al moto, alla beltà del viso,| miracolo dell’arte e di natura”. Pietro Casaburi Urries, di Napoli, scrisse anche una interessante trattazione sulla metafora, in una lettera a mons. Caramuele; e due raccolte di rime Le saette di Cupido (elegie amorose) e Delle Sirene (Poesie liriche: entrambe del 1685). In una delle elegie (quartine di endecasillabi a rima ABBA) mette in versi I gemiti d’Enone abbandonata da Paride, ispirata dalle solite Heroides di Ovidio. Retorica (quattro strofe di domande retoriche) concettini (“Di Gnido (Venere) alimentando in sen la piaga,| ch’aperta fu da due pupille arciere,| se un dì volasti ad impiagar le fiere,| la gran figlia d’un cigno (Elena, figlia di Leda, mutato in cigno) oggi t’impiaga”) non testimoniano di grandi commozioni, e rivelano in compenso una certa sensualità. Questa ritorna altrove, anche nel sonetto Veggo per tutto argomenti di pensare alla mia donna, dove interessano però più i primi due versi (“Ovunque, o Nice, io le pupille aggiro,| delle bellezze tue veggio l’imago”), che possono aver ispirato il Metastasio (“Ovunque il guardo io giro, Immenso Dio Ti vedo...”). Di concettini se ne trovano a bizzeffe. Galatea che piange su Aci trasformato in fonte, dopo aver invitato divinità e semidei a piangere sulla sventura, vuole condolente anche il sole: “per gli occhi in pianti il sol distempri il core:| chè il mio bel foco è trasformato in acque". Tommaso Gaudiosi, nato a Cava de’ Tirreni, compose le rime (L’arpa poetica) e una tragedia (Sofia, overo l’innocenza ferita). Ha due composizioni di argomento storico-politico e molte composizioni religiose e morali. E’ felice nella versificazione, chiaro nei pensieri, scorrevole nella musicalità; è solo moderatamente concettista, particolarmente sensibile ai problemi religioso-morali, ma è superficiale: non ha una potenza idealizzatrice (intelligenza) pari alla spontaneità emotiva, per cui non raggiunge la grande poesia. I versi citabili sono però molti. Ecco un paio di strofe dal sonetto Quanto più si vive, più sembrano brevi i giorni: “Un tempo, il dì, cui restringean poch’ore,| parea sì lungo a la tranquilla mente,| che l’ora non vedea che in occidente| tuffasse i raggi il luminar maggiore||....|| Già già parmi l’altrier quand’ero in culla;| or m’aspetta il ferétro, e ’n breve, ahi lasso,| sarò un mucchio di polve, e poscia nulla.||...”. Contro la rincorsa insaziabile del piacere, è detestata la nuova moda de L’uso del tabacco, che termina “Siam de la vita omai giunti a l’occaso!| Ha portato fra noi barbara polve| le delizie del mondo insino al naso”. Moralista convinto, dunque, scrive risentito circa la “Stravaganza di bella donna”, l’uso del “Guarda infante”, la “Infelicità della vita umana” (tanto “Ch’in ogni aspetto sensibile si rappresenta la morte”); oppure ammonisce “A bella donna, memoria di morte” o sulla “bellezza transitoria”. Alcuni di questi sonetti val la pena di riportarli, mentre lascia perplessi la canzone “La ragna. Che l’umane fatiche sono sparse al vento”. In essa non sa decidersi, infatti, se privilegiare la esaltazione (epopea?) delle fatiche umane o la tristezza (elegia?) della loro inutilità; nè riesce a fondere le due tonalità in commozione. Pure privilegia la esultanza epicizzante (un po’ teatrale, a dir il vero) nelle ultime due strofe: “D’un Alcide sognò l’antico mondo,| che per dodici sue famose prove| ascese al padre Giove,| prefissi i segni all’oceàn profondo;| ove, converso in nume,| splenderà sempre mai d’eterno lume.|| Ha pur gli Ercoli suoi, ma veri e santi,| questa età del Messia. Già già su l’etra| si solleva e penétra| chi di tante fatiche, affanni tanti,| con più nobile eccesso,| vinse la terra e trionfò se stesso.” (continua nella nota seguente). [28] Del Gaudiosi riportiamo tre sonetti. Il primo, sulla morte incombente, è ricco di concettini nella terzina finale: “S’alzo al canto la voce, o formo accento| o d’affanno o di gioia, il cor m’assale| un profondo pensier: che son mortale| e che la vita mia si scioglie al vento.|| Se giro il guardo al liquido elemento,| contemplo i moti del mio vivere frale;| se calpesto la terra, in cor mi sale| che m’appresta la tomba ogni momento.|| Se sollevo lo sguardo al ciel superno:| -E chi sa- con sospiri esclamo allora-| se n’avrò per mia colpa essilio eterno?-|| Così, senza morir morendo ogn’ora,| riconosco la morte in ciò che scerno:| tante volte si muor pria che si mora”. Il secondo (De le grandezze di Dio) è epicizzante, se pur il raziocinio prevalente raffreddi lo slancio celebrativo dell’Infinia Realtà : “Ignoto Dio che d’ogni parte splendi,| che senza loco in ogni loco stai,| tu che, non mosso, il movimento dai,| che compreso non sei, tutto comprendi;| tu che’n ciel regni e negli abissi stendi| l’essenza tua non circoscritta mai;| unica luce in triplicati rai,| che non sei foco e l’universo accendi;|| fosti sempre e sarai; ma propriamente| l’infinito esser tuo non fu nè fia:| sempre, astratto dai secoli, presente.|| Se tenta il volo inaccessibil via,| tu le forze avvalora, e si sostente| su lo spirito tuo la penna mia”. Il terzo è “Preghiera a Dio” (elegiaco nel complesso, anche se oscuro nei primi due versi della seconda quartina): “Signor de l’anno nubiloso e breve| de la mia vita instabile e volante,| ecco mi veggio omai la state avante,| e la bella stagion passata è lieve;|| e già l’avanzo, ch’al mio corso deve,| mentr’io ragiono, con alate piante,| scorre il Tempo fugace e poco stante| su la mia terra agghiaccerà la neve.|| Tu, sommo Sol che su gli eterni giri,| moderando le cose immoto splendi,| e’l mio termine ignoto aperto miri,|| sovra me un raggio di tua luce stendi,| con la cui scorta a l’alta meta aspiri;| e l’alma vaga al suo principio rendi.” Un sonetto d’amore (Tormentato per non poter mirare la sua donna) è vivamente drammatico, fino alla battuta finale concettista: “Guardan la donna mia con occhi cento,| disturbator de le delizie mie,| due furie amanti, due gelose arpie,| ch’a lei recan timore, a me tormento.|| Se volgo un occhio a rimirarla intento,| mi son cent’occhi osservatori e spie;| se vo’ parlarle, alle custodie rie| ogni picciola nota accusa il vento.|| Disperata mia sorte! e qual poss’io| sperar mercè, se capitale (motivo di pena capitale) è meco| una voce cortese, un guardo pio?|| Amor, soccorri: al tuo valor m’arreco.| Ma qual soccorso apporterammi, o Dio,| contra tanti occhi un difensor ch’è cieco?” Ed anche sofferto è Bellezza transitoria: “Donna, ti miro in questa età crescente| di tal bellezza e tante grazie piena| ond’è che posso immaginarmi a pena| che sii cosa mortal, pompa cadente.|| Quella fronte ch’agguaglia il dì nascente,| quella chioma che l’anime incatena,| e quanto veggo in te, dolce mia pena,| la bellezza del ciel mi fan presente.|| Ma quando penso, oimè, che poco stante| vedrà chi vive impallidite e smorte| quelle fattezze ond’or languisco amante,| m’è pur forza ch’esclami: -O Cielo, o sorte,| a che produr tante bellezze e tante,| per pascer gli anni e tributar la morte?”. Bartolomeo Dotti (Valcamonica, nel Bresciano, 1642|1651- 1713). Morì per il pugnale di un sicario, essendosi procurati molti nemici con le sue satire. Riportiamo il giudizio del Ferrero nella Ricciardiana: “Verseggiatore copioso, ha molte rime encomiastiche insignificanti per l’arte. Nelle sue rime d’amore o descrittive o moraleggianti prevale un laborioso barocchismo”. Commentiamo qualche sonetto tra quelli riportati dalle sue Rime. Ecco il secentismo estremo: 28 ossimori in 14 versi su “Occhi neri: “Luci caliginose, ombre stellate,| Luciferi ammorzati, Esperi ardenti,| Orioni sereni, Orse turbate,| mesti Polluci e Pleiadi ridenti;|| soli etiòpi e notti illuminate,|limpidi occasi e torbidi orienti,| meriggi nuvolosi, albe infocate,| foschi emisperi ed Erebi lucenti,|| ottenebrati lumi e chiare eclissi,| splendide oscurità, tetri splendori,| firmamenti in error, pianeti fissi,|| démoni luminosi, angioli mori,| tartarei paradisi, eterei abissi,| empirei de l’infenro, occhi di Clori!” L’ “Amante che prende tabacco in fumo per solllievo delle passioni amorose” termina con il razzo concettista: “con l’erba va la mia speranza in fumo”. Scherzosa è la prima parte e incerta fra dramma e riso la seconda, nel sonetto “Bella donna uccide una farfalla che le volava negli occhi”: “Farfalla innamorata, in cento voli,| Fille, su gli occhi tuoi si rivolgea,| dove, per non lasciarvi ardere soli| i cori, anch’ella incenerir volea.|| Aquiletta gentil, quasi tenea| fisse le pupillette in quei due soli,| augel del paradiso anzi parea,| che s’accostasse ai duo stellati poli.|| T’infastidì quell’innocente gioco;| e quando fe’ la semplice ritorno,| con la sua morte al tuo rigor diè loco.|| O viso d’ira al par d’amore adorno,| tralascia di portar ne gli occhi il foco,| se non vuoi le farfalle averc’intorno”. “A Sirmione” ha discrete le due quartine; poi, subentra il gioco di parole, che rovinano quel tanto di malinconia che, insidiata da intenzioni epicizzanti, pur affiora all’inizio: “Ognor che del Benàco io vengo e torno| per questa inferior pendice aprìca,| in te fiso le luci, o Sirmio antica,| già, di Catullo mio, dolce soggiorno.|| Tu, penisola umìl, che sporgi il corno| da la terra e da l’acque a gran fatica,| sì nota sei, mercè la musa amica,| che a più province, a più città fai scorno.|| Quel cigno fu di nominarti vago,| e col nomarti sol fu sì fecondo,| che fece del tuo nulla un’ampia imago. || Così ti pose per destin secondo| una striscia di terra in braccio al lago,| una striscia di penna in faccia la mondo.” Ancora migliore ci sembra il sonetto “Il Molino”, che pure smorza nelle troppe immagini la forza dell’epopea, nelle quartine e del dramma, nelle terzine: “Mole, d’un fiume in su le sponde accolta,|cozza in più rote a l’arietar de l’onda:| la primiera dà moto alla seconda,| e la seconda poi l’altre rivolta.|| Indi leva una selce, ove sepolta| con sollecito piè Cerere affonda,| e la granita sua chioma già bionda| in atomi canuti ecco disciolta.|| Tal noi del Tempo il vasto gorgo incalza:| la puerizia in gioventù risolve,| la giovinezza in mezza età trabalza;|| questa in vecchiezza, o mio Camillo, ei volve;| ed ecco del sepolcro allor c’inalza| la pietra in capo, e ci sfarina in polve.” Che se il tabacco offre ancora spunti per meditare sulla morte e secenteggiare nei paragoni sproporzionati (“tal in aria sospeso, è un fumo il mondo” sentenzia l’ultimo verso del sonetto: “Il tabacco in fumo”), invece il sonetto “Uomo povero e nemici prepotenti” è libero da ogni barocchismo e si protende alla sfida in tono schiettamente guerriero: “Nemici, eccomi in campo. Oggi fra noi| di virtù si contende e non di sorte.| In questa cedo, in quella no. Di voi| se più povero io son, non son men forte.|| Se, come al vostro piè, gli erari suoi| la Fortuna versasse alle mie porte,| voi chiedereste, o minacciosi eroi,| la vostra vita più che la mia morte.|| Ma, privo di ricchezze, anco incapace| forse d’armi son io? No; chè la terra| così a me come a voi ne fu ferace.|| A la mia povertà, che non si atterra,| se manca l’oro a procurar la pace,| non manca il ferro a proseguir la guerra”. Con simile coscienza, non meraviglia che cadde sotto il pugnale di qualche nemico. Andrea Perucci (di Palermo, 1651-1704) appare un concettista pervicace. Se vuol dire che cosa sia l’amore, egli lo distingue in due realtà opposte: “dei tuoi lumi è chiarissimo baleno,| atro fulmine in me, per cui m’infoco.|| Se in te lo miro, è tutto festa e gioco|; se in me lo provo, di miseria è pieno|...|| Sì, bella, vuoi saper che cosa è amore?| Specchiati, e’l mirerai ne gli occhi tuoi;| aprimi il petto, e me’l vedrai nel core”. E, nella vita, egli vede un groviglio di gioie e dolori, da richiamargli due figure opposte di filosofi: Democrito ed Eraclito: “Se Democrito stempra il core in riso| e s’Eraclito stilla il core in pianto,| il pianto di costui merita il riso,| il riso di colui merita il pianto.|| Ma se un’aura di duol fugace è il pianto,| effimero balen di gioia è il riso;| se ride Ciro e versa Creso il pianto,| piange poi Ciro, e di Tomiri è un riso.|| E’ l’orbe un embrion di riso e pianto;| del fato i giochi degni son di riso,| le miserie de l’uom degne di pianto.| Così congiunti sono il pianto e il riso| che scorger non si sa tra riso e pianto| se riso il pianto sia, se pianto il riso”: la troppa “bravura” non genera meraviglia, ma semmai ridicolo: oltre tutto, l’exploit di chiudere tutto il sonetto in due sole rime (le parole “riso|pianto) toglie musicalità, perchè l’orecchio umano non percepisce come rima musicalmente significativa il ritorno della stessa parola in fin di verso. Abbiamo trascurato, dei verseggiatori marinisti collezionati da G. G. Ferrero per la Ricciardiana, solo pochi nomi (Giambattista Pucci, urbinate, morto nel 1649; Giovan Battista Narducci; Ludovico Tingoli, di Rimini: 1602-1669; Paolo Abriani, di Vicenza, attivo fra il 1650 ed il 1663; Antonio Fortini, cui si è accennato per il sonetto L’amante segreto; e Martino Lunghi), le cui rime non ci son sembrate interessanti. Ma non possiamo trascurare La mosca nel calamaro di Emanuele Tesauro (Torino, 1591-1675: lo abbiamo già incontrato come teorico della poetica secentista), nel cui “Cannocchiale di Aristotele” sono conservate queste dieci quartine di endecasillabi a rima ABBA. E’ una sintesi di metafore sbracate ( la mosca è “augello infernal”...), di ripetizioni della stessa parola in sensi diversi (la mosca che fa andar la mosca al naso...), di contrapposizioni fra maschile e femminile (“musa” e “muso”), di antitesi forzate (“terra| e mare| arco e saetta| cavallo e cavalier...”), di paragoni spropositati (“ch’io somiglio ad Omero ed a Nasone”, cioè al cieco poeta greco ed a Publio Ovidio Nasone)... Eppure ha un residuo di efficacia drammatica, oltre ad un principio di comicità divertente: può essere considerata la “fiera” di virtù e difetti del poetare barocco. “Bevi, augello infernal, pugliese mostro (la tarantola),| sanguisuga volante, alata strega;| bevi a schiattabudella e va’, ti annega,| sporca arpìa della terra, in mar d’inchiostro.|| Tanto sangue m’hai tratto, orca vorace,| che come Erisitton vuote ho le vene;| nè di tua crudeltà presi le pene,| chè quant’empia e crudel fosti fugace.|| Senza pace nè tregua, atra Medusa,| di te stessa facendo arco e saetta,| cavallo e cavalier, tromba e trombetta,| bersagliasti il mio muso e la mia musa.|| Gittar la penna e rinnegar Parnaso,| percoter l’aria e schiaffeggiar me stesso,| quante fiate m’hai fatto? e come spesso| mi fe’ una mosca andar la mosca al naso?|| Anzi, mosca non sei: ma il fiero assilo| che Giunon mandò dietro alla baldracca| dal Tonante rival cangiata in vacca| ch’andò per rabbia a pascolar nel Nilo.|| S’io scrivo, in su la man scendi boccone;| se difendo la man, l’occhio è assaltato:| così gli occhi ho trafitti e’l naso enfiato,| ch’io somiglio ad Omero ed a Nasone.|| Trarmi il sangue e gli spirti, questo è un nulla;| ma sorbirlo e cacarlo per dispetto,| e sporcarmi la carta e’l mio concetto,| son pur cose da Ghetto e Carafulla.|| Ma quel dio che protegge in Elicone| l’onor de le Muse e de’ poeti,| con degna punigion t’ha posta in geti (ceppi, catene)| e un corno (calamaio fatto di corno?) per tuo scorno è tua prigione.|| Nel sacro inchiostro, onde l’ingegno ameno| riga gli orti di Pindo, intirizzita,| hai lasciato lo stral, l’ali e la vita,| e il latte delle Muse è il tuo veneno.|| Or voi con labra di tenaglie armate| correte a questa preda, o formiconi;| pulci, vespe, tafani e farfalloni,| a stuzzicar poeti oggi imparate!”. Si esigono applausi. Amen. [29] Per altri minori, cfr. Claudio Varese, Teatro, prosa, poesia, nella Storia della Lett. it., IL SEICENTO, Milano, Garzanti, 1976, pp. 570-1. [30] Il Varese, a pp.541-2 dello studio citato, così introduce alla vicenda: “Poliarte, imperatore di Costantinopoli, per amore della principessa Diana abbandona Tigrinda, regina di Trebisonda, la quale sposa Orcane e giura vendetta contro la famiglia di Poliarte... Nello stesso giorno e nella stessa ora... Poliarte e Tigrinda, già innamorati ed ora nemici, hanno rispettivamente due figli, Calloandro e Leonilda, tra di loro simili come gemelli e destinati a reciproco amore”. Carmine Jannaco, nel volume della Vallardiana citato nel testo (pp.527-8) la dipana più dettagliatamente: “Leonilda, principessa di Trebisonda, odia C., figlio dell’imperatore di Costantinopoli, ma insieme lo ama, sotto altro nome...C. compare come cavaliere sconosciuto a un torneo che si tiene nella capitale d’Armenia, Ismara, per le nozze di Arfileo, e vi dà prove straordinarie di valore cavalleresco. Intanto si prepara la guerra fra Tigrinda e Poliarte, genitori dei due giovani, separati da odio tenacissimo: uno scudiero ne racconta ad Arfileo le ragioni, ciò che dà luogo a una lunga digressione. Da Tigrinda nacquero gemelli Endimiro e Leonilda, nello stesso giorno nacque Calloandro. Di quest’ultimo, che si nomina Cavalier di Cupido, si seguono ora le vicende amorose ed eroiche. Cade in prigionia di Crisanta duchessa di Ossarena; Leonilda lo libera e se ne innamora, riamata, senza conoscerne la vera identità. La materia amorosa prende il sopravvento nella storia di C. che in abiti femminili convive con Spinalba, sorella del re dei Turcomanni Safar, e dorme con lei nello stesso letto. Nella prima edizione il cavaliere cedeva ai sensi, infrangendo il modello dell’amante cortese e fedele e, alla fine, del romanzo, al momemto delle nozze con Leonilda, giungeva in Trebisonda la fanciulla sedotta. Ciò fece scandalo e il Marini accomodò la narrazione, rendendo solo apparente l’infedeltà di C. Il giuoco dei travestimenti, degli scambi di persona, degli inganni e delle rivelazioni continua inarrestabile: si giungerà alla singolare situazione di C. che deve combattere, perchè finisca la guerra, contro se stesso. Questa invenzione offre il destro al Marini per ulteriori complicazioni, che sarebbero sanate dal patteggiato matrimonio di C. con Leonilda, se questa non fuggisse sgomenta da Costantinopoli. Nelle avventure che seguono, C. salva, difendendolo dagli assalitori, il giovane Uranio, che si scoprirà poi essere fratello di Leonilda, Endimiro, perduto bambino e creduto morto. Così il romanzo precipita verso lo scioglimento con una serie di matrimoni, che però hanno diverse appendici e code”. Decisamente, le “telenovele” non sono state inventate dalla e per la televisione: sono molto più antiche. [31] Il libro anonimo “Le glorie degli Incogniti” o vero gli uomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti di Venezia” (1647) è attribuito o direttamente al Loredano od al suo amico G. F. Biondi, esule in paesi protestanti: il libro esalta non solo il Biondi, ma anche un Ferrante Pallavicino, giustiziato ad Avignone come eretico. Del resto, iscritti all’Accademia risultano nomi appartenenti agli intellettuali italiani dell’epoca, anche se essi risultano poi, fuori della letteratura minore e minima, uomini davvero “incogniti”. Pel suo anticlericalsimo, sta l’epitaffio iscritto per se stesso nel “Cimiterio”: “Qui giace un ch’ebbe humor di poesia| ma fu più d’un pallon d’ingegno tondo| Pensa s’ei fu poeta. In questo mondo più della peste odiò la sacrestia”. [32] Come è noto Giovanni Getto, nell’articolo Eco di un romanzo barocco nei P. Sposi (Lettere italiane, XII –1960-, 2, pp. 141-167) volle vedere in più di un particolare del romanzo spunti per la Introduzione e per lo svolgimento del suo capolavoro. Non si può nè affermare con certezza nè rifiutare del tutto le argomentazioni: il c. II è il più ricco di indizi, ma nel complesso sono troppe le divergenze di trama e di stile per lasciare convinti. [33] Giovanni Battista Moroni: nato forse a Ferrara da famiglia bergamasca, giurista e diplomatico, morto nel 1645, scrisse due romanzi che pretenderebbero essere relgiosi: I lussi del genio esecrabile di Clearco (1640) e Il Principe Santo (1641). Ma in entrambi sono il peccato ed il delitto a dominare: la libidine, frutto dello strapotere di Clearco (condanna della tirannide come sfrenatezza viziosa); i peccati di estrema corruzione del re Vandegislao. In entrambi i romanzi si giunge all’incesto tra padre e figlia, tra madre e figlio. La superficiale interpretazione della verità che anche il peccato rientra nel “gioco di Dio”, rende insignificante il pentimento e facile il ritorno al peccato dopo la confessione sacramentale (Il Principe santo). In Clearco la vendetta finale per i troppi delitti dovrebbe giustificare una narrazione di indegnità morale. Romanzi religiosi? Intenzioni educative? Se davvero il Moroni credeva in risultati positivi da simile trama, doveva essere ben ingenuo e disorientato, perchè non solo liricamente, ma anche intellettualmente e moralmente insufficiente è questo mondo moroniano. A meno che l’aver egli contribuito con due novelle alla “Raccolta degli Incogniti” di Venezia non debba far sospettare raffinata malizia anzichè infantile ingenuità... [34] “Demetrio, prigioniero, trama di poter fuggire con l’aiuto di Anticira, moglie di Pausania, suo custode e di Nefulcone, servo e amante di lei.... Nefulcone geloso svela gli intrighi di Anticira a Pausania e Demetrio, per equivoco, uccide Anticira, ch’era venuta all’appuntamento d’amore e di fuga, nelle vesti del marito. Demetrio nel frattempo si innamora di Levilla, che ama invece Selandro, ribelle al re Seleuco. Demetrio, per ottenere i favori della fanciulla, minaccia di denunziare Selandro al re, ma l’intrigo è sventato e Seleuco fa uccidere Demetrio, che nel frattempo aveva complottato con Stratonica”. [35] Agostino Mascardi fu gesuita, nato a Sarzana nel 1590 e morto nel 1640. A parte le Prose volgari (1620), le liriche latine (Silvarum libri IV, 1622) e il saggio La congiura del conte Giovanni Luigi Fieschi (1629), egli è noto per il molto lodato trattato Dell’arte historica (1636), in cui, pur difendendo la verità come il fine specifico della ricerca storica, egli non trascura la questione dello stile nello stenderla. Fatta la grande intuizione che lo stile è innato e personalissimo, egli lascia spazio ad elementi stilistici apprensibili e regolabili in base alla scelta del “carattere” con cui si vuol scrivere. Per “carattere” egli intende ancora i tre stili danteschi (alto, medio, basso) e, sostenendo che alla storiografia si confà il “carattere alto”, fa rientrare la retorica dalla finestra, finendo per sostenere ancora il carattere letterario del componimeto storiografico, fino a non escluderne del tutto “il pregio delle finezze ben adoperate” (da C. Jannaco, o. cit. pp.685-7) [36] B. Croce, nei Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari Laterza, 1949 (pp. 178-191), documenta come le vicende del romanzo del Brusoni furono arbitrariamente riferite agli scandali probabilmente successi negli anni 1525-1526 nel convento di S. Arcangelo a Baiano, che avevano portato alla chiusura del monastero nel 1577. [37] “Peota” o, meglio, “peata” è grossa barca da carico veneta, piatta e con prua alta e rotonda, in uso nela laguna. [38] Poche le cose in italiano : nel 1629 pubblicò il dramma sacro Tobia, assieme alle Rime spirituali. [39] C.Varese, ne Il Seicento , Milano Garzanti, 1976, pp. 647-8. Seguono citazioni da pp. 572, 574, 575, 642, 643- 647: in genere, per l’analisi del Cane di Diogene, ci atteniamo a questo studio, salvo a documentare anche con passi dalla Ricciardiana (Trattatisti e Narratori) e con scorribande personali dentro le pagine (troppe!) dell’opera. Tra le postille riportate dal Varese, cui accenneremo ben presto, citiamo queste esemplari: “Qui l’autore descrive mirabilmente il corteggio dei damerini: la speculativa è un estratto della osservazione: un astratto del concreto”; “La necessità e la filosofia sono sorelle”; “Libri di schiena e da schiena non hann’anima, perciò cadaveri”; “Ignoranti che presumono, asini che mordon libri”; “Scienza gonfia ed ignoranza pingue”... [40] C. Jannaco, Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 1963, p. 52. Le altre citazioni sono invece da p. 533 e 558. [41] L’Eroina intrepida, I, 1: ricitiamo da C. Varese, cit. p. 573. Più avanti, citiamo da p. 643. [42] Di altri romanzieri, ci pare possa bastare un cenno. Fr. Pona (Verona 1594-1655), medico di professione, traduttore dell’Argenis del Barklay, autore di opere professionali (Il trattato de’ veleni; Academico-medica saturnalia), storiche (Il gran contagio di Verona nel 1630; Duodecim Caesares), una commedia (Parthenio), una tragedia (Cleopatra) ed i romanzi L’Ormondo| La Messalina| La lucerna (1625)| L’Antilucerna (1648: è il complemento o, se si vuole, il rifacimento-palinodia della Lucerna, criticata per la spudoratezza e sanguinarietà di molti dei personaggi descritti)| La galleria di donne. Di Giovanni Pasta (Milano 1604-1666), canonico della cattedrale di S. Alessandro a Bergamo, ricordiamo solo il romanzo Il Dernando, overo Il principe sofferente (1638): leggo che vi vien giustificato il punto d’onore e la uccisione, per difenderlo, come in genere il costume di orgoglio e violenza del secolo. Manzoni, in Fermo e Lucia, lo giudica con sarcasmo. Per altri romanzieri religiosamente ispirati, rimandiamo alla Garzantiana, vol. cit. p.590; per autori che si rifanno alla politica ed alla storia, si veda ivi, p. 570-1. [43]Se val la pena di andar spigolando tra le metafore concettiste della prosa barocca, allora ci si può divertire a leggere quelle che ha collezionato Carmine Jannaco alle pp. 532-3. Ma sono sciatte, non avendo neppure lo splendore musicale del verso. Lo stesso Jannaco, a p. 551, ha un lungo elenco di novellatori del secolo. [44] Sua nemica diventa la regina, che ha chiesto di poter entrare nel consiglio di stato. Richiesto del suo parere, Bertoldo propone al re di sottoporre la regina alla prova del segreto, dandole da custodire una scatola per un certo tempo, senza aprirla. Vi ha rinchiuso un uccello che, appena aperta la scatola, se ne vola via: senza la capacità di frenare curiosità e lingua, nessuna ammissione ai segreti del regno... [45] Benchè “sprituale” si riferisca a tutta l’attività dell’uomo in quanto si distingue dagli animali, perchè dipende dall’anima spirituale; e comprenda, quindi, anche le opere artistiche ed intellettuali pure (scienza, filosofia, ecc.), tuttavia, nel linguaggio comune, per scritti od attività spirituali si intendono quelli attinenti non tanto la intelligenza, quanto la volontà dell’uomo e, quindi, tutta la prassi umana in quanto si richiama alla morale, di cui la religione è il fondamento ed il coronamento (essendo, la religione, “virtù che regola i rapporti dell’uomo con Dio” e, perciò, la virtù suprema della vita morale). [46] La sottolineatura in corsivo è nostra, qui come nella riproduzione del brano di p. 636 dal volume della Garzantiana. [47] Patenti: si tratta di regole conoscibili cioè da tutti quanti lo desiderano, perchè il segreto dei regolamenti e dei fini perseguiti da una associazione è condannato dalla Chiesa non solo nei confrotni di società quali la massoneria e la mafia, ma anche nell’ambito dell’associazionismo cattolico, religioso o laicale che sia. [48] Perchè “spagnoleggiarono”? Si veda in B. Croce “Saggi sulla letterrura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1948, pp. 155-181: “I predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnolo”. Vi si dice chiaramente: “In questa predicazione (di un Cornelio Musso, di un Francesco Panigarola, classici del Millecinquecento), in complesso severa e scevra di giuochi rettorici, sopravvennero (elemento rivoluzionario) i “concetti predicabili”. E sbarcarono in Italia dalla Spagna” (p.166). [49] Per l’oratoria sacra, seguiamo C. Jannaco, citato, pp. 659-682. [50] Per un esempio di metaforizzazione predicabile del Vangelo, ci atteniamo a quello che riporta Jannaco a p. 662, tratto da p. Giulio C. Capaccio. Prende le mosse da una semplice frase di Giovanni, 18,1 “Uscito Gesù oltre il torrente (Cedron)”; si sofferma sulla “uscita” e risale alle tre uscite di Gesù: dal Padre alla Madre (per la incarnazione); dalla Madre al Mondo (per entrare nella vita pubblica); dal Mondo alla Gloria (con la Ascensione). Su ognuna delle “uscite (od ingressi: a secondo dei punti di vista, ogni uscita è anche una entrata) egli ricama un numero infinito di immagini, paragoni, metafore: “Il secondo ingresso fu nell’horto di questo Mondo. Horto di varietà ornato, che per ciò “cosmòs” da i Greci fu detto. La cui siepe è la circonferenza, il cui fonte il mare, pergola il firmamento, arbori gli uomini, fiore la gioventù, frutto maturo la vecchiezza. E che contiene due porte, l’Ingresso della Natività e l’egresso della Morte. Il primo Hortolano fu Adamo...”. Ci fermiamo collo Jannaco: di questo passo si può parlare (a vanvera) sino alla fine del mondo. [51] Paolo Segneri iunior fu un nipote omonimo: anch’egli gesuita, ne continuò l’opera ed il successo di predicatore, fino al 1713, morendo a neppure quaranta anni. [52] La frase che Jannaco cita da Giulio Marzot (-l’uomo è interamente “padrone di sè, ed ha le redini in mano del suo volere”) non è pelagiana, ma antiastrologica, tanto che finisce così: “ senza che tutti i movimenti sì rapidi delle sfere possano violentarlo” (p. 674 e nota -41- a p. 681). [53] Il Segneri non è artista quanto S. Bernardino da Siena. Lo Jannaco azzarda però un parallelo fra le polemiche del Ségneri contro il Quietismo e le Lettres provinciales di Biagio Pascal, ritenendo con Giulio Marzot che ad es. la Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione sia opera superiore alle prediche(p. 674-5),. Meno ci interessano le altre opere del Ségneri, che pure riportiamo come omaggio alla ricca umanità della sua figura. Si noti intanto che nella raccolta di omelie (Pamegirici sacri, Venezia 1657) egli si rivela non del tutto alieno da un certo manierismo e, quindi, meno lontano dallo stile infiorato se non propriamente barocco. Una terza collezione di prediche è quella degli ultimi anni “Prediche dette nel Palazzo apostolico” (1694). Ed ecco le opere di formazione morale: Il cristiano istruito nella sua legge (1686), Il penitente istruito (1669),Il confessore istruito (1672), La manna dell’anima (1673-80: meditazioni per ogni giorno dell’anno), Il divoto di Maria Vergine (1677), L’incredulo senza scusa (1690), Il parroco istruito (1692), Dichiarazione del Pater noster (1694). Del 1693 vi sono tre lettere contro il probabilismo del superiore generale dei gesuiti, lettere fatte circolare manoscritte ed edite solo dopo la sua morte. Si noti che la Concordia fu messa all’indice dei libri proibiti, assieme alla Lettera di risposta, che egli oppose ad un’opera scritta dal card.Petrucci nel 1681. Ma una volta condannati sia il Molinos (fondatore del quietismo) sia il card. Petrucci, suo seguace, la Concordia venne tolta dall’Indice e il Segneri sollevatao da ogni condanna dal Santo Uffizio (1692). [54] Si ricordino almeno i tre “matadores” del siglo d’oro. Lope de Vega (1562-1635) ci ha lasciato 426 commedie e 42 autos (ma la tradizione gli attribuisce 1800 delle prime e 480 dei secondi): come migliori vengono citati “Il miglior giudice è il re”; “Il cavaliere di Olmedo” e “Peribànez e il commendatore di Ocana”. Pédro Calderòn de la Barca (1600- 1681) compose almeno 120 commedie e 80 autos (spettacoli di carattere relgioso): il capolavoro fra le commedie è “La vida es sueno”; degli Autos, “El gran teatro del mundo”. Tirso de Molina (cioè il padre -relgioso dell’ordine della mercede, per la liberazione degli schiavi cristiani- Gabriele Tellez: 1584 ca- 1648), delle cui 59 opere teatrali pubblicate fra il 1627 ed il 1630, fa parte il capolavoro intitolato “El burlador de Siviglia y convidado de piedra” (Il beffatore di Siviglia e Convitato di pietra), che inaugura il mito latino-europeo dell’uomo disonesto nei costumi fino alla incoscienza e punito colla dannazione finale: mito parallelo a quella tutto tedesco del Faust, che è dell’uomo che smarrisce addirittura la fede, di cui la corruzione e la dannazione sono conseguenze. Nel “don Giovanni”, ciò che attrae nel peccatore è il suo spirito arguto e il cinismo brillante; nel Faust, cioò che affascina è il tentativo di costruire l’homunculus, cioè di padroneggiare la vita e sfidare il potere creatore di Dio. [55] Non importa che la maschera sia stata inventata solo intorno al 1790 da Luigi Del Buono, come carattere del- l’uomo sempliciotto, bonario, dalla battuta pronta e dai costumi piuttosto liberi: il nome suo è un programma che, anche solo inconsapevolmente, era impresso nella psicologia della popolazione etrusca e che affiorò nella maschera, divenuta incarnazione di tale natura economa e calcolatrice. [56] Scipione Maffei, nel 1723, volendo difendere la indipendenza del teatro italiano da quello francese, pubblicò una scelta di tragedie che, oltre ad alcune del Millecinquecento (Sofonisba, Torrismondo e la Merope di Giulio Cesare Torelli), segnalava anche quelle del Milleseicento che potevano entrare nel “canone” delle opere classiche del teatro italiano: Alcippo| Le gemelle capuane, di Ansaldo Cebà (che scrisse anche La principessa Silandra); Solimano, di Guidubaldo Bonarelli; Cleopatra, del card. Giovanni Delfino; Aristodemo, di C. de’ Dottori. Il Varese (Garzantiana, p. 492) propone di includervi le altre commedie del Delfino ( Medoro, Lucrezia, Creso); Ipanda, di Giovanni Battista Alberi e quella di Francesco Bracciolini (Evandro), oltre a quelle di F. Della Valle. [57] Il poeta fu identificato dal Croce, che almeno ne assicurò la nascita astigiana (lo si riteneva poeta romano!). Poco si è però riusciti a scoprire della sua esistenza: eppure, con il de’ Dottori, rischia di essere il miglior trageda che l’Italia abbia prima dell’Alfieri. Peccato che non manchino nella sua produzione note di barocco letterario. Andrebbe tenuto presente anche il fatto che la prima stesura delle sue opere è tutta anteriore al Milleseicento, anche se di pochi anni. [58] Seguiamo Claudio Varese nella Garzantiana. Egli partecipa delle prepotenze e libertinaggio sessuale come troppi giovani benestanti del tempo: oltre tutto si fa scortare da bravacci per difendersi ed offendere. Finisce in prigione, accusato di un libello contro alcune dame della città natale, ricavandone un poemetto intitolato appunto La Prigione, dove in otto canti di ottave narra vicende della esperienza umiliante, ma trova modo di inserire una serie di novelle, presentate come dette in prigione, di carattere grossolanamente sensuali. Non fu edito: ci è giunto manoscritto (1643). Nel 1644 pubblica un romanzo (Alfenore, donato alle dame della sua patria), in cui si adegua pienamente all’atmosfera secentesca (peripezie avventurose|linguaggio enfatico). Pure, almeno dal 1643, egli diviene un ammiratore di Fulvio Testi, che saluta come maestro in alcuni versi delle sue Ode. Il 1644 è poi l’anno del suo matrimonio (ma trova modo di canatare altre due donne amate). Comunque nel poema eroicomico L’Asino (1652: ce ne occuperemo meglio a suo luogo), egli si fa beffe del poeta marinista più noto a Padova, il veneziano Giambattista Bertanni. Prima, nel 1643, egli pubblica Poesie liriche, cui seguono le Canzoni nel 1647 e le Ode. Altri versi rimangono inediti (Galatea, poemetto erotico, diffuso manoscritto ; Il Parnaso, poemetto satirico; Ippolita, dramma per musica, uscito postumo; Zenobia di Radamisto, edita solo nel 1786). Pubblicò con lo pseudonimo di Eleuterio Dularete il drarmma tragico Bianca de’Rossi, scritto in prosa (1661). Intanto si verifica nel suo animo una conversione etica e religiosa, che è documentabile almeno dal 1647 (nelle odi di quegli anni e ne Il Parnaso). Si inserisce nella vita delle corti, ma non senza difficoltà, visto il temperamento non facile e l’attaccamento alla sua città natale. Accolto dapprima dalla principessa di Eleonora di Mantova, nel 1650 lo troviamo a Roma come segretario del cardinale Rinaldo d’Este nei primi quattro mesi del 1650; poi sarà con Leopoldo di Toscana, per passare nel 1658 alla corte di Vienna. La storia della sua vita, della cui giovinezza e scritti erotici egli esprime il pentimento più acerbo (sia in nome della morale e dignità umana, sia in nome della fede religiosa) è contenuta nelle Confessioni. Se anche non si elevano alla poeticità dell’opera del vescovo di Ippona, pure l’indagine psicologica e la passione morale le avvicinano agli scritti dei contemporanei moralisti francesi. La vena di fortezza che egli mostra nel capolavoro- la tragedia Aristodemo- la si può sentire spiegata già nell’episodio di Desmanina che, squarcio tragico nell’Asino (poema eroicomico), cerca morte in battaglia, pur di affrontare Ezzelino che l’ha ripudiata e per la cui spada riesce a perire; e nell’ode “L’Appennino” che, pur risentendo in parte dell’enfasi secentista, attinge però, a nostro parere, la sufficienza poetica (in senso drammatico-epico). Ecco tre strofe di questa ode rupestre: la prima, sulla possanza del monte; la seconda e la terza, sull’opera di ammansimento operata in esso. “Stende le membra immense, e in vario sito| vari titoli usurpa, e sempre regna.| Inospito, intrattabile, e romito,| anco sta in parte, e d’esser vinto sdegna;| in parte il ferro, il tempo e l’uomo ardito| cedere ai colpi, e obbedir gl’insegna.| Ma per forza fu vinto, e ricusando| donar vittorie, egli perdè pugnando.||.... Il fumo ormai di povere capanne| mesce a quei delle nubi i propri errori,| già gonfia il pastorel stridule canne| ignote un tempo a quei selvaggi orrori.| Già liberato il suol d’ombre tiranne,| chiamato è ’l sol, ch’ignota piaggia indori;| e ritrovato il pasco, ove non era,| mugge il giovenco, ove ululò la fera.|| Il silenzio guardingo omai non sente| strider l’aratro co’l timor di prima;| soffre il vomere il monte, e già consente| de’ doni anch’ei partecipe del clima,| così ridotto ha’l secolo presente| campo ferace un’infeconda cima;| e fede serba l’orrido macigno| nell’ignudo bifolco al parco ordigno”. COMMEDIE
IN VERSI Giovan Battista Manzini
(Bologna:1599-1664: lo abbiamo già incontrato come autore del romanzo Il
Cretideo). Egli non si limitò a polemizzare contro la letteratura pornografica,
ma volle porvi riparo anche con una produzione esplicitamente educativa,
attraverso sia la la tragedia (Flerida
Gelosa: 1632) che la commedia (L’avariza
scornata: 1633). Francesco Pona (Verona, 1595-1655: ne abbiamo già visto la
attività in prosa per i romanzi La Messalina|
L’Ormondo), scrisse anche la tragedia Cleopatra ed il Christo passo.
Membro dell’Accademia degli Incogniti, traduttore di Ovidio ed autore di
trattati scientifici, qui lo ricordiamo per la commedia
Parthenio (1627). Anonima, apparve nel 1640 Il contrasto dei geni. Francesco D’Isa (Capua:1572-1622), pubblicò fra il 1610 ed
il 1633, sotto il nome del fratello, cinque commedie classicheggianti, di
imitazione plautina, ma con uno stile rigurgitante che serba tracce della
retorica invadente e fastidiosa del
secolo: La Fortunia| L’Alvida| La
Flaminia| La Ginevra| Il malmaritato. Michelangelo
Buonarroti,
il giovane (nipote del grande artista del Millecinquecento, fiorentino, visse
fra il 1568 ed il 1642). Accademico della Crusca, collaborò alla compilazione
delle due prime edizioni del Vocabolario (1612|1623). Amico della famiglia del
granduca, contribuì con favole pastorali, marittime, burlesche e mitologiche
alle feste di corte (ad esempio Il natal
d’Ercole| Il giudizio di Paride). E scrisse satire, capitoli, cicalate.
Continuava (in tono minore) la passione del grande zio per la poesia. Amò
sinceramente la gente del popolo –borghesia ed artigiani- della sua città e
nelle due commedie La Tancia (in
ottave: 1612) e La Fiera (25.000
versi, che alternano endecasillabi e settenari: 1618-19: solo parzialmente
rappresentata), volle dar voce all’amore ingenuo del contado ed alle più
svariate vicende della vita quotidiana, espresse con un vocabolario
fresco e aderente alla parlata viva della gente. L’urto fra amore
govanile, interessi economici ed esigenze morali sono al centro della Tancia,
in cui un giovane cittadino si innamora di una contadina: la spunterà l’amore
sincero, spontaneo, sano dei due giovani contro i pregiudizi ed i calcoli del
contesto sociale. Ne La Fiera si
incontrano e si scontrano, nella fiorentinissima città di Pandòra, singole
individualità (sia pur caratterizzate un po’ troppo intellettualisticamente,
a tavolino), gruppi sociali (con interessi e linguaggio peculiari) e personaggi
allegorici in un’azione scenica infinita e sorprendente, ma senza significato
specifico ed unificatore: si tratta di cinque commedie di cinque atti ciascuna,
per un totale di 25.000 versi. Ciò che sta a cuore all’autore è un moralismo
forse troppo scoperto e, soprattutto, la volontà di dar risalto a tutte le
sottigliezze o singolarità della lingua fiorentina, col suo vocabolario da
cittadino che, nato e vissuto in Firenze, ne conosce tutti i risvolti più
gustosi e rari (motti e proverbi, arguzie
e locuzioni arcaizzanti). Accanto a
questi due motivi ispiratori di fondo (celebrazione della moralità
professionale e sessuale, incarnata nel popolo sano; e rivalutazione del
linguaggio spontaneo e fiorito del popolo semplice) si trova anche una
rivendicazione etico-sociale. Il giovane Buonarroti pare che abbia anche
l’intento di mostrare come contadini e cittadini, artigiani e dotti, ricchi e
poveri siano tutti malati della stessa tigna dell’egoismo e dei pregiudizi, ma
anche dotati di un senso morale di fondo che li spinge a superare tale
giudizi convenzionali e di comodo sul prossimo ed a seguire, un po’
convinti, un po’ rassegnati, la soluzione concretamente più saggia..
Così, quando il ricco cittadino Fabio deride l’amico Pietro, che vuol
sposare la contadina Tancia, si sente rispondere
con la generalizzazione sulla meschinità delle spose cittadine. Ma il
padre di Tancia, contadino, sogna di diventare podestà di Fiesole... Meno poesia e più filosofia “alla mano”, più
riflessione morale, osservazione sociale e studio (divertimento, anzi)
linguistico troviamo ne La Fiera, che
nel paese di Pandòra mette in scena personaggi tra il reale e l’allegorico:
accanto alla personaficazione dell’interesse, mercatura, rapacità, frode,
ipocrisia, monopolio, inganno, giustizia, leggi, stanno personaggi categoriali
(cioè incarnazione di intere categorie di professioni): il podestà (con la sua
“famiglia” di burocrati), ufficiali e marinai, ambasciatori e medici,
soldati, ciarlatani, scolari, giudici, albergatori.... Inutile dire che si
depreca “lo ’ngordo violento interesse”, mentre si esalta la giustizia; si
auspica un diverso ordine economico, ma senza idee chiare, perchè si esaltano
le fiere, mercati e concorso di compratori e venditori, contro ogni idea di
monopolio. Non è dal Buonarroti
che dobbiamo aspettarci grandi idee, così come meno che mediocre è la sua
poesia: egli è solanto il commediografo meno peggiore del secolo suo.[1] I “Cicognini”, padre (Jacopo) e figlio
(Giacinto Andrea). Jacopo, nato a Castrocaro (Forlì) nel 1577
visse e morì a Firenze (1633). Fu autore di idilli rusticali: Stanze
rusticali di Pippo, lavoratore di Legnaia| Allegrezza di Pippo per la nascita
del primo figliuolo; scrisse poi commedie sistematicamente imitate dallo
spagnolo. Di queste, l’Amor filiale
ed il Trionfo di David sono le
migliori: la prima per gli studi di carattere; la seconda, per la non osservanza
della unità di luogo e per l’abbandono (su consiglio di Lope de Vega) anche
dell’unità di tempo (le famose 24 ore del Castelvetro). Il figlio Giacinto Andrea (nato a Firenze nel
1606 e morto a Venezia nel 1661) fonde surreale romanzesco e realismo
verosimile, tradizione e novità, imitazione
spagnola e classica, motivi comici
e tragici, sacri e profani, nobili e popolareschi. Forte è l’influsso
spagnolo: Pedro Calderòn de la Barca, Tirso de Molina, Francisco de Rojas
Zorilla, G. B. de Villegas. Ma si tratta di imitazioni-degradazioni. Così, in Don
Gastone di Moncada e ne La forza
dell’amicizia, la retorica e le situazioni forzate, inverosimili, rovinano
l’atmosfera di idealismo che vorrebbero evocare. La
Vita è un sogno riduce quasi al ridicolo la squisita opera del Calderòn.
Peggio è toccato alle commedie di argomento cavalleresco, svolte con triviale
buffoneria. Migliori La
forza del fato, pur di intreccio troppo complicato; e soprattutto Il
tradimento per onore, a tema borghese e svolgimento fortemente drammatico.
Scrisse anche libretti per melodrammi, fra cui Giasone
(musicato da Francesco Cavalli) e Orontea
(musicata da Antonio Cesti). Con i Cicognini, la commedia si fa sempre più
spagnoleggiante e secenteggiante. Carlo Maria Maggi (1630-1699), milanese, rivela gusto
presettecentesco, pregoldoniano; scrive quattro commedie miste di dialetto e di
lingua, con una raffigurazione della società e dei singoli personaggi non del
tutto infelice, cioè con risultati artistici sufficienti. E’ l’inventore di
“Meneghino”(“Domenichino”), la maschera tipica di Milano: Il manco male, difende la medietà morale, come il bene possibile
all’uomo; ne Il barone di Birbanza,
Meneghino manda a monte un matrimonio macchinato per interesse; I
consigli di Meneghino, rappresentano il buon senso e l’equilibrio della
borghesia onesta, contro la aristocrazia; Il
falso filosofo, è foggiata sull’esempio di Molière e
dimostra un notevole livello di studio psicologico, di introspezione
dell’animo umano; vi è infine
l’atto unico Il concorso de’
Meneghini. E’ poeta perchè le commedie sono scritte in versi;
è prepariniano per la satira antinobiliare e per l’amore al dialetto, che lo
fa risultare un “ambidestro” (scrittore cioè in lingua ed in milanese) come
l’autore de Il Giorno. DRAMMA
PASTORALE Qui ci occuperemo solo della Filli di Sciro, scritta da Guidubaldo
Bonarelli e pubblicata un anno prima della sua morte, nel 1607.[2] Si ispira a Florio e Biancofiore del Boccaccio, ma
l’aura artistica è quello dell’Aminta e del Pastor fido, i due
modelli inevitabili del dramma pastorale. Filli e Tirsi, due fanciulli greci ,
separati da vicende avventurose e ritrovatisi dopo peripezie abbandonate al caso
più fortuito e fortunato, si sposano alla fine. Proprio perchè la vicenda è
guidata dal destino e le variazioni di condizione sono indipendenti dalla volontà
ed azione dei protagonisti, manca ogni senso di drammaticità e viene a galla
uno spirito arcadico fatuo ed infantile: l’opera, invano difesa persino da
Ludovico Antonio Muratori, si attirò contro, nel secolo successivo, le
stroncature del grande critico francese, il gesuita Domenico Bouhours, che vide
in essa un caso esemplare del
malgusto barocco del Milleseicento italiano. In realtà sia il Marino che il
Testi che Ippolito Aurispa[3]
fecero a gara a scrivere dei prologhi al lavoro, molto congeniale al loro
spirito. Questa conformità ad una moda di sentire ed esprimersi, che doveva
dominare un paio di generazioni dopo la morte dell’autore, fece assurgere la
“Filli” al rango della triade
pastorale canonica, con l’Aminta ed il Pastor fido appunto. MELODRAMMI Dopo Ottavio Rinuccini, da noi considerato
nell’ambito del Millecinquecento, altri scrittori e musicisti si succedettero
nel Milleseicento. Ma, fino al Metastasio non vi sono capolavori: si è già
detto che il moltiplicarsi di teatri aperti al pubblico (una ventina nel corso
del secolo) ed il successo di gente
che li riempiva, costringe a moltiplicare i libretti , avvicinando
pericolosamente la superficialità balorda delle trame ai canovacci della
commedia dell’arte: ben presto il “rispettabili
pubblico” riempì di schiamazzo il teatro durante la recitazione
insignificante, salvo a zittire ed attendere estasiato la “cavatina”, cioè
la melodia particolarmente felice di qualche assolo, cui il
cantante si preparava mediante una mimica convenzionale
(aggiustarsi l’abito, rischiararsi la gola, assumere un atteggiamento
ispirato, ecc.). Fra i librettisti troviamo compositori di opere
buffe, di drammi sacri, di soggetti storici. Il più fecondo scrittore è un
cardinale nella Roma dei Barberini (oltre il papa Urbano VIII, vi erano il
fratello e due nipoti cardinali), in cui non solo si esorcizzavano le opere
diseducative, ma si incoraggiava il teatro positivamente moralizzatore o
religioso. E’ Giulio Rospigliosi (Pistoia, 1600, papa Clemente IX dal
1667 al 1669) che in gioventù
compose Chi soffre speri| Dal male al
bene| Erminia sul Giordano ( dalla
Gerusalemme)| Sant’Alessio. Egli
mescola nelle opere buffe (le prime due) elementi moralizzatori (in Chi soffre speri sono introdotti personaggi mitologici ed allegorici
–le virtù, i vizi, le maschere- come anche reali, allargando l’orizzonte
della rappresentazione e dando spazio a tutte le
tonalità di sentimenti come a tutte le condizioni di vita), così come
introduce parti buffe in opere sacre (in Sant’Alessio
vi è spazio anche per un demonio non disprezzabile tentatore, perchè
ragionatore sofisticato ma non del tutto irragionevole). Nel 1642 si ha il primo dramma per musica di
argomento storico: L’incoronazione di
Poppea, opera di Gian Francesco Busenello (Venezia 1598- 1659), che
fu musicata da Claudio Monteverdi. Purtroppo vi penetra sia il secentismo delle
metafore sproporzionate sia una certa indulgenza per la sensualità, assieme a
concessioni verso un machiavellismo sfacciato (i re debbono essere
innocenti finchè non intervengono fini
politici: “chè il peccato commesso| per aggrandir l’Impero| si assolve da
se stesso”). Egli scrisse altri quattro libretti per musica; e Vita
nostra e morte (raccolta di poesie). Che non valga la pena di soffermarsi sulla produzione
in serie di libretti per melodrammi nel Milleseicento, lo dichiara Francesco
Berni, che scrisse decine di testi per gli spettacoli di Ferrara, sua città
natale: come proemio faceva dire “Questo componimento fu destinato al teatro
ma non alla stampa”, aggiungendo che senza l’apparato scenico-pittorico e il
commento musicale il testo perdeva il suo valore e restava “zoppicante, per
non dire cadavero” (raccolgo la notizia davvero significativa dalla
Garzantiana, p. 476; e la commenterei così: “Oh gran bontà degli scrittori
antiqui| che ammettevano limiti e
difetti| nè difendevan i lor
scritti iniqui| da musica e pittura sol corretti...”.[4] POESIA
EPICA ED EROICOMICA Uniamo
i due generi letterari, perchè l’epopea seria nel Milleseicento è
qualitativamente così asfittica da meritare davvero poco spazio. La seconda,
l’eroicomica, nasce proprio nel secolo XVII, col Tassoni e col Bracciolini.[5]
Dapprima faremo un elenco dei poemi flebilmente aspiranti
alla epicità. Con lo Jannaco notiamo: “Tra i vari campi nei quali
s’esercita l’attività letteraria del Seicento, questo dell’epica si
distingue, in genere, per una certa correttezza e misura formali o, diciamo
meglio, per il meno accentuato e più sorvegliato cedimento al barocchismo. Ciò
deve essere anzitutto spiegato con
la prevalente influenza tassiana...” (p. 480).[6] Francesco Bracciolini
(Pistoia, 1566-1645). Segretario del card. Federico Borromeo, prima e di Maffeo
Barberini, poi; quando questi divenne papa (1623), egli passò al servizio del
nipote card. Antonio, ritornando in
patria alla morte di papa Urbano, un anno prima della propria. Dovremo riparlare
dello Scherno degli dei, poema
eroicomico; qui ricordiamo le
tragedie Evandro, Arpalice e Pentesilea
(rispettivamente 1612-3-4), i drammi pastorali e i 35 libri in ottave de La
croce racquistata (1611). E’ il poema del ricupero del legno della
croce (anno 625) da parte dell’imperatore Eraclio (i Parti l’avevano portato
con sè, conquistando la Palestina). Su tale poema facciamo nostro il giudizio
di C. Jannaco (Vallardiana, pp. 466-9), che si può riassumere così: imitazione
del Tasso e dell’Ariosto, anzi di Dante stesso (ma si tratta di un dantismo
snervato); accenni di barocchismo; il carattere complessivo del poema è quello
di un manierismo che imita non male, ma non sufficientemene bene, i grandi
predecessori. Pel barocchismo, Jannaco cita il distico: “E il Ciel facea con
mille lumi intorno| funeral pompa al seppellir del giorno”. Fra i passi
migliori, egli ricorda la morte del giovinetto Tieste in battaglia: “...Apre i
lumi il fanciullo, e una, e due| volte gl’aggira al terminar dell’ore,|
alfin li serra, e l’atre nubi sue| spiega morte nel volto, e spegne amore;|
piega il pallido viso al tergo in giùe| dal lento collo, e rassomiglia a
fiore,| ch’a terra inchini e resti ancor sospeso| dal Ciel nemico in mezzo al
gambo offeso” (XVII, 51). Lo giudica degno di essere il meno sconosciuto dei
poemi epici del Seicento, ma per la perfezione tecnica, non per i (troppo rari)
versi significativi. Di Gabriello Chiabrera (Savona, 1552-1638)
dovremo occuparci a lungo nel trattare della poesia lirica. Egli in gioventù
scrisse poemi epici non importanti (Ruggero|
Foresto| Delle guerre dei Goti), mentre non sono senza valore quelli della
maturità: Firenze (1615: la materia
è presa dalla Cronica del Villani; vuol celebrare i Medici); Amedeida (1620: vuol celebrare i Savoia). Ansaldo Cebà (Genova, 1565-1623). Scrisse Rime (di stampo petrarchesco); due poemi sacri: Lazzaro
il mendico (1614) e La
reina Ester (1615); ed un poema storico (Furio), in cui si rivela fautore della libertà politica. Come si è
visto, è anche l’autore di tragedie: La
principessa Silandra| Alcippo spartano
... Il rifiuto del secentismo si rivela esplicitamente nel dialogo Il
Gonzaga, overo del poema heroico (1621). Giovan Battista Lalli
(Norcia, 1572- 1637). Seguì la moda del tempo, stilando poemi burleschi (che
vedremo). Ma scrisse anche un poema epico:
Tito Vespasiano overo la Gerusaleme desolata, che rimase incompiuto,
anche se edito lui vivente (1635). Gerolamo Graziani (Pergola –Pesaro- 1604-1675) Fu poeta al
servizio degli Estensi di Modena e scrisse anche una tragedia (Il
Cromuele), che è svincolata dalle regole pseudoaristoteliche. E’ più
noto, però, per il suo poema eroico Il
Conquisto di Granata (di imitazione tassesca) che celebra la conclusione
della grande epopea della “reconquista” del territorio spagnolo
ai mori, nel 1592, da parte di Ferdinando e di Isabella. Scipione Errico (Messina, 1592-1670)
scrisse Rime (1619), Poesie
liriche (1646), due commedie di stile aristofanesco (Rivolte
di Parnaso: 1625| Liti di Pindo:
1634), tre favole pastorali (Deidamia|
Endimione| Arianna) ed un romanzo di critica letteraria, in forma
allegorico-didattica (Le guerre di Parnaso:
1642). Contro lo Stigliani ed in difesa del Marino, scrisse L’occhiale
appannato (1629). Ma pubblicò
anche un poema epico: Babilonia distrutta
(1624). Esso non manca di dignità complessiva ed anzi contiene qualche strofa
discreta. Ecco un galeone fastoso in una ottava solenne: “Con contrario
sentier l’altera sponda| il gran legno fendea de l’ampio fiume,| e a dietro
e intorno mormorando l’onda| tumide forma e inargentate spume:| di gemmate
bandiere e fiocchi abbonda| e par la poppa di piropo allume,|ed ha l’antenne e
le grand’effi aurate,| e le vele d’argento al Ciel spiegate” (IV, 2). Ed
ecco un notturno idillico: “Era vaga la notte e’l Ciel mostrava| le stellate
sue pompe ad una ad una:| ma la sembianza al fosco suol velava| l’aria presso
a la terra algente e bruna:| su l’orto in tanto il lume suo spiegava| con
l’argentee sue corna ormai la Luna:| e l’ombre già de la gelata notte| son
da puri suoi rai dispersi e rotte” (XI, 35). Pur schierandosi dalla parte del Marino, non si
ritrovano in lui nè un concettismo fastidioso nè una sensualità smoderata:
nei versi con cui Alone respinge la seduzione della maga Bessana c’è tutto un
programma di lotta tra “senso e ragione” come nel Bracciolini: “Ma a le
dolci quadrella e velenose| la severa ragion lo scudo oppose” (V,62: Jannaco,
p. 479). Il passaggio dalla considerazione della poesia epica
a quella della poesia eroicomica lo si può effettuare sul ponte della
osservazione di B. Croce già riferita: egli ha segnalato
quali pagine di sincera commozione nell’eroicomico poema L’Asino, di Carlo de’ Dottori, quelle dedicate alla
passione e morte di Desmanina che si fa uccidere in battaglia dal marito
infedele Ezzelino, introducendo, col personaggio di Ardiccione, un ammiratore
così affascinato dalle doti mirabili di lei, da seguirla in battaglia come
cavalier servente devoto e candido, quasi impazzito di desolazione di fronte
alla sua morte (cc. I, 30 ss; IV, 41 ss.; IX, 31, ss: riportiamo da B. Croce,
Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1957, pp. 358-61). In realtà la lunghezza dei poemi facilita la
inserzione di parti di genere diverso rispetto
al registro fondamentale in cui è pensata un’opera. Anche nella Gerusalemme,
la figura di Vafrino è umorale e non disdegna
la battuta ed il sorriso; e persino nella “Secchia rapita”, che
vedremo subito, l’episodio di Jaconia ed Ernesto è almeno in parte
ispirato alla serietà ed al dramma della morte volutamente comune:
spesso i poeti danno retta alla famosa ode di Orazio che raccomanda, con la
medietà della virtù, anche la commistione delle occupazioni (“Rectius vives,
Licini, nec altum| semper urgendo neque, dum procellas| cautus horrescis, nimium
premendo| litus iniquum”), ode che ricorda come neppure Apollo è sempre
affannato cacciatore, perchè ha come diletto e distensione la poesia (“neque
semper| arcum tendit Apollo”). Ed eccoci ai
poemi eroicomici, di cui il più riuscito è quello di Alessandro Tassoni, La
secchia rapita. Lo scrittore nacque a Modena nel 1565, da famiglia
nobile e si laureò a Pisa, dopo aver studiato anche a Bologna e Ferrara. Fu
accademico della Crusca. Ebbe un periodo di vita sregolata, ma poi si mise al
servizio del card. Ascanio Colonna a Roma (1599). Con lui fece un viaggio in
Spagna l’anno seguente, riportandone una impressione negativa, espressa già
in certune delle sue Rime. Non si sa
perchè si sia allontanato dal
servizio del cardinale, nel 1604, pur rimanendo a Roma, ma con vita riservata
(sebbene pare che facesse da
informatore per i Savoia, quale unica potenza capace di cacciare gli Spagnoli
dall’Italia). Negli anni 1618-21 fu al servizio del card. Maurizio di Savoia,
vivendo qualche tempo a Torino. Anche da questi si allontanò, sentendosi in
dovere di mettere in carta le motivazioni del distacco, in un’opera che non
pubblicò (Manifesto
intorno le relazioni passate tra esso e i prìncipi di Savoia).
Più facilmente sue che di Boccalini, sarebbero le due Filippiche
(1615) antispagnole, di cui, pure, rinnegò la paternità. Finì per mettersi al
servizio del card. Ludovisi, rientrando a Modena solo nel 1632, dove fu
a disposizione del suo duca, Francesco I d’Este, negli ultimi tre anni
di vita. Morì infatti nel 1635: triste, per il magro risultato di una vita
iniziata con tante promesse. A diciotto anni, infatti, aveva già scritto la
tragedia Errico e, interessato a
molteplici settori della conoscenza umana, pubblicò nel 1612 Varietà
di questioni, in nove parti, più volte rimaneggiate (erano uscite come
“Quisiti” nel 1608 e usciranno come “Varietà
di pensieri” nel 1620, con l’aggiunta di una decima parte su “Ingegni
antichi e moderni”, in cui polemizza contro la scienza antica ed
Aristotele e difende il progresso e la modernità). Nel 1609 uscirono le Considerazioni
sopra le rime del Petrarca, già stese
nel 1603 e da lui rimaneggiate in
seguito: egli vi si mostra contrario alla imitazione
e non esita a rilevare i difetti nel
Canzoniere del poeta di Laura: egli vuole un rinnovamento della poesia e della
letteratura. Nel 1613 usciva un altro scritto, La tenda rossa. Lasciò incompiuto quello che forse era l’opera
cui voleva affidare la sua fama: il
poema epico Oceano. Il suo Epistolario
è molto interessante per notizie e giudizi. Il capolavoro rimase invece La secchia rapita, poema eroicomico, steso in dieci mesi fra il 1614
ed il 1615 e stampata solo nel 1621 a Parigi colla data del 1622, per gli
ostacoli in Italia da parte della censura ecclesiastica, a causa di qualche
battuta volgare od anticlericale. Circolava manoscritta, con buoni guadagni...
degli amanuensi. Il temperamento. Si assommano nel Tassoni instabilità ed
esistenziale (di vita pratica) ed intellettuale: il mutare frequente del signore
cui servire; l’improvvisazione della “Secchia”, la
incompiutezza dell’ “Oceano”; il
dedicare la più parte delle sue energie a “pensieri sparsi” quasi
uno zibaldone di considerazioni più o meno acute; il consacrarsi così a lungo
a considerazione sul lavoro altrui (le “Rime” del Petrarca), sono –ci
sembra- prove più che sufficienti per attestare un temperamento mobile:
velleitario nella concretezza della
prassi e discontinuo in quella contemplativa
dell’intelletto. Era, dunque, un emotivo, non attivo, primario, cioè un temperamento
nervoso, il più tipico nei poeti e letterati. Vale per lui quello che
Riccardo Bacchelli mette in bocca al losco ma intelligente personaggio Virginio
Alpi, al suo primo entrare in scena: “Tutto quello che ci capita è colpa
nostra”. La sentenza è errata solo per il sostantivo “colpa” che va
sostituito con “causa”: per lo più non si tratta, infatti, di modi di agire coscienti, di cui si sia responsabili, ma di
spinte congenite della nostra individualità che lavorano a nostro
vantaggio o perdita all’insaputa, per lo più, della nostra coscienza.[7]
Egli è destinato, così, ad essere più grande nei particolari che
nell’insieme, più appassionato nella demolizione (Aristotele, i petrarchisti,
gli Spagnoli...) che nelle positive proposte di un altro pensiero, di un’altra
estetica o politica... Il Pascoli
parla di una sua “trista allegrezza”. Vive troppo di impressioni e si ferma
sui difetti degli altri, dimentico della favola antica delle due bisacce sulle
spalle, che lasciano vedere meglio le colpe
sul dorso altrui e le virtù proprie sul nostro petto. Quanto alla intensità emotiva, egli è
indubbiamente il più dotato del suo secolo; il registro sostenuto dell’epopea
gli si addice, ma la smorfia birichina, la satira beffarda, la caricatura
sorniona, il divertimento canzonatorio interferiscono e mettono a repentaglio la
forza dell’epica come la gioia dell’idillio
(che è il tono contemplativo più congeniale: vedi l’episodio di di
Endimione e gli scontri tra cavalieri, nei canti ottavo e nono). Per la fantasia, gli si deve riconoscere un eccezionale senso
musicale (ma non supremo: si ricordi il suo giudizio sulla superiore abilità
del Marino nel campo della versificazione); un
disinvolto senso della
figura e del movimento; un pensiero acuto e concreto, ma scoordinato, non
definitivamente sistemato: era troppo spettatore e troppo poco
riflessivo, troppo impressionista e troppo poco filosofo. Motivi
ispiratori.
Limitandoci al solo capolavoro, metteremmo in secondo piano le intenzioni
canzonatrici di poeti e del poema epico in particolare, visto che egli stesso si
dedicava alla scrittura dell’Oceano.
Non si tratta, dunque, a nostro parere, di una specie di canzonatura
donchisciottesca, destinata a vanificare un genere letterario, mettendolo in
burletta. La satira letteraria ha bensì un posto fra i motivi ispiratori, ma
secondario e limitato: si veda, contro i petrarchisti, X, 7; e, contro i
secentisti, XI, 25-9. La realtà è che manca, poeticamene, un vero
motivo dominante. D’accordo, quello della rivalità fra Modena
(ghibellina) e Bologna (guelfa) dà materia al maggior numero di canti e vita
alla più parte degli episodi, che però non sono la cosa più sentita
del poema: sono solo una cornice, all’interno della quale si mettono in
versi altri temi che stanno più a cuore al Tassoni. Si noti che il
fatto della “Secchia rapita”, è accaduto davvero
nel 1323, dopo la vittoria a Zappolino dei Modenesi (i “Gemignani”,
dal nome del patrono; oppure “quei del Pòtta”,
da “pottà” venuto in
uso parlato dalla abitudine di scrivere, nei documenti, abbreviato il termine
“podestà”), contro i Bolognesi (i “Petroniani”, sempre dal protettore;
o “quei del sipa”, dal modo di dire “sì”: cfr. Inferno, 18, 61); ma
tale vicenda comunale viene contaminata con la grande battaglia della Fossalta,
avvenuta nel secolo precedente(1249), quando fu fatto prigioniero il re Enzo,
figlio dell’imperatore Federico II. Già in questa confluenza di vicende, la
tragedia e la commedia sono forzate a fondersi o almeno a convivere. L’amore, sia
pur motivo episodico, è ben più
vivamente vissuto: da quello fra Endimione e la Luna (nelle strofe appassionate
del cantastorie cieco Scarpinello)a quello, becero, del conte di Culagna per
Renoppia, per la quale quello tenta
avvelenare la moglie onde esser
libero di avere la “sua” donna,
finendo per essere beffato con un forte purgante, sicchè si può
immaginare il séguito.
Anche l’amore di Ernesto ed Jaconìa sono declinati verso una finale
farsesca: manca un amore serio e ammirevole, che possa costituire una parentesi
di dramma o di idealismo come l’episodio di Desmanina nell’Asino di C. de’
Dottori. L’amore è un motivo di comicità, non di epopea. Persino Renoppia,
la “Camilla-Clorinda” (vergine guerriera) del poema è maltrattata nella
clausola finale dell’ultima ottava a lei dedicata nella presentazione (I, 17). Un altro tema frequente, seppur anch’esso
stemperato e disperso, è la satira,
ora sorridente ora mordace, di
taluni aspetti della società a lui contemporanea (Italia, sottomessa allo
straniero, ma spensierata e divisa da beghe cittadine o regionali; gli uomini di
Chiesa non sempre all’altezza dei princìpi evangelici, ma anche imbelli o concilianti,
incapaci di posizioni forti e decise; la pomposa moda spagnola
spadroneggiante...). Certi personaggi come il conte di Culagna e il cavalier
Titta Cola, sono anche “prototipi” di certi ambienti del secolo e sintesi di
difetti comuni ad interi strati sociali. Ma neppure questi motivi passano dalla
polemica particolaristica (ostilità al dominatore spagnolo) ad un loro
superamento in un orizzonte di valori universali. Omero è
sottovalutato, ma per il principio ingenuo che vi sia un progresso
continuo e quasi necessario nelle arti, per cui il Tasso rappresenterebbe (pel
momento) il culmine di ogni poesia. L’Italia è deprecata come meschina nelle
guerricciole per un villaggio di confine, ma
non è auspicata come unita: il suo ideale è un ritorno alla feudalità
di una nazione indipendente da stranieri, per vivere la sua vita antica dove era
la nobiltà che comandava. Vi è (nelle Filippiche) il disprezzo per la plebe
che non ha senso dell’onore, sicchè anche la figura di Titta, romanesca
progenie, arricchitosi fra mestieracci e ladronecci, ha funzione di polemica
filoaristocratica. Manca universalità, profondità, umanità definitiva e pura
a quest’uomo legato a passioni reazionarie e risentimenti di provincia. Purtroppo il motivo dei rancori personali vi ha
troppa parte. Il conte Alessandro Brusantini, il cui feudo conteneva una
frazione dal nome innocentissimo di Collagna, diventa per beffa volgare “conte
di Culagna”ed è presentato come millantatore e vile, perchè avrebbe scritto
nel 1614 un libello contro di lui; e perchè, ferrarese di nascita, subiva
l’antipatia dei modenesi, che l’accusavano vanamente di aver ceduto per
codardìa una fortezza ai Fiorentini. Il cavalier Titta Cola è un cacciatore di
gonnelle, ma tanto vanesio quanto
ridicolo. Innamorato della moglie del conte, è lui che orchestra lo scherzo
della purga contro di questi, che è presentato come “l’eroe della paura”
(Jannaco) “filosofo, poeta e bacchettone| ch’era, fuor de’ perigli, un
Sacripante,| ma nei perigli un pezzo di polmone” (La secchia, III,12) . Si è
già detto che contro il damerino
di Roma, Titta, probabilmente si sfoga il
disprezzo dell’autore, nobile, contro il villan rifatto. In conclusione, il poema è un divertimento ed il
Tassoni lo confessa: “...quando l’autore compose questo poema...
non fu per acquistare fama in poesia, ma per passatempo e per curiosità di
vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme” (A chi legge,,
ediz, 1624). Fortunatamente, è anche un discreto divertimento pei lettori. Toni
lirici. Il poema è la cosa migliore della versificazione del secolo
XVII in Italia. Difatti tutto il poema si fa leggere volentieri, anche
se non merita, nel complesso, un giudizio superiore alla
mediocrità: poco più che sufficiente, cioè. Questo non toglie che singole
strofe o singole chiusure di ottave o singoli episodi diano un risultato
poetico migliore: c. VIII: amore di Endimione per la Luna; c. IX: la
sfida di Melindo alla magica giostra degli eroi; altri passi che citeremo
subito. Vi è, intanto, una sfumatura tonale
precisa in molta parte del poema, per la volontà sistematica di fondere
la grandiosità epica e la caricatura.[8]
Ma si tratta di simbiosi, di fusione
che dia origine ad una forma
emotiva complessa (come la tenerezza fra idillio ed elegia; la commozione fra
epopea ed elegia o la estasi fra idillio ed epopea; il grottesco fra
doloroso-disgustoso e comicità; la satira fra dramma e riso...)? oppure si
tratta semplicemente di accostamento e consecutività, di successione ed
alternanza? Tutte e due le cose. Difatti, quando la
sovrapposizione riesce, la epopea ed il riso danno origine a quel tipo
di comicità che è la farsa (rabelaisiana, per far un esempio universale):
come dice lo Jannaco, occorre “la grandiosità dell’iperbole, che è la via
maestra della poesia burlesca” (o. c. p.435). Il caso del “Concilio degli
dei” (II, 28-43), ci sembra paradigmatico[9].
Ma spesso non è la epicità che
sottostà alla voglia di scherzare del Tassoni: come dice bene lo Jannaco “un
senso di bonomia (virtù ch’è il fondo vero dell’anima emiliana) dà vita
al pacato sorriso del Tassoni nel narrare l’eroicomica gesta e percorre tutti
e dodici i canti del poema” ( o. c. p. 436). Là dove manca la epicità,
la vena comica si colora più di umorismo benevolo che di satira
pungente. Quest’ultima è però particolarmente sviluppata negli episodi
riguardanti il conte di Culagna, specie nei canti IX, X, XI: ma qualitativamente
non è sempre alta, per l’affiorare della volgarità dettata dall’astio, cioè
da un dato della vita pratica, dovuto alla insufficiente purificazione dei
propri sentimenti da parte del poeta (III, 11-13; X, 39-74; XI, 12-62). Ma
veniamo ai singoli toni lirici.
Epopea pura: E’il
tono ancora prevalente. Si leggano i
seguenti passi: I, 8-10; 13-15; 24;
26; 32-33; 35-6; 45 II, 1; 10-11| V, 9; 37-8; 58-59; 61; 64-65| VI, 1-8; 19-26;
31-32; 42-43; 47; 72| VII, 1-3. Noi riportiamo I, 8-10: “Mòdana siede in una
gran pianura,| che da la parte d’austro e d’occidente| cerchia di balze e di
scoscese mura| del selvoso Appennin la schiena algente; |Appennin ch’ivi tanto
a l’aria pura| s’alza a vedere nel mare il sol cadente,| che sulla fronte
sua cinta di gielo| par che s’incurvi e che riposi il cielo.|| Da l’oriente
ha le fiorite sponde| del bel Pànaro e le sue limpid’acque;| Bologna
incontro; e a la sinistra, l’onde| dove il figlio del Sol già morto giacque;|
Secchia ha da l’aquilon, che si confonde| ne’ giri che mutar sempre le
piacque;| divora i liti e d’infeconde arene| semina i prati e le campagne
amene.|| Viveano i Modanesi a la spartana,| senza muraglia allor nè parapetto;|
e la fossa in più luoghi era sì piana,| che s’entrava ed usciva a suo
diletto.| Il martellar de la maggior campana| fe’ più che in fretta ognun
saltar dal letto;| diedesi a l’arma: e chi balzò le scale,| chi corse alla
finestra e chi al pitale” (l’ultima nota è realistica e grossolana; è la
chiusura scherosa tipica del Tassoni: se ne riparlerà).
Idillio (salvo, spesso,
la chiusura comica dell’ottava): I,
6 (la citeremo in sede di analisi stilistica); II,16-17[10]
(“Ancor dopo tant’anni e tanti lustri| il suo nome primier conserva e
tiene;| furon già stagni e valli ime e palustri,| or son campagne arate e
piagge amene;| non han però gli agricoltori industri| tutte asciugate ancor le
natie vene;| ma vi son fonti di perpetui umori,| che sogliono abitar pesci
canori.|| Le Sirene de’ fossi, allettatrici| del sonno, di color vari
fregiate,| e del prato e de l’onda abitatrici,| fanvi col canto loro perpetua
state;| i regni de l’Aurora almi e felici| paiono questi, ove son genti nate,|
che ne’ costumi e ne’ sembianti loro| rappresentano ancor l’età
dell’oro”);| III, 1; VIII, 47-59 (Endimione e la Luna); IX: tutto (incanto della
favola cavalleresca: sinergismo di
epopea ed epicità, come in Ariosto); XI, 21 (“E la pittrice già
dell’oriente,| pennelleggiando il ciel de’ suoi colori,| abbelliva le strade
al dì nascente,| e Flora le spargea di vaghi fiori;| quindi usciva del Sole il
carro ardente,| e di raggi e di luce e di splednori| vestiva l’aria, il mar,
la piaggia e’l monte| e la notte cadea da l’orizzonte”.
Ironia benevola (Umorismo) o pungente (Satira): I, 1-2; 30; 37;
40; 51; 52; 58; 60| II, 11; 15-16; 28; 55| IV, 8;25. L’umorismo benevolo è
forse la corda migliore nell’arpa poetica del Tassoni: si vedano i versi
dedicati a mons. Quarenghi, suo amico ma fatto passare per legato del papa al
tempo mitico della “Secchia rapita” (V, 28-30: “Egli partì da Vienna in
su le poste;| e nel passar de l’Alpi, a un ponte rotto,| il pefido caval per
certe coste| lasciò cadersi, e non gli fece motto;| anzi, da discortese e
bestia d’oste,| stava di sopra e Monsignor di sotto;| onde la nunziatura indi
levata| con mal augurio fu mezzo spallata.|| Quivi ei montò in lettiga: e
seguitando| con una spalla fuor d’architettura,| giunse a punto a Bologna il
giorno quando| l’esercito uscìa fuora a la ventura:| si fe’ porre il
rocchetto, in arrivando,| da don Santi, e salì sopra le mura,| dove a l’uscir
de la città le schiere| chinavano a’ suoi piè lance e bandiere.|| Ed egli
con la man sovra i campioni| de l’amica assemblea, tutto cortese,| trinciava
certe benedizioni,| che pigliavano un miglio di paese.| Quando la gente vide
quei crocioni,| subito le ginocchia in terra stese,| gridando: -Viva il papa e
Bonsignore,| e muora Federico imperatore-); XII, 14-6.
Grottesco (il ridere sul dolore, sulla bruttezza: il riso che si
mescola al ribrezzo: lo documentiamo, perchè è una somma di stati d’animo
rari ad incontrarsi, ma caratterirstici dell’arte –figurativa ancor più che
verbale- del Milleseicento): I, 17 (la finale della descrizione di Renoppia:
“Bruni gli occhi e i capegli rilucenti| rose e gigli il bel volto,
avorio il petto,| le labbra di rubin, di perle i denti,| d’angelo avea la voce
e l’intelletto.| Maccabrun da l’Anguille, in quei commenti| che fece sopra
quel gentil sonetto| -Questa barbuta e dispettosa vecchia-,| scrive
ch’ell’era sorda da un’orecchia”; VI, 36-37 (“A lui si volse il re (Enzo)
con un riverso,| e’l colse a punto al confinar del ciglio;| tutta la testa gli
tagliò a traverso,| balzò un occhio lontan da l’altro un miglio,| per la
cuffia il cervel se ’n gìo disperso;| stè in sella il tronco, e l’alma andò
in esiglio,| e’l destriero, che’l fren sentìa più lasso,| incognito il
portava attorno a spasso.|| Non ferma qui la furibonda spada,| ch’era una lama
da la lupa, antica;| ma tronca, svena, fende, apre e dirada| ciò ch’ella
incontra; uomini ed armi abbìca.| Or quinci or quindi si fa dare la strada,| ma
innumerabil turba il passo intrica;| veggonsi in aria andar teste e cervella,| e
nel sangue notar milze e budella”; VI, 60 “Ma quello sforzo[11]
aprì la piaga, e sparse| l’alma col sangue, e certo fu peccato;| ch’amico
più fedel non potea darse| e non bevea giammai vino inacquato.| Lo scudo
ch’ei lanciò venne a incontrarse| nel braccio che spingea Perinto irato| e
nel volto e nel petto e ne la mano,| e gli fe’ rimaner quel colpo vano.|| Ma
che pro, se’l garzon non si ritira,| e nuova fiamma al vecchio incendio
aggiugne?| colpi raddoppia ai colpi, e a ferir mira| dove s’apre la piastra e
si congiugne.| Perinto avvampa di disdegno e d’ira,| e d’una punta a mezzo
il ventre il giugne;| la panciera d’Ettòr, ch’era incantata,| non gli
avrebbe la vita allor salvata”.
Dramma: II, 25 (stupore: “Qual resta il pescator che ne la tana|
mette la man per trarne il granchio vivo,| e trova serpe o velenosa rana| o qual
si voglia altro animal nocivo;| tal la gente del Potta altiera e vana,| trovar
credendo un popolo corrivo,| quando sentì quella protesta, tutta| raggrinzò le
mascelle e si fe’ brutta”). | III, 2| VIII, 63-4 (Renoppia e Scarpinello); Note
stilistiche.
E’ un poema di dodici canti in ottave, che mescola epopea e comicità.,
composto in dieci mesi. Non ci si può aspettare -e per la natura del genere
misto e per la fretta della stesura-, grande raffinatezza od eleganza di versi. Il
Tassoni, contrario nel complesso[12]
al concettismo, condivide invece con la letteratura barocca la popolanità, cioè
un realismo accentuato: che giunge fino alla volgarità (VIII,
Scarpinello, alla fine del canto, tanto che Renoppia lo deve scacciare seccata;
i canti IX-XI dedicati alla... purga del conte), ma che comunque frequenta
vistosamente le realtà più umili, banali, plebee, umilianti.[13]
Egli, che è critico di certe leziosità del Petrarca oltre che della imitazione
ridicola dei petrarchisti, si lascia andare anche alla critica del Dolcestilnovo
(X, 7), perchè il suo animo (mediocre, ma sincero) rifiuta gli eufemismi e le
finzioni dell’amore cortese. Il fatto che egli passi all’estremo opposto
non toglie che la sua rivendicazione della realtà comune e
popolare non sia indizio di una modernità di vedute: anch’egli,
come la opinione pubblica che sta alle spalle della produzione lirica barocca,
si accorge dell’ascendere del popolo ad un miglior stato di vita, ad un peso
sociale maggiore attraverso la cultura o la diminuita distanza dalle classi
colte. La simpatia per il popolo non entrò nell’animo del Tassoni, ma quella
per il loro mondo di vita, sì. Egli si affianca ai poeti che cantano la donna
serva o contadina, zoppa o guercia, vecchia o frustata, con pidocchi o
sbalestrata di carrozza, “mendicatrice” (è il titolo di un sonetto del
Tassoni) o pazza.... Dice, dunque, bene lo Jannaco: “Si legga l’apostrofe di
Culagna a Renoppia prima del duello (XI, 25-29) per costatare questo fatto
veramente interessante dal punto di vista critico: interessante anche in quanto
vale a confermare il nuovo orientamento naturalistico dell’estetica nel
primo Seicento....Di naturalismo secentesco... bisogna parlare, anche a
proposito del modenese, piuttosto che di echi o residui della schiettezza
rinascimentale” (o. c. p. 427). Ed a p. 434: “Nè mancano, nella Secchia
rapita, accenni di poesia realistica (es. morte di Braghettone: IV, 28-29),
suggerita da quella stessa vena cui si accennava, che induce talvolta
l’autore a rifare scherzosamente le parlate dialettali bolognesi o modenesi,
bresciane o ferraresi o romanesche...”. E’ facile notare che l’autore usa abilissimamente
della clausola finale dell’ottava (ultimo verso o distico) per
introdurre la nota di comicità in ogni tipo di discorso e tonalità lirica. Il
caso più divertente è forse quello della
sesta strofa nel primo canto, in cui l’alba primaverile, che risente
addirittura del Poliziano, scavalca improvvisamente in una platealità asinina,
da precipitare il lettore nella risata. Leggiamola assieme: “Del celeste
Monton già il sole uscito,| saettava co’ rai le nubi algenti;| parean
stellati i campi e’l ciel fiorito| e sul tranquillo mar dormìeno i venti;|
sol Zefiro ondeggiar facea sul lito| l’erbetta molle e i fior vaghi e
ridenti,| e s’udian gli usignuoli al primo albore| e gli asini
cantar versi d’amore”). Ma, rileviamolo
con Jannaco, “la comicità della clausola è talora di grana molto grossa”.
Lo diciamo per introdurre il rilievo sulla tecnica del riso in Tassoni: è
molto più frequente la comicità caricaturale, diretta, deformatrice che non
quella allusiva, indiretta, fintamente elogiativa. Equivoci, ambivalenze (da
interpretare a rovescio, pel contesto che lascia affiorare il vero senso inteso
dal poeta) non mancano, ma sono rari: si veda per altro I, 5 e 60| II, 16-17|
VII, 28. E in funzione caricaturale egli sa usare non solo i
dialetti, ma un toscano antiquato od un secentismo sollecitato al peggio per
demolirlo: (I, 6| X,7| XI, 25-29). Leggiamo il ricupero a fine eroicomici della
metafora del Salomoni (“biada d’eternità, stalla di stelle”), in II, 29:
“Da le stalle del ciel subito fuori| i cocchi uscir sopra rotanti
stelle...”. Il Varese (Garzantiana, p. 732) fa notare come la
paratassi sia di gran lunga prevalente; come l’uso delle proposizioni relative
costituiscano la complicazione più solita (“ma l’oste ch’era
guercio e bolognese...”| Saturno ch’era vecchio e accatarrato”...):
in realtà vi sono altre subordinate (temporali, causali...), ma quasi mai più
di una per periodo. Certo, non un’aquila era il Tassoni: ma sapeva bene
l’arte di volare come un falco che si tuffi a predare veloce, per risalire a
godersi la vittima: ed a farla
godere a quanti, anche oggi, vogliono riappropriarsi della sua “secchia” per
spegnervi lietamente la sete di un
sorriso o di una risata. Altri poemi
eroicomici
Lo scherno degli dei (1618| 1626), di Francesco Bracciolini.
L’opera fu intenzionalmente pensata per opporsi al residuo paganesimo,
presente attraverso la mitologia, nella letteratura cristiana anche del
Milleseicento. Al centro dei primi 14 canti (1618)
vi sono gli amori ridicoli di Venere-Marte- Vulcano-Anchise; e coinvolti sono
anche Mercurio e Cupido, come osteggiatori o favoreggiatori del groviglio
indegno. Gli altri sei canti, editi nel
1626, non concludono il poema, che doveva giungere alla conflagrazione del mondo
mitologico, attraverso una battaglia fra gli dei e la conseguente loro
sparizione. Alcune divinità, come Venere e Cupido, sono comunque già
estinte ad opera della Notte che li annulla. L’Asino
(1652), di Carlo de’ Dottori. L’argomento è parallelo a quello della
“Secchia” del Tassoni. Qui, i Padovani rubano ai Vicentini uno stendardo che
ha per insegna un asino. La Moscheide (1624), La Franceide (1629), L’Eneide
travestita (1634), di Giovan Battista Lalli (Norcia, 1572-1637: studiate leggi a Perugia,
fu al servizio dei papi come gorvernatore in varie città ). Il
primo mette in scena Domiziano che vuol vendicarsi di una mosca che gli ha
disturbato un sogno amoroso: la guerra finisce con una congiura che porterà
alla morte l’imperatore romano ed alla vittoria delle mosche. La Franceide riprende l’argomento della sifilide, già trattato
dal Fracastoro nel secolo precedente: la disfida di Barletta, dando la vittoria
agli italiani contro i Francesi, assegna definitivamente la causa del male a
questi ultimi, liberando l’Italia dalla calunnia (“il male napolitano”).
Il morbo sarà dunque detto “gallico”.
Il travestimento del poema virgiliano è ovviamento burlesco. Ma il Lalli scrisse anche un poema epico serio: Tito
Vespasiano overo Gerusalemme desolata (1635). Piero de’ Bardi: fiorentino (1570-1660): letterato e membro
della Crusca, collaborò alle prime due edizioni del Vocabolario (1608|1623) ed
è autore del poema Avino, Avolio, Ottone
e Berlinghieri (1643: elaborato per decenni a partire dalla fine del sec.
XVI). Vi si narrano le avventure e scapestrataggini dei quattro personaggi che
già l’Ariosto presenta come furfanti (Furioso, XVI, 17 e XVIII, 8). Altro che
cavalleria seria ed impegnata! questi pretesi figli di Namo di Baviera servono
solo a destare risa con imprese ribalde e vita da animalacci, riempendo un
poemone picaresco di sedici canti. Bartolomeo Corsini (1606-1673: nasce a Barberino di Mugello) è
autore del Torracchione desolato,
scritto verso il 1660, ma edito solo nel 1768: è piuttosto un romanzo in versi
ed in tono scherzoso, basato su vicende sentimetali e lubriche. Lorenzo Lippi (Firenze, 1606-1664): fu pittore e poeta, amico di
Salvator Rosa e fondatore, con lui,
della Accademia dei Percossi. Come pittore, dipinse molto per soggetti
religiosi, anche se la sua fama resta più legata ai ritratti, fra cui
l’Autoritratto e quello del Rosa.
Iniziò a Innsbruck (vi era
stato dal 1647 al 1649, al servizio della duchessa Claudia de’ Medici) quello
che sarebbe diventato Il Malmantile
racquistato, poema eroicomico in 12 canti, pubblicato solo dopo la sua morte
(1676), con nome anagrammato. Narrano la causa presunta della rovina di un
castello presso Firenze: sarebbe stata la guerra per la regina Celidora, caduta
in mano al ribaldo Cornacchia e liberata da Baldone. Ma il poeta bada a inserire
motti e riboboli, proverbi del parlar vivo
fiorentino, senza riuscire a convincere liricamente.
Federico Nomi: nato ad Anghiari, in provincia di Arezzo:
1633-1705). Fu professore di diritto medioevale a Pisa e pievano a Valtiberina.
Tradusse Orazio e scrisse anche un poema epico (Buda liberata), tragedie, egloghe e drammi vari, liriche, fra cui i
sonetti per un santo al giorno sono raccolti nel volume intitolato “Santuario”.
E’ però famoso più per Il
catorcio d’Anghiari, in cui si narra di un catenaccio rapito ad una porta di Anghiari da quelli di Santo
Sepolcro. Composto attorno al 1685,
il poema vide la luce solo nel 1830. Ippolito Neri: nato ad Empoli, visse dal 1652 al 1709 e fu medico,
allievo di Francesco Redi. Fu un ammiratore del Tasso ma, non sentendosi
all’altezza di quel grande poeta,
si rassegnò ad imitare il... Tassoni e un po’ tutti i poeti eroicomici. Il
frutto che ne risultò fu La presa di San
Miniato, su una presunta guerra fra Empoli e Sanminiatesi. La trama fittizia
è un pretesto per scherzare e canzonare. In un linguaggio sciolto e verso di
un messaggio preciso da esprimere, di un centro di comicità
dominante ed unificante, di un avversario (almeno) o di una società da
parodiare. Così il poema nasce da una finzione e procede
per spunti occasionali, che lo riducono ad un lavoro disorganico e, alla
fine, noioso. Il poema du pubblicato solo nel 1760. Egli ha lasciato anche Saggi
di rime amorose, sacre ed eroiche. POESIA
SATIRICA SALVATOR ROSA.
La vita. Nato ad Arenella
(Napoli) nel 1615, morirà a Roma nel 1673. In patria si formò, oltre che nella
pittura, anche nella musica e negli studi letterari.
Come pittore egli diede il meglio di sè nella rappresentazione di
paesaggi, marine, battaglie, più che non in ritratti. A Roma si recò una prima
volta a vent’anni e vi soggiornò dal 1635 al 1640: dovette alla fine
sbrattare dagli stati pontifici (come il Cellini ed il Caravaggio nel secolo
precedente) per le ostilità nate dal suo comportamento rissoso. Lo accolsero i
Medici a Firenze, dove fondò col Lippi l’accademia dei Percossi, recitandovi
come attore in commedie improvvise. A Firenze compose pure le prime quattro
satire: le ultime tre le scriverà
a Roma, dove rientrò definitivamente nel 1649, non senza
processi dell’Inquisizione per la sua vita scellerata e la audacia
delle sue satire, che venivano
recitate dall’autore in circoli e salotti di amici (la stampa avvenne solo nel
1694). Le Satire[14].
Egli si diede alla poesia solo per
hobby (“Pinger per gloria e poetar per gioco” dirà nella terza satira). Ciò
non toglie che le sue Satire siano le
migliori fra le moltissime scritte nel secolo. Sono sette, ma l’ultima non è
finita. Sono in terzine dantesche e le ultime quattro sono a forma di dialogo.
La prima è intitolata La musica e si
scaglia contro la corruzione sessuale cui essa dà troppo spesso ocasione;
critica pure la evirazione dei ragazzi per ottenerne dei soprano-contralto
d’eccezione una volta adulti; e condanna le autorità vaticane che, assumendo
tali cantanti nella cappella sistina, favorivano il triste fenomeno. La seconda
è dedicata a La Poesia: tuona contro
i poetastri in genere ed i marinisti in specie. E’ forse la satira migliore:
sua è l’accusa ai marinisti di aver trasformato Nettuno in baccalà, avendolo
chiamato il “dio salato”; sua la denuncia della ridicolaggine nel verso di
G. Salomoni “biada d’eternità, stalla di stelle”; sua l’apostrofe
caricaturale al sole “boia che tagli| colla scure de’ raggi il collo
all’ombre”... La terza satira riguarda La
pittura: depreca i volgari realisti (ed anche Michelangelo sente le sue!);
la pittura deve essere intesa invece come colorito e disegno (ma è poi definita
quale pura imitazione, anche se egli vuole che il pittore renda visibile
l’invisibile ed evidente, lo spirituale). Delle incoerenze del Rosa dovremo
riparlare. La quarta satira tratta
de La guerra: apostrofa il mestiere
del mercenario e l’uso stesso delle armi; si scatena contro la immoralità del
secolo; denuncia la moda del vestire venuto dalla Francia (vestiti attillati e
succinti andavano sostituendo quelli sgargianti e sovrabbondanti degli
spagnoli); svela i motivi non tutti limpidi del diffondersi dei viaggi di
cultura e di diporto; parla invece bene di Masaniello e della sua rivolta. La
quinta (L’Invidia) è
un’autodifesa contro i denigratori, che erano giunti a negare che le satire
fossero farina del suo sacco... La Babilonia
è scritta contro Roma e contro Napoli (città
dominata da furbi e prepotenti, che opprimono i deboli ed i poveri)
e contro la donna scostumata. Il
Tirreno, incompiuta, è un addio alla scrittura di satire: egli ha la
coscienza di aver dato all’Italia l’esempio di una poesia degna del profeta
Elia e del greco Tirteo; ma tant’è, neppure essa ha efficacia; è inutile... Giudizio sulle
Satire e sull’uomo. Il motivo moralistico e lo stile lucilianeo[15],
con la varietà dei bersagli contenuti, lo fanno, nel complesso, superiore anche
all’Ariosto tra i predecessori.
Ma vi sono dei limiti innegabili. Uno fu pronunciato dal cardinal Pietro Sforza
Pallavicino, suo contemporaneo che ne ascoltò la recitazione: “ a pezzo a
pezzo, vi erano dei bellissimi squarci”: dietro l’elogio stava la negazione
della validità dell’insieme. Due secoli dopo, Giuseppe Giusti ne giudicò con
queste parole: “sorridono d’una certa scioltezza gaia e ciarliera: vi senti
il brio pronto e loquace del napoletano: il fare dell’uomo avvezzo in palco a
spassar le brigate: ma io lo scorgo povero in mezzo a quel lusso erudito;
declamatore pieno di lungaggini.... che vanga e rivanga uno stesso pensiero e lo
rivolta da tutti i lati; come se sfaccettasse un brillante...” In conclusione: manca di concretezza, si dilunga e
ripete, non presenta quelle vette poetiche delle favole (o di qualche squarcio autobiografico) dell’Ariosto,
anche se la sua versificazione è molto più sciolta e disinvolta, scorrevole e
armoniosa. Rimangono poi, a carico dell’uomo, i problemi della
coerenza. Due sostanzialmente. Egli è un franco antisecentista nelle Satire, ma
usa talora una retorica subsecentista o scopertamente barocca: si vedano i vv.
31-66 della terza (quella sulla Poesia); e La strega (una delle rare
composizioni poetiche, fuori delle Satire). L’altra contraddizione sta nel
divario fra lo sdegno (sincero, parrebbe) dei suoi versi e la rilassatezza della
sua vita (violenza, prodigalità, libertinaggio sessuale, vanità ed
esibizionismo). Oltre tutto, solo
in punto di morte egli si decise a sposare la madre dei suoi figli. Benedetto Menzini (Firenze, 1646-1704). Ecclesiastico e
letterato, professore di eloquenza a Prato ed a Firenze, ma inutilmente
aspirante ad una cattedra in Pisa, fu protetto da papi (Innocenzo XII e Clemente
XI) ed entrò alla fine al servizio di Cristina di Svezia. Fu membro della
Crusca, dell’Accademia fiorentina ed infine dell’Arcadia: dell’Arcadia,
anzi, fu il più efficace preparatore, diffondendo le sue idee antibarocche e
sapientemente classicistiche. Non per nulla era un letterato di Firenze.
Poetò in diversi generi: scrisse Poesie
liriche (amorose, eroiche, sacre); compose elegie; in versi sciolti
stese la Etopedia (di carattere
pedagogico); in terzine dantesche espose
la sua poetica ed i suoi princìpi di critica letteraria (Arte
poetica); un’opera di versi misti a prosa
fu intitolata Accademia tusculana.
Le sue tredici
Satire godettero di fama
superiore al loro valore, ma posson reggere al paragone con quelle del Rosa.
I suoi migliori versi, però,
sono da ricercarsi in qualche lirica di spirito georgico-pastorale,[16]
mentre la sua opera culturalmente più efficace fu l’Arte poetica, per l’influsso avuto sul nuovo gusto nel
precorrimento dell’Arcadia e del classicismo. Le Satire
furono edite postume (1718), come gran parte delle opere (1731-2). Vediamo dunque un giudizio sulle Satire.
In quanto ai Motivi ispiratori sono inferiori a quelle del Rosa, perchè
quest’ultimo si rivolge contro mali sociali e categorie intere di
persone, a costo di risultare generico. Viceversa il Menzini, pur tenendo
presente il contesto morale del tempo, si chiude troppo
nella considerazione del riflesso, sul proprio mondo di aspirazioni, dei
vizi sociali: si deve costatare che il suo estro si desta a vigore satirico
quasi solo là dove egli si scaglia contro avversari personali e specialmente
contro il professor Moniglia (Giovanni Andrea), che gli precluse l’accesso
alla cattedra di eloquenza a Pisa. Dai versi riportati dallo Jannaco nel suo
Seicento vallardiano, ci sembra esatto il giudizio: “...Menzini è più
accanitamente individualista dello stesso Rosa: in lui può soprattutto –come
ben vide il Cian- la passione personale, che, se gli preclude la più ampia
prospettiva dei tempi, in compenso, lo salva dal pericolo, tanto frequente negli
altri poeti satireggianti, di adirarsi a freddo-”(p.407). Questa, dunque, la
componente positiva dei suoi versi: ma, leggendoli, ci si deve accorgere che il
poeta non purifica del tutto la passione pratica, l’astio egoistico, la
dimensione sentimentale dello stato emotivo: “egli stesso... confessa in una
lettera: -Alle volte io non conosco me medesimo, e quando scrivo arrovellato, mi
par di fare una soavissima melodia” (ivi). Di qui insulti a “Curculione”
(il Moniglia) e persino alla moglie ed al figlio di lui! Che non è una bella
cosa: neppure per un prete! Ma ecco i versi che cita lo Jannaco: “Trippe,
venite a incoronar costoro,| che in cattedra ruttando barbarismi,| forman de’
barbassori il concistoro.|| Ditemi un poco: i primi tre aforismi| d’Ippocrate
non bastan per dieci anni| per dar materia ai vostri solecismi?|| O dottoracci,
che un’arpia vi scanni,| insin che avete avanti il Comentario,| so, che tirate
il collo al Barbagianni.|| E noi preti osserviamo il calendario,| e diciam
tuttodì messe ed ufizzi| perchè rubiate e decime e salario.|| Io non prego,
che il diavol ve n’attizzi,| che’l tempo è lungo, e vi vorrei impiccati|
veder fra le colonne degli Ufizzj.|| Ed il primo tra lor degli squartati| vorrei
il fiorentino Curculione,| archinmandrita degli sciagurati;|| ed il secondo quel
moral Catone,| buffone anch’egli ed inclito ciarliero,| che dentro è un
Epicuro e fuor Zenone” (p.408). I versi del Rosa sono, oltre tutto, più scorrevoli e
melodiosi; ma non giungono alla “rabbia” del Menzini, il quale talora sembra
sfiorare la potenza espressiva di
Dante. Si veda questa ribellione ai poeti pindareggianti del tempo: “Che
tracotanza, che superbia è questa| con un parlar spropositato e matto| con
Pindaro voler alzar la cresta?|| Che s’egli gira, e per immenso tratto| stende
il suo volo, ei sa però quel punto,| che quasi centro al suo discorso ha
fatto...”. Sì, i versi dicono chiaramente la compattezza della unità nelle
composizioni di Pindaro, nonostante i voli che
egli stacca dal motivo occasionale del canto, ma lo dicono stentatamente,
con giri di parole; e soprattutto non dimostrano la mancanza di tale estro
solenne negli imitatori, i quali sono condannati senza prove concrete. Altri
poeti satirici li portiamo in nota.[17]
POESIA
LIRICA Non sono molti gli scrittori di versi che si
sottraggono alla moda del tempo. Loro modelli sonoquelli di tutta la letteratura
classica, sia latina (con Virgilio
ed Orazio ai primi posti), sia greca (con Anacreonte e Pindaro, che balzano sul
proscenio: anche se la imitazione avviene attraverso traduzioni in latino).
Rimangono i mostri sacri del Petrarca e del Tasso, ma altri riferimenti si
aggiungono: la poesia spagnola (specialmente per Fulvio Testi) e francese
(specialmente per Gabriello Chiabrera) interferiscono, dando e prendendo spunti.
Se è lecito avanzare un processo al loro subconscio,
diremmo che la moda del barocco incide su di loro indirettamente, attraverso lo
spirito del grandioso, dell’epicizzante, dell’enfasi: l’amore per Pindaro
e il tentativo di imitarlo può aver avuto uno stimolo anche in questa sfida
inconsapevole a dimostrare che non occorreva
cadere nelle astruserie dei concettini per destare la meraviglia: bastava
seguire i grandi classici... Cominciando dal Campanella, intendiamo rifarci ad un
fuori serie: non si riuscirebbe ad assegnarlo a nessuna scuola, così come lui
non è riuscito a crearsi nessun
seguace. Tommaso
Campanella. Vita e
pensiero.
Nacque a Stilo (Reggio C.) nel 1568 e morì a Parigi nel 1639. A 14 anni fu
novizio dei Domenicani, certo perchè aveva una tensione verso la radicalità di
soluzioni di vita
in ogni campo, ma probabilmente anche perchè la vita religiosa
permetteva l’esaudimento della sua specifica brama di sapere
, senza necessità di condizioni economiche adeguate. A diciotto anni
snobbava già l’aristotelismo; nel 1589 si recava arbitrariamente a Napoli, dove Giambattista Della Porta lo iniziò alla
scienza, ma anche alla astrologia ed alla magia. In questo contesto si
andò evolvendo l’influsso del conterraneo Bernardino Telesio: la
natura tutta sarebbe animata, tanto che, trovata
la chiave delle sue operazioni, può essere sia interpretata con la previsione
del futuro (oroscopi astrologici); sia usata per ottenerne effetti miracolistici
a servizio dell’uomo e del suo dominio sulla vita (formule magiche). Simili
concezioni gli attirarono processi da parte della Inquisizione, la cui sentenza
gli ingiungeva anche di rientrare nel convento di Calabria. Si recò invece a
Padova, passando per Roma e Firenze. Anche a Padova incappò in nuovi processi,
che lo videro sottoposto a tortura e trasferito a Roma, al carcere della
Inquisizione: una formale abiura lo liberò una prima volta, ma
già nel 1597 era ancora arrestato per eresia e questa volta dovette
decidersi a tornare in Calabria. Ma quivi la sua parola suscitò una congiura
antispagnola (1599: magari col fine di far rifluire alla Chiesa il dominio
diretto del regno di Napoli, in vista della vittoria su tutti i nemici del
cattolicesimo: ma se ciò è vero, come potè invitare i Turchi ad appoggiare la
congiura?): tradito ed arrestato, processato per congiura ed eresia, riuscì a
resistere ad ogni tortura ed a fingersi pazzo. Si salvò così dal capestro. Fu
condannato al carcere a vita, di cui quattro anni durissimi in castel
Sant’Elmo a Napoli. La più parte degli studiosi ritiene che fino al 1602-5
Campanella fosse fuori della ortodossia cattolica e che solo il dolore del
carcere lo abbia davvero convertito. Per poter capire a fondo in che cosa egli si staccasse dalla dottrina cattolica (ancora c’è
qualcuno che lo pensa
sostanzialmente sempre ortodosso, come egli sempre si protestò; altri che
pensano che mai si sia seriamente convertito e che solo per salvarsi abbia
abiurato) occorrerebbero due condizioni: anzitutto che il Campanella
potesse disporre di una intelligenza così coerente da non lasciarvi
coabitare (anche dopo la conversione) dottrine
filosofico-teologiche contradditorie; in secondo luogo, che la sua
posizione mentale prima della conversione fosse stata messa in carta così
estesamente, come il carcere gli permise di fare per
il suo pensiero ritornato alla fede (salvo ingenuità, anche
allora,comprensibili nella sua individualità alquanto disequilibrata).
L’avvento al soglio pontificio di Urbano VIII (1623) segnò la sua liberazione
(1626), sia pure sotto la sorveglianza ( dapprima in carcere, fino al 1629) del
S. Ufficio. Ma la Spagna ne chiese ancora la estradizione per
la congiura napoletana dei Pignatelli, in cui lo credeva implicato.
Allora papa Urbano VIII gli facilitò la fuga in Francia, dove visse gli ultimi
cinque anni di vita, circondato dalla stima di politici e di dotti. La
individualità.
Le vicende tempestosamente varie del suo pensiero mutevole,come della sua
esistenza irrequieta, rendono sospette tutte le idee e tutte le conversioni di
quest’uomo. Credente sino a farsi religioso, miscredente sino ad aggregarsi al
materialismo telesiano, ingenuo sino alla illusione di poter organizzare la
liberazione dal dominio spagnolo il vicereame di Napoli, astuto fino a fingersi
pazzo ed a scansare, così, la condanna a morte; sostenitore di una teocrazia
col potere assoluto nelle mani del papa, affidata alla protezione della Spagna
(prima) e della Francia (poi), dopo aver sognato un regno
comunardo-religioso-schiavista, dove si vivesse ( sotto il dominio assoluto di
una triade di potenza sapienza e moralità, che avrebbe rispecchiato la
Trinità di Dio) una specie di paradiso in terra (La
città del sole: 1602), egli rivela un temperamento “mercuriale”
(direbbero gli anglosassoni) o “collerico” (diremmo noi), con un
insufficente controllo della sfera
razionale su di esso, per la superiorità della veemenza emotiva rispetto alla
chiarezza intellettuale, che
avrebbe dovuto imbrigliarne le sollecitazioni al pensiero|azione
ed organizzare l’uno in un sistema coerente e l’altra in una prassi
efficiente. Noi ci interessiamo unicamente della sua produzione
poetica (Poesie filosofiche) in parte
pubblicate nel 1622 con lo peseudonimo di Settimontano Squilla e, integralmente,
solo nel secolo XX. Rimandiamo in nota i titoli delle altre opere più
importanti di filosofia, teologia, magia, politologia.[18]
Il contenuto dei versi è in genere davvero filosofico: metafisica, religione,
morale, politica; raramente egli tratta il tema amoroso. Ma la forma
difficilmente corrisponde alle grandi idealità messe in versi; nè queste sono
sempre chiare e coerenti. Tre
infatti i limiti del poetare campanelliano: uno, strettamente formale, è
la insufficiente, talora urtante musicalità
(tale dissonanza è dovuta anche al frequente battere del secondo “ictus”
sulla settima anzichè sulla sesta od ottava sillaba dell’endecasillabo); l’altro,
riguardante i motivi ispiratori o tematiche, è la dispersione nell’esporli,
per la difficoltà a concentrarli nella misura della metrica; è la incertezza
nel concepirli, vagando essi e contrastandosi nel corso degli anni; è il loro
carattere utopistico che li rende ardui ad una espressione chiara e forte,
commovente od almeno convincente; il terzo è il più solito
affievolimento dell’impeto iniziale, che delude dopo aver aperto la
fantasia all’attesa di un sonetto|madrigale interamente ispirato.
In genere i versi autobiografici o relativi alla psicologia e morale sono
più riusciti che non quelli “metafisici o filosofici”. Si vedano questi avvii o versi isolati: “Io nacqui
a debellar tre mali orrendi,| tirannide, sofismi, ipocrisia...” (son. 8);
“Il popolo è una bestia varia e grossa,| che ignora le sue forze; e però
stassi| a pesi e botte di legni e di sassi| guidato da un fanciul che non ha
forza...”; “e il fuoco più soffiato, più s’accende| poi vola in alto e
di stelle s’infiora...” (son. 64). “La morte è dolce a chi la vita è
amara:| muoia ridendo chi piangendo nasce”. Sembrerebbe di sentire Dante od
Alfieri: ma il restante dei versi non regge al brio iniziale (è il difetto dei
canti di Lutero, ispirati ai Salmi: dopo la mossa felice iniziale, scadono nel
prosaico; è il limite dei verseggiatori di temperamento “collerico”: hanno
uno slancio formidabile, ma poi scadono, perchè sono “primari od instabili,
esauribili”).[19]
Questo non toglie che vi siano
sonetti quasi al tutto riusciti. Ecco quello (caudato) del Buon
Samaritano tradotto in termini storico-ecclesiastici (ed allora è da definirsi
filoprotestante) e teologici (e, allora, rimane cattolico): “Da Roma ad Ostia
un pover’uom andando| fu spogliato e ferito da’ ladroni:| lo vider certi
monaci santoni| e’l cansar, sul breviario recitando.|| Passò un vescovo, e
quasi nol mirando,| gli fece sol
croci e benedizioni:| ma un cardinal, fingendo affetti buoni,| seguitò i ladri,
lor preda bramando.|| Alfin giunse un tedesco luterano,| che nega l’opre e
afferma la fede:| l’accolse, lo vestì, lo fece sano.|| Chi più merta di
questi? chi è più umano?| Dunque al voler l’intelligenza cede,| la fede
all’opra, la bocca alla mano,|| mentre quel che si crede| s’a te ed agli
altri è buono e ver non sai;| ma certo è a tutti vero il ben che fai”. Ecco un
congedo di canzone, il quale sembrerebbe cantare (rifacendosi a quella di Dante
“Tre donne intorno al cuor mi son venute”) chissà quali ideali od auspicare
chissà quali eventi fortunosi, per
concludere, però, in una balorda vanità personale: “Tre canzon, nate ad un
parto,| da questa mia settimontana testa,| al suon dolente di pensosa squilla|
ch’ostetrice sortilla,| ite al Signor, con facce e voce mesta| gridando
miserere| del duol, che’l vostro padre ange e funesta.| Nè sia chi rieda a
darmi altra novella| del Rettor delle sfere| che’l fin promesso dell’istoria
bella| (sia stato falso o vero il messaggiere),| cantando: -Viva, viva
Campanella!”. Ed ecco un sonetto d’amore, drammaticamente
intonato da cima a fondo: “Donne, dissi talor che gli occhi vostri| eran del
ciel due fiammeggianti stelle:| dicolo ancor, ma di quell’empie e felle|
ch’apportan peste, ira, serpenti e mostri.|| E dissi ch’eran fiamme: or con
inchiostri| che sian fiamme ridico, ma di quelle| che tormentan l’inique alme
rubelle,| sulfuree e smorte nei tartarei chiostri.|| E dissi che il sembiante e
che il crin era| di dea: or questo affermo, ma d’Averno,| di Tesifon,
d’Aletto e di Megera.|| Il vero allor conobbi, il vero or scerno;| vera fu
allor mia voce, or anco è vera:| chè allor Paradiso, or sete Inferno”. Altro
sonetto leggibile ci pare il seguente (anche se un po’ generica ne è la
fierezza polemica): “Sciolto e legato, accompagnato e solo,| gridando cheto,
il fiero stuol confondo:| folle all’occhio mortal del basso mondo,| saggio al
Senno divin dell’alto polo.|| Con vanni in terra oppressi al ciel men volo,|
in mesta carne d’animo giocondo;| e se talor m’abbassa il grave pondo,|
l’ale pur m’alzan sopra il duro suolo.|| La dubbia guerra fa le virtù
conte.| Breve è verso l’eterno ogn’altro tempo,| e nulla è più leggier
ch’un grato peso.|| Porto dell’amor mio l’imago in fronte,| sicuro
d’arrivar lieto per tempo,| ove io senza parlar sia sempre inteso”. Diremo, concludendo, che là dove il Campanella
attinge poesia (a sprazzi), questa non è mai idillica od elegiaca, ma
drammatica od epica. Ma, ripetiamo, “dove e quando la attinge”. Per lo stile, se non manca qualche concessione a
Petrarca e persino al gioco dei contrasti di moda, pure Dante è il suo
modello e, per il resto, bada a cavar fuori dalla propria mente
(filosoficamente ed evangelicamente informata) il vocabolario
schietto e univoco: è fin troppo diretto ( impulsivo: “tuosto”,
dicono a Napoli), ingenuo e semplice sia come pensatore, che come poeta, che
come uomo pratico.[20] Gabriello
Chiabrera
(Savona, 1552-1638). La vita. Fu il caposcuola della corrente non marinista nella
lirica secentesca. Nella sua formazione hanno importanza Roma (dove studiò
presso i gesuiti, a carico dello zio Giovanni, essendo morto il padre e
risposatasi la madre); Padova, dove ebbe maestro di classicità Sperone Speroni;
Savona, che dovette lasciare in
gioventù, perchè vi aveva avuto brighe e risse, come a Roma, e dove ricevette
ferite e si mostrò vendicativo; e Firenze, infine, la patria ideale, della
lingua e della poesia. Pur viaggiando per molte città (ebbe favori dai Savoia a
Torino, dai Gonzaga a Mantova e dai Medici a Firenze), egli visse
sostanzialmente a Savona, con qualche incarico pubblico, ma assicurandosi una
vita agiata ed indipendente con una produzione letteraria nutrita e fortunata. Opere: prosa: 5
Dialoghi (questioni estetiche: Il
Vecchietti, ovvero del verso eroico volgare| L’Orzalesi, ovvero della
tessitura delle canzoni| Il Geri,dialogo della tessitura delle canzoni| Il
Bamberini, ovvero degli ardimenti del verseggiare| Il Forzano o Discorso sopra
il sonetto del Petrarca -Se lamentar augelli-);
Vita (autobiografia, un po’ idealizzata), Discorsi,
Lettere.
poemi: Gotiade| Amedeide| Ruggero;
tragedie: Angelica in Ebuda|
Erminia| Ippodamia;
drammi: Alcippo;
poemetti storico-mitologici: Alcina
prigioniera| Erminia| Le perle| La conquista di Rabicano| Il diaspro|
L’ametisto| Gli strali d’amore| Il verno| Il tesoro| Le nozze di Zefiro|
Foresto| Egloghe (sono 7: in terza rima anch’esse)| La Giuditta| Firenze
(poemetto in lode della città).
poemetti sacri: Il Battista| Per S.
Margherita| Per S. Agnese| Per S. Carlo| Le feste dell’anno cristiano| La
disfida di Golia| Il leone di David| Il Diluvio| La conversione di S. Maddalena|
La liberazione di S. Pietro| Vendemmia in Parnaso;
Sermoni: sono trenta, su
modello oraziano, in enedecasillabi sciolti, più colloquiali che fortemente
satirici (il Parini ha certo imparato qualcosa da lui);
Canzoni: sacre (alla
Vergine), religiose (contro i riformatori protestanti), morali, civili
(celebrazione di dinastie regnanti in Italia, vittorie contro i pirati turchi da
parte di galere toscane, gare al pallone, elezione di Urbano VIII.... Di
esse, 114 ripetono lo schema strofico di Pindaro;
Odicine e Canzonette amorose (
anche per musica, con melodie di Piero Caccini, Jacopo Peri, camerata de’
Bardi: sono le sue cose migliori). Sulla grandezza
umana e poetica del Chiabrera si è piuttosto severi o almeno scettici, ormai: il successo goduto al suo tempo fu davvero sproporzionato al suo vero
valore (Manzoni commenterebbe pressappoco così: “Che caso strano, eh!
Ma! così va spesso il mondo letterario... voglio dire, così andava nel
secolo decimosettimo.”). A noi pare che un minimo valore estetico
l’abbia comunque e che (ben dopo il Tassoni), sia da
tener prezioso nel modesto
forziere della poca e non sublime poesia del Milleseicento. Ecco due
canzonette sufficienti: “Belle
rose porporine ,| che tra spine|
sull’aurora non aprite; |ma ministre degli amori,| bei
tesori| di bei denti custodite:| dite, rose preziose,| amorose,| dite, ond’è,
che s’io m’affiso| nel bel guardo
vivo ardente,| voi repente| disciogliete un bel
sorriso?” || “La violetta| che in
sull’erbetta| apre al mattin novella,| di’, non è cosa| tutta odorosa|
tutta leggiadra e bella?| Sì,
certamente,| chè dolcemente| ella ne spira odori,| e n’empie il petto| di bel
diletto| col bel de’ suoi colori”. Davvero sufficienti, nonostante
quell’abuso dell’aggettivo “bello” che ritorna troppe volte? Bisogna
accontentarsi. Appare
da questi versi che l’animo del Chiabrera,
anche quando intendeva esprimere l’idillio (galante o di natura,
d’amore o di paesaggio), conservava nella espressione qualche elemento
musicale di drammaticità: benchè
quelle rose siano, poi, le labbra di una donna, si presentano proprio armate
di spine (si contino solo le”t”
e le “i” ictate, taglienti e pungenti...).
Tale convivenza di musicalità
dolce e forte rimane anche nelle canzoni, senza attingere la simbiosi
del’estasi: nel poeta di Savona vi è una drammaticità angolosa, una
forza nervosa, un impeto risentito. Vorremmo arrischiare un riferimento malizioso: nel
cognome (Chiabrera) vi la sintesi del suo stile, della sua musicalità:
una prevalenza di rigore, che il nome (Gabriello)
tenta di compensare con l’eccesso opposto, la sdolcinatezza (si noti
che nel testo antico il nome era scritto con due “b”. Gabbriello”). Si prenda, dalla canzone per C. Colombo, la
sestina migliore: “Qual uom che torni alla gentil consorte,| tal ei da
sua magion spiegò l’antenne;| l’oceàn corse e i turbini sostenne,| vinse
le crude immagini di morte;| poscia dell’ampio mar spenta la guerra| scorse la
dianzi favolosa terra”. A parte il discutibile paragone tra l’amore sponsale
e la passione per l’ideale di
portar la fede al di là dell’Oceano, vorremmo notare che, nella
strofa, due delle rime sono ictate su una “e”, disturbata dalle
consonanti (dentali che precedono, magari con “s” ad aggravarne il suono;
doppia “r” che segue). Sono la spia che l’impresa celebrata non è sentita
con quella limpidezza e potenza che
si sia liberata da ogni incrinatura di sforzo e di tormento;
che esprima epicità solenne
ed esultante, senza screzi di
elementi tragici irrisolti. Questi
altri versi, coerentemente drammatici, rischiano di confermare che, nonostante
la impressione di un Chiabrera anzitutto idillico e semmai anche epicizzante, in
realtà è poeta che sente di più le punture della vita e crea versi migliori
nella espressione di protesta, di sofferenza, di dramma ribelle: “Così tempo
verrà –crudi pensieri-| che ove Dio s’adorò, latreran cani;| e fieno
roderan greggie adunate,| siccome in stalle; e nitreran destrieri,| nel
passeggier destando ira e pietate” (poemetto sacro “Le
feste dell’anno cristiano”). Nei Sermoni
si trovano facilmente gruppi di versi di valore poetico tollerabile,
più pacati, ma sempre con vestigi di tale ispirazione, lirismo,
musicalità: “Fia quel che fu nel corso di cent’anni:| vestiransi
sull’alba e colcheransi| in su la sera e sederansi a mensa;| altri fia col
dottor per suoi litigi| altri fiuterà l’orma dell’amica|[21];
il giocator bestemmierà le zare;| il soldato, la pace; e finalmente| speme e
timore ed allegrezza e doglia| agiterà ciascun, questo è sicuro;| e più
sicuro che anderassi a morte” (Sermone
XVII). Difatti questi versi comunicano ironia malevola (a proposito: che
qualche lettore abbia pensato alla
“Palinodia a Gino Capponi” di Giacomo Leopardi?)[22] Ma, prescindendo dal valore propriamente artistico,
rimane al Chiabrera un merito tecnico notevole nella storia della
letteratura italiana. Egli conduce a compimento e quasi alla ovvietà la
imitazione dei classici latini e greci, praticamente in ogni genere: poemi,
sermoni, tragedie, odi, egloghe... Infatti,
esteso e ben assimilato è stato il processo di formazione letteraria e
stilistica: i suoi versi sembrano intarsi di reminiscenze altrui, ricucite
assieme molto abilmente: talora, non meno sentite che ricordate.
Nonostante le prove che già l’Alberti faceva nel
Millequattrocento e che Giangiorgio Trissino
aveva ripetuto,
dilatandole, nel secolo seguente, bisogna rifarsi al Chiabrera per avere
una esemplificazione vasta ed influente del trasferimento in lingua italiana dei
metri greco-latini più diversi, Pindaro ed Anacreonte non esclusi. Dal suo
tentativo nasceranno le “odi barbare” del Carducci. Non che la originalità
sia assoluta: anche a non tener conto degli esempi precedenti, rimane il fatto
che il Chiabrera non conosceva il greco;
che, egli, Pindaro lo leggeva nella
traduzione latina di Enrico Stefano (Henri II Estienne, umanista francese del
sec. XVII, erede di una famiglia di tipografi famosi); che egli conobbe e seguì
l’esempio della Pléiade francese e del suo corifeo Pierre Ronsard, specie per
la imitazione delle strofette tradotte dall’Estienne e da lui attribuite ad
Anacreonte.[23]
Ammessi questi limiti, egli ha lasciato un patrimonio talmente imponente di
schemi metrici, da essere destinato alla più vasta fortuna ed imitazione. Il
Testi, il Filicaia, il Guidi (che ora vedremo) e molti altri lo seguirono per la
imitazione di Pindaro; Parini (per il Giorno) e Gaspare Gozzi (per i Sermoni) ne
sentirono l’influsso. Come si è detto, egli riprodusse la struttura
dell’ode pindarica (strofe| antìstrofe| epodo) in 114 composizioni. Si
aggiunga lo schema della strofa alcaica; quello delle strofe asclepiadee del II,
III, IV sistema; l’epodo oraziano; il ditirambo... Più felice la imitazione
delle strofette anacreontiche, che egli usò per alleggerire e volgere alla
galanteria ed alla vanificazione il tema dell’amore e per rendere più vivaci
(anche se meno aulici) i motivi dell’encomio e di celebrazioni civili. Nelle
canzonette, egli usa prevalentemente
versi di quattro sillabe, sebbene
siano anche frequenti quinari, settenari, novenari.
Venendo ai caretteri tecnici più rivelatori, dobbiamo anche noi
affermare di essere uscito dalla lettura di canzoni e canzonette, sonetti ecc.
delusi e insoddisfatti. Si comincia dalla non perspicuità dei concetti, che
necessitano di note per chiarirne
il senso; oppure si trascinano in circonlocuzioni per incapacità di quella
sintesi che dice chiaramente anzichè descrivere faticosamente. Nella canzone
per Cristoforo Colombo troviamo nella
terza sestina la pretesa di attribuire a Savona la gloria dello scopritore
dell’America, anche se non lo
dice espressamente suo
concittadino. Tra le altre glorie della sua Savona, egli pare citare particolari
rapporti tra la città ed il Vaticano; lo fa con questi versi: “ Armata
incontro al Tempo, aspro Tiranno,| fulgida sprezzi di Cocito il fiume.| Su quai
rote di gloria? o su quai piume| i tuoi Pastor del Vatican non vanno?|Coppia di
stabilir sempre pensosa| la sacra dote alla diletta sposa” (forniture di
carrozze e di panni?). Si tratta di
nove sestine: ebbene, delle 54 parole in rima, 23 sono ictate su una “e”; 4
su una “i” e 4 su una “u”: è difficile approdare alla epopea
“eroica” con simile congenialità musicale. La strofa più bella è quella
citata sopra. Ad essere sinceri, le cose più vive ci son sembrate
le tre canzoni “morali” contro Lutero, le due contro Calvino e quella contro
Beza, cioè contro i “riformatori” che avevano stracciato la inconsutile
veste della Chiesa cattolica, nel secolo precedente. Ma non si possono
riportare, perchè giungono all’insulto volgare e perchè avviene per queste
composizioni quanto si è riportato delle satire del Menzini: lo sfogo è troppo
caricò di passione pratica, di collera personale; manca la purezza della
emozione, rimane troppo del sentimento immediato. Ma questo conferma che il
Chiabrera sentiva il dramma, inclinato alla tragedia, come un affetto di fondo,
l’unico che riesca ad esprimersi non compromesso da altri, mentre esso
interferisce nella manifestazione di tutti gli altri.
Ancora: le forme chiuse (terzina| ottava| sonetto) sono meno felici in
Chiabrera, che si trova più a suo agio nelle forme aperte (canzone, ode,
verso sciolto).
Molto spesso l’aggettivo ha solo valore decorativo: non dice
nulla di specifico e di profondo: ha valore esornativo e musicale, tanto che
spesso è in posizione ictata.
Infine, sono rari gli enjambement: il pensiero (o un suo elemento)
finisce con il verso, non si definisce
nel seguente. Questo conferma chiarezza e denuncia semplicità di pensiero. I limiti della sua poesia.
Di Pindaro, manca al Chiabrera la potenza della sintesi che fonde mito e realtà;
di Orazio, manca la bonaria
pensosità filosofica, ma soprattutto la concretezza degli sprazzi
autobiografici, che rendono sprizzanti le composizioni del poeta di Venosa,
nelle Odi come nelle Epistole. Manca però soprattutto la ricchezza emotiva, che
solleva, nel primo, fatto e mito a rivelazione di valori splendidi anche se
effimeri; e che allieta, nel secondo, tanto
la descrizione di una scenetta ospitale (Vile potabis, modicis
sabinum...) come la meditazione sulla prudenza epicurea (“Rectius vives,
Licini, nec altum...”). Il Chiabrera privilegia, come motivi ispiratori, la
natura ed il paesaggio,
l’autobiografismo psicologico e l’amore (mai lascivo). Sente anche la storia, la vita morale e soprattutto la religione: ma è
interesse superficiale, generico; sono
temi già al limite della sua potenza intellettiva.
Fulvio Testi
(Ferrara, 1593-1646). Ebbe fortunata carriera alla corte degli Estensi. Di tale
proteziome egli finì però per abusare, dando fuori scritti antispagnoli, che
lo portarono alla fine a tentare un passaggio al servizio della Francia. Era
governatore di Modena. Scoperto ed incarcerato, morì in prigione di malattia.
Sulla sua esistenza di cortigiano e sulla politica del secolo restano
interessanti testimonianze nel suo
vastissimo Epistolario. Dapprima marinista (esordì con le Rime,
a 20 anni, che ripubblicò arricchite nel 1617), subì poi l’influsso del
Chiabrera e giustificò con motivazioni anche morali la condanna del Marino. Gli
altri suoi versi sono raccolti nelle Poesie
liriche, in tre parti, edite
dal 1627 al 1648. Nel 1636 stampò anche L’isola
di Alcina (tragedia). Quanto
ai motivi ispiratori, egli si rifà ad Orazio:
celebra la vita campestre, disdegna
la servitù che impone la vita
cortigiana, satireggia il secolo corrotto, esprime dolore per
il dominio straniero in Italia e ne auspica la liberazione.
Lirismo. Fattosi, dunque, anche lui imitatore di Pindaro ed
Orazio, ma senza andare al di là del merito di chiarezza e dignitosa
sostenutezza nella espressione, egli si rivela più dotato di vigore drammatico
che non Chiabrera, mentre gli sono meno consoni
i toni contemplativi. Ma in ogni caso, è eccezione il palpito della
poesia. Il meglio è nei versi A
Carlo Emanuele: “Carlo, quel generoso, invitto core,| da cui spera
soccorso Italia oppressa,| a che bada? a che tarda? a che più cessa?| Nostre
perdite son le tue dimore...”; e nel Pianto
d’Italia “Per satollar la non mai sazia fame| del sangue mio scese la
gente ibéra| pronta a furti, a rapine, a fraudi, a trame;|turba tanto più vil
quanto più altéra,| scellerata reliquia, avanzo infame| di quanti mai, con
barbari furori,| predar l’Europa, o Saracini o Mori”. Francesco Redi
(Arezzo, 1626-1698). Scienziato, fu protomedico alla corte di Firenze, membro
dell’Accademia del Cimento e della Crusca (collaborò al vocabolario), ma è
degno di memoria soprattutto per gli studi sulla generazione degli insetti e
sulla esistenza dei parassiti nell’ambito delle forme viventi: studi che
condussero a smantellare l’errore della generazione spontanea e facilitarono
la scoperta delle cause vere alle epidemie. Meno importanti sono i due lavori letterari cui ha
posto mano, anche se ce lo ricordano
simpaticamente: il ditirambo Bacco in
Toscana e la prosa Il gobbo di Perétola.
Il ditirambo nacque come componimento legato al culto di Dioniso e si mantenne
poi sempre caratterizzato da un contenuto gioioso e
un po’ mattacchione, con una libera mescolanza di metri e di versi. Il
ditirambo del Redi è appunto un polimetro sui vini di Toscana, che conclude con
la proclamazione “Montepulciano d’ogni vino è re”. Era stato iniziato nel
1666 come canto conviviale e rifinito dopo
diciannove anni. Ma non basta l’elegante padronanza del verso, un musicalismo
talora onomatopeico (chi celebra i vini, Bacco, è brillo e riesce a rendere il
suo stato confusonario) nè la fantastica alternazione
di lodi e buffonate per ottenere poesia al lavoro: si sente troppo la
costruzione intellettuale, il lavoro di lima, la fatica nelle ricerca di cose da
dire. Nei punti dove la spontaneità si libera più felice, è il motivo
ispiratore a deprimere il valore della composizione: manca un colpo d’ala che
elevi lo sproloquio verso un senso umanamente importante, spirituale, universale
(o, se si vuole, manca il colpo di pollice che lo abbassi al livello di farsa
grandiosa, di comicità piena e scrosciante). La prosa Il Gobbo di Perétola vede raddoppiata la scoliosi all’ingenuo e
maleducato poveretto, che era andato alla “noce di Benevento” per
farsi togliere la protuberanza di troppo. Vincenzo da Filicaia
nacque a Firenze nel 1642 e vi morì
nel 1607. Laureatosi in legge a Pisa, si dedicò fin da studente alla posia
(versi d’amore in italiano e latino, che poi rifiutò). Dedicatosi alla poesia
civile e patriottica, piacque ai Medici, che
lo fecero senatore, governatore di Volterra (1699) e di Pisa (1700). Ma
era già stato, a Roma, nelle grazie della regina Cristina di Svezia, che gli
affidò i figli da istruire ed educare: entrò così nel circolo dei letterati
che avrebbero dato origine alla Arcadia, subito dopo la morte della loro
generosa protettrice. Fiorentino dalle idee chiare ed elevate, rifuggì da
ogni secentismo e si accostò ad Orazio ed a Pindaro. Espresse sentimenti di
forza e fierezza nelle composizioni
civili (ad esempio le cinque “Canzoni in
occasione dell’assedio di Vienna: 1684), in forme dignitose e
presuntivamente pindariche, retoricamente solenni e raffinate, razionalmente
elaborate e complesse; ed esternò sentimenti
di pacata affettuosità nei sonetti in morte della moglie Camilla. Ma non riesce
a trasmettere gli stati d’animo: i sentimenti non si sublimano in emozioni
pure. Per leggere i versi del Filicaia occorre un supplemento di buona volontà:
il fascino del testo non basta. Francesco da Leméne
(Lodi, 1634-1704). Fu scrittore burlesco e
redasse un poema intitolato Della
discendenza e nobiltà de’ maccheroni; fu autore di una commedia
in vernacolo lodigiano (La sposa
Francesca); fu poeta religioso, scrivendo il Trattato
di Dio, il Rosario di Maria vergine
e tre oratori sacri (Il sacro Airone; Il
cuore di San Filippo Neri; La morte di San Giuseppe); e compose
versi per musica (ariette cantate ad una sola voce). Ma non c’è nulla
di particolarmente poetico. Alessandro Guidi (Pavia, 1650-1712): dapprima marinista, mutò
lira quando passò al seguito di Maria Cristina di Svezia e di Clemente XI.
Imitatore di Pindaro (anche lui!), organizzò in strofe la canzone libera; fu
autore di Rime, della favola pastorale
Endimione e del dramma Amalasunta.
Molta rinomanza ebbe la sua canzone Alla
fortuna. Ma non c’è nulla di liricamente
valido. Di Benedetto
Menzini si è già parlato, anche come poeta lirico, in sede di poesia
satirica.
LA PROSA NON SECENTISTA Abbiam visto che lo stile barocco ha caratterizzato
la prosa più diffusa del secolo: dalle gride spagnole (che –lo ribadiamo-
potrebbero aver influito sul resto della scrittura aritmica, cioè in prosa,
“plagiando” la mente degli estensori di “gazzette” e
di libri divulgativi, più che non si pensi comunemente) alle opere che
descrivevano la pestilenza del 1630, dai romanzi alla lingua del teatro.... Ma vi sono eccezioni, specialmente tra gli scrittori
toscani e, vorremmo dire, fra tutte le persone particolarmente intelligenti o
letterariamente molto dotate. Fra queste ultime, ne emergono poche per il
numero, ma sufficienti per la caratura lirica e sorprendenti per lo spessore intellettuale. Ciò che
ulteriormente rende simpatico il fenomeno è la loro provenienza da tutte
le latitudini della penisola: se Galileo è toscano (anzi, fiorentino), Torquato
Accetto è napoletano, Traiano Boccalini è marchigiano (Loreto) e Paolo Sarpi
è veneziano. Cominciamo dallo scrittore che è forse il più
poetico di tutti: Torquato Accetto. Nacque nell’Italia
meridionale (si opta per Trani) sulla fine del Millecinquecento (1586|1598?) e
morì verso a metà del secolo seguente. Le altre notizie biografiche
praticamente sono ridotte alle date della edizione dei suoi scritti: in versi,
le Rime (1621, 1626, 1638); in prosa, Della
dissimulazione onesta (1641). D’altro si sa che ebbe rapporti con il gruppo che faceva capo a G. B. Manso, il
primo biografo del Tasso. Le
Rime si ispirano all’amore (delicatamente petrarchesco) ed alla
meditazione etico-religiosa. Stilisticamente non sdegnano un moderato
secentismo. Meritano comunque ricordo alcuni madrigali (Non
ha potuto asconder le sue fiamme), sonetti (A una vedova| Per gli inganni che la sua donna ordisce agli uccelli,
rassomigliante la sua amorosa condizione) e soprattutto le due canzoni: Il
tempo| e Il giorno dell’universal giudicio. Della Dissimulazione
onesta merita di essere esaminato dettagliatemnte, perchè ha parecchie
cose da dirci.
I Motivi ispiratori. Sono, più che politici, morali e religiosi
(anzi, ascetici, cioè di ricerca del “meglio”). Cercano di chiarire e
risolvere la problematica di una coscienza che vuol vivere cristianamente in una
società che non è tutta cristiana; che vuol esercitare virtù come la quiete
interiore, la serenità d’animo, perchè sa che a possedere questa pace
spirituale non basta la onestà, non è sufficiente l’essere buoni.
La “dissimulazione” diviene così affine (ci sembra) a quel
supplemento di umiltà e carità che il contemporaneo S. Vincenzo de’ Paoli
esprimeva con quel sublime assioma della misericordia cristiana: “Bisogna
farsi perdonare il bene che si fa”. Il libro ha anche una valenza politica, ma la
applicazione la si trova solo al capitolo diciannovesimo.[24]
Gli stralci che ora riferiamo dimostrano la prevalente impostazione meditativo-
spiritualistica del volumetto. “Il danno che avrebbe potuto farmi lo sfrenato
amore di dire il vero, di che non mi son pentito; ma amando, come sempre la
verità, procurerò nel rimanente de’ miei giorni di vagheggiarla con minor
pericolo” (50). “Io tratterei pure della simulazione... ma tanto è di mal
nome, che stimo maggior necessità a farne di meno; e benchè molti dicono
–Qui nescit fingere nescit vivere”- anche da molti altri si afferma che sia
meglio morire che vivere con questa condizione” (59). “Dissimulazione è un
velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il
falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a suo tempo” (60)..
“...in persona...molle e poco intendente riesce inoltre dura questa pratica,
la quale contiene l’esser d’assai e talora parer poco” (68). ). Nel c. IX
(pp. 76-9) si avanza l’ipotesi
che la natura dissimuli la caducità della rosa sotto la bellezza della
corolla!. E si dice ancora: “...nasconder le cose che non han merito di
lasciarsi vedere o perchè son brutte o perchè portan pericolo di produrre
brutti accidenti”. “Il prudente candor dell’animo è, dunque, il centro
della tranquillità. Hoc opus, hic labor” (83). “Così
dee ciascun corrisponder a scusar disordini o in particolare quelli dei
superiori, ogni volta che alcuno di loro vi incorre” (c. XIII, p. 91). L’ira
è nemica della dissimulazione: “Il maggior naufragio della dissimulazione è
nell’ira, che tra gli effetti è ’l più manifesto, essendo un baleno che,
acceso nel cuore, porta la fiamma al vigor” (c. XV, pp. 98-102). Ecco il mezzo
per vincerla: “Importa il prevenir con la considerazione di quanto è maggior
diletto vincer se stesso in aspettar che passi la procella...” (ib.). “Chi
ha soverchio concetto di se stesso, ha gran difficoltà di dissimulare” (c.
XVI). “Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerare e
però il dissimulare le cose che in altri ci dispiacciono” (c. XVII, pp.
105-7). “Del dissimular all’incontro dell’ingiusta Potenzia” è il
titolo del c. XIX (11-13): “Orrendi mostri son quei potenti che divoran la
sostanza di chi lor soggiace; onde ciascuno, che sia in pericolo di tanta
disavventura, non ha miglior mezzo che l’astenersi dalla pompa nella proprietà
e dalle lagrime e da’ sospiri nella miseria”. “...
e però spesso è virtù sopra virtù (da proteggere) il dissimular la
virtù, non col velo del vizio, ma in non mostrarne tutti i raggi per non
offender la vista inferma dell’invidia e dell’altrui timore”.
A p. 119: “Lucrezio, De reum, c. II, 7-10: - applicando però io questi
versi al senso che conviene a significare un’altezza d’animo e una quiete
che conduce al piacer e alla gloria immortale e non al diletto fallace”. “Se
in questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell’altra
(Vita) non occorrerà mai; e, lasciando di trattar dell’anime infelici, che
con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli orribili mostri
del peccato... veggono i beati colui che vede, sì che nel cielo non occorre che
alcuno si celi” (125). “Ma qui dove siamo vestiti di corruzione si procura
con ogni sforzo il manto con che si dissimula per rimedio di molti mali; e
ancorchè ciò sia onesto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di
questa necessità e, spesso, rimuovendo lo sguardo dagli oggetti terreni,
vagheggiar le stelle come segni del vero” (126). Ed ecco la conclusione del
trattato (c. XXV): “Avendo affermato che in questa vita non sempre si ha da
esser di cuor trasparente, mi par bene di conchiuder con affettuoso rivolgimento
alla dissimulazione stessa. –O virtù che sei decoro di tutte l’altre virtù,
le quali allora son più belle quando in qualche modo son dissimulate, prendendo
l’onestà del tuo velo, per non far vana pompa di se medesime; o rifugio de’
difetti, che nel tuo seno si sogliono nascondere; tu alle fortune grandi sei di
gran servigio, per sostenerle, e alle piccole porgi la mano, perchè in tutto
non si veggano andar per terra. Nel buono e nel mal tempo bisognano le tue
vesti, e nella notte non meno che nel giorno, e non più fuori che in casa. Io
non ti conobbi per tempo, e a poco a poco ho appreso che in effetto non sei
altro che arte di pazientare, che insegna così di non ingannare come di non
essere ingannato. Il non credere a tutte le promesse, il non nudrire tutte le
speranze, son le cose che ti producono. Le porpore nel meglio del lor vermiglio
sogliono ricorrere al nero del tuo manto; le corone d’oro non han luce, che
talora non abbia bisogno delle tue tenebre. Gli scettri che spesse volte non si
portano dalla tua mano, facilmente vacillano; e ’l folgore delle spade, se non
si serve di alcuna tua nube, riluce invano. La prudenza tra ogni suo sforzo non
ha miglior cosa di te; e, benchè di molte altre si mostri ornata, a tempo sa
goder del tuo silenzio più che di ogni altro effetto delle sue industrie.
Misero il mondo, se tu non soccorressi i miseri. A te appartiene di usar molti
ufici nell’ordinar le republiche, nell’amministrar la guerra e nel conservar
la pace; e dall’altra parte si veggono quanti disordini, quante perdite e
quante rovine son succedute quando sei stata posta in ababndono, e s’è dato
luogo a manifesti furori, da che son seguiti quegl’infortuni che tante volte
hanno diturpate le provincie intere. Quando
un, che doverebbe perire di fame, ha fortuna di poter dar il cibo a molti,
quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno
ha qualche degnità e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe
vivere, se tu non accomodassi i sensi a così duri oggetti? Vorrei che mi fosse
permesso di manifestare tutto l’obligo che ho a’ benefìci che mi hai fatti;
ma, invece di renderti grazie, offenderei le tue leggi non dissimulando quanto
per ragione ho dissimulato.” ,
I Toni lirici Si tratta di un’opera modesta, che merita però la
sufficienza (ci pare) per il sorriso di idillio e l’ombra di malinconia che la
percorrono da cima a fondo. L’una tonalità e l’altra nascono da un temperamento
sentimentale (emotivo| non attivo| stabile o secondario): non combattivo,
mite, dimesso, ma tenace. [25] Ne
nasce la conseguenza che il pensiero è prevalentemente pessimista sugli uomini,
ma non sulla vita, alla quale la visione cristiana della Provvidenza e della
immortalità dell’anima conferiscono uno sfondo sostanzialmente ottimistico.
E’ così che l’elegia, innescata dalle considerazioni sulla fragile
condizione umana, è compensata dall’idillio che si distende sulla disillusa
concezione esistenziale, grazie alla superiore prospettiva religiosa pel fine ultimo della nostra esistenza. Purtroppo i
passi che meglio documentano la
sapienza etico-ascetica del libretto (e che, perciò, sono stati riportati)
hanno tutti un sapore elegiaco-pessimistico: eppure la impressione complessiva
della lettura è lungo la linea della serenità, per la certezza che
l’aspirazione alla pace ed alla quiete è realizzabile coll’aiuto della
“dissimulazione”, che alla fine significa prudenza, pazienza, umiltà,
fiducia in Dio. L’alternrasi dei due stati d’animo induce quasi ovviamente
ad una loro aliquale sovrapposizione, che si avvicina molto alla
“tenerezza”: certo, come intensità, siamo le mille miglia lontane da quella
leopardiana nella canzone “A Silvia”, ma il registro le è affine.
Note di stile. Non è del tutto escluso il secentismo, ma si
tratta di momentanei concessioni alla moda, che si lasciano contare senza
difficoltà. “...quando il vero non par esser vero, convien di tacere
come afferma Dante (56:segue citazione da Inf. 16, 124-6)”; “...e però (perciò)
è virtù sopra virtù il dissimular la virtù...” (112); “Sarà forza alla
dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le
finestre del cielo e con la spada accesa troncherà il fil d’ogni vano
pensiero” (121); “mostrano gli orribili mostri del peccato” (125);
“Veggono i beati colui che vede, sì che nel cielo non
occorre che alcuno si celi” (ib.). In compenso vi è una tendenza alla versificazione
inconscia[26]. La cosa è meno
frequente di quanto Natalino Sapegno ha scoperto nella Vita nova di Dante, ma
accade anchi qui. Ci limitiamo ai passi sopra citati. A p. 65, i due periodi che
iniziano “Il soverchio flemmatico” sino ad “effetto di prudenza”,
riportati nella nota n. 40, sono formati da
dieci settenari, se solo si ha l’accorgimento di trascurare la parola
“sensi” alla fine del primo periodo. Un ulteriore settenario si
ottiene so- stituendo la copula “è” con un’altra voce adeguata (ad
esempio “va”) nella frase “che è (va) fuor di misura. A p. 68, vi sono due endecasillabi di seguito
“ri”esce inoltre dura questa pratica| la qual contiene
l’essere d’assai”. La finale del periodo nel c. XV “L’ira è
nemica della dissimulazione” contiene tre senari di seguito, che terminano con
un ottonario: “è il più manifesto| essendo un baleno| che, acceso nel cuore|
porta la fiamma al vigor”. Sostituendo la preposizione “di” con “a”,
nel c. XVI si hanno due endecasillabi “Chi ha soverchio concetto di se stesso|
ha gran difficultà a dissimulare”.
La preghiera finale presenta una coppia di endecasillabi all’inizio (“le
quali allora son più belle, quando| in qualche modo son dissimulate”);
un’altra a poco più di un terzo
del testo (“Il non credere a tutte le promesse,| il non nudrire tutte le
speranze”); una coppia di decasillabi poco più sotto (Che spesse volte)
“non si portano dalla tua mano,| facilmente vacillano e il fòlgore”.
Nel c. 24 vi sono quattro settenari di seguito (“rimuovendo lo sguardo|
dagli oggetti terreni,| vagheggiare le stelle,| come segni del vero”). Due dei
tre endecasillabi che citiamo ora
dallo stesso capitolo, sono stati ritoccati per la esattezza metrica: (Or
considerando così soddisfatti, così felici)“e in eterno sicur gli abitatori|
del Paradiso, (già) si vede come|
difetto alcun(o) non hanno da
nasconder”. Altri ne troveranno i lettori più smaliziati: la
nostra ricerca è stata per campione e non sistematica su tutto il testo.
Concludiamo dicendo che tale musicalismo spontaneo rimedia per lo più alle
imprecisioni della lingua toscana rispetto all’uso dei contemporanei: il
Marino ed in genere gli altri verseggiatori e prosatori
scrivono in una lingua più moderna ed aggiornata (eccetto Paolo Sarpi,
incorreggibile pressappochista, che pensa in veneziano e lo traduce, come può,
in italiano). Traiano
Boccalini
(Loreto 1556-Venezia 1613). Dopo gli studi a Perugia, Padova e Roma, soggiornò
nella città dei papi fino al 1611, con incarichi di governo nella
amministrazione pontificia. Nel 1611 si trasferisce a Venezia, dove aveva come
amico Paolo Sarpi e dove lo attirava la maggior libertà
di espressione, specie per le opzioni politiche: egli era cordialmente
avverso alla Spagna. Da documenti venuti alla luce nel secolo XX, però, deve
ritenersi infondato il sospetto, circolato a lungo, che la sua morte fosse
dovuta al veleno di persone
legate a tale potenza. Anzi risulta
che si adattò a fare il confidente, in Venezia, del Nunzio apostolico e dell’ambasciatore di Spagna! Lo avrebbe
fatto costrettovi dalla povertà
materiale? Condusse, dunque, vita di
impiegato pontificio di alto livello, che sembrerebbe del tutto normale, se non
ci fosse la parabola finale a gettare luce ambigua sulla tempra di un carattere non adamantino. Pur nella
adesione alla fede cattolica, egli deve aver subìto, più che amato, la sua
attività al servizio di papi: fors’anche per
la loro inevitabile simpatia per la Spagna, ma certo perchè egli aveva
un hobby da cui sia spettava fama e soddisfazione. La sua
operosità vera, infatti, era quella degli studi storici e letterari,
subordinati a loro volta alla meditazionie politica (su Tacito, soprattutto). Ma
egli intuì che le sue opere non sarebbero state tollerate dalla censura.
Difatti all’Indice furono
posti (1679) Commentari sopra Cornelio
Tacito, editi pstumi nel 1677. Furono edite ed anche le Lettere,
nello stesso anno della edizione (1678: nella raccolta intitolata “Bilancia
politica di tutte le opere di T. B.). Solo il capolavoro, i Ragguagli di Parnaso, si salvarono da ogni condanna.
I
COMMENTARI A TACITO. Sebbene i
Ragguagli siano giustamente
molto più famosi, tuttavia, nella mente dell’autore, l’opera che avrebbe
dovuto immortalarne il nome con un apporto decisivo alla civiltà umana (una
specie di tucididiano “ctèma eis aèi” -acquisto per sempre-),erano i Commentari.
Si tratta di più di mille pagine a stampa, che però vedranno la luce postumi,
solo nel 1667![27] Il metodo che il
Boccalini segue è quello di trascegliere una singola frase, avulsa dal
contesto, commentandola più o meno estesamente: talvolta la illustra
ricostruendo la circostanza che l’ha suggerita a Tacito (l’episodio di
storia romana in cui è inserita);
tal altra, con esempi della storia in generale, anche contemporanea a lui. Il
suo valore e disvalore lo si intuirà dal commento all’altra sua opera, il suo
piccolo capolavoro. I
RAGGUAGLI.
E’ l’opera letteraria di gran lunga più importante. Sono organizzati in
“centurie”, cioè in raccolte di cento immaginati “réportages”
giornalistici: relazioni inviate
sulla terra dall’autore, che si finge “menante”, cioè “minutante”,
che pretende, quindi, di limitarsi a trascrivere parole e fatti dalla corte di
Apollo in Parnaso. Due centurie sono state completate ed edite rispettivamente
nel 1612 e 1613. Della terza, 31 ragguagli furono
pubblicati nel 1615 col
titolo (non voluto dell’autore) di “Pietra di paragone politico”:
sono i ragguagli antispagnoli più audaci . [28]
I motivi ispiratori. Inutile dire che le cronache si riferiscono in realtà ad avvenimenti
del mondo europeo e specialmente
italiano: la corte di Apollo è quella o spagnola o pontificia; e così
il Fisco ed il Senato, le guardie di palazzo ed il Consiglio segreto di
Stato; fenomeni ben vivi sulla terra erano anche
i riformatori religiosi e la legione di poeti satirici. Egli sogguarda
tutta questa realtà soprattutto lungo tre linee di interesse: la politica,
il costume morale, la vita letteraria.
In campo
letterario,
abbiamo alcune intuizioni ragionevolissime,anzi esatte. Ad esempio nel
ragguaglio I, 58 (Tasso ed Aristotile) egli si pronuncia in favore della libera
invenzione nella poesia, al di fuori di ogni pastoia di regole. In sede
di passione politica,
il suo umore
partigiano esce fuori specie
nella terza centuria (nei ragguagli pubblicati col nome di “Pietra di paragone
politico”), dove l’antispagnolismo è insistente. Più artisticamente, però,
lo si può trovare anche prima, ad esempio nel ragguaglio quarto della seconda
centuria,dove si riferisce la strana richiesta di uno spagnolo (moribondo in
seguito a ferite di duello) di venir sepolto vestito come è, senza che sia
lavato il suo corpo,. Superata la disposizione per volere di Apollo, si deve
costatare che il superbioso e sfoggiante nobiluomo ispanico... non aveva i soldi
per comperarsi la camicia e ne andava senza! Ma ce n’è anche per i signori
francesi, là dove (I, 98) il Boccalini fa prender la difesa di Dante da Pierre
Ronsard, che però non vuole manifestare i nomi dei due detrattori italiani che,
per tutta risposta, lo hanno malmenato. Messo alla corda, egli si fa beffe dei
tormenti fisici e i giudici devono ricorrere ad una scelta di torture
psicologiche per fargli denunciare gli assalitori. Ne pungono l’orgoglio,
condannadolo a montare un puledro, senza briglie nè frustino, sicchè esso si
porta a suo talento il poeta malcapitato:
umiliato dalla lentezza e capricci della bestia, il Ronsard
si dimena sulla sella, nell’inutile tentativo di farlo correre a suo
talento. Allora si arrende e fa i nomi dei due untorelli, che hanno osato
scrivere contro Dante e, per giunta, hanno
bastonato il suo difensore
francese. Ma, venendo al pensiero politico, centro
motore della riflessione (e, vedremo, del divertimento)
dell’autore, si deve costatare la stessa incertezza ed indecisione
della sua vita pratica: il pensiero oscilla perplesso, in una insuperata
ambiguità teoretica, in una perenne poliedricità scivolosa. Il suo
atteggiamento complessivo infatti è notevolmente ondeggiante ed insicuro.
Può essere reso coerente (ma con molta buona volontà da parte del
lettore), solo se lo considera puro
commento o ricerca dei segreti “che si celano ne’ gabinetti di coloro che
governano il mondo”. Ma questo atteggiamento di neutralità arrischiata è
ciò che meno si addice ad uno studioso come il Boccalini, il quale,
dotato di una sensibilità
superiore al suo potere di inibizione intellettaule, è portato a prender
posizione non in coerenza ad un unico criterio sistematico, ma alla impressione
più urgente del momento, destata in lui dal testo che ha davanti. E’ così
che, nel proposito del suo volere,
egli detesta la tirannia (quella di Roma antica, come quella della Spagna
moderna) ed è nauseato di fronte alla figura complessiva di Tiberio, presentato
da Tacito come astuto e prepotente. Occasionalmente,
però, è talmente affascinato
dalla acutezza
della introspezione psicologica messa in
opera dallo storico romano, che la
stima per lo studioso tende a
trasformarsi in ammirazione anche per Tiberio, che ha saputo costruire una
macchina politica così efficiente, da destare stupore per
la sua avvedutezza ed astuzia. Egli entra così nel coro discorde del
fenomeno “tacitista”, cioè della riflessione degli scrittori italiani dopo
Machiavelli e dopo il Concilio di Trento: non per nulla il Boccalini ne è, con
il Botero, uno dei maggiori
rappresentanti.[29]
L’equivoco può essere espresso nella contrapposizione di due nomi:
Tacitismo|Tiberismo. Condanna, con Tacito, di Tiberio (tacitismo moralistico) o
approvazione almeno marginale della politica di Tiberio?
Abbiamo, nel secondo caso, una forma di “tiberismo”: interpretabile,
a sua volta, o come “machiavellismo
mascherato” o come semplice convinzione della innocenza di Tiberio e della
malignità dello storiografo latino. Leggiamo alcune espressioni del Boccalini e
risolviamo, poi, ognuno per proprio conto, l’indovinello. I tiranni moderni
hanno imparato da Tiberio “l’arte di opprimere astutamente i popoli;
da lui si sono ricavati concetti nobilissimi” che fanno degli Annali “un tesoro di gran prezzo” e “cosa di grandissima arte”. Negli
Annali è racchiuso “l’artificio
di formare una tirannide, mantenerla in impero, assicurarsi di tanti gran
senatori senza sollevazione di popoli, spaventare tanti uomini avvezzi alla
libertà, mantenersi contro la volontà di tanti in uno stato sì immenso, saper
mantenere la pace fuori ed in casa senza perdere”. Entrambe le sentenze
iniziano come condanna e terminano come elogio. Anche nei confronti di Machiavelli esiste la stessa
ambivalenza.
Viene condannato in un passo, come colui “che ha dato le regole della crudele
e disperata politica moderna” (III, 25: ragguaglio 25.mo della terza
centuria). Ma viene accarezzato in un altro e più famoso ragguaglio, l’89.mo
della prima centuria, dove egli si difende affermando “gli scritti miei altro
non contengono che quei precetti e quelle regole di Stato che ho cavato dalle
azioni di alcuni prìncipi”. D’accordo, viene alla fin fine condannato da
Apollo, ma equivocamente: “per esser stato trovato di notte in una mandra di
pecore, alle quali s’ingegnava di accomodare in bocca i denti posticci di
cane, con evidente pericolo che si disertasse la razza de’ pecorai, persone
tanto necessarie in questo mondo”.[30] E che dire dello spagnolo sopra ricordato, che muore
chiedendo all’amico: “Hermano, azeme plazer d’enterrarme, sin che ignuno
me desnude”? Egli viene altamente elogiato da Apollo, tanto che il titolo del
ragguaglio suona così: “In un duello seguìto tra un poeta italiano e un
virtuoso spagnolo, trovandosi lo spagnolo ferito a morte, prima che spirasse
fece azione tanto virtuosa, che Apollo col funerale censorio a spese pubbliche
comandò che fosse portato alla sepoltura”. Era il prototipo di un popolo che
conduceva una guerra per una causa ideale, a costo di immiserirsi al punto da
non aver i soldi per comprarsi una
camicia: ma combatteva e moriva vestito da “hidalgo”, da signore e
cavaliere. In che chiave emotiva legge questo “inviato speciale” gli avvenimenti? Egli, che dedica il secondo volume di “Ragguagli”
al cardinal Caetano, afferma:
“Delle cose politiche e morali seriamente hanno scritto molti
begl’ingegni italiani, e bene; con gli scherzi e con le piacevolezze,
niuno, ch’io sappia”. Gli pare dunque conveniente, oltre che nuovo, “mischiare
l’utile al dolce”. Egli è riuscito nel suo intento, per cui i Ragguagli
sono risultati un’opera
attraente, perchè scritta con spirito comico (in 68 anni, i Ragguagli ebbero 24
edizioni). In verità, sul piano del registro lirico, della affinità
emozionale, il Boccalini è discepolo del Berni e fratello dei poeti satirici
del suo secolo.[31]
Salvo a trovarci di fronte ad una nuova ambiguità, parallela a quella
del suo atteggiamento sia esistenziale-pratico che dei motivi ispiratori
(teoresi politica): si tratta di una
presa di posizione drammatica nel riso, cioè di satira; oppure
della forma di riso più
umile e meno polemica, cioè di umorismo?
Il ragguaglio su Machiavelli, che vuole
render feroci ed armate le
miti, gentili allieve del gregge ovino e che vien sorpreso e condannato per tale
pretesa, è satira o umorismo? Peggiore
è la posizione dello scrittore nel caso dello spagnolo “scamiciato”:
la rivelazione della “arsura finanziaria”, che soggiace allo sfarzo, è motivo di stima, compassione o satira?
Parebbe invece certamente benevola, anche se sbarazzina, la critica mossa ai
francesi che non hanno pazienza nel cavalcare,
perchè ritengono disonorevole essere alla mercè della cavalcatura.
Vi è dunque incertezza emozionale, oscillazione pendolare da un polo
all’altro della comicità, che maschera la mancata coerenza di pensiero, la
assenza di un sistema unitario di idee; e concorre a quella complessiva
soddisfazione| insoddisfazione con cui si esce dalla lettura di un autore troppo
letterato per essere un grande pensatore; troppo filosofo per essere un
grande poeta. Dello stile
qualcosa si è detto (divisione in centurie, natura allegorica dei
“ragguagli”). La tecnica della
comicità è diretta e realistica, nei
casi del Ronsard e del gentiluomo spagnolo scamiciato; è allusiva, ci pare, nel
ragguaglio su Machiavelli, perchè il Parnaso lo condanna per aver attentato
alla sicurezza di pastori e pecorai, mentre intende
difendere ad ogni costo regnanti e tiranni
di popoli.... E’
della personalità del Boccalini, che
invece è bene parlare. Il dissidio originale fra vocazione letteraria e
costrizione alla vita sociale, la fuga verso Venezia per poter pubblicare le sue
opere, l’amicizia col Sarpi e l’essersi abbassato al doppio gioco di servire
da delatore ai due governi meno a lui simpatici (lo spagnolo e il pontificio),
sono le facce contrastanti della vita pratica del Boccalini. Le opere
politico-letterarie confermano tale perplessità della vita esteriore, sia
a livello di motivi ispiratori (quale giudizio su Machiavelli? Tiberio o
Tacito?) che di toni lirici (satira o umorismo?): anche interiormente, vi è un
dissidio, dunque, che si rivela nella incapacità psicologica a prendere
nettamente posizione: nè sì; nè no; nè nì. Ebbe, il Boccalini una
individualità infelice: il temperamento nervoso, infatti, è il più difficile
ad accorgersi delle sue contraddizioni, a sentire il bisogno di lume razionale e
di sostegno psicologico da parte
della società, che gli appare come ostile o troppo inferiore alle sue geniali
intuizioni. E procede, allora, inesorabilmente nei confini del suo mondo
interiore, indubbiamente acuto ed inventivo, ma non profondo e non equilibrato.
Rimase così un intutivo di eccezione, un orecchiante
filosofo, uno scrittore in prosa con la verve di un poeta: un dilettante di
genio, un incoerente
inconsapevole, un simpatico
disorientato. C’è in lui il
presentimento di qualche altro letterato italiano? Forse quello di un altro servitore dello Stato pontificio, ma
nel Milleottocento: Giuseppe Gioachino Belli.
Tentato di liberalismo, ripiegato su un conservatorismo reazionario, in
dubbio perenne se abbandonarsi ad un attitudine critica (satirica) verso il
popolo di Roma col suo governo ecclesiastico oppure ammirare la disarmata
spontaneità dei popolani (cafoni
innocui) e l’ingenuo immobilismo
delle gerarchie ecclesiastiche (gentiluomini indifesi), anche lui avrà
una povera vita, sdoppiata non
soltanto nel pensiero, ma anche tra fede e vita sessuale, col risultato di una
povera poesia, indecisa fra la compassione, la lacrima, il sorriso e la risata.
Al Belli manca solo l’ira e la satira: di Dante, frequenta solo il Purgatorio,
mentre il Boccalini non manca di fare qualche visita anche all’Inferno. In
entrambi, la vita psicologica, poetica e pratica è una nube di probabilità a
variazione continua, come l’atomo di Bohr... Paolo Sarpi.
L AVITA. Nasce nel 1552 a Venezia; a 14 anni entra fra i
Serviti (Servi di Maria) e, a 18 anni, si fa conoscere in dispute teologiche,
sicchè nel 1575 è inviato a Milano a collaborare col cardinale Carlo Borromeo,
presso il quale però rimane poco. Avrà ammirato il riformatore, ma non lo
elogerà mai. Lo criticherà anzi nella Istoria del Concilio di Trento per
essere stato il regista della fase
terminale e più feconda dello stesso, in qualità di segretario di Stato per lo
zio, papa Pio IV. E il Concilio aveva riaffermato il primato del papa e la
disciplina cattolica, che dispiacevano al Sarpi. Forse non ne condivideva
neppure i metodi autoritari, pur non potendo non approvare la vita ascetica
formidabile e la fatica apostolica eroica, che coincidevano colla propria
austerità di religioso. Nello stesso anno 1575 lo troviamo allora ad insegnare
a Venezia, mentre si prepara al dottorato a Padova, che egli consegue nel 1579.
Viene ordinato sacerdote e fatto superiore della provincia veneta del suo ordine
religioso. Eletto procuratore generale dei Serviti, vive per lo più a Roma,ove
riesce a procurarsi rapporti privilegiati con Sisto V ed Urbano VII (morto
quest’ultimo, però, entro pochi giorni dalla nomina, nel 1590). Lasciò la
città con l’amaro in cuore dei residui di mondanità nella curia e nello
stesso papato, incapace di comprendere che una svolta ad “U” come quella del
Concilio abbisognava di generazioni per essere attuata (o, se si vuole, che un
processo di corruzione come quello avvenuto durante il Rinascimento, necessitava
di generazioni per essere
totalmente corretto). Ma forse era anche risentito per motivi personali, a noi
non chiari. Pare infatti che egli si lamentasse anche di qualche delusione
propria, se in una lettera scritta un po’ in un linguaggio cifrato (e che gli
procurerà un’accusa presso il S. Uffizio), egli giunge a scrivere “E che
volete ch’io speri a Roma, ove solo li ruffiani, corrotti e altri ministri di
piacere e di guadagno hanno ventura?” Ma all’interno dell’Ordine egli è sempre sulla
cresta dell’onda e viene rieletto “provinciale” e gli vengono assegnati
altri incarichi di fiducia. Però inutilmente, dal 1593 al 1601, chiese, con
appoggi altissimi, l’assegnazione di una diocesi nel territorio veneto:
piccola, affinchè potesse attendere agli studi filosofici e scientifici e
rimanere a disposizione, come consulente, della republica di Venezia. Ma le
informazioni raccolte non tranquillizzavano Roma: il Sarpi aveva contatti con
persone sospette di eresia, oltre che con Ebrei e circoli ancora più
sconcertanti, in cui si parlava della dottrina machiavellica e della mortalità
dell’anima. Nel 1606 insorge la contesa fra Paolo V e la
Serenissima. Si tratta di problemi di giurisdizione: la signoria aveva
arrestato, senza accordi con l’autorità ecclesiastica, due preti rei di
delitti comuni. Inoltre aveva proibito nuove acquisizioni di terreni da parte di
enti e personalità ecclesiastiche, senza previa autirzzazione della repubblica.
Paolo V, dopo le vie diplomatiche e pacifiche, lanciò la scomunica sulle
autorità veneziane e, poi, l’interdetto (proibizione di tener aperte le
chiese e celebrarvi funzioni liturgiche) su tutto il territorio della
repubblica. Il Sarpi fu il consigliere più attivo nello stendere le risposte a
Roma e il “protesto” (manifesto) alla popolazione per dichiarare nullo e
invalido il provvedimento papale: i gesuiti ed i cappuccini che obbedirono
all’interdetto e chiusero le chiese, furono esiliati. La mediazione francese
concluse il penoso affare con compromessi che lasciarono tutti scontenti: il
Sarpi accentuò il suo atteggiamento (che già da tempo maturava in se stesso)
di opposizione all’autorità della Chiesa come organizzazione terrena.
Stipendiato dalla repubblica e richiesto continuamente di “consulti”,
pugnalato dai partigiani della Chiesa (si vorrebbe addirittura che il mandante
fosse il nunzio a Venezia), fu in contatti cordiali e frequenti con gli
ambasciatori d’Inghilterra a Venezia. Essi avrebbero voluto che il Sarpi
introducesse la riforma protestantica, ma egli non vi si impegnò, perchè la
riteneva intempestiva, come appare da un passo della lettera a Jérome Groslot
de l’Isle del 27 aprile 1610 (“L’inquisizione cesserà e l’Evangelio avrà
corso”, vi scriveva: ma solo con la guerra che Roma teme). Egli contava
soltanto su alleanze politico-militari coi paesi riformati e su una guerra
conseguente, per ottenere la punizione della Chiesa di Roma e il ritorno ad una
Chiesa di tipo “apostolico, primitivo” che abbandonasse la forza e si
fondasse solo sulla virtù evangelica. Ma allorchè
la guerra scoppiò, nel 1618, le vicende andarono talmente a favore di Spagna e
Impero che quando egli moriva, nel 1623, doveva temere il peggio per la sua
causa. Aveva mandato a Londra il manoscritto della sua storia del Concilio, che
vi fu pubblicato nel 1619: dopo pochi mesi, essa era posta all’Indice. Morì
fuori della comunione con la Chiesa: durante l’interdetto era stato chiamato a
Roma dal tribunale della Inquisizione e, non avendo obbedito all’ordine, venne
scomunicato, non preoccupandosi egli di chiedere assoluzione o Confessione
sacramentale, neppure in punto di morte. Lo stesso Viatico pare gli sia stato
portato su iniziativa del suo collaboratore (pure lui scomunicato), fra
Fulgenzio Micanzio. LE OPERE. Fra le moltissime ( non tutte edite), le principali
sembrano essere le seguenti.
Istoria del Concilio tridentino
(Londra, 1619, a cura del vescovo di Spalato, Marcantonio de Dominis, passato
all’Anglicanesimo e poi rientrato nella Chiesa): è l’opera principale,
senza la quale le altre sarebbero ricordate a stento e solo in libri
specialistici di storiografia.
Il gruppo di opere connesse con l’interdetto su Venezia: Istoria
particolare delle cose passate tra il Sommo pontefice Paolo V e la Serenissima
Repubblica di Venezia negli
anni 1605-1607 (edito nel 1624); Considerazione
sopra le censure della santità di papa Paolo V contro la Serenissima Repubblica di
Venezia (1606); Trattato
dell’interdetto della Santità di Paolo V (1606); Apologia per le
opposizioni
dell’ill.mo e rev.mo signor cardinale Bellarmino alli trattati e resoluzioni
di Giovanni Gersone sopra la validità delle scomuniche (1606).
Altre opere importanti per capire pensiero filosofico e mentalità
giurisdizionalistica (cioè tendente a sottomettere la Chiesa alla autorità
dello Stato) del Sarpi: Pensieri
(naturali, metafisici e matematici) (Bari, Laterza, 1951; Napoli-Milano, Ricciardi,
1996). Trattato delle
materie beneficiarie (iniziato al più tardi nel 1610; forse non rifinito); Trattato della
immunità delle chiese (è premessa alla Istoria); Discorso
sull’origine, forma, leggi ed uso dell’Uffizio dell’Inquisizione nella
città di Venezia; Scrittura sopra
l’appellazione ad un concilio nazionale.
Epistolario (specialmente con
personaggi della Chiesa riformata di Inghilterra e con francesi, gallicani o
calvinisti). PERSONALITA’, FORMAZIONE, CONDOTTA PRATICA.
Per comprendere il pensiero sfuggente di quest’uomo, dobbiamo risalire alla
sua personalità e formazione. Dalla “Vita di padre Paolo
dell’ordine dei Servi e teologo della Serenissima Repubblica di Venezia”
(scritta dal confratello unanime fra F. Micanzio e pubblicata a Leida nel 1646),
Gaetano Cozzi ricava alcuni dati
significativi per la sua “Nota introduttiva” alle Opere del Sarpi
(Milano-Napoli, Ricciardi 1969: i rimandi senza altra indicazione, si intendono
riferiti a questa opera). Il padre, Francesco, era
“-uomo feroce, più dedito alle armi che alla mercatura-... e mercante
fallito, per giunta, ridottosi dopo vari insuccessi a basso stato: e lo
descrivevano –di statura piccolo, di color bruno, di aspetto terribile-, dai
modi e dall’ira di –un bravo-. Mentre la madre era –di statura grande, di
color bianco, d’aspetto umile e mite al possibile-, dedita alle devozioni, al
punto che dopo la morte del marito aveva vestito l’abito di religiosa ed era
venuta in fama di singolar santità. Era un’unione da destar scalpore nella
cerchia di familiari e conoscenti, per quell’estremo contrasto di condizioni,
di temperamenti, di modi e di gusti di vita, ed il biografo del Sarpi lo
sottolinea, ad apertura della sua operetta, quasi a farne la premessa necesaria
per la comprensione della personalità sarpiana” (p. 3). Fu introverso e dedito agli studi
per propensione ingenita, come testimoniano suoi condiscepoli: “Tutti a
bagatellare... e fra Paolo ai libri” (ivi). La
formazione lascia gran spazio a Duns Scoto, al nominalismo, ad Occam in
particolare: suo maestro fu il servita p. Giovanni Capella, amico di casa
oltretutto. Questa formazione può aver confermato la tendenza innata nel Sarpi
a privilegiare la esperienza, come sorgente del vero sapere, svalutando la
ragione astratta e il ragionamento a partire da princìpi universali ed
evidenti. Che egli fosse incline agli studi sperimentali, lo indicano sia i suoi
“Pensieri filosofici e scientifici”
(della prima giovinezza) sia i più tardivi “Pensieri
medico-morali”; lo conferma la amicizia col Galilei, gli interessi sul
magnetismo, la pratica abituale dell’anatomia, le relazioni con Girolamo
Fabrici di Acquapendente (noto anche come Frabrizio Acquapendente: fu docente di
medicina alla Università di Padova) che gli dovette, pare, più di una
osservazione (sul dilatarsi o restringersi della pupilla secondo la
minor|maggior luce presente; sulla esistenza di valvole nei vasi sanguigni...). A noi pare che questi precedenti temperamentali (più
il magistero nominalistico del Capella) siano sufficienti a spiegare la tendenza
spontanea del Sarpi alla incertezza teoretica,
allo scetticismo e
disinteresse per le questioni ultime della metafisica e della morale; così come
la sua passione per le conoscenze sperimentali e particolari e con le
preoccupazioni di ordine metodologico e critico sul valore della conoscenza
astratta ed universale. Ne vedremo le conseguenze sulle sue convinzioni,
affidate soprattutto ai Pensieri
filosofici, che spiegheranno, a
loro volta, la condotta anguillesca della sua vita pratica. Ma il Sarpi, non dovette
incontrare, nel suo ordine religioso, un contesto adeguato
alla formazione di un soggetto come
lui, molto dotato ma anche
molto scompensato. Altrimenti egli avrebbe potuto, attraverso una
educazione intellettuale pertinente, riequilibrare i limiti della sua
intelligenza e carattere. Invece, si
trovò probabilmente accanto dei superiori e confratelli mediocri, che troppo
rimasero abbagliati dalle componenti positive della sua personalità,
tanto che lo promossero subito alle più alte cariche; e lo protessero poi
sempre. Questo ambiente non poteva non favorire la superbia che, incline a
prender troppo piede in ogni figlio di Adamo, è caratteristica degli intelletti
unilaterali e miopi come era il suo, che soffriva di una forma di deficienza
prospettica, di una specie di astigmatismo
concettuale. Anche il Cozzi
avanza l’ipotesi di un orgoglio non dominato: “Viene alla mente, di fronte a
questo Sarpi ancor giovane, alle sue nostalgiche idealità religiose, alla sua
rigida dirittura morale, ed al suo indulgere su temi di un’etica precristiana
(epicurea o stoica: della padronanza e serenità, comunque) e al suo orgoglio
così incline al disprezzo, la raccomandazione rivoltagli, una ventina d’anni
prima, dal cardinal Paleotti: e ci si domanda se il vescovo, nell’incitarlo,
per la sua vita futura, ad –iactantiam evitandam et humilitatem amplectendam-
(evitare l’orgoglio ed abbracciare l’umiltà), non gli indicasse
perspicacemente il limite più profondo della sua personalità di religioso e di
cattolico”(pp. 4 e 19-20). Ma comunque sia da risolversi il problema delle
cause, è certo che egli rivela, nella vita pratica come in quella teoretica, una
ambivalenza, anzi una ambiguità che sconcertarono a suo tempo e cattolici e
protestanti. Nella
prassi, egli restò nella Chiesa come scomunicato: pretese di rimanervi,
erigendosi a giudice ultimo, quando egli faceva fatica ad accettare l’autorità
che, incarnata da persone più o meno degne, era pur sempre quella additata dal
Vangelo. Scontento della non sufficiente purificazione negli uomini di Chiesa,
aveva però rinunciato alla collaborazione
con San Carlo, che della stessa stava
attuando una forma ben
esigente, anzi eroica. Invece, coltivava moltissime amicizie con protestanti
francesi e inglesi. Era intrinseco di Arnaud du Ferrier, ambasciatore di Francia
a Venezia e già ambasciatore a Trento per l’ultimo periodo del Concilio, dove
aveva rappresentato la volontà del suo paese di ostacolarne la conclusione e la
proclamazione della primaria auotrità del papato. Amicizia ancor più intima e
duratura fu quella col medico calvinista, residente a Venezia come straniero,
Pierre Asselineau: con lui era legato anche da interessi scientifici, da
ricerche mediche. Ebbe corrispondenza con francesi, cattolici ma gallicani
(rivendicanti ampia autonomia della chiesa di Francia, con parallele concessioni
alla ingerenza del re nelle nomine ed altre questioni
religiose), come Jacques Leschassier e Jacques Gillot. Francesi e
calvinisti erano Isaac Casaubon, Jérome Groslot de L’Isle e vari altri con
cui ebbe scambi epistolari. Degli inglesi (anglicani) diremo fra poco. A parte i
legami (già accennati) con comunità e circoli
al margine o fuori della Chiesa cattolica (Ebrei, Zecchinelli), era poi in
contatto con cattolici, religiosi e laici, che contestavano o la riforma
tridentina o il proprio istituto
religioso o lo stato della Chiesa del tempo. Camillo Oliva era uno di questi: già
segretario, al Concilio, del card. Ercole Gonzaga, era però “amaro e
polemico” e sottolineava gli aspetti meno edificanti del Concilio. Da lui,
come dal Ferrier, potè il Sarpi (che non cita le proprie fonti) avere notizie
di prima mano: anche se erano tuttte su una sola lunghezza d’onda, quella
della minoranza contestatrice. A Roma aveva
fatto conoscenza con Martìn de Azpilcueta, sostenitore di una tesi
estremista sulla residenza dei vescovi, dovere che,
come aveva inutilmente sostenuto a Trento, sarebbe stato addirittura di
diritto divino. Si era pure legato con un vecchio gesuita, Nicolàs Alfonso de
Bobadilla, cofondatore dell’Ordine con S. Ignazio, ma attuale suo critico
radicale ( la Compagnia stava tradendo l’idea del fondatore..): ma va tenuto
presente che il Bobadilla aveva impegnata tutta la pazienza di S. Ignazio, che
se lo tenne vicino, sopportandone la imprevedibilità non del tutto normale.
Sembra, in conclusione, che il Sarpi armonizzasse
solo con persone o pensieri ambigui. La fascia d’onda, su cui la stazione
neuro-ricevente del Sarpi era sintonizzata, era zigzagante: a un certo punto se
ne stancarono gli stessi riformatori, che l’accostavano inutilmente per
indurlo a fondare a Venezia una nucleo
evengelico: “L’uomo che doveva esserne al centro, Paolo Sarpi, era accusato
dai suoi amici riformati di freddezza, di inerzia, fin di incredulità. Una
sorta di Melantone, lo si definiva: ed era, di tali giudizi, di gran lunga il più
benevolo...Non è possibile ritrarre da quest’uomo altro che parole e queste,
poche,asciutte ed ambigue” (pp. 636-7: a p. 231 si possono leggere altri nomi
di riformati delusi dalla sua ambiguità inconcludente). Giacomo I Stuart
l’aveva invitato, nel 1612, in Inghilterra, per facilitargli il passaggio alla
riforma: egli aveva rifiutato. Eppure era stato in contatto di idee e di intenti
con più di un ambasciatore d’Inghilterra, dapprima com Henry Wotton e, poi,
con sir Dudley Carleton. L’uomo di contatto col primo era il cappellano
dell’ambasciata, William Bedell, col quale il Sarpi aveva studiato
l’inglese, mentre gli dava lezioni di italiano; con questi aveva cooperato
alla traduzione di un’opera anglicana (“Relation of the state of
religion”), che verrà pubblicata a Ginevra dopo la morte del Sarpi (1625),
con aggiunte inserite da lui. Ma quando si trattava di passare alla riforma,
egli rispondeva, al solito, di andare con prudenza; e dilazionava. Dal
1610 al 1615 fu in rapporto di totale confidenzialità col successore di Wotton,
il Carleton: fu questi a decidere il Sarpi alla stesura della Istoria del
Concilio, che egli per altro andava accarezzando e preparando da tempo. E il
Sarpi, che rifiutava il passaggio all’anglicanesinmo e il
soggiorno in Inghilterra, spediva colà
l’opera in fascicoli, facendovela pubblicare collo pseudonimo di Pietro
Soave Polano (Pietro era il suo nome di battesimo). IL PENSIERO DEL SARPI.
L’ambivalenza dell’azione sembra
presupporre una ambiguità nel pensiero, ma forse non è così.
E’ questo, almeno, la persuasione cui è giunto Romano Amerio,
riuscendo ad interpretare uno scarabocchio[32]
contenuto in otto pensieri del
manoscritto dei Pensieri filosofici.
Esso era stato un rompicapo già per chi aveva redatto l’apografo del
manoscritto originario, tanto che si era ridotto a darne due interpretazioni
totalmente diverse, ora leggendolo
come “terra” ed ora come “tortura”, ma lasciando in ogni caso
incomprensibili gli otto pensieri. Eppure sono proprio questi la chiave per
comprendere altre posizioni fondamentali
nella filosofia del Servita. Lo scarabocchio
va letto “torà”, che in ebraico significa “legge” (di Dio: sono
i primi cinque libri della Bibbia, dalla Genesi al Deuteronomio), ma che significa anche la religione ebraica tutta
e, per estensione, la fede religiosa in genere. Ne esce anzitutto
questa prospettiva gnoseologica.
Egli aderisce al principio averroistico della duplice verità, perchè ritiene
nulla la capacità e volitiva e raziocinante dell’uomo: solo la Rivelzione
divina dà certezze sulla vita, come solo la Redenzione dà potere di azione
morale. Fin qui parrebbe coincidere, nella dottrina, esattamente con Lutero,
Zwinglio e Calvino. Ma le cose stanno, poi, diversamente se si considerano le
cause di tale stato debilitato dell’uomo. Il Sarpi non appella alla colpa
originale per giustificare il suo radicale pessimismo sull’uomo spirituale e
le sue facoltà: egli ritiene tale impotenza
umana come naturale, congenita con la creazione stessa, precedente il peccato
originale, che a lui non pare interessare per nulla. Egli si può, così,
permettere il lusso di essere, come filosofo, materialista (atomismo epicureo:
non esisterebbe sostanziale differenza tra animali ed uomini), sensista,
negatore della immortalità dell’anima, salvo ad accettare la dottrina
cristiana per soli motivi di fede.[33]
Egli poteva, allora, appellarsi alla “sola fede”, come facevano i
riformati, ma in un senso che è inaudito nella tradizione del mondo cristiano,
cattolico o protestatnte. Di qui il suo temporeggiare fino alla inconclusione
dei rapporti con calvinisti ed anglicani: fra di loro avrebbe trovato le stesse
incomprensioni e persecuzioni che fra i cattolici, poichè per entrambi egli era
eterodosso. Ma da un simile punto di vista, si rendono spiegabili anche le sue
preferenze per i riformati, dal momento che essi
si appellavano alla “sola Scrittura”, demolendo molti dogmi o
dottrine di fede ormai consolidatisi nella Chiesa cattolica, ma non chiaramente
esplicitati dal Vangelo: i
riformati si accostavano a quel suo desiderio di ritornare alla fede minima
delle origini cristiane, al sistema di vita semplice e disorganizzato del tempo
degli apostoli, perchè in tale condizione gli pareva
che ci fosse spazio per una visione simile alla propria o che con la
propria addirittura coincidesse. Ogni chiarificazione e consolidamento di
nuove verità di fede ( e la cosa, col Concilio tridentino, si era ingigantita)
era per lui una pretesa della ragione umana a comprendere al di là di quanto
Dio aveva voluto accennare, per offrire al povero uomo una salvezza facile,
attraverso delle verità semplici. Eccolo allora a far notare anche ai
calvinisti “che il moltiplicar articoli di fede, e specificar, come
soggetto di quella, cose non specificate, è dar negli abusi passati (cioè
ritornare ai metodi della Chiesa cattolica). Perchè non contentarsi di
lasciar in ambiguo quello che vi è stato sino al presente?” (p. 238). Ma,
naturalmente, le sue obiezioni maggiori erano quelle nei confronti della
Chiesa cattolica, specialmente sul primato del papa, che egli vedeva come la
sorgente del dogmatismo: per lui la chiesa primitiva era quella che giungeva
sino al secolo VIII, cioè sino a Carlo Magno escluso: una Chiesa povera di
mezzi, di organizzazione, di teologia
e di dogmi. Un testo esplicito in materia è quello contenuto nel Trattato
delle materie beneficiarie, dove egli cerca di “dimostrare come la Chiesa,
partendo dall’originaria povertà e dalla struttura democratica
dell’organizzazione cristiana primitiva, si sia gradatamente corrotta nel suo
spirito a causa del deformarsi dei suoi istituti e del suo regime patrimoniale;
il rompersi della vita comunitaria del clero, la fine dell’originario sistema
elettivo, il trasformarsi dell’episcopato e del monachesimo, l’accentuarsi
dell’autoritarismo pontificio favorito dal distacco della Chiesa d’Oriente,
il nascere delle decime...l’organizzarsi di un regime beneficiario....sono le
conseguenze e le manifestazioni evidenti di quel processo degenerativo” (pp.
241-2). Ad una simile chiesa primitiva egli è disposto a perdonare quei
difetti, che non riresce a sopportare nella Chiesa del papa (lettera a Groslot
de Isle: pp. 238-9). E il Cozzi, che pure intimamente non è sfavorevole alla
figura del Sarpi, costata
onestamente che proprio lui, che contesta il legalismo della Chiesa e
l’organizzazione razionalistica del suo “credo”, deve poi ricorrere a
dimostrazioni “abili e insidiose” che “risentono spesso di un formalismo
cavilloso, e si inaridiscono in intonazioni causidiche” (123);e si rivela
“sottilissimo, mordace, avvincente; ma capzioso, a volte, e imbarazzato quando
è costretto ad appoggiarsi ad autori recenti o al diritto vigente”. Egli
lascia trasparire la “pervicace esigenza di contestazione nei confronti delal
Chiesa, della sua realtà attuale, del suo passato” (p.223): atteggiamento che
sarà, poi, caratteristico di tutta la Istoria.
Poste queste premesse, in che misura è sincero il suo preferire l’autorità
di un concilio (anche solo nazionale) contro l’autorità del papa? Egli ne
tratta nella “Scrittura sopra l’appellazione ad un concilio nazionale”
(pp. 122-6; 129-34). Nè si deve credere che la sua contestazione contro il
“lontano papato fosse atto di forza e di coraggio, quando si legge in quali
termini si rivolge al vicino governo veneziano: -Nissuna cosa ho desiderato più
ardentemente alla mia vita che di poter esser atto in qualche maniera di servire
la Serenità vostra, mio principe (il doge)
sotto il quale son nato in questa inclita città” (p. 118). E lo stesso tonno
e stile, che anche Cozzi ammette non fanno onore all’uomo, è nelle lettere
per ottenere la mediazione del governo veneziano all’assegnazione a lui
dell’episcopato di Nona (pp. 23, 30, 223). LA “ISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO”. Edita a Londra nel 1619, l’opera è in otto libri,
che abbracciano gli avvenimenti dal 1517 (le tesi di Lutero a Vittemberga) al
1565 (prime elezioni cardinalizie dopo la fine del Concilio).
Motivi ispiratori. Materialmente sono le vicende che costituiscono i precedenti e lo
svolgimento del Concilio di Trento: la ribellione di Lutero e di molti paesi del
Nord Europa; la tensione fra la Germania che chiedeva il Concilio e Roma che lo
temeva e rimandava (fino al 1534, cioè fino alla morte di papa Clemente VII);
le difficoltà a tenerlo, poi, quando Paolo III lo voleva decisamente, mentre le
lotte tra Francia e Impero lo impedivano ed i luterani, ormai, lo sdegnavano; le
varie vicende ed attività del Concilio stesso dalla sua riunione a Trento nel
1545 allo spostamento a Bologna nel 1547; dalle sospensioni alla sua veloce
parte finale, sino alla conclusione, nel 1563. Il metodo è quello annalistico:
ognuno dei 67 capitoli della Istoria segue spesso pochi mesi, talora solo
qualche decina di giorni di attività.
Formalmente, il filo di Arianna, il
significato essenziale della Istoria, il punto di vista, che l’autore
pone a cardine della sua ricerca, è espresso nella prima pagina dell’opera,
all’inizio del libro primo e val
la pena di leggerlo nelle stesse parole del Sarpi: “Raccontarò le cause e li
maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di
22 anni, per diversi fini e con vari mezi, da chi procacciata e
sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni
18 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha
sortito forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata
et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per
rasignare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana. Imperò che questo concilio, desiderato e procurato
dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per
contrario ha così stabilito lo scisma et ostinate le parti, che ha fatto le
discordie irreconciliabili; e maneggiato dai prìncipi per la riforma
dell’ordine ecclesiastico ha causato la maggior disformazione che sia mai
stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per
racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice
romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi
nella propria servitù; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace
mezo per moderare l’essorbitante potenza da picciolo princìpii pervenuta con
vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e
confermata sopra la parte restatagli soggietta, che mai fu tanta nè così ben
radicata.” [34] La dichiarazione “candida” è fatta ad inizio
dell’opera e denuncia una tesi
pregiudiziale: non è il risultato della ricerca, ma il criterio
della ricerca stessa: il che rivela, in apertura di libro, un preconcetto,
che è il suo difetto principale. Certo, alcuni fatti sono innegabili: il
Concilio si radunò anche per
tentare di conciliare le parti; è indubbio, ma già qui vi è una
interpretazione equivoca: per il Sarpi, la ricompattazione tra cattolici e
protestanti sarebbe stato non uno scopo,
ma lo scopo del Concilio. Per il papa, i vescovi, i cattolici, il
Concilio doveva anzitutto e soprattutto definire la dottrina vera della
“giustificazione” (per la sola fede o anche per le opere,
di cui l’accettazione della fede era la prima e le altre un frutto?):
la riunione doveva essere un corollario della verità
chiarificata, non la meta assoluta cui sacrificare anche la verità tradizionale nella Chiesa cattolica! E ancora: che
prove adduce il Sarpi per permettersi di affermare che i vescovi volevano
adoperare il Concilio “per racquistar l’auttorità episcopale, passata in
gran parte nel solo pontefice romano”? Alcuni ve n’erano, certo, ma una
minoranza, tanto che il Sarpi deve riconoscere che fu proprio il Concilio (cioè
la enorme maggioranza dei vescovi) che “gliel’ha talmente stabilita e
confermata.... che mai fu tanta nè così ben radicata”. E al Concilio si
votava democraticamente, per numero di vescovi. Ripetiamo: pregiudizi
fin dalla prima pagina dell’opera. [35] Vorremmo ora segnalare come tale animo sospettoso,
pessimista ed ostile riaffiori continuamente nella Istoria: così frequentemente che, per discrezione, ci limitiamo a
documentare solo alcuni casi che si incontrano “à livre ouvert”, cioè nel
primo capitolo del primo libro. Vi si
dice[36]
che il card. Tomaso de Vio (detto il “Gaetano” dal luogo di nascita a Gaeta)
avrebbe tentato di ridurre Lutero a ritrattarsi e tacere, mediante promesse di
onori ecclesiastici; fallita la missione, a Roma -in curia- ci si lamentò che
il legato non avesse offerto addirittura il cardinalato
al frate, pur di placarlo. Ora non vi è prova alcuna di simili maneggi:
il Gaetano andò alla dieta di Augusta del 1518 convinto che Lutero era un
eretico notorio e deciso ad eseguire quanto il papa gli aveva indicato: o la
ritrattazione o il processo a Roma. E quello di Sarpi rimane un sospetto
temeraio, un processo alle intenzioni, una calunnia: chi era presente agli
eventuali colloqui privati e segreti tra il legato e Lutero?
Un’ipotesi destituita d’ogni fondamento. Lutero amplierebbe il raggio della sua contestazione
alle dottrine tradizionali (specie sui sacramenti), per
la soddisfazione (orgoglio, anzi) di vederee le sue idee esportate da
Zuinglio fuori Germania. Il processo alle intenzioni si raddoppia nel giro di un
solo periodo, rovesciandosi però di senso: questa volta sono le condanne di
alcuni corpi universitari a spingere Lutero alla intransigenza ed ostinazione
nelle sue idee. Non si salva neppure Lutero dalla inclinazione maligna al
sospetto temerario, propria del Sarpi: lo accusa di pervicacia sia a motivo dei
successi ottenuti che in reazione alle opposizioni incontrate! Leone X, pentito di aver preso troppo sul serio
quella che poteva essere considerata semplicemente una “discussione
fratesca”, ne prevederebbe l’esaurimento tanto più celere quanto più essa
fosse trascurata dalla autorità ecclesiastica. Conseguenza? Emana la bolla di
condanna del 15 giugno 1520 (“Exsurge, Domine”). Alla pratica impossibilità
(mancando documenti al riguardo) di leggere nell’animo di Leone X, si aggiunge
la controindicazione degli atti compiuti dallo stesso pontefice, che fa stampare
al sua “brava grida” ad esterminio delle eresie.... Della Bolla “Exsurge”, il Sarpi trascura la
essenza e si sofferma su particolari accidentali: dedica otto righe ai 41
articoli di condanna e ventisei
alle circostanze di composizione ed
espressione, dove trova modo di esercitare la sua perspicacia nel sottolineare
difetti veri o presunti, mentre il valore della bolla sta
anzitutto nella verità
delle dottrine di Lutero riportate e, in secondo luogo, nella loro dissonanza
rispetto alla dottrina tradizionale della Chiesa. Ebbene, su tali rapporti, il
Sarpi sorvola, sebbene poteva almeno riconoscere che le parole che definiscono
i singoli errori sono tratte, quasi sempre alla lettera, da opere di
Lutero. Così egli può sofisticare
sul fatto che il documento contenga un periodo di oltre 400 righe; che non si
applichi alle singole proposizioni la specificazione dell’erroneità, ma
vengano condannate in blocco, salvo a indicare
alla fine che tra esse alcune erano propriamente eretiche, altre
soltanto scandalose o false; che non si citino i passi della Scrittura
contro cui le affermazioni di Lutero urterebbero; che “tante proposizioni in diverse materie di fede fossero
state decise in Roma col solo conseglio delli cortigiani, senza parteciparne con
gli altri vescovi, uinversità e persone letterate d’Europa”. Ora egli
trascura che un documento di condanna, che
usciva dopo quasi tre anni dalle “tesi “ di Vittemberga, con tutto il
vespaio ormai suscitato, era così in ritardo che la fretta poteva scusarne i limiti; che,
per quanto riguarda la citazione delle prove della erroneità, la Chiesa non era obbligata ad addurne,
perchè non è chi nega, ma chi asserisce
che deve portare le prove, secondo la regola di ogni buona discussione
(“affirmantis est demonstratio: la prova tocca a| è di pertinenza di chi
afferma); e, infine, che non solo le Università
di Colonia e di Lovanio avevano contribuito al processo
svoltosi a Roma contro Lutero (in contumacia) nei mesi tra gennaio ed
aprile del 1520, prima che fosse
emessa la bolla “Exsurge Domine”con la condanna, ma che, anzi, la più parte
delle proposizioni condannate erano quelle indicate dalla università di Lovanio
(nel suo giudizio su Lutero del 7 novembre 1519). Che Lutero facesse bruciare un esemplare della bolla
“Esxurge” a Vittemberga come risposta al bruciamento dei suoi libri alle
università di Lovanio e di Colonia, è una pietosa ipotesi: gli scritti
contemporanei (“Contro la bolla dell’Anticristo”| “La cattività
babilonese della Chiesa”) rivelano motivazioni di logica interna ai suoi
errori ben più trainanti ed efficienti che non una rivalsa
passionale, una iperreazione
al gesto di obbedienza (di due sole università!) all’obbligo fatto dalla
bolla “Exsurge” di dannare al
rogo i libri del frate ribelle. Si trattava di quella forza terribile che regge
il mondo umano ed è la coerenza o consequenzialità delle idee. Il Sarpi non
s’accorge, probabilmente, che riducendo i gesti di Lutero e lo sviluppo
dei suoi prinìpi a reazioni emotive
contro le misure di Roma, rischia di
immiserire quella che fu chiamata la rivoluzione copernicana in campo
religioso, riducendola ad una questione di puntigli e di ripicchi personali. La sentenza “Ma li vescovi che non avevano altra
mira se non al conservar la loro autorità, dicevano che nella causa della
religione non si dovesse venire ad alcuna trattazione...”. Questo è un vero
processo alle intenzioni, un voler “um die Ecke gucken” (guardare dietro
l’angolo) della coscienza umana, un condurre la storiografia in base a
sospetti temerari, graditi a quanti fra gli sprovveduti o corrotti lettori
cercano ad ogni costo una malignità negli altri per appagar la propria collera,
per soddisfare la propria aspirazione a trovar colpevoli, per assecondare la
propria inclinazione a punire. Difatti
lo Jedin scopre il motivo della cessazione (da parte ecclesiastica) delle
trattative: “Fu il cardinal Camporeggio ad avvertire chiaramente il pericolo
insito in questa pretesa dei protestanti (di considerarsi ancora cattolici) e
pertanto egli si dichiarò (proprio in considerazione di questo pericolo)
decisamente contrario ad ogni concessione e ad ogni tolleranza: altrimenti si
sarebbe avuto come conseguenza che cattolicesimo e luteranesimo sarebbero stati
considerati come due fedi sullo stesso piano” (vol I, libro 2, cap. 1,
pp.161-2 della traduzione italiana, Brescia, 1949, cit.). E
infine: “Ma il papa (Clemente VII,
Medici, tuttora signore di Firenze),
così per esser stanco dalli travagli, come anco perchè, restando li collegati
(Francia e alleati) superiori,
avrebbono mantenuto la libertà di Fiorenza (tornata
repubblica) il governo della quale egli più desiderava di ricuperare che di
vendicarsi delle ingiurie ricevute da Carlo, fece risoluta deliberazione di non
esserli contrario, anzi di congiongersi con lui la prima occasione per ricuperar
Fiorenza: la quale certo era che se il re di Francia e li Veneziani fossero
restati superiori in Italia, averebbero voluto mantener in libertà. Tenendo
nondimeno questo per allora nel petto suo, si scusò che per la povertà ed
impotenza sua sarebbe stata di gravezza e di non giovamento alli
collegati....”. Il nostro commento in parte consente (Clemente VII fu certo
moralmente meschino e prepotente a voler riavere Firenze con la violenza delle
truppe imperiali), ma sostanzialmente deve dissentire: la conversione politica
del papa dal favore alla Francia (in nome del tradizionale
principio della politica papale di non lasciar in mano allo stesso
padrone le due chiavi d’Italia, cioè Milano e Napoli, perchè un tale fatto
avrebbe tolta la libertà di azione al papato stesso) all’appoggio per Carlo V
non avvenne per l’avidità di
riavere Firenze, ma per il disastro del sacco di Roma, che mise il papa praticamente alla mercè dell’imperatore. Papa
Clemente si comportò come un don Abbondio qualsiasi, sempre disposto
all’obbedienza col più forte. In
conclusione: le analisi psicologiche di questo storiografo risentono molto
del viraggio di introspezione messo in voga dal Machiavelli, ma
si rivelano controproducenti: di
fronte ai fatti documentati, non c’è speculazione suppositiva che tenga.
Forse lui credeva di imitare Tacito, ma si rivela invece una talpa che scava
cunicoli tenebrosi sotto terra; e che, portata a confronto dei fatti, resta
abbacinata e si lascia cogliere in fallo. E’ una spia che sorpassa sempre chi
sta pedinando, anche perchè il
motivo del sospetto spesso esiste solo nella sua mente.
Le tonalità liriche (?).
Tutto il discorso che si è fatto sinora sul Sarpi, avrebbe senso in sede di
storia della letteratura italiana, solo se, nella espressione delle sue idee
(esatte od errate, non importa) l’autore le avesse permeate di un pathos
lirico. Dobbiamo però confessare che ciò non
risulta minimamente vero al nostro senso critico: egli ci appare un re nudo, aggregato a forza nella disciplina
letteraria per motivi politico-ideologici. E’ un’altra gherminella
della congréga degli studiosi risorgimentali (di una certa loro parte,
almeno) che incominciò con Francesco De Sanctis: egli ebbe l’ingenuità di
celebrarlo come rappresentante della civiltà della “nuova scienza”, che
soppiantava quella medioevale e segnava la resurrezione della società italiana,
dopo la corruzione del Rinascimento[37].
Molti studiosi vogliono mantenere in auge tale tesi, all’attenzione dei
giovani studenti, per scopi
decisamente extraletterari: l’esaltare il Sarpi fa parte della vociante
opinione anticattolica e del linguaggio politichese di moda. Al contrario, il
valore della Istoria del concilio
tridentino, qualunque esso sia, rimane limitato al campo storiografico: il
libro, con la storia letteraria, non ha nulla a che fare. Comprendiamo
che almeno due domande insorgono a questo punto: come dimostriamo la nostra
esclusione così radicale dalla storia letteraria d’Italia
di uno scrittore solitamente apprezzato? E ancora: perchè mai si è dato
tanto posto in queste nostre riflessioni alla sua opera, se si tratta di un
disvalore estetico? Per sè,
la prima esigenza non ha senso: sembra legittima solo alla impressione
emozionale. Abbiamo, infatti, già riportato il principio troppo logico, per cui
“tocca a chi afferma dimostrare la sua tesi”, non a chi la nega (affirmantis
est demonstratio). Noi, negando la sua artisticità letteraria, non siam tenuti
alla prova; anzi ne siamo proibiti: dovremmo riportare brani (e lasciamo al
lettore di sceglierne ovunque voglia) per concludere
“Vedete che non hanno nessun plus-valore estetico?”. Il
che è giusto l’opposto di ciò che deve fare una storia della
letteratura, cioè documentare e
definire la poesia là dove il critico è persuaso che essa esiste. Tuttavia,
possiamo offrire qualche indizio indiretto che appoggi la nostra tesi:
prendendolo dal modo con cui i “lodatori” si esprimono o si documentano
(anzi, non documentano le lodi). Anche
un grande critico come Natalino Sapegno giunge a questa nuova specie di “ossìmori”
in cui si afferma in seconda battuta l’artisticità
che si è negata dapprima (o viceversa): “Questo stile potrà, a prima vista,
sembrar addirittura monotono e scialbo, perchè da esso sono
assolutamente esclusi così il pittoresco come la rettorica sentimentale[38]
e anche il movimento drammatico rimane tutto implicito e si risolve in
potenza di ragionamento dialettico, di sintesi espositiva, di rappresentazione
psicologica... Ma questa educazione letteraria[39]
opera, per così dire, da sola e immediatamente, senza che mai si possa
avvertire in essa un’ombra, anche lieve, di compiacimento artistico: senti
che il Sarpi è tutto intento alle cose più che alle parole...” (Compendio di
St. d. Lett. it., Firenze, La Nuova Italia, 1963, II, 298). Se abbiamo capito
bene, da quanto si può capire da un simile ermetismo “rettorico”, il Sarpi
poteva essere un grande scrittore, ma di fatto non lo è. O, se si vuole, si
pretende affermare la grandezza letteraria di Sarpi sulla irragionevole base
della assenza in lui di difetti soliti nella scrittura del Milleseicento
(pittoresco, retorica, sentimentalismo, compiacimento artistico...): che è
troppo poco; anzi è indizio che di meriti autentici non se ne sanno indicare. Ed
ecco Gaetano Cozzi, nelle sue Note introduttive alla edizione ricciardiana
di varie opere sarpiane (o di loro parti antologiche): egli parla di “arguzia
che spesso si appuntisce nel sarcasmo insistito, corrosivo”[40];
di “giudizio spesso sferzante” e di ironia che può presentarsi con tratti
di bonomia sorridente, ma che scava, insistente, spietata, lacerante sugli
uomini e sulle istituzioni” (Istoria, in Ricciardiana, p.733); e di “un tono
ironico, tanto più pungente, quanto più velato di compunzione” (ib. 734); di
“increspature di ironia”, di “nota sarcastica” di “frecciata
polemica” (ib. 735). Quello che qui manca sono solo gli esempi concreti, le
citazioni di passi precisi, di frasi tratte
dall’opera. Uno, veramente, lo riferisce ed è quello riguardante la morte di
Zwinglio nella battaglia di Kappel (Istoria,
libro I, c. 4: Ricciardiana, 827-8; ed. Sansoni, p. 74). Ma tale passo è
tutt’altro che ironico o sarcastico; è semplicemente una riflessione
etico-religiosa sulla storia umana; di comicità o di altre passioni non v’è
traccia. Ci sembra più utile riportare un altro passo, dove manca forza comica
di qualsiasi genere, pur avendo il Sarpi tra mano non un capo a lui simpatico
come Zwinglio, ma un papa a lui antipatico e, perciò, facile esca alla sua
ironia, se egli ne avesse posseduta. Si tratta della descrizione della figura di
Leone X, in apertura di volume o quasi: “E sarebbe stato un perfetto
pontefice, se con queste cose (cultura
umanistica, dolcezza e amabilità di tratto, mecenatismo...) avesse
congionto un poco di cognizione delle cose della religione e alquanto più di
inclinazione alla pietà, dell’una e dell’altra de’ quali non dimostrava
aver gran cura” (Istoria, l. 1, c. 1, Sansoni, p. 6). Ci pare che il Sarpi
denunci qui la assenza totale di ogni vis comica, di ogni capacità di sorridere
e deridere. O, se si vuole, diventa lui motivo di riso (ridicolo, quindi) perchè
definisce quasi perfetto un papa che manca delle doti più necessarie, cioè
quelle per cui egli è uomo di Dio, colla più grande responsabilità spirituale
sulla terra e con la coscienza di una missione impossibile agli uomini, la cui
riuscita è solo nelle mani di Dio. Ma il Sarpi non sembra
risentire questa lacuna come uno
strappo decisivo nel manto pontificale: la denuncia quasi come una
lieve smagliatura. Se il
Sarpi non ha saputo ricavare il comico sarcastico da una simile figura di papa,
anzi ha volto al serio ed ha espresso con
tanta bonomia un giudizio oggettivamente squalificante per
il responsabile primo della situazione penosa da lui deprecata nella
Chiesa, allora di senso di humour e di comicità egli non doveva proprio
possederne, svergognando così quanti, per motivi ideologici, lo vogliono
ingabbiare ad ogni costo nel museo della nostra letteratura, nonostante
la sua aridità di cuore e sofisticazione
di mente. Ma
perchè, allora, abbiamo dedicato tanto spazio ad un “re nudo”? Ecco la
risposta: per rimediare alle
artificiali quotazioni, all’asta dei valori letterari, che abbianmo dovuto
documentare come pervicacemente resistenti;
e per non mandar perdute tutta la pazienza ed il tempo impiegato a perseguire
la illusione di rintracciare qualcosa di buono fra tanto vuoto lirico ed
insolenza intellettuale.
Note stilistiche. Mente
indagatrice di intenzioni (a costo di inventarle), anatomizzatrice di coscienze
(a costo di deformarle), il Sarpi non ha tempo per curare la espressione: ce lo
ha detto Natalino Sapegno e lo ripetiamo “marte nostro”, cioè a nostra
esperienza e responsabilità. Il grigio è il colore che suggerisce la sua
prosa, greve, monotona, sistemata in periodoni lunghi di righe, zeppi di notizie
o di processi alle intenzionmi: noiosa e pesante. Su
questo sfondo di intellettualismo troppo analitico ed ipercritico, stonano le
numerosissime note di dialettalismi veneti. Esse, anzitutto, per le loro
sfumature bonarie e per il loro impasto musicale riescono piuttosto cordiali e
distensive; e sono perciò impertinenti al discorso sospettoso e
corrosivo in cui vengono ad inserirsi. Ma, in secondo luogo,
non s’accordano con l’impasto più
intellettualmente sobrio ed equilibrato della lingua fiorentina: è come se
Veronese o Tiziano, Giorgione o
Tintoretto volessero aggiungere delle tonalità cromatiche alle opere uscite
dalla scuola prevalentemente disegnativa o sfumata dei pittori toscani. Nella
prosa della Istoria, la filologia
veneta scopre tutti i suoi discordi rispetto a quella della lingua già allora detta italiana. Ci limitiamo, anche per questa
documentazione, al primo capitolo del primo libro, tenendo presente il testo
della Sansoni (già più “rimediato” che non quello offerto dal Cozzi nella
Ricciardiana): “congiòngere”
elude la legge del fiorentino che, davanti a “ng” mantiene la “u”
latina (coniungere), anche se essa è
vocale breve (il fiorentino evita così due suoni dolciastri di seguito
–“gion-ge”-, per amore di equilibrio musicale); “assonzione”
ignora la continuazione “dotta” (assunzione, da “assumptio”) preferita
dal fiorentino, per adottare la
prosecuzione popolare; “nova”,
nonostante che la “o” breve in latino esiga la dittongazione in “uo”
(“nova=nuova”); “longo”, nonostante la “ng” di “longus” imponga la
continuazione in “u”; “abbrugiò”
(dal tardo latino “brusiare): ridotto in forma veneta e non toscana
(bruciare); “conseglio” non
rispetta la continuazione “dotta” che mantiene la “i” in toscano,
nonostante essa, in latino, sia vocale breve; “noncio”
è un iperpopolarismo: la “u” (radicale) di “nuntius” è lunga e
perciò prosegue tale e quale in
fiorentino (per altro, il Sarpi usa anche “nuncio”: Sansoni, 34-5); “dechiara”
è una fedeltà alla regola filologica anzichè all’uso di fatto: la “e”
del prefisso nel verbo latino “declarare” è bensì lunga (e, come
tale, dovrebbe davvero proseguire con una “e” anche in toscano), ma di fatto
il popolo toscano ha preferito la continuazione in “i” (“dichiarare”);
“Préncipi”: iperpopolarismo,
perchè la “i” del latino “Princeps” è lunga e si mantiene tale; Qualonque| quantonque|: la “u” latina è lunga e si mantiene in
toscano. Tali
venetismi si ripetono troppo di frequente e disturbano davvero il lettore
sintonizzato sull’italiano di Firenze e dintorni: l’Adige, il Brenta ed il
Bacchiglione hanno...ubriacato il povero Sarpi. Anche la sintassi non è
perfetta. Ecco un anacoluto balordo: “E con queste risoluzioni fu formata
la bolla sotto li dì 15 giugno 1520, la quale essendo come principio e
fondamento del concilio di Trento, di cui abbiamo da parlare, è necessario
rappresentare qui un breve compendio di quella” (l. 1, c. 1:
Riccirdiana, 757; Sansoni, 13). Ecco un passaggio
dal discorso diretto a quello indiretto: “Si raccordasse Sua santità
di quel celebre luogo della Glossa, allegato da lei nel suo quarto delle
Sentenze, che intorno al valor delle indulgenze la querela è vecchia e ancor
dubbia...” (Ricciardi, 774; Sansoni, 28). Ed un altro: “E, lodato
l’imperatore, essortò tutti ad ubidire quello che ordinerà. (avrebbe
ordinato)..”. Ma il difetto non è in questi svarioni: Machiavelli e
Guicciardini li ricuperano con la forza e lo splendore complessivo della
locuzione, talvolta facendo degli anacoluti
leva ad espressioni sublimi, drammaticamente liriche. Qui non si ricupera
nulla; nulla si comunica di speciale: gli arbìtri rimangono errori e la
scrittura conferma i sofismi ed i pressappochismi di uno scrittore mediocre e
sprovveduto, disinformato spesso e maligno sempre.[41]
Galileo
Galilei. I GIORNI E LE OPERE. Nato a Pisa, nel 1564, morì ad Arcetri, presso Firenze, nel 1642.
Il padre Vincenzo, fiorentino, era il teorico della “Camerata de’ Bardi”,
da cui nacque il melodramma. Egli studiò a Pisa, ma ne ritornò senza laurea.
Eppure non ebbe difficoltà ad ottenere la cattedra di matematica, dapprima a
Pisa (1589-92) e, poi, a Padova (1592-1610), dove fu invitato dalla serenissima
repubblica di Venezia.. Egli, infatti, aveva già sorpreso i coetanei con la
scoperta dell’isocronismo nelle oscillazioni del pendolo (1583), con la
invenzione della bilancia idrostatica, capace di determinare il peso specifico
dei solidi (1586); con i teoremi sul baricentro (1586-7). Certo, egli sulle
questioni teoriche (fin dal 1597 si era messo in relazione con Keplero e ne
condivideva la teoria eliocentrica, ma non l’ipotesi della traiettoria
elissoidale nel percorso planetario), privilegiava quelle
tecniche, che fossero prova sperimentale ed applicazione
pratica delle intuizioni e dimostrazioni scientifiche. Fu così che nella
piccola officina annessa alla casa di Padova, fabbricò il regolo calcolatore
(lo annunciò nella pubblicazione “Le operazioni del compasso geometrico
militare”), inventò un termometro, costruì calamite. Soprattutto fabbricò e
perfezionò il cannocchiale, sia pure sulla scia di voci circa vetrai olandesi,
che ne avevano preparati di più rudimentali, mediante l’abbinamento delle
lenti in un tubo di metallo. Con esso scoprì quattro satelliti di Giove; osservò
montagne e crateri sulla luna e macchie
nel sole. Col “Sidereus Nuncius”
del 1610 dava notizia delle scoperte. I “pianeti medicei” (come aveva
chiamato i satelliti scoperti) gli ottennero da Cosimo II il privilegio di
trasferirsi a Firenze per attendere ai suoi studi, in qualità di “Matematico
primario dello studio di Pisa”, senza obbligo di residenza nè di lezioni. Ma
non tutti i beni vengono per giovare. Galileo, libero, si dedicò alla
diffusione delle sue convinzioni scientifiche, alla loro difesa contro avversari
di estrazione dapprima materialistico-aristotelica (Cesare Cremonini, Fortunio
Liceti, Vincenzo di Grazia)[42]
e, poi, religiosa ed ecclesiastica. I primi erano inclinati al rifiuto della
identità di natura corruttibile
tra la materia, di cui è composta la vile terra e quella spirituale di cui
constano le stelle ed i corpi celesti (dogma aristotelico, fatto proprio da
tutto il Medioevo); i secondi erano indotti alla ripulsa dalla interpretazione
filistea di certe frasi della Bibbia (come
il famoso comando di Giosuè: “Fermati, o sole, in Gàbaon e tu, o
luna, sulla valle di Aialon. Si fermò il sole e la luna rimase immobile...”:
libro di Giosuè, c. 10, versetti 12-13; cfr. il salmo 104, v. 5: “Hai fondato
la terra sulle sue basi, mai potrà vacillare”). Sebbene avesse dalla sua
parte parecchi ecclesiastici (padre Benedetto Castelli, il canonico Paolo
Aproino, ad esempio); sebbene l’università di Salamanca avesse deciso fin dal
1594 di adottare il testo di Copernico a base dell’insegnamento di fisica
celeste ed i gesuiti del Collegio romano fossero favorevoli alle osservazioni
(in particolare il padre Cristoforo Clavio era un ammiratore di Galileo),
tuttavia, quando il domenicano p. Niccolò Lorini introdusse una formale accusa
presso la Inquisizione romana contro alcune proposizioni di Galileo, contenute
nella lettera del 21 dicembre 1613 al padre Castelli (lettera che ebbe vasta
diffusione), gli avvenimenti assunsero svolgimento sfavorevole allo studioso. Nel 1616 Galileo è chiamato a Roma
a rispondere delle sue asserzioni: non si tratta però di un processo
inquisitoriale, ma di un richiamo all’ordine. Il cardinal Roberto Bellarmino
(gesuita e santo)ebbe parte predominante nella soluzione amichevole della
questione. Pur senza processo formale, l’Inquisizione condannò due
proposizioni (eliocentrismo| rotazione della terra su se stessa e attorno al
sole): la immobilità del sole al centro del sistema solare come “assurda e
falsa in filosofia e formalmente eretica, perchè è espressamente contraria
alla S. Scrittura”; la non centralità della terra rispetto al mondo tutto,
ruotante anzi attorno al sole, come “assurda e falsa in filosofia e... per lo
meno erronea nella fede”. Galileo non fu presente al dibattimento, rimasto
puramente generale e teorico fra teologi: ma i cardinali dellla congregazione
dell’Inquisizione approvarono le conclusioni degli uomini “dotti”,
presente il papa. Fu così vietato a Galileo di sostenerle (24 febbraio 1616):
egli si sottomise due giorni dopo. Si comandò inoltre che l’opera di
Copernico venisse ritoccata per eventuali nuove ristampe, così che
l’eliocentrismo apparisse come pura ipotesi di indagine, non come tesi
dimostrata. Proibite furono le opere di p. Michele Foscarini e tutte le altre
che sostenessero l’eliocentrismo (5 marzo). Galileo non dovette abiurare, ma
solo impegnarsi a non sostenere
tale tesi: poteva però difenderla come ipotesi di lavoro. Era pontefice Paolo
V, che si era mostrato poco
diplomatico e troppo rigido nei
confronti di alcuni provvedimenti unilaterali di Venezia contro il clero:
l’interdetto scagliato contro tutto il territorio della repubblica dovette
essere ritirato, per la mancata obbedienza di gran parte del popolo e dello
stesso clero. Morto questi nel 1621 ed il sucessore (Gregorio XV) nel 1623, fu
eletto papa Maffeo Vincenzo Barberini (Urbano VIII) che a Galileo era benevolo,
tanto da aver scritto versi in suo onore. Galileo allora preparò il Dialogo
dei massimi sistemi (1632), nel quale le due ipotesi (eliocentrismo
copernicano e geocentrismo tolemaico) dovrebbero apparire come
equiprobabili. Ma da tutto il contesto, l’ipotesi tolemaica esce
sconfitta ed il suo sostenitore (Simplicio: nomen est omen et iniuria: un
nome di offesa, di derisione), sbeffeggiato. Il “Dialogo” era uscito con il
regolare “Imprimatur” del teologo ufficiale della S. Sede (“maestro dei
sacri Palazzi”: era il p. Niccolò Riccardi), del vicegerente di Roma, del
vicario generale e dell’Inquisitore di Firenze. Eppure Galileo (era morto il
cardinal Bellarmino, ormai) fu convocato dall’Inquisizione romana già nel
settembre del 1632; giunse a Roma nel febbraio 1633 e, pur trattato
cordialmente, fu processato e, il 22 giugno dello stesso anno, condannato ad
abiurare l’eliocentrismo, con la pena del carcere a vita, per essere
“vehementer suspectus de haeresi” (fortemente sospetto di eresia). Il
carcere fu mutato subito con la residenza presso l’ambasciatore fiorentino a
Roma (sul Gianicolo), anzi –poco dopo- con il domicilio coatto presso
l’arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, suo amico ed ammiratore (30
giugno 1633). Col primo dicembre di quello stesso anno potè infine ritornare
alla sua villa di Arcetri e risiedervi: senza poterne però uscire. Per qualche
mese ebbe accanto la figlia suor Maria Celeste, dolce e serena, ma la
consolazione di tale assistenza venne meno colla morte di lei il 2 aprile 1634.
L’altra figlia, suor Angelica, era bisbetica e non adeguata alla penosa
situazione del padre (che d’altronde l’aveva monacata a forza, come la
prima, per mancanza di dote maritale adeguata!). Nel 1637 divenne cieco
completamente: gli stavano vicini discepoli fedeli come Vincenzo Viviani, che ne
scriverà poi la vita (Evangelista Torricelli gli sarà accanto particolarmente
negli ultimi mesi). Essendo state proibite tutte le sue opere precedenti,
dovette far pubblicare a Leida (dagli Elzeviri, tipografi olandesi) l’opera
nota come il Dialogo delle nuove scienze
(cioè “Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica et movimenti
locali). Morì l’8 gennaio 1642; solo nel 1737 sarà tumulato in S. Croce.
La stampa del Dialogo sopra i due massimi
sistemi era stata però permessa già nel 1644, mentre i libri
sull’eliocentrismo furono tolti dall’Indice dei libri proibiti solo nel 1757
(da papa Benedetto XIV, il grande Prospero Lambertini). LE OPERE. Quelle fondamentali sono quattro: il Sidereus
nuncius (Avviso astrale, 1610:
scoperta dei satelliti di Giove); Il
Saggiatore (1623: polemica infelice sulle comete, contro il gesuita p.
Orazio Grassi); Dialogo dei massimi
sistemi (1632); Dialogo delle nuove
scienze (1638: noi citiamo dalla edizione 1958 di Boringhieri, Torino, a
cura di Adriano Carugo e Ludovico Geymonat). SIGNIFICATO MOLTEPLICE DELLA VITA E
DEGLI SCRITTI DI GALILEO GALILEI.
La figura dello scienziato fiorentino interessa la storia umana in molti
settori, di cui quello strettamente artistico-letterario non è il più
importante. Anzitutto egli incide sulla storia del sapere e del
potere umano, come tecnico, come astronomo, come fisico.
Secondariamente, egli occupa un posto fondamentale come “metodologo”
della ricerca scientifica. In terzo luogo, egli vale come punto di riferimento
obbligato per la storia dei rapporti tra scienza e
Rivelazione cristiana e, di conseguenza, della estensione della
verità nella Sacra Scrittura, che la trasmette; e dei limiti nella
infallibilità del magistero cattolico per
la interpretazione della stessa.
Scrivendo, infine, “Il Saggiatore” ed il “Dialogo dei massimi sistemi”
(con la chiarezza e l’organizzazione esemplare delle idee e con un pizzico di
ironia che condisce più spesso le battute dell’interlocutore Salviati, nel Dialogo;
e si acuisce spesso in satira nel Saggiatore)
e redigendo qualche lettera con drammatica convinzione circa la giustezza delle
proprie idee, Galileo si è
acquistato anche un posto nella
storia della Letteratura italiana, come il miglior prosatore del suo secolo.
Diamo ora uno sgurado ad ognuno di questi meriti.
Come scienziato e tecnico, Galileo, anche se non inventò il
cannocchiale, lo perfezionò decisamente, però;
e per primo lo puntò verso il cielo, scoprendovi i satelliti di Giove,
gli anelli di Saturno, le fasi di Venere (e queste ultime bastavano a dimostrare
la verità del sistema copernicano: ma Galileo non ne fu cosciente), le macchie
solari (scoperta che smantellava il mito del “cielo incorruttibile”,
trasmesso dalla filosofia antica
alla Scolastica medioevale). A lui si deve inoltre, come già detto, la
costruzione della prima bilancia idrostatica, la scoperta dell’isocronismo del
pendolo, l’invenzione del compasso geometrico-militare, che anticipò la
costruzione del regolo calcolatore. A lui si deve la enunciazione del principio
della proporzionalità tra l’accelerazione di un corpo e la intensità della
forza motrice (è il principio ora detto della “azione delle forze”, sul
quale si fonda la parte della Fisica chiamata Dinamica); e la formulazione
dell’altro principio di “risultanza” tra varie forze-vettori (forze
definite dalla loro intensità e direzione) componenti (sollecitanti, cioè, uno
stesso corpo, ma con intensità e direzione diverse: è il principio della
“composizione dei movimenti”[43],
che comanda un capitolo della
Meccanica cinematica).
Come filosofo, cioè “metodòlogo” della scienza, egli ha
avuto almeno due grossi meriti: quello di dare fondamento razionale alla
distinzione tra scienza e filosofia; e quello di
specificare, precisare e delimitare l’elemento differenziatore
tra il metodo induttivo e quello deduttivo. Si noti: nonostante la gravità dei pregiudizi ancora
esistenti sulla interferenza tra scienza e teologia e sul principio di autorità
nella ricerca sia filosofica che scientifica, la sua lotta contro di essi è
meno importante. Difatti è relativo il merito di aver ribadito la teorica
inattinenza del motivo di autorità[44]
nel dibattito scientifico (anche della scienza filosofica, oltre che di
quella sperimentale) e il dovere,
quindi, di riesaminare, al lume
della esperienza dei sensi e della evidenza razionale, gli effati di uomini
anche famosissimi (Aristotele, nel caso specifico degli oppositori di Galileo):
tale convinzione, infatti, è sempre stata presente in tutti gli uomini, di
diritto; e, di fatto, negli studiosi intelligenti di ogni tempo[45]
Anche circa la distinzione tra i vari settori del sapere
scientifico (cioè del “conoscere attraverso le cause”), già la
filosofia tomistica aveva posto una chiara separazione tra scienza-filosofia (da
una parte) e teologia (dall’altra): quelle, fondate sulla ragione che elabora
i dati sperimentali; questa, fondata sulla parola di Dio che,
infinitamente sapiente e buono, non può ingannare nè ingannarsi ed è
quindi teste al di sopra di ogni sospetto, autorità assolutamente degna di
fede. Invece, neppure S. Tommaso
aveva intuito la distinzione tra le scienze “sperimentali o matematiche od
esatte” e la filosofia. D’accordo,
quelle erano le scienze delle cause prossime,
scoperte dalla ragione che
astrae, universalizza, elabora l’esperienza dei sensi, pur non riuscendo a
prescinderne mai del tutto, come testimonia
in esse l’uso della matematica, che si serve dei numeri, cioè è
legata alla dimensione quantitativa della conoscenza. Viceversa, la filosofia
era ben concepita come la scienza delle cause ultime, scopribili solo
attraverso la astrazione più completa dai dati sensibili; delle cause
essenziali, costituenti gli esseri e non solo motivanti il loro dinamismo; delle
cause rintracciabili proprio attraverso
un ulteriore esame di confronto e di analisi
delle cause prossime,
individuate dalle scienze sperimentali od “esatte” o “matematiche”.
Eppure, guidata dal riferimento al
solo “mezzo” di indagine, che per entrambe le forme di sapere –scientifico
e filosofico- rimane la pura ragione (e non l’autorità della
Parola divina), la scolastica non aveva distinto nettamente fra le due
branchie di sapere razionale: per quei pensatori, si trattava
solo di due momenti od oggetti diversi all’interno dello stesso sistema generale di indagine razionale. Erano insomma come
due filosofie, una “fisica” che continuava spontaneamente nella “filosofia
metafisica”, al punto che la prima diventava premessa che offrva come
“postulati” le proprie
conclusioni alla seconda,
abbassandosi, perciò, per rapporto
naturale, a suo trumento subserviente (come la metafisica, poi, doveva
prestarsi ad esser “ancella della teologia”).[46] In tale
processo di “separazione” tra i due rami della indagine razionale, una forte
battaglia stava combattendo anche
l’inglese Francesco Bacone (1561-1626) che, praticamente contemporaneo di
Galileo, critica fieramente il metodo deduttivo del sillogismo
aristotelico-scolastico e, volendo fare l’ “Instauratio magna
scientiarum”(rinnovamento generale delle scienze), comincia col tentare di
mutare lo strumento dell’accrescimento o progresso della stessa, cioè
la Logica (chiamata “Organon” nei voluni di Aristotele). Peculiare e
costitutivo della indagine filosofica è il metodo deduttivo[47], che gli pare coincidere
col sillogismo e che, prendendo le mosse da una affermazione universale (od
assiomatica o comunque già dimostrata
come vera) vuol giungere alla prova di una affermazione particolare, contenuta
in quella prima. Il metodo sillogistico di indagine non è
creatore, ma solo confermativo. Per “inventare” nuove conoscenze,
occorre sostituirlo con l’esperienza: solo la esprienza, infatti, è la base
del progresso, perchè può prender l’avvio da aspetti sempre nuovi della
realtà, per trarne nuove leggi. Si
deve trattare, ben inteso, non di una esperienza “passiva”, ma aggressiva,
cioè provocata, a sfida dei segreti della natura: si deve passare dalla
esperienza all’esperimento, che avvicini sempre più alla prova definitiva:
L’esperimento “cruciale” è quello che risolve il problema e prova la
nuova legge: che indica cioè la via giusta al bivio della incertezza
(experimentum crucis, che dà la
indicazione esatta ad un crocevia).[48]
Ma Bacone non aveva saputo nè dire in che modo la serie degli esperimenti
poteva, come doveva, sfociare in quello risolutivo (“experimentum crucis” o
cruciale) nè aveva capito che per rendere dimostrativo l’esperimento stesso,
doveva proprio riportarlo ad un valore universale, cioè a quella caratteristica
iniziale del tanto disprezzato e misconosciuto sillogismo aristotelico. E’,
questa, invece, proprio la intuizione che fa di Galileo il fondatore (e non solo
promotore) del metodo scientifico o induttivo.
Quale è il difetto di Bacone? Egli non aveva compreso che la differenza
fra il metodo “deduttivo” e quello “induttivo” non è essenziale, ma
solo accidentale: si potrebbe definire tale differenza “metodologicamente
geografica”. Infatti consiste nella diversa collocazione della affermazione (o
proposizione o giudizio) universale, che è
comunque necessaria per stabilire una dimostrazione valida per sempre
(sia che riguardi la natura di due realtà messe a confronto, sia che si
riferisca alle relazioni tra le diverse realtà esaminate: sia che si tratti,
cioè, di giungere alla prova di una identità|diversità fra cose,
sia che si tratti di scoprire un rapporto stabile fra di esse, cioè una
legge scientifica). Il metodo deduttivo colloca la proposizione universale più
facilmente al primo posto (“Ogni essere intelligente è interiormente
libero”), mentre il giudizio particolare[49]
viene dopo (“atqui l’uomo è un essere intelligente”) e conclude
alla “scoperta” di una verità particolare (“quindi l’uomo è
interiormente libero”). Viceversa, il metodo induttivo si mobilita partendo
dal “particolare”, cioè da una premessa di valore singolare o comunque
definito, non universale. Su un solo particolare o su una serie di esperienze
particolari, si formula una ipotesi di interpretazione. E’, questa ipotesi, già
la legge universale: ma come provarla vera? Occorre la “verifica”. L’ipotesi
diventa certezza sperimentale-matematica, se si riesce ad impiantare un
meccanismo che renda l’esperimento singolo di significato generale: hic
Rhodus; hic salta. E’ qui che
Galileo si dimostra un genio, mentre (ci si permetta un gioco quasi concettista)
Bacone si rivela solo un ingegno. Ancora nel “Dialogo
sui massimi sistemi” Galileo si limita ad insistere su una serie di
esperienze[50]
per dimostrare l’eliocentrismo piuttosto che il geocentrismo.
Ora, invece, Galileo lavora
con la coscienza che bisogna uscire dalla pura sperimentalità particolare: va
costruito un esperimento (una macchina) che funzioni soltanto se la legge
universale, intuita in ipotesi, esiste e lavora.
E’ quello che egli propone, ad
esempio, a proposito della velocità della luce: è infinita o finita?
Egli descrive, fin dalla
“prima giornata” dei Discorsi, un
esperimento risolutorio: “Voglio che due piglino un lume per uno, il quale,
tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo,
con l’interposizione della mano... sì che quando l’uno vede il lume
dell’altro, immediatamente scopra il suo... pongansi.... in lontananza di due
o tre miglia, e tornando di notte a far l’istessa esperienza (prima eseguita
nell’ambito di una stanza),...
quando ella (l’espansione della luce)
ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia... la dimora dovrebbe essere
assai osservabile”. L’esperimento verrà effettuato
dopo secoli, con una sorgente luminosa elettrica e con l’impiego di una
serie di specchi che moltiplicassero il percorso della luce, senza bisogno di
troppe distanze, confermando che la sua velocità non è infinita, è
misurabile, è definibile.[51] Si può allora costruire
un sillogismo “inventivo”: “Solo se la luce ha velocità infinita, la sua
propagazione è istantanea;
ma l’esperimento dimostra che la sua espansione avviene nel tempo;
quindi la sua velocità non è infinita”. Esso
prova e misura una qualità della luce, una volta per tutte, stabilendo
una legge scientifica con valore
illimitato nel tempo e nello spazio, cronologicamente e geograficamente
universale. Con la introduzione
dell’ipotesi (per Galileo, “assioma”) e dell’esperimento di laboratorio
(“cimento”), la “sensata esperienza” diventa legittimo metodo di
indagine della verità universale, ma proprio perchè si rende simile al
“metodo deduttivo” che, rispetto all’induttivo non è metodo contrapposto,
ma complementare.[52]
Bacone non ha saputo intuire lo
snodo decisivo della prova o dimostrazione scientifica. Più solitamente, il nostro “Accademico” (come lo
chiama il Salviati, sottintendendo “dei Lincei”) dimostra la sua ipotesi
generale con ragionamenti geometrici, cioè
formula teoremi (assiomi, ipotesi) che poi prova
riducendo a rapporti spaziali anche
le relazioni di tempo o di altra natura (resistenza, ecc.).[53]
Benchè la più parte esiga una competenza matematica non comune, tuttavia
alcuni di questi teoremi sono alla portata del comune lettore, come quelli alle
pagine 188-194 dell’edizione Boringhieri, in cui si dimostrano tre teoremi.
Ecco il primo: “Assumo che i gradi di velocità acquistati da un medesimo
mobile su piani diversamente inclinati, siano eguali allorchè sono eguali le
elevazioni di quei piani medesimi”. (la
“elevazione” è l’altezza, da cui prende inizio la caduta e che
corrisponde al lato del triangolo rettangolo da cui partono i vari piani
inclinati, la cui linea obliqua
costituisce l’ipotenusa del triangolo, completato dalla linea della superficie
terrestre, ove finiscono). Segue il secondo: “Il tempo in cui uno spazio dato
è percorso da un mobile con moto uniformemente accelerato a partire dalla
quiete, è eguale al tempo in cui quel medesimo spazio sarebbe percorso dal
medesimo mobile di moto equabile (uniforme), il cui grado di velocità sia
sudduplo (la metà) del grado di
velocità ultimo e massimo (raggiunto
dal mobile) nel precedente moto uniformemente accelerato”. Ed il terzo: “Se
un mobile scende, a partire dalla quiete, con moto uniformemente accelerato, gli
spazi percorsi da esso in tempi qualsiasi stanno tra di loro... come i quadrati
dei tempi”. Le figure geometriche annesse alle spiegazioni di Salviati
convincono anche i “non addetti ai lavori”...
Per la storia socio-religiosa, Galileo assume particolar importanza
sia per i suoi scritti illuminanti, sia per le penose vicende personali: è
entrata in crisi la falsa credenza che la Bibbia fosse inerrabile anche in campo
scientifico, oltre che religioso e morale.[54]
Gli scritti più significativi sul suo pensiero in proposito sono alcune
lettere: una a padre Benedetto Castelli (del 23 dicembre 1613), una alla
granduchessa madre, Cristina di Lorena (1615) e due a monsignor Piero Dini (del
16 febbraio e del 23 marzo 1615). La ingiusta condanna inflittagli, poi, dal
tribunale dell’Inquisizione (S. Uffizio) nel 1633, è risultato un errore così
madornale che ha reso coscienti le autorità ecclesiastiche, i teologi ed i
biblisti dei propri limiti e dei confini dei propri specifici ambiti di competenza. Sebbene Urbano VIII non abbia firmato
di persona il documento di condanna, sicchè esso resta un atto del tribunale
inquisitoriale che non coinvolge il problema della infallibilità pontificia,
tuttavia la persona del papa fu di
fatto così direttamente implicata nel processo, da far entrare in crisi, presso molti intellettuali e cristiani
riflessivi, l’amore per la Chiesa e la fiducia nel suo magistero anche
in campo etico-religioso, fino a far dimenticare che in fin dei conti la nuova
dotrina era stata presentata al mondo proprio da un eccelesiastico, il canonico
di Cracovia Niccolò Copernico. Si noti ancora:
la crisi di fede non si fece sentire subito (chè la scienza ufficiale era
purtroppo non meglio illuminata degli uomini di Chiesa), ma nei secoli seguenti,
man mano che il copernicanesimo si
rivelava vero.[55] Se questi furono i torti –ben gravi- di quelli che
giudicarono Galileo, specie nel vero processo del 1633, non si deve tacere, però,
sul suo comportamento impudente
ed imprudente. La impudenza
sta anzitutto nella sua “irregolarità sessuale” che (senza contare le
vicende minori) gli procurò, fuori del matrimonio, tre figli dalla veneziana
Marina Andrea Gamba; e sta nell’altro gravissimo fatto che egli prese con sè
a Firenze solo il figlio Vincenzo Andrea, mentre costrinse al convento le due
ragazze. L’imprudenza si rivelò troppe volte: frutto, probabilmente,
anche di un non felice temperamento ereditato dai genitori. Il padre, Vincenzo,
musicista e musicologo era “arguto, ma sarcastico”; la madre era di
“carattere aspro e litigioso”. Gliene venne con ogni probabilità quella
“certa aggressività polemica, certa insofferenza che scatta in subitanee
collere e si esprime con ingiurie e sferzanti irrisioni che, accrescendogli il
numero dei nemici, saranno tra le cause delle sue sventure”. In buon
napoletano si dice che era “troppo tuosto”: impulsivo, indiscreto,
irrispettoso. Del comportamento a Roma nel 1616 dice Ferd. Flora: “accorse a
Roma, dove tra i molti maneggi, le molte noie e le ansie, trovò anche modo di
darsi al bel tempo, tanto da provocare le proteste dell’ambasciatore di
Toscana che, costretto ad ospitarlo d’ordine del granduca, trovava
ch’egli menava una
-pazza vita- e che la –spesa- era –grossa-; e la sua permanenza a
Roma, fastidiosa e pericolosa: -egli ha un humore fisso di scapolare i frati, et
combattere con chi non può se non perdere-; e prima o poi sarebbe cascato –in
qualche stravagante precipizio-”.[56].
Temperamento
risentito, egli lasciò a desiderare nel
comportamento con più di più di un collega di valore: con Tycho Brahe
(l’astronomo danese) e con p. Orazio Grassi, ebbe sulle comete discussioni che
non gli fanno onore, perchè aveva ragioni da vendere nella metodologia delle
ricerche anche in proposito, ma lavorava sul vuoto della esperienza in materia,
non avendo potuto osservare le comete apparse nel 1618-9. Contro ogni “sensata
esperienza” tentò di interpretare come fenomeni ottici sul tipo
dell’arcobaleno, illusioni dovute a rifrazioni della luce, ma non astri veri e
propri. Dice il Flora: “Dei due contendenti, di troppo impari valore, l’uno,
il Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi)
difende una ipotesi più vicina al vero; l’altro, Galileo (ne “Il Saggiatore”) suggerisce una ipotesi erronea e la sostiene
con mente di scienziato che indaga dal vivo il gran libro della natura, per
scoprirne le leggi...”. Anche non gli fa onore il suo rifiuto di accettare le
conclusioni di Keplero sulla ellitticità (non circolarità) delle orbite degli
astri. E, soprattutto, va ricordato che il “Dialogo dei massimi sistemi” non
provava la tesi copernicana, ma solo la dimostrava non assurda e di pari
razionalità che il sistema tolemaico. Egli, infatti, non vi cita
la scoperta delle fasi nel pianeta Venere (che, per affinità, poteva
costuituire una gran prova in favore della rotazione anche della terra), ma
tenta invece di dimostrare la sua tesi attraverso il fenomeno delle maree (che
sarebbero dovute al ritardo della massa acquea nel seguire la velocità di
rotazione, per la viscosità del liquido marino): che è una interpretazione
rivelatasi falsa.[57]
E rimane
un segno di impulsività, di
impazienza e di imprudenza l’aver voluto risolvere lui le difficoltà
teologiche che nascevano dalle sue scoperte scientifiche. Non interferendo
con il compito dei teologi, li avrebbe avuti esaminatori senz’altro più
imparziali, più benevoli. Non canzonando col nome di “sempliciotto” il
portavoce dei suoi oppositori, avrebbe avuto non ostile il pontefice (che
–forse non del tutto a torto- vi si vide rispecchiato); rimanendo cautamente
entro i confini delle sue competenze, della pura sperimentazione, avrebbe
lasciato sulle spalle dei teologi il carico di risolversi i loro problemi, senza
che lui ne venisse necessariamente coinvolto. In fin dei conti, Copernico aveva
in circolazione tranquuilla il suo “De revolutionibus orbium coelestium libri
sex” sin dal 1543...[58]
Non si vuole per nulla scaricare la responsabilità
della ingiustizia sostanziale
operata dal S. Uffizio, sulle
ingiustizie marginali dello scienziato fiorentino. Pure vogliamo affermare che egli non seppe farsi perdonare la verità
grandiosa e rivoluzionaria che portava al mondo. Ma che, per soprammercato, egli fosse condannato nel
1633 anche su questioni filosofiche (cioè scientifiche) dal tribunale della
Inquisizione, fu davvero troppo: non solo i teologi si mostrarono meno lincei di
lui in materia di fede (“in che senso la Bibbia è inerrabile?”), ma si
arrogarono anche il diritto di entrare a giudicare in campo non di loro
competenza, definendo l’eliocentrismo e la mobilità della terra come
“assurde e false in filosofia”. Papa Giovanni Paolo II, chiedendo perdono al
mondo durante l’anno santo del Duemila, per gli errori dei figli della Chiesa
lungo i secoli, aveva certamente in memoria anche questo.
Come letterato, Galileo merita un posto non eccezionale, ma neppure
poi tanto piccolo, nella nostra storia letteraria “per le lettere
polemiche e per quelle tristi o deluse in cui si riflette il tormento del suo
spirito combattuto fra la devozione alla verità e la devozione alla autorità
ecclesiastica; per le sicure e potenti canzonature degli avversari, ragionanti
al buio delle loro astrattezze; per certe pagine scandite e sottolineate, che
sono una dichiarazione di battaglia a visiera alzata; per quelle in cui si
palesa chiaramente la concezione severa e aristocratica che egli ha della
scienza; per quelle in cui il suo culto per la verità e la sua meraviglia
inesauribile dinanzi alle forme innumerevoli e mutevoli della realtà si
manifestano con la commozione del poeta che contempla l’opera di una mente
sovrana”[59] Lo scritto migliore, letterariamente, è quello
scientificamente meno valido, cioè “Il Saggiatore”:
è infatti l’opera più battagliera,umorale, sarcastica. Le
tonalità liriche. Da questo scritto e dai restanti passi cui rimanderemo,
si rileva che egli ha una emotività
complessivamente non contemplativa, ma drammatica. Il tono lirico a
lui più connaturato è quello del tormento (se triste), della
aggressione ironica (se allietato dal sorriso): non gli si può riconoscere
nessuna espressione di rilievo nel registro della pace, della quiete interiore,
così come non gli è congeniale la pura solennità epica, esultante. Anche la
pagina famosa de “Il Saggiatore”, in cui un uomo curioso ed ingenuo
scopre quanto siano varie le sorgenti dell’armonia musicale (canto
degli uccelli, suono dello zufolo, sfregamento delle corde del violino,
strofinamento dell’orlo di un bicchiere...), presenta un modesto tono idillico
all’inizio: ben presto la coscienza dei limiti dello scibile umano, della
pochezza dell’umana capacità a conoscere inducono in lui l’atteggiamento
solito dell’inquietudine curiosa, della passione indagatrice (si vedano i
brani che iniziano: “Parmi d’aver per lunga esperienza osservato”; e
“Nacque già in un luogo assai solitario...”).
[60] Sempre nel “Saggiatore”
è notevole la polemica della Introduzione (“Io non ho mai potuto
intendere”); quella del brano in cui lamenta la rarità dei veri pensatori,
mentre “infinita è la turba degli sciocchi” (n. 9); e quella delle pagine
in cui difende (garbatamente, invero) la propria parte nella invenzione del
cannocchiale (n. 13). Nel Dialogo dei
massimi sistemi, artisticamente notevoli sono le battute alla fine della prima
giornata, in cui si dichiara che la conoscenbza scientifica eguaglia,
qualitativamente, la conoscenza divina; il brano (nel corpo, invece, della
stessa prima giornata) che inizia “Io non posso senza grande ammirazione” e
che propone la grandezza e nobiltà della terra, nel suo mutare e rinascere in
vite nuove, al punto che non è impensabile esista negli astri celesti lo stesso
dinamismo che loda Dio nella sua varietà di esistenze, senza dover ricorrere ad
immaginare un modo di essere immutabile ed incorruttibile (la materia
spirituale!). La polemica volge all’ironia ed alla satira in altre
pagine non meno drammatiche che comiche: nel Saggiatore, al n. 7, ad esempio,
dove canzona le immagini barocche di padre Grassi per descrivere le comete
(“anzi con gran gusto si son letti i natali, la cuna, le abitazioni, i
funerali della cometa...”). Così,
la demolizione del principio di autorità, all’inizio della seconda giornata
(contro l’Ipse dixit) è un attacco alla cocciutaggine stordita degli
aristotelici che, durante una lezione di anatomia in cui si dimostra
all’evidenza che i nervi hanno origine e fine nel cervello, non nel cuore,
escono nella battuta: “Voi mi avete fatto vedere questa cosa talmente aperta e
sensata che, quando il testo di Aristotele non fusse in contrario, che
apertamente dice i nervi nascere dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla
per vera” (inizio della seconda giornata). [61] Al dramma forte si ritorna nella polemica
antiperipatetica conservataci in “Frammenti e lettere”ed editi a cura di
Giovanni Gentile (Livorno 1925).[62] Altre pagine sono interessanti, ma con un
miscuglio di tonalità non facilmente precisabili: si legga (nella seconda
giornata) il passo che principia “La disposizione non è nuova”; e (nella
terza giornata del Dialogo)
quello che inizia “Vorrei, signor Simplicio”; o (nel Saggiatore), il
brano sul libro della natura “scritto in lingua matematica”.[63] Triste, ma non elegiacamente, bensì nel senso
drammatico della fierezza e del tormento, è la lettera ad Elia Diodati del 1638, cioè di
due mesi dopo la cecità. Polemicamente grandiosa è la dichiarazione a visiera alzata:
“Galileo, essendo usato a studiare sul libro della natura, dove le cose sono
scritte in un modo solo, non saprebbe disputar problema alcuno –ad utramque
partem- (cioè sostenendo due soluzioni opposte per un unico problema) nè
sostener conclusione non creduta e non conosciuta prima per vera” (Frammenti
e lettere, Ricciardina, p. 8).
Diamo ora uno sguardo complessivo alle dimensioni artistiche del Dialogo
sopra idue massimi sistemi del mondo. Crediamo di dover premettere
che il libro non è un capolavoro di poesia, ma un’opera di divulgazione
scientifica, ove la preoccupazione dimostrativa e raziocinante prevale sulla
partecipazione emozionale. Subito, però, va aggiunto che, come in Platone, vi
sono margini artistici, in cui appunto la partecipazione emotiva fa capolino o
si impone. In terzo luogo, già la caratterizzazione dei tre partecipanti al
dialogo è degna di nota e di stupore: le parole, il modo di sistemarle in
ragionamento, i gesti che si intravedono al di là della loquela, tutto è così
peculiare a ciascuno e coerente in tutto il libro, che sembra di assistere
davvero al dialogo intenso ed animato delle tre giornate. Simplicio è
candido fino alla ingenuità, è mite fino alla apatia, è semplice sino alla
sciocchezza: prevenuto, succube dell’autorità, incapace di un pensiero
proprio: memoria formidabile, mente chiara perchè non complicata, retorica
nella espressione, ridicola nei giudizi. E’ un eunuco! Salviati è
l’opposto: teso, impaziente, nervoso, anche
polemico; sa essere anche un po’ disordinato, talora, ma è sempre geniale.
Sembra che abbia fretta nel parlare, tanto che può persino (ma raramente, veh!)
risultare meno evidente, proteso come è alla conclusione, intuìta, intravista
come evidente quando ancora non è del tutto dimostrata. Per questo giunge
talvolta a sopprimere qualche passaggio dimostrativo che, esposto con pacatezza,
riuscirebbe forse più convincente, ma certo meno vivace e brillante.
Personalissimo, devoto soltanto alla verità (in particolare,contro ogni autorità),
impersona certo lo stesso Galileo: non superbo, ma intemperante, fiero e
cosciente di sè. Sagredo, se non risulta sul piano logico il mediatore,
convinto anche lui non meno di Salviati della verità del copernicanesimo,
mediatore risulta, però, a livello psicologico e (nella sua modestia) anche
nella dimensione emotiva: bonario, arguto, benevolo nella stessa ironia, è la
persona distesa, calma, riposata e...talora sorniona.
E se dessimo uno sguardo anche allo stile dell’opera? Diremo che la
lingua del Dialogo non è molto
musicale: è sobria, non riducibile a versi, precisa e chiara nella capacità di
trasmettere un pensiero non facile, diciamo pure complicato. E’ un fiorentino
moderno, quasi sempre esatto anche per noi distanti lettori. Pure, cercando le
farfalle sotto l’arco di Tito, possiamo permetterci di essere pignoli. Si
incontrano talora consonanti semplici, là dove si aspetterebbe una doppia
(Academico| mecaniche|camina) o viceversa (proccuriamo), specie per le “z”
(“mezo” per mezzo; “orizontalmente”, ma
“costruzzione|proiezzione|imperfezzione”). Si trovano forme disusate (“arà”,
per avrà; “doviamo|ponghiamo|riduchiamo”) o preziose: “elleno”; “se
gli” anzichè “gli si”. La seconda persona plurale di un verbo, identica
alla singolare (“voi avevi detto”); o forme decisamente errate di verbi
usatissimi e, forse perciò, suscettibili di varie formulazioni fra i vari
strati o quartieri di Firenze “venghiamo| vadìa”. [1] Imitatore della “Tancia” del Buonarroti fu Giovannandrea Moniglia (Firenze, 1624-1700), professore di medicina a Pisa e membro della Crusca, scrittore di parecchi libretti per melodrammi, ma più interessante per la commedia Il podestà di Colognole, che fu messa in musica per la inaugurazione del teatro degli “Immobili” (via della Pergola) in Firenze nel 1657. Il solito matrimonio contestato da pregiudizi e povertà (Leandro, povero del contado, riesce a sposare Isabella, figlia del cittadino fiorentino Anselmo Giannuzzi, podestà di Colognole). Chi risolve la intricata diatriba è l’astuto Bruscolo, servo di Leandro. Trama scontata, ma svolgimento chiaro, ordinato (mente toscana) ed espressione fiorita (ingegnosità, se non proprio genialità, fiorentina). E’ vero che è utile quella specie di vocabolarietto che “dichiara” proverbi e vocaboli del contado, ma l’impronta di classica stesura e la scioltezza di lingua e la sorpresa delle trovate e lo splendore delle battute sono il segno che il barocco a Firenze non è potuto entrare, grazie alla genialità i della “razza” etrusca. Altri suoi lavori drammatici: Pazzo per forza| Serva nobile| La vedova| Tacere e amare| Il conte di Cubio.Fu avversario tenace all’accettazione di Benedetto Menzini come professore di eleoquenza a Pisa. Ne riparleremo. [2]
Di autori meno interessanti che han scritto anche drammi pastorali, abbiamo
parlato o parleremo in quelle sezioni della poesia non barocca del secolo,
in cui gli autori si sono meglio distinti. Si veda in Garzantiana, pp.
467-8, un elenco di scrittori e di opere ( Prospero Bonarelli,
fratello di Guidubaldo, scrisse Fidalma; Lo Stigliani, Polifemo;
Scipione d’Errico, Deidamia|
Endimione| Arianna; Fr. Fulvio Frugoni, L’innocenza riconosciuta; il Chiabrera, Meganira|e Gelopea. Del
pesarese Guidubaldo Bonarelli (1563-1608), scrive lo Jannaco:
“precocissimo negli studi, ebbe vita assai turbinosa e contrastata di
cortigiano con scarsa fortuna” (Vallardiana, p. 300). [3] Ippolito Aurispa: è da lui che D’Annunzio (sempre al corrente delle rarità un po’ strane della storia letteraria, italiana e no) ha preso i nomi per Giorgio Aurispa ed Ippolita Sanzio, i due protagonisti del suo romanzo “Amore e morte”? [4] Claudio Varese, nella Garzantiana, cita anche Il pastor regio di Benedetto Ferrari Della Torbia come “confuso libretto di strane, inverosimili metamorfosi” (p. 476). [5] La questione del primato ci sembra da risolvere a favore di Alessandro Tassoni, perchè La secchia rapita circolava già da vari anni quando l’autore si decise a stamparla nel 1622, cioè solo quattro anni dopo Lo scherno degli dei di Francesco Bracciolini. Senza dire della differenza qualitativa fra le due opere. Il Bracciolini scrisse anche un poema, la Elezione di Urbano VIII, al cui centro pose la contesa fra senso e ragione, innovando così rispetto alla mitologia, alla storia, alla leggenda cavalleresca od altra fantasia: siamo quasi alla allegoria continuata in un poema, da avvicinarsi ai morality plays della letteratura inglese nel Millequattrocento. Altri poemi epici scrisse, di cui terminò la Bulgheria convertita (1637) mentre lasciò incompleto La Roccella espugnata (1630).
[6] Meno sensato ci sembra invece Jannaco, quando risponde al quesito “quale fosse... l’esito, nel mondo letterario aristocratico e borghese, di quegli innumeri conclamati programma di “riforma dei costumi” e di rafforzamento della ortodossia religiosa che formano l’assunto convenzionale ed esterno di quasi tutti gli epigoni del Tasso...” con queste note pessimistiche: “Se dovessimo guardare solo ai fragorosi prodotti della letteratura epica diremmo che gli avanzamenti del cristianesimo romano non toccano l’intimità delle coscienze...”. Poco “sensato” ci pare anzitutto un esame dei risultati della “riforma tridentina” limitato alla produzione epica dei poemi: perchè tale limite? In secondo luogo, visto che di geni come Torquato Tasso non ne sono più sorti, pare evidente (biologicamente, vorremmo dire) che neppure ci si può aspettare, da gente mediocre, grandi esperienze di vita e geniali espressioni di arte per quei valori spirituali supremi ed ardui, che sono quelli religiosi e morali. D’altronde se si paragonano i frutti della letteratura postridentina con quella del Rinascimento, si devono fare i conti con le intuizioni maligne ma ben precise di Federico Nietzsche: “I tedeschi hanno privato l’Europa dell’ultima grande messe culturale, che avrebbe potutto avere il Rinascimento. Mi vedo innanzi la possibilità di un incanto del tutto ultraterreno, di un fascino lucente; mi pare che essa risplenda in ogni spasimo di raffinata bellezza, che in essa vi sia in azione un’arte così divina che si ricerca invano nei millenni per una seconda volta: Cesare Borgia papa. Mi si comprende? Orbene, ciò sarebbe stato una vittoria che io oggi unicamente desidero: con ciò il cristianesimo era distrutto. Che succede? Un monaco tedesco, Lutero, va a Roma. Questo monaco, pervaso da tutti gli istinti vendicativi di un sacerdote naufrago, a Roma si ribellò contro la Rinascenza. Invece di comprendere con profondissima gratitudine il grandioso che era avvenuto, il superamento del cristianesimo nella sua sede, il suo odio seppe trarre da questo dramma soltanto il suo nutrimento. Il tipo religioso pensa solo a sè. Lutero s’accorge della rovina del papato, mentre il contrario era evidente: l’antico scandalo, il peccato originale, il cristianesimo non sedeva più sulla sedia papale! ma bensì la vita! anzi il trionfo della vita! anzi la grande affermazione di ogni cosa alta e bella e rischiosa! E Lutero ristabilì ancora la Chiesa: l’attaccò. La Rinascenza divenuta un fatto senza senso, grande cosa vana! Ah! questi tedeschi, quanto ci sono già costati” (L’Anticristo: citato da Konrad Algermissen, La Chiesa e le chiese, Brescia, Morcelliana, 1943-4, pp.586-7). [7] Naturalmente, se Tassoni si fosse conosciuto in tempo o fosse stato educato a riconoscersi e controllarsi, avrebbe evitato lo sbandamento morale in gioventù e, in genere, i più gravi errori della sua vita (la instabilità sistematica, ad esempio): ma si tratta di correzioni a livello “morale”, cioè operate in nome di precisi scelte imposte da una coscienza esigente anche di fronte al problema di seguire o meno le proprie doti-difetti ereditati con i cromosomi. E, di solito, si tratta di precetti morali (od anche di scelte più alte) di carattere negativo: non si tratta cioè di scelte fra il bene ed il meglio, ma fra il bene ed il male: a questo livello vale la libertà interiore dell’uomo e la sua responsabilità morale. Ma quando si tratta di “sistematiche scelte del meglio” in un campo ove la natura non ci ha dotati, è inutile pretendere che un cieco disegni o che un sordomuto dalla nascita canti o scriva musica : sarebbe un voler “drizzar le gambe ai cani o slongar le corna ai tori” . Era inutile pretendere dal Tassoni un’opera epica valida, specie se prolungata, visto che la sua intelligenza non era all’altezza di dominare la pendolarità fra gli estremi momenti di violenza polemica e di volgarità ridanciana: gli mancava una potenza intellettuale paragonabile alla forza della sfera emotiva, il che lo rendeva superficiale, mancante di un’idealità organizzatrice delle sue convinzioni ed operazioni e lo lasciava schiavo di affetti meschini, come il risentimento personale o la canzonatura plebea. Esiti migliori (ma sul piano strettamente morale, non artistico) avrebbe ottenuto sottomettendosi ad un consiglire-guida prudente, forte ed amico: ma un nervoso è il meno predisposto a scoprirne uno e ad essergli ligio. [8] Naturalmente, non si tratta di invenzione assoluta: senza avere la coscienza di trattare un atteggiamento raro e non facile nel campo della espressione lirica, tuttavia dal Satyricon di Petronio arbitro a Francesco Rabelais, che tra il 1534 ed il 1552 pubblicò i suoi quattro libri su Gargantua e Pantagruel, precursori ve n’erano stati, seppure in prosa. [9] Le ottave del secondo canto che descrivono farsescamente il “Concilio degli dei” ci sembrano a ragione citate come uno dei brani più riusciti (a livello di “eroicomico o farsa”) del poema: la minor stima di A. Momigliano e di C. Jannaco (o. c., pp.425 e 432) credo dipendano da una reazione alla eccessiva attenzione dei critici che lo riportano puntualmente nelle antologie scolastiche. La verità ci sembra stia nel mezzo: il “Concilio” è davvero fra le cose migliori non di tutto il poema (assieme alle ottave di Scarpinello su Endimione e la Luna, nel c. VII; e la sfida di Melindo nel c. IX), ma in sede specifica di tonalità farsesca od eroicomica. Che poi neppure tutti i versi dell’episodio soddisfino o che certe grossolanità disturbino, ciò è cosa comune a quasi tutto il poema ed in particolare a tutti gli episodi di eoricomicità. La Secchia rapita non è poesia assoluta o suprema, ma media o mediocre: il Concilio è più in su come poesia, ma non va al di là di un “discreto” stentato, un valore imperfetto superato però solo dai due grandi brani segnalati or ora (oppure da singole strofe o battute isolate, cioè da momenti occasionali). [10] Riportiamo le due strofe di II, 16-17: le riportiamo, perchè si costati che le “intenzioni” del poeta, sottintese, rimaste inespresse, non interessano la realtà della poesia: difatti qui, la intenzione era quella di canzonare Grevalcore, in quanto la sua posizione geografica era il contrario dell’amenità e della fertilità, che egli finge di attribuirle, trattandosi di luoghi pantanosi in cui cantavano le rane (pesci canori, sirene dei fossi). La realtà lirica delle due strofe rimane però idillica, non avendo il Tassoni saputo dare uno “spin” caricaturale sufficiente. [11] Perinto, bolognese, ucciderà la coppia Jeconìa ed Ernesto ( imitata su Eurialo e Niso, dell’Eneide), soldati modenesi che combattono sotto la guida di Enzo, figlio di Federico II e re di Sardegna e, alla Fossalta, fatto prigioniero dai Bolognesi. [12] “Nel complesso”: in alcune delle Rime, il Tassoni si è concesso alla moda, in qualche sonetto come quello intitolato La bella mendicatrice (Garzantiana, cit., p. 726); ma nel poema, egli usa il concettismo per canzonatura, come si può vedere anche nella pur bella strofa I, 6, riportata più sotto. In essa, le due metafore barocche sono più “argute” che concettiste (“Dal celeste Montòn giù il sole uscito”| “parean stellati i campi e il ciel fiorito”) e la stessa arguzia viene assorbita dal prevalente contesto idillico. [13] In questo il “nobile” Tassoni non si accorge della incoerenza: lui che rimpiange il mondo feudale dell’ideale ordine e serietà, si abbassa alle espressioni più popolane e volgari? Si veda, nelle Rime, Le bellezze di Valladolid (Garzantiana, cit., p. 726). [14] La satira è diffusa, come ci si accorge dai non pochi poeti, nel secolo. Questo mi sembra segno di due fenomeni già ripetuti ma da sottolinearsi ancora. Da una parte la corruzione diveniva più clamorosa, perchè denaro e lusso si diffondevano (basti pensare alle corse dei carri signorili per le strade, che il Parini bollerà con più felice ironia, ma che già Jacopo Soldani canzona; od al trionfo delle cantanti, che attirano folle in ogni città: cfr. Lodovico Adimari, messo in nota fra i minori). E’ nota la sentenza popolare: “il danaro è come le brache degli uomini: servono a nasconderne le vergogne”. E questo è contro il vulgato giudizio della povertà nel Milleseicento italiano: se si vuole, il progresso tecnico suppliva al mancato progresso economico, causa la guerra dei Trenta anni e la peste del 1629-30. La seconda cosa che rivela il genere satirico è la ripresa della coscienza morale: che anche il non raccomandabile Salvator Rosa recriminasse contro i vizi del secolo è una prova eloquente che l’atmosfera complessiva era in favore della moralità e contro la corruzione. Segno evidente che la Riforma cattolica aveva inciso ed incideva, pur con limiti inevitabili (che erano eventualmente accresciuti dalla nuova cultura francese; ed erano ciò contro cui i “satirici” inveivano). Questo doppio senso rivela anche la produzione anticlericale, frequente (per la quale vedi C. Jannaco, o. c. p. 413): da una parte una Chiesa sempre con rughe e macchie, non all’altezza della santità esigita dal Vangelo; ma, dall’altra, il senso di scandalo che denunciava la relativa rarità dei casi e la perdurante coscienza delle forti richieste del Tridentino: ciò che non avveniva nei secoli rinascimentali. [15] Gaio Lucilio (Suessa Aurunca, 148 ca-102 ca a.C.), fu l’iniziatore del genere satirico in quanto ne fissò per il mondo latino il verso esametro, ma soprattutto in quanto ne fece passare il contenuto, dal più vario (“satura lanx” era il piatto saturo, pieno di ogni cibaria od argomento) a quello unico della critica sferzante. Dei 30 libri di satire, non ci rimangono neanche 1300 versi, ma questi sono sufficienti a dimostrare la forza morale con cui fustiga la società del suo tempo (tanto che Orazio lo definrà acre e Giovenale lo rappresenterà con la spada brandita contro i vizi della città). [16] Da B. Croce, Storia dell’età barocca, cit. p. 424, riportiamo il sonetto che probabilmente è stato presente sia a Giacomo Zanella (Temporale estivo) che ad Alessandro Manzoni (P.S., c.35: i prodromi della pioggia liberatrice dalla peste): “Sento in quel fondo gracidar la rana,| indizio certo di futura piova;|canta il corvo importuno, e si riprova| la foliga a tuffarsi alla fontana.||La vaccherella in quella falda piana| gode di respirar de l’aria nuova;| le nari allarga in alto e sì le giova| aspettar l’acqua che non par lontana.|| Veggio le lievi paglie andar volando| e veggio come obliquo il turbo spira| e va la polve, quale paléo, rotando.|| Leva le reti, o Rastagnon; ritira| il gregge agli stallaggi: or sai che quando| manda i suoi segni il ciel, vicina è l’ira!”. [17] Seguiamo sia C.Varese, nelle pagine ultime del volume sul Seicento della garzantiana; sia C. Jannaco, nel c. IV (S. Rosa e la satira: soprattutto per il Soldani). Il Varese fa notare anzitutto come il centro della satira sia Firenze e la Toscana, così come per il poema eroicomico in genere. M. Buonarroti il giovane scrisse Satire, cicalate poco vigorose, invero: edite solo nel 1845, contengono anche l’espressione del dispiacere per l’invasione d’Italia da parte di stranieri e il rincrescimento per la propria vita morale, con un proposito di conversione. Jacopo Soldani (1579-1641), il migliore forse dopo il Rosa, oltre a scagliarsi contro i vizi del mondo, difende Galileo e combatte i “peripatetici”, seguaci di Aristotele e contrari al copernicanesimo (nella quarta delle sue otto satire, edite postume, 1751). Pure egli non combatte nè la filosofia in sè nè il pensiero tutto di Aristotele: solo vuole distinti i campi di scienza, filosofia, teologia. Ammiratore ed imitatore di Ariosto e di Dante, egli, che è un buon cristiano, prende di mira soprattutto l’ipocrisia religiosa, lo sfrenato lusso dei nobili (ecco i cocchi, cui si accennava sopra), l’avidità di danaro, la sensualità e l’ambizione che la sostituisce in età avanzata. Ludovico Adimari (di famiglia fiorentina e vissuto a Firenze, anche se nato a Napoli:1644-1708): oltre alle Poesie e Prose sacre, scrisse cinque satire, che mancano però di unità e di forza (edite postume, con la falsa indicazione di Amsterdam, nel 1716). Gabriello Chiabrera, troppo più noto come lirico, concluse la sua attività di scrittore con i trenta Sermoni. L’ispirazione non è giovenalesca o lucianea, cioè violenta e sarcastica, ma oraziana: egli riesce molto più convincente quando esprime l’ideale pacifico e rasserenante dei panorami e della quiete nel ritiro della gente semplice, che non quando condanna avvocati e tribunali o critica gli italiani come troppo leziosi per riuscire buoni soldati. Antonio Abati (Gubbio, inizio del Milleseicento- 1667): ebbe vita movimentata fra l’Italia e l’Austria, finendo governatore in città degli stati pontifici. Scrisse drammi, canzonette, oratori per musica. Ma le cose più valide restano Il ragguaglio di Parnaso contra i poetastri, e partegiani delle nationi (1636) e Le frascherie (1651). Forse a lui, suo amico, si ispirò il Rosa, che dovette tener presenti anche Cesare Orsini (un folenghiano che scrisse i Capricia macaronica, fra cui vi è la Macaronea de laudibus ignorantiae), il Basile delle egloghe napoletane, contenute nel Cunto; e soprattutto G. B. Ricciardi, di cui diremo sotto. Pier Salvetti, fiorentino (1609-1652), sacerdote, autore dell’Amante di bella donna bacchettona, del Soldato poltrone e de Il grillo. In quest’ultimo si immagina un rapimento in sogno da parte di un grillo, che lo porta a visitare il gran teatro del mondo, ove i regni vanno e vengono, vincono e sono sconfitti e dove la giustizia è così lontana, che vien la tentazione di invocare i Turchi a spazzare l’Europa cristiana dalle tirannie imperversanti. Giovanni Battista Ricciardi, tra le Rime burlesche (imitate sul Berni) ne ha una contro Il bacchettone, che ebbe successo ai suoi tempi. Era pisano (1623-1686). Nicola Villani, scrive tre capitoli che valgono per la serenità delle descrizioni paesaggistiche di un piccolo mondo pastorale, situato tra i monti, da dove gli pare che il grande mondo sia pronto per il fuoco e la distruzione. In altri cinque, invece, egli si fa critico della poesia contemporanea e, in varie lingue, combatte la fretta, la faciloneria dei compositori (Marino compreso) che non sanno elaborare, pazientare, maturare col tempo. Si aggiungano infine Federico Nomi, che scrisse in latino il Liber satyrarum sedecim (1703), imitando più l’acre Giovenale che Orazio gentile; Lodovico Sergardi (1660-1726) che pure scrisse satire latine contro Vincenzo Gravina; Bartolomeo Dotti (Val Camonica, 1649-1713) che compose Rime non spregevoli, ma soprattutto frottole popolaresche e pungenti, finendo dapprima in prigione perchè, come confessa, “La mia musa non camina| dove lodo e dove adulo,| ma s’inalbera e s’ostina| più d’un asino e d’un mulo”; evaso e datosi alla vita militare, alla fine si attirò le pugnalate di sicari, che lo uccisero a Venezia. [18]
Delle altre opere, ricordiamo: Discorsi
ai prìncipi d’Italia (1593 ca: è l’invito ad accettare la
monarchia spagnola, per realizzare una federazione di stati europei con a
capo il papa, pensiero esposto in due opere perdute: Monarchia christianorum
e De regimine Ecclesiae); Epilogo
magno (1597 ca: breve trattato filosofico sulla natura e sulla morale); Monarchia di Spagna (ca. 1599); Aforismi
politici (1602); La citta del sole
(1602); De sensu rerum et magia
(1603-4: Il senso delle cose e la magia: teorie pansensistiche);
Monarchia Messiae (1605); Antiveneti
(1606); Atheismus triumphatus
(Trionfo sull’ateismo: 1607: contro averroismo e machiavellismo); Philosophia rationalis (1613: grammatica, dialettica, retorica,
poetica, storiografia); Realis
philosophia epilogistica (traduzione in latino e completamento
dell’Epilogo magno: vi sono anche nozioni di antropologia);
Metaphysicarum rerum iuxta
propria dogmata partes tres (iniziato in gioventù, terminato nel 1614,
è un ponderoso e farraginoso trattato di metafisica e gnoseologia);
Apologia pro Galilaeo
(1615: senza accettarne l’ipotesi copernicana!);
Theologicorum libri XXX (un trattato completo di teologia, ultimato nel
1624, elaborato colla sola memoria, non potendo egli consultare libri in
prigione: è stata edita criticamente e tradotta a cura di Romano Amerio,
per l’Istituto internazionale di Studi Umanistici); Quod
reminiscentur (“lo ricorderanno”: raccolta di messaggi a tutto il
mondo per affrettarne la conversione al cattolicesimo e la realizzazione
dell’unico ovile di Cristo): Ecloga
(per la nascita del delfino, cioè del primogenito del re di Francia, nel
1638: sarà Luigi XIV). [19] Che Lutero fosse un temperamento collerico, lo rivela il realistico ritratto di Lucas Cranach e il difetto o limite dei suoi versi tedeschi, che appunto scadono dopo l’impeto iniziale. Anche Ernst Kretschmer (Geniale Menschen, Berlin, Springer-Verlag, 1958, p. 199), ammettendo in lui crisi di depressione, implicitamente lo include nella classe dei collerici, che ne sono i più soggetti. Per accorgersi della felicità negli inizi e del grigiore nel seguito dei suoi “salmi”, si legga anche solo il più famoso: “Eine feste Burg ist unser Gott”. [20] Mettiamo qui quei pochi poeti dialettali che hanno una qualsiasi significanza culturale o qualità estetica. Felippo Sgruttendio de Scafato (pseudonimo per Francesco Balzano?) scrisse De la tiorba a taccone (strumento musicale a plettro): l’opera fu edita nel 1646 e risulta, con le sue “dieci corde” una satira-caricatura (in dialetto napoletano) dei canzonieri del Marino e del Petrarca : difatti, canta in versi donne brutte e sguaiate. Ignota la data di nascita e di morte! Alcuni vorrebbero che La tiorba fosse opera di Giulio Cesare Cortese (Napoli 1575 ca – 1625 ca: visse qualche anno a Firenze, presso il granduca). Certamente sue sono La Vaiasseide (1615: il poema delle serve), che canta l’amore contrastato di tre serve (vajasse), che finiscono per sposarsi; il poema (scoperto dal B. Croce) “Micco Passaro ’nnammurato”, che narra le imprese del protagonista e del suo gruppo di “guappi” in una guerra contro i briganti. Il Viaggio in Parnaso (1621) è un poema in ottave di carattere autobiografico, fantasticamente variato, con intenti critico-letterari. Si è già parlato di Gianfrancesco Busenello (1598-1659), poeta dialettale veneziano, per il suo melodramma L’incoronazione di Poppea, musicato da C. Monteverdi per la inaugurazione del teatro della Pergola a Firenze (1657) ed altri quattro libretti, musicati da P.Fr. Cavalli. Ebbene egli fu autore anche di versi (ancora indediti) tra satira e umorismo,in cui appaiono costume e malcostume dei compatrioti pettegoli e libertini; il mondo sembra una babilonia, mentre la vita gli appare breve ed insensata. Di Carlo Maria Maggi (1630-1699), poeta milanese e inventore della maschera di “Meneghino” (Domenichino) si è già detto: le sue commedie (Il falso filosofo| Il barone di Birbanza| I consigli di Meneghino) sono parte in lingua e parte in dialetto. [21] Il verso manca degli accenti ritmici regolari. E’ un endecasillabo stonato. [22] Leggendo Canzoni, canzonette, sonetti ecc. del Chiabrera, ci siamo accorti che lo spoglio fatto nel “Seicento” dello Jannaco è molto significativo, per cui ricitiamo passi già segnalati dalla sua opera. (o. c. pp. 244-70). Ricordiamo però che il capitolo II (La lirica) è stato steso da Martino Capucci. [23] Ad Anacreonte risale solo il verso (era in origine un dimetro giambico catalettico?) in cui furono scritte, dopo di lui, le moltissime “anacreontee od anacreontiche”. [24] Citeremo dalla edizione di Le Monnier (Firenze), 1941, a cura di Goffredo Bellonci. La parte politica è a pp. 111-113. I numeri tra parentesi delle prossime citazioni si riferiscono a tale edizione. Ricordiamo che è stato B.Croce a riportare in onore nel nostro secolo questo scrittore, prima trascurato del tutto. [25] Come è tipico, poi, dei temperamenti “sentimentali” (e “nervosi”) egli rivela anche doti non comuni di penetrazione psicologica che, con il soccorso che gli viene dalla fede, lo avvicinano alla sapienza manzoniana (si rilegga, nel c. XVI, il pensiero che inizia: “Chi ha soverchio concetto di se stesso, ha gran difficultà di dissimulare”); e, a p. 65, questo tentativo di fare della teoria dei temperamenti allora conosciuta, la base per una previsione di maggior o minor disponibilità alla prudenza della dissimulazione: “Quelli in cui prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l’umor collerico è molto indisposto a dissimulare. Dove abbonda il sangue è comune l’allegrezza, la qual non si cela facilmente...L’umor malinconico...si fa tante impressioni che difficilmente le nasconde. Il soverchio flemmatico, perchè non fa gran conto di dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleranza; e la collera che è fuor di misura, è troppo chiara fiamma da dimostrare i propri sensi. Il temperato, dunque, è molto abile a questo effetto di prudenza...” . [26] Importano le copie, triplette, quartetti... di versi identici consecutivi: i versi isolati non.... fanno verso (cioè non sono percepiti come tali) nello scanning del nostro orecchio-fantasia-intelligenza. [27] L’edizione in unico volume del 1678 contiene due parti, intitolate “Osservazioni politiche sopra i sei libri degli “Annali” di Cornelio Tacito” e “Osservazioni e considerazioni politiche sopra il primo libro delle “Storie” e la “Vita di Agricola”. [28] Dai manoscritti, Luigi Firpo (che ha curato l’edizione dei Ragguagli per la collana degli Scrittori d’Italia: Bari, Laterza, 1948), ha estratto altri 67 ragguagli che, uniti ai 31 già editi, completano o quasi la terza centuria. [29] Si è già detto che è difficile se non impossibile dare al “tacitismo” politico al tempo della riforma cattolica un volto chiaro: in molti l’equivoco (disapprovazione generale e sequela in qualche particolare) nasceva non tanto da malizia ed ipocrisia (per cui il “tacitismo” sarebbe stato un machiavellismo mascherato per gettar polvere negli occhi della censura inquisitoriale) ma dalla incapacità a dominare il formidabile binomio di scienza morale ed operazione politica, dalla inabilità intellettuale a conciliare il bene e l’utile. Crediamo che il caso più clamoroso di tale fraintendimento rimangano gli studi di quel grande cristiano che fu Ludovico Settàla, tutt’altro che soddisfacente nelll sue conclusioni. [30] L’ambiguità complessiva del Boccalini è stata riconosciuta da tutti i critici, ormai: lontani sono i tempi del Risorgimento italiano, in cui il suo atteggiamento negativo nei confronti della Spagna era interpretato positivamente come precorrimento delle aspirazioni di libertà ed indipendenza, in senso patriottico-nazionalistico. [31] Sul piano tecnico, il Boccalini non fu l’inventore del “genere letterario” giornnalistico, ma ne fu il trasformatore e divulgatiore più efficace, per la carica artistica che rese popolare fra i dotti la sua opera. Il primo a immaginare un “Viaggio in Parnaso” e degli “Avvisi di Parnaso” fu Cesare Caporali, di Perugia (1531-1601). Ma si trattava di poemetti giocosi (comprendevano anche le Esequie di Mecenate) in cui la vena satirica si esercitava solo sul mondo letterario. Egli meriterebbe la palma anche per il primo poema eroicomico: Vita di Mecenate. Le sue opere comprendevano anche capitoli berneschi e satire (La Corte| Il Pedante), che son forse le sue cose migliori. [32] Come annotano qua e là i due curatori dell’edizione Ricciardi dei “Pensieri” del Sarpi (Luisa Cozzi e Libero Sosio), molto probabilmente alcune particolarità del testo sarpiano (lo “scarabocchio” sulla “Torà” non è l’unica stranezza) dipendono dalla intenzione dello scrittore di mantenere occulto certe parti del suo pensiero, che dettava ad uno scrivano, sulla cui segretezza o consenso non poteva contare. [33] Anzi, sulla imortalità dell’anima, egli ha una sua concezione, ben lontana dalla dottrina tradizionale. L’uomo è così destituito di valori spirituali, che la immortalità dell’anima non è un dato di natura, comune a tutti: è un risultato offerto dalla Rivelazione-Redenzione a chi vi corrisponde e se ne rende degno. Le sue ultime parole “Aeterne vivas” sono intese abitualmente come augurio rivolto alla repubblica di Venezia (possa tu durare eterna!), mentre erano augurio alla propria anima, che sentiva sfuggire al corpo: che fosse tra le privilegiate, destinate a vivere eternamente in Dio, dal momento che la massa delle altre era destinata alla morte, assieme al corpo! Ci si permetta di obiettare al Sarpi quello che Piero Martinetti (“Introduzione alla metafisica”, Torino, 1903) obiettava all’idealismo da Kant in poi: se la ragione è così destitutita di ogni potere logico, come è possibile prestar valore dimostrativo a tutte le affermazioni che si continuano a fare in base ad essa (per Sarpi: la ricostruzione dello stato materiale e spirituale della Chiesa nei primi sette secoli di vita; lo stabilire le verità minime della fede da condividere da tutti e distinguerle da quelle di libera discussione); anzi come è possibile accettare la ipotesi stessa della invalidità complessiva o radicale della potenza dimostrativa della intelligenza, quando essa è la conclusione di lunghi, seppur non sempre coscienti, ragionamenti operati dalla stessa inaffidabile ragione? Se l’unica certezza sono i sensi, non è più possibile erigere nessun ragionamento neppure minimalista, non è più lecito neppure giocare al ribasso del potere raziocinante: rimane logico solo il silenzio e l’agnosticismo su tutto. Come fanno (con più...coerenza) gli animali. [34] Cito dall’edizione antologica di Ricciardi, a cura di Gaetano Cozzi, pp. 742-3. L’ortografia pressappochista è quella del testo: ne riparleremo, dando uno sguardo allo “stile” dell’opera, alla fine dello studio. [35] Altro difetto è la mancata citazioni delle fonti. L’unico nome fatto (sempre in apertura di opera, nel primo periodo del primo libro) è quello di Giovanni Sleidano: per quanto testimone abbastanza libero e disinibito, è davvero troppo poco:, sia perchè è di parte riformata; sia perchè fu a Trento solo un anno (primavera 1551- aprile 1552), morendo poi nel 1556 a cinquant’anni.[35] I suoi “informatori” dovettero essere identificati con faticose indagini erudite. Non solo la recente “Geschichte des Konzils von Trient” di Hubert Jedin (1949-1975: traduzione, Brescia, Morcelliana, 1949-1981), da chiuqnue ammirata e ritenuta lavoro di superiore diligenza, intelligenza ed onestà, ma la stessa “Istoria del Concilio di Trento” del pur scialbo card. Sforza Pallavicino è più documentata ed oggettiva di quella sarpiana. Ma sui limiti e difetti della Istoria del Sarpi non ci sono più dubbi ormai: nessuno, neanche tra quelli che tentano di difenderne il valore artistico, ne sostiene le tesi storiografiche. [36] Come si è detto, citiamo sette casi dal pirmo capitolo della Istoria. Il loro testo l’abbiamo letto sia nella edizione antologica di G. Cozzi (Ricciardiana, pp. 752-3| 754-5| 756|| 757-8| 760| 796| 806); sia nella edizione Sansoni, a cura di Renzo Pecchioli, Firenze, 1966 (pp. 10-11| 12|ib.| 14-15| 16| 45| 56). [37] Nella sua “Storia della letteratura italiana”, il De Sanctis dedica alla “Nuova scienza” il capitolo diciannovesimo, che ingombra qualcosa come 115 pagine, con uomini come il Bruno (cui dedica 25 pagine), il Campanella, il Vico, il Sarpi e Pietro Giannone: a Galileo dedica poco più di una pagina, nel contesto delle più che venti impegnate per il Campanella! [38] Che cosa significhi “rettorica sentimentale” non ci sembra “ovvio”: forse Sapegno vuol dire “sentimentalismo, patetico, enfatico” o qualcosa del genere. Quelle due “tt” di “retorica” che il Sapegno usa ancora forse come residuo della sua età di formazione, ci sembra quasi un lapsus dello sforzo di cercar parole di lode, senza persuasione intima. [39] Pretende il Sapegno di vedere confluire nel periodare sarpiano: “l’asciutta e spregiudicata forza delle relazioni degli amabasciatori veneti e la robusta struttura sintattica dei latini”: forse vuole mettere le mani avanti per giustificare il periodare lungo e contorto del Sarpi, in cui i periodi di dieci righe e più sono frequenti (quasi la norma), con effetti di noia non piccola sul lettore. [40] Questo elogio è detto, veramente, per alcuni passi della “Istoria dell’Interdetto”: cfr. pp. 239-40. Riguardano invece la Istoria del Concilio tridentino gli altri giudizi. [41] Alla Istoria del Sarpi i cattolici opposero La Istoria del Concilio di Trento del card. Pietro Pallavicino Sforza. Delle virtù e dei difetti dell’opera si è parlato a pp. 18-19, nota 23, nella sezione dedicata agli studiosi di poetica. [42] Si noti per altro che il Cremonini, che non volle mai guardare nel cannocchiale, per non dover mutare tutte le proprie convinzioni di cosmologia tolemaica; e che si fece seppellire con l’epitaffio “Hic jacet Cremoninus totus”, non era poi nemico acerbo di Galileo: ebbe a fargli, anzi, una garanzia per un prestito, ed amichevolmente lo pregò di non chiedergli il sacrificio di guardare nel cannocchiale, che avrebbe sbalestrato tutta la sua vita intellettuale. [43] Galileo si interessa soprattutto alle due forze agenti sul percorso di un proiettile lanciato dalla artiglieria: forza di propulsione dello scoppio della polvere da sparo, che lo scaglia in avanti e forza di gravità, che lo attrae verso il centro della terra. Il risultato della composizione di tali forze sarà una semiparabola. E’ il tema della quarta giornata di dialogo nei Discorsi. [44] In proposito, si veda in particolare il Dialogo dei massimi sistemi, inizio della seconda giornata.Ci sembrano, sulla esclusione del principio di autorità, ancora valide le specificazione di A. Manzoni circa la sua portata ed i suoi limiti (Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, nella parte finale del c. III): “..il diritto comune di tutti gli uomini d’esaminare l’opinioni d’altri uomini, senza distinzione di celebri e d’oscuri, di grandi e di piccoli. Fu anzi, ed è forse ancora, opinione di molti, che il riconoscimento di un tale diritto sia stata una conquista ed una gloria di tempi vicini al nostro: cosa però che ci par dura da credere, perchè sarebbe quanto dire che il senso comune non sia perpetuo e continuo nell’umanità, ma abbia potuto morire in un’epoca e risuscitare in un’altra: due cose delle quali non sapremmo quale sia più inconcepibile. S’è bensì creduto in diversi tempi che l’autorità, ora d’uno, ora d’un altro scrittore, costituisse una probabilità eminente: non s’è mai creduto (meno il caso per impossibile, ma che non deve contare, di qualche pazzo, ma pazzo a rigor di termini) che fosse un criterio infallibile di verità. Quel celebre e antico: amicus Plato, amicus Aristoteles, sed magis amica veritas, non fu che una formola particolare e nova di un sentimento universale e perenne: formola più o meno ripetuta d’allora in poi, ma non mai rinnegata. Esagerando, come si fa qualche volta, gli errori dei tempi passati, ci priviamo del vantaggio di cavarne degl’insegnamenti per noi: ne facciamo de’ deliri addirittura; e allora non si può cavarne altro che la sterile compiacenza di trovarci savi; se guardando più attentamente, vedessimo ch’erano miserie, potremmo esserne condotti a osservare che abbiamo bisogno anche noi o di preservarcene o di curarcene. No, non si dichiarava espressamente infallibile uno scrittore; ma si chiamava a buon conto irriverenza, temerità, stravaganza il trovar da ridire alle sue decisioni, senza voler esaminare con che ragione si facesse. Non era un delirio; era una contraddizione; ed è appunto di una contraddizione di questo genere che abbiamo paura. Chè, se i tempi moderni non hanno inventato quella libertà sacrosanta, non hanno nemmeno distrutta quella schiavitù volontaria. Come mai levar dal mondo, rendere impossibile ciò che non è altro che l’abuso e l’eccesso di un sentimento ragionevole? giacchè chi vorrebbe negare che il giudizio di una mente superiore alla comune costituisca una probabilità? Può dunque ancora, come in qualunque tempo, nascere il bisogno di ricorrere a quel principio, per prevenire de’ rimproveri non meritati e di rammentare che i grandi scrittori ci sono dati dalla Provvidenza per aiutare i nostri intelletti, non per legarli; per insegnarci a ragionar meglio, non per imporci silenzio...” [45] Vi è un ulteriore principio che Galileo pare anticipare in favore della scienza moderna: quello di non ricercare, nella natura, finalità in servizio dell’uomo, traguardi umanistici. La scienza si limita a costatare la esistenza le leggi di azione nelle realtà che cadono sotto la sua esperienza; non deve tener conto di “intelligenze” ordinatrici che sfuggono alla sua osservazione. Il principio, per altro contrastato dalle complicazioni dell’evoluzionismo, anzi della cosmologia stessa, tiene conto solo delle cause “efficienti” che si vedono all’opera nei fenomeni, non di quelle “finali” che si possono solo dedurre da principi filosofici non sperimentali. Per questa esclusione del finalismo dalle premesse dell’indagine scientifica, si veda la terza giornata nel “Dialogo dei massimi sistemi”. [46] Vi erano anche altre motivazioni per la confusione tra “filosofia fisica” e “filosofia metafisica”: le conoscenze della fisica, della matematica, della astronomia, della geometria e del corpo umano (medicina) erano così esigue che anche quantitativamente parevano costituire una pura introduzione allo sviluppatissmo pensiero filosofico, già organizzato da Aristotele e perfezionato dalla Scolastica medioevale. [47] Qualcosa del genere afferma anche Galileo nei Discorsi, quando fa dire dal Salviati: “A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo io” (Discorsi.... Torino, Boringhieri, 1958, p. 150). [48] F. Bacone, contemporaneo di Galileo (1561-1626) pubblicò, della progettata Instauratio magna scientiarum, solo tre parti, di cui le principali sono il “De dignitate et augmentis scientiarum” (1605, rielaborato nel 1623: espone il fine – subordinazione delle scoperte scientifiche alla vita pratica-, fine che scambia la scienza pura con la sua applicazione pratica, la tecnologia); ed il “Novum Organum” (1620: è appunto il nuovo “strumento” o metodologia del sapere) Queste due opere contengono l’essenziale della sua dottrina. Altre parti della “Instauratio” furono pubblicate lui vivente (Historia naturalis et experimentalis) o postume (Silva silvarum: ha in appendice la sua “utopia”, intitolata “Nuova Atlantide”). A parte, egli pubblicò i “Saggi”, un anno prima di morire. Si noti che già il titolo “Novum organum” (nuovo organo o strumento di indagine) è polemico contro l’opera (“Organum”) di Aristotele, che contiene la Logica, scienza dell’umano conoscere (astrazione delle idee| formazione del giudizio nella frase| organizzazione del ragionamento nel sillogismo, che fa entrare in rapporto dialettico due giudizi già noti -la premessa maggiore e quella minore- per giungere alla conclusione nuova). [49] Ma se anche il sillogismo deduttivo deve contenere (et quidem in prima battuta) una premessa universale, non è poi detto che ne debba possedere una sola: se anche la proposizione seconda è universale, allora anche la conclusione sarà di carattere universale e non particolare. Come diremo alla fine, anche la scienza più progredisce, più facilmente prende le mosse da una ipotesi universale e inserisce, poi, l’esperienza (particolare od universale) al secondo posto, per ottenere leggi singole o sistemi di leggi o concezioni universali di natura fisico-matematica, limitate cioè dalla sola necessità di rimanere legate al numero e, quindi, alla quantità materiale. [50] La mancanza di esperienza diretta gli era costata cara nel dibattito con padre Orazio Grassi, a proposito della comparsa di tre comete durante gli anni 1618-9: Galileo, ammalato, non aveva potuto osservarle direttamente, sicchè nel “Saggiatore” (uno scritto in proposito) si trovò ad avanzare l’ipotesi che la cometa fosse una illusione ottica, come quella dell’arcobaleno! La interpretazione era perdente rispetto alle proposte del gesuita, che le aveva potute scrutare e seguire col cannocchiale. Nel “Dialogo” egli si apprende alle maree, come esperienza di prova della rotazione della terra: non era un esperimento costruito così che funzionasse solo se la ipotesi era vera. A questa arriverà Leone Foucault col suo pendolo, nel 1851, nel Panteon di Parigi. [51] In realtà Leone Foucault si servì della differenza del tempo tra la scomparsa della luce durante un eclisse di sole (determinata con esatta precisione dai calcoli astronomici) ela sua percezione da un telescopio terrestre, per determinare con definitiva certezza che la luce corre nel vuoto alla velocità costante di circa 3x 10 elevato alla ottava potenza/ metri al secondo”. Léon Foucault (1819-1868) è quello stesso scienziato che dimostrò anche sperimentalmente la rotazione terrestre, mediante il famoso “pendolo” con un filo di 67 metri, cui era appesa una sfera di 28 chilogrammi, posto ad oscillare nel Panthéon di Parigi nel 1851; sfera che doveva segnare nella finissima polvere sfiorata dalla punta estrema della sfera, un angolo di 15 gradi moltiplicati per il seno della latitudine del luogo, a causa della immutabilità dell’asse di oscillazione. Riuscito l’esperimento-trappola, la rotazione della terra era determinata una volta per sempre. [52] Sia il sillogismo deduttivo che quello induttivo, dunque, devono introdurre nel processo dimostrativo un elemento universale, se vogliono concludere ad una scoperta di valore universale. Difatti una legge del sillogismo dice “Nihil sequitur geminis ex particularibus unquam” (da due premesse particolari, non segue nulla). Il metodo deduttivo inizia il sillogismo con una universale e lo continua con sentenze od universali o particolari; viceversa, il ragionamento induttivo inizia con un elemento particolare (esperienza unica od anche moltiplicate) e solo in seconda battuta (nella “premessa minore” si dice in linguaggio scolastico) dà spazio alla (premessa) universale. Tra filosofia e scienza non vi è sostanziale diversità di metodo dimostrativo, ma solo differenza accidentale: una differenza di “posizionamento” o “geografica”. [53] Non è solo Bacone a rivelarsi inferiore a Galileo, ma lo stesso Giovanni Keplero. Nonostante la intuizione mirabile e formidabile che le orbite dei pianeti non fossero delle circonferenze, ma delle ellissi; nonostante le tre leggi sublimi che del moto ellittico celeste lo scienziato tedesco formulò, egli rimase anche astrologo, credulo cioè nell’influsso degli astri sulla vita umana; e rimase un discendente dei filosofi pitagorici, che interpretava i cieli in funzione dell’uomo e studiava la loro “qualità” come diversa da quella terrestre. Keplero è un uomo di transizione: un genio, ma artigianale; Galileo imposta modernamente la grande industria della scienza esatta. [54] L’ulteriore problema del rapporto tra Bibbia e storia sarà messo in crisi dall’imporsi della teoria dell’evoluzione, dopo il libro di Charles Robert Darwin “L’origine delle specie” (1859): sarà uno dei fattori centrali nella crisi del modernismo, all’inizio del secolo XX. Che la Chiesa avesse, però, imparato la lezione dal “caso Galileo”, lo dimostra il fatto che solo l’evoluzionismo materialista fu condannato, perchè esclude la creazione ed anzi la fede stessa in Dio: non fu condannata la dottrina dell’evoluzione in sè. Anzi il primo dogma proclamato dal Concilio ecumenico Vaticano I (1870) riguarda proprio la perfetta compatibilità fra scienza e fede, che non possono mai contraddirsi. [55] Il papato di Urbano VIII non fu, a nostro parere, all’altezza dei tempi e dei problemi che comportarono, sicchè la condanna di Galileo è il caso emergente in una serie di mosse discutibili. Intanto ci fu il il nepotismo sfacciato (fece cardinali il fratello Francesco, cappuccino e due nipoti: Francesco il giovane e Antonio); poi ci fu il caso “Campanella”, che egli volle sottrarre alla prigione spagnola, pur essendo reo di delitto civile e di tradimento religioso (alla ribellione aveva invitato anche i Turchi!) e che aiutò a fuggire in Francia, quando sembrò implicato in nuove macchinazioni di rivolta politica; infine c’è il comportamento disorientato nei confronti della guerra dei Trenta anni, perchè vi condusse una politica quasi altrettanto indecisa quanto quella di Clemente VII: aiuto finanziario all’Impero, ma equidistanza politico-diplomatica nella lotta tra i difensori del Cattolicesimo (Austria e Spagna) ed i sostenitori della causa protestantica (Richelieu e Svezia), a rischio –come accadde- di inimicarseli tutti. Egli era impegnato ad abbellire Roma ed a completare la piazza di S. Pietro con il colonnato del Bernini: proprio come i papi medicei, pensava allo sfarzo materiale, quando erano in gioco le sorti della cattolicità a livello europeo, con le conseguenze di Illuminismo, rivoluzione francese e persecuzioni annesse. [56] Prendiamo le note che seguono da Ferdinando Flora, Introduzione alla antologia commentata delle opere galileiane, nella collezione Ricciardi (G.Galilei, Milano-Napoli, 1953, pp. X-XIII). [57] Invece, ciò che non si può mettere in dubbio nella sua vita è la fede relgiosa e cristiana. Non si può neppure (come fa Bertolt Brecht nell’opera teatrale dedicata a Galileo) attribuire con sicurezza a pusillanimità il sottomersi alla decisione del S. Uffizio. Dovette, più probabilmente, trattarsi invece di un vero dramma interiore: fino a che punto egli era così certo di idee contrastate da tutto l’establishment universitario del tempo e senza una prova definitiva, da sentirsi in coscienza obbligato a subire un martirio religioso per difendere una verità profana? E’ un mistero che solo lui potrebbe rivelarci: di fatto prevalse la fedeltà alla (presunta) verità della Bibbia e non è lecito sospettare che si trattasse invece del trionfo della viltà e della ipocrisia. [58] “Il destino personale di Galileo fu determinato dall’aver preso egli stesso in mano la soluzione dell’apparente contraddizione tra i suoi risultati scientifici e la rivelazione biblica, invece di lasciarla ai teologi. I tentativi di conciliare le nuove conoscenze scientifiche con la fede cristiana furono intrapresi soprattutto da gesuiti, come Atanasio Kircher, Cristoforo Scheiner e Gaspare Schott” (H. Jedin, Storia della Chiesa, VI, p. 786 della traduzione italiana, Milano, Jaka Book, 1975). Nicola Abbagnano conviene: “Tragedia che non ci sarebbe stata, se Galileo si fosse limitato a coltivare le indagini matematiche e fisiche in cui era maestro e avesse fin dall’inizio rinunziato a illustrare i fondamenti di queste indagini, cioè la portata che essi hanno tra l’uomo e il mondo”. Attilio Momigliano, nella sua Storia della letteratura italiana, edita da Principato, imposta il suo giudizio su una linea diversa, ma seducente: “... processo... che ... fu in sostanza effetto... della malignità degli avversari e delle paure rimaste nell’ambiente cattolico in conseguenza della riforma protestante” (p. 306). [59] Attilio Momigliano, Storia della Letteratura italiana, Milano-Messina, Principato, 1956, p. 308. [60] Si veda “Il Saggiatore”, n. 21: riportiamo sempre dal volume citato della Ricciardiana, a cura di Ferdinando Flora. [61]
Il brano
tutto godibile occupa varie pagine ed inizia: “Io vi confesso
che”, per finire “e non sopra un mondo di carta”. [62] Si vedano specialmente le pagine 49-50; 82; 86; 94 della Ricciardiana. [63] Ivi, pp. 484-93; 730-4; e, di Frammenti e lettere, le pp. 5-6. |
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