1600
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Don  Marcello De Grandi

 

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CAPITOLO VIII: IL MILLESEICENTO

 

 

 PREMESSE AMBIENTALI

         I) POLITICO-MILITARI

 

Le caratteristiche politico-militari di fondo sono il dominio spagnolo e le ripercussioni in Italia della guerra dei Trenta anni.

La politica italiana è dominata dalla presenza spagnola, a partire dalla pace di Castel Cambrese (1559) sino a quella di Westfalia (1648): gli unici che si attentano a dissentire sono Carlo Emanuele I (1580-1630) e Venezia. Il primo finisce, però, col perdere Pinerolo in favore della Francia, che poi ne dominerà la politica fino alla ribellione di Vittorio Amedeo II, nel 1690. Venezia non riesce ad avere alcun vantaggio nè dalla guerra contro l’impero asburgico (per la  questione degli Uscocchi, pirati dell’Adriatico: 1617), nè dall’alleanza con la Francia per la  guerra della Valtellina (1624-6) o per Mantova ed il Monferrato (1627-30).

La soggezione alla Spagna ebbe svantaggi e vantaggi. I primi, in parte, li abbiamo già analizzati (concettismo) e in parte li incontreremo dando uno sguardo al costume del secolo. I vantaggi più degni di nota sono la regressione delle beghe interne italiane e dei conflitti endemici tipici dei secoli XIV e XV, sia nel Napoletano sia al Nord (conflitti fra Milano, Venezia, Firenze), con la calamità degli eserciti di ventura, perversi anche in tempi di pace. E’ vero che i signorotti si permettono di farla da tiranni nel loro feudo e coi loro bravi: l’Innominato (Francesco Bernardino Visconti), nonchè le figure di don Rodrigo e del conte Attilio nei Promessi Sposi ne sono un emblema. Ma  in proposito va richiamato quanto Félicité Robert de Lamennais ricordava alla contessa di Sennft a proposito delle prepotenze di cui parla il romanzo di Manzoni, a lui inviato in omaggio nella edizione ventisettana (1827): “Mais qu’on lise l’Histoire des Républiques pendant le XIV, XV, XVI siècles, celle de Florence, par exemple; c’est un ruisseau de sang. Il en faut revenir au mot de Montaigne: -Il n’y a point de pire bete à l’homme que l’homme”- Vi è in realtà un declino degli arbìtri e prepotenze rispetto ai secoli precedenti, quando il controllo  dei potentati nelle singole regioni italiane non riusciva a controllare la periferia del loro dominio, anche per le guerre perennemente in corso: ora il governo spagnolo emette “gride” a non finire, che se non altro costringono i padroni dei “bravi” a farne un uso sempre più cauto e rischioso. Occorreva alla autorità spagnola un evento per far cessare tali costumi: la fine della guerra dei Trent’anni (1648) vede declinare fino a sparire “il seme pernizioso” dei bravi,  benchè il dominio spagnolo in Italia duri ancora sino alla pace di Rastadt (1714).

 Inutile dire che tutte negative furono, invece, le ripercussioni della guerra dei Trent’anni,  sia per l’anagrafe che per l’economia. Qui  va ricordato almeno la conseguenza tragica della peste che, portata dall’esercito del Collalto, sceso dalla Valtellina ad espugnare Mantova nel settembre 1629, provocò la morte di un milione di abitanti in Italia. Si calcola inoltre che circa centocinquantamila italiani prestarono servizio in tale guerra per la Spagna: non tutti saranno rientrati, ovviamente.

La fine del primato culturale della Spagna in Italia, dopo che la  Francia ebbe vinto la guerra dei Trent’anni, portò all’influsso di questa sulla mentalità gusti e costumi sociali  in  tutta Europa. Nonostante che la Spagna non perda alcun territorio in Italia con la pace di Vestfalia (1648), tuttavia nel giro di un paio di generazioni anche l’Italia si francesizza: non solo non si sente più parlare di “bravi”, ma anche il concettismo regredisce gradualmente, fino a che, nel 1690, viene fondata a Roma l’Accademia dell’Arcadia, che segna l’inizio di una nuova cultura e la fine (si potrebbe dire ufficiale) della letteratura secentista. Si può essere tentati di far iniziare il Milleseicento subito dopo la Gerusalemme liberata (1575) e farlo terminare con la pace di Westfalia (1648): ma il persistere, nello scorcio del Millecinquecento, di produzione non ancora del tutto secentista (“Il pastor fido” del Guarini ne è solo l’opera migliore); e il trascinarsi di una produzione ancora inficiata di concettismo   nella seconda metà del Milleseicento inducono a definire i limiti del secolo letterario entro quelli cronologici, salvo l’ultimo decennio, arcade appunto.

 

                                   II)  PREMESSE SOCIO-ECONOMICHE

 

Stasi demografica e regresso economico caratterizzano il secolo in Italia.

Non si ha nel nostro secolo crescita demografica: non per cause connesse col dominio spagnolo o per motivi economici, ma per la peste del 1629-30 che portò via un milione di persone. Gli  Italiani rimasero fermi, così, agli undici milioni della fine del secolo XVI.

L’economia è in  calo un po’ ovunque, in genere a causa della guerra  e della pestilenza; solo nel Napoletano  potrebbe trattarsi anche di conseguenza del governo spagnolo. Al Nord, Venezia denota il regresso economico anche attraverso il calo degli addetti all’arsenale (costruzione e riparazione di navi): dai duemila  del 1599 si scende a 1208 nel 1641. La devastazione e spopolamento della Germania, per la guerra dei Trenta anni, (scende dai venti milioni circa a neppure sette) tolgono alla città lagunare l’ultimo grande cliente per il commercio di prodotti orientali; inoltre essa perde le ultime isole dell’Egeo (Candia nel 1669 si arrende dopo una guerra più che ventennale, che costò uomini e soldi al Leone di San Marco). Decrescono anche le esportazioni di drappi e oggetti di lusso, in un periodo in cui l’Europa continentale  doveva riservare il danaro al conflitto immane.  Nell’Italia meridionale succede questo fenomeno: Napoli diventa la residenza di moltisimi nobili, che accorrono alla corte del vicerè spagnolo, per servizi onorifici e redditizi. Le terre, abbandonate alla amministrazione di gente venale e non sempre onesta, subiscono così un calo della produzione, con l’impoverimento ulteriore della popolazione agricola. Declina, in particolare nelle Puglie, la produzione di grano e di lane. Napoli si gonfia invece a megalopoli, sovrappopolata: a metà del secolo si calcola che avesse raggiunto il mezzo milione di abitanti.

Si difende l’industria della seta (Como e Veneto) e si mantiene viva quella delle armi (Milano, Brescia), mentre addirittura  cresce quella tipografica (a Venezia, Genova e Roma). Un segno notevole di aumento della ricchezza è l’aumento del metallo prezioso in circolazioe.  Difatti, nel Millecinquecento l’economia europea era ancora fondata sull’argento; nel Milleseicento la base metallica è l’oro, diffusosi in misura crescente dalle colonie dell’America spagnola. Ma sono soprattutto le costruzioni edili a testimoniare  che, nonostante la tassazione esosa della Spagna[1], rimane un notevole benessere che si va estendendo anche ai ceti meno abbienti. Si pensi soprattutto alle costruzioni ecclesiastiche, che sono realizzate di solito con l’intervento di qualche ricco mecenate, ma che vengono sostenute anche dalle elemosine del popolo povero. Ora le chiese ed i santuari realizzati nel Milleseicento sono molto più numerosi che nei secoli precedenti. Sono nati persino dei “sacri monti”, cioè serie di edifici sacri che costellano le falde di una collina o montagna, per celebrare qualche mistero della fede. Il più noto è quello sopra Varese (quindici chiese, ognuna dedicata ad un mistero del Rosario, illustrato dentro le cappelle da statue a grandezza naturale, oltre che da pitture sulle pareti). Altri famosi “sacri monti” sono quelli di Varallo Sesia, Belmonte nel Canavese, Orta nel Novarese.

 Nel secolo XVII inoltre si costruiscono i primi teatri pubblici, edifici destinati cioè unicamente alle rappresentazioni: nel 1637 si inaugura quello di Venezia; nel 1657 si apre quello (in via) della Pergola a Firenze. L’afflusso  abituale e frequente alle rappresentazioni dimostra che il superfluo  si era molto diffuso e che, almeno  in città come Venezia, la borghesia era un ceto molto numeroso. La Commedia dell’arte e (lo vedremo) la diffusione del nuovo genere letterario, il romanzo in prosa, testimoniano pure che nuove leve di lettori raggiungevano il mercato letterario: gente che non aveva familiarità colla versificazione e non aveva il gusto e la pazienza per goderne, ma che aveva qualche soldo (oltre la alfabetizzazione) per concedersi strumenti di evasione fantastica, con   facilità di lettura.

Minor significato sembra di dover dare, invece, alle costruzioni dei patrizi veneziani nell’entroterra: era un impiego del danaro che non riuscivano più ad investire in commerci, navi, viaggi e personale assoldato: era il fasto di un impero navale in decadenza.

 

LE  CARATTERISTICHE DEL SEICENTO IN ITALIA

 

I)                 IL PENSIERO (MENTALITA’)

 

Vi sono motivi per riporre fiducia e stima nella attività culturale del secolo XVII, come ve ne sono per lo scontento ed il disprezzo. Analizziamo dapprima i fatti positivi.

La cultura nel suo complesso è in aumento. Eccone degli indizi. Abbiamo la prima donna in assoluto ad addottorarsi: Lucrezia Cornaro Piscopia si laurea a Padova in filosofia e avrebbe voluto proseguire con il dottorato in teologia, ma il vescovo di Venezia, S. Gregorio Barbarigo, non lo permise.[2]

Più significativa è la nascita di due nuove forme di arte: il melodramma ed il romanzo in prosa. Per il primo, aveva già lavorato Jacopo Peri con Dafne (1598) ed Euridice (1600), ma esso si sviluppa  pienamente nel Milleseicento, con le musiche di Claudio Monteverdi (1607:Orfeo; seguiranno Arianna, Ballo delle ingrate, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea). Quanto alla nuova forma di cultura spicciolata, il romanzo in prosa, è vero che il praticamente nuovissimo genere letterario presenta, un po’, le qualità negative della Commedia dell’arte (ingenuità, sbrigatività); tuttavia il diffondersi del romanzo implica tempo libero a livelli economicamente sempre più vasti, comprendenti anche strati  soltanto alfabetizzati. La cerchia dei passatempi di natura verbale e dei loro fruitori si allarga, diffondendo in qualche modo cultura letteraria.

Con gli Scolopi, fondati da S. Giuseppe Calasanzio, venuto dalla Spagna a Roma (1558-1648), si hanno istituti di istruzione a costi accessibili alle classi  di piccola borghesia. Per i ceti più alti continuano a lavorare Gesuiti, Barnabiti, Somaschi. Già S. Angela Merici aveva provveduto a scuole di questo tipo nel secolo precedente: ora, per le ragazze, si muovono anche Lucia Perotti che fonda a Cremona un collegio per loro, coll’aiuto del gesuita p. Melina; la beata Rosa Venerini che, appoggiata dal vescovo di Montefiascone Marcantonio Barbarigo, fonda l’Istituto delle scuole e maestre pie.

Aumentano le biblioteche: a Roma si organizza la Vaticana e si creano la Angelica (di Angelo Roccu), la Barberini (card. Francesco: 1636); a Milano, il card. Federico Borromeo apre la Ambrosiana (1609). Per i gesuiti, il superiore generale S. Pietro Canisio non concepiva un collegio che non avesse la propria biblioteca. 

 A monte delle biblioteche sta la facilità della stampa a riprodurre i libri: la tipografia vaticana risale a Sisto V (1587), mentre anche Genova e Venezia hanno, con Roma, una   industria editoriale; Anversa, Dillingen, Ingolstadt sono le capitali della stampa in Europa.

 

E guardiamo ora ai dati negativi.

 Ci sembra che siano sostanzialmente questi: l’assenza di capolavori poetici sublimi, le pochissime edizioni della Divina Commedia, la diffusa moda barocca in letteratura (concettismo, secentismo, marinismo), la  pochezza del senso critico, con la persistente credenza a leggende sia in campo storiografico che scientifico, la presenza di pregiudizi come quelli delle streghe e degli untori, la perdurante tortura degli imputati. Ma ci sembra doveroso aggiungere che, sui fatti  irrazionali della cultura del tempo, pesa un’aggravante indebita: la felicissima ironia del Manzoni nei Promessi Sposi su alcuni di questi dati (specie nei capitoli 1, 6, 18, 27, 31 e 32), che stigmatizza in maniera così brillante i dati negativi, da non lasciar spazio per un giudizio più equo della loro entità reale e per la considerazione delle dimensioni positive dell’epoca in cui  sono posti a vivere i promessi sposi. Naturalmente, la presentazione unilaterale del Manzoni è un fatto che non riguarda la cultura del Milleseicento, ma la coscienza che ce ne siamo formato noi. Fausto Nicolini prende giustamente le difese  anzitutto di Gonzalo di Cordova: la storia vera lo documenta come un eroe  nelle armi. Sebbene  meno dotato nell’arte di governo,  pur tuttavia anche ivi risulta uomo non solo onesto,  ma molto generoso e tanto sensato, che non promosse ma solo accettò a malincuore la guerra di Casale; e tentò di impedire, sino all’ultimo giorno di governatorato, l’entrata dell’esercito imperiale in Italia, conscio dei danni di un simile passaggio, anche a prescindere dalla peste. Ma anche della vita e cultura complessiva del Milleseicento in Italia, sotto la Spagna, il Niccolini documenta meriti sconosciuti. si leggano i suoi volumi “Peste e untori” ed “Arte e storia nei Promessi Sposi”( Milano, Longanesi, 1958)

Il secolo, dunque, è pressochè infecondo di poesia. Per sè la cosa non dovrebbe stupire più di tanto: i geni (anche letterari) non nascono a piacer nostro, tanto che lo stesso era già accaduto fra la morte di Petrarca e la stesura delle “Stanze” del Poliziano (1370 ca- 1470 ca). Ma quello che disorienta nel nuovo secolo è il fatto che, accanto alla pochezza di lavori poetici  significativi (La secchia rapita del Tassoni, alcune lettere ed il Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto, alcune rime di Gabriello Chiabrera), si affianca una produzione sciamannata di liriche, poemi, prose e teatro o ridicolmente concettisti o insopportabilmente   improvvisati, segno della mancanza sia di estro lirico che di buon senso e di intelligenza, di sinderesi (coscienza del vero, del bene e del bello) e di spirito critico. La rigatteria secentista è quello che più impressiona, al di là della rarità della grande arte letteraria.[3] 

Le poche edizioni della “Commedia” è un fenomeno che fa parte della carenza di intelligenza e di gusto nel secolo. Ma il dato va abbinato al regresso degli scrittori letterati di estrazione toscana ed alla perversione del gusto causata dal marinismo concettista. Ed è attribuibile in genere alla pochezza del livello intellettuale della massa di ogni secolo. Le quaranta edizioni del capolavoro nel secolo precedente non impediscono che Dante venga escluso dal canone degli autori-modello  per la classicità della lingua italiana: Petrarca e Boccaccio erano troppo più facili ed imitabili...

Lo stigma della   permanenza di un insufficiente senso critico è indubbio,  anche se non tutti  gli studiosi del secolo sono dei don Ferrante.  Siamo onesti e confrontiamo questa mentalità non solo con quella del razionalismo settecentesco successivo, ma anche con la ingenuità dei secoli precedenti. Ci accorgeremo che le cose vanno migliorando nel Milleseicento.[4]   

Prendiamo il caso delle invenzioni o dell’accettazione di leggende, non solo agiografiche. Certo che  almeno alcune tracce di  biografie, per santi storicamente poco o nulla documentati,  quali noi leggiamo oggi, sono  quelle stesse nel secolo XVII: ma esse mettono in bella copia quanto i secoli precedenti hanno tramandato. Non c’è bisogno di sospettare chissà quali intenzioni falsificatrici: basta una fede acritica, cioè troppo ingenua. Che, indubbiamente, c’era  anche nel secolo XVII. Se la confrontiamo, però, con il candore della “Legenda aurea” di Jacopo da Varazze (vite di santi, scritte fra il 1255 e il 1266 circa), ci si accorgerà che l’amore per  il miracolistico era nel tredicesimo secolo molto più comune, tanto che ne potè uscire un’opera poetica come quella del beato domenicano. E con una simile mente, storiograficamente sprovevduta, si poteva diventare arcivescovo di Genova, come appunto capitò a lui.   Nel secolo XVI, come abbiamo visto, A. F. Doni, per assestare il bilancio familiare (una famiglia sui generis, sia pure), non esitava ad inventare codici e stampe mai esistiti, onde riempire la sua “Libraria seconda”. Eppure era persona dotta e conosciuta che, dunque, falsificava “con senso critico”, cioè maliziosamente... Vi è, poi, il professore universitario  Giovanni Battista Nicolucci (detto il Pigna), divenuto onorato segretario e temuto collaboratore di Alfonso II, che scrisse nel 1570  la “Istoria de’ prìncipi d’Este”, in cui propone con la più tranquilla impudenza ascendenti di sangue imperiale per la famiglia che serviva: cosa a stento tollerabile persino in un poema  (il Tasso si servì di quelle bubbole per riempire il canto XVII della   “Liberata”). Nel Milleseicento, invece, la  invenzione di antenati adeguati per la vanità di famiglie nobili o la redazione acritica di leggende medioevali per la devozione religiosa, resta nelle mani di oscuri scrittorelli di secondo grado o di romanzieri dichiarati come Luca Assarino e F. F. Frugoni (che dichiarano la intenzione di mescolare storia e invenzione). Si pensi piuttosto ca questi due fatti. Poco dopo il 1632, in Francia, i “padri maurini” (benedettini riformati) pubblicavano studi di storia religiosa (Gallia Christiana; ecc.) e letteraria (Histoire littéraire de la France), con trattati di regole per la cronologia, paleografia e diplomatica che segnarono  l’inizio della storiografia scientifica moderna. Quasi  contemporaneamente (1643), in Belgio, i padri bollandisti  davano mano alle pubblicazioni critiche sulle vite dei santi celebrati nel calendario liturgico (Acta sanctorum), divenute esemplari per tutti i dotti d’Europa. Il  lavoro delle ricerche critiche avviene già nel Milleseicento, ad opera di religiosi:  il Settecento non farà che proseguire.  

Lo stesso, o quasi, si è costretti a costatare per le streghe e le arti magiche. Il gesuita Martino Delrio (1551-1608), citato  nel c. 32° dei Promessi Sposi come uno dei maggiori responsabili delle “carneficine” contro gli operatori di malie, visse e scrisse per lo più nel secolo XVI; ed egli è fra i più giovani  tra gli autori comunque implicati con simili argomenti: l’enorme maggioranza è gente del Millecinquecento.[5] E i gesuiti, pur avendo,  oltre al Delrio, altri studiosi... del suo calibro (Giorgio Scherer e Giorgio Stengel), non firmarono mai una condanna della Inquisizione; ed ebbero anche confratelli che   furono contestatori decisi di simili processi, come i padri Adamo Tanner e Paolo Laymann. Addirittura Federico von Spee, assistente spirituale ai condannati, paragonava quei supplizi alle persecuzioni di Nerone contro i cristiani; e pubblicava nell’anonimato una “Cautio criminalis” (Rinteln, 1631) per protestare più liberamente. Questo si dice per documentare una  situazione in via di miglioramento, rispetto ad un secolo, il Millecinquecento, osannato senza prove come meno retrogrado, come  più ricco di senso critico.  Invece, a proposito di simile acrisia, il peggio stava già alle spalle nel Milleseicento,  almeno a livello di studiosi, anche se tra il popolino la credenza poteva essere più diffusa, proprio per l’influsso della mentalità,  ancor meno critica, del secolo precedente. [6] D’altronde  fu la Germania la nazione ove la credenza ed i processi per stregoneria impazzarono: un illustre criminalista Carpzov , morto nel 1666, si vantava di aver giudicato qualcosa come ventimila streghe nella sua carriera. In Italia i processi contro le streghe furono molto più rari e Roma, in particolare, quasi non ne conobbe.

 

 Addentriamoci ora nei settori particolari del sapere (filosofia, scienze, religione, estetica).

 LA FILOSOFIA. Domina sulle cattedre l’aristotelismo, che trasmette agli studiosi una  chiarezza, nella impostazione del ragionamento ed una correttezza deduttiva, nella sua elaborazione, davvero ammirabili: non poco il pensiero moderno deve alla logica dello Stagirita, anche se più solitamente rifiuta le  conclusioni metafisiche, religiose, antropologiche che la “scolastica” (così è chiamata ormai la filosofia aristotelico-tomista, perchè abitualmente insegnata nelle scuole) ne ha dedotte. E, tra il Millecinque ed il Milleseicento, la “scolastica” presenta novità interessanti: prima di Ugo Grozio (Huig Van Groot: 1583-1645), il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria (ultimi due decenni del Millequattrocento- 1546), nelle sue “Relectiones theologicae”, parla di “diritto naturale”, su cui fonda il diritto delle genti. Il primo  è immutabile ed è la base per il secondo, cioè per una legislazione civile valida per tutta la umanità, legislazione che va codificata in leggi, come “diritto tra le genti”. Tra le componenti di tale diritto internazionale, immutabile ed insuperabile, sta il diritto alla libertà per la Chiesa, al rispetto per la vita e la integrità anche dei popoli sottomessi per giusti motivi (come gli Indios delle Americhe, popolo da educare e far progredire, ma nella coscienza dei suoi diritti umani) e dei popoli belligeranti, anche se sconfitti.

Nell’opera De legibusa ac Deo legislatore (1612), il gesuita Francisco Suarez (1548-1617) continua queste riflessioni e aggiunge altre verità: la società è  coestensiva alla natura dell’uomo e non nasce per arbitrio o capriccio;  la autorità risiede nella volontà comune o consenso dei cittadini, che può favorire sia la monarchia che la oligarchia o la democrazia; tale società tende a comprendere l’umanità intera, ogni popolo e nazione; infine, i patti liberamente stipulati fra i popoli devono essere rispettati....

Tuttavia non si può negare che la sequela del “maestro di color che sanno” (Inferno, 4, 131) porta con sè qualche  conseguenza  rovinosa. A parte la tendenza della facoltà di Padova (ormai tradizionalmente inclinata ad un aristotelismo non corretto dal tomismo,  secondo il modello di Pietro Pomponazzi) alla negazione della immortalità personale (Cesare Cremonini, 1550-1631, fa scrivere sulla sua tomba: “Hic iacet Cremoninus totus”), è da tener presente la rigidità filistea  nel voler “iurare in verba magistri”, cioè nella fanatica adesione alle tesi di Aristotele. Tale attitudine acritica renderà più difficile alla cultura universitaria non solo l’abbandonare il sistema tolemaico (lo stesso Cremonini si rifiuterà di guardare nel cannocchiale)[7], ma l’accettare il metodo induttivo delle nuove scienze, perchè sembrava decapitare quello deduttivo, basato non sulla esperienza ma sulla catena dei sillogismi, così perfettamente teorizzati dal filosofo greco e resi ancor più maneggevoli dalla brillante nomenclatura introdotta dalla filosfia medioevale (avremo occasione di riparlarne a proposito dell’origine del termine “barocco”).

Eppure non si può nascondere il valore del ragionamento sillogistico e dell’argomentare secondo le regole della logica aristotelica: essa comunica un tale ordine mentale ed una tale chiarezza nel processo di ricerca della verità, che  acuisce il senso critico della persona, cioè la capacità a distinguere il vero dal falso, la coerenza di un procedimento di ricerca o il suo deragliamento.[8] Anche quando un simile argomentare, posto sulle labbra di don Ferrante nel capitolo finale dei Promessi, si mostra infantile e  ridicolo per  il semplicismo balordo delle premesse (sono solo  quattro le “sostanze” che costituiscono il mondo: terra, acqua, aria e fuoco!), esso presenta ancora un vantaggio fondamentale: rende del tutto facile scoprire dove è l’errore da correggere o demolire. In fin dei conti,  i filosofi dell’Illuminismo ipercritico escono dalle scuole aristoteliche dei gesuiti.

Abbiamo letto in Natalino Sapegno un elogio del pensiero italiano nel nostro secolo, a proposito degli studi sui rapporti fra morale e politica: in questi studi, la formazione scolastica  si rivela nell’acutezza degli studiosi, padroni di una casistica analitica e duttile.

Abbiamo in Italia un  filosofo “sui generis”, cioè singolare: è Tommaso Campanella (Stilo, Reggio Calabria,1568- Parigi,1639), che dovremo  ricontattare come scrittore di poesie. Le sue tesi suscitano contese non piccole,  perchè sembrano, da una parte, prevenire  alcune geniali  intuizioni di Biagio Pascal e, dall’altra, riprendere le proposte  più estreme del  comunismo platonico come della teocrazia medioevale. D’altronde in lui si mescola lo sperimentalismo di Bernardino Telesio con il platonismo di Marsilio Ficino. Un’anima molteplice, purtroppo non concorde nè coerente. Per gli aspetti positivi, dobbiamo notare l’interesse per l’uomo e la sua psicologia: prima conoscenza dell’uomo è il proprio intimo, attraverso una “sapientia indita” (innata); tale conoscenza di se stesso condiziona quella delle cose esterne, che diventano una “sapientia addita” (aggiunta), modificazione di quella innata. Anche la sua metafisica, che deriva dal mistero trinitario, pure  risente  del dinamismo umano, come vita, intelligenza del vero e volontà di bene: sono le tre “primalità”  che  stanno al fondo di ogni essere e riflettono la Potenza del Padre, la Sapienza del Figlio e l’Amore dello Spirito santo, sebbene nelle creature tali primalità siano mescolate con  il “non essere” della impotenza, ignoranza ed odio. Anche in campo religioso egli rischia di prevenire Pascal, [9]quando afferma che il cristianesimo è lo spiegamento perfetto di quella “religio abdita” (nascosta od   inconscia: sentimento religioso) che è presente in ogni spirito, sicchè Cristo  appare come la “razionalità universale”, il chiarimento e l’esaudimento delle aspirazioni più profonde dell’uomo. Ma è facile intravedere qui il primo urto di contraddizione: l’animismo universale (ed anzi una forma di panteismo plotiniano) si concilia difficilmente con la sua fede nella verità cristiana, proclamata nell’ultima sua grande opera (la Theologia, in 30 libri). La madornalità della sua confusione mentale si rivela, poi, nei corollari che, imperterrito, egli deduce da questa parentela dell’universo con la onnipotenza e la onniscienza di Dio: se nel creato è presente la prescienza di Dio, si potrà dedurne il futuro della vita individuale (astrologia) e si potrà dominare le forze della natura con opportune pratiche, che la mettano al proprio servizio (ecco i venti libri “De sensu rerum et magia”;  e “Universalis philosophiae seu  Metaphysicarum rerum iuxta propria principia libri tres”). Quanto ai sogni di comunismo  ed economico e sessuale, in uno stato così dispotico da prevedere la schiavitù e la selezione dei pronubi per garantire la salute dei  futuri cittadini (“La città del Sole”, del 1602, potrebbe, per certi squarci, essere intitolata  “La tirannia della Malanotte”) sono frutto di quella stessa ingenuità che lo spingeva a sognare una palingenesi universale, da cominciare con una rivoluzione (tentata di fatto nelle terre della sua Calabria: 1599). E sono da accomunarsi al progetto per  una “Monarchia del Messia”, la cui realizzazione affidava, prima, alla Spagna e, poi, alla Francia,  con l’intento di farvi convergere tutti i popoli, convertiti, così da  stabilire un impero universale, in cui la Chiesa avrebbe un potere politico pieno e diretto   (Atheismus triumphatus”, 1607).  Il tutto, quando il cardinal Roberto Bellarmino ribadiva che la Chiesa ha un potere solo indiretto, in dipendenza dalle materie spirituali di comune dominio, sulla potestà laica (De potestate summi pontificis in rebus temporalibus: 1610). Ma, a spiegare le incoerenze irrisolte nel Campanella, stanno due fatti. Da una parte, egli afferma più che dimostrare: le sue sono intuizioni folgoranti, ma gratuite; è troppo poeta per essere un  vero filosofo ed è troppo filosofo per essere un  vero poeta. In secondo luogo, il suo pensiero si è costruito durante periodi contrastanti della sua vita, esteriore ed interiore, che avremo modo di  scorrere a proposito delle sue poesie. Molte opere appartengono a tempi diversi della sua esistenza intellettuale e morale, tempi che si contrappongono per fede e miscredenza, ortodossia  ed eresia, platonismo idealistico e materialismo telesiano: come potrebbero consentire fra loro?

 

LE SCIENZE.  Il pensiero scientifico e le sue applicazioni tecnologiche trovano nel Milleseicento quasi un tempo di bonaccia, con prodromi, significativi ma sparsi, del ciclone di progresso complessivo dei secoli seguenti.

In tale contesto di lampeggiamenti  premonitori, l’Italia ha le sue “cime tempestose”,  e trova una sua parola da dire con più di un inventore. E’ in Italia e nel Milleseicento che si meccanizza il processo per lavorare la seta, come da Venezia esce il segreto per la laminazione del vetro, custodito gelosamente da secoli. Ma soprattutto si impongono tre personalità: Galileo Galilei, Marcello Malpighi, Evangelista Torricelli.

Il più grande è indubbiamente  Galileo Galilei, le cui scoperte astronomiche sono praticamente contemporanee a quelle di Giovanni Keplero, visto che questi scoprì le leggi famose già alla fine del Millecinquecento, ma le sue pubblicazioni avvenenro solo nel 1609 (Astronomia nova seu physica coelestis tradita commentariis de motibus stellae Martis), nel 1622 (Harmonices mundi: contiene la terza legge del moto degli astri, quella della proporzionalità fra il quadrato dei periodi di rivoluzione nei pianeti ed il cubo del semiasse maggiore delle loro orbite  ellittiche) e nel 1627 (Tabulae Rudolphianae: contiene la posizione relativa dei pianeti nel sistema solare). Ora Galileo pubblicava il Sidereus Nuncius nel 1610, il Dialogo dei Massimi sistemi nel 1632 ed i Discorsi  intorno a due nuove scienze nel 1638. Nel 1687 Isacco Newton pubblicherà nei “Philosophiae naturalis principia mathematica” la legge della gravitazione universale. Non insistiamo sul contributo di Galileo alla conferma dell’ipotesi copernicana, perchè neppure il “Dialogo” adduce prove definitive. Piuttosto andranno sottolineati altri suoi apporti decisivi sia alla fisica sia alla metodologia delle scienze. Egli continua l’opera di Leonardo da Vinci: se questi aveva già scoperto la legge della “inerzia dei corpi” (nello stato di quiete o di moto rettilineo uniforme), Galileo intuisce che la accelerazione di un corpo in movimento è proporzionale alla forza della spinta  cui il corpo è sottoposto (principio di “azione delle forze”); e scopre anche le leggi per la composizione dei moti. Anche in questo campo, Newton culminerà con la dichiarazione della legge di azione e reazione (“ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”). Ma fondamentale è il suo contributo al metodo per tradurre in leggi  sicure le ipotesi di lavoro scientifico: le esperienze particolari assurgono a valore universale, quando si riesce a  mettere a punto le premesse per un esperimento che si realizzi (o per una macchina che funzioni) solo se la ipotesi è vera (Discorsi intorno a due nuove scienze).[10] A lui si deve anche la scoperta dell’isocronismo del pendolo (intuizione fatta a diciannove anni!) e della bilancia idrostatica.

Marcello Malpighi (Bolgona, 1628-1694) applica il microscopio allo studio del corpo umano, giungendo a scoprire i capillari sanguigni, i globuli rossi ed  a confermare la circolazione del sangue; e dando il suo nome sia ai “gloméruli” nei reni che filtrano il sangue sia ai “noduli” della milza che sono aggregati linfatici. Per questo, egli è considerato, assieme a Nehemiah Grew, il fondatore della istologia.

Evangelista Torricelli (Faenza 1608-1647), discepolo e successore di Galileo a Firenze, è l’inventore del barometro, basato sulla intuizione che l’aria è pesante e, perciò, esercita pressione anche sui liquidi, compreso il mercurio.[11]

 

LA CULTURA RELIGIOSA. Pur con l’aiuto di qualche provvedimento oggi sostanzialmente non condivisibile,[12] tuttavia anche in Italia la riforma portò ad una attività di riflessione e produzione intellettualmente impegnata, degna di ogni rispetto. Ad esempio  il “Catechismo” di Roberto Bellarmino (cardinale e santo: Montepulciano, 1542- 1621) edito la prima volta nel 1597, ebbe nel corso del Milleseicento qualcosa come quattrocento ristampe,   eguagliando la fortuna di quello  di S. Pietro Canisio (olandese: Nimega, 1521-1597) che conobbe, vivente l’autore, più di duecento edizioni e la traduzione in dodici lingue. Alla diffusione di una cultura cristiana fino nei villaggi sperduti provvidero i parroci, obbligati dal Concilio di Trento alla catechesi domenicale  per i loro parrocchiani; ma aiutarono anche dei laici impegnati allo stesso compito attraverso le “confraternite della dottrina cristiana”, sviluppatesi specialmente a Roma ed a Milano. Un contributo  molto importante alla cultura storica fu dato dalla disposizione di Trento a tenere un registro dei battesimi, dei matrimoni e dei decessi: sparirà così la impossibilità a stabilire la data precisa di nascita che abbiamo incontrato anche in sede di storia letteraria per  vari personaggi. Fin  oltre la rivoluzione francese, i registri parrocchiali conservano la memoria delle date fondamentali  per le grandi personalità, come per le umili persone, vissute nel mondo cattolico. La predicazione dei religiosi, che spesso erano più istruiti del clero diocesano, diffondeva capillarmente la istruzione con corsi straordinari in Quaresima od altre circostanze particolari. Della sentita vita religiosa un frutto sono varie opere di spiritualità, scritte in Italia (“Combattimento spirituale” del teatino Lorenzo Scupoli, 1530 ca-1610: l’opera è del 1589, con un centinaio di edizioni; quella italiana uscì nel 1616), in Spagna (“Esercizio della perfezione e delle virtù cristiane” di Alonso Rodriguez: 1538-1616: l’opera, in tre volumi, è del 1609) od in Francia  ( “Introduzione alla vita devota”, “Trattato dell’amore di Dio”, di S. Francesco di Sales, 1567-1622: le opere sono scritte fra il 1608 ed il 1619). Anche il laico Federigo della Valle (1560 ca- 1628) scrive tragedie ispirate a tematiche relgiose (Ester, Judith, La reina di Scotia), così come per un teatro cristiano scrivono il francescano Benedetto Cinquanta da Milano (Il ricco Epulone| Il figliuol prodigo| Il fariseo e il pubblicano| Santa Agnese| La peste del 1630: questo frate osservante    scrive fra il 1621 ed il 1632) e l’ex gesuita Emanuele Tesauro (1572-1675: Ermenegildo).  D’altronde i gesuiti, col metodo della “ratio studiorum”,  esigevano il latino parlato fin dalle prime classi e rinnovavano i fasti di un classicismo anche creatore, come nella scrittura e rappresentazione di opere teatrali, recitate dagli alunni: in Germania, padre Giorgio Bidermann (morto nel 1639) produsse  tragedie non disprezzabili (Cenodoxus| Adrianus| Philemon martyr). La diffusione della cultura è aiutata  da altri ordini religiosi dedicati alla istruzione-educazione dei giovani: accanto ai gesuiti, vi sono infatti barnabiti, teatini, somaschi e scolopi.

Anche l’architettura delle chiese (ad una sola navata, col pulpito quasi al centro della parete di sinistra, per raggiungere appieno l’uditorio) facilitavano una  istruzione etico-religiosa per quanti  frequentavano le varie iniziative di predicazione, domenicale o straordinaria (specie i “quaresimali” o corso di prediche-istruzioni quotidiane in tempo di Quaresima). Iniziarono  in questo secolo le “missioni al popolo”, portate in Italia dai figli di quel gigante della carità ed uomo dal multiforme ingegno che fu S. Vincenzo de Paoli:  essi giunsero qui   nel 1638 e nel 1668 erano anche a Napoli. Tra i nostri predicatori, però, il principe fu il gesuita Paolo Segneri il giovane, nipote dell’omonimo e famoso quaresimalista  del Millecinquecento. Nato a Nettuno nel 1624 e vissuto fino al 1694, egli abbandonò lo studio e l’insegnamento delle scienze, per dedicarsi interamente alla predicazione: nelle corti, dove è ricercatissimo, come fra il semplice popolino (Panegirici sacri| Quaresimale| Prediche dette nel palazzo apostolico| La manna dell’anima| Il cristiano istruito| L’incredulo senza scusa| Lettere di guida spirituale a suor Umilia Garzoni). Suo confratello e continuatore fu p. Fulvio Fontana (muore nel 1723). Altri gesuiti famosi furono il beato Antonio Baldinucci (muore nel 1717), p. Pietro Gravita, che percorre predicando la campagna del Lazio; e S. Francesco De Geronimo, che copre colla predicazione l’Italia meridionale, morendo nel 1716. A Torino si prodigò il beato Sebastiano Valfré, oratoriano (della congregazione di S. Filippo Neri: muore nel 1710). Altri predicatori efficaci furono il p. Paolucci di Calboli, il venerabile Bartolomeo Cambi da Saluthio (nel Casentino), p. Ginepro Parascandolo. Ma anche i laici si impegnavano sul fronte della istruzione catechistica: a Roma fu eretta, da Paolo V, l’Arciconfraternita della dottrina cristiana  organizzata dal laico milanese Marco de Sadis Cusani; a Napoli si impegnarono i padri gesuiti Carlo Carafa e Francesco Pavone; a Firenze, all’origine della congregazione, messa sotto la protezione di S. Francesco, vi è il beato Ippolito Galantini.  La fondazione di gruppi stabili per le “missioni al popolo” fu più difficoltosa: J. B. Vives e san Giovanni Leonardi ne tentarono l’organizzazione, ma la cosa riuscirà solo nel secolo seguente a padre Giorgio Maria Martinelli, a Milano (1721) ed  S. Alfonso M. de’ Liguori (fondatore dei Redentoristi). Tutti questi personaggi sono benemeriti anche di una apertura mentale maggiore della gente, anche analfabeta: senza la loro opera, la superstizione, dura a morire nelle zone di campagna, sarebbe stata invincibile; essi portarono chiarezza di fede e coerenza di azione in molti angoli, religiosamente trascurati, d’Italia.

Esponenti eccezionali della cultura cattolica furono il cardinale Cesare Baronio (1538-1607), iniziatore della storiografia ecclesiastica  critica (1588); ed il già nominato cardinale Roberto Bellarmino. Il primo con i dodici volumi degli Annales ecclesiastici,  esamina  anno per anno la storia della Chiesa a cominciare dal 1198. Benchè oggi, dopo le scoperte di  documenti ulteriori e di una loro analisi più avveduta, gli “Annali” appaiano imperfetti, tuttavia essi mantengono un loro valore per la vastità nella ricerca delle fonti, per lo spirito critico usato nella loro utilizzazione, per l’onestà radicale della disamina, sicchè ebbero edizioni fino alla ventunesima (a metà del Millesettecento), nonchè tentativi di continuazione e  riassunti ad opera di altri studiosi. Meritarono perciò le lodi di Ludovico Antonio Muratori., tanto più giustificate in quanto  l’autore si inoltrava per un campo ancora vergine, da dissodare, si può dire, da principio. [13] Egli annotò pure con spirito critico il Martyrolgium romanum, cioè la  commemorazione dei santi di ogni giorno,  le cui lodi   non erano sempre appoggiate su dati certi, ma erano affidate alle pie  tradizioni di tempi poco esigenti in fatto di critica storiografica.

 Roberto Bellarmino (1542-1621) come studioso è soprattutto famoso per le “Controversie” (Disputationes de controversiis christianae fidei); come uomo di Chiesa è noto come direttore spirituale di S. Luigi Gonzaga, come redattore della forma definitiva della Ratio studiorum (piano di studi) per la Compagnia di Gesù (1586, ma edita solo nel 1599), per la chiarezza ferma di suggerimenti e pronunciamenti (famoso il memoriale a papa Clemente VIII “De rebus reformandis” cioè sulle cose da riformare per la purificazione ulteriore della Chiesa), per lo zelo riformatore come vescovo di Capua e per la soluzione di compromesso sulla spinosa questione filosofico-teologica “de auxiliis” che vedeva opposti domenicani e gesuiti.[14] E’ notevole, inoltre, che egli lasciò l’impressione di uomo equanime e sereno, benchè avesse avuto parte nei processi contro G. Bruno, T. Campanella e, nel 1516, contro G. Galilei; ed avesse in più difeso la posizione della santa Sede contro i decreti  di Venezia che aveva fatto giudicare due preti, rei di delitti comuni, dai propri tribunali (era consuetudine secolare che essi fossero giudicati solo da tribunali ecclesiastici); e che aveva tarpato la possibilità di acquisto e costruzione da parte di enti ecclesistici, col sottoporla all’obbligo di un permesso di volta in volta (Paolo V reagì col lanciare l’interdetto sulla città, la quale scacciò i gesuiti ed i cappuccini, perchè, ottemperando all’interdetto, sospesero la celebrazione delle Messe e chiusero le chiese).[15] A lui risale anche la formula sintetica che definisce l’efficacia intrinseca dei sacramenti, nonostante la indegnità del celebrante (“i sacramenti agiscono ex opere operato e non ex opere operantis”: è tuttora il modo più chiaro per dichiarare la fede della Chiesa cattolica al riguardo). Ma, a parte le molte opere di catechesi e teologia, la sua fama resta legata, come si è detto, alle “Controversie”: esse per la prima volta affrontavano tutto l’arco delle differenze di pensiero coi protestanti e documentavano con tale chiarezza ed efficacia la posizione cattolica, che si ebbero edizioni dell’opera ancora nel Milleottocento; ed i Protestanti, oltre a contrapporvi più di duecento  libri diversi, fondarono un “collegium antibellardinianum” il quale per mezzo secolo polemizzò contro l’autore che era ritenuto il maggior loro critico. Le “Controversie”  erano scritte anzitutto con una onestà a tutto campo: prendendo le mosse dalle posizioni protestantiche,  egli cita per intero passi delle opere più significative  sul punto controverso, di solito dalle opere del grande Martino Chemnitz, di cui si scrisse “Si Martinus (Chemnitz) non fuisset, Martinus (Lutherus) non stetisset” (cioè, se non ci fosse stato Martino Chemnitz, l’opera di Lutero non avrebbe resistito). Inoltre, le  citazioni che confutano le posizioni protestantiche dimostrano una cultura e  biblica e patristica[16] da risultare persuasive al massimo e difficilmente  disputabili.

Ci si meraviglierà che le grandi opere di teologia e dogmatico-apologetica ed ascetica (lo Scupoli, il Rodriguez, Francesco di Sales) appaiano tutti nei primi decenni del secolo: non si dimentichi che la guerra dei Trenta anni (1618-1648) ha sconvolto il mondo non solo germanico (la Germania fu spopolata, perdendo tre quarti della popolazione, scendendo da venti a sei o sette milioni di abitanti), ma quello ispanico (con la metà del secolo, la Spagna cessa di  produrre opere letterarie di grande significato) ed italiano, mentre solo la Francia esce rafforzata e pronta a sostituire il primato culturale della Spagna in tutta l’Europa. Dimenticare tale conflitto immane nello studio della lettere o dell’arte visiva ecc. nel Milleseicento ci sembra una grave lacuna: ci si preclude una delle chiavi principali per comprendere l’andamento  della cultura del secolo.

Ma non mancano tensioni e sfilacciamenti nella complessiva unità e coerenza del pensiero cattolico. A parte le credenze di iperspiritualismo plateali (stregoneria, magia, astrologia) ed i tre casi singolari del Bruno, del Campanella e di Galileo (già visti o da  esaminare più avanti), restano le animosità antiromane di un Sarpi, (che studieremo) e l’eresia  del quietismo, nonchè la nascita del libero pensiero con i libertini a Venezia e gli ateisti a Napoli (che ci interessano subito).

All’origine del “quietismo” sta il teologo spagnolo Michele Molinos (1628-1696). I libri che contengono la sua dottrina eterodossa (La guida spirituale, ad esempio) furono scritte fra il 1675 ed il 1676; la condanna arrivò nel 1687. Le premesse sono calviniste, ma le deduzioni sono ad un tempo più coerenti e più rovinose.  Se la corruzione conseguente al peccato originale è definitiva ed irredimibile, non si riesce a capire perchè ci si debba sforzare di assicurarsi la “elezione fra i salvati”, attraverso  una onerosa condotta, che è poi predicata come pura opera della Grazia, senza possibilità alcuna di collaborazione della volontà umana... Tanto vale, allora, rassegnarsi alla spontaneità delle passioni e del peccato, nella quiete più totale dello spirito,  abbandonandosi con piena fiducia a Cristo (che redime infallibilmente l’uomo, essendo i suoi peccati frutto della discendenza da   Adamo  e, quindi, inevitabili). Inutile ogni sforzo e resistenza: rimane solo la totale fede  fiduciale nella misericordia onnipotente di Dio, per i meriti di Cristo Signore. Questo atteggiamento poteva diventare facilmente (ed in alcuni purtroppo diventò) un “carnevale di fatto in una quaresima di buone intenzioni”, ma è la conclusione più coerente della dottrina della “predestinazione” ed è posizione molto più logica   che non il rigorismo calviniano, che cerca di reintrodurre,  sotto il controllo civile, la obbligazione che non trova più un fondamento morale, per la pretesa perdita totale della libertà interiore, a seguito della colpa prima.  In Italia  Michele Molinos operò nell’ambiente romano, ma era stato preceduto dal gesuita Achille Gagliardi, cui si ispirò il più noto  rappresentante del movimento, il card. Pier Matteo Petrucci, che dovette ritrattare nel 1687.

Meno influì in Italia il Giansenismo che imperversò nei paesi francesi e che era una forma attenuata di calvinismo: la coscienza della nullità morale del’uomo e della dipendenza unica da Cristo per la salvezza condusse alla paura di accostarsi alla Eucaristia, al di  fuori  del precetto pasquale; e ad imporre  il metodo del rigorismo (o “probabiliorismo”) per risolvere il dubbio circa la liceità o meno di una azione (mentre basta che sia seriamente probabile la sua onestà: probabilismo)[17].

Ma tempeste ben più gravi erano già in atto, sia pure su scala ridotta, nell’Italia del Milleseicento. Non si trattava più di deviazioni dogmatiche all’interno della fede cristiana (eresie), ma del rifiuto del cristianesimo tutto o addirittura dell’abbandono di ogni fede religiosa. A Venezia, a Padova, a Roma, a Firenze ed a Pisa ci sono i primi sintomi del “libero pensiero” che giunge da Francia ed Inghilterra, dove le lotte religiose finiscono per screditare ogni credenza religiosa: sono i prodromi del razionalismo, deistico od ateo, del secolo successivo. L’accademia degli “Incogniti”, fondata a Venezia nel 1630 da Giovan Francesco Loredano (ed a cui appartennero Ferrante Pallavicino e Gerolamo Brusoni) è un precorrimento ed un punto di riferimento per i “libertini” d’Italia, al passo colla gioventù ed intellettualità più sbrigliata d’Europa, un’Europa  che va sfuggendo ad ogni controllo religioso-morale dopo la vittoria francese della Guerra dei Trenta anni. La lascivia delle pubblicazioni, più o meno di contrabbando, che uscirono da tali circoli (ad esempio, “Il cimiterio”, epitaffi giocosi del Loredano)  finiscono per confermare che religione e moralità si danno la mano, sicchè ove declina l’una, l’altra ne risente e soffoca. Difatti a Napoli si giunge a fine secolo a scoprire un gruppo di “ateisti” (1688-1697), che completano la parabola discendente delle due catene di valori: il “giovin signore” del “Giorno”  pariniano è in arrivo.[18]

 

PENSIERO ESTETICO.  Sarebbe forse più appropriato parlare di “poetica” che di estetica, chè la trattatistica di cui dovremo occuparci riguarda solo la espressione verbale con pretese artistiche. Ebbene, essa costituisce una delle testimonianze più penose a carico della cultura del secolo. Il che è, però, abbastanza ovvio, una volta riconosciuta come fallita, nel suo complesso, la sua produzione  letteraria. Dobbiamo, infatti, ripetere che non è praticamente mai la moda poetica che dipende dai dettami  dal pensiero estetico, ma viceversa questo teorizza quanto i poeti (o versificatori) da tempo vanno attuando per estro o capriccio personale o per imitazione gregaria. Le varie  teorési poetiche sorgono infatti (le eccezioni sono ben rare) quando una preferenza di tematiche, una tecnica di stile od un’aura di emotività già hanno abituati i fruitori meno critici a considerare come ovvio od unicamente autentico un certo genere di poesia. Aristotele stesso scrive la sua Poetica appellandosi ai modelli dei poemi e del teatro greco; il Bembo eleva a modello di vera poesia il Petrarca; Bernardino Tomitano (Quattro libri della lingua thoscana: 1570) e Camillo Pellegrino (Del concetto poetico: 1598) teorizzano il concettismo come essenza della poesia quando il fenomeno vigoreggiava in Italia da molte generazioni, dietro l’affermarsi del dominio aragonese e spagnolo. Quacquaracquà del pensiero, avevano seguito gregariamente la moda prevalente, facendosene campioni, anzichè tener gli occhi fissi alla esperienza universale della poesia, onde giungere alla verità perenne di lei, liberi dagli “idòla fori et tribus”(gli idoli della piazza e della tribù) che frastornavano le loro orecchie col clamore di chi ha successo, colla  prosopopea di chi, il successo, vuole mieterlo ad ogni costo. Ma, “così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo... per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse a toccare poi qualche scappellotto”.[19]

Ma come non tutto il Milleseicento è secentista, così non si deve credere che tutti i teorici di poetica del secolo siano pienamente d’accordo col fenomeno. Il guaio è che non  sostengono con dimostrazioni (con “poichè”) il residuo buon senso, che detta loro titubanze non poche; che vorrebbe porre una misura alla esorbitanza di immagini e giochi di parole; che suggerisce di armonizzare le regole della retorica classica con gli esempi del nuovo stile imperversante. E capita, allora, che questi stessi pavidi oppositori scrivano poi, succubi dell’ambiente, con qualche concessione balorda al gusto diffuso. E, infine, la debolezza di questi contestatori sta nell’aver affidato le loro riserve in scritti secondari, non direttamente intesi a demolire la artificiosa proposta concettista per riaffermare la spontaneità della espressione poetica, ma destinati a polemiche con un singolo scrittore (come Tommaso Stigliani che si richiama all’ideale di misura e di proprietà linguistica nell’Occhiale, che è una stroncatura dell’Adone di G. B. Marino); oppure come parte di un complesso di articoli di brillante taglio giornalistico, ma  dispersi su troppi aspetti  del costume  del tempo (Ragguagli di Parnaso, di Traiano Boccalini). Al contrario, i sostenitori del barocco letterario escono all’aperto con libri ponderosi e prese di posizione perentorie.

Richiamiamo brevemente i precedenti del Millecinquecento circa la teorizzazione del concettismo. Francesco Robortello difende il “mirabile” come qualità poetica vincente rispetto al “leggiadro”; Bernardo Tasso, G. B. Giraldi Cinthio, G. B. Nicolucci (detto il Pigna) e Antonio Minturno insistono sulla meraviglia come ingrediente artistico-letterario (il Minturno giunge a scrivere. “Ma chi non sa il fine della poesia essere la meraviglia?”). Torquato Tasso afferma poi che il poema eroico “ha per fine la meraviglia, la quale nasce solo dalle cose sublimi e magnifiche”. Il primo, però, che ha teorizzato la coessenzialità di concettismo e poesia fu Bernardino Tomitano, fin dalla prima edizione dei suoi “Libri della lingua toscana”. Si è  già, però, anche indicato che non tutti i teorizzatori di poetica del secondo Millecinquecento sono favorevoli a ridurre l’arte al concettismo.

Prendiamo in considerazione, ora, gli studiosi del Milleseicento.[20]

                      Paolo Beni. Nato a Candia nel 1572, morì a Padova nel 1625. Fattosi gesuita, uscì dalla Compagnia per contrasti coi superiori e insegnò poi, in varie città, filosofia, teologia, lettere classiche, inserendosi nelle polemiche letterarie del tempo. Così, nel 1600, intervenne a sostegno del “Pastor fido” del Guarini e della indipendenza del fatto artistico da quello morale; nel 1607 difese la superiorità del Tasso rispetto agli altri poeti epici (Comparatione di Homero, Virgilio e Torquato tasso); si schierò per la “italianità” della lingua (non solo parole toscane, perciò) e per la sua modernità (uso del parlato, diremmo oggi, contro l’arcaismo trecenteggiante della Crusca); sostenne la superiorità dei moderni rispetto agli antichi e, come ovvia, la evoluzione delle lingue... La sua opera più importante sono i “Commentarii in Aristotelis poeticam” (Commenti alla Poetica di Aristotele: 1613). Il suo ragionamento rischia di essere un esempio notevole del famoso sofisma “canis a non canendo” (la parola “cane” deriva dal fatto che il cane non canta: “cane, dal non-cantare”. Egli infatti si dichiara tanto più vicino agli antichi (Aristotele, Orazio), perchè e quanto più si stacca dai contemporanei! Dopo questo principio, che egli dà per assiomatico ma che rimane tutto da dimostrare, prosegue con altri dogmi per lui, ma non per tutti,  evidenti. La poesia è favola; dunque, è finzione; dunque è inganno. L’inganno in tanto è concepibile in una attività umana, in quanto è sorgente di diletto (finzione od inganno dilettevole). Il “diletto estetico” non è specificato meglio e potrebbe così  giungere a far coincidere l’arte con l’esibizione della violenza e con  la pornografia. Non è il caso del Beni, ex-gesuita, sì, ma ancora sacerdote coerente. Egli si contenta di ricuperare con le sue deduzioni quasi sillogistiche, il “meraviglioso” all’arte.  Che non vuol dire “meraviglioso concettista”. Bisogna qui puntualizzare che il Beni non tratta dell’arte letteraria  in genere, ma di quella teatrale in particolare. Lo “sbalorditivo” si traduce nel groviglio della peripezia. Visto che le cose ovvie e trite non suscitano nè meraviglia nè diletto, occorre affidarsi all’incredibile per suscitare interesse=meraviglia=diletto. Ecco allora la funzione della peripezia, come “svolta imprevedibile dell’azione drammatica”; ecco lo splendore della scenografia (con fiori, perle, diademi...). Il “cane” che deriverebbe il suo nome dal “non saper cantare” non abbaierà concettini (se abbiamo ben capito), ma farà piroette e giochi da circo equestre. La impudenza di identificare la poesia con  la sproporzione marinista non è ancora spuntata all’orizzonte, ma comincia ad albeggiare. Abbiamo pazienza che arriverà.

                        Matteo  Peregrini (o Pellegrini). Nato a Loiano (Bologna) attorno al 1595, morì a Roma nel 1652. Fu professore di logica e morale alla università patria, consultore della repubblica di Genova e, infine, custode della Biblioteca vaticana. Filosofo e letterato,  non compose però nulla di fittizio e puramente letterario, ma solo trattati di morale e di poetica. Però nel 1639  scrisse l’opera intitolata Delle acutezze che altrimenti spiriti, vivezze e concetti si appellano; e, nel 1650, “I fonti dell’ingegno ridotti ad arte (altri trattati sono, senechianamente, educativi: Il savio in corte; Difesa del savio in corte; Politica massima). Sostenitore della poesia “oggidiana” (contemporanea a lui), ne vede l’essenza nelle acutezze, di cui però condanna, in nome del “decoro”, gli eccessivi artifici retorici. Non nega che certe espressioni siano “mera nobile buffoneria”, ma l’acutezza rimane per lui il centro dell’arte verbale e  compendia in sè tutte le altre figure retoriche. Egli afferma che “...l’artificio ha luogo solamente o principalmente non già nel trovar cose belle, ma nel farle; e l’oggetto del plausibile a nostro proposito (a nostro  parere) non s’appartiene all’intelletto, che solo cerca la verità e scienza delle cose, ma bensì all’ingegno, il quale tanto nell’operare, quanto nel compiacersi ha per oggetto non tanto il Vero quanto il Bello”. E benchè cerchi di salvare qualcosa della classicità equilibrata e ragionevole, appellando alla differenza fra le acutezze “seriose” e quelle “fittizie”, ne  affida però il criterio ad un così misterioso senso della “acconcezza” (sic!), che essa diventa una  distinzione del tutto soggettiva. Difatti nell’altra opera, Fonti dell’ingegno, afferma che tale facoltà (l’ingegno) non vuole pastoie, cioè non tollera freni o regole. Esso è formato da “spiriti sottilissimi, nobilissimi e però guizzanti, svolazzanti, scintillanti”. E, in concreto, ammannisce esempi abbondantissimi di concettini e argutezze: fonti e, appunto, stimoli per l’ingegno.[21]

Decisamente la moda imperante, elevatasi già da fatto a diritto con il Tomitano e lo Speroni, si accampava ora nella cittadella della filosofia, come dottrina estetica e poetica sistematica: il futurismo degenerava in cubismo, l’astrattismo in arte rock, il dadaismo in  pittura non figurativa, l’ermetismo in metafora insensata, il liberoparolismo in  inconscio ulissico-jamesiano,  il surreale fantasmatico nell’astruso stefanodarrighiano di Horcinus Orca, la musica jazz in ritmi pop...: “e più direi, ma il ver di falso ha faccia” (Gerusalemme, IX, 23). E i critici, i mass-media, i compratori alle aste o gli editori di libri davano loro  favore, spazio e danaro.

A dar ragione ai secentisti ci si misero (segno mortale!)[22] anche i preti, i religiosi ed i cardinali. A parte il Graciàn, in Spagna (di lui si è parlato testè in nota), in Italia si dan da fare il cardinale Pietro Pallavicino-Sforza ed il gesuita Emanuele Tesauro.

                        Pietro Pallavicino Sforza (1607-1667). E’ molto più noto come  lo storico-polemista [23] del Concilio di Trento (in opposizione all’opera di Paolo Sarpi), che non come teorico di letteratura. Ma  per tale opera storiografica, come per quelle  teologico-filosofiche, rimandiamo in nota. Qui ci interessano  i due lavori di filosofia estetico-letteraria, cioè la parte nel trattato Del Bene (1644) che  si occupa di poetica e retorica; e tutte le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo (1646: ampliato nel 1662 come “Trattato dell’arte e dello stile del dialogo”).  Egli  dichiara che la poesia per sè cerca il verosimile e non la verità, per cui partecipa bensì delle prime due operazione della intelligenza umana (astrazione delle idee universali dalle sensazioni particolari| collegamento delle singole idee nel giudizio o proposizione o frase), ma non fa uso del terzo gradino della razionalità, quello del sillogismo (o raziocinio) che mette a confronto tre idee nelle prime due (premesse) e ne  deduce la coincidenza (o meno) fra loro in una terza frase (o giudizio o proposizione), che si chiama “conclusione”. Ora, comunque si debba giudicare   l’opinione del Pallavicino circa la bella pretesa che la poesia non si interessi mai della verità; o la sua ignoranza che la “razionalità” dell’arte stia specificamente nell’astrazione delle emozione dai sentimenti, è doveroso però riconoscere che egli elabora la sua proposta nell’ambito  della “Logica”  aristotelico-scolastica, per la quale esistono bensì gradi di diversa profondità nell’uso della intelligenza, ma per la quale anche i primi due gradi sono operazioni unicamente umane, e quindi pienamente intelligenti e razionali, senza possibilità di relegarli in attività prerazionali o subrazionali o, comunque, a metà strada fra la conoscenza animale e quella pienamente umana. E’ penoso, allora,  sentir “bucinare”, a proposito delle idee del Pallavicino,  di precorrimenti vichiani e,attraverso la dottrina  dei “corsi storici”,  addirittura idealistici.[24]

Sbarazzato il terreno da questo malinteso, allora ci si potrà fermare più distesamente sul pensiero del porporato circa il fenomeno del barocco, senza sospettare mutamenti nè contraddizioni fra quanto sostenuto nel trattato “Del Bene” e nelle “Considerazioni  sopra l’arte dello stile del Dialogo”.   Intanto egli, ignorando l’opera precedente del Peregrini, si professa primo trattatista in assoluto del concetto! E, per lui, concetti od acutezze sono le metafore o figure retoriche che “contengono quel meraviglioso insieme e quell’improvviso onde si forma la breve ed acuta punta per dolcemente ferir l’intelletto di chi ode e così meritare il titolo di concetto” (Dello stile, c. XVI, par. 1). Dopo tale descrizione prolissa ne tenta una più essenziale: “osservazione meravigliosa raccolta in un detto breve”. Egli si illude, così, di avere definito adeguatamente il concettino. In realtà, basta considerare che la  formalità del concettino è il meraviglioso,  la cui natura si guarda bene dal precisare, per comprendere come egli oscilli, poi, fra i richiami del buon senso (e dell’educazione classica) e la difesa dell’arguzia come il fiore  migliore della metafora antica. Di qui la condanna dell’Adone e del Marino, non solo per la sensualità, ma altresì per i “paralogismi”, cioè concetti sofistici e viziosi nei quali “la falsità troppo grande,... troppo visibile” fa  sì che riescano “poco fertili di meraviglia”-.[25] E’ ancora il concetto classico di “decoro, dignità, nobiltà” che, pur nella sua indeterminatezza, tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè di mettere d’accordo la tradizione retorica e la moda dominante (arte come arguzia, acutezza, concettini). Il Pallavicino era, ci pare, come il presidente del Tribunale della sanità nella Milano del 1629, così descritto dal  medico Alessandro Tadino: “uomo di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio di questa gente, et loro robbe”[26]. Proprio così: anche il Pallavicino non riusciva a pensare che il Giansenismo fosse una dottrina rovinosa per la religione o che i concettini fossero una tecnica deleteria per la letteratura. Non avendo una concezione esatta dell’arte e della poesia, si illudeva di conciliare tutto e tutti, barcamenandosi fra tradizione e novità, in un eclettismo che riteneva aureo giusto mezzo, moderazione e buon senso: ed era solo disorientamento estetico e, più a monte, insufficiente  profondità di intelligenza.

 

                         Emanuele Tesauro (1592-1675). Nacque e morì a Torino, cadetto di famiglia illustre. Si fece gesuita, operando come predicatore e insegnante, ma nel 1634, dopo aspre tensioni con i superiori, uscì dalla Compagnia e visse come prete secolare. Nella contesa che opponevano i fratelli di Vittorio Amedeo I (morto nel 1637) alla  vedova Maria Cristina, reggente per il futuro Carlo Emanuele II, egli si schierò col principe Tommaso di Savoia-Carignano, con cui stava anche il fratello cardinale Maurizio,  avversando la “madama reale” che, sorella di Luigi XIII, si appoggiava alla (e dipendeva dalla) Francia, in guerra contro Spagna e Impero. Il Tesauro ebbe così modo di pubblicare parecchia letteratura di parte, in favore degli indipendentisti Carignano, e di seguire il principe Tommaso nelle Fiandre. Pubblicò tre volumi di Panegirici (1659-60), scrisse per il teatro profano e sacro (Edippo, Ippolito, Ermenegildo, Il libero arbitrio: 1661) e un trattato di Filosofia morale. L’opera che oggi interessa la storia della letteratura è però solo Il Cannocchiale aristotelico o sia idea dell’arguta e ingeniosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria et simbolica, esaminata co’ princìpi del divino Aristotele (1654, ediz. accresciuta: 1670). E’, con quello dello spagnolo Graciàn, il trattato più diffuso di poetica barocca, sebbene il Tesauro si illuda di  dimostrare  la  coincidenza della precettistica retorica, aristotelica e classica, con il concettismo barocco. Come il Castelvetro, egli distingue un linguaggio proprio o grammaticale ed uno retorico od arguto.  Condotta poi (con disinvoltura degna di don Ferrante)  la retorica a coincidere con l’arguzia, ne consegue, come ovvia, la identificazione fra classicismo e secentismo: la retorica del “divino Aristotele”, “lucidissimo cannocchiale per esaminare tutte le perfezioni e le imperfezioni dell’eloquenza” fa da sensale a tale equiparazione  tra  la metafora  antica ed il parlare arguto (o concettoso) moderno. E arrivano le complicazioni pseudoteologiche: “gli angeli stessi, la Natura, il grande Iddio nel ragionar con gli uomini, hanno espresso con argutezze o verbali o simboliche gli lor(sic!) più astrusi e importanti secreti”. –Insomma tutto ciò che vive vive per l’argutezza e “tanto solamente è morto, quanto dall’argutezza non è avvivato” (p. 2); e “quanto ha il mondo di ingegnoso o è Iddio o è da Dio” (p.49).- Per comprendere queste  esilaranti proposte, occorre ricordare che il Tesauro scriveva anche per insegnare i concetti predicabili, cioè per fornire esempi di arguzie adatte a ravvivare la predicazione cristiana! Dio, in altre parole, ha posto nelle realtà materiali i simboli di altre realtà invisibili, sicchè il poeta non fa altro che imitare Dio, allorchè concettizza od arguisce sul senso delle cose, estrapolando da una realtà all’altra. Il Tesauro ha gettato il suo ponte fra retorica classica e concettismo, anzi fra linguaggio biblico e arguzia secentista, ma è un “ponte del diavolo”: quando la seconda edizione del “Cannocchiale” uscirà riveduta ed accresciuta, i giorni dello stile barocco sono contati, la mania per tale moda spagnoleggiante sta tramontando, col  cessare del predominio spagnolo in Europa e l’imporsi della mentalità razionalistica francese, al seguito della vittoria di Rocroi e della pace di Vestfalia (1648). Il Tesauro non se ne accorge, non lo percepisce e pontifica con sicura improntitudine: nella metafora rientrano i concettini, i motti (od “imprese”: le scritte sulle armi nobiliari), i concetti predicabili, i simboli in generale. Dobbiamo riconoscergli un merito: è, infatti, in lui che troviamo definita la differenza fra paragone e metafora: quella raffronta due realtà mediante un accostamento, che è espresso dalle congiunzioni “come|quasi”; la seconda, sopprimendo le congiunzioni, tende a fondere assieme le due realtà, pur soltanto analogiche (cioè, solo in parte uguali): “E quegli è più ingegnoso che può conoscere e accoppiar circostanze più lontane” (da Jannaco, che cita dalla p. 82 della edizione 1670). Ma, nonostante la pretesa di seguire il razionalissimo Aristotele, egli non esita a dichiarare che “la Pazzia altro non è che la metafora, la quale prende una cosa per l’altra” (p. 93 dell’ediz. 1670). La definizione di argutezza è  così complicata che finisce per risultare generica: essa sarebbe, dunque, “argomento cavilloso e succinto, che motteggiando alcune parole serba il concetto altamente nascoso e mostra più ingegno che sodezza” (ib. p.7).

Ed eccoci alloscopo, cioè all’effetto che si vuol raggiungere, in cui consisterebbe la essenza dell’arte: la meraviglia. Ciò che l’arte deve produrre nel fruitore non è la commozione, ma lo stupore, destato in lui dall’inaspettato accostamento di due concetti-realtà sproporzionati fra loro: “ad ogni parto arguto è necessaria la novità, senza cui la meraviglia dilegua” (Cannocchiale, p. 116).[27]

 

                        Conclusione. L’estetica del barocco letterario (cioè la poetica del secentismo| marinismo| concettismo) non è certamente classica: accentua infatti l’estro contro la ragione, la novità contro i modelli, la sorpresa contro la regola, la esagerazione contro l’armonia, la sproporzione contro l’equilibrio.

Ma non è neppure romantica, perchè fonda la poesia sulla meraviglia e non sulle emozioni, sull’ingegno e non sul cuore, sulla supponenza  elitaria e non sulla popolarità fraterna, sulla retorica  studiata  e non sulla spontaneità immediata.

E non è  neanche realista, perchè preferisce l’invenzione capricciosa alla verità storica, l’evasione fantastica all’impegno educativo, la volontà di sbalordire contro la impassibilità dell’analisi oggettiva...

 Se accettiamo di mettere la sproporzione come  segreto ultimo del concettino, saremmo in presenza di una poetica della comicità: i secentisti in qualche modo intuirono questa verità, quando equipararono il concettino all’arguzia. Ma essi –teorici e praticanti, pretesi filosofi dell’arte e pretesi artisti- fecero dell’arguzia il nucleo di tutta l’arte verbale e non di una sola sua sezione o genere (quello comico, appunto), finendo per creare l’estetica del ridicolo e del grottesco, perchè si illusero di divertire in ogni caso, esprimendo i motivi ispiratori più dolorosi (tragedia), più  esaltanti (epopea), più teneri (elegia) o infine più consolanti (idillio) con la stessa formula della sproporzione, che è invece quella peculiare della comicità. Ora, quando un tentativo di destare il riso fallisce, il risultato è il ridicolo,  è cioè la espressione in cui l’autore diventa oggetto e non soggetto di comicità, per la sproporzione fra la intenzione e la esecuzione, fra il tentativo di canzonare altrui e il risultato della propria derisione.

 

IL PENSIERO POLITICO. Siccome  lo si è già anticipato come continuazione e sviluppo di quello del Millecinquecento, ne riprenderemo i risultati in sede di analisi del costume, perchè rivela lo sforzo di  ricondurre la condotta politica alla norma morale, segno della coscienza etica della società.

 

B) SENSIBILITA’ O GUSTO  DELLA SOCIETA’ ITALIANA NEL MILLESEICENTO

 

 Riesponiamo alcuni princìpi psicologico-estetici per comprendere  come si possa dare una sensibilità comune in una data società di un certo tempo, nonostante la proclamata congenialità assolutamente personale della qualità e della forza di vita emozionale, che  parrebbe dover rinchiudere ciascuno nella sfera inviolabile ed incomunicabile della propria specificazione emotiva. Siccome l’imporsi di una tonalità emotiva in un’epoca storica ed area geografica, non solo in sede artistica (letteratura, musica, arti figurative), ma anche nel costume pratico (vestiti, colori, gesti, arredamenti, linguaggio sociale...), è dimostrata dal dato storico del loro esistere, vuol dire che, semmai, dobbiamo  rinnegare il principio psicologico ricordato: difatti, “contra factum non valet allatio” (contro i fatti non contano princìpi nè autorità). Ma non ce n’è bisogno.

 Anzitutto tutti gli uomini sono dotati di una gamma completa di registri emozionali: quando abbiamo parlato di  toni lirici  tipici di un poeta,  ci si riferiva alla potenza  eccezionale  o di tutta la gamma lirica o di un suo registro privilegiato. Anche Petrarca, che è così specializzato nei toni contemplativi dell’idillio e dell’elegia, ha poi qualche sonetto di violenza drammatica (La gola e il sonno e l’oziose piume| L’avara Babilonia ha colmo il sacco| Fontana di dolore, albergo d’ira) o di epopea esultante (Benedetto sia il giorno e ’l mese e l’anno...) riusciti. Il privilegio sta nella potenza e frequenza espressive: non si tratta di un “tutto o niente”, ma di “un più o di un meno”, all’interno del lirismo sia dei poeti maggiori, sia  degli artisti minori, sia dell’uomo comune,  quello capace di entrare in risonanza con gli affetti altrui, ma non di esprimerne di propri in forma  “epidemica” (comunicativa, vogliamo dire). Come, allora, si possa imporre il fenomeno di una moda è presto detto: avviene per  una legge psicologica che vorremmo chiamare “gravitazionale”. Tutti aspiriamo al massimo di valorizzazione delle nostre doti e la via quasi obbligata a  raggiungere tale scopo è quella di imitare quanti dominano  in quelle attività che sono aperte anche alle nostre facoltà (od illusioni...). Se, dunque, all’orizzonte  di una certa società si affaccia un artista con una carica emotiva così elevata da affascinare un po’ tutti (Petrarca), senza che essa sia, per altro, così folgorante da scoraggiarne la imitazione (Dante), allora sorge nei “coboldi e nei pigmei” della sensibilità  il bisogno di imitare il gigante e quasi la provocazione a sfidarlo, per eguagliarne la grandezza o addirittura superarlo. Resta scontato che il “genio” è un fuori classe, che prende bensì spunti  dalla moda imperante, ma sostanzialmente ne prescinde e la supera, creandone eventualmente un’altra o   rinchiudendosi in un suo splendido isolamento.  Ne discende il fenomeno per cui una stella di prima grandezza impone per un certo tempo la propria sensibilità ad una schiera di verseggiatori, che cantano (discretamente) o belano (miseramente) al ritmo del suo flauto magico. Cioè, pur potendo teoricamente ciascuno dar forma a molti spunti emozionali attraverso la qualsiasi potenza di lettura della  sua facoltà intellettuale, gli artisti minori (della parola o del disegno, del colore o della plasticità, dei rapporti fra pieni e vuoti o tra note ed accordi) per la suggestione del modello finiscono per privilegiare determinati stati d’animo (a costo di fingerli: vedi petrarchismo) e favorire così, attraverso il  loro gregarismo, il costituirsi di una “scuola” poetica” (o, comunque, artistica) caratterizzata da riuscite (o  velleitarie) aure ed aree liriche.

Una variazione di tale spiegazione causale dell’insorgere di mode nel campo della sensibilità o gusto letterario, vede al principio di essa non un artista d’eccezione, ma una massa di autori secondari, potenziati dal concorso di forze politiche ed economiche, per cui essi -che già costituiscono una cooperativa di “mezzi uomini o di ominicchi, di ruffiani o di quacquaracquà”- diffondono in altre regioni geografiche ed in altre società culturali la loro predilezione per un certo atteggiamento emozionale, silenziando od emarginando le altre tonalità. Si è creata una “scuola poetica” anche per questa  via, con la  convergenza cioè di molte forze minori.

Ricercando, dunque,  le sorgenti della sensibilità peculiare del nostro secolo, troviamo, quale capofila   del gusto, nelle espressioni letterarie del Milleseicento, Torquato Tasso. La sua è una sensibilità che, pur nella completezza complessiva, privilegia  entrambi i toni drammatici (epopea e tragedia) e quello dell’elegia (dominante fra i registri contemplativi), con qualche cedimento al fascino subpatologico dell’esagerazione (anzi della “esaggerazione”!), cioè con  tentazioni di enfasi e di musicalismi stentorei nel campo drammatico, di patetismi e languori nel caso dell’elegia.  Ma non meravigliamoci se il magistero del Tasso dia frutti specialmente sulla direttiva dell’enfasi e della stentoreità: i secentisti non insisteranno sulla elegia, sicchè anche gli aspetti negativi della vita saranno gridati ad esprimere orrore o terrore. Una prova? la frequente descrizione di ogni tipo di orologio nella lirica secentesca richiama la morte, incutendo più paura che pietà.  Troppe volte l’arte barocca lascia l’impressione degli antenati di don Rodrigo nel c. VII del capolavoro manzoniano: laici od ecclesiastici, guerrieri o badesse, tutti  incutono terrore anche dalle tele che li raffigurano. Ma è facile capire la emarginazione (o la traduzione in tragedia) della sensibilità malinconica: il Tasso non era l’unico pedagogo cui guardavano gli scrittori in versi del secolo; e gli altri “direttori d’orchestra” non erano propriamente dei simpatizzanti per la contemplazione in genere e per la tristezza in particolare.

Vi era, poi, come sappiamo, la tradizione della espressione ingegnosa che, da Marcabruno a Petrarca, dal Tebaldeo all’Ariosto, dalla Canace dello Speroni al poema stesso del Tasso, urgeva  sul mondo letterario.

Avanzava  vistosamente  l’arte figurativa, che, dal Manierismo del dopo-Michelangelo, si definiva ormai nei canoni propriamente barocchi , ove la pittura invade il campo della scultura, con prospettive illusorie di  (dar la impressione di) continuare verso l’aperto , oltre la chiesa, fino al cielo. Tutto l’insieme pare più una scenografia da teatro che una imitazione della realtà, più una distrazione per visitatori curiosi che un invito al raccoglimento della preghiera, più uno sfoggio di bravura che una espressione di affetti. Troppa luce, troppa folla di personaggi, troppa gestualità spettacolare. Noi crediamo che il teatro (che in Spagna come in Francia, in Inghilterra come in Italia, va  affermandosi) abbia avuto la sua parte di influsso sull’arte figurativa come sul costume sociale: esso fondeva recitazione e coreografie, danze  e piroette, pitture per le scene e musica per intermezzi o per l’intero dramma pastorale...[28]

 E qualcosa di teatrale ha anche il costume spagnoleggiante, che invadeva corti e città, con gli abiti a sbuffo, le gonne a campana (guardainfante), i colori sgargianti intonati sull’autunno (dal giallo al marrone) le “cerimonie”di incontro e di  addio, i diritti di precedenza e la distinzione perentoria fra “galantuomini nobili” e “mascalzoni plebei”[29]: il tutto, a colori forti, mentre lo sfumato leonardesco scompare. Non farà, dunque, meraviglia che anche la letteratura del secolo XVII manchi di intimità, raccoglimento, finezza e sfumature: vuole sbalordire, non commuovere; trascinare, non sedurre; sconvolgere, non avvincere. Ecco allora lo stile “rozzo insieme ed affettato” che Manzoni ha immortalato nella  imitazione comica della “Introduzione” al romanzo di Renzo e Lucia. Shakespeare direbbe che nell’anima barocca vi è “Much fuss about nothing”.

Ma alle spalle di queste manifestazioni clamorose, noi  siamo propensi a vedere l’azione di fattori neurovegetativi (di temperamento), prima che influssi ambientali. E’ il tempo in cui prevale una cultura della estroversione, della vita in piazza, del gridato e gesticolato come è proprio dei popoli meridionali d’Europa (e, in Italia, più di Napoli che di Firenze, più di Venezia che di Milano, più di Roma che di Torino). Se questo è vero, si può  tentare di approfondirne le cause biologiche[30]. Siamo di fronte ad un’epoca in cui ha  preso il sopravvento la cultura delle immagini e dei colori, del movimento e della scenografia? Allora si tratta del prevalere della gente che ha più sviluppato l’emisfero destro, dove tali doti  trovano la centrale di  organizzazione, che non l’emisfero sinistro, deputato invece (con la “zona di Wernicke”) a condizionare il pensiero astratto, la coscienza riflessa, il giudizio ed il raziocinio (o procedimento sillogistico). E’ la cultura di Pulcinella e di Arlecchino, cioè  degli ingegnosi guaglioni, sprovvisti di lauree o di particolare intelligenza, ma dotatissimi di raggiri, di trappole, di imbrogli per “tirare a campà”, per arrangiarsi, per trarsi d’impaccio: la parola non è strumento di pensiero, ma di azione; non cerca la verità o la bellezza, ma l’utilità ed il vantaggio; è a servizio dell’emisfero destro, specializzato nel dinamismo e nella concretezza spaziale, cioè nel governo (management) della prassi, non nella riflessione  contemplativa ed  idealizzante, cioè nella invenzione filosofica. Il risultato, comunque, è quello detto. Mentre la plasticità muscolare di Michelangelo era a servizio di idee pertinenti ed esprimeva ideali sublimi ed emozioni sconvolgenti, incarnate in tutto un contesto di mimica facciale, gesti e ambientazione, ora essa diventa sfoggio di abilità pittorica a sè stante, che non comunica alcuna emozione estetica, perchè  ha alle spalle solo  il sentimento pratico di voler impressionare ad ogni costo: la pretesa imitazione diventa scimmiottamento penoso, perchè  rifà la materialità della tecnica, non lo spirito delle idee e delle emozioni. In campo letterario accade qualcosa di simile: Petrarca rimane il conclamato maestro, sia pure mediato dal Tasso, ma alla sua intimità sofferta si sostituisce un vociare sguaiato, un chiasso indiscreto, una grandine di particolari, ripetizioni, similitudini, sinonimie, concettini che, anzichè  comunicare lo stato d’animo, solo intuibile sotto l’orgia delle parole, distraggono la mente in varie direzioni curiose o sommuovono  verso l’agitazione del cuore e la dissipazione  dello spirito. D’altronde, anche la letteratura si fa ancella delle arti figurative: il Marino ha una raccolta di versi (intitolata La Galeria)  che vogliono riprodurre in versi, descrivendole, opere pittoriche, mentre la versificazione sugli orologi è tema frequente (lo si è detto) dei letterati secentisti.

A lasciarsi ispirare da qualche affetto gentile rimangono solo due scrittori: l’astigiano Federigo Della Valle (autore di tragedie che  esprimono, però, non orrore, ma elegia: è un contemplativo che piange su Maria Stuarda e segue trepidante l’impresa della forte Giuditta nella Bibbia cristiana) ed il napoletano Torquato Accetto (Della dissimulazione onesta: trattato di spiritualità politica). Solo questi due scrittori, chè anche gli altri, pur non secentisti, o polemizzano (come Paolo Sarpi e Galileo Galilei) o ridono  chiassosamente come Alessandro Tassoni e Francesco Redi o scrivono versi   programmaticamente “pindarici, ma  enfatici e stentorei”, come Gabriello Chiabrera (in parte) e Fulvio Testi (in tutto).

Ci pare di poter concludere che la sensibilità del Milleseicento fosse dominata dall’enfasi, da sentimenti esagerati nell’ambito dell’esaltazione epicizzante o dell’orrore sconvolgente o della comicità plateale: manca, nel complesso il senso della contemplazione nella gioia pacata e nella tristezza dolce, della gentilezza e della commozione, delle sfumature e del pudore dei propri sentimenti. Troppo chiasso, troppo vociare, troppo sbracciarsi: troppo rumore per nulla.

 L’enfasi deve esser considerata anche in senso negativo, come nel ricorrere ossessivo del termine “orrore” e nelle  descrizioni di terremoti o degli orologi (clessidra, a pendolo, meccanico od “a rote”) che conducono a meditare sul carattere effimero della vita umana e sull’incalzare della morte (onde altre rime sulla vecchiaia, sul teschio, sullo scheletro, sulla tomba, sul mal della pietra che affligge più di un poeta, sulla morte stessa).  Ma si presenta anche quale esaltazione di una  qualità nuova, diversa rispetto alla poetica tradizionale , come la celebrazione delle donne vecchie, mendiche, serve o lavandaie, balbuzienti, zoppe, nane, mute, pidocchiose, losche (guerce), miopi (ed occhialute), spiritate, perfide, bugiarde, scapigliate, impazzite, indemoniate, malate, sdentate,  col neo in faccia,  o dai capelli neri o rossi, contro il precetto -dominante dai Provenzali al Rinascimento- per il quale la donna affascinante non può essere che bionda; o addirittura di una cortigiana frustata.  Infine vi è la   descrizione di animali sontuosi e sgargianti, come il pavone (Adone, VI, 79-ss; Giovanni Canale...), il pappagallo, l’ermellino; oppure velenosi (la tarantola), ovvero minuti e deliziosi, come la lucciola (la rimeria del secolo è frequentatissima da questo coleottero) o la farfalla; oppure fastidiose, come la mosca, la zanzara, la cicala, la pulce (magari sul seno della donna!). Vi è poi la celebrazione di passatempi antichi come l’uomo, ma eseguiti con strumenti nuovi:  poesie sulla caccia coll’archibugio, con lo scoppio della miccia....

 

Ma non  c’è, per caso, un’attitudine della sensibilità che è almeno parzialmente diversa, perchè è cosciente della distorsione di quella prevalente; e ne soffre o almeno la contesta, a costo di fare ciò alzando essa pure la voce e finendo per far coro con la tonalità maggiore della musica dominante,   che accusa senza   riuscire a mutarne il registro? Ci riferiamo alla interpretazione che dello spirito barocco tenta darne Carlo Calcaterra nel suo studio “Il Parnaso in rivolta”, cui vanno aggiunte le pagine di F. Croce “La discussione sull’Adone” (in Rassegna della Letteratura italiana, LIX, 1955, pp. 414-439) e  qualche nota nel c. I de “Il Seicento” vallardiano di Carmine Jannaco. Purtroppo Calcaterra è più informato che preciso, più brillante che coerente, più acuto che profondo nel suo tentativo di rappresentare l’animo del secolo. Dapprima ruba un termine al poeta antimarinista Tommaso Stigliani e parla di “svogliatura” del secolo: consisterebbe in una nausea per il quotidiano ed in una ricerca del “nuovo” per uscirne fuori. Avendo trovato, poi, in un libro dell’abate Secondo Lancillotti  il titolo “Hoggidì, overo il mondo non peggiore nè più calamitoso del passato”, egli tenta accostare alla svogliatura tale “hoggidianesimo”, visto che questo consisterebbe in un disorientamento dello spirito, così che l’ideale del secolo vien posto nel “vivere alla giornata”, in un atteggiamento che varia tra la rassegnazione e il godimento opportunistico. Si tratterebbe di una “inconsistenza o spaccatura dell’anima in barocco”, che si abbandona poi alla esuberanza insensata del dire e dell’agire: “alla giornata”. A questo punto si domanderebbe invano a Calcaterra se nell’hoggidianesimo prevalga la componente della crisi e della conflittualità o quella dello scetticismo e del cinismo. La colorazione della sensibilità del secolo ne uscirebbe ben diversamente caratterizzata: nel primo caso, avremmo un gusto prevalente per il dramma e la elegia; nel secondo, una sensibilità inclinata alla insensatezza, di cui l’enfasi e l’eccesso sono un possibile corollario. Vogliamo dire: che alle spalle di un drogato vi sia una  condizione di  delusione e di sofferenza è spesso vero; ma che il  carattere della sua espressione, quando è in fase di ebbrezza, rimanga in ogni caso quello carnevalesco della balordaggine esaltata, è fuori discussione. Ora, se anche fosse vero che a monte dello spirito giocoso e ridanciano del  letterato medio secentista stia un turbamento interiore, una insoddisfazione per mancanza di punti fermi e di certezze etico-religiose, resta il fatto che la sua espressione è intonata piuttosto sul risultato del superamento od emarginazione della crisi originaria, risultato che è quello  del commediante, anzi del pagliaccio o della maschera che ride senza lasciar trasparire la propria miseria. E allora non si è approdati  ad un’altra faccia della sensibilità secentista, ma solo alla ipotesi di una situazione pregressa, che non lascia però tracce nelle  manifestazioni concrete degli scrittori concettisti. Ricadiamo, cioè, nell’enfasi.

E si dà anche una terza proposta interpretativa dell’anima secentista, della sua sensibilità peculiare. E’ quella della sensualità, che B. Croce predica come caratteristica della  poesia del secolo (“Introduzione” alla raccolta “Lirici del seicento”, che fu il volume d’apertura della gloriosa collana degli “Scrittori d’Italia” di Laterza, nel 1910; e “Storia dell’età barocca”, Bari, Laterza 1957, p. II, c. 5). Ora, se tale sensibilità si prende candidamente e senza suddistinzioni, va detto che, da una parte, l’umanità ha una carica di erotismo praticamente stabile in ogni generazione della storia e luogo della terra, per cui non può individuare nessuna cultura; dall’altra, che la sua  manifestazione, sia figurativa che verbale, non interessa l’arte, “per la contraddizion che nol consente”: la sensualità è attività sommamente pratica e, perciò, sommamente lontana dall’arte, che è espressione libera da ogni riferimento a finalismi  utilitari della vita. Ma il Croce tenta una specificazione della sensualità secentesca, parlando di un “sentimento sensuale”, di una “sensualità sospirosa e deliquescente pur tra i più vivaci e caldi colori”. Ed afferma ulteriormente “Il sentimento si faceva sensuale ed il sensualismo si faceva serio, appunto perchè, vivendo solo esso negli spiriti, era incapace di compiersi e superarsi con altri e in altri sentimenti, e insieme rimaneva intatto dalla riflessione intellettuale e dalla reazione comica, che lo avrebbero collocato al suo posto e trattato con allegra superiorità” (Storia dell’età barocca, pp. 316-7).[31]

Ma contro tale ipotesi per definire il “gusto o sensibilità” della società italiana nel Milleseicento, stanno due obiezioni: una deduttiva ed un’altra induttiva   Teoreticamente od “a priori”, che possa darsi un sentimento “sensuale” ci pare una contraddizione in termini.  L’espressione “sentimento sessuale” si potrebbe anche  tollerare, intendendo l’affetto dell’uomo per la donna e viceversa, finalizzato al (ma non ancora colorato dal) l’erotismo. Di fatto, però, non  si usa, per la troppo facile confusione, che ne nascerebbe, tra pura affettività ed erotismo appunto. In conclusione, di un “sentimento sensuale” è solo Croce che parla, confermando quella ottusità psicologica, che è certamente una delle cause  alla povertà del  suo sistema filosofico. A posteriori, cioè leggendo la poesia del secolo, dobbiamo costatare che la sensualità del Millecinquecento era ben peggio: che tutto lo scandalo di Croce nasce dal fatto che l’espressione impudente dell’erotismo (al modo di Boccaccio, per intenderci) era scoraggiata ed impedita e che, perciò, gli scrittori renitenti si barcamenavano con accenni ambigui e descrizioni al limite della oscenità. Anche il caso de La Pastorella  del Marino, citato dal Croce come esemplare in proposito, è ben lontano da certi sonetti e dei poeti laici del Millequattrocento e di quelli anche ecclesiastici (del giovane Della Casa, specialmente) del Millecinque. Anzi, nella Pastorella ci sono solo alcuni settenari sui baci che, come concetto, concedono troppo alla sensualità (i baci si danno sulla bocca): ma il modo concreto in cui sono scritti li rende innocui, perchè ne sono una specie di filosofia (perchè solo il bacio sulla bocca permette la giustizia della restituzione!). Dire sensuale una tale (povera) lirica è voler cercare il pelo nell’uovo.  Caso peggiore è certo quello dei canti sette-otto dell’Adone, ma non per nulla  l’opera fu messa all’Indice dei libri proibiti, anche se la neutralità del governo francese rispetto ai decreti tridentini ne permise la circolazione. In coscienza, dichiarare meno corrotta, perchè più libera ed allegra, la sensualità  pretridentina rispetto a quella delle generazioni succedute, ci sembra un giudizio nato da  preconcetti ideologici, che impediscono la visione oggettiva della realtà. In fin dei conti, Lutero insorse proprio contro la  corruzione aperta del Rinascimento italiano: se ne è scordato il Croce, che a Lutero è pur favorevole?  Ipotizzare una malizia peggiore di quella, aperta ed imperterrita,  per il solo fatto che, espressa indirettamente, diverrebbe più sottile ed immedicabile, ci sembra un sofisma nato e nutrito  da pregiudizi   di parte .

In conclusione, neppure la  proposta di Croce ci sembra  di aiuto alla comprensione  del gusto degli italiani nel Milleseicento. D’altronde, la immagine di quella sensibilità è nel complesso intesa da tutti come esagerazione di sentimenti ottimistici (nei casi migliori, specie in sede di arte figurativa) o addirittura  come boria ridicola (nei casi peggiori, specie in campo letterario), per cui non ci pare  valga la pena di andare a ricercare chissà quali complessità in un fenomeno  clamorosamente, ingenuamente  trasparente.

Ci pare invece che rimanga un’altra domanda fondamentale: questa enfasi spagnolesca o secentista o barocca è comune a tutta la popolazione o limitata ad una èlite di intellettuali,   seguaci di una moda artificiosa e ridicola? Credo che la risposta  sarebbe molto difficile, se non avessimo esempi di ogni epoca per  intravedere la verità. Per rimanere a tempi a noi vicini e, perciò, controllabili, proviamo a domandarci  se la cultura italiana, tra la fine della seconda guerra mondiale (1945) e la caduta del muro di Berlino (1989), fu tutta (od in grande maggioranza) permeata dal marxismo petulante ed aggressivo; oppure se tale mentalità e simpatia furono l’atteggiamento solo di  un  limitato numero di intellettuali, sia pure stentoreamente vocianti; e di una  minoranza di plebe, sia pur violentemente militante, mentre la  massa (sia degli intellettuali che del normale popolo  italiano) costituivano la “maggioranza silenziosa” che, in parte cristiana ed in parte razionalista,  era comunque antimarxista. In certi casi, la cultura di una società la si definisce “a potiore” in base non tanto alla maggioranza numerica, ma  a quella qualsiasi parte che ha fatto più fracasso per la novità degli assunti sbandierati o per la capacità di accedere ai mezzi “pubblicitari” del tempo, così da apparire  anche quantitativamente la più forte. Questo ci pare anche il caso della sensibilità o gusto del secolo XVII. L’enfasi, intanto, non invase la Toscana: gli scrittori  di Firenze e dintorni rimasero “stenterelleschi”, cioè parchi di parole e densi di concetti. Dallo spirito barocco è alieno il maggior poeta del secolo, il modenese Alessandro Tassoni;  sostanzialmente immuni dal gusto insano rimangono l’astigiano Federigo Della Valle e il napoletano Torquato Accetto. Anzi, in questi ultimi scrittori che, dal Piemonte alla Campania, spazzano si può dire tutta la penisola, troviamo una mitezza ed umiltà, un tono dimesso che è l’opposto dell’enfasi e della  vanità supponente che abbiamo sospettate sottostanti al gusto barocco. Il ligure Gabriello Chiabrera (di Savona) ed il ferrarese Fulvio Testi  non mancano di atteggiamenti grandeggianti (pur dovendo riconoscere che il Chiabrera è più felice nelle ariette ed odicine leggere). Il Chiabrera, dunque, tenta la imitazione di Pindaro; Fulvio Tesi, dopo un periodo secentista giovanile, passa ad una poesia di celebrazioni presuntivamente epicizzanti, celebrative e sostenute, pur nello stile  sobrio della classicità. Ma essi rimangono nei limiti della ingenuità rintracciabile in ogni secolo. Vogliamo dire: non è affatto  necessario vedervi atteggiamenti consapevolmente presuntuosi  ed enfatici; si può ben trattare, invece, di un senso di dovere ad esaltare (e di soddisfazione nel farlo) personaggi od avvenimenti degni di ricordo, anche se “non eran da ciò le loro penne”, cioè non avevano ali per volare così alto. Scrittori di tale buona volontà, ma insufficienti alla nobile intenzione, se ne trovano in ogni secolo: basti il caso del Petrarca, che si attenta  candidamente al tema epico in “Italia mia” ed in “Spirto gentil”, con risultati poetici solo mediocri.

E siccome l’enfasi è una deviazione patologica della tensione epicizzante, allora dobbiamo dire che  questa ultima  prevale e attinge la genialità artistica in molte opere architettoniche e scultoree, che pure denunciano marginalmente la loro parentela con il barocco per qualche notazione residua di  eccesso, non sublimato a puro lirismo, di dramma solenne e gioioso (epopea, appunto). Si vedano, di Gian Lorenzo Bernini, il colonnato in piazza S. Pietro, la coreografia dei quattro fiumi in piazza Navona, la fontana del Tritone e la tomba di Urbano VIII, per non parlare della estasi di S. Teresa; si tengano presenti i capolavori “in barocco” di Francesco Borromini, dalla chiesa dell’Oratorio San Filippo a quella di San Carlino, dal collegio di Propaganda Fide alla Basilica di San Giovanni in Laterano, da S. Ivo alla Sapienza a S. Agnese a piazza Navona... E si potrebbe anche citare la musica di Monteverdi, che inaugurava la composizione moderna  (come Palestrina, nel secolo XVI, aveva concluso quella medioevale, più elaborata, col contrappunto).

Anzi, domandiamoci se gli stessi aspiranti allo stile sublime del concettismo, quasi ad apice di ogni potere ed intellettuale ed estetico, non tendessero il loro animo alla volontà di enfasi solo quando scrivevano e, nell’attività stessa scrittoria, solo nei momenti ritenuti più meritevoli di tale attitudine interiore (enfasi| epopea| solennità di intonazione), mentre procedevano,  per il resto, più umanamente semplici e spontanei. Perchè dobbiamo riconoscerlo: vivere  in una condizione di spirito così sofisticata ed enfatica  richiedeva uno sforzo che poneva lo scrittore a rischio della nevrosi (“esaurimento nervoso” è linguaggio superato, ma molto più adeguato al nostro caso). In fin dei conti, il borioso spagnolo, che sfoggia abiti sgargianti,  è lo stesso che  esige, poi, nel testamento, di  venir sepolto vestito... perchè non  ha una camicia indosso (Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso). Manzoni  sentenzierebbe: “Ciò che va nelle maniche non può andare nei gheroni”. E  dice, a proposito del “dilavato manoscritto” che egli pretende di aver decifrato: “Ben è vero... che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano” (Pr. Sp. Introduzione). Come volevasi dimostrare. A casa  sua, con la moglie e la famiglia, il letterato parlava alla mano, con naturalezza e distensione: a meno che non si chiamasse don Ferrante (che è però caso solo romanzesco, inventato “maligno” scrittore per offrire un’icona o una sintesi del peggio, non della norma, di una anima “in barocco”).[32]

Anzi, non ha tutti i torti Mario Praz che nella Enciclopedia Treccani, alla voce “Secentismo” sostiene esservi spesso sincerità sotto le sgorbio del giochetto di parole. Egli cita il caso della equazione barocca messa assieme da John Dunn: questi esprime con una uguaglianza  concettista un momento tragico della propria vita familiare, giocando sul proprio cognome e sul nome della  moglie che finiscono per identificarsi col suono di “disfatti” (John Dunn, Ann Dunn= Undone): non poteva voler scherzare in un simile momento! E Giovanni Papini ricorda che “ Come il sublime è ad un passo dal ridicolo, anche l’alta metafisica è ad un passo dall’assurdo e l’alta mistica ad un passo dalla eresia. Chiunque va al fondo delle questioni e dice cose nuove è costretto a usare espressioni che paiono giochi di parole o contorcimenti paradossisti.... Quando Gesù dice che chi vorrà salvare la  sua vita la perderà ma chi l’avrà perduta la ritroverà; ch’è venuto a salvare il mondo affinchè i ciechi veggano e i veggenti diventino ciechi, che a chiunque ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha, e chiunque si innalzerà sarà abbassato e chiunque s’abbasserà sarà innalzato, siamo di fronte ad espressioni profondissime e divinamente esatte ma che hanno tutta la parvenza di paradossi” (Sant’Agostino, Mondadori, p. 957: due pagine più avanti, Papini cita molte espressioni del santo di Ippona, vicine a queste del Vangelo e, stilisticamente almeno, a quelle degli scrittori barocchi). Espressioni altrettanto vere nella loro aggrovigliata contrarietà si possono vedere in Anselmo d’Aosta, quando prega così il Signore “Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, nè trovarti se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che ti trovi amandoti e ti ami trovandoti” (Proslogion, c. 1).[33] Nell’antichità Eschilo, nella Orèsteia, introduce un messaggero ad annunciare l’uccisione di Egisto e di Clitennestra da parte del creduto morto Oreste, con la frase: “Dico che i morti uccidono i vivi!”.  Espressione tragica, in cui il contrasto fra realtà e  opinione  crea il gioco di parole.

Ancora qualche osservazione per cercare di dimostrare come il sentire  non è tutta la vita, anzi ne è la parte meno importante. Nei Promessi Sposi, al c. 36, è riferito il discorso che p. Felice Casati rivolge ai guariti dalla peste, che si avviano alla quarantena, fuori del Lazzaretto. I pensieri furono espressi davvero: almeno se ne ha certezza sufficiente, perchè Pio la Croce li apprese da testimoni degni di fede (anche se non oculari), sintetizzandoli poi  nella sua “Memoria delle cose notabili successe a Milano intorno al mal contagioso l’anno 1630”, libro edito ad un secolo preciso di distanza. Manzoni li traduce in una forma liricamente sublime,  capace di trascinare anche un lettore non credente alla commozione. Ma è difficile immaginare  che p. Felice Casati abbia parlato con la  proprietà ed efficacia di linguaggio  del Manzoni. Alla lettura delle parole, ti  assale un nodo di pianto,  in cui si sovrappone l’emozione elegiaca ( per l’immanità dei dolori descritti)  e quella epica (di fronte alla fede granitica ed all’eroismo dei cappuccini volontariamente accorsi al servzio, al sollievo, alla condivisione di quei dolori). Il brano manzoniano sembra insuperabile nel comunicare lo spirito di carità -nei frati- e  di sofferenza – nelle persone ricoverate in quel luogo-. Insuperabile nelle espressione verbale, d’accordo. Ma nel profondo dell’animo, nella totalità della partecipazione personale (convinzione della mente, adesione della volontà: pensieri,  atti, parole), chi era il più degno di quei  concetti? Colui che li cantava con tanto lirismo o colui che li accoglieva, viveva, pagava così radicalmente?  La risposta non può essere dubbia: il genio letterario si  lascia sospettare un pigmeo, rispetto al “mirabil frate”, al gigante  dell’amore cristiano. Su questa linea si potrebbe trovare una risposta al problema posto dal Manzoni stesso di fronte ai molti libri scritti dal cardinal Federigo Borromeo e caduti in oblio. Gli è che il cugino di san Carlo viveva la sua missione con tutto  il suo essere, ma non necessariamente sapeva tradurla in espressione verbale attraente e coinvolgente, artisticamente viva perchè  purificata dalle componenti pratiche e soggettive, tradotta in forma universale perchè libera da ogni riferimento individuale. Non c’è necessariamente adeguatezza tra intensità di partecipazione ad un avvenimento e la sua espressione verbale o figurativa, musicale o cinematica.[34] Un esempio “a contrario” lo si può trovare nella Chiesa di Polenta di Giosuè Carducci: l’ode, già complessivamente grande, ascende alla sublimità nel famoso finale (“Salve, chiesetta del mio canto...”). Se tutta la poesia è un eccezionale omaggio all’opera civilizzatrice della Chiesa durante il caos delle invasioni  germaniche e l’imbarbarimento conseguito, le strofe conclusive dell’ode risultanto addirittura uno squarcio di poesia religiosa di eccezionale forza lirica. Eppure Carducci, a stento, credeva in Dio; ed era anticristiano come si addice ad un massone coerente. Che valore dare allora alla espressione commossa del poeta? Può la sua relgiosità esser stata  più intensa rispetto a quella delle suore di clausura a Bologna che pregavano per la sua conversione, ma che culturalmente ed artisticamente erano poco più che bambine? La partecipazione emozionale (avverte la teolgia cattolica e la ragionevolezza umana) non entra nel valore della preghiera, perchè è un dato congeniale e spontaneo, non meritorio, in quanto non dipende dalla volontà dell’orante. Ed è, sostanzialmente, tale volontà di bene che determina la carità dell’azione: il fervore, piuttosto  che il silenzio,  della sfera emotiva è un plus-valore gratuito e accidentale.

Venendo al nostro problema, diremo che il momentaneo o sistematico accedere all’enfasi barocca durante l’operazione poetica (o presunta tale) non rivela necessariamente la sostanza della psicologia o “gusto o sensibilità” dell’autore, il quale può ben essere non tanto un vanitoso in cerca di gloria a facile prezzo, quanto un ingenuo che si illude di esprimersi liricamente seguendo    le regole  più diffuse della concezione poetica a lui contemporanea. Che tale “ingenuità” non deponga a favore  di una intelligenza sublime, deve concedersi; che automaticamente debba deporre a condanna della sua concezione  e sentimento complessivo della vita, sarebbe sproporzionato alle premesse, perchè il significato e valore della vita di una persona non si possono eguagliare alla sua capacità di  proiezione artistica, di espressione estetica.[35] Non dimentichiamo che proprio Manzoni non è lontano dal condividere l’idea che il volgo ha del poeta: “un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole” (c. XIV).

 Anzi l’enfasi poteva nascere da un attitudine psicologica ancora più seria e moralmente esigente. Immaginiamoci, qui, l’anima spagnola che non conosce mediocrità o compromessi. Il  sangue dei Visigoti invasori, mescolato con quello dei romani e degli degli aborigeni, non ha fatto altro che rendere più  accentuato quella tendenza alla semplificazione ed estremizzazione, che segnano il temperamento del popolo ispanico già con Seneca (tragedie) e Lucano (la Farsaglia). Posta questa psicologia della chiarezza fino  al semplicismo e della coerenza sino  al paradossale, anche la espressione della autorità diventa un “affare di coscienza morale”: chi è a capo, ha doveri e responsabilità; chi ha doveri e responsabilità deve avere onore e dignità, che sono condizioni necessarie per far fronte agli impegni suddetti; chi ha onore e dignità deve difendere tali prerogative anche nella espressione solenne e grandiosa, affinchè i decreti autoritativi (autentici) siano rispettati con timore e osservati con reverenza. Insomma, la difesa dell’autorità è una espressione (e facilitazione) dell’obbligo che ha di servire i sudditi; essa, quindi, va sostenuta per il bene stesso del popolo beneficato, pena la incapacitazione  a tale ufficio e dovere, a causa della disistima e disprezzo che possono ricadere su di essa. Di qui la solennità anche nei documenti di governo, come aveva già intuito (uso del “cursus” e di altre gherminelle retoriche) la “magna curia”dell’imperatore Federico II ed il suo protagonista indiscusso, Pier delle Vigne.  Orbene, l’effetto ovvio della esigenza di solennità nelle espressione, non generata da genialità emotivo-epica ma da sforzo intellettuale, è appunto l’enfasi.

Aggiungiamo anche questa osservazione: gli epistolari di Foscolo, Manzoni e Leopardi hanno delle lettere decisamente ipersensibili, eccessive nella espressione dei sentimenti, un po’ patetiche ed un po’ enfatiche: per Foscolo, quelle scritte alle varie  amiche; per Manzoni, quelle che sono indirizzate alle signore, in genere; quelle del Leopardi, un po’ tutte. L’epistolario rivela di solito la figura morale e culturale dell’autore, ma attraverso le idee, prima e più che mediante la sensibilità con cui sono espresse. La “forma” emozionale non dice che un aspetto –e non il principale- della vita interiore dello scrivente.

Quanto alla massa del popolo, allora analfabeta per lo più, neppure conosceva le scempiaggini del concettismo, così come aveva sempre ignorato l’artificio della retorica e dell’ornato: il giudizio sulla grandezza o miseria artistica di una società non può pretendere di elevarsi a giudizio morale sulla popolazione tutta che la compone. E’ come se, nel fare la storia del convento di Monza all’epoca dei Promessi Sposi, si dovesse tener conto solo o principalmente  di Virginia de Leyva e delle suore che avevano tenuto mano alla sua forzata monacazione, dimenticando le altre che “pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esempio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene” (c. X).

 

C) IL COSTUME (CONDOTTA MORALE) E LA VITA PRATICA IN GENERE  DEL MILLESEICENTO.

 

Si potrebbe iniziare questa panoramica con qualche nuova espressione manzoniana, perchè i Promessi Sposi sono ambientati nel secolo che stiamo studiando e vogliono essere “romanzo storico”, cioè racconto aderente ai fatti realmente accaduti nella società e nel tempo in cui sono ambientate le vicende  fantastiche dei protagonisti. E allora il giudizio è in partenza  molto negativo: non per nulla  Manzoni si era formato nella mentalità illuministica, che disprezzava tutto ciò che aveva caratterizzato la cultura del  Milleseicento; e gli Spagnoli, che in quel tempo avevano dominato l’Europa. Ed ecco la società “sudicia e sfarzosa”, che parla in uno stile “rozzo insieme ed affettato”; ecco la grottesca mancanza di senso critico nella ingenuità erudita di quel “buonuomo” che è don Ferrante e nell’attività, pur benintenzionata, di quella donna disequilibrata che è Prassede; ecco don Martino di Leyva, il principe padre che per non sminuire la ricchezza del casato con la dote per la figlia Virginia, la costringe subdolamente a monacarsi; ecco i delitti del convento di Monza, dove  Virginia si vendica della costrizione accettando il rapporto con un malvivente che abita a ridosso del convento e, per tacitare scomode testimonianze, non esita a spingerlo ad un duplice assassinio; ecco il potere dell’ambizioso ed inetto conte zio del consiglio segreto, che diventa zimbello della protervia, dei vizi e della astuzia dei suoi nipoti; ecco don Rodrigo ed il conte Attilio appunto, che spadroneggiano nei loro feudi, più forti della giustizia umana e incuranti di quella divina, pur nell’ossequio formale all’autorità e civile e religiosa; ecco il puntiglio d’onore ed i duelli che si portano dietro; ecco l’incapacità del governo spagnolo di Milano (e anche di quello veneziano, a dir il vero) a  togliere di mezzo il nobile,  ribelle e facinoroso, Francesco Bernardino Visconti che, assieme al fratello Galeazzo Maria, opera indipendentemente da ogni  autorità e costringe, anzi, potenze altissime a servirsi dei suoi  uomini e della sua incoscienza per raggiungere fini che neppure con gli eserciti erano in grado di ottenere; ecco le grida che si succedono, tanto   roboanti  e minacciose quanto inette e ridicole,contro  la delinquenza dei “bravi”, cioè degli sgherri a servizio dei nobilotti prepotenti; ecco don Gonzalo de Cordova, che si disinteressa della fame e del pericolo della peste in Lombardia per intraprendere una guerra di potenza ed espansione contro Casale in Piemonte, guerra che poi perderà;  ecco l’incompetenza ed impotenza del medesimo governo a far fronte alla carestia, alla moria per fame, alla entrata della peste in Milano, incompetenza ed impotenza pari  solo all’arbitrio e sprorporzione dei provvedimenti spiccioli per tacitare i sintomi, mentre i mali incancreniscono e si moltiplicano: ecco insomma tutta una situazione di stoltezza e supponenza, di iniquità ed arbitrio, che rende possibile prendere alla lettera, emarginando l’ironia, il lamento del capitolo ottavo: “Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”. Allora paiono giustificarsi i giudizi negativi di Benedetto Croce  ripetuti a più riprese nella Storia dell’età barocca in Italia (l’Introduzione, suddivisa in Controriforma, Barocco, Decadenza; e la terza parte, sulla Vita morale), sia di Carmine Jannaco (Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 1963, pp. 479-80).

 A questo punto, però, Manzoni deve permetterci di  scopiazzare, elaborare e rammendare  un paio di frasi dal primo capitolo del suo romanzo: “Al sentire elencare simili accadimenti negativi, verrebbe una gran voglia di credere che tutta la società fosse caduta in una corruzione nefanda ed immedicabile. Ma la testimonianza di altri fatti non meno autorevoli e sicuri ci obbliga a credere tutto il contrario”.   Il duello, per cominciare, era costume ereditato dal Medioevo più barbaro e, se gli spagnoli lo avevano più fortemente iscritto nel loro costume, esso non era stato assente dalle contrade italiane, sia come uso facile del coltello per decidere questioni personali, più frequente fra i poveri delle campagne, sia come istituto regolato da norme rigorose tra i nobili, specie professanti la vita militare. D’altronde, tale via incivile e demente di farsi giustizia da sè, si può dire che venne meno solo dopo la prima guerra mondiale. Ancora nel 1917, il codice di diritto canonico colpiva di scomunica non solo i duellanti ed i padrini, ma anche il medico ed il sacerdote che si  tenessero pronti sul posto per curare|assolvere i contendenti: segno di una Chiesa esasperata per la persistenza del costume dissennato. Si vuol dire: anche in questi campi, il giudizio circa la elevatezza o meno del sapere|agire va dato in rapporto anche al passato, non solo in rapporto alle aperture  culturali successive. Allora la valutazione si fa più  equa, anche sui residui di prepotenze feudali, come la monacazione forzata delle figlie (anche Galileo vi si abbassa, per entrambe le proprie!) l’incoercibilità dei capricci nei signorotti, serviti da “bravi” rispettati  dagli sbirri, pur essendo dei fuorilegge a servizio di facinorosi. Abbiamo letto quanto Lamennais suggeriva in proposito al Manzoni, attraverso al contessa di Sennft: studiare anche la storia dei secoli precedenti al Milleseicento, per accorgersi che  per secoli e secoli  vi era stato lo stesso (o più grave) “ruisseau de sang”,  dovuto alla presenza di prepotenti, incoercibili  per i deboli  governi seguiti alle invasioni  germaniche, specie se essi erano parenti della oligarchia al potere. Difatti, prima del dominio spagnolo, la sola presenza degli eserciti di ventura e le continue guerre sia nel Napoletano (per le lotte fra i Durazzo e gli Angioini, fra baroni e potere regale) sia al Nord (Venezia e Firenze alleate contro il ducato visconteo e la sua politica di espansione) erano sorgenti di disordini e prepotenze ben peggiori. Viceversa, il fatto solo che nel Milleseicento ci fossero delle leggi contro gli abusi, da parte di nobili potenti ai danni del popolo disarmato, “gride” inefficaci ma (ciò che non avveniva nei secoli precedenti) ripetute instancabilmente dai governatori, sta a dimostrare che  si andava rafforzando il senso  della giustizia e che mancava solo l’occasione propizia perchè l’autorità la facesse rispettare: nella seconda metà del secolo decimosettimo, i “bravi”  e loro malefatte  tendono a sparire (rimarrà solo il “giovin signore”!). Come per la (eventuale) biblioteca di don Ferrante, anche il malcostume dei bravacci e dei loro padroni era lo stadio finale di  uno  situazione di inciviltà, che diventava tanto più scandalosa quanto era più eccezionale e quanto più il governo veniva  sentito come non lontano dalla capacità di porvi fine.

E’ a questo punto che interviene un astigmatismo, facile  nel giudizio sulle generazioni precedenti alla propria e che consiste nell’ignorare che un traguardo recente e clamoroso di civiltà,  raggiunto in  un certo ramo del benessere, del sapere, della tecnica o della vita morale, non è  tutto merito proprio,  quasi miracolosamente la società abbia cambiato la mentalità e la condotta, ma è invece il risultato di una ricerca secolare di studio e di uno sforzo generazionale di  buona volontà.[36] Tale disorientamento nel giudizio storico diventa ingratitudine ed ingiusta accusa contro i propri padri ed antenati, quasi ignoranti ridicoli e pietosi ingenui, viventi nell’oscurità di tempi bui e nella menzogna di credenze utili ai dominatori e sfruttatori, immaginati come più o meno cinici. E’ una  mentalità da “parricidio” che si è ripetuta più volte nella società occidentale: da parte del Rinascimento contro le tenebre del Medioevo; da parte dell’Illuminismo contro   la mancanza di senso critico (acrisia) del  Milleseicento. Al qual proposito pare lecito chiedersi che cosa penseranno -della pittura astratta ed informale, della poesia ermetica, della musica rock e pop- le generazioni che (speriamo presto) avranno il buon senso ed il coraggio di aprire gli occhi sulla verità dell’arte eterna e sulla enormità del “kitsch”, trionfante al suo posto nel secolo ventesimo.

Ma ecco testimoni a favore del troppo denigrato “Seicento” italiano. Ricuperando dati della vita intellettuale, vogliamo ricordare i molti studiosi di politica, preoccupati di accordare moralità e successo, escludendo il machiavellismo senza  ridurre per questo il principe onesto a finire sempre perdente, evitando cioè che si realizzi la eguaglianza fra “uomo buono” e “buon uomo”. Si deve essere grati a Natalino Sapegno che elogia l’impegno di riflessione di pensatori quali Ludovico Zuccolo e di  Ludovico Settàla come “il frutto più maturo di un travaglio speculativo, che, visto nell’insieme, ha qualcosa di imponente e basterebbe da solo a riscattare la troppo vituperata cultura italiana del secolo XVII” (Compendio di storia della letteratura italiana, II, p. 285, Firenze, La Nuova Italia, 1963).

Ma vi è ben altro. Per capire la stoffa morale della società italiana del secolo, prendiamo un caso-limite, paragonando i tumulti di Milano nel  novembre 1628 con quelli del 1814. In entrambi i casi,   la folla  è alla ricerca di un capro espiatorio contro una situazione penosa: il rincaro del pane, nel 1628; il rincaro delle tasse per le guerre, negli ultimi anni dell’amministrazione napoleonica. Del primo malanno è accusato  il vicario di provvisione; del secondo, Giuseppe Prina, ministro delle finanze della Repubblica italiana fin dal 1802. Nel secolo controriformista, il vicario è salvato dalla maggioranza ragionevole e cristiana della folla, che impedisce l’assalto alla casa del  vicario: era la stessa  gente che, svaligiato il forno degli Scanzi, si era  trattenuta  dal bruciarne un  altro, alla semplice vista di un crocefisso esposto, con due candele accese, alle finestre dei proprietari. Nel 1814, tramontato ogni potere di coercizione della Chiesa e subentrata la rivoluzione giacobina, portata in tutta Europa dalle truppe napoleoniche sulla punta delle loro baionette, il povero  Prina non riuscì a salvare la vita: lo straziarono con ogni mezzo e, secondo  Giuseppe Rovani, per interessi egoistici e nefandi.[37]

Qualcosa del genere si può arguire dalla esperienza propriamente secentista. E’ trasparente che, almeno nei concettisti veri e propri, a cominciare dal Marino, la superbia vanitosa è al fondo dello stile meraviglioso e (per dirla col D’Annunzio) “inimitabile”. Ma almeno quelli si contentavano di scrivere colla penna: quando Filippo Tommaso Marinetti vorrà imporre il futurismo al principio del secolo ventesimo, non esiterà ad usare il manganello per zittire i critici che osavano protestare alle mostre e conferenze del movimento. Anche qui, la differenza è abissale: e non in favore dei figli dell’Illuminismo, ma dei discepoli (anche se miserabili) della Riforma cattolica. La realtà storica testimonia a favore di quegli “enfatici e magari supponenti spagnoli” che avevano per motto “Per la honra pon la vida; y pon la dos, la honra y la vida, por tu Diòs”. E dalla maggioranza, religiosamente consapevole ed impegnata,  insorgono  le molte vocazioni religiose, le loro opere di cultura, di misericordia, di  eroismo missionario; nascono i molti santi ed i laici mearvigliosi del tempo. Il numero  dei religiosi cresceva in misura sorprendente, specie per gli ormai tre rami dei figli di San Francesco e per i gesuiti. Questi ultimi nel 1626 avevano 372 collegi in Europa, di cui 18 nella sola provincia religiosa che faceva capo a Parigi e che educava circa 13.000 alunni; nel 1640, nel centenario della fondazione,  i gesuiti erano cresciuti a più di tredicimila. Erano essi all’origine dei più arditi tentativi missionari, da padri Matteo Ricci (1552-1610) in Cina, che adottando i costumi locali e manifestando conoscenze scientifiche notevoli, riuscì a  farsi accogliere ed ascoltare fin nella corte di Pechino; a padre Roberto De Nobili (1577-1656), in India, che dissipò il disprezzo dei brahmani e delle classi alte della società indù, facendosi uno di loro in tutto quello che non contraddiceva alla fede; alla creazione di quelle “Doctrinas o Reducciones” nell’America spagnola, che sottrasse centinaia di migliaia di indios allo sfruttamento di encomienderos senza scrupoli e li educò al lavoro costante ed ordinato, fino a creare un alone di leggenda su mitiche ricchezze   da essi prodotte, che attirerà la cupidigia del governo portoghese e condurrà alla loro eliminazione nel corso del Millesettecento.  E missionari non furono solo i gesuiti: a migliaia   partivano per le nuove colonie d’America e per l’Asia, in tempi in cui il viaggio per mare era ancora rischio di morte per intemperie e malattie sulle navi. Giunsero sino al punto di immischiarsi troppo direttamente in politica, per amore delle anime, con padre Augen in Francia e p. Skarger in Polonia: la cosa fu però condannata dal superiore generale padre Acquaviva.

Accanto ai Gesuiti, nel secolo XVII rifioriscono i figli di San Francesco. La famiglia dei Conventuali aveva 952 conventi con 15.000 membri; quella degli “Osservanti” (di più rigida aderenza alla norma originaria) erano 30.000 all’inizio del secolo e, nel 1680, il doppio. I  Cappuccini, famiglia di rigorosa osservanza della povertà francescana, nel 1621 uscivano dalla tutela dei Conventuali: avevano ormai 25.000 membri.[38] Naturalmente, “in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre qualche individuo, qualche testa...” (Pr. Sp. c. XVIII). Fra i Cappuccini francesi, ad esempio, ci fu     Francesco  Le Clerc du Tremblay (1577-1638), detto padre Giuseppe da Parigi, consigliere di Armando du Plessis, cioè del cardinale Richelieu: è da tale presenza discreta ma  molto influente che è nato il termine “eminenza grigia”. [39]

Per i santi, ci fermiamo a quelli che hanno avuto una dimensione sociale.[40] Del Bellarmino (1542-1621), gesuita e cardinale, si è già parlato  per la sua attività intellettuale di scrittore. Muore, nel 1614,  S. Camillo de Lellis, che fonda i “ministri degli infermi” (Camilliani) col voto di assistere anche gli appestati. Nel 1619 muore a Lisbona S. Lorenzo da Brindisi, cappuccino nato nel 1552, conoscitore di moltissime lingue, predicatore ricercato anche dalle corti,  inviato speciale del papa in una decina di nazioni europee, guardiano generale del suo ordine, animatore eccezionale della vittoria cristiana contro l’esercito turco ad Alba Reale in Ungheria (1601), supplice oratore ai piedi di Filippo III di Spagna per un gioverno più umano nel regno di Napoli, il cui popolo aveva nel cuore e che era fra i più miserabili del tempo.  Il religioso, diplomatico e guerriero, moriva durante quest’ultima missione, così umile e filantropica. A Napoli lavorò S. Francesco de Geronimo, gesuita: oltre a predicare missioni al popolo (specie di corsi di esercizi spirituali per intere parrocchie), organizzò gli artigiani in confraternita (con scopi anche sociali) e si interessò degli schiavi presenti in città. Un compito parallelo lo assunse l’oratoriano beato Sebastiano Valfré per la città di Torino (Verduno, Cuneo, 1629-1710): egli fu vicino ai prigionieri e feriti delle numerose guerre ed anche ai Valdesi, incarcerati a Torino; si dedicò alle missioni al popolo, agli ammalati negli ospedali ed  ai ragazzi; fu consigliere ricercatissimo anche dalla corte sabauda: il re Vittorio Amedeo II lo volle suo confessore e gli ottenne l’arcivescovado di Torino, che lui però rifiutò per umiltà. Fu lui a suggerire al duca il voto alla Madonna di costruire la basilica di Superga, per la liberazione di Torino dall’assedio (1705-6). S. Gregorio Barbarigo (Venezia, 1625-1697), vescovo di Bergamo e poi d Padova, emulò le virtù eroiche di S. Carlo Borromeo, ma fondò anche una tipografia poliglotta, un seminario ed una scuola di lingue orientali. La beata Rosa Venerini (1656-1728) operò in favore della elevazione della donna, seguitando l’esempio di S. Angela Merìci: fondò l’Istituto delle “scuole e maestre pie” per la istruzione popolare della gioventù femminile in Toscana: fu appoggiata dal vescovo di Montefiascone Marcantonio Barbarigo (cugino di S. Gregorio). Dopo secoli, la santità torna a lambire il soglio pontificio con il beato Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi: 1676-1689): è noto per aver organizzato la suprema difesa dell’Europa contro l’assedio a Vienna del 1683, riuscendo a vincere le diffidenze del re polacco Giovanni Sobiesky; ma non va dimenticato che egli si era preparato al peso del papato col servizio degli appestati negli anni 1656-7, assieme al cugino Marc’Antonio Anastasio Odescalchi ed al futuro santo, Gregorio Barbarigo. A Roma muore a 92 anni, nel 1648, S. Giuseppe Calasanzio, nato in Spagna nel 1556 e fondatore delle Scuole pie (1617), da cui il nome di “Scolòpi” dato ai suoi discepoli: si diffusero in tutta l’Europa cattolica, nonostante le traversie che il fondatore e la stessa sua opera dovette subire, come “collaudo” delle iniziative che si ispirano a Cristo crocefisso e risorto. In Francia intanto, andava operando quel san “Vincent de Paul” (1581-1660) con una carità che giungeva ad insegnare a Luisa di Marillac (una delle prime discepole e poi superiora delle figlie della carità, la prima congregazione femminile non di clausura): “Bisogna farsi perdonare (dai poveri) il bene che si fa (loro)”.[41]

Ma queste figure sono solo la punta dell’iceberg di una fede ravvivata ed approfondita grazie alle disposizini di Trento e che si traduceva in  una operosità caritativa come spontaneo corollario: nascevano movimenti locali per malati, carcerati, pellegrini, dementi (Firenze), per i poveri di ogni genere ( S. Francesco De Geronimo, a Napoli), per le donne peccatrici (Bologna, Napoli), per gli appestati (per i quali, a Milano nel 1629-30, non si immolarono solo i confratelli cappuccini di p. Felice Casati, ma altresì i nove decimi del clero diocesano locale, mentre la città aveva perso solo tre quarti dei laici). Si fondarono anche dei Monti di Miserciordia (o Pietà), per prestiti su pegno e senza interesse, a favore dei poveri (Napoli). Ed erano iniziative che prendevano magari avvio dalla presenza di un relgioso o sacerdote particolarmente dotato, ma erano sostenute, poi, da molti laici.  E’ notevole la figura del protofisico Ludovico Settàla, a Milano, che non solo si prodigò per gli appestati negli anni 1629-30, prendendosi la peste e rimanendone paralizzato, ma rifiutò le cattedre di medicina offerte a lui in Italia ed Europa, per insegnare invece morale, vivamente interessato (come si è visto) al suo rapporto colla politica. La presenza di laici moralmente e religiosamente impegnati si può indovinare anche dalle opere letterarie edificanti che non sono poche nel secolo, anche se di  non grande valore artistico. Abbiamo già ricordato la produzione  scenica di Federico Della Valle (Asti, 1560 ca- Milano 1628) e Torquato Accetto (Della dissimulazione onesta: 1641). Dobbiamo aggiungere alcuni romanzieri di contenuto edificante: Bernardo Morando (Genova, 1589-1656: accanto a liriche mariniste e libretti per drammi musicali o balletti , scrisse il romanzo Rosalinda, edito nel 1650); Poliziano Mancini (Padovano, il suo romanzo “Il prencipe Altomiro di Lusitania” contiene, nella trama, parte fantastica e parte realistica, una convinta difesa della fede cattolica ed ebbe due redazione: 1640 e 1650) e Giovan Battista Manzini (Bologna 1599-1664: scrisse contro  i libri osceni e pubblicò opere di positiva moralità nella tragedia Fleride gelosa, nella commedia L’avarizia scornata e nel romanzo di intrighi politici Il Cretideo).   Di fronte a questi  uomini esemplari, stavano i libertini, miscredenti sorti in varie città, che erano i precursori del razionalismo illuministico  e massonico del secolo successivo e che giungevano a scrivere libri pieni di calunnie, favole ed oscenità (Gregorio Leti). Confrontando le figure, la vita e le opere dei due gruppi di persone si può serenamente affermare la complessiva o almeno prevalente sanità morale (e frequentemente eroica) di un secolo,  che certo  non era composto di soli santi, ma in cui la maggioranza conduceva una vita  spiritualmente molto superiore alle generazioni che stavano per succederle. 

 

            D) LE FORME ESPRESSIVE (LO STILE) DEL SECOLO XVII

 

Ci siamo già diffusi sulle forme espressive al di fuori dell’arte, là dove si è parlato del “gusto o sensibilità”: colori caldi, cerimonie fastose, saluti ripetitivi (le “cerimonie”),   sfarzo solenne, punto d’onore,  fogge abbondevoli di vestiti....

Qui ci  concentriamo sulla tecnica del secentismo o barocco letterario o marinismo o concettismo[42]. Questa nasce dalla poetica del meraviglioso in base a questo probabile (più o meno consapevole) polisillogismo. L’ARTE COINCIDE CON L’INTERESSANTE; L’INTERESSANTE CONSISTE NEL NUOVO, NELL’ORIGINALE; IL NUOVO OD ORIGINALE SIGNIFICA INATTESO, STUPEFACENTE, SBALORDITIVO, SORPRENDENTE, MERAVIGLIOSO; IL MERAVIGLIOSO SI OTTIENE PRINCIPALMENTE CON LE ACUTEZZE O CONCETTINI...[43]

Questa teoria dell’arte la si è già intravista esaminando il pensiero estetico. Richiamiamo le espressioni più famose: “E’ DEL POETA IL FIN LA MERAVIGLIA| (DICO DELL’ECCELLENTE E NON DEL GOFFO):| CHI NON SA FAR STUPIR VADA ALLA STRIGLIA” (G. B. Marino, Murtoleide, fischiata 33). Si veda anche Adone, IX, 2: “e detta a novo stil concetti novi”. E, di Gabriello Chiabrera, “O TROVAR NUOVO MONDO OD AFFOGARE”.

Ma che cosa è un concettino od agudéza? Si può tentare di definirlo così: accostamento di due realtà fra loro eterogenee, normalmente estranee, messe puntigliosamente od arbitrariamente in rapporto per creare stupore, meraviglia, interesse... bellezza estetica (od arte). Succintamente: IL CONCETTINO E’ L’ACCOSTAMENTO DI DUE REALTA’ OD IDEE SPROPORZIONATE FRA LORO.

La tecnica del concettismo,  pur non essendo l’unica forma del complesso fenomenno secentista o marinista o barocco, ne è però lo strumento più caratteristico. In Italia tale forma di espressione verbale si diffonde specialmente nei territori governati dalla Spagna (Lombardia, Italia meridionale) o da essa influenzati (stato pontificio). La Toscana è un’isola di classicità ed anche il Piemonte e Venezia risentono meno della moda, così come liberi da secentismo rimangono singoli scrittori di ogni regione d’Italia (a Napoli,  lo ripetiamo, Torquato Accetto).

Diamo ora degli esempi, fermandoci alla cerchia degli scrittori del Milleseicento.[44] Eccone alcune di G. B. Marino: “Rimbambir della stagione” (la primavera: Adone, 15, 93); “la bella primogenita dell’anno” (ivi,15,17); “Carta è il ciel, l’ombra inchiostro e penna il raggio| onde cancella il dì ch’è già compìto| e il fin del lungo corso a lett(e)re vive| d’oro celeste in occidente scrive” (il tramonto del sole: ib.20, 248). Altrove si definiscono “tepide brine” i sudori di Cilla; e si descrive Leandro, che attraversa l’Ellesponto a nuoto per ritrovarsi con Ero, con questa immagine balorda “fatto a se stesso e navigante e nave,| zappa i flutti”; o si dice di Elisa che si pettina: “ara| con terso eburneo vomere dentato| campi d’oro animato”. Il Marino  riecheggia il famoso distico di Catullo “Odi et amo. Cur hoc faciam fortasse requiris.| Nescio sed haec fieri sentio et excrucior” con questi versi: “Amo o non amo? Ohimè ch’Amor è foco| ch’infiamma e strugge ed io tremando agghiaccio.| Io vivo e moro pur: misera sorte| non aver core e senza cor languire” (Adone, 12, 202-5); e altrove, per descrivere la disperazione in amore: “Saran fiamme tartaree i miei sospiri,| la mia misera vita un vero inferno| fia Flegetonta il foco dei desiri” (ivi, 21, 331)

Altre citazioni... esemplari: “biade d’eternità, stalla di stelle” è il Paradiso secondo Giuseppe Salomoni. “Se miro, abbaglio; e se non miro, ’i moro” (Bernardo Morando). Ecco un concettoso augurio di pace: “Spari palle d’ulivo ogni bombarda”; o una  “acuta” definizione degli occhi della donna: “Finestre dell’aurora, usci del giorno”. Giuseppe Artale chiude meravigliato il sonetto sulla Maddalena che bagna  cogli occhi (il sole splendente della donna) e asciuga coi capelli (lunghi e ondeggianti come la acque del fiume Tago) i piedi del Salvatore: “Che ’l crin s’è un Tago e son due soli i lumi,| prodigio tal non contemplò natura:| bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi!”. Anche Ciro di Pers è sbalordito, ma per  il cacciatore che, nascosto presso uno stagno, spara sulle anatre di passaggio, premendo sul grilletto del fucile “... stringendo un dito solo| trar fulmini dall’acque, augei dal cielo,| far il piombo volar, piombare il volo!”  Claudio Achillini inizia con “Sudate, o fochi, a preparar metalli” un sonetto, di cui è interessante il contenuto ulteriore: il poeta  incìta a preparare ordigni metallici per sviscerare i monti di Paro e trarne nobili marmi, onde immortalare Luigi XIII di Francia, vincitore della Roccella e di Casale.

 Ma ecco anche i critici, verseggiatori o poeti che canzonano, fingendo di imitarle, le pazzie del secentismo. Salvator Rosa attribuisce ai “poeti oggidiani od odiernissimi”, ai secentisti insomma,    la bella trovata che il sole è fanale del giorno e il suo sorgere  è fatale alla notte, sicchè esso è  “boia che tagli(a)| colla scure de’ raggi, il collo all’ombre” ( Satira seconda). Più a lungo si è divertito in tali imitazioni-parodie Tommaso Stigliani, che vedremo in seguito.

I concettini non sono,  però, l’unica caratteristica dello stile secentista. Secondo Sapegno, ad esempio, il Marino si farebbe notare più per il culto sfrenato della metafora che per i giochetti scempi di parole (Compendio, II, 311). E, inoltre, si trovano in lui, come in altri scrittori del suo stampo, iperboli (esagerazioni), sinonimie ossessive, epigrammaticità altisonante. Ecco  la celebrazione della rosa (Adone, III, 156-7):

            “Rosa, riso d’amor, del ciel fattura,

            rosa del sangue mio fatta vermiglia,

            pregio del mondo e fregio di natura,

            della terra e del sol vergine figlia,

            d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,

            onor de l’odorifera famiglia,

            tu tien d’ogni beltà le palme prime,

            sovra il vulgo dei fior, donna sublime.

                                                                                  Quasi in bel trono imperatrice altera,

                                                                                  siedi colà su la nativa sponda.

                                                                                  Turba d’aure vezzose e lusinghiera

                                                                                  ti corteggia d’intorno e ti seconda;

                                                                                  e di guardie pungenti armata schiera

                                                                                  ti difende per tutto e ti circonda.

                                                                                  E tu, fastosa del tuo regio manto,

                                                                                  porti d’or la corona e d’ostro il manto.”

L’orgia delle similitudini, anzi delle metafore è ancora più densa in Gerolamo Fontanella (La bocca): “Bella fabrica d’accenti,| vaga culla del riso,| ricca cella d’odor, pompa del viso,| ingemmata prigion di cori ardenti,| amoroso spiraglio onde odorato| esce al foco del cor tepido fiato;| arco tenero e bella faretra| ch’hai di minuti avori| le tue saette onde ferisci i cori;| prezioso d’amor nobil cancello| di corallo e di perle uscio lucente| pellegrina conchiglia, urna vivente...”. [45]

Queste caratteristiche, mentre confermano il carattere non classico, non romantico, non realista, ma “bizzarro”, contaminato, confuso e demente del fenomeno barocco,  lascia sospettare la pretesa di garantire all’autore la presunzione della incontestabilità e, quindi, il plauso per la stessa sfacciataggine sua, per la impudenza con cui osa esprimersi in maniera così assurda e capricciosa. Almeno, questa è la psicologia di alcuni dei verseggiatori barocchi, a cominciare dal capocordata, il Marino. Dal Croce apprendiamo infatti che lo Stigliani attesta come quello, “dopo aver tentato di difendere certi luoghi delle sue poesie, finiva con lo scopiare in cordiali risate” (Storia dell’età barocca, cit. p.308). Ma alcuni ingenui ci credevano, poi, davvero...

Concludiamo, ribadendo che la tecnica della “sproporzione” è legittima, ragionevole e adeguata nell’esprimere la comicità. Quasi ogni battuta umoristica è basata sulla scoperta e sulla (conclamata o subdola)  denuncia di una sporporzione fra il comportamento|parola espressi e la norma della saggezza e dell’equilibrio. Ma il torto dei marinisti sta proprio qui: essi non sono abbastanza intelligenti da percepire che il loro stile funziona  normalmente solo con il genere comico, sicchè lo impiegano, incoscienti, (o vogliono, prepotenti, che sia inteso)con la maggior serietà drammatica od idillica: e cadono, come si è già detto, nel ridicolo, cioè nella comicità involontaria, diventando essi oggetto, anzichè soggetto, di riso. [46]

Ancora una caratteristica tecnica. Come le arti figurative vanno emulandosi, sicchè architettura, scultura e pittura tendono a compenetrarsi ed un solo artista disegna la struttura architettonica di una cappella, con parti aggettanti e plastiche dell’altare e del dorsale e, poi, ne dipinge l’icona centrale e le pareti, sforzandosi di cancellare i confini e sottolineare la continuità fra le tre arti: ebbene, pressappoco allo stesso modo, la letteartura in versi pretende di fondere epica e lirica, intrecciando poesia amorosa ed epica; oppure mescolando comicità ed epopea (poema eroicomico). Del primo tipo di fusione dà esempio  l’ Adone di Giovan  Battista Marino; del secondo, La secchia rapita di Alessandro Tassoni.

 

LA POESIA  BAROCCA[47]

 

                        GIOVAN BATTISTA MARINO ( Napoli, 1569-1625)

 

 LA VITA. Figlio di un giureconsulto che inutilmente si sforza di farne un avvocato, si mette al servizio di mecenati napoletani per realizzare la sua passione letteraria. Ambizioso e libertino, finì tre volte in carcere (l’accusa di sodomia si ripete). Tra il 1602 ed il 1608 si pose al servizio del cardinal Pietro Aldobrandini, a Roma. Di qui passò a Ravenna e dal 1608 al 1611 fu alla corte di Carlo Emanuele I a Torino. Si  fece nemico, però, a tal punto del segretario  del duca (il poeta genovese Gaspare Mùrtola) che questi attentò alla sua vita, ferendo invece un giovane che era con lui. Il Marino intercedette per il suo nemico, salvandogli così la vita, pur avendo con lui aspre contese a stampa (scambi di versi denigratori: Murtoleide| Marineide). Ma il Marino, innocente in questo fatto di violenza, non lo era in altri campi della morale: finì anche qui in prigione e cadde dalle grazie del duca. Egli allora accettò gli inviti della vedova di Enrico IV, Maria de’ Medici e si portò a Parigi, dove rimase dal 1615 al 1623, onorato e stipendiato. Ma, dopo aver pubblicato a Parigi l’Adone, rientrrò a Napoli, dove morì due anni più tardi (1625).

 

LE OPERE.  Lira” (1608): è una raccolta di liriche di vario metro, che riprende le “Rime” del 1602: sonetti, canzoni e madrigali (l’opera fu messa all’Indice dei libri proibiti).

                        Murtoleide (1608-9: l’opera, divisa in “fischiate” anzichè in canti o capitoli, finì pubblicata assieme alla risposta del Mùrtola, intitolata “Marineide”, nel 1619!).

                        Epitalami (1616:componimenti di carattere cortigianesco, per cerimonie nuziali ecc.)

                        Sampogna (1620: idilli pastorali, fra cui La Pastorella, che comprendono anche cinque egloghe ed un poemetto lirico: Sospiri di Ergasto).

                        Galeria (1620: illustrazione, in versi, di pitture e sculture vere o fantastiche: sonetti, madrigali, canzonette, stanze: vennero dapprima edite in due tempi, col titolo di “Pitture”, 1619; e Sculture, 1620).

                        La strage degli innocenti (poemetto sacro, pubblicato postumo nel 1632).

                        ADONE, poema edito nel 1623: non è un capolavoro, ma il suo capolavoro, cioè opera superiore alle altre composizioni.

                        Dicerie sacre (1618: sono spunti di oratoria accademica sulle arti della pittura e  della musica e sul cielo: è opera in prosa).

                        Lettere (raccolte in parte fra il 1627 ed il 1629, sono state pubblicate integralmente solo nel 1912).

 

POESIA E NO.

                                   Le liriche

Segnaleremo alcune composizioni liriche degne di nota; poi esamineremo più attentamente l’Adone.

Ecco un elenco di cose sufficienti o addirittura discrete, con brevi notazioni critiche.

            Pallidetto mio sole”: è un madrigale già presente nelle “Rime” giovanili ed è un idillio galante, cioè sospeso tra vagheggiamento affettuoso e sorriso umoristico.

            Apre l’uomo infelice allor che nasce”: sonetto, in cui le quartine si difendono bene, per una coerente tonalità epico-drammatica, mentre le terzine,  che introducono un contenuto idillico  pur mantenendo un musicalismo forte, scadono per dissolvenza incrociata.

            O del silenzio figlio e della notte”: sonetto, in cui succede il contrario: la musicalità drammatica delle due quartine disturba il motivo di ispirazione elegiaca, mentre sono convincenti le due terzine, che trovano finalmente una armonizzazione sonora meno inadeguata, perchè almeno le consonanti –liquide, nasali, fruscianti- sono conformi alla tematica mesta,  anche se le troppe vocali larghe sminuiscono  la caratura lirica, denunciando una disarmonia fra centri emozionali e corticali, fra materia espressa e mezzo espressivo.

            Tonate, o bronzi concavi e sonori”: sonetto della Lira, al duca di Savoia Carlo E. I: è stentoreo, enfatico, fra epopea e tragedia.

Per intuire, invece, il difetto più solito della retorica intellettualistica che tenta di supplire alla carenza di sufficiente ispirazione emozionale, si potrà vedere, ad esempio, la canzone “Ahi vita, ahi vita breve”.

                                   L’ADONE.

E’ un poema in ottave, di venti canti, 5123 ottave e 40.984 versi.

 La sua trama si aggira su un tema mitologico-amoroso. Amore (o Cupìdo, figlio di Venere) viene punito dalla madre, perchè ha indotto ancora una volta Giove a cadere in una passione adultera. Allora Cupìdo si vendica, facendo sbarcare sull’isola di Cipro (ove Venere regna sovrana) il bellissimo giovane Adone e fa cadere la madre in amore per lui. In un viaggio amoroso,visitano dapprima il giardino del piacere, distinto in cinque parti, secondo i cinque sensi dell’uomo. Si recano quindi a visitare la fonte di Apollo e, poi, i primi cieli dell’universo tolemaico, dove attingono il piacere dell’intelletto (poesia e scienza). Ma la gelosia di Marte perseguita Adone, che viene fatto uccidere da un cinghiale, durante una caccia. Siamo al canto diciottesimo. Gli ultimi due canti sono spesi a descrivere una pomposissima sepoltura ed i giochi funebri in onore dell’eroe.

La trama, come ci si può accorgere, è esile e stentata: il Marino non ha grandi idee da comunicare (  Dante) nè grandi commozioni da esprimere (Petrarca) nè grandi avvenimenti da cantare (Tasso). Non ha passione nè per la filosofia nè per la storia. Ha solo descrizioni da colorire, descrizioni di paesaggi naturali o di affetti psicologici o di piaceri sensuali (ma solitamente accennati e abbandonati, vista la pressione psicologica, urgente, dell’opinione pubblica rinnovata, anche senza  il timore di veti all’edizione, in Francia, nonostante che anche l’Adone fosse subito posto all’Indice). In ogni caso, egli non riesce a ricavare dai suoi motivi ispiratori stati d’animo commossi e commoventi. I tentativi che egli fa per suscitarli in sè e nei lettori si risolvono in enfasi ed orge descrittive: descrizioni sovraccariche di particolari minuti e noiosi oppure complicati aridamente con allusioni metaforiche, forzate secentescamente a sproposito. Per riempire venti canti, egli ricorre a divagazioni e peripezie, gonfiando il poema a 5.123 ottave (più quattro versi di “argomento” premessi ad ogni canto) ed a 40.984 versi; e riuscendo così (come si propse consapevolmente) a superare quantitativamente non solo la Gerusalemme del Tasso, ma anche il Furioso dell’Ariosto!

I motivi ispiratori.

 Primo e fondamentale è la passione d’amore Pretestuosamente si dovrebbe trattare di un amore affettivo (modello il Petrarca), ma effettivamente, come si indovina dalla trama, prevalente è quello erotico (duci, Boccaccio ed Ariosto). Nonostante, infatti, la esaltazione dell’amore casto di Imene (20, 475-77); nonostante il fatto che l’erotismo non è esplicito, tuttavia l’argomento sensuale è pervasivo, la impudenza plateale:  con accenni alla anatomia femminile, alla nudità ed a circostanze particolari dei rapporti venerei che solo la inettitudine del verseggiatore (o  il timore della censura?) rendono meno piccanti.[48] Tale  mancanza di pudore ha attirato sul poema le tre condanne “all’Indice” del 1625, 1626, 1627, anche se la spudoratezza è ben al di qua dell’oscenità divertita e coinvolgente delle novelle boccaccesche o di alcuni scritti rinascimentali.[49] Inutile aspettarsi palpiti di affettuosità idillica o drammatica, epica od elegiaca da un simile motivo, troppo proteso all’istinto , cioè ad una di quelle affezioni indirizzate alla prassi, che allontanano perciò l’autore dalla presa di coscienza degli eventuali stati emotivi (concomitanti la passione bruta); e, quindi, inibiscono la sua capacità di esprimerle nella loro purezza ed assolutezza, come esige l’operazione artistica.

Al secondo posto metterei la  passione descrittiva, con l’annessa mania mataforica, per cui l’oggetto descritto viene affogato sotto l’orgia di paragoni ed immagini che ne vorrebbero esaltare la bellezza.  Ecco le descrizioni di paesaggi di natura, ad esempio in I, 88-107 (antro di Nettuno); ivi, 126-8 (Cipro), fino a 20, 7-10. Ecco le bellezze artificiali (come ne La Galeria): nel canto secondo, il palazzo d’amore; nel duodecimo, quello di Falsirena; e si vedano anche 11, 26; 12, 160... Ecco la descrizione del corpo umano: nel c. 16 vi è la gara di bellezza maschile per meritare il trono di Cipro; nel c. 20, la descrizione dei vari partecipanti alle gare funebri... Ecco la descrizione di  atteggiamenti psicologici: ad esempio in 7, 229-250 (Talia canta l’amore).

Il motivo favolistico, mitologico e magico. Benchè il poema non sia classico ma intimamente romanzesco (perchè prevalgono i particolari sulla unità della trama e manca quindi l’equilibrio ed anzi lo stesso senso  unitario della materia cantata), tuttavia l’argomento è pesantemente mitologico e, quindi, in continuo riferimento alla religione pagana di Omero,  alla sua elaborazione nelle metamorfosi di Ovidio ed alle invenzioni affini del Marino: il tutto nello spirito della seconda parte del Roman de la Rose. Ecco allora le frequenti favole mitologiche (c. 2: giudizio di Paride; c.4: Psiche; c. 7: usignolo| amori di Marte e Venere; c. 5: Narciso| Ercole| Ganimede| Atteone...; c.19: favola di Giacinto| Pampino| Alcide| Carpo| Leandro| Achille... Per la novellistica cavalleresco-amorosa, si vedano i canti 12, 13, 14 (la fuga, la prigione, gli errori= viaggi avventurosi)  dedicati all’amore di Falsirena per Adone ed ai tentativi di lei di ottenere il contraccambio dal giovane, fedele a Venere. Queste parti novellistiche ricordano Boccaccio ed i poemi di Boiardo ed Ariosto.

Non mancano allocuzioni paganeggianti nei colloqui con gli dei, negli indirizzi  ed allocuzioni con loro: in 15, 99-102, Venere è detta “adorata dea”, nonostante che nel complesso del poema è simbolo del peccato (in XVI, 229, Cupìdo supplica la madre “dea benigna; in XVII, 13-14, Venere chiama Adone “idoletto gentil di questa vita”).[50] Vi sono bestemmie e ribellioni di Cupìdo verso gli dei (XVIII, 201-7) e della stessa Venere (18,146). Nel canto 19 vi è un dissennato paragone fra il pianto di Cristo su Lazzaro e il dolore per la morte di Adone...

Motivo scientifico e fantascientifico. Incerto fra Tolomeo e Galileo, fra astrologia e astronomia, il Marino pretende imitare Dante con tale tematica. Presenta il cielo come materia che si muove: materia però animata, donde gli influssi sulla terra e sugli uomini. Nel canto decimo (strofe 43-7), con le arti del Trivio e del Quadrivio, viene descritto anche il cannocchiale di Galileo. Vi è posto anche per gli oroscopi: quello su Adone (vita breve, morte violenta: XI, 171-183) è oggetto di derisione da parte di Venere, ma è confermato dalla chiromanzia, esposta minutamente nel canto XV, 38 e seguenti. L’astrologia è detta non necessitante, superabile dalla prudenza umana (Venere, cc. XI e XV), ma verifica le sue predizioni puntualmente nella cruda realtà dei fatti (c. 18).

Motivo encomiastico, adulatorio e politico. Dedicato a Luigi XIII di Francia (I, 5-8| X, 185-224| XVIII, 60); vi si elogia Maria de’ Medici (XI, 1-170); vi si ricorda Enrico IV (c. XI); si celebra la Francia (XX, 377-515); i duchi sabaudi sono esaltati nei cc. X e XX (353-376); gli Asburgo nei cc. X e XX (377-478); il papato nel c. X; si auspica una alleanza tra Francia e Austria contro la Inghilterra (XX, 444-470). Anche le glorie dei Romani sono rievocate in XX, 306-333.

Motivo letterario. La letteratura fa, anche nel Marino, da motivo ispiratore: egli nel c. IX scorre una lunga serie di poeti da i greci a Dante, da Petrarca e Boccaccio al Tasso ed al Guarino; e fa della satira contro i poetastri contemporanei. Sarebbe interessante seguire su una edizione annotata (quella dei Classici Mondadori, ad esempio) tutte i riferimenti, rievocazioni, citazioni dai poeti più diversi. Egli stesso confessava di “leggere col rampino”: ma ad una memoria eccezionale non soccorreva una carica emotiva adeguata, sicchè egli rivela una “erudizione” letteraria straordinaria, ma una povera “cultura” poetica: anche del Tasso, l’autore più saccheggiato, egli risente le cose  meno significative, non i punti più alti della Gerusalemme o delle liriche.

Motivo relgioso. E’ rara la nota religiosa cristiana (mentre, come si è detto, dominante è quella pagana): Lepanto è ricordato in XVII, 173-5; contro gli Ugonotti, in XX, 500-513. Del richiamo quasi blasfemo al pianto di Gesù su Lazzaro per quello in morte di Adone, si è già detto.

Conclusione. Il Marino non “ci ha pensato su” abbastanza: egli non  divenne mai cosciente che, in realtà, lavorava su un duplice motivo ispiratore di fondo: il tema amoroso, che per sè è lirico, contemplativo e dolce; ed il tema epico-tragico  che consisteva ( tale era la sua intenzione-illusione)  nell’esaltare tale vicenda  come una esperienza inimitabile e sublime; e nel pretendere di ricondurre la morte tragica di Adone ad una circostanza eroica.  La mancata chiarezza ed unità del poema la si può sospettare anche dal solo fatto della evoluzione radicale nella  sua stesura: voleva essere, in un primo tempo (alla fine del 1500) un lavoro di tre soli canti, ma fu “accresciuto e impinguato”, “dilatato con digressioni ed altri lussureggiamenti”, rischiando di prolungarsi fino a ventiquattro (come si ricava dalle sue lettere: cfr.  Nota bibliografica all’edizione ricciardiana, curata da Giuseppe Guido Ferrero, 1954, p. 6). Alla ambiguità dei due motivi ispiratori –amore ma enfatizzato dalla volontà celebrativa- corrisponderà una miscela incongrua ed anzi autoelidente dei toni lirici, con  una abituale insignificanza dell’equilibratissimo e scorrevolissimo musicalismo espressivo: il risultato coerente sarà il fallimento  estetico dell’opera

 

Le tonalità liriche. Si è già detto della pochezza di brani poeticamente rilevanti. Solo alcune strofe della gara fra il musico e l’usignolo raggiungono un livello discreto di arte: gli altri  passi che segnaleremo sono appena sufficienti. Il patetismo e l’enfasi  (quando ci sono) surrogano le emozioni armoniose, sane, profonde (che non ci sono quasi mai).

 Quanto a definire la tonalità di fondo, intuibile pur nella sua  flebilità, è un problema insolubile: aver scelto, come oggetto di un poema intenzionalmenmte epico (modelli Virgilio ed il Tasso), un argomento tipico della contemplazione idillico-elegiaca (l’amore) rende abitualmente ambigua l’atmosfera . Come si è già anticipato nella “Conclusione” ai motivi ispiratori, si perviene ad una dissolvenza incrociata abituale: il dramma entra in collisione “morbida” con l’idillio dell’amore e ne finirà silenziato, pur condannando alla insgnificanza, a sua volta, la vena contemplativa del tema amoroso. L’analisi stilistica ce ne darà la conferma: il lirismo  sostenuto, epicizzante è sempre minato da una “onda di fondo” contemplativa, così come il tema addirittura tragico del poema (morte di Adone) è snobbato dalla dispersione verso la dolcezza dell’amore e la tenerezza dei paesaggi, mentre il musicalismo medio risulta inattinente agli episodi che richiedono forza, impeto, grandezza di gioie o di dolori: salvo le eccezioni che segnaleremo subito. Il poema non risulta, dunque, nè lirico nè epico-drammatico, ma arido e noioso: anche per l’intervento delle continue “digressioni e lussureggiamenti”, che distraggono il poeta e lo  disperdono a livello di motivi di ispirazione, di tonalità  accennate e subito spente, a livello del timbro stesso della espressione, onnivalente e nulladicente.

L’unico  brano esteticamente davvero riuscito è quello della gara fra il suonatore di liuto e l’usignolo in VII, 32-56: il piccolo pennuto non vuol cedere all’uomo ed imita tutte le sequenze di note e le variazioni di toni, finchè muore esausto per lo sforzo. Quale è il registro di queste strofe? Sostanzialmente è epico: sia l’elogio dell’uccello prima della gara (strofe 35-6)[51], sia  la narrazione della sfida (str. 43-54)[52]. Vi è spazio per altro a due note elegiache (strofa 40, vv. 7-8; e i primi quattro versi della strofa 55)[53] e, due volte, per versi idillici (strofa 42, 1-4; e 45, 5-8)[54]. Se tutto il poema fosse stato così sentito, sofferto, goduto dall’autore, quanta ricchezza per la umanità, quanto gaudio per i fruitori, che invece debbono sorbirsi la noia di più che quarantamila versi di ben diversa natura...

Altri brani famosi e non del tutto spregevoli sono quello sulla rosa (già riportato) che è sempre in tonalità epicizzante, ma alquanto stentorea e supponente, per il fuororeggiare di immagini e metafore secenteggianti; e l’altro, del tutto simile, sul gallo (II, 7). Anche alcune strofe del canto ventesino sono riuscite: ad esempio la 7, 8 e 10; e la 85 (sulla danza della sarabanda e della ciaccona) e  sono in tonalità maggiore e festosa, cioè appunto tendente all’epopea. [55]

In XIX, 231 abbiamo invece l’abituale miscuglio di drammaticità nel motivo (Polifemo disperato vien traformato in Mongibello dal padre Nettuno), l’incerta musicalità nella esecuzione verbale (troppe “i” ictate e in sede di rima, oltre le consonanti equilibrate fra dolcezza e forza). Nell’episodio, poi, di Leandro (XIX, 252- 292), l’epicità dell’ardore nel voler raggiungere Ero attraversando l’Ellesponto fra Abido e Sesto; e la tragedia del suo annegamento nel mare in tempesta –motivi sommamente drammatici- sono elisi e rovinati non solo dalla  costituzionale dissolvenza coi residui della passione amorosa (che si manifesta in aggettivi di tenerezza ed in una musicalità incerta tra vocali larghe e consonanti  tuttofare); ma anche dalla mania concettista del voler sbalordire: esagerazioni, giochetti di parole, contrapposizioni forzate...: neppure le strofe centrali (276-86) convincono. Il lettore sembra scoprire una melodia (drammatica, in questo episodio) che poi lo delude, spezzata come è dal contrasto di altri suggerimenti morbidi o ridicoli. 

Tendenti alla elegia (sulla scia dei notturni del Tasso), oltre i versi già sopra citati e riportati dal c. VII, si vedano IX, 200 (almeno i due versi 7-8) e XVIII, 45.

Idillici sono XII, 196; XIII, 34; XV, 11 e 13., oltre i due casi citati dal canto settimo.

 

Note stilistiche. L’ambiguità dei motivi ispiratori, attraverso i registri lirici ambivalenti, si riflette  in tutta la tecnica espressiva e, più clamorosamente, nella musicalità del poema.

Poema incerto fra l’epicità drammatica ed il lirismo contemplativo, l’Adone surroga spesso l’azione (anzi le molte digressioni) con effusioni sentimentali e loquaci, con cicalate pseudoaffettive: all’evolversi di un’azione complessa  ma chiara, si sostituiscono discorsi d’amore o di pene; il Marino si sfoga in una chiaccherata salottiera, di gente oziosa e (almeno nel suo caso)  viziosa. E con tale logorrea metricamente perfetta, egli poteva   dilungare il poema all’infinito: senza dir nulla di interessante.

La musicalità e la padronanza del verso. Il dominio della metrica è tale che, a parte i brani citati per qualche intonazione particolare (allora  la musica si adegua discretamente al lirismo, ora con  pravalenze di suoni forti, ora con intensificazione di quelli dolci), si deve riconoscere che neppure il melodioso Petrarca ha  una armonia così  uguale e accarezzante quale sa esprimere il Marino. I versi  fluiscono naturali, con gli accenti quasi costanti su quarta, sesta, ottava, decima, senza urti, senza angolosità, senza sforzo: la stessa ottava d’oro dell’Ariosto, metricamente e musicalmente, impallidisce al confronto, perchè non è così scorrevole ed elegante.[56]

La sonorità delle parole presenta una leggera prevalenza della dolcezza per quel che riguarda l’impasto delle consonanti: frequentissime liquide (vi è forse un lieve predominio della “r”, che   si trova  raramente, però, in combinazione stridenti o rafforzate), nasali (leggero vantaggio per la “n”?) e fruscianti (prevale sicuramente la “v” rispetto alla “f”). Le tronche sono rare ed emarginate, tanto che non si  avvertono, mentre  è sensibile e ammorbidente la presenza delle parole sdrucciole.  Ma la prevalenza è appena percepibile: difatti sono frequenti anche le consonanti forti (labiali od esplosive, zeta e doppia zeta, gutturali e dentali).[57]  Il contesto vocalico, invece, ci pare equilibratissimo, con larghe e tenui, con la media “e” in misura comune, prosastica. Gli iati non sono frequenti e non disturbano: si inseriscono bene e non urtano l’orecchio, al punto che quasi non ci si accorge della loro presenza.

Eppure, con tanta abilità metrica ed equilibrio musicale, ad un certo punto ci si accorge che le rime (il fattore musicale precipuo nelle lingue romanze), ebbene, sì, che le rime...  non ci sono! Cioè, non si sentono. Il lettore  sconcertato finisce per avvertirle solo a seguito di un impegno critico specifico.  Questo conferma che si tratta di una musicalità da maschio evirato: tanto gentile, scorrevole, carezzevole, quanto impotente (può essere anch’essa un indizio di omosessualità?). La voce di questo  poema è quella di un soprano adulto, ma mutilato: voce soavissima, vellutata perchè smascolinata. Vien davvero la tentazione di citare Dante (Inferno XXVIII, 126): “Com’esser può...”, completando “quel sa che i versi scrisse”.  O forse non lo sapeva neppure lui: non aveva una coscienza critica ed autocritica all’altezza. Altrimenti avrebbe stracciato i suoi versi.[58]

L’abilità descrittiva del Marino è tale, che una cosa da lui ritratta sembra avere la stessa chiarezza e facilità di una pagina in prosa. Citiamo qui   XV, 119-172, dove la scacchiera, le varie figure del gioco e le loro mosse nella partita sono descritte mirabilmente, con l’aggiunta delle furberie di Mercurio che tenta ingannare Venere e favorire Adone. Ma la  raffinata lucentezza  non muove il cuore, sperso dietro a troppi conati di lirismo, elisi l’uno dall’altro. Si veda, per un confronto illuminante, la forza della più breve ma  decisamente epicizzante presentazione della scacchiera e di quella ironico-drammatica della partita a tric e trac, nel Giorno (Parini, Il Mezzogiorno,1143-1179).

 In definitiva il Marino può e deve essere  accomunato a verseggiatori felicicissimi, ma per lo più insignificanti come P. Ovidio Nasone, Vincenzo Monti, Gabriele D’Annunzio. Per tutti costoro vale l’accusa del poeta: “Odio il verso che suona e che non crea” (non commuove).

Se ci si riferisce a tale contrasto fra dimensione armonica (eccezionale) e componente melodica (assente, per lo più) del verso mariniano, allora si capisce il giudizio del contemporaneo Alessandro Tassoni: “Piacesse a Dio ch’io facessi i versi così belli come li sa fare il Marino, che mi basterebbe l’animo di fare il resto meglio di lui”.[59]

Il metaforeggiare insistente è un’altra caratteristica dello stile marinista: egli ripete con paragoni, immagini, metafore la stessa idea. Di qui, l’uso di apposizioni continuate o di frasi relative per  dire con altre parole lodi o caratteristiche di cosa|persona in argomento. Si comincia dalla prima strofa con la esaltazione di Venere. Ecco le apposizioni: “santa madre d’Amor| figlia di Giove| bella dea d’Amatunta e di Citèra” Ed ecco le “relative descrittive-elogiative-celebrative: “te, pr cui si volge e move| la più benigna e mansueta sfera....| te, la cui stella....de la notte e del giorno è messaggiera;| te, lo cui raggio lucido e fecondo| serena il cielo ed innamora il mondo” (I, 1). Dopo la madre, ecco   Cupìdo, onorato da Nettuno con filastrocche di elogi (I, 116); ecco il gallo (II, 6) ed ecco la rosa (III, 156-60)... fino alla variazione di paragoni sulla condizione del poeta stesso che si avvia ad ultimare  l’opera e si eguaglia, nell’apertura del c. XX, al cavaliere, al cigno, all’orologio (che sta per scoccare l’ora), alla lucerna (cui vien meno l’olio), al pellegrino (giunto stanco alla meta), al nocchiero (che sta per arrivare in porto), a Leandro (che  arriva a Sesto: XX, 1-4).

Ed approdiamo ormai ai concettini. Che gioverebbe fare un elenco anche solo di rimandi, quando ve ne sono dappertutto? La seconda strofa del c. I ne è già zeppa: “di pacifico stato, ozio sereno” (ripetizione variata); “ addolcito, il Furor tien l’ire a freno” (Furore-ire-dolcezza); “lo dio de l’armi e de la guerra| spesso suol prigionier languirti in seno” (Marte, da vincitore,diventa prigioniero di Venere); “guerreggia in pace” (è sempre Marte che pare precorrere gli Hyppies nel proclamare “noi facciamo l’amore, non la guerra”). Dal c. VII abbiamo già riportato la strofa 35, che finisce l’elogio dell’usignolo in questi termini: “o ch’altro sia che  la liev’aura mossa,| una voce pennuta, un suon volante?| e, vestito di penne,  un vivo fiato,| una piuma canora, un canto alato?”

Mille altri se ne potrebbero riportare, ma preferiamo rimandare il curioso lettore a passi del poema, con una parziale collezione in nota.[60]

Oratoria, retorica, discorsi ad un tempo altisonanti e miserabili ingombrano gran parte del poema, dove i persoanggi parlano troppo e agiscono troppo poco. Vi sono sfoghi impotenti di stati d’animo velleitari, detti ma non espressi: Polifemo che, accecato, si lamenta è proprio l’analogato superiore del povero poeta, cieco di emozioni anche se fluente di musicalità: “Tutti questi discorsi all’onde, ai venti| sparge il meschino e l’ode il vento e l’onda...” (XIX, 216). Aria rifritta, direbbe Montanelli: acqua stracotta, diciamo noi. Documentazione,[61]  attraverso rimandi in nota.

Mancanza di coerenza psicologica e di verosimiglianza.  A parte la favolistica che è alla base dell’opera, fermiamoci su un solo particolare: Venere, dopo tutti i pianti sul defunto Adone, eccola sorridere ai giochi funebri, mentre premia il primo vincitore (XX, 60; e si vedano anche le strofe 193| 217| 474. Di Adone non si parla più.[62]


[1] Che la Spagna fosse esosa (“in Sicilia rosicchaiva, a Napoli mangiava ed a Milano divorava”) è forse un mito  nato sulle inesorabili gravezze imposte dalle necessità della guerra. Guerra che la Spagna non aveva voluto: la “defenestrazione di Praga” del 1618, con cui i protestanti interruppero di prepotenza le trattative coi cattolici che volevano il rispetto delle clausole della pace di Augusta (1655), era  un chiaro atto di guerra. E, d’altra parte, la clausola del “reservatum ecclesiasticum” (per cui i prìncipi o titolari di benefici ecclesiastici, che fossero passati o passassero al protestantesimo dopo il 1552, dovevano lasciare alla Chiesa cattolica i possedimenti ecclesiastici) non era solo una clausola economica: era il tentativo serio di impedire che l’abbandono della fede tradizionale fosse  causata da motivi egoistici  anzichè religiosi (come era avvenuto ed avvenne troppo spesso: i beni della Chiesa,  o venivano incamerati dai prìncipi o dai loro titolari che, sposandosi, li rendevano ereditari.

 Le strettezze dell’economia spagnola sono dimostrate dalla incapacità a pagare gli interessi sui prestiti: nel 1557, nel 1575 e nel 1607 essa dovette dichiarare bancarotta.

 

 

[2] Per molte di queste notizie, ci riferiamo a Gregorio Penco, Storia della Chiesa in Italia, Milano, Jaka Book, 1977. Per il dato riportato nel testo, cfr. v. II, p.72.

[3] E’ noto che il termine “barocco letterario” è venuto dall’arte visiva: ne riparleremo a suo luogo. Qui si pone la questione del valore  estetico della produzione figurativa: non tanto dei grandi e riconosciuti “poeti del barocco  visivo”, dalla architettura del Vignola (Jacopo Barozzi, detto il: 1507-1573) a quella del Borromini (1599-1667), dalle scultura di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) alla pittura di Pellegrino Tibaldi (1527-1596) e dei tre Carracci (Annibale –1560-1609, il fratello Agostino –1557-1602, il cugino Ludovico, 1555-1619); quanto piuttosto della grande schiera dgli artisti   che lavorarono nella seconda metà del Millecinque e nel Milleseicento. In proposito ci sembra di poter dire: anche questi artisti  operarono sotto la pressione di un mercato urgente ed esigente; anch’essi si rifugiarono in abilità tecniche (la prospettiva, ad esempio, in pittura) od enfatizzarono l’espressione emotiva; anch’essi in qualche misura spagnoleggiarono, nel privilegiare colori caldi (autunnali, tendenti al  marrone), sbuffi dei vestiti  ed esagerazione dei sentimenti espressi (eccessivi quasi sempre, quando non esasperati addirittura); spesso anch’essi ricercarono un effetto ad ogni costo (volevano impressionare e stupire, destare orrore od estasi).  Ma questo non impedisce che opere di sufficiente artisticità, talora in  espressione sana e universalmente valida, talora in chiave patetica od enfatica, siano uscite dalle loro menti e dal loro cuore.  Una rivalutazione di certe manifestazioni del barocco figurativo è cosa ormai acquisita.

[4] Una motivazione a priori del cammino verso una acribia maggiore, ci sembra questa:  la natura non fa salti. Ora che si passi in Italia di punto in bianco dall’ingenuità più acritica (nel Milleseicento) alla attitudine più esigente nel controllo della verità (nel secolo seguente)  pare proprio uno di quei salti difficile da accettarsi. Il sospetto è che le cose si siano svolte gradualmente; che, cioè, la crescita del senso critico sia avvenuto anche durante il secolo XVII.

[5] Girolamo Cardano, di Pavia, visse tra il 1501-1576; Andrea Cesalpino, di Arezzo, tra il 1519 ed il 1603; Jacopo Grévin, francese, dal 1538 al 1570; Ambrogio Paré, francese, dal 1517 al 1590; lo Schenchio (Schlenk) di Grafenberg, dal 1530 al 1598. Solo il romano Paolo Zachia, medico alla corte pontificia, dal 1584 al 1659 visse in pieno secolo XVII (non siam riusciti a trovare le date  di Pietro Salio, faentino). Anche il processo per gli untori, presunti cause della peste nella Milano del   1629-30, fu uno degli ultimi casi clamorosi: già nel sec. XVII la credulità per streghe e malìe andava scemando.

[6] D’altronde, dopo la svolta critica dell’Illuminismo, come spiegare  il ritorno alla fiducia negli oroscopi dei nostri tempi dottissimi; la follia della sequela di Nietzsche e di Marx fino a guerre e rivoluzioni assurde e ben più tragiche della caccia alle streghe; e il culto di Freud, che  è sempre meno creduto eppure ha sempre più seguito? Un articolo di U. S. News & World Report, del 19 ottobre 1998, titola: “Burying Freud and praising him”, cioè “Seppellendo Freud e lodandolo”.  Le due forme di incultura si possono spiegare, ma con fattori differenti:  nel secolo XX, non è un difetto della mente, cioè la ignoranza, che travia  il giudizio, ma è l’impazzare  di istinti ed emozioni che oscurano la ragione. La differenza non torna ad onore dei nostri  tempi progrediti: là, vi era  una sopraestimazione di  valori  spirituali per un eccesso di fede acritica; qui  siamo in presenza di una sopravvalutazione di valori animali, quali il sesso, il  benessere ed il potere, per mancanza di onestà morale...

[7] Si veda la denuncia fatta dallo stesso Galieleo nella edizione nazionale delle  “Opere”, XI, p.165. Cremonini adduce questa scusante: “quegli occhiali m’imbalordiscono la testa: basta, non ne voglio saper altro”.

[8] I termini “crisi, critica, cribro e cribrare, acribia ed acrisia, (in)discreto ed (in)discrezione” derivano tutti dal verbo greco “crìno”. Esso significa, in senso materiale e primitivo, “scegliere, separare” (onde “cribro, cribrare”) e, in senso traslato e spirituale, “giudicare” (cioè separare il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo). Da questo secondo senso derivano sia i termini che affermano ora lo stato di lotta per  la scelta fra due stati di salute o di animo (“crisi”),  sia quelli che dichiarano   la potenza analitica o separatrice, la acutezza di visione (di “scanning”) della intelligenza (senso critico ed acribia) o del senso morale (discrezione); oppure la negano (acrisia, acritico, indiscreto).

[9] Veramente per Biagio Pascal (1623-1662) l’appello dell’uomo alla rivelazione cristiana  ed alla redenzione di Cristo nasce da una situazione non ontologica o metafisica dell’uomo, ma dalla sua condizione storico-psicologica,  conseguenza  della colpa  dei progenitori. Il cristianesimo si rivela l’unica via per spiegare il “mistero dell’uomo”, cioè il groviglio di bene e male che rende incomprensibile la contradditoria psicologia umana, senza le verità sulla “storia religiosa dell’umanità”, manifestate dalla religione ebraico-cristiana (peccato originale). Come si vede, se in Campanella può esserci  un presentimento  delle “ Pensèes” di Pascal, in Pascal vi è più di un precorrimento del pensiero esistenzialistico.

[10] Durante il Millecinquecento gli italiani avevano contribuito allo sviluppo dell’Algebra, mediante la invenzione di formule  per la soluzione delle equazioni cubiche o di terzo grado (Niccolò Tartaglia: Brescia, 1500 ca –1557) e di quelle di quarto grado ( Ludovico Ferrari: Bologna 1522-1565).

 Il merito per la riduzione degli esperimenti a legge scientifica è usurpato a Galileo da Francesco Bacone (1561- 1626), che però non sa specificare la differenza fra l’experimentum crucis (esperimento cruciale o decisivo) e gli altri precedenti. La proposta della costruzione di una macchina che funzioni solo se l’ipotesi di lavoro è vera, dà valore universale all’esperimento che vi si conduce. Tale contributo è fondamentale anche per la metodologia della dimostrazione filosofica, perchè  stabilisce la sostanziale identità fra metodo induttivo e metodo deduttivo, in quanto entrambi necessitano di una “universale” per assurgere dalla intuizione alla dinostrazione. La differenza rimane, ma è accidentale ( “geografica”, vorremmo chiamarla), in quanto il tipico metodo induttivo prende le mosse da una esperienza particoalre e giunge ala conclusione inserendo la universale in un secondo momento, mentre il tipico sillogismo deduttivo pone come prima premessa una universale, salvo a porre in secondo luogo la proposizione particolare, da cui scendere alla conclusione.  Ne consegue, allora, che la  decantata “fecondità” del metodo induttivo, rispetto alla pretesa “sterilità” di quello deduttivo, sta tutta e solo nella  genialità dello sperimentatore, non nella “magia” del metodo usato. D’altronde,  anche la filosofia usa sillogismi che prendono le mosse da un giudizio particolare, salvo ad inserire la premessa universale  in un secondo momento. E, parallelamente, la scienza abbina, ad esperienze minute e sfibranti, intuzioni generali per giungere a conclusioni innovatrici: in realtà la ipotesi di lavoro  nasce solitamente da una deduzione generalissima operata su leggi universali precedenti, messe a confronto con sperimenti particolari recenti: usa anch’essa, cioè, un processo deduttivo ed induttivo assieme, da confermare con la elevazione alla universalità degli esperimenti singoli, attraverso l’esperimento di laboratorio.

[11] Certo che il contributo di altri popoli europei al progresso scientifico fu molto maggiore. Così la introduzione delle lettere al posto dei numeri in algebra è del francese Francesco Viète (1540-1603); francese è anche Biagio Pascal  (1623-1662) che inizia il calcolo delle probabilitàla, il perfezionamento del calcolo degli indivisibili, la  teoria delle coniche; inventa il torchio idraulico e  la prima macchina calcolatrice; ed alla Francia appartengono Renato Cartesio (1596-1650) che, più noto come filosofo, è pure l’inventore delle coordinate, della geometria analitica e del sistema per correggere le aberrazioni cromatiche delle lenti sferiche; Denis Papin (1647-1714), inventore dell’autoclave, premessa all’impiego del vapore come forza motrice; e Pierre Fernet, che imposta il calcolo differenziale, prima parte di quello infinitesimale; ed appartiene alla Francia anche la invenzione della bilancia di precisione e della trafilazione di rame e ferro, nonchè  la invenzione delle “corde orizzontali” (a Lione) che migliorano i meccanismi per disegnare le stoffe. E mentre le Fiandre trovano il metodo per  tranciare e stampare oggetti metallici, l’Olanda, che ha inventato il cannocchiale (abbinando le lenti convesse, per accrescerne l’efficacia di ingrandimento), giunge alla costruzione dell’orologio a pendolo, con correzione delle differenze nel tempo, sfruttando la scoperta dell’isocronismo galileiano (1657); ed alla invenzione del bilanciere a molla per orologi da tasca (1675: Christiaan Huygens, 1629-1695). Il Roemer, basandosi sulle leggi di Keplero e di Newton, riesce a misurare la velocità della luce, attraverso la differenza fra il tempo preciso di un eclisse  dei satelliti di Giove e l’ora della sua percezione dalla terra (1675). La Germania è pure presente: Otto von Guericke, con gli emisferi di Magdeburgo (1654: creato il vuoto al loro interno, resistono alla trazione opposta di due cavalli) riesce a dimostrare la forza della pressione atmosferica; Guglielmo Leibniz nel 1684 pubblica per primo e  con migliore  metodo gli studi sul calcolo integrale, che Newton già aveva usato nel contempo,  complemento a quello differenziale del Fernet. Ma è la Inghilterra che domina. John Napier (scozzese: 1550-1617) inventa i logaritmi; Isacco Newton (1642-1727) sintetizza nella legge gravitazionale le tre formule di Keplero,  estrapolando dal sistema solare alla comprensione dell’universo tutto; concorre con Leibniz  alla scoperta del calcolo integrale  e costruisce il primo telescopio a riflessione (1668); Thomas Savery applica la forza-vapore al pistone  (la coppia cilindro-pistone ha alle spalle sia Huygens che l’irlandese Roberto Boyle -1627-1691-, l’inventore di una delle leggi sulla dinamica dei gas) per sollevare l’acqua dal fondo delle miniere (1698): questo permetterà di giungere, nel primo Ottocento, con Giorgio Stephenson, alla locomotiva (1814) per il treno su rotaie (1825). Sempre in  Inghilterra si costruisce la prima nave a tre pontili (1637), del peso di 1500 tonnellate; e Cristoforo Pohlem escogita il modo di fabbricare la ghisa. E la serie di invenzioni continua con uno stillicidio che prepara la rivoluzione, prima tecnica che  industriale, del secolo seguente: vi è la meccanizzazione per produrre calze e bottoni, la filatura e tessitura meccanica (a Danzica si raggiunge la lavorazione di 40 pezze di stoffe contemporaneamente)...

[12] Per le notizie di questo paragrafo, ci rifacciamo a Hubert Jedin, Storia della Chiesa, v. VI: Riforma e Controriforma; ed a Gregorio Penco, Storia della Chiesa in Italia, Il Seicento, Milano, Jaka Book, 1977.

 Con “ provvedimenti non del tutto accettabili” ci riferiamo a parte della concezione teoretica e del  metodo pratico  nei processi inquisitoriali. Tali obiezioni si riferiscono  sicuramente a tre suoi aspetti: il sottoporre a giudizio gli eretici, cioè quanti pensavano diversamente dal Magistero cattolico in materia di rivelazione; l’impiego della tortura contro degli imputati per estorcere confessioni autoaccusatorie; la persecuzione delle streghe. A scusante del primo atteggiamento va però ricordato che la teoria  per cui solo la verità ha diritto di diffondersi e che l’errore va, perciò, inibito era ritenuta candidamente da tutta la società (i protestanti condannavano e bruciavano non meno dei cattolici, ahimè!): si trattò , insomma, di un tragico errore, non di malizia interessata e responsabile. Quanto alla tortura siamo di fronte ad una eredità romana, rafforzata dalla violenza dei popoli germanici, entrata nella Chiesa con la loro conversione, che denuncia la povertà intellettuale e morale di tutta l’umanità, da cui solo una minoranza di coscienze privilegiate si sottraeva (abbiamo citato i gesuiti contesatori). Pur escludendo malizia anche in questo caso (non dimentichiamo che un papa  proveniente dal Supremo tribunale della Inquisizione è nel catalogo dei santi, Pio V: 1566-1572), riteniamo pertinente che papa Giovanni Paolo II abbia fatto, durante la Quaresima dell’Anno santo Duemila, una richiesta di perdono alla umanità su questa materia. Il terzo ambito della Inquisizione, su cui oggi non si sa se piangere o ridere, è  la confusione fra malattie mentali e stregoneria.  Pure, per  il primo e terzo caso ci sono attenuanti non piccole: l’eresia luterana finì presto in contrasto politico-militare e la eliminazione dell’eretico finiva per rientrare (specie in Spagna) nei mezzi di difesa della nazione; quanto alla lotta alle streghe,  essa si confuse con la lotta alla droga, di cui pare proprio che almeno alcune, indiziate come possedute dal demonio, fossero spacciatrici. Infine, una nota di distinzione e riflessione. Nessuno pensa più ad una soluzione  meno che rispettosa delle discrepanze ereticali, cioè confessionali, fra interpretazioni diverse del Vangelo.  Altro, invece, è il caso del rifiuto totale di fede in Dio, cioè il problema dell’ateismo. Spieghiamoci. L’esistenza e predicazione di  Cristo (e la fondazione della Chiesa, che ne consegue) sono avvenimenti storici, cioè tali   che alla loro credenza la ragione è condotta anche da elementi  emotivi (fiducia nel valore testimoniale degli scrittori dei Vangeli e del Nuovo Testamento in genere) e volitivi (decisione di credere in base alle prove della ragione,  in base cioè alla accettabilità  di quelle testimonianze), sicchè la fede in tali realtà non risulta di primaria evidenza e non può essere  oggetto, quindi, del giudizio, accettazione o rifiuto dello Stato, ma solo di discussione e prove degli studiosi e delle singole coscienze. Viceversa la accettazione di Dio dipende da un puro ragionamento filosofico; ed i filosofi seri (fra questi,  possiamo metterci anche noi?) non esitano ad affermare che le loro dimostrazioni sono nè più nè meno che scientifiche: il che viene a dire che la dimostrazione della esistenza di Dio è  partecipe della evidenza razionale della scienza. Si può allora negare una simile conclusione filosofica? Noi ci pronunciamo indirettamente: la laicissima  Grecia classica condannava alla pena di morte gli atei,  costringendo a bere la cicuta il religiosissimo Socrate, caduto in sospetto di irreligiosità; chiamando in giudizio Alcibiade per la “ermocopia” o sacrilegio della decapitazione delle statue di Mercurio da parte dei suoi soldatacci, la notte della partenza verso la tragica spedizione in Sicilia (1415);  portando in tribunale anche l’atea Frine (e sia pur rimandandola libera, perchè troppo bella!..). E non potrebbe essere che lo stesso Epicuro  si limitasse a negare la Provvidenza di Dio, ma non la sua esistenza, per timore di tale legge vigente ad Atene, dove insegnò la sua ideologia?

Visto che siamo in argomento, ricordiamo ancora che l’Inquisizione, ufficialmente, nacque per perseguire il catarismo disumano, che condannava ogni cosa materiale come opera del demonio, predicando come perfezione suprema il lasciarsi morir di fame. E’ lecito ad uno Stato anche laicissimo  permettere la diffusione di simili dottrine? No, tanto è vero che anche lo stato neoilluminista dell’Occidente proibisce la predicazione del suicidio, da parte di sette pseudoreligiose; ed anzi impedisce con la forza il suicidio per inedia. Vogliamo dire: lo Stato o direttamente (una volta divenuto maggiorenn oppure attraverso la Chiesa (se si ritiene incompetente in talune materie), certe enormità deve proibirle e scoraggiarle. D’accordo, la pena di morte (per non parlare della assurdità della tortura) potrebbe ora sembrare eccessiva: ma in secoli in cui la cultura era minima e il dialogo praticamente impossibile, che cosa si poteva fare d’altro? E le conseguenze (dobbiamo averlo già detto) della abolizione della Inquisizione non è parte nelle cause dei massacri durante la Rivoluzione farncesea causa delle  le guerre di Napoleone e di Bismarck; e dei sogni  deliranti di un Nietzsche e di un Marx che hanno accumulato  decine di milioni di cadaveri con le loro dottrine disumane ed atee? Bisogna “pensarci su”...

[13] Come fine immediato, il Baronio si propose di controbattere, in base a documenti precisi, le tesi sostenute dal protestante Mattia Vlicic nella sua Historia ecclesiastica (1559-1574). La stima che si attirò per la sua apertura mentale, oltre che per la santità di vita, è testimoniata dalla offerta del papato in più di una elezione, offerta che dovette faticare a respingere; dal fatto che papa Clemente VIII lo elesse a suo confessore; dal consiglio fatto prevalere di accettare la conversione di Enrico IV di Navarra, abbandonando l’appoggio alla casa di Guisa in Francia, per giungere ad una pace religiosa, che solo evitasse  la contraddizione di un re ugonotto in una nazione sostanzialmente cattolica.

[14] La questione “de auxiliis” riguardava il problema della cooperazione fra la Grazia di Dio e la volontà umana nelle singole azioni , questione non facile visto che si  trattava di rispettare, da una parte, la onnipotenza divina e, dall’altra, la libertà dell’uomo. Alla fine del Millecinquecento, la questione “de auxiliis” era dominata da due sistemi di soluzione, quello di Domenico Banez (domenicano) che pareva sacrificare la libertà della creatura per rispettare la sovranità assoluta del Creatore; e quella del gesuita Luis de Molina, che viceversa pareva arzigogolare sul modo di intervento di Dio nell’operare dell’uomo, per salvare ad ogni costo la libertà di quest’ultimo. Paolo V, su suggerimento del Bellarmino,  fermò la disputa col dichiarare sostenibili sia il Molinismo che il Banezianesimo e riportando così la pace nel mondo dei teologi e degli ordini religiosi, che erano schierati animosamente in favore  del sistema difeso dal proprio confratello.

[15] Il diritto dei vescovi a risolvere in processi ecclesiastici, davanti a tribunali propri, le marachelle anche civili dei propri preti, era una eredità del Medioevo, quando lo stato ricevevea troppi benefici dalla Chiesa proprio nella amministrazione della giustizia, per non dare in contraccambio privilegi di tale genere (che evitavano anche il clamore dello scandalo, troppo normale nelle colpe di sacerdoti). Ma il governo di Venezia era sempre stato piuttosto libero nei rapporti coll’autorità ecclesiastica e trovò un difensore nel padre servita Paolo Sarpi (di cui dovremo occuparci). Certo, i tempi stavano cambiando e alcuni privilegi potevano essere aboliti: ma a tal fine vi erano le vie diplomatiche   dei “legati” e degli ambasciatori, per cui, stando  all’uso tradizionale, i provvedimenti  unilaterali erano certo un abuso di potere in sede di diritto interstatale. Ma è  altrettanto  vero che il non aver capito le oggettive condizioni di un clero che possedeva troppe aree fabbricate in Venezia, sicchè il provvedimento, benchè unilaterale, aveva questa volta basi di ragionevolezza notevoli, fu il torto di papa Paolo V (Camillo Borghese: 1604-1621), che dovette ritirare l’interdetto, per il boicoittaggio da parte del clero diocesano e di parte di quello religioso.

[16] “Patristico” significa “riguardante i Padri della Chiesa”, cioè quegli scrittori dei primi sette secoli dopo Cristo, riconosciuti come ortodossi (per lo più vescovi o sacerdoti, ma con qualche rappresentante laico, a cominciare dal martire del secondo secolo, San Giustino, un convertito dal giudaismo, professore di filosofia a Roma).

[17] Adduciamo un esempio chiarificatore per una casistica morale non semplice. Intanto premettiamo: se il dubbio riguarda la esistenza o meno della legge morale attinente il caso in questione (può un cattolico non sposato prendere in moglie una protestante divorziata, visto che la religione di questa le permette di risposarsi?), non posso agire se non  dopo aver raggiunto la sicurezza circa la legge stessa, perchè non posso mettere a repentaglio la mia adesione al bene ed a Dio, autore della legge morale. Ma se il dubbio riguarda solo la dipendenza incerta della mia situazione dalla legge conosciuta, allora posso orientarmi, in caso di urgenza nella scelta, verso indizi oggettivi per decidere se l’azione che mi attrae di più è lecita o meno (la incertezza riguarderà più facilmente azioni che non sono peccato in se stesse, ma occasioni di peccato, come il  seguire uno spettacolo televisivo a scopi seriamente culturali, pur sapendolo inquinato qua e là di scene impudiche  o commentato, da chi lo conduce, in senso contrario alla fede): il  consenso del confessore in precedenti casi simili o il comportamento di persone fattivamente cristiane nella mia stessa situazione possono essere indizi sufficienti a ritenere lecita la scelta, una volta assicurata la volontà limpida di non voler accedere alle suggestioni di peccato. Si noti che, per coerenza, il “probabiliorismo o rigorismo” dovrebbe proibire di viaggiare in automobile, perchè la scelta “più probabile” di  sicurezza personale è il camminare a piedi o in treno o in aereo, tutti mezzi di trasporto più sicuri dell’automobile.

Quanto al giansenismo in Italia, esso approderà, in maniera significativa, solo tardi, con il governo austriaco, dopo  il Congresso di Vienna: esso lo favoriva ponendo sulla cattedra di teologia a Pavia professori che lo insegnassero ai futuri sacerdoti; lo sosteneva, perchè il giansenismo finiva per coincidere col “giurisdizionalismo”, in quanto attribuiva allo stato poteri di intervento e controllo anche in campi strettamente religiosi (elezione di vescovi, contenuti dell’insegnamento nei seminari, permessi per leggere in chiesa documenti pontifici...).

[18] Rileggiamo allora, i punti forza ed i punti deboli dell’autorità della Chiesa negli stati cattolici, dopo il Concilio di Trento. Per quel che riguarda  l’autorità del papato all’interno della Chiesa cattolica, leggiamo quanto ne dice H. Jedin nella Storia della Chiesa, v. VI, pp. 611-2 della traduzione italiana  (Milano, Jaka Book): “La restaurazione del potere papale favorita dal Concilio di Trento non fu...un abile trucco di curialisti avidi di potere, come affermarono scrittori anticlericali quali il Vergerio e il Sarpi, ma la naturale conseguenza della riforma cattolica portata avanti lealmente, anche se non sempre con rigorosa coerenza e pieno successo. Il nuovo centralismo che sostituì quello di carattere fiscale del Medioevo, posava su basi religiose e spirituali. Il papato aveva messo in vigore le norme del Concilio di Trento: una sola Bibbia, la Volgata; una sola liturgia, la romana; un unico codice garantivano l’unità, anzi creavano una uniformità di vita religiosa quale non era mai esistita nella Chiesa pretridentina”. La Chiesa aveva anche  creato degli organismi di controllo e prevenzione di eresie ed immoralità, di cui si è già parlato: l’Indice dei libri proibiti e la Inquisizione. Nel 1538 si censurano i libri solo per le materie religiose;  l’Indice del 1559  elenca anche quelli proibiti per motivi morali. Nel 1571 si stabilisce una Congregazione romana dell’Indice. Qualche esagerazione ci fu. Siccome l’Indice del 1559 era sostanzialmente quello redatto dalla università di Lovanio, finirono per essere condannate tutte le opere di Erasmo! Così pure, la proibizione di tutti i libri che non portassero il nome di autore e stampatore finiva per escludere troppe opere (non sempre inutili o nocive) dai paesi cattolici, chè di stampatori anonimi si fa il conto che ne esistessero 61 in tutta Europa e 16 solo a Basilea. Pure, la proibizione colpiva molte opere di scienze occulte (negromanzia, chiromanzia, geomanzia...)  dannose oltre che scempie. Nel 1542 fu istituita la nuova forma di Inquisizione, centralizzata a Roma e perciò detta “romana o del santo Uffizio”. Ma perchè tali strumenti funzionassero, occorreva la collaborazione dei governi degli stati cattolici. Che fu ben lungi dall’essere adeguata. La Spagna accetta le decisioni di Trento, ma “senza pregiudizio per i diritti regali” (questi vanno dal “placet” -permesso regio- per la pubblicazione di documenti papali, al diritto di “recursus” contro gli abusi del potere spirituale, alla autonomia della Inquisizione spagnola ed al patronato sulle colonie spagnole in materie religiose). La Francia, a livello di potere politico, non accettò mai Trento: Enrico IV promise formalmente di accettarlo all’atto della conversione, ma non mantenne la parola data. Gli “Stati generali” (gallicaneggianti) respinsero formalmente l’introduzione dei decreti tridentini nel 1614. A livello dello stesso episcopato, essi furono accettati solo nel 1615; e solo da allora iniziarono le riforme dei seminari, le visite pastorali, ecc.   In Germania le cose stavano peggio ancora. Qui l’imperatore Massimiliano II (1564-1576) era addiritura incline al protestantesimo. Comunque,  per le clausole della pace di Augusta nel 1555, l’impero qua tale non poteva neppure pronunciarsi sul Concilio; tanto meno imporne i decreti. Il bisogno di pace è così ossessivo, che anche gli stati rimasti cattolici mantengono un atteggiamento di riserbo di fronte alle decisioni di Trento. All’inizio della riforma cattolica, il clero era largamente concubinario e opponeva una resistenza passiva alle innovazioni disciplianri. I capitoli delle cattedrali, col privilegio di scegliere il loro vescovo, non votavano i fondi per erigere i seminari. L’opinione pubblica era disorientata, anche perchè l’ignoranza fra i laici era grande, mancando una catechesi sistematica. Solo alla fine del secolo XVII muta la mentalità: la nuova generazione di vescovi inizia ad attuare i decreti del concilio e, con ciò stesso, una vera riforma del clero e del popolo.  La casa d’Asburgo, nel frattempo, cominciò ad aiutare la riforma: eppure anche in Austria, i decreti del Concilio furono promulgati in tutte le diocesi solo dopo la fine della guerra dei Trent’anni (1648)! In Germania, meritarono più i Wittelsbach regnanti in Baviera che non i vescovi renani, signori di molti feudi: questi, solo tardi e mediocremente si impegnarono per la riforma. Così, la scarsezza del clero impediva di sostituire i concubinari o i preti di dubbia ortodossia con altri più fedeli. Fino a Napoleone ebbe vigore ancora l’accumulo di vescovadi, i più importanti dei quali erano appannaggio tradizionale dei cadetti di Baviera o d’Austria: in Renania  al secondogenito di casa Wittelsbach; ai cadetti Asburgo, i vescovadi di Passau, Strasburgo, Breslavia, Olmutz...

D’altronde protestanti ed anglicani (per non parlare della dittatura calvinista a Ginevra) usavano mezzi coercitivi non minori: Giovanni Fisher ( vescovo di Rochester)  e Tommaso Moro, cancelliere del Regno, sono solo le due vittime più illustri dello strappo di Enrico VIII in Inghilterra (1534); e se Maria Stuarda fece vittime nei cinque anni di restaurazione cattolica (1553-8), non meno feroce fu Elisabetta I che riportò l’Anglicanesimo: 124 sacerdoti e 61 laici ne furono vittime, mentre una multa era imposta ai cattolici che frequentavano la Messa. Entrato il calvinismo in Scozia (Presbiterianesimo: rifiutano i vescovi), molti vescovi cedono, ma non tutti: Giovanni Hamilton, arcivescovo di Andrews (con 4 sacerdoti) e Beaton, di Glasgow, se ne devono andare dalle loro sedi. Era proprio un errore comune: solo la  propria verità ha diritto alla diffusione: gli erranti o si convertono o se ne vanno in esilio o vengono uccisi.

[19] Cucitura di due espressioni dei Promessi: la prima, dal capitolo ventisettesimo e la seconda, dall’ottavo. A proposito, anche i tentativi di definire il romanticismo come poesia spontanea (1798: fratelli Schlegel), nasce dopo che Herder , Goethe e Schiller l’avevano anticipata di una trentina d’anni con lo Sturm und Drang,.

[20] Seguiremo Carmine Jannaco, Il Seicento, Milano, Fr. Vallardi, 1963. Pochi mesi  prima del Giraldi Cinthio (Discorso intorno al comporre dei romanzi: 1554), un suo discepolo –G.B. Nicolucci- (il “Pigna”: lo conosciamo come autore de “La Istoria de’ principi d’Este”)- pubblicò  nello stesso anno il trattato “I romanzi”: di qui una diatriba sulla paternità delle idee. Ma ecco alcuni autori del Milleseicento che hanno  comunque trattato di estetica. Publio Fontana si esprime in favore di una poesia educatrice ed elevante spiritualmente; Alessandro Tassoni, è contro la superiorità degli antichi  e le regole pseudoaristoteliche, ma non  è favorevole ai concettini; Benedetto Fioretti (cioè Udeno Nieseley, nato a Mercatale di Vernio, Pistoia, nel 1579 e morto a Firenze nel 1642), che nei suoi “Proginnasmi poetici” è incerto  nei criteri teoretici (regole antiche? gusto moderno? fine educativo-morale dell’arte?),  si mostra invece sicuro nel gusto e nella discrezione del giudizio estetico su opere poetiche di ogni tempo; Tommaso Stigliani (Matera 1573-Roma 1651), primo stroncatore dell’Adone nel già citato suo “Cannocchiale” del 1627, ne aveva già fatto la parodia nel quarto libro del suo Canzoniere (1625), presentando metafore strampalate per rifare il verso ai poeti “oggidiani”, secentisti cioè, pur cadendo anche lui talvolta  negli stilemi alla moda (oltre il Canzoniere, scrisse in versi il poemetto Polifemo ed il poema epico Il Mondo nuovo; e ci ha lasciato anche le Lettere); Scipione Errico (Messina 1592-1670) è  favorevole al Marino ( di cui difende l’Adone nelle due commedie “Rivolte in Parnaso” e “Liti di Pindo”); scrisse anche favole pastorali (Deidamia| Endimione| Arianna), Rime e Poesie liriche; ma interessa soprattutto per il suo romanzo “culturale” Le guerre di Parnaso, opera allegorica critico-letteraria; Nicola Villani (Pistoia 1590-Roma 1636), poco importante come poeta (Rime giocose; il non finito poema su Fiorenza difesa; due satire in latino) è un altro caso di buon gusto letterario, perchè sa apprezzare gli spunti di poesia anche nel Marino e, pur conoscendo profondamente Aristotele e gli studiosi di poetica del Millecinquecento, non si affida a princìpi astratti per giudicare di arte e, per questo, sa denunciare anche i troppi difetti dell’Adone, che egli esamina senza pregiudizi, difendendolo entro certi limiti, a costo di scendere in diatriba con tro lo Stigliani ed altri critici (Uccellatura di Vincenzo Foresi; Considerazioni di messer Fagiano sopra la seconda parte del Cannocchiale del cavalier Stigliani); Daniello Bartoli (Ferrara 1608 –Roma, 1685) è liberale in sede linguistica (Il torto e il diritto del –Non si può-: 1665) ed in sede di scrittura del toscano (nel Trattato dell’ortografia italiana fu piuttosto contro la Crusca); in materia di poetica è in favore del buon senso, del realismo, per cui la espressione si deve attenere alla natura –anche scientifica- delle cose descritte; anzi giunge alla intuizione della essenza della poesia, quando dice: “tanto è più vero quanto è più naturale lo stile degli affetti”; moderato ed anticoncettista in teoria, egli è turgido e  lussureggiante nelle descrizioni, per cui è considerato il prosatore barocco  esemplare, pur non usando nè metafore sproporzionate nè concettini; Francesco Fulvio Frugoni (Genova , 1620 ca-Venezia 1686 ca: da non confondere con Carlo Innocenzo, l’abate verseggiatore del Millesettecento), discepolo di Emanuele Tesauro, nell’opera più nota (Il cane di Diogene: 7 volumi postumi, 1689) ed in altre (Ritratti critici, 1669),  vede nell’opera d’arte il convergere di razionalità, moralità e fine utile (politico, morale...), diletto ed estro: dall’estro, fervore eccezionale e misterioso che riesce ad armonizzare utile (morale, politico...) e diletto, nascono i concettini, da lui stesso usati con sfoggio eccezionale (ad esempio i capitoli del “Cane di Diogene” sono chiamati “Latrati”: il “latrato” più interessante per la letteratura è il quinto: “Il tribunale della critica”; gli altri sono dedicati, attraverso i viaggi e le avventure del cane Saetta, a satireggiare un mondo “scongegnato”); ma le sue idee sono astratte, generiche ; Benedetto Menzini (Firenze 1646-Roma, 1704: ecclesiastico) fu assunto al servizio di Maria Cristina di Svezia, convertita e scesa ad abitare a Roma; fu tra i fondatori dell’Arcadia alla morte di lei e fu membro dell’Accademia fiorentina e della Crusca; scrisse liriche (amorose, eroiche, sacre), elegie, un’opera mista di versi e prosa (Accademia tusculana), un poemetto in sciolti di argomento morale (Etopedia) e tredici Satire in terza rima, ma astiose, perchè polemiche contro i vizi dei nemici personali; di lui ci interessa qui l’Arte poetica (1688), anch’essa in terzine dantesche: già dal titolo, preso dall’opera di Nicolas Boileau che l’aveva edita nel 1674, si possono  arguire le tendenze classicheggianti del Menzini, che difatti vi stronca i secentistio per il loro “parlar spropositato e matto” e pone a base della poesia il buon gusto e la misura o ragionevolezza (di stampo oraziano); condanna la licenza sensuale ancora sussitente nella letteratura, si appella alla filosofia ed al contenuto educativo, ma richiede anche “il grande ed il decoro” quali segreti della “interna, alta armonia”, non sa apprezzare Dante, è incerto fra Tasso, Alemanni ed Ariosto, accenna ad una capacità di far sì che “uno sia il detto e la sentenza doppia” come caratteristica dell’arte tragica. Alla fin fine non si riesce a ricavare dal suo linguaggio generico ed astratto, vago ed incerto, quella chiara controffensiva classicistica che caratterizza i suoi stessi versi e la riforma arcadica: egli  non è gran che come verseggiatore, ma è ancora minore come teorico e filosofo; Federico Mennini (Gravina di Puglia, 1636-1712) fu medico e scrisse poesie di stampo barocco: nel suo Ritratto del sonetto e della canzone, egli si rivela un tardo seguace del Marino; vede in  lui e nel Chiabrera il culmine della poesia italiana; ripete la tesi di Giorgio Vasari applicandola alla lirica (la poesia del Milleseicento segna l’apogeo dell’arte verbale italiana, dopo di che non può venire che il declino, come è stato dall’arte visiva dopo Michelangelo)! Più occasionali altri accenni critico-estetici: Belisario Bulgarini (Siena, 1539-1619 ca) afferma che il diletto e non l’utilità è il fine dell’arte (1608: Considerazioni sopra la prima parte della -Difesa di Dante- di Jacopo Mazzoni; 1616: “Antidiscorso” in cui si ribadiscono le censure a Dante); Ludovico Zuccolo, che, oltre che di politica, si interessò di poetica nel “Discorsi delle ragioni del numero del verso italiano”, accenna ad una nuova concezione dell’arte, perchè dipendente da un senso che “discorre senza discorso”, cioè sfugge alla ragione pur essendovi ricollegato; anche Agostino Mascardi (1590-1646) combatte le regole e si appella a quella “maniera particolare e individua di ragionare e di scrivere, nascente dal particolare ingegno di ciascun componitore...” (Dell’arte istorica”: 1636 e 1648).

[21] Con  tale poetica esplicitamente concettista, il Peregrini anticipa lo spagnolo Baltasar Graciàn y Morales, che per altro rimane il trattatista più famoso del fenomeno secentista. Il Graciàn, infatti, scrisse il famosissimo “Agudeza y arte de ingenio” solo fra il 1642 ed il 1648, cioè tre anni dopo l’opera del Peregrini. Vissuto fra il 1601 ed il 1658, gesuita riottoso e indocile, scrisse anche lui opere sulle competenze e doveri del “gentiluomo” (El heròe| El polìtico| Fernando| El discreto| El oraculo manual| El criticòn).

[22] “Segno mortale” è una notazione ironica  di Manzoni alle considerazioni del notaio criminale sul rapporto folla-soldati il giorno dopo la rivolta di S. Martino del 1628 (c. XV). Essa ci pare vera anche nel caso che stiamo esaminando: quando anche il clero vien coinvolto in errori madornali, allora pare che Dio non abbia altro mezzo per salvare la  dignità della Chiesa, che quello di far tramontare l’errore o la prassi disumana. Qui però lo usiamo anche noi ironicamente: il secentisnmo, benchè sregolatezza del pensiero e mancanza di buon senso, fu  però  un’aberrazione  tale da muovere Dio alla sua dissoluzione, quasi  costituisse un pericolo per la Chiesa.  

[23]  Nato e morto a Roma (1607-1667: ma la famiglia, nobile, era di origine parmense), studiò presso i gesuiti del collegio romano, divenne prete diocesano ed entrò nella curia romana, dove iniziò una carriera che lo sfavore di Urbano VIII troncò: fu allontanato coll’eleggerlo governatore ad Jesi, Orvieto, Camerino. Superata l’opposizione del padre, entrò allora nella Compagnia di Gesù, insegnando, prima, filosofia e teologia, poi, allo stesso collegio romano in cui era stato alunno: fra i discepoli ebbe anche p. Paolo Sègneri. Fece parte anche di commissioni  teologiche per l’analisi di dottrine sospette, non esclusa quella dei giansenisti (nel giudicare le cinque proposizioni incriminate, egli fu dalla parte minoritaria della commissione, che le  riteneva  erronee e prossime alla eresia, ma non propriamente eretiche, come fu invece giudicato). Nel 1655 divenne papa Fabio Chigi (Alessandro VII), suo amico fin dall’infanzia, che nel 1659 lo creò cardinale: del papa scrisse anche una biografia che rimase incompleta ed edita solo nel sec. XIX, perchè morirono nello stesso anno 1667 biografo e biografato.  Il  Pallavicino fu anzitutto teologo, filosofo e storiografo, anche se si interessò vivamente ai problemi della poetica. Abbiamo di lui otto volumi di Observationes theologicae (1649-52) e le Disputationes in Primam Secundae S. Thomae (1653: dispute sulla prima  sezione della seconda parte nella Somma teologica di S. Tommaso), il volume di difesa del suo ordine religioso (1649: Vindiciae seu vindicationes Societatis Jesu, cioè “Rivendicazioni della Compagnia di Gesù”), il poema Fasti cristiani (1636), la tragedia del martire Ermenegildo  (1644), il trattato ascetico Arte della perfezione cristiana (1665) e infine l’opera per cui resta più famoso (Istoria del Concilio di Trento:1656). Le stesse prime proposte di estetica letteraria sono contenute in un capitolo dell’opera filosofico-morale dal titolo “Del Bene  (1644: tradotto in latino col titolo “Philosophia moralis” ed edito a Colonia nel 1646); nel 1646 scriveva però le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo, specificamente filosofico-letterarie. Riservando al testo l’analisi delle idee sulla poesia, diciamo qui una parola sulla sua Istoria, in attesa di analizzare più da vicino quella del Sarpi, cui egli si oppose. Intanto la intenzione di scrivere tale “Istoria” non fu sua, come non furono suoi gli studi  principali del lavoro: era stato incaricato un suo confratello gesuita, il p. Terenzio Alciati, che però moriva nel 1551 senza aver finito l’opera. La riprendeva il Pallavicino che, di suo, consultava anche manoscritti conservati nelle biblioteche Barberini, Borghese, Spada, Medici...; e potè dare anche una occhiata agli “Atti del Concilio” custoditi allora in Castel Sant’Angelo. Inutile dire che egli lasciò l’impronta nello stile della stesura ultima dell’opera. I due volumi “in folio” del 1656 ebbero successo; nel 1663-4 potè uscire (in “quarto” ed in tre volumi, questa volta) la seconda edizione; nel 1666 comparve una edizione latina, senza le polemiche antisarpiane; nel 1670 (ad Amsterdam) comparve l’edizione latina completa; ancora nel secolo XIX uscirono le traduzioni in francese, tedesco e spagnolo. L’opera è storicamente valida, perchè è basata non su seducenti processi alle intenzioni (come quella del Sarpi), ma su documenti. Dobbiamo ammettere però che ha tre limiti. Il primo è la sua incompletezza: mentre quanto dice è provato, egli però tace avvenimenti disdicevoli a carico dei cattolici. Il secondo sta nel far prevalere la parte apologetica, che prende la mano all’autore: lo stesso Pallavicino la definì “una apologia, mescolata di storia”. Egli si sente, cioè, quasi un avvocato, il quale deve dimostrare che certi fatti non avvennero per oscuri scopi di potere, ma solo in continuità e  coerenza con una tradizione che attraversa tutta la storia della Chiesa, risalendo al Vangelo. Troppi, poi, i ragionamenti rispetto ai fatti: con il risultato della noia nel lettore. Per questo Hubert Jedin, prefazionando la sua esemplare “Geschichte des Konzils von Trient” (traduzione: Brescia, Morcelliana, 1949) afferma giustamente: “Da Sarpi a Pallavicino, vale a dire da trecento anni, il mondo attende una storia del Concilio di Trento che sia qualcosa di più di una semplice polemica di accuse e di difese”. Il terzo limite è lo stile, sul quale, in beme ed in male, riportiamo il giudizio di N. Sapegno: “Nell’opera del Pallavicino lo studio dello stile, attraverso l’armonia un po’ schematica delle clausole e la sapiente ricerca delle antitesi, prende il sopravvento sulla materia e s’accampa in primo piano. Se per questo rispetto il libro ha un suo posto, non piccolo nè secondario nello sviluppo della prosa d’arte secentesca, come opera storica dà spesso l’impressione di un lavoro imposto ed eseguito a freddo, e pertanto privo di nerbo” (Compendio di St. d. lett. it., II, 299, Firenze, la N. Italia, 1963). Quest’ultima qualità “negativa” è certo anche a carico delle idee contrastanti circa la letteratura in cui l’autore si era formato – classicismo retorico e barocco incombente- ma è soprattutto a carico della non geniale intelligenza del Pallavicino,  della sua, diremo, “spuntata acutezza” (se si permette anche a noi un concettino, che è poi una figura retorica: l’ossimoro, cioè la congiunzione di due qualità opposte). Anzi è proprio dai limiti intellettuali dell’uomo che nascono i difetti della sua teorési estetica, come del suo stile ridondante. Se di tali carenze innate soffrano anche le sue (dimenticate) opere filosofico-teologiche, “noi lo sospettiamo; gli eruditi lo sapranno” ( l’espressione sbarazzina è di Manzoni: ma dove, nel capolavoro?). Egli aveva una personalità più completa che geniale: come il cardinal Federigo dei Promessi Sposi, era un ambidestro che tanto sapeva farsi stimare dai discepoli e da una certa classe di lettori (quella che fa opinine letteraria, comunque), quanto sapeva accontentare le persone a lui affidate da governare, perchè aveva discrete doti intellettuali e pratiche, di pensatore ed operatore sociale. Ma era mediocre in entrambi i campi di azione. Non era questione di “formazione” (behaviour), ma di “cromosomi” (Gestalt): ci si può domandare quanta parte delle sue teorie estetico-letterarie egli recepiva dalla cultura dominante e quanta combinava invece con il sostrato  non geniale della sua mente, che aveva bisogno di regole e di tecniche, perchè non aveva il dono della poesia in se stesso nè, quindi, poteva intuire quanto di spontaneo e di estroso essa comportava.

[24] Giambattista Vico nella “Scienza nuova” offre una sua “storia” dello sviluppo dell’uomo dalla esistenza primitiva  (età dei sensi e degli dei) alla vetta della sua perfezione (età della  ragione o dei filosofi),  attraverso una età media (della fantasia, dei poeti e degli eroi). Dopo quanto detto nel testo, è chiaro che per il Pallavicino la concezione, vichiana risulterebbe del tutto errata: per il pensiero scolastico, l’uomo non è mai esistito con una sensazione senza astrazione di idee (altrimenti  non si avrebbe  un uomo, ma  un primate); e neppure  con una fantasia senza potere raziocinativo o filosofico. Tanto meno  poteva esserci, per il cardinale gesuita, una attività pratica di irresponsabilità morale (machiavellismo, edonismo...), parallela alla arbitraria prerazionalità della fantasia poetica. Talvolta si ha l’impressione che l’idealismo crociano   dovesse affidarsi a processi alle intenzioni, per trovare qualche  presentimento nella storia del pensiero umano, tanto era rivoluzionaria e gratuita  la ipotesi di una forma di conoscenza umana,  esclusa dalla piena razionalità; e di un livello di scelte volitive, estranee alla legge morale.

[25] Riportiamo da C. Jannaco, Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 1963. p. 47: tra virgolette,  le parole del Pallavicino.

[26] Ricitiamo dai  Promessi Sposi, c. 28.

[27] Anche  G. B. Marino, il principe dei poeti secentisti, trova modo di inserirsi fra i teorici del concettismo, con una sua  terzina divenuta emblematica del fenomeno, nonostante la cautela generica avanzata nel secondo verso: “E’ del poeta il fin la meraviglia| -parlo dell’eccellente e non del goffo-| Chi non sa far stupir, vada alla striglia” (in Fischiata 33.a  della Murtoleide). E anche nell’Adone la dottrina è adombrata in IX, 2 “e detta a novo stil concetti novi”.

Anche Gabriello Chiabrera, l’altro grande corifeo della lirica del  Milleseicento (non secentista, però), afferma lo stesso principio nell’autobiografia “o trovar novo mondo od affogare”.  Del valore etico-sociale di tale concezione dell’arte accenneremo dando uno sguardo al “costume o dimensione pratica” del secolo.

[28] Nelle arti figurative, sembra quasi che il canone primo sia quello di celebrare  la grandezza e la potenza: di Dio, anzitutto, ma non solo; e non tanto per direttive ecclesiastiche, quanto per il prevalere negli stati  europei della autorità imperiale o monarchica, che trasmette più il senso del potere eccelso, inaccessibile, che non quello della   vicinanza e  del servizio fraterno. Anche la fede risente di tale atmosfera politica e tende a sottolineare l’adorazione piuttosto che l’amore, l’aspetto della infinita maestà di Dio piuttosto che quello della Sua paternità e misericordia. E forse a tale unilateralità  della concezione relgiosa, più veterotestamentaria che evangelica, si è pervenuti anche per le ricadute in  ambito cattolico della dottrina luterano-calvinista  circa la totale  nullità morale dell’uomo a seguito del peccato originale; e dell’assoluta iniziativa di Dio per le sue sorti eterne, sino alla predestinazione di salvezza o di dannazione. A celebrare questa onnipotenza sovrana, questa maestà terribile sta la grandiosità di architettura, scultura e pittura. Di qui la  massiccia solidità delle costruzioni del Milleseicento, che si tenta di alleggerire, poi,  facendo di scultura e pittura delle ancelle dell’architettura. L’unità delle tre arti sottolinea sporgenze e nicchie, volute e cornicioni, specialmente nelle chiese, mentre la padronanza delle leggi di prospettiva permette di incaricare la pittura a  fornire delle “quasi statue, incorniciate in finte nicchie: la tecnica del trompe-l’oeuil è usata ed abusata. Sì, perchè la grandiosità diventa anche autocelebrazione dell’artista, che vuol mostrare la bravura nel rappresentare mantelli svolazzanti (quasi mossi dal vento), figure che seguono lo spettatore da una angolatura all’altra di osservazione (coll’apparente rigirare degli occhi, viso e corpo intero verso di lui), capacità scenografiche (col riempire ogni angolo dell’affresco|tela con figure, edifici, animali vegetazione, ecc., che neppur sempre sono pertinenti al tema del dipinto; e con i colori  afosi, autunnali, dal rosso al giallo al marrone).

[29]Per la gara di precedenza, tutti abbiamo in mente  la diatrìba fra Ludovico ed il signor “Tale”  che finisce con lo scontro alla spada e più di un morto sul terreno: il tutto , per il diritto di camminare rasente al muro (P.Sposi, c. IV). Ma nel romanzo vien anche rispecchiato il punto d’onore, la frequenza dei duelli e la loro regolamentazione puntigliosa e ridicola (c. VI) e la dura, crudele traduzione della differenza fra popolo e nobili in quella fra galantuomini e mascalzoni (c. XI: questi ultimi “Chi sa che ci siano? Sono come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un padrone; gente di nessuno”). Che il romanzo sia, su questo punto, psicologicamente storico, lo dimostrano troppi fatti. Persino al Concilio di Trento ci furono momenti di imbarazzo e di tensione per la precedenza, fra l’amasciatore spagnolo e quello francese, nel ricevere la incensazione  durante la Messa. E dal “cerimoniale veneziano” di commiato, in cui fra inchini ed altre cerimonie rituali, veniva ripetuto all’infinito l’ossequio “schiavo suo|schiava sua”, è disceso  il saluto, oggi onnipresente, “ciao”: attraverso la declinazione di “slavo” (erano, a Venezia, i lavoratori dei servizi più umili e pesanti, assoldati dalla vicina costa dalmata) a “sciao” (trasformazione imposta dall’orecchio musicale veneto, troppo sintonizzato sulla dolcezza per sopportare il termine duro, invalso in un pirmo momento) e, infine a “ciao”, esigito dalla più armoniosa musicalità dell’orecchio toscano, una volta che  l’espressione si è estesa all’Italia tutta.

[30] “Cause biologiche” da intendersi come sollecitazioni a parlare e comportarsi in una determinata maniera, soggetta però al controllo del libero arbitrio razionale. Ma questo interviene, coi suoi veti o le sue permissioni, solo quando si presenta un dilemma  avvertito dalla coscienza come moralmente importante: che non era il caso del  gusto,  a proposito dell’enfasi nel parlare,vestire, gestire ecc.  In tali casi, emarginata la coscienza morale, l’uomo medio segue la moda, l’influsso più attraente o più urgente: politico, economico od artistico che esso sia.

[31] Nelle stesse pagine, il Croce  attenta anche una specie di eziologia o studio delle cause: “Dispersi o infiacchiti tutti gli altri sentimenti e interessi, speculativi, etici, politici, restava la sensualità o, per chiamarla in modo più proprio, il sentimento sensuale”. 

[32] Durante il secolo XIX,  si incontra un altro scrittore che, in stile più classico, ma non meno enfatico e  retorico, scrive il romanzo Margherita Pusterla e le parti introduttive ai suoi volumi di Storia universale, lasciando la impressione di una povera mente: è Cesare Cantù (1804-1895).  Quando però si cominciano  a leggere i capitoli di storia, si è di fronte a tutt’altro scrittore e pensatore:  stile sobrio  e conforme al parlato, selezione dei dati e loro organizzazione  in base al miglior buon senso, conoscenza di fatti significativi  insoliti...: insomma, libri di una erudizione sorprendente (anche se definitiva) in  una forma espressiva classica. E’ come se ci  si imbattesse in un caso di sdoppiamento della personalità (un dato che altri  comportamenti della sua vita pratica tendono a confermare,  come l’esser riuscito a rompere i rapporti con il Manzoni, per avergli rubato la idea della storia della Colonna infame, che  non esitò a pubblicare prima dell’Amico imprudente. Quello che nel Cantù  era forsefrutto di uno stato subpatologico, negli scrittori concettisti poteva ben essere l’effetto di una condizione sociale, che  disorientava e legava la loro intelligenza non eccezionale,  il loro gusto non geniale, alla moda imperante.

[33] Di espressioni tecnicamente concettiste, ma spiritualmente sublimi, abbiamo esempio già nelle sette  lettere che S.Ignazio di Antiochia scrisse alle varie comunità cristiane, vicine ai porti dove si fermava la nave che lo conduceva al martirio in Roma: egli usa immagini al limite della ragionevolezza, ma di una forza sconvolgente: “Lasciatemi essere il nutrimento delle belve, dalle quali mi sarà dato di godere Dio. Io sono frumento di Dio. Bisogna che io sia macinato dai denti delle belve, affinchè sia trovato puro pane di Cristo” (lettera ai Romani). Del secolo XIV vi sono le espressioni di s. Caterina da Siena; del secolo XVII, quelle di Luis de Gòngora (1561-1627), del mistico tedesco Jakob Boehme (1575-1624) e di Angelus Silesius (1624-1677). Nel secolo XX troviamo padre Pio da Pietrelcina, il sacerdote stigmatizzato e carismatico, tra le cui espressioni  ve ne sono alcune che sembrano concettiste, mentre sono semplicemente esaltanti (o formidabili: dipende dal grado di adesione a Cristo cui si è pervenuti): “Ti affanni a cercare il Sommo Bene: ma in verità è dentro di te e ti tien disteso sulla nuda croce, alitando fortemente per sostenere il martirio insostenibile e, ancora, per amare amaramente l’Amore”; e “Di’ anche tu al dolcissimo Signore: -Voglio vivere morendo, perchè dalla morte venga la vita che non muore e aiuti la vita a risuscitare i morti-”.  Benedetto Croce, nella corrispondenza con Carlo Vossler, pretendeva che espressioni di questo tipo non fossero barocche, perchè non animate dallo spirito concettista. Negava (ed il Vossler lo richiamava alla arbitrarietà del suo monismo che gli impediva di assentire alla evidenza: carteggio, lettere del 10 agosto e 9 settembre del Croce; del 5 settembre, del Vossler) che potesse esistere una tecnica barocca neutra,   sucettibile di essere informata talora da un atteggiamento superficiale di enfasi o comicità balorda (concettismo), tal altra da un atteggiamento psicologico serio e profondo (sentimento religioso o lirismo drammatico o comicità riuscita). Se non ci fosse il dualismo di tenica espressiva e di pensiero-sentimento espresso, come riconoscere la parentela (apparente, per Croce; autentica, per i comuni mortali) tra le due classi di espressione? Su tutta la questione, si veda il nostro “Benedetto Croce e il seicento”, Milano, Marzorati, 1962, specie le pp. 59-76; 115-126; 185-225; 216-8.

[34] Il nostro giudizio non positivo sulla “artisticità” degli scritti del cardinale Federigo è una deduzione da quel poco che ne accenna Manzoni alla fine delllo schizzo biografico del porporato (c. 22 dei Promessi). Invece è stata una esperienza deludente tutta nostra quella della lettura, fatta a tredici anni, del primo volume sulla storia della Chiesa scritto da don Bosco. L’ammirazione  che avevo per  la vita e l’operosità del santo (indiscussa ancora adesso) si trovò confrontata con una prosa che, a distanza di decenni dalla “rivoluzione  manzoniana”, seguiva ancora canoni di retorica classicheggiante o si adagiava in una sciatteria del tutto incurante della dimensione estetica della comunicazione. Ma sono stati proprio i contatti con le  gli scritti dei poeti e con la loro vita a costringermi a distinguere fra genialità  nell’espressione delle emozioni e sincerità nella  esperienza dei sentimenti. Don Bosco non avrebbe trascinato, ai propri ideali religiosi ed etici, folle di giovani e di adulti di ogni classe sociale, senza una adesione interiore alle idee insegnate, che non avevano bisogno di sublimazioni estetiche nè di fascino artistico: la vita parlava in lui e per lui.

[35] Siamo onesti: se tutto il valore dei poeti italiani del Millenovecento, eccezion fatta per Guido Gozzano e  Carlo Alberto Salustri detto Trilussa, si dovesse ridurre all’impeto lirico dei loro versi, che giudizio si potrebbe dare sulla loro vita e personalità? Diòs nos valga!

[36] Unica eccezione documentabile nella storia è stata la “rivoluzione cristiana” in campo religioso e morale: essa non trova precedenti significativi in nessuna generazione precedente, ma è in gran parte un “rovesciamento di princìpi”.

[37] Narra Giuseppe Rovani nei “Cento anni” che a decidere della morte del Prina fu il capo  dell’arte dei muratori milanesi, il quale era stato incaricato (e verrà abbondantemente pagato, ad assassinio eseguito) dai coniugi Arese. Il marito di Antonietta (sì, proprio la amante del Foscolo, celebrata nell’ode All’amica risanata) era  avvocato ed uomo di fiducia del Prina. A questi, come ministro delle finanze, non  era permesso comperare all’asta i beni incamerati di persone ricche, ostili a Napoleone o andate in fallimento; ma egli si permetteva di farne acquisto attraverso l’avvocato suo amico, che ne restava il proprietario nominale: almeno fin quando il Prina aveva potere e forza dalla sua parte. Caduto Napoleone, gli Arese  prezzolarono chi togliesse di mezzo il personaggio cui avrebbero dovuto consegnare i beni acquisiti. E  dimostrarono la differenza fra la  moralità cui indirizzava la  educazione (sia pure aiutata dalla censura) postridentina  e lo spirito rivoluzionario, cui istigava l’illuminismo agnostico, deista od ateo.

[38] Erano stati approvati da Clemente VII solo per l’Italia nel 1525; ottennero con Gregorio XIII   libertà in tutta la Chiesa, sia pure sotto la “tutela” dei Conventuali (1574) e S. Lorenzo da Brindisi (1559-1619) ne favorì  la  diffusione nei paesi della Germania con la sua attività di infiammato predicatore in molte lingue e di animatore della resistenza ai Musulmani, fermati ad Alba Reale nel 1601, grazie anche alla sua presenza  come cappellano delle truppe cristiane.

[39] D’altronde, anche altri ordini religiosi, dai Carmelitani agli Agostiniani, riprendono la severità della loro regola originaria (venivano chiamati “recollecti”). Fra i laici, le “confraternite”  rinnovano (in maniera più ordinata che nel Medioevo) l’adesione del laicato al rinnovamento religioso: accanto a quelle della  “Dottrina cristiana”, la più nota è la confraternita del SS. Sacramento, sorta a Roma nel 1539 e diffusasi poi a Milano e un po’ dappertutto (a Milano nasce  nel 1537 la pratica dell’adorazione continuata per quaranta ore, con turni di fedeli anche di notte, per implorare la pace,  entrata di nuovo in pericolo in seguito alla annessione del Milanese da parte dell’Impero). Nei collegi dei gesuiti nascono le “congregazioni mariane”, che prepareranno dei laici davvero impegnati nella pratica delle opere di misericordia, a cominciare dalla difesa e diffusione della fede.  L’accesso all’ Eucaristica comincia a divenire da obbligatorio (almeno una volta all’anno), frequente: nei collegi dei gesuiti si favorisce la Comunione settimanale, mentre i confratelli del santissimo Sacramento invitano alla Comunione mensile. Si diffondono le processioni per la festa del Corpus Domini, mentre l’altare centrale delle chiese postridentine vien staccato dalla parete ultima e dotato di un dorsale, cioè di una  una specie di trono, su cui esporre l’Eucaristia con una luminaria di candele per corteggio. Sempre nel Milleseicento i confessionali  si diffondono nella forma durata oltre tre secoli e  parzialmente trasformata solo nei decenni successivi al Concilio ecumenico Vaticano II. La recita del Rosario si  propaga, con le “litanie” in lode di Maria SS. (dette “lauretane”  dal santuario di Loreto, ove sarebbe stata trasferita la casa di Nazaret  per sottrarla alle profanazioni musulmane). La stessa superstizione circa le streghe, le malie, gli untori testimoniano di una religiosità viva, anche se disorientata. Notiamo ancora che nel 1620 i figli di S. Filippo Neri fondano il parallelo ordine femminile delle suore oratoriane.

[40] Degli altri santi diamo qui una carrellata veloce. Nel 1607 muore a Roma, carmelitana scalza, S. Maria Maddalena de’Pazzi. Tutto del Milleseicento è S. Giuseppe da Copertino, tanto rozzo di mente e povero di abilità da essere rifiutato dai francescani minori e cappuccini: i primi lo riassunsero per compassione come addetto alla stalla. Ma aveva il soprannaturale sfacciatamente dalla sua parte, tanto che fu  accettato, poi, come frate converso e potè cavarsela agli   esami, inaspettatamente, per diventar  sacerdote. Vinse poi anche i timori del S. Uffizio che sospettava l’opera del demonio nel fatto che egli viveva di miracoli continui, tra voli estatici e  portenti in favore del popolo che (dovunque lo scaraventassero gli ordini della Curia romana, perchè non destasse rumore), accorreva a chiedere grazie ed a venerarlo. Morì a 60 anni, nel 1663 ed è invocato dagli scolari in difficoltà   negli studi, lui che  chiamava se stesso “frate Asino”, ma che aveva una fede tetragona ed una sapienza, religiosa e morale, eccezionale.  Il francescano S.Carlo da Sezze (Latina, 1613-1670) restò umile frate converso, senza mai giungere al sacerdozio, ma servendo come cercatore, cuciniere, ortolano: la Autobiografia scritta per ordine del confessore ce ne attesta l’obbedienza e  letizia di spirito, nonostante le  umiliazioni  dell’ultimo posto che teneva in convento.  Siamo in Toscana col beato Antonio Baldinucci, gesuita (Firenze, 1665-1717), che, non potendo partire per le missioni estere a causa della salute fragile, nel corso di venti anni tenne ben 448 missioni popolari in trenta diocesi del centro Italia (fece  capo per sua attività a Frascati e Viterbo). Ebbe successi strepitosi di folle e di conversioni. Seguace di Paolo Sègneri il giovane, puntò sui tre mezzi  per il successo della predicazionie: gli esercizi spirituali per i sacerdoti, le processione di penitenza per il popolo, la fondazione di Congregazioni mariane, per la perseveranza e la formazione continuata di gruppi più aperti o preparati al cammino spirituale.

[41] Fra le altre testimonianze sulla “bontà dei tempi” si possono elencare anche queste altre: il cardinal Federigo Borromeo fu malvisto a Madrid per la intrepidezza con cui protestava contro le prepotenze spagnole; per motivi simili, i cardinali Cesare Baronio, Agostino Galamini e Giulio Sacchetti  furono eslcusi dal papato per il veto spagnolo (per onestà va tuttavia ricordato che la occupazione, in questo secolo, delle Filippine da parte della Spagna non conobbe nè prepotenze nè schiavitù). Se il numero delle vocazioni al sacerdozio in Sicilia (dall’uno e mezzo al tre per cento della popolazione) e nel Meridione in genere (a Capua, su seimila abitanti, vi sono 136 preti beneficiati) è un dato equivoco (molti rimangono in famiglia e ne diventano il sostegno), in compenso preti eroici durante la peste non ci furono solo a Milano, ma un po’ dappertutto; se le monacazioni forzate rimangono una macchia sociale, si devono però anche ricordare Maria Cristina, moglie di Vittorio Amedeo I, che  fece della corte sabauda un convento teresiano; la venerabile Chiara Maria della Passione, fondatrice del monastero Regina Coeli (Roma) delle Carmelitane scalze, che era una principessa Colonna Barberini; Caterina Farnese (principessa di Parma) ed Eleonora d’Este ( figlia del duca  Francesco I), che  entrarono in Carmelo. Ancora: se la religiosità di Claudio Monteverdi  era sincera e  seria, quella di Lorenzo Bernini  era addirittura severa; fra i gruppi di Dottrina cristiana, eretti in confraternite per la diffusione della conoscenza della fede, v’era chi  si flagellava; con il beato Innocenzo XI, gli Scolopi istituiscono scuole professionali (primo caso in Italia); in Capitanata i gesuiti mettono a cultura terre abbandonate, formando nuclei di futuri villaggi; tra le opere di misericordia (ospizi per mendichi, monti di pegni e frumentari, ospedali, monasteri per donne pentite...) quelle di Genova erano le meglio organizzate d’Europa, oggetto di visite per imitazioni; Paolo V prosciugò paludi presso Ferrara; in Roma  l’edilizia è favorita dallo splendore di vita di cardinali nepoti e lascia opere famose: palazzo e villa Borghese, villa Doria-Panphili, villa Aldobrandini, biblioteche e collegi.

[42] “Concettini” traduce presso di noi le “agudézas” dello spagnolo; “concettismo” sta ad indicare l’acutezza intellettuale degli accostamenti impensati; “marinismo” è nome tratto dall’autore dell’Adone, che è il principale rappresentante della poetica concettista; “secentismo” deriva dal nome del secolo in cui si diffuse la moda; “barocco letterario” dalla affinità della tecnica concettista con le arditezze delle arti figurative, la cui denominazione (barocco) spiegheremo  nel testo.

[43]   Ognuno può scoprire facilmente i vari sofismi o passaggi indebiti del ragionamento. L’arte è molto interessante, ma l’interesse non è destato solo dall’arte (curiosità, scandalo, erotismo, ideologie socio-politiche, eroismi, scoperte storiografiche, filologiche, scientifiche: ogni fatto clamoroso, nel male come nel bene, tende ad essere interessante), per cui artistico ed interessante non coincidono. Il “nuovo od originale”  è certo interessante, ma non è l’unica sorgente di interesse (vedi sopra: i fatti clamorosi interessano a lungo, anche se ripetitivi). Il nuovo  od originale può essere interessante come può lasciare indifferenti o suscitare disgusto: dipende dal tipo di “novità-originalità” di cui si  tratta. Che il meraviglioso si ottenga principalmente con i concettini, è tutto da provare: lo sbarco sulla luna e  altri happening del genere sono decisamente cose meravigliosi: e non contengono concettini...

[44] Sia il barocco figurativo che quello verbale sono ben  più antichi di Marcabruno e  (per fare un altro nome solo mediocremente illustre) di Pellegrino Tibaldi. A Baalbek, nella valle della Bekaa, in Libano, vi sono rovine di un tempio che nulla hanno da invidiare al barocco del nostro Milleseicento.  Eugenio D’Ors (Du baroque, 1935) tratta il barocco come una forma eterna (eone) dello spirito umano, che  di tanto in tanto prende il sopravvento. E non a torto G. Toffanin sostiene che gli scrittori latini Ovidio, Seneca, Lucano  erano anime in barocco. Già abbiamo ricordato le “acutezze” della Divina Commedia, da “amor che nullo amato amar perdona” (Inf. 5, 103) ad “Io credo ch’ei credette ch’io credesse” (Inf. 13, 25); del Petrarca , da “L’amar m’è dolce ed utile il mio danno” (118) a “O viva morte, o dilettoso male” (132), da “E vorrei più volere e più non voglio| e per più non poter fo quanto io posso...” (118) a “Pace non trovo e non ho da far guerra| e temo e spero ed ardo e son di ghiaccio...” (134) e su su fino all’Ariosto ed al Tasso. Ma si è anche detto, al seguito del Toffanin, che la teorizzazione della tecnica si ebbe attrono al 1542-5 a Padova, alla scuola dello Speroni e del suo discepolo Bernardino Tomitano, che riportò la dottrina del maestro nei “Ragionamenti della lingua toscana” . Delle teorizzazioni ulteriori di Paolo Beni, di Matteo Peregrini (Pellegrini), del card. Pietro Pallavicino Sforza, di Emanuele Tesauro e dello spagnolo Baldassar Graciàn y Morales si è già detto.

Qui val la pena invece di ricordare che la moda ebbe sviluppi anche fuori di Spagna ed Italia e anche oltre il “Seicento”. In Spagna, oltre Luis de Gòngora, anche Lope de Vega e Calderòn de la Barca sono ricchissimi di concettini; e Shakespeare non ne fa economia anche in opere tragiche come Romeo e Giulietta: venivano incontro ad un certo gusto del pubblico. E, se è lecito dire una verità ovvia ma pericolosa, che cosa è l’ermetismo nel secolo XX se non un concettismo più elaborato e sofistico? Si leggano gli esempi riportati da A. Galletti nelle pagine 547-553 del volume della Vallardiana sul “Novecento”. Ma nacquero anche vere scuole di versificazione o poesia in stile barocco sia in Francia (il “preziosismo” nel salotto di Catharine Pisan de Vivonne, marchesa di Rambouillet, canzonata dal Molière nella commedia “Les précieuses ridicules”), sia in Inghilterra , dove è detto “Eufuism” (leggi:  IUFIUISM) , da Euphues, titolo di un romanzo di John Lyly (1553-1606); ivi è detto anche “Poesia metafisica” ed il suo più  noto rappresentante è Richard Crashaw (1612-1649).

[45] Chi ha elencato nel modo più completo le varie forme dello stile secentista è forse Bruno Migliorini nella sua Storia della lingua italiana ( Firenze, Sansoni, 1966, pp. 416-422). Egli, oltre che di iperboli, parla di accumulo di metafore,  di rovesciamento nel rapporto aggettivo-sostantivo, di enigmi, di contrasti (fra concreto ed astratto, fra solenne e triviale), di rime difficili, di paronomasie o bisticci, di riporto al senso etimologico da quello ormai imposto dall’uso, di antonomasia, di enumerazioni, di sinonimie e di lingua ionadattica (identificazione del senso di due parole, per il fatto che hanno consonanti identiche: il Migliorini porta come esempio “fagioli=fagiani”; aggiungerei: sbarazzarsi=sbizzarrirsi).

[46] Resta sempre interessante la conoscenza delle origini dei termini, perchè la filologia aiuta a comprendere più a fondo il loro significato. Abbiamo la parola BAROCCO che interessa per la sua provenienza “nobile”, in quanto pare discenda, almeno in parte, dal vocabolo-sigla della logica sillogistica propria della filosofia scolastica più raffinata. Una parentela, a dir il vero, la si sospetta anche con il portoghese “barrueco”, che era il nome  dato alle perle irregolari, scaramazze.  Ma il riferimento più persuasivo (o, comunque, più ghiotto) è quello rappresentato dalla parola simbolica  “Baroco”,  nelle cui vocali gli scolastici medioevali erano riusciti a racchiudere un cumulo di significati relativi alle caratteristiche delle tre proposizioni di un particolare tipo di sillogismo (sillogismo è la forma perfetta del ragionamento razionale: quella più semplice e chiarificatrice e, perciò, la più persuasiva o la più aperta alla falsificazione; la più probante o la più evidentemente falsa). La “A” indica che la proposizione prima del sillogismo è universale e positiva; la “O” indica che la seconda frase e la terza sono particolari e negative.  Ecco degli esempi: “Tutti i ladri temono la prigione| ma (atqui) alcuni uomini politici non temono la prigione| dunque (ergo) alcuni uomini politici non sono ladri” (dalla Enciclopedia filosofica Garzanti, voce “sillogismo”).  Eccone altri, riguardanti il nostro secolo letterario: “I grandi poeti sono liberi da enfasi. Atqui il Marino non è libero da enfasi. Quindi il Marino non è un grande poeta”; oppure “Tutti gli scrittori barocchi sono concettisti. Atqui il Galilei non è concettista. Ergo il Galilei non è scrittore barocco”. Si noti che questa forma  sillogistica in “BAROCO” è una delle diciannove esatte e concludenti sulle 256 ipotizzate da Aristotele. Ma la forma è contorta e spiacevole. Ecco allora il perchè del passaggio ad indicare una forma d’arte complicata e sgradita, come è  praticamente sempre quella barocca letteraria e spesso anche quella figurativa. Si noti che la scolastica medioevale ha inventato solo le formule simboliche dei sillogismi (pare sia stato Pietro Ispano, poi papa Giovanni XXI, negli anni 1276-7, nelle Summulae logicales), che però rendono l’esame  circa la esattezza del procedimento razionale “in formis” (cioè tecnicamente perfetto: il sillogismo, appunto), analizzabile quasi matematicamente (anche al computer) e per di più modificabile con facilità, in modo da ridurre tutte le forme sillogistiche  alle quattro del primo gruppo, che sono le più semplici, chiare e convincenti, anche se di esse, a noi qui, interessa solo la prima e perfettissima formula, quella del sillogismo in “BARBARA”,  FORMATO CIOE’  DA TRE UNIVERSALI POSITIVE. Difatti la prima delle consonanti di Baroco indica proprio che il nostro sillogismo può essere ricondotto alla formula di Barbara. La consonante “R” non ha significato tecnico: è un riempitivo per dar suono alla parola “baroco”. La terza consonante “C” è invece anch’essa simbolica: suggerisce che per trasformare un sillogismo in “Baroco” in uno in “Barbara” occorre ridurlo ad una formulazione assurda. Possiamo tentare in questa maniera: Chi teme la prigione è un fuorilegge e ladro; Atqui è assurdo pensare che tutti i politici temano la prigione; ergo è assurdo pensare che tutti i politici siano dei fuorilegge e ladri.| Gli scrittori concettisti sono tutti barocchi; atqui è impossibile che persone intelligenti come G. Galilei siano scrittori concettisti;  Ergo è impossibile che gli scrittori intelligenti come G. Galielei siano barocchi.| Solo chi è libero da enfasi può essere un grande poeta. Atqui è impossibile (assurdo) che uno scrittore barocco (come il Marino) sia libero da enfasi; ergo è impossibile (assurdo) che uno scrittore barocco (come il Marino) sia grande poeta.

 

[47] A parte opere comunque importanti (Adone| La secchia rapita| Dialogo dei massimi sistemi|  Discorsi e dimostrazioni matematiche  intorno a due nuove scienze| Tragedie, del Della Valle| La dissimulazione onesta, di T. Accetto| Canzoni, del Chiabrera) ci rifacciamo sostanzialmente ai volumi sul Seicento, della Storia della letteratura italiana, sia di F. Vallardi (Milano, 1963), sia della  Garzanti (Milano 1967|1976); ed ai volumi della collezione de La letteratura italiana, storia e testi, editi da Ricciardi, Milano- Napoli, sui vari autori del secolo : li citeremo come “Vallardiana| Garzantiana| Ricciardiana”. La Storia dell’età barocca di B. Croce (Bari, Laterza, 1957 ed i già citati  Il Concilio di Trento di H. Jedin (traduz. Brescia, Morcelliana, 1949-85) e la Storia della Chiesa in Italia, di G. Penco, Milano, Jaka Book, 1978, sono altri libri tenuti presenti .

[48] Si legga già la seconda strofa del primo canto, ove si celebra Venere come pacificatrice del dio della guerra, Marte, in questi termini: “Tu dar puoi sola altrui godere in terra| di pacifico stato ozio sereno.| Per te Giano placato il tempio serra,| addolcito il Furor tien l’ira a freno;| poichè il dio de l’armi e de la guerra|spesso suol prigionier languirti in seno,| e con armi di gioia e di diletto| guerreggia in pace, ed è steccato il letto”. Impudenza somma, ma non propriamente oscena: lascia sbalorditi per la temerarietà, ma non eccitati alla sensualità. Si veda anche la seconda strofa del canto ottavo, dove si accenna al piacere erotico con il termine spudorato ma spuntato di “ultima dolcezza”.

[49] Nelle introduzioni in prosa a molti canti, il Marino gioca la carta della allegoria per giustificare il peccato descritto più o meno spudoratamente: in fin dei conti (sembra dire) l’amore tra Venere e Adone non paga, perchè esso genera gelosia ed il giovane ne viene coinvolto ed ucciso. Ma il tentativo è di una ipocrisia penosa: nel corso della narrazione non vi sono appigli per elevarsi ad un sovrasenso della trama: è una imposizione arbitraria, dettata da troppo evidenti motivi di convenienza sociale. D’altronde l’allegoria proposta al canto ottavo conferma solo la sensualità del contenuto, che l’autore si propone solo di trattare sotto il velame  di circonlocuzioni ed eufemismi...

[50] Si intravede nell’Adone il peggioramento di una certa tendenza del Rinascimento, bloccato dalla riforma cattolica, ma che riprenderà più sfrontato nella letteratura del Neoclassicismo e farà scrivere a Manzoni che “la mitologia è idolatria”.

[51] Riportiamo anche queste tre strofe, perchè  rivelano virtù e difetti del lirismo mariniano. Eccole, dunque: “Fa della gola lusinghiera e dolce| talor ben lunga, articolata scala:| quinci quell’armonia, che l’aura molce,| ondeggiando per gradi in alto essala;| e poi ch’alquanto si sostiene e folce,| precipitosa a piombo alfin si cala.|Alzando a piena gorga indi lo scoppio,| forma di trilli un contrappunto doppio.|| Par ch’abbia entro le fauci e in ogni fibra| rapida rota o turbine veloce.| Sembra la lingua, che si volge e vibra,| spada di schermidor destro e feroce.| Se piega e’ncrespa, o se sospende e libra| in riposati numeri la voce,| spirto il dirai del ciel, che in tanti modi| figurato e trapunto il canto snodi.|| Chi crederà che forze accoglier possa| animetta sì picciola cotante?| e celar tra le vene e dentro l’ossa| tanta dolcezza un atomo sonante?| o ch’altro sia che la liev’aura mossa,| una voce pennuta, un suon volante?| e vestito di penne, un vivo fiato,| una piuma canora, un canto alato?” (VII, 35-37).

[52] “Rapito allora e provocato insieme| dal suon, che par ch’a sè l’inviti e chiami,| da le cime de l’arbore supreme| scende pian piano in su i più bassi rami;| e ripigliando le cadenze estreme,| quasi ascoltarlo ed emularlo brami,| tanto s’appressa e vola e non s’arresta| ch’alfin viene a posargli in su la testa.|| Quei che le fila armoniche percote,| sente, nè lascia l’opra, il lieve peso,| anzi il tenor de le dolenti note| più forte intanto ad iterare ha preso.| E ’l miser rosignuol quanto più puote| segue suo stile ad imitarlo inteso.| Quel canta e nel cantar geme e si lagna,| e questo il canto e ’l gemito accompagna.| E quivi l’un sul flebile stromento| a raddoppiar i dolorosi versi,| e l’altro a replicar tutto il lamento,| come pur del suo duol voglia dolersi;| tenean con l’alternar del bel concento| tutti i lumi celesti a sè conversi,| ed allettavan pigre e taciturne| vie più dolce a dormir l’ore notturne.|| Da principio colui sprezzò la pugna| e volse  de la’ugel prendersi gioco.| Lievemente a grattar prese con l’ugna| le dolci linee, e poi fermossi un poco.| Aspetta che’l passaggio al punto giugna| l’altro, e rinforza poi lo spirto fioco,| e, di natura infaticabil mostro,| ciò ch’ei fa con la man, rifà col rostro.|| Quasi sdegnato il sonatore arguto| de l’emulazion gli alti contrasti,| e che seco animal tanto minuto,| non che concorra, al paragon sovrasti,| comincia a ricercar sovra il liuto| del più difficil tuon gli ultimi tasti;| e la linguetta garrula e faconda,| ostinata a cantar, sempre il seconda.|| Arrossisce il maestro, e scorno prende| che vinto abbia a restar da sì vil cosa.| Volge le chiavi, i nervi stira e scende| con passata maggior fino a la rosa.| Lo sfidator non cessa, anzi gli rende| ogni replica sua più vigorosa;| e secondo che l’altro o cala, o cresce,| labirinti di voce implìca e mesce.|| Quei di stupore allor divenne un ghiaccio| e disse irato: -Io t’ho sofferto un pezzo.| O che tu non farai questa ch’io faccio,| o ch’io vinto ti cedo e’l legno spezzo-.| Recossi poscia il cavo arnese in braccio| e, come in esso a far gran prove avezzo,| con crome in fuga e sincope a traverso,| pose ogni studio a variare il verso.|| Senza alcun intervallo e piglia e lassa| la radice del manico e la cima,| e come il trae la fantasia, s’abbassa,| poi risorge in un punto e si sublima.| Talor trillando al canto acuto passa,|e col dito maggior tocca la prima;| talora ancor con gravità profonda| fin de l’ottava in su ’l bordon s’affonda.|| Vola su per le corde or basso or alto| più che l’istesso augel la man spedita;| di su, di giù con repentino salto| van balenando le leggiere dita.| D’un fier conflitto e d’un confuso assalto| inimitabilmente i moti imìta,| ed agguaglia col suon de’ dolci carmi| i bellicosi strepiti de l’armi.|| Timpani e trombe e tutto ciò che, quando| serra in campo le schiere, osserva Marte,| i suoi turbini spessi accelerando,| ne la dotta sonata esprime l’arte,| e tuttavia moltiplica sonando| le tempeste de’ groppi in ogni parte;| e mentr’ei l’armonia così confonde,| il suo competitor nulla risponde.|| Poi tace e vuol veder  se l’augelletto| col canto il suon per pareggiarlo adegua.| Raccoglie quello ogni sua forza al petto,| nè vuol in guerra tal pace nè tregua.| Ma come un debil corpo e pargoletto| esser può mai ch’un sì gran corso segua?| Maestria tale ed artificio tanto| semplice e natural non cape un canto.|| Poi che molte e molt’ore ardita e franca| pugnò del pari la canora coppia,| ecco il povero augel ch’alfin si stanca,| e langue e sviene e infievolisce e scoppia.| Così, qual face che vacilla e manca,| e maggior nel mancar luce araddoppia,| da la lingua, che mai ceder non volse,| il dilicato spirito si sciolse.”

[53] “Tacean le selve, e dal notturno velo| era occupato in ogni parte il cielo” (VII, 40); “Le stelle poco dianzi innamorate| di quel soave e dilettevol canto| fuggir piangendo, e da le logge aurate| s’affacciò l’alba, e venne il sole intanto”(ivi, 55).

[54] Si vedano i primi quattro versi della strofa 42 (“L’infelice augellin, che sovra un faggio| erasi desto a richiamare il giorno,| e dolcissimamente in suo linguaggio| supplicava l’aurora a far ritorno...”); e gli ultimi quattro della strofa 45 (“tenean con l’alternar del bel concento...”), citati nella nota precedente.

[55] Per  scoprire una intenzione di epopea rovinata dal concettismo, si veda XX; 9; delusa, invece, dal musicalismo inadeguato è quella delle strofe 159-160 del canto XX.

[56]  Uno  degli accorgimenti per  controllare fino a che punto la metrica è fluida, può essere quello di esaminare quei pochi versi che urtano leggermente l’orecchio. Ci siamo posti il problema solo verso la fine del poema: gli esempi, dunque, vengono dal canto ventesimo.  Il verso della strofa 39, 7 è regolare: la lieve dissonanza nasce dla fatto che l’accento della sesta sillaba cade su una congiunzione (mentre), attenuando la forza dell’ictazione : difatti il vocabolo ictato (accentato secondo le leggi della metrica) deve essere un sostantivo, verbo od aggettivo; le altre parti del discorso reggono pienamente alla loro funzione musicale solo se sono tronche (perchè, finchè...); 342, 8 stona un po’ perchè la rima ha trasformato in “griso” l’aggettivo “grigio”; 393, 6 appoggia  l’accento della sesta silaba sull’articolo “la” (gli elmi infocati, la cui tempra è fina); 405, 1 suscita disarmonia per un “dialogi” anzichè “dialoghi” (“dialogi di sguardi e di sospiri”). Ma  I, 2 (v.5), assorbe molto bene la stranezza de “lo dio” anzichè “il dio”: piccoli nei,  quisquiglie.

[57] Il Marino chiama “molle e lusinghiera” la propria musa (VIII, 3), ma il contesto si riferisce al contenuto lascivo: pure la definizione ci sembra applicabile anche allo stile, per questa prevalenza di dolcezza metrica e consonantica.

[58] Che la intelligenza del Marino non fosse delle più acute (non diciamo “profonde”) lo può dimostrare il suo tentativo di dare nelle prose allegoriche  una interpretazione “virtuosa” al suo poema che egli stesso definisce “”poesie tenere e lascive”, “carte men pudiche”, scritte con “penna oscena” (VIII, 3 e 6). E lo può confermare l’analisi fatta puntigliosamente della sua sintassi dal curatore della edizione dell’Adone nei Classici Mondadori, ove si costata che lo scrittore è  limitato nelle subordinate e privilegia le coordinate, rivelando una mentalità elementare, una intelligenza semplice ed infantile.

[59]  La citazione viene dal “Compendio” di Sapegno, II, p. 332.  Lo scompenso tra il motivo ispiratore evidentemente epico e la versificazione splendidamente inerte è rintracciabile in tutti i venti canti, salvo i pochi brani segnalati. Noi qui rimandiamo a casi notevoli degli ultimi due canti.  Il caso di XIX, 276-86  (sul mito di Leandro, che perisce mentre attraversa a nuoto l’Ellesponto per recarsi all’appuntamento con Ero, in una notte di tempesta) è già stato citato: non vi si sente nè dramma nè tragedia, perchè la “musica” è la stessa delle narrazioni amorose o delle descrizioni paesaggistiche, non avendo il Marino “sentito nel cuore” la dimensione commovente o sconvolgente dell’episodio. Così avviene in XIX, 296 (Teti rievoca Achille); XX, 388-9 (scontro fra due campioni: si rilegga invece in Tasso, VI, il duello fra Tancredi ed Argante); e XX, 7-10; 388-93. Due versi da XIX, 360, li riportiamo perchè  costituiscono, nel contrasto di qualità  fra i suoni emessi dagli strumenti musicali, una spia acutissima delle contraddizioni mariniane che producono la dissolvenza incrociata del suo musicalismo eccellente ed insignificante: “e rauchi e fiochi e languidi e soavi| sospiravano i fiati  ai bronzi gravi” (ma tutta la strofa è vacillante: “Sei quadriglie d’araldi e di trombetti| ivano innanzi all’orrido ferètro,| a cui di cavalier fra gli altri eletti| due lunghe file poi ne venian dietro:| quei sovra ubini e questi in su giannetti| di pel conforme a l’armi oscuro e tetro;| e rauchi  e fiochi e languidi e soavi| sospiravano i fiati ai bronzi cavi”). Si noti il contrasto fra “trombetti| orrido! ferétrop| tetro” e gli “ubini e giannetti” (cavalli di costituzione minuta) ed i suoni “fiochi, languidi, soavi”: si affloscia la intenzione epicizzante del poeta,  affiorante da tutto il contesto (dalla strofa precedente, ad esempio che, fra tendenze epicizzanti e sottofondi tragici,  ci pare  difendere una sua sufficienza).

[60] I passi cui rimandiamo appartengono per lo più alla seconda metà del poema: II, 43; IX, 2| 4| 5| 11| 159; XIV, 180| 181| 183| 185| 310| 323| 331| 356| 360| 364|384; XV, 9| 10| 14| \7| 24| 26| 196| 226| 228| 229| 237; XVI, 4| 43| 128| 131| 241| 254| 267| 269; XVII, 25| 30| 31| 42| 185; XVII, 17| 18| 31|35| 45| 51| 57| 65| 72| 83| 131| 139| 184| 185| 192| 210| 222| 223| 246; XIX, 6| 11| 13| 107| \30| 144| 184| 193| 194| 203| 211| 212| 225| 227| 235| 255| 269| 270| 272| 273| 276| 277| 279| 280| 282| 289| 190| 291| 322| 335| 339| 404| 408| 411; XX, 9| 13| 25| 37| 48| 77| 116| 155| 160| 237| 240| 248| 282| 285| 294| 333| 387| 397| 400| 4°2| 404| 429| 445| 479.

Contro il concettismo dell’Adone, il contestatore più convincente –oltre che il primo- fu Tommaso Stigliani. Ecco che cosa ne dice Franco Croce, “Critica e trattatistica del barocco”, in Storia della Letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1976, Il Seicento, p. 431: “Importante è anzitutto il conservatore, l’accusatore dell’Adone ed iniziatore –con il suo  Occhiale- della polemica...  Il suo non è l’allarme generico di chi vede messi in crisi gli idoli della vecchia cultura, Petrarca ed Aristotele, ma è il giudizio preciso sul risultato, cui la spinta innovatrice ha portato la letteratura italiana, su quel poema sterminato e lussuoso, gonfiato ad accogliere un po’ tutti i toni e tutti i generi letterari, che i marinisti propongono come assoluto capolavoro davanti al quale tutte le opere del passato apparirebbero imperfette. Così, se egli si rifà al regolismo aristotelico per combattere la disordinata costruzione dell’Adone, se si rifà ad un bembismo molto annacquato, più linguistico che stilistico, per opporsi ai neologismi mariniani, tuttavia l’accento del suo Occhiale non batte solo su quei princìpi tradizionali messi in crisi, bensì anche sulla concreta qualità del poema mariniano. Il tema delle unità violate, perciò, diventa un mezzo per descrivere criticamente le strutture del’Adone: -poema di madrigali-, in cui le singole parti -mole ruunt sua- (procedono per impulso proprio, separate dal tema centrale), in cui l’apparente ricerca di varietà non nasconde l’intima povertà tematica e addirittura verbale (il poema si reggerebbe su di una cinquantina di parole) mentre la denunzia dei difetti di stile e di vocabolario, pur condotta con un puntiglio pedantesco, conduce ad un inventario parecchio interessante dei modi irregolari del Marino...”.

[61] Adone, XI, 97|; XII, pressochè tutto, dopo la strofa 175; XIII, 117-124; XIV, 226-79| 356-60; XV, 17-23; XVII, 21-27; XVIII, 23-33| 109-112| 123-128| 133-46| 154-61| 176-7| 180-4| 234-5; XIX, 169-229| 247| 257| 261-6| 414| 417.

[62] Tale “distrazione” da una sezione all’altra del lavoro, la si ritroverà in Italo Svevo, La coscienza di Zeno : il fatto della schiavitù al fumo, che assorbe ossessivamente tutto il primo, lungo capitolo, ma esce di scena per tutto il resto  del romanzo, salvo richiami occasionali, brevissimi ed insignificanti, non è che l’esempio più clamoroso di una trama costruita a tavolino, con poca testa e nessuna partecipazione emotiva. 

 

LIRICI  SECENTISTI

 

 Praticamente  tutti i lirici concettisti del secolo  ruotano attorno al Marino, magari per opporsi,  ma per lo più per affiancarsi, pur essendo più anziani di lui. Così Cesare Rinaldi (Bologna 1559-1636), visse  abbastanza per subire il fascino tanto del Tasso che del Marino, essendo stato amico di entrambi.[1].

Invece (lo abbiamo già visto) Tommaso Stigliani finì per inimicarsi col Marino e fare la satira del suo stile concettista: ma egli, pur  difendendo il classicismo petrarchesco  (Occhiale), tuttavia non  riesce ad abbandonare del tutto, nella sua produzione lirica, la tecnica barocca imperversante. Cominciamo, dunque,  da  lui a dare notizie meno telegrafiche ed a riportare, in nota, qualche verso.

 

Tommaso Stigliani nacque a Matera nel 1573 e trascorse la giovinezza a Napoli: fu a Milano e soprattutto presso i Farnese di Parma, ma morì a Roma nel 1651. Nel 1600 pubblicò il poemetto     Il Polifemo, in ottave; proseguì con  le Rime (poi riedite nel Canzoniere); si impegnò nei 34 canti de Il Mondo nuovo (1628: celebrazione della impresa di C. Colombo). Già nella prima edizione di questo poema (1617) egli satireggiò il Marino, definendolo “pesciuomo”: l’epiteto suscitò una viva polemica tra il Marino e lo Stigliani, cui presero parte i sostenitori dell’uno e dell’altro poeta. Come si è già letto nelle note di Franco Croce ( Garzantiana), egli espose poi in un’opera impegnata ed intelligente (Occhiale: 1627) i motivi della sua opposizione al Marino, di cui fa una critica severa ma motivata. Si divertì anche a far la caricatura delle su immagini sproporzionate con imitazioni  parodistiche   (Canzoniere, libro IV nell’ediz. del 1623). Il compromesso cui lo Stigliani approda, fra la ripulsa all’estremismo mariniano e la duplice tradizione  di petarchismo e moda concettista (già in atto prima del Marino), è un  ritorno al manierismo, cioè alla concezione  per cui, per fare vera poesia, occorre unire (come afferma il suo amico Francesco Balducci, prefazionando l’opera or ora citata) “la purità e l’affetto del Petrarca colla vivezza delle arguzie moderne e colla varietà dei soggetti”: classicità e  fantasia arguta, dunque.

Ecco degli esempi. Il sonetto che lamenta di aver posto lo sguardo su donna troppo sublime (o troppo altera), sicchè può essere intitolato “Amor tropp’alto”canta così: “Io veggio a’ miei desir tant’alto il segno,| ed è fra quello e me spazio sì lungo,| che, non che con la mano, appena il giungo| cogli occhi de la fronte e dell’ingegno.|| Ben di spiegar lassù talor m’ingegno| l’ali d’Amor ch’agli omeri m’aggiungo;| ma o poco da terra mi dilungo,| o caggio in mar di pianto, Icaro indegno.|| Come il fanciullo ch’a toccare imprende| le stelle in cielo e indarno verso quelle| la semplicetta man più volte stende,|| tal io le voci (ahi lasso!) e ’l cor con elle| drizzo invan sempre ove tropp’alto splende| un sol diviso in due lucenti stelle”.[2]

Ecco tre strofe del madrigale “In lode della signora Settimia Romana, figliuola del signor Giulio Romano”. Le riportiamo per mostrare come lo Stigliani riecheggia  ed imita da presso il Marino, mentre lo critica: il modello sono evidentemente le ottave dell’Adone (VII, specie le strofe 50-2) per la gara fra l’innamorato e l’usignolo. “Or volanti passaggi,|or affetti e sospiri,|ora fughe e viaggi,| or riposi e respiri,|ora suole alternar dolci durezze,| ora suole intrecciar dure dolcezze.|| Quando schiude un accento| tremolante e soave,| quando move un concento| armonioso e grave,| quand’alto forma il canto e quando basso,| quando vivace il fa, quando il fa lasso.|| E, quasi un rio corrente,| qui mormorar appena,| là gemere altamente| tu l’odi in nota piena;| qui gir quieta e placida l’ammiri,| là gorgogliar con tortuosi giri”.

Ecco un esempio di ispirazione idillica spento dalla mania elencativa (sia pure non metaforeggiante) del secolo: “Ripigliate, augelletti,| i vostri dolci canti.| Già vien coi zefiretti| la stagion degli amanti;| e ne’ prati è rinata| la famiglia odorata.” Dopo di che segue l’elenco di ben undici fiori (girasole compreso!), inquadrati in dodici versi (praticamente, un nome ed un aggettivo  per ogni settenario). Diamone i primi due: “Ride il fresco giacinto,| il gelsomin nevoso...”. Ed il lettore, che si aspetta la continuazione, anzi una intensificazione dell’idillio e non sa che farsi di una lezione di botanica, sbadiglia annoiato.

Del sonetto (uno dei molti del secolo) sull’orologio da polvere, diamo la prima quartina, che ha un piglio drammatico, rovinato dal mito inventato nelle due strofe seguenti (Aristeo ama inutilmente Tirrena e muore di dolore: lei lo rinchiude, fatto polvere, nei vetri della clessidra) e la terzina conclusiva, che ha un guizzo degno di Marziale nell’ultimo verso, confezionato però in una “vivezza” concettista: contrapposizione di stato nella continuazione del tormento: “Questa in duo vetri imprigionata arena,| che l’ore addita e la fuggente etade,| mentr’ognor giù, quasi filata, cade| rapidamente per angusta vena....” “Oh crudel degli amanti e dura sorte!| Serban l’arse reliquie anco il prim’uso:| travaglian vive e non riposan morte”.

Semplicemente stolida è questo paragone fra Nice e gli strumenti della pesca: “Tutta nella tua faccia,| Nice, raccolta l’arte hai della pesca:| in fronte hai la bonaccia,| ne’ capegli la rete,| negli occhi l’amo e nello sguardo l’esca.| Solo l’accesa face| non hai del pescatore:| chè quella in vece tua l’ho io nel core”.

Peggiore è quest’altro madrigale sulla “celeste frittata”: “Matarazzi del cielo, oscure nubi,| ch’or tenete celata| la celeste fritatta:| scopritela, vi prego, agli occhi miei;| perch’al lume di lei| io scriver possa alcune rime sdrucciole:| non ho più gatta[3] e non si trovan lucciole”. Ma con questa scempiaggine (salvo la conclusione epigranmmatica, che può esser citata per scherzo in più di una situazione della vita) siamo al quarto libro del Canzoniere, che rifà la moda secentista per amore di satira contro il Marino e seguaci (come, un tempo, anche lui era stato).  Ma qualche particolare interessante della diatriba  fra lo Stigliani  e l’ex maestro ed amico lo rimandiamo in nota: vi  si trovano scherzi dello Stigliani decisamente scriteriati, da codice penale. [4]

 

Claudio Achillini. Giurista e poeta, nato e morto a Bologna (1574-1640), insegnò nelle università della città oltre che a Ferrara e a Parma; soggiornò anche a Roma, dove fu fatto membro della Accademia dei Lincei e divenne segretario del futuro papa Gregorio XV (Alessandro Ludovisi); ed a Torino, alla corte di Carlo Emanuele I. Marinista  convinto, difese il maestro nella polemica con lo Stigliani. E’ “vir unius libri”(scrittore di un solo libro): Rime e prose (1632). Più volte ristampato, fu un modello del virtuosismo barocco, con immagini sorprendenti e sconcertanti. Manzoni ne cita il sonetto Sudate o fochi  (c. 28) e ne riprende le argomentazioni sulle cause della peste, mettendole ironicamente in bocca a don Ferrante (c. 37: cfr. lettera del 1630 Sopra le presenti calamità).

Citiamo anche noi anzitutto il sonetto dove “loda il gran  Luigi re di Francia, che dopo la famosa conquista della Roccella venne a Susa e liberò Casale”: si indovinerà facilmente che, mentre nel contesto manzoniano il primo verso sembra un invito a fondere armi per la guerra, invece il componimento è un’esortazione a fabbricare strumenti con cui estrarre marmo dalle montagne, onde costruire un monumeto a Luigi XIII, per le due vittorie, del 1628 e del 1630, accennate nel titolo. Due brevi madrigali ed un sonetto mostrano fin dove giunge –temeraria e non censurata (l’Indice non era poi così pignolo!)- la impudenza del Milleseicento (li accenenremo in nota). E si noti che nelle sue lettere ritorna il coraggio di rimproverare,  al Marino stesso ed agli amici comuni, la lascivia dell’Adone, pur da lui celebrato come il maggior poema della letteratura italiana, da paragonarsi alla stessa Eneide di Virgilio. E come si rallegra per la morte cristiana del Marino, così, con saggezza  letteraria oltre che pedagogica, esalta un  padre cappuccino per la forza di fede con cui predica Cristo crocefisso, tralasciando gli ornamenti retorici, che egli chiama “tenebre dell’apostolato”, cioè rovina della predicazione. (lettere al Marino, a Girolamo Preti, ad Antonio Lamberti, riportate dalla Ricciardiana).

“Sudate, o fochi, a preparar metalli,

e voi, ferri vitali, itene pronti,

ite di Paro a sviscerare i monti

per innalzar colossi al Re de’Galli.

Vinse l’invitta rocca e de’ vassalli

spezzò gli orgogli a le rubelle fronti,

                            e machinando inusitati ponti

      diè fuga ai mari e gli converse in valli.

      Volò quindi su l’Alpi e ’l ferro strinse,

e con mano d’Astrea gli alti litigi,

temuto solo e non veduto, estinse

Ceda le palme pur Roma a Parigi:

chè se Cesare venne e vide e vinse,

venne, vinse e non vide il gran Luigi.[5]

 

Girolamo Preti (Bologna? 1582-1626). Fu uomo di corte,al servizio dei cardinali Pio di Savoia e Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII: al seguito di quest’ultimo, morì a Barcellona a 44 anni, per malattia  contratta durante una violenta tempesta di mare. Come poeta, fu seguace del Marino, ma trattò la maniera amorosa con  spirito platonico e dolcestilnovista, sostenendo la sua posizione   anche teoreticamente, nel discorso Intorno alla onestà della poesia (1618). Le sue  Poesie (1614) ebbero successo, con edizioni anche dopo la sua morte.

In questo sonetto (Un pastore descrive l’amenità d’un luogo e le sue pene amorose) ci sembra che l’idillio si salvi nonostante qualche espressione “preziosa” e benchè le terzine tirino per i capelli il paesaggio a diventar figura del poeta, infelice amante ( tanto che il bel verso finale non sai se leggerlo in tono epigrammatico-arguto -secondo  il suggerimento delle terzine- o in tonalità idillica -secondo il senso suo più ovvio ed il registro delle quartine):

Un rio, qui gorgogliando in fra le sponde,

                                               con tributo d’argento al Ren deriva;

                                               qui fa un’ombrella il platano e l’oliva,

                                               rami a rami intrecciando e fronde a fronde.

                                                           Al garrir de gli augelli Eco risponde;

                                                           qui tempra un venticel l’arsura estiva;

                                                           molle il suol, fresco il rio, verde è la riva;

                                                           qui fan letto l’erbette e specchio l’onde.

                                               Quanti augelletti, o Cinzia, ascolti e miri,

                                               in quel linguaggio lor piagner, cred’io,

                                               de la fierezza tua, de’ miei martìri!

                                                           Anzi, mossi a pietà del dolor mio,

                                                           vanno emulando i pianti e i miei sospiri,

                                                           spirando l’aura e mormorando il rio”.

Su quest’altro (Per un cavallo barbaro del signor Vitale de’ Buoi), condividiamo il parere di Giuseppe Guido Ferrero, espresso nella nota del volume su Marino e i Marinisti della Ricciardina (p. 716): “Enfatico e reboante: ma dall’insieme vien fuori il senso di quella veemente vitalità e di quella rapidità fulminea:

 “Figlio de l’aura, emulator de’ venti,

                                                    cursor veloce e volator senz’ale,

                                                    di cui vola più tardo alato strale,

                                                    volan per l’aria i fulmini più lenti;

                                                           lo tuo corso a mirar corron le genti,

                                                           ma per seguir tuo corso occhio non vale;

                                                           non corre il cielo a le tue piante eguale,

                                                           men veloce il pensier movon le menti.

                                                    Tuona il nitrito, e la ferrata zampa

                                                    sparge de le faville i lampi intorno

                                                    e pur selce non tocca, orma non stampa

                                                           Te brama il sol per lo suo carro adorno;

                                                           ma, traendo del dì l’ardente lampa,

                                                           breve faresti col tuo corso il giorno.”

 

Ma il Preti  ha due nemici in agguato contro qualche spunto di ispirazione riuscita: il metaforeggiare temerario del concettismo e una minor  chiarezza espositiva. Ecco un concettino nella terzina finale del sonetto “Un pastor descrive un luogo dove la sua ninfa stava solazzandosi”: “I’ giurerei che quella rupe, amante| è di lei fatta, e quella fonte viva| è di pianto amoroso onda stillante”.[6] Ed ecco delle “vivezze”, che aiutano a determinare la insufficiente perspicuità della seconda,  fra le sette ottave dedicate a “L’oriuolo” (orologio a pendolo): “Grave al canape torto il piombo appeso,| aspirando al suo centro, in aria pende;| contro al piombo maggior più lieve è un peso,| e con moto contrario un sale, un scende.| La machina dal pondo a lei sospeso,| quasi da Intelligenza, il moto apprende;| chè, girando la fune un polo immoto, dà un sol motore a cento moti il moto”. Questo non toglie che, nel complesso, le ottave diano un vago senso della potenza epica del meccanismo e della inesorabile tragicità   del tempo che fugge. Per questo, pur col solito eccesso di rumore e immagini, la strofa migliore ci sembra la sesta, che descrive il battere delle ore sulla campana. La riportiamo:

                                                           “Ferro percotitor s’alza pesante

                                                           sovra il cavo metallo, e d’alto piomba:

                                                           tuona ai colpi di lui squilla sonante,

                                                           ch’a le guerre del tempo è quasi tromba;

                                                           tromba, che a noi funesta e minacciante

                                                           numera quanti son passi a la tomba,

                                                           gridando a l’uomo, al numerar de l’ore,

                                                           che quanto ei vive più, tanto più muore”

 

Ciro di Pers (1599-1663): nacque e visse nelle sue terre del Friuli, salvo il soggiorno a Bologna per gli studi (ove conobbe l’Achillini ed il  Preti) ed a Malta, dal 1627 al 1629, quando, come cavaliere gerosolomitano, prese parte ad una spedizione contro i Turchi. Fu un poeta che partecipò pienamente allo spirito della riforma cattolica, ma fu anche un esponente del gusto marinista. Imitò Fulvio Testi in rime moraleggianti e politiche, senza grandi risultati; invece riesce ad esprimere con sincerità la sofferenza per la  caducità della vita (prossimità della la morte, squallore della tomba) ed un drammatico senso della vanità delle grandezze terrene, proprio nei versi che più risentono della moda di concettini arguti e di metafore forzate. Oltre al canzoniere, intitolato semplicemente Poesie, scrisse una tragedia (L’umiltà esaltata o vero Ester regina):  entrambe le opere furono edite dopo la sua morte, ma le rime ebbero una seconda edizione nel 1689.

Anch’egli canta la donna amata, ma si  insinua il sospetto che si tratti di finzioni, sia per il variare dei nomi della donna (Nicea, Lidia, Iola, Filli), sia per i sonetti dedicati a varie giovani, sorprendentemente belle nei lavori più diversi (cucito, ricamo, filatura, danza...), sia per l’insistenza con cui presenta l’invecchiamento e la morte di lei, sia per il richiamo continuo al “paradiso”, alla donna come angelo, al giudizio di Dio contro i peccati umani, presente nei cataclismi  (terremoto); sia per la coscienza  spesso affiorante della vanità di ogni cosa  terrena, proprio a cominciare   dalla bellezza femminile, dai piaceri dell’amore; sia per il fatto che egli era frate gerosolomitano, con una fede coerente, che si rivela anche nella prontezza ad esporsi al rischio della morte, nel combattimento contro gli infedeli che pirateggiavano ancora nel Mediterraneo. Il fatto è che le poesie d’amore (sonetti, per lo più) non sono il meglio della sua  produzione e contengono artifici secentisti frequenti.[7] Questo non toglie che almeno uno dei sonetti per la sua donna sia degno di nota: ma è il  quinto sui sette della collana intitolata “Lidia invecchiata vuol parere giovane”: leggiamo in nota la meditazione sopra la vanità del tutto, non dimenticando che il Pers non esita, altrove, a citare il Qoélet per chiarire il suo pessimismo di fondo.[8]

All’estremo opposto vi sono canzoni libere (se gli riesce, fa rimare gli ultimi due versi della stanza), che sono quasi  prive di concettini, ma non raggiungono la sufficienza lirica, pur facendosi leggere con  curiosità, non solo perchè il contenuto è serio e viene svolto con particolari interessanti, ma anche perchè vien messo in versi con un musicalismo  piacevole -fra discreta prevalenza di suoni soavi e non rari vocaboli sdruccioli- che rende scorrevole e suadente la lettura (almeno la prima volta!).[9]

Fra questi due estremi, vi sono i sonetti  drammatici, sia  tendenti alla epicità che alla tragedia, in cui il temperamento “da guerriero” (anzi, “da crociato”) dello scrittore riesce a dare il meglio di sè. Già il sonetto su “Lidia invecchiata” non si può dire amoroso  quanto piuttosto meditativo, ammonitore ed esortativo: è oratoria sacra, insomma, al modo del grande predicatore che minaccia e rimprovera con solennità drammatica. Ecco altri sonetti del medesimo timbro ed ispirazione. Cominciamo con  Miseria umana”:

                                   L’uom, che sì poche de la vita ha l’ore,

                                   e ne conta a fatica una gioconda,

                                   è di sospir, di pianto un’aura, un’onda:

piangendo nasce e sospirando muore.[10]

                                               Aura ch’avviva un inonesto ardore,

                                               onda che sprezza una discreta sponda;

                                               aura che scuote una caduca fronda,

                                               onda che irriga un momentaneo fiore.

                                   E benchè aspiri a sempiterno vanto,

                                   per quelle vie che strepitose corse

                                   a pena un lieve suon mormora alquanto.

                                               Mentre l’uomo formò, Prometeo forse

                                               il duro fango distemprò col pianto,

                                               e co’ sospir lo spirito gli porse.”

Rientrano in questo orizzonte di ispirazione ed in questo registro di emotività i vari sonetti sugli orologi (da polvere| da rote| da sole). Riportiamo nel testo quello sull’orologio “da rote”:                                                          Mobile ordigno di dentate rote

                                               lacera il giorno e lo divide in ore,

                                               ed ha scritto di fuor con fosche note

                                               a chi legger le sa: SEMPRE SI MORE.

                                                           Mentre il metallo concavo percuote,

                                                           voce funesta mi risuona al core;

                                                           nè del fato spiegar meglio si puote

                                                           che con voce di bronzo il rio tenore.

                                               Perch’io non speri mai riposo o pace,

                                               questo che sembra, in un, timpano e tromba,

                                               mi sfida ognor contro all’età vorace.

                                                           E con que’ colpi, onde il metal rimbomba,

                                                           affretta il corso al secolo fugace,

                                                           e, perchè s’apra, ognor picchia a la tomba.[11]

Il terremoto ispira due sonetti di  contenuto moralistico e di tonalità drammatica: ne riportiamo il primo.                                             Deh, qual possente man con forze ignote

                                               il terremoto a crollar spesso riede?

                                               Non è chiuso vapor, com’altri crede,

                                               nè sognato tridente[12] il suol percuote.

                                                           Certo la terra si risente e scuote

                                                           perchè del peccator l’aggrava il piede;

                                                           e i nostri corpi impaziente chiede

                                                           per riempir le sue spelonche vote.

                                               E’ linguaggio del Ciel che ne riprende

                                               il turbo, il tuono, il fulmine, il baleno;

                                               or parla anco la terra in note orrende,

                                                           perchè l’uom, ch’esser vuol tutto terreno,

                                                           nè del cielo il parlar straniero intende,

                                                           il parlar della terra intenda almeno.”[13]

Fin qui, il senso drammatico propende verso la tragedia. Ma vi è spazio anche per una drammaticità festosa, epicizzante. Leggiamo il sonetto “Loda l’affaticarsi”:

                                               “Varcar col nuoto il rapido de’ fiumi,

                                               l’erto de’ monti superar col corso,

                                               di feroce destrier reggere il morso,

                                               varie genti cercar, vari costumi;

                                                           errar per aspre balze ed aspri dumi,

                                                           il bavoso cinghial tracciando e l’orso;

                                                           del profondo oceàn fendere il dorso,

                                                           benchè frema orgoglioso, irato spumi;

                                               la sete al fonte trar, la fame al bosco;

                                               per le nevose balze e per l’aduste

                                               sudar col Nasamon, gelar col Mosco,[14]

                                                           di ferrea scorza aver le membra onuste,

                                                           quando è’l ciel luminoso e quando è fosco:

                                                           delizie ed agi son d’alme robuste.”

Ecco la caccia in palude, con l’archibugio: benchè l’ultima strofa meriti la citazione in tutte le antologie  per la moltiplicata contrapposizione giocosa, tuttavia non si può negare che il sonetto vibri di una sua potenza ed alacrità, di una sua  seriosa epicità:

                                               Solo e notturno uccellator tonante

                                               chiama l’usato can, la fune accende;

                                               cinto di grave cuoio il piede errante,

                                               laberinti palustri e cerca e fende.

                                                           Immoto al fin su riva ascoso attende

                                                           tra soffi d’aquilon lo stuol volante,

                                                           ch’alla valle s’invola e al mar si rende,

                                                           mentr’a l’aurora il dì bacia le piante.

                                               Vibra Giove alle fere unico un telo,

                                               ma questi a lo scoppiar d’un colpo solo

                                               mille alati cader fa al flutto, al gelo.

                                                           Che più? s’ei può, stringendo un dito solo,

                                                           trar fulmini dall’acque, augei dal cielo,

                                                           far il piombo volar, piombar il volo![15]

In realtà Ciro di Pers rivela una sua vena limitata ma sicura: egli fa spesso poesia, nonostante il barocco di immagini forzate, di contrapposizioni grottesche, di giochi di parole. Insomma, non fu un genio di  prima grandezza, ma aveva una sua genialità nell’accordare i centri emozionali coi centri della razionalità, sicchè riusciva a  concepire e manifestare stati d’animo artistici, cioè  discretamente universalizzati mediante la purificazione dai più soliti finalismi pratici. Non fu però abbastanza intelligente da essere un uomo intero e sottrarsi al “finalismo pratico” del concettismo, che lo spingeva a scrivere per farsi ammirare anzichè concentrarsi sulle emozioni del cuore, libero da ogni riguardo di moda o di pubblico. Un mezzo uomo soltanto, dunque. Ma trovare una tempra simile fra i letterati secentisti è una sorpresa ed una gioia.

Che egli sia alieno dai toni contemplativi di idillio ed elegia e sia, invece, aperto solo a quelli dramamtici della tragedia e della epopea, lo si è detto. Ora rimane da sottolineare la sicura coerenza di un musicalismo vocalico potente (a|o), rafforzato da un consonantismo adeguato, di cui subito corre all’orecchio la predominanza delle “erre” (e l’aggettivo “orrendo”!), spesso in contesto aspro per  concorso della sibilante “s”, magari con dentali od esplosive. Si riveda qualcuno dei versi citati.

 

Girolamo Fontanella (Napoli ?Reggio Emilia?, 1612 ca-1644 ca). Morto a poco più di trent’anni, pubblicò tre libri di poesie: Nove cieli| Odi| Elegie. A noi sembra un secentista  molto simile al Marino  per un complesso  di caratterizzazioni: concettini (anche se moderati), eleganza espressiva, ricchezza di immagini, scorrevolezza descrittiva[16], musicalismo ambivalente e... incerto rendimento lirico.  Gli esempi che adurremo dovrebbero rivelare meriti e limiti, anche nelle poche cose (le migliori), che riportiamo. Intanto però vogliamo chiarire due delle affinità  accennate. Dapprima il musicalismo: vocali larghe prevalenti in posizione ictàta (con notevole frequenza della media “e”); consonanti prevalenti nel concorso di liquide (invadente, la “r”; frequente, la “l”;  latitanti, le nasali) e fruscianti (“v|f”). Discretamente presenti i sostantivi sdruccioli; più che le labiali, si fanno sentire le poche dentali, gutturali e le sibilanti doppie (“zz|ss”). E’ da tale musicalismo che si comunica eleganza, scorrevolezza, armonia espressiva. La seconda vicinanza al caposcuola sta nella migliore riuscita dei versi drammatici (ma di quelli volgenti al tragico più che all’epicità). Cominciamo da questi ultimi: “Meditazione della sua morte”.

                                               Verrà la Parca e di pallor gelato

                                               l’insegna spanderà sopra il mio volto,

e dentro un letto di miserie accolto

con angoscia trarrò l’ultimo fiato.

                                                           Il mio duro avversario avrò da lato

                                                           ad accusarmi innanzi a Dio rivolto;

                                                           posto di qua di là fra dubbio stato,

                                                           sarò fra téma e fra speranza involto.

                                               Deh! tu, Vergine Donna, alta reina,

                                               da quelle empiree e luminose squadre

                                               ver’ me le luci tue pietosa inchina.

                                                           Sarà ver me sdegnato il Sommo Padre;

                                                           ma tu, che’n grembo hai la Pietà divina,

                                                           vogli al soccorso mio mostrarti madre”.

 

Meno felice, ma pur tollerabile, è questo sonetto con cui “Dona pappagallo alla sua donna”: la celebrazione dovrebbe essere epicizzante, ma il poeta non ne è cosciente  ed oscilla allora tra la esaltazione del volatile ed il vagheggiamento degli aspetti eleganti e galanti del dono, sino a terminare con una freddura secentista (che, però, non distrugge ogni forza epigrammatica):

                                               Questo de l’indo ciel pomposo augello

                                               peregrino volante, alato mostro,

                                               che discepolo apprese, accorto e bello,

                                               distinto il suon de l’idioma nostro;                   

                                                           mira com’ha leggiadro il curvo rostro,

                                                           come liscia la piuma e terso il vello;

                                                           ha bocca di smeradlo e bocca d’ostro,

                                                           che ridice talor quant’io favello.

                                               In così vaga prigionia raccolto,

                                               miralo com’è vago e come arguto,

                                               come alla tua beltà si sta rivolto.

                                                           Ma temo, oimè, ch’in tuo poter venuto,

                                                           stupido a lo splednor del tuo bel volto,

                                                           ove garrulo fu, non torni muto.”

Ed ecco un presentimento romantico (anzi, leopardiano) nell’ Infelicità, un sonetto che però non commuove gran che: vi sono ripetizioni nella prima strofa; condizioni non propriamente tristi nella seconda (è pretesa indebita che la disciplina educativa sia per tutti causa di dolore; e che tale sia necessariamente l’amore giovanile...); troppa più tensione  raziocinante (“perchè”) che non impressione  dolente nella terza, mentre la  strofa ultima  chiude col solito sforzo epigrammatico che vuol distinguere ad ogni costo, per confermare all’eccesso la condizione umana di totale infelicità. La musicalità, manco a dirlo, segue il pendolarismo fra i moduli della dolcezza elegiaca (limpida o quasi, solo nei primi due versi) e quelli più cadenzati e drammatici  della restante composizione:

                                               Piange l’uomo infelice, allor che viene

                                               fanciullino a spirar l’aura vitale;

                                               e per mostrar che varca un mar di pene

                                               celebra con le lacrime il natale.

                                                           Piange, quando in età più ferma sale,

                                                           sotto maestra man ch’a freno il tiene;

                                                           e piange punto d’amoroso strale

                                                           quando al regno d’Amor servo diviene.

                                               Piange, poichè l’età vede fornita,

                                               sotto il freddo de gli anni aspro rigore;

                                               quando ecco in un sospir chiude la vita.

                                                           Così fra pianto e duol passando l’ore,

                                                           senza aver mai felicità compita,

                                                           piangendo nasce e sospirando muore.”

L’equivoco della ispirazione incerta, che finisce per elidere in dissolvenze incrociate il lirismo e si effonde in un musicalismo ambivalente, è uscito allo scoperto in una composizione delle “Ode”, intitolata “Si detestano le delizie del secolo presente”. Le prime tre quartine (si tratta sempre di endecasillabi a rime alterne) e le ultime otto condannano lusso e sprechi di un mondo così  decaduto dalla semplice e sincera “età dell’oro”, ma il centro della composizione, in ben quindici strofe, pare addirittura una celebrazione della ricchezza e del progresso tecnico. B. Croce ne ha approfittato per  abbreviare maliziosamente  il titolo (Delizie del secolo), mentre il suo discepolo Ferrero lo ha restituito intero, pur condividendo l’accusa al Fontanella di  sentire davvero le delizie del suo tempo, condannandole solo per “preoccupazioni moralistiche” (intellettualistiche?), che darebbero origine a “riflessioni... frigide e convenzionali”. Ora,  la nostra impressione è  invece che tutte e tre le sezioni siano ugualmente (sia pur solo sufficientemente) valide, sia le strofe discretamente drammatiche e deprecatorie, sia quelle centrali  intenzionalmente ancora di condanna, ma di fatto celebrative e discretamente epicizzanti. Siccome  nessuno dei tre gruppi di strofe  è un capolavoro, ci limitiamo a riportare un paio di strofe per ognuna delle  tre sezioni (asprezza iniziale e finale, gaudiosa esaltazione nelle strofe intermedie): il lettore confronti (confermando o rifiutando) il nostro giudizio con il proprio.

Strofe 1 e 2:                                        “Giace il mondo fra lussi, e l’uomo insano

                                               rende sudditi ai sensi i propri affetti;

                                               prezza crapole e giochi; amante vano,

                                               veste pompe, usa lisci, ama belletti.

                                                           Negli agi immersa effeminata e folle

                                                           la propria gioventù marcir si vede:

                                                           regna il sonno e le piume, e l’ozio molle

                                                           su le morbide coltri a l’ombra siede”.

Strofe 4-5-6:                           “In quel primo vagir del mondo infante

                                               era stanza il tugurio a l’uomo imbelle;

                                               or da la terra emulator gigante[17]

                                               edifici sublimi alza a le stelle.

                                                           Fa sviscerar da peregrini monti

                                                           superbo ingegno i più pregiati marmi,

                                                           per farne o logge o preziosi fonti,

                                                           che del Tempo guerrier durini a l’armi.

                                               Fa ch’i suoi tetti a riguardar sì belli

                                               siano d’arte maestra ultima prova;

                                               novi Dedali chiama, e novi Apelli

                                               al suo regio lavor pròdigo trova”.

Strofe 19| 22| 23:                                 “Ahi, ch’onesto rossor più non inostra

                                                           in donnesca bellezza il bianco viso;

                                                           lascivetta in andar gli abiti mostra,

                                                           lussureggia nel petto, arde nel riso.....

                                               Oh d’umana follia prova superba!

                                               sa ch’ogni opra de l’arte al fin rovina,

                                               sa che sparsa nel Tebro arena ed erba

                                               ricopre ancor la maestà latina.

                                                           Cadde Menfi superba e Caria illustre,

                                                           cesse a l’armi del tempo Argo e Micene,

                                                           e sepolta in oblio fosco e palustre

                                                           fra le nottole sue sta cieca  Atene...”

Sincero in entrambe le impressioni e convinzioni, Fontanella si dimostra  poeta talora sufficiente, ma uomo  dal pensiero indeciso, dal lirismo  mortificato, dallo stile  oscillante. Promosso, allora, ma non certo a pieni voti!

 

Giuseppe Battista. Nato a Grottaglie (Taranto) nel 1610 e morto a Napoli (1675), scrisse versi in latino (Epigrammata) ed in italiano (Poesie meliche, Epicedi eroici). In prosa scrisse Le giornate accademiche, la Poetica (trattato sul poema eroico; postumo: 1676), oltre alle Lettere.

E’ un esempio tipico del barocco letterario sbrigliato, più facile a ritrovarsi nel mezzogiorno d’Italia. Ecco il sonetto che  pare il più riuscito: 

 “Un Caucaso di nevi ho su le chiome

                                                           e precipito gli anni in occidente;

                                                           pur l’anima che chiudo in scorza algente,

                                                           curva non cade a faticate some.

                                               Alzano a me le più faconde Rome

                                               tra le pareti mie rostro eloquente,

                                               e d’una Atene, a risvegliar la mente,

                                               scritto in picciol museo contemplo il nome.

                                                           Quando così predestinò la sorte,

                                                           per farmi di dottrine inclito erede,

                                                           apritemi, licei, le sacre porte!

                                               Chi sa pur troppo e di saper non crede,

                                               tra’l confin della vita e della morte

                                               il libro ha in mano e sulla tomba il piede”.

Eccone i pregi: il concetto è  forte, potente, orgoglioso: grande concetto di sè e sicurezza di vivere immortale per le proprie opere poetiche; la realizzazione lirica è, però, solo sufficiente: dramma epicizzante;  la espressione, nel complesso, è pure adeguata (la rima si divide fra la larga consonante “o” e le media “e”-prevalenti nettamente sulla “a”-; dentali numerosissime, esplosive e gutturali in buon numero...).

Eccone i difetti:  aliquale oscurità residua nel verbalizzare i concetti (“faticate some” sono i carichi pesanti degli anni; “le più faconde Rome” saranno oratori degni di quelli famosi di Roma; ecc.); suoni dolci negli sdruccioli molto frequenti, nelle “r” e in qualche palatale (“picciol| risvegliar| algente). Così, per queste incertezze, il risultato lirico è sufficiente, ma non oltre.

Un altro paio di cose sufficienti, perchè coerenti nella tonalità drammatica, li riportiamo in nota[18]

Molte altre composizioni falliscono o si riducono ad una sufficienza stentata perchè soffrono di sbilancio ora fra motivo ispiratore (amoroso o, comunque, dolce,  contemplativo) e sensibilità forte;  ora fra tema celebrativo-epicizzante e forma scherzosa (barocca). Ecco un caso di contrasto fra argomento mite e forme marziali. Il titolo è “L’uomo esser dee pacifico”; la  concretizzazione è in questo sonetto...notevolmente guerriero:

            Per non cader squarciato all’altrui morso

                                               ha le zampe falcate il fido alano,

                                               e se talor guerreggia il toro insano,

                                                dalle corna lunate ottien soccorso.

                                                           Unghia laceratrice aguzza l’orso,

                                                           e dente avvelenato il mostro ircano,

                                                           l’aquila ha il rostro, e l’istrice montano

                                                           selva d’acuti strali erge sul dorso.

                                               Ha lorica di squame il pesce avaro,

                                               arma dedala pecchia ago mordace,

                                               cela serpe crudel veleno amaro.

                                                           Natura sol, nell’opre sue sagace,

                                                           fa l’uomo inerme. Ed argomento è chiaro

                                                           ch’altro non vuol, se non ch’ei viva in pace”.[19]

Ed ecco un soggetto contemplativo, rovinato dallo stambureggiare del musicalismo drammatico: è il sonetto intitolato Il mandorlo (il primo albero a fiorire dopo l’inverno):

                                               Prima cura di Flora, occhio de gli orti,

                                               bella pompa del popolo frondoso,

                                               che portando sul crin fregio odoroso

                                               dell’esequie del verno annunzio apporti;

                                                           al tuo gaudio garrisce i suoi conforti

                                                           l’esercito pennuto armonioso;

                                                           e,sciogliendo da’ ghiacci il suo riposo,

                                                           correr il fiume all’oceàno esorti.

                                               Fa mostra pur di tua bellezza altera:

                                               chè, mentre nel fiorir precorri a tutti,

                                               porti la primavera a primavera.

                                                           Tu, mentre chiami il riso e scacci i lutti,

                                                           maestro sembri alla ramosa schiera

                                                           d’aprire i fior che son forier de’ frutti.

 

Giacomo Lubrano (Napoli 1619-1693). Ricopiamo dalla breve introduzione di Giuseppe Guido Ferrero nel volume ricciardiano “Il Marino e i Marinisti”, p. 1033: “Gesuita napoletano, ebbe molta fama come oratore sacro. Nato a Napoli nel 1619, morì nel 1693. Lasciò parecchi volumi di prediche e un volume di poesie latine; oltre alle rime che qui sotto si registrano..... Fu il rimatore  più delirante del secolo di cui si disse che delirava: tipico rappresentante di quel “secentismo del secentismo” di cui discorre il Croce (“Saggi , cit., p. 401: si tratta ovviamente dei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento): che si sviluppò a Napoli tra il 1660 e il 1690. Ma indubbiamente egli riesce a trovare nuove e inaudite analogie fantastiche. Trascrivo dall’edizione: “Scintille poetiche o poesie sacre e morali di Paolo Brinacio napoletano... Il Quadrio, registrando cotesta raccolta di rime, nota che Paolo Brinacio è nome anagrammatico di Iacopo Lubrano.”

 Il concettismo del Lubrano supera, dunque, quello di altri secentisti? Sì, ma non per la spettacolarità della sproporzione, quanto piuttosto per la frequenza permeante delle metafore, che finiscono per corrodere la poeticità di certe sue rime, coerenti  per il resto. Infatti nel Lubrano non vi è dissolvenza incrociata fra  le componenti di ogni opera artistica: d’istinto egli si orienta su motivi ispiratori drammatici, cui corrispondono fedeli il vocabolario e la musicalità. Citiamo, allora, tre sonetti, fra quelli che ci son sembrati significativi per la coerenza fra motivo ispiratore (come si è detto, drammatico) e musicalità adeguata (aspra, collerica). In essi l’elisione a livelllo lirico avviene o per le sproporzionate immagini e analogie; o per il  fine moralistico  che  detta il finale di ogni sua composizione; o per il figurarsi nel tardo Milleseicento della società che fa da contorno al giovin signore pariniano Ecco, del primo tipo, la “Stravaganza velenosa della tarantola”: “De l’apulo terren rettile maga,| picciola Erinni in velenosi umori,| onde apprendesti ad eternar la piaga,| viva al ferire e postuma ai dolori?|| Mordi insieme e tradisci; e pur non paga| di tesser bave e vomitar malori,| fai che di novi spasimi presaga| bolla la prima punta ai sirii ardori.|| Non è sì crudo il ciel: l’ire frementi| smorza in un colpo sol, benchè saetti;| e i fulmini ad un tuon cadono spenti.|| Oh di strega Natura empi dispetti!| pien di più strali a funestar viventi,| rinova il tosco un atomo d’insetti”[20] Ed ecco, del secondo  tipo, il sonetto sul gelato, golosità recente: “Abuso d’intemperanze nelle pozioni agghiacciate”: “Doni del ciel, gratuiti tesori| cadono giù le nevi, e in bianca mole| si rapprendon penose, onde la prole| làttin poi, sciolte, a rustici lavori.|| E pure il lusso l’offre in tazze d’ori| per estri a Bacco e fomiti alle gole,| e benchè arrabbi, ingiuriato il sole,| mira tremar l’està, freddi gli ardori.|| Ebri Epuloni, o voi che in laute cene| fate brillar voluttuoso il verno,| ne’ dì canicolari entro le vene,|| tempo verrà che nel profondo Averno| impetrar non potrete, arsi da pene,| un’istantanea stilla al foco eterno”. Ecco, infine, del terzo tipo,  anche il sonetto  su L’occhialino: “Con qual magia di cristallina lente,| picciol ordigno, iperbole de gli occhi,| fa che in punti d’arena un Perù fiocchi,| e pompeggi da grande un schizzo d’ente?|| Tanto piacevol più, quanto più mente:| minaccia in poche gocce un mar che sbocchi;| da un fil, striscia di fulmine che scocchi;| e giuri mezzo tutto un mezzo niente.|| Così se stesso adùla il fasto umano,| e per diletto amplifica gl’inganni,| stimando un mondo ogni atomo di vano.|| Oh ottica fatale a’ nostri danni!| Un istante è la vita, e’l senso insano| sogna e travede eternità ne gli anni”).[21] Per la ricchezza di concettini, si leggano i sonetti sulla zanzara e sulla caccia al pesce spada.

 

Giuseppe Artale, siciliano di Mazzarino (Caltanissetta), morì a Napoli (1628-1679). Fu uomo d’armi e combattè a Candia contro i Turchi. E fu autore di un romanzo (Cordimarte), di una tragicommedia (Guerra tra vivi e morti) e di rime (Enciclopedia poetica). E’ un tardosecentista.  Egli davvero rappresenta il culmine d’immaginazione aberrante! Riportiamo due sonetti. Il primo  è  un intarsio di  verbi, sostantivi ed aggettivi accoppiati  “a contrasto”:  dovrebbe “abbagliare” e divertire e, invece, annoia ed indispettisce. Si intitola “Bella donna sdegna molti che l’amano e ama un solo, che l’odia”: “Molti uccido, un m’uccide, e quindi io bramo,| desiata da molti, un solo amante;| fuggo e seguo, odio e prego, arsa e gelante;| e sprezzata ed amata, abborro ed amo.|| Usa a negar pietà, pietade esclamo,| riverita e schernita in un istante,| e costante in un punto ed incostante| nel medesimo tempo amo e disamo.|| Tal vinco avvinta; e la Fortuna in dono| mi diè palme e cipressi, onde dimoro| già fatta in un la fulminata e ’l tuono.|| Così, cagion de l’altrui morte, io mòro,| vivo idolatra idolatrata, e sono| diva devota ed adorata adoro.” Il secondo rischia di superare in ingegnosità “Il cacciatore d’archibugio” di Ciro di Pers, perchè  questi dedica molti versi ad una animata descrizione della caccia, prima di uscira nella barzelleta finale (“stringendo un dito solo|, trar fulmini dall’acque, augei dal cielo|, fare il piombo volar, piombare il volo”); qui, invece, tutto il sonetto è dedicato a  far accettare il grandioso calembour finale, che pretende  rovesciare gli effetti dell’acqua e del sole  in virtù di pura  magia vocabolaristica. Eccolo: può venir intitolato “Santa Maria Maddalena”. “Gradir Cristo ben dée di pianto un rio,| torrente ov’egli bee, d’alme assetato;| se su l’acque vagò spirito e Dio,| su l’acque a passeggiar torna incarnato,|| e se la pace a chi l’offese offrìo| giusto ben fu, poichè pietoso e grato| videsi a’ piè di chi piagarlo ardìo| l’aureo crin, che l’insegna è del peccato.|| L’occhio e la chioma in amorosa arsura| se’l bagna e’l terge,avvien ch’amante allumi| stupefatto il fattor di sua fattura;|| chè il crin s’è un Tago e son due Soli i lumi;| prodigio tal non contemplò natura:| bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi”.[22]

Ciò non toglie che almeno una volta è riuscito ad esprimere un suo tono drammatico nell’accompagnare il regalo alla sua donna  del teschio di un turco da lui ucciso in battaglia: la battuta concettista dell’ultima terzina non riesce a spegnere il tono un po’ troppo burbanzoso, ma anche sinceramente fiero della presentazione complessiva: “Questo, che morto ancora il ciel disfida,|orrido teschio di terribil trace,|mira, Lidia, mio sol: l’empio omicida| sprezzator d’ogni legge e pertinace.|| Questo, de’Traci e capitano e guida,|drizzò pronto di man, d’ingegno audace,| ferrata scala, e perchè arda e uccida,| portò ai muri sovente e ferro e face.|| Poggiava al fine, ed io sul collo invitto| tal percossa avventai, che ’l busto forte| senza capo restò fra’ morti ascritto.|| Or mira, e fa’ che sdegno il guardo apporte:| perchè può tua pietà d’un uom trafitto| far vita per miracolo la morte”.

 

Giovanni Canale (Cava de’ Tirreni: incerte le date di nascita e morte). Oltre le rime, scrisse un poema (L’anno festivo ovvero I fasti sacri) ed un romanzo (L’Amatunta).

Non è migliore dei soliti secentisti che rovinano le composizioni oscillando fra diversi aspetti del motivo ispiratore centrale, ne elidono la forza originaria in un miscuglio di conati lirici  differenti e di musicalismo incoerente, salvo ad aggravrae la espressione con qualche oscurità o con qualche freddura concettista. Leggiamo quello che il Croce ha intitolato “Il tamburo”: “Sorte perversa! In vil tugurio nato,| per secondar fatiche e accrescer stento,| di paludosi umori e fien cibato,| diedi lena ostinata al mio tormento.|| Dal peso de gli affanni alfin sgravato,| (chè d’essere vivuto ora mi pento),| una cassa portatile tornato,| della mia pelle accoglio al seno il vento.|| A mille e mille colpi il fiato scioglio,| in campo marziale indi venuto| a portar nuove glorie al Campidoglio.|| Se vivo tacqui in essere battuto,| morto assordo col suono, e ben mi doglio| che chi mi batte è assai di me più bruto”. Si noti come il tema è essenzialmente drammatico,  perchè il Canale lo ha pensato come protesta dell’asino per la doppia disdetta: battuto da vivo e da morto (la ispirazione è tratta da Fedro). Ma il secondo verso è oscuro; la prima terzina sembra cantare le vittorie militari cui egli contribuisce, ormai divenuto tamburo, col suo suono; nella terzina finale l’asino ha il buon tempo di pronunciare una contrapposizione forzata (da vivo, l’asino non ha taciuto affatto alle percosse, ragliando spesso per protesta) e di fare una osservazione moralistica discutibile (in una guerra giusta, il tamburino battendo sulla pelle dell’asino fatta tamburo, non è affatto più “bruto”, cioè più irrazionale dell’asino vivo). Il musicalismo è esso pure oscillante:  sulle “a” discretamente presenti in posizione ictata, prevalgono la media “e” e persino la “u”; la “o” è sempre attenuata dal contesto consonantico “gl” palatale (scioglio|Campidoglio). Se volessimo concludere con una battuta secentista, dovremmo  dire che l’unica coerenza è la incoerenza, nel motivo ispiratore e nella tecnica espressiva, mentre le tonalità liriche scompaiono, ingoiate l’una dall’altra.

 Riportando qui adesso un altro suo sonetto, abbastanza citato per dei princìpi di elegia indubbiamente presenti, ne dobbiamo segnalare il fallimento complessivo per l’assommarsi di altre intenzioni liriche conseguenti ad altre attenzioni intellettuali (diversi motivi ispiratori insinuano altri tentativi emozionali) e per immagini e contrapposizioni indiscrete, sicchè l’esito finale  è ancora insufficiente: “L’uom ch’al volto ha le rughe, al crin la neve|, incurvato da gli anni è reso un gioco;| trema nel piè, che’l passo ha lento e breve,| da un legno aitato, e non mai giunge al loco.|| L’offende lo spirar d’un’aura lieve,| e nel più estivo ardor a grado ha il foco;| il tacer, il parlar gli è noia greve:| poco intende, e il suo dir è inteso poco.|| Nel suo freddo vigor l’ira l’accende,| ogni lungo piacer l’infastidisce,| nulla gli piace e ad ogni cosa attende.|| Quando più sano appare, allor languisce;| mentre schivo a se stesso  e altrui si rende,| fra miserie la vita egli finisce.”[23]

Pier Francesco Paoli (nato a Pesaro in anno imprecisato, morì a Roma, dove era stato al servizio di casa Savelli, fra il 1637 ed il 1642. Pubblicò lui stesso le Rime e la Seconda parte delle rime (1609 e 1619), mentre postume uscirono le Rime varie, nel 1637. Questo verseggiatore è esemplarmente secentista: canta solo l’amore, ma da ogni situazione  descritta, in qualsiasi forma stilistica (sonetti, canzonette, madrigali) il tema è solo occasione a calembour, a metafore sproporzionate, a concettini ed agudézas. Perchè allora lo ricordiamo fra i meno peggiori dei seguaci del Marino? Per un motivo non trascurabile: egli ha due canzonette che in qualche mossa prevengono le due migliori del Metastasio; una, anzi ha fornito il titolo stesso al poeta (La Partenza; l’altra si intitola All’amante lontano). Non che gli siano paragonabili nella intensità lirica (anche tecnicamente sono diverse: nel Paoli ai prevalenti settenari si mescolano molti endecasillabi; ma, soprattutto, in entrambe è la donna, non l’uomo, che si lamenta, piange e implora), ma esser stato suggeritore a Pietro Trapassi non è merito da poco. Si noti che entrambe le composizioni hanno come sottotitolo “Idillio”: e sviluppano invece il tema (drammatico) della sofferenza per la lontananza della persona amata, invocando disperatamente il suo ritorno. La loro somiglianza costringe a ripetere anche le medesime parole. All’amante lontano inizia con “Torna, deh torna omai,| se tu non vuoi, mia vita,| che l’alma dal mio cuor faccia partita”; e La Partenza termina “Torna, e più Amor non veggia| ch’a mendicare io vada| alimento vitale| dal terreno e da l’aure, baciando e respirando;| ma ch’io viva immortale,| mentre raccoglierò dolci e vivaci| da le tue labra in un sospiri e baci”. Ed ecco, in questa finale, spuntare la sproporzione: la donna, in assenza dell’innamorato, tenta di consolarsi andando sui luoghi dove lui era solito vivere ed operare, respirando quell’aria a lui già consueta! Tale situazione al limite del ridicolo (La Partenza inizia: “Tu partisti, mia vita, ed io non moro”!) sostituisce la mirabile analisi psicologica in cui il Metastasio  incarna l’amara elegia o il risentimento nostalgico delle sue due canzonette. “Idillio” vorrebbe essere pure la canzonetta “Donna fugace”, che però comincia: “Fermate, o fiumi, il corso,| fermate , o venti il volo” e continua così,  fra grida che vorrebbero esprimere amore disperato, ma si rivelano finzioni  nelle immagini di gioco che ne fanno una  involontaria commedia (“pronti avrete quest’occhi e queste labra,| che ben possono a gara| co’ larghi pianti e co’ sospiri ardenti| ministrar acque ai fiumi e fiati ai venti”).  Sono queste la continuazione  delle contrapposizioni arbitrarie, suggerite da metafore fatue, di cui diamo qui qualche saggio. Il breve madrigale “Capelli rossi” si esalta nella meraviglia: “Al color de la chioma| sembri cometa ardente,| ed ai lampi de gli occhi un sol lucente.| Spieghi crine sanguigno,| spargi lume benigno:| oh forme altére e sole!| sotto crin di cometa occhi di sole.” Quest’altro madrigaletto, che s’intitola “Bellissima signora che, venendo di villa, era tutta polverosa”, termina col prevedibile epigramma: “Null’altr’opra d’amor questa pareggia:| foco che cener copre arde e lampeggia”. Nel sonetto “Lettera a bella donna che sta in villa”egli invita la donna a  riconoscere, nelle bellezze per sè distensive e consolanti della natura, il segno delle sofferenze del poeta che non l’ha più vicina: e l’idillio si inasprisce nel dramma, mentre il dramma si dissolve nel concettismo. Dice dunque il Paoli alla donna: (Vedrai) “ne l’aure alate il mio pensier volante,| ne’ fior caduchi il mio sperare incerto,| ne le pallide foglie il mio sembiante;|| ne le glebe infeconde il sen deserto,| ne le canne agitate il cor tremante,| ne le querce divise il petto aperto”...[24]

 

 

Ludovico Lepòreo (istriano, di Cormons, 1582-1655 ca) lo citiamo qui, riportandone qualche verso, strampalato se mai altri, dalla Storia dell’età barocca del Croce (p. 27, n. 3), perchè  vogliamo,con tali eccessi di fine secolo, segnare il passaggio dalla poesia alla prosa barocca. Difatti, accanto ai “Leporeambi alfabetici” (1639) ed ai “Leporeambi nominali alle Dame et Accademie d’Italia” (1641), scrisse anche la “Prosa rimata curiosa ritrovata da Ludovico Lepòreo Amico corporeo dei prosatori primari verseggiatori volgari scrittori singolari” (1652). Dai Leporeambi Croce riporta questa quartina...esemplare: “Cinthia, se mài, con gli occhi gài sincèri| tuoi lusinghièri, e dolci mi rimìri,| gioie m’inspìri, e gli egri miei pensièri| ergi ai sentièri degli Empirei giri...”.[25]

LA PROSA BAROCCA

 

Si è detto che alle spalle dello stile concettista-marinista- barocco-secentista sta un atteggiamento di solennità sproporzionata ed indiscreta. Esso può ben esser nato da un senso della importanza di certi documenti ufficiali e, quindi, da un sincero (anche se deformato) sentimento del dovere a sostenere l’autorità e gli atti da essa affidati alla scrittura. Altre volte scaturisce, invece,  da una presunzione ingenua o maliziosa della genialità e valore della propria espressione letteraria. In entrambi i contesti, tale stile  finisce per concretizzarsi nella tecnica dell’enfasi, di cui la manifestazione principe (ma non unica) è il concettino od agudèza. Se tale ipotesi è vera (l’esempio viene dall’alto), le “gride” dei governatori di Milano e dei vicerè di Napoli possono considerarsi il modello, che dettano il “la”a tutta l’ossessione di grandezza e di sostenutezza che pervade la prosa barocca in Italia. A cominciare dal romanzo.

 

                    IL ROMANZO

                            Il  dato, infatti, più importante all’interno della prosa barocca è  l’imporsi   del romanzo . Sorto in epoca ellenistica (Longo Sofista: Gli amori pastorali di Dafni e Cloe) e romana (Satyricon, di Petronio), ha in Rabelais (Gargantua: 1532), Montemayor (Diana:1559) e Barklay (Argenis) i più diretti precursori della rinascita ed espansione di questa “epopea moderna” (Hegel).

 Esso rimane più o meno saldamente legato alla moda secentista, pur nei limiti che il Manzoni riconosce nel mitico manoscritto  che finge di trascrivere nella Introduzione ai Promessi: noi completeremo qui la citazione già iniziata a p. 28: “Ben è vero... che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar meraviglia, o di far pensare,  a tutti que’ passi insomma che richiedono  bensì un po’ di rettorica, ma di rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme ed affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo...”. [26]

Ovviamente, non è solo il romanzo ( o le gride degli spagnoli governanti) il rifugio della prosa secentista: la prosa del gesuita Daniello Bartoli, storiografo  della Compagnia e, come tale, attento ai fatti ed alle date ed alieno dai concettini, cade però   nell’enfasi nel corso di descrizioni di paesaggi o costumi che hanno del meraviglioso.

Tornando al romanzo, che qui ci interessa, sappiamo già che esso è conseguenza anche del benessere economico, che provoca anche una maggior diffusione della cultura,  la quale acquisisce  nuove fasce sociali, meno esigenti, più sentimentali, eventualmente  aliena dalla fatica dei versi (piccola borghesia  e mondo femminile?). Una simile clientela trova di suo gusto le nuove tecniche espressive e   ed ama le tonalità  patetiche? Se il verso, anche quello ariostesco e mariniano,  è almeno in parte costretto  ad una certa sobrietà e  stringatezza dal rigore metrico di rime e  accenti, la prosa si estenderà prolissa in descrizioni dilavate su amori infelici ed eroi perseguitati; se la cultura imposta dai modelli poetici supremi (da Omero al Tasso) obbliga ad una sanità e maturità di emozioni, la novità del “genere romanzo”, non soggetta a regole aristoteliche o paradigmatiche, permetterà lo scadere nel patetismo o nell’enfasi, nel lagrimevole o nell’eccitante,  in sentimentalismi cioè  infantili, così cari e diffusi tra il popolino. Come per il teatro, occorrerà preparare presto testi graditi al “rispettabile pubblico”, non importa se “volgo profano”.  Già allora, insomma, scrittori ed editori erano spesso dei capocomici cui interessavano anzitutto lettori molti e solventi, sicchè si facevano disposti a sacrificare il valore lirico all’utile economico: la quantità delle vendite prendeva il sopravvento sulla qualità del prodotto. Così andavano le cose....  già nel secolo XVII.

Infine, il nuovo genere letterario non è invenzione autoctona  italiana: ci arriva dalla Francia, sia pure su precorrimenti tosco-italici, quali le novellistica ed opere complesse come il romanzo pastorale Arcadia, del Sannazaro, scritto nell’ultimo ventennio del secolo XV. Avviandosi al declino l’influsso spagnolo, la nostra cultura,anche letteraria, inizia quella dipendenza dalla vicina Francia, che durerà sino alla fine della seconda guerra mondiale, quando diverrà una scialuppa della nave ammiraglia  statunitense. Pure, l’innovazione francese, destinata a soppiantare il poema epico, risente della tradizione della materia novellistica e cortese ed in particolare della recente produzione di Miguel de Cervantes (Galatea, 1585; e  “Dodici novelle esemplari”, 1613: il don Quijote resta inimitabile) e dell’Aminta (Tasso:1573; edito 1581) come del Pastor fido (Guarini: 1589). Ma il primato di un vero e proprio lavoro di fantasia e di lunga lena, scritto in prosa,appartiene ad Honoré d’Urfé (Marsiglia, 1567-1625). Questi  scrisse il poema pastorale Sirena, una tragicommedia pastorale (Sylvanire), un poema (inedito) in onore dei Savoia (Savoysiade) e le Epistole morali, mostrando grande interesse per gli scrittori di novelle e di opere pastorali sia italiani che spagnoli: dal Sannazaro al Tasso, da Jorge Montemayor (che con la sua Diana, gli fornì il modello prossimo per la Sirena) al Cervantes. Nel 1607 pubblica il primo volume del suo romanzo-fiume Astrée (Astrea), scritto in prosa ed in versi e diviso in sei parti, di cui l’ultima fu edita postuma, completata dal suo segretario, nel 1627. L’opera completa fu edita nel 1632-3. Vi si tratta di avventure che nascono da amori contrastati o da malintesi, da circostanze impensate, da guerre, ecc. con un felice scioglimento finale. La trama sentimentale-amorosa e quella avventurosa-cavalleresca si intrecciano a dare interesse all’opera. E’ la prima...telenovela o sit.com! In Francia nascono poi i “romanzi preziosi”, usciti cioè dal salotto di  Catherine de Vivonne, marchesa di Rambouillet, dove si coltivava una forma particolare di linguaggio, vicino al nostro barocco, detto “preziosismo” che, da una parte, darà origine al “Grande dizionario delle preziose” (1660) e, dall’altra, ispirerà la satira spietata di Molière nella commedia Les précieuses ridicules” (1669). Qualunque sia il valore (più negativo che positivo) del fenomeno letterario, esso diede incremento alla moda del romanzo. Gautier de La Calprenède scrive Cassandra (1642-60), Cleopatra (1646-57) e Faramond (1661-70); e Mademoiselle Madeleine de Scudéry (1607-1701), che diventa il punto di riferimento del  salotto, dopo che Madame de Rambouillet se ne ritira a metà secolo,compone (in collaborazione col fratello Georges) Ibrahim (1641), Ciro il grande (1649-53) e La Clelia (1654-60). Dopo la seconda metà del secolo, Maria Maddalena de La Fayette (1634-1692) pubblica La principessa di Clève, che è il capolavoro del genere e culmina la serie dei suoi “romanzi psicologici”, che comprendono anche La principessa di Montpensier (novella: 1662), Zayde (romanzo, ambientato in Spagna al tempo dei mori: 1670) e La contessa di Tenda (novella postuma: 1720). Il vescovo romanziere Pierre Camus influenzò, a quanto pare, il nostro Bernardo Morando, coi suoi romanzi edificanti. A loro volta, parecchi nostri romanzieri trovarono larga eco in Europa: Soprattutto ebbe fortuna Giovan Francesco Biondi, ma anche Giovanni Ambrogio Marini (il maggiore romanziere italiano del secolo)  ed il Loredano (Giovanni Francesco) con la sua Dianea, tradotta in francese.[27]

Dei romanzi italiani del Milleseicento, tutti intrisi di retorica bolsa, con lungaggini descrittive insopportabili, nessuno è degno di nota, anche se si deve distinguere il Calloandro fedele di G. Ambrogio Marini come il meno peggiore; ed anche se val la pena di ricordare la Historia del cavalier perduto di Pace Pasini, perchè una delle sue trame pare proprio anticipare alcuni particolari sia dell’ordito dei Promessi Sposi, sia del linguaggio  che il Manzoni ha ricalcato per confezionare la sua mirabile Introduzione al romanzo. “Il falso manoscritto” non è poi del tutto inventato. Scontato, comunque, il fallimento estetico della produzione, bisognerà aggiungere che nessuna di tali opere attinge almeno l’acutezza di penetrazione psicologica che madame de La Fayette ha rivelato nella Principessa di Clève.[28]

Si è tentato distinguere diversi filoni di motivi ispiratori nei romanzi del secolo (amoroso, cavalleresco, religioso-morale, politico, storico...), ma la  sistemazione si rivela  solo un comodo accorgimento per la memoria: praticamente nessun romanzo si ispira ad un argomento monolitico, ma solo a tematiche prevalenti, che non escludono la presenza delle altre.

Limitiamoci allora ad un elenco degli autori, degni in qualche modo di menzione: rimandiamo alla Garzantiana (Storia della Lett. it.,1967|76) per un elenco e notizie più completi. Il criterio di catalogazione è complicato: primati cronologici, estetici, culturali si intrecciano e non la facilitano.

Forse il primo vero romanzo italiano appartiene a Giovan Francesco Biondi, la cui Eromena è del 1624. Seguirebbero quelli di Francesco Pona (La Lucerna: 1625; Messalina: 1627). Vien poi Gian Francesco Loredano, la cui Dianea sarebbe stata edita nel 1627, sebbene di tale prima edizione non rimangano documenti, che esistono invece per quella del 1635. Antecedenti al 1640 sono pure la Historia del cavalier Perduto (“Perduto” è nome proprio, sia pure molto simbolico: 1634) di Pace Pasini; Ormondo, del Pona (1635); La Stratonica, di Luca Assarino (1635); Il Cretideo, di Giovan Battista Manzini (1637); Il Dernando, di Giovanni Pasta (1638); La fuggitiva, di Girolamo Brusoni (1639); La regina sfortunata, di Carlo Bortolomeo Torre (1639); Ercole novello, di Luca Assarino (1639).[29] L’anno 1640 è quello della esplosione del fenomeno “romanzo”: escono in quell’anno Il principe Altomiro (Poliziano Mancini), Armelinda (Luca Assarino), I lussi del genio esecrabile di Clearco (Giovanni Battista Moroni); e la prima edizione di quello che, attraverso mutamenti di titolatura e rimaneggiamenti di trama e di forma, sarà il meno peggiore fra essi: Calloandro sconosciuto diventa Endimiro creduto Uranio, poi Endimiro smascherato (1641) ed infine Calloandro fedele (1652-3), di Giovanni Ambrogio Marini. Dopo il 1640 la produzione assume un crescendo che solo alla fine del secolo, con il programma di buon senso e discrezione espressiva (Arcadia, primo Illuminismo) raffrenerà.

E’ interessante notare le città ove l’editoria è più attiva: Venezia detiene il primato; Genova, Milano, Bologna seguono con numerose pubblicazioni. Roma è pure ben rappresentata; invece Firenze e Napoli sono quasi assenti, sebbene per motivi ben diversi (Firenze non partecipa al malcostume secentista; Napoli è troppo povera).

I motivi ispiratori più frequenti son spesso mescolati fra loro, trovandosi il romanzo al confluente tra la novella, il poema cavalleresco e la favola pastorale, da Boccaccio al Cortegiano, dall’Amadigi al Tasso, dal Sannazaro al  Cervantes: l’amore, le avventure (con la peripezia più o meno dettata dal caso o dal fato), lo sfondo storico con la martellante problematica politica (la ragion di stato) rendeva allettante la tentazione ad “aggirarsi tra i Labirinti de’ Politici maneggi et il rimbombo de’ bellici oricalchi”. Il Marini è uno dei pochi ad essere immune dalla tematica politica.

 

GIOVANNI AMBROGIO (Ambrosio) MARINI (Genova ca. 1594-Venezia, ca.1662) nel suo Calloandro fedele (1640-1653: Calloandro in greco significa “uomo bello”)  intreccia  i motivi cavalleresco e novellistico, col risultato di una trama   labirintiaca. Calloandro e Leonilda, pur non essendo nè fratelli gemelli nè lontani parenti, nascono “simillimi” e nello stesso giorno; a parte gli equivoci e scambi, le cose si complicano per il fatto che il protagonista si maschera sotto tre nomi diversi (Cavaliere di Cupido, Cavaliere della Luna, Selim), per la ostilità delle rispettive famiglie, per vicende arbitrario-casuali, per malintesi. Ma finiranno   per sposarsi felicemente (vedi sintesi, in nota). Accanto all’amore intralciato ma fedele, alle guerre incombenti ed incessanti, al caso con le sue sorprese ed alla società che interferisce, sta però una moralità (una tentazione in cui Calloandro cedeva paradossalmente nelle edizioni prime, viene fatta superare in quella definitiva) garantita... dalla identità sacerdotale dell’autore. Sì, il Marini era prete e forse per questo le due  parti della prima edizione erano finte pubblicate in Germania, con anagramma dell’autore. Ed egli scrisse anche opere attinenti la sua professione: in latino “Cras et numquam moriemur” (Moriremo domani e mai); in italiano: “Il caso non a caso; La schiavitudine mondana ridotta in libertà; La settimana santa ben aventurosamente sfuggita). Ridusse a forma teatrale il Calloandro e scrisse altri due romanzi: Le nuove gare dei disperati; Gli scherzi di fortuna a pro dell’innocenza). Ancora nel secolo XVIII il  Calloandro  fu riedito, dopo il successo senza pari nel secolo XVII.[30] Ma nessuno lo ritiene più sopportabile: “romanzo spropositato, tagliato alla brava” lo definisce Carmine Jannaco (p. 527). Adduciamo un solo particolare: la duchessa Crisanda è innamoratissima di Calloandro; lui si dichiara invece cavaliere fedele alla castità, disinteressato all’amore. Dopo di che: “Fremeva la duchessa a tai discorsi dentro se stessa; e così cianciando erano arrivati in un bellissimo sito...” (parte I, libro II: Ricciardiana, Trattatisti e narratori del Seicento, 1960, p.773). Abbiamo messo in corsivo due verbi che indicano, oltre tutto, la mancanza di coerenza psicologica nei personaggi: è l’autore che “ciancia”, senza partecipare emotivamente alle vicende dei suoi personaggi.

 

Gian Francesco Loredano (Venezia, 1606-1661): di famiglia patrizia, fu senatore, consigliere del doge, inquisitore di stato e  morì provveditore della Signoria a Peschiera. Fondò nel 1630 la Accademia degli Incogniti (1630) che albergava eresia e libertinaggio.[31] Amico del Marino, fu esponente dello spirito di bizarria barocca e di retorica altisonante, di spregiudicatezza morale e di  anticlericalismo  ed antitridentinismo. Scrisse versi in italiano ed in veneziano, un’opera allegorico-satirica (Bizzarrie accademiche), opere comiche  come gli Scherzi geniali, Il Cimiterio, Epitaffi giocosi,  Novelle e  dubbi amorosi, Le freddure estive, Ragguagli di Parnaso, L’Iliade giocosa (versione comica dei primi sei libri del poema omerico). Scrisse (come poteva, data la leggerezza del carattere) di storia ecclesiastica (Vita di papa Alessandro III Pontefice Massimo) e civile  (Morte e ribellione del Valenstein, Historia de’ re Lusignani). Lasciò numerose Lettere, interessanti per conoscere la temperie culturale e morale dell’epoca, non solo in Italia. L’opera per cui è più noto resta il romanzo La Dianea (1625|37). Romanzo breve che, ai comuni ingredienti di amore (erotismo), vicende militari,  elementi favolosi, aggiunge questioni politiche  (ragion di stato),  l’esaltazione di Venezia, l’ammirazione per il Wallenstein e la critica contro la curia romana. Si è potuto sospettare che il romanzo  fosse una allegoria della guerra dei Trenta anni. Ebbe in pochi anni sette edizioni a Venezia; fu tradotto in latino ed in francese. Circa la trama, Jannaco se la cava così: “nello svolgimento caotico, nell’atmosfera di mistero, nelle strane e complicate liaisons dei personaggi viene esaltato il peculiare carattere del romanzo, l’incertezza; senonchè –anche qui, come sempre- abbiamo vicende più spesso  raccontate dai personaggi che vedute in atto” (o. c. p. 526)

 

Pace Pasini, vicentino (1583-1644), fu accademico Incognito e cadde in sospetto di materialismo,  di negazione della immortalità dell’anima (scuola di Cesare Cremonini, a Padova?): dovette emigrare a Zara. Fu anche in corrispondenza col Keplero. Scrisse un Trattato de’ passaggi dall’una metafora all’altra (vi  si rivela un sostenitore del barocco moderato), che unì alla edizione delle sue Rime: 1617 e 1642). Ma è famoso per il romanzo Historia del cavalier Perduto (1634).  C. Jannaco parla del romanzo come di uno di quelli più leggibili, meno noiosi del secolo. Si tratta di avventure complicate, che si ispirano all’amore (anche erotico) ed alle avventure  cavalleresche.  Tra le molte vicende secondarie,  vi è quella del conte di Custodia, Druso (figlio di Mirone) che ama Luciana e, per liberarla dal capobanditi Strappacuori, se ne fa uno dei bravacci. Egli partecipa così alla cattura del cavalier Perduto, che ne distingue però il comportamento da gentiluomo, sicchè combina con lui la liberazione di Luciana e la fuga dal castello. Strappacuori non esita a fare strage dei suoi collaboratori, più o meno colpevoli della fuga dei prigionieri.[32]

Giovan Francesco Biondi: nato sull’isola di Lesina, in Dalmazia, fu a servizio di Venezia come diplomatico in Francia ed Inghilterra (1572-1644). Dalmata come S. Gerolamo, ne partecipò il temperamento forte, attivo, ma instabile.  Membro dell’Accademia degli Incogniti, amicissimo del Loredano, condivise la fronda ideologica e pratica degli adepti, anzi la esasperò. Al seguito del vescovo di Spalato, Marc’Antonio de Dominis, fuggì in Inghilterra, dove pare abiurasse la fede cattolica. Morì ad Aubonne, nel canton Vaud in Svizzera. Scrisse L’istoria delle guerre civili d’Inghilterra tra le due case di Lancastro e Iorc (1637-47), in cui si trovano spunti di machiavellismo. Vi si stabilisce, infatti, una netta distinzione tra la virtù   privata e politica: quella è morale; questa è “utilitaria” , poichè la vita pubblica deve seguire altre regole di condotta. La mansuetudine, ad esempio, è virtù nella vita privata, ma comportamento dannoso nel governo degli stati (“non giudicandosene le virtù e i vizi per termini morali e teologici ma per gl’effetti buoni, o mali che gliene possono addivenire”). Rivela anche acutezza psicologica nel giudicare il carattere di personaggi e popoli; e pone attenzione alla parte che nelle guerre ha la situazione economica.

La sua fama si dilatò a livello europeo attraverso la trilogia romanzesca: L’Eromena (1624), La donzella desterrada (1632) e Il Coralbo (1632). Le tre vicende coinvolgono Mauritania, Sardegna, Corsica, attraverso rivalità in amore e guerre susseguenti. Eccone il sunto accennato dal Varese: “Polimero, principe di Mauritania, dopo una grave contesa col fratello primogenito Metanone, prepotente e ingiusto verso il cadetto, lascia la patria e, attratto dai racconti di alcuni cavalieri, si interessa in un primo momento e poi partecipa alla guerra scoppiata fra il re di Sardegna Aruto ed Epicamedo, re della Corsica. Perosfilo, figlio del re di Sardegna, è ucciso dall’ammiraglio di Sassari, della cui moglie quello era stato l’amante. Da ciò la guerra tra la Corsica, nella quale l’ammiraglio si era rifugiato, e la Sardegna. Intorno a questo nucleo si annoda la vicenda che è insieme amorosa e politica, di Eromilla, già fidanzata del morto Perosfilo e moglie poi di Polimero, nonchè quella degli amori di Metanone  e di Eromena” ( Garzantiana, p. 535). I romanzi seguenti si ricollegano al primo mediante il trafugamento del piccolo principe Coralbo, nascosto in una fantastica isola deserta, in attesa del suo destino.

 

Maiolino Bisaccioni: nato a Ferrara nel 1582, conte, fu alle corti degli Estensi, di Venezia, dei Savoia, del papa. Si dedicò alla vita diplomatica e militare, che lo condussero in Francia, Austria e Russia. Tradusse dal francese  “Cleopatra”, di Gautier de Costes, signore de La Caprenède, autore di romanzi pseudostorici (Cassandra, Cleopatra, Faramond); nonchè “Artamane” e “La Clelia”,di Madeleine de Scudéry.  Scrisse inoltre opere di storia (sulla guerra dei Trenta anni, fino a Gustavo Adolfo: Commentario delle guerre successe in Alemagna: parte I: 1633; parte II: 1637; Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi: 1654; Memorie istoriche: 1654). Morì a Venezia nel 1663. Storia e  fantasia si mescolano nel suo romanzo Il Demetrio moscovita, istoria tragica (1643), dove tratta di avvenimenti quasi contemporanei, ma rimaneggiandoli liberamente. E vi mescola anche una tesi politica: non basta la virtù per governare i popoli; occorre una dote ulteriore, la  prudenza, cioè una particolare saggezza od astuzia (tacitismo, mantenuto entro i limiti del buon senso): difatti, Demetrio, pur essendo principe giusto, che si ribella al tiranno Boride, cade vittima della sua imprudente bontà.

 

Bernardo Morando (Sestri Ponente, 1589- Piacenza, 1656), fu poeta (teatrale e non) alla corte del ducato di Parma e Piacenza e scrisse Amor messaggero e Gareggiamento d’amore e d’Imeneo, drammi per musica (Il ratto di Elena), soggetti per balletti (Ercole nell’Erimanto| Le risse pacificate da Cupido) e le già viste rime di stampo marinista (Fantasie poetiche| Poesie sacre).  Nel secolo XIX furono edite due brevi opere: Dialogo della nobiltà (era stato fatto conte nel 1651) e La peste del 1630  in Piacenza. Con lui il romanzo si pone al servizio di una finalità religiosa ed apologetica. Rosalinda (1650) vede entrare in convento sia la protagonista, sia il fidanzato Lealdo sia  Edmondo, nipote del conte di Essex, pur lui innamorato di Rosalinda: la decisione avviene dopo vicende avventurose, da cui si sentono liberati per la protezione della Provvidenza divina. I due fidanzati, figli di due ricche famiglie genovesi che vivono a Londra, fuggono dall’Inghilterra, persecutrice dei cattolici. Dopo vicende avventurose, in cui Rosalinda salva  da tragiche situazioni Edmondo, i due fidanzati giungono al porto di Genova, dove però la nave viene bombardata come musulmana, perchè inalbera ancora la bandiera islamica, furbescamente issata in mare per sfuggire alla caccia della mezzaluna. Lealdo viene anzi ferito. E’ la grande peripezia della loro vita, che li deciderà alla vita religiosa; Edmondo si farà cattolico e frate, dopo un naufragio sulle coste genovesi. Si noti il significato simbolico altamente morale dei nomi (Rosa la pura, Aldo il leale).

Ma  se il romanzo “edificante” del Morando attira attenzione e rispetto, è perchè ha altre doti che, se non sono decisive per la sua intronizzazione nel regno apollineo dell’arte, pure gli assegnano una posizione stilistica singolare. Gli è che la sua esperienza ed abilità di  poeta, sia lirico che teatrale, colora il romanzo, così che esso risulta  in alcune parti quasi un “libretto” per  recitazione; ed in ogni caso si alterna fra prosa prevalente e verseggiatura insistente: è vicino all’Arcadia del Sannazaro ed all’Astrea del d’Urfè. E come la poesia si intreccia alla prosa senza disturbare eccessivamente, così anche la dichiarazione di intenti moralistici è netta, ma intelligente. Ad esempio l’autore ha tanta cultura da ricuperare il detto di Rossane (figlia di un satrapo persiano, che non vuol essere violata da Alessandro Magno, sicchè questi dovrà sposarla) “malo mori quam foedari” (preferisco morire piuttosto che  venir macchiata: la frase è poi divenuta il motto dell’ermellino); e  fa cantare a Rosalinda questo detto,  quando essa è in prigione. Claudio Varese difende poi anche l’amore dell’autore per la sua Genova, nonostante che esso gli detti un capitolo a se stante del romanzo: “Le digressioni, sia di carattere e di polemica religiosa o addirittura teologica, sia di riferimenti alla realtà contemporanea e soprattutto alle glorie di Genova, non disdicono in quanto sono in parte dominate ed amalgamate dallo stesso tono di riflessione e di dimostrazione che accompagna il racconto” (Garzantiana, p. 577). Sì, a parte l’inclinazione a metaforeggiare e concettizzare già incontrate nell’esame della sua opera in versi, il romanzo del Morando si esclude dall’arte proprio perchè è opera prevalentemente dimostrativo-educativa, quando non addirittura polemica (contro i protestanti): il Manzoni avrà anche un simile intento, ma lo sottometterà decisamente  alla volontà di esporre una vicenda  intellettualmente coerente ed emotivamente partecipata, sicchè è proprio il primato del suo plus-valore estetico  che garantisce l’efficacia della moralità, contenuta nella drammatica vicenda dei  “promessi”,  elevata ad epopea della Provvidenza e degli umili.

 

Poliziano Mancini, gentiluomo di Padova, pur essendo di famiglia nobile, ci ha lasciato ben poche  notizie della sua vita: le date sono quelle delle due edizioni del suo romanzo Il prencipe Altomiro di Lusitania (1640 e 1650). Mescola vicende favolose (lotte di cavalieri e draghi) con accenni a vicende e personaggi contemporanei all’opera, a discussioni politico-morali, come le guerre d’Olanda, le imprese dei missionari cattolici in Cina, la questione dell’uso della forza nella propagazione della fede, le pretese libertà gallicane, il duello... E’ un libro impegnato nel senso della Riforma cattolica. Altomiro sarebbe il re di una Cina già fatta cattolica dai missionari (tentativo di Matteo Ricci a cavallo fra i secoli XVI e XVII), ma la finzione si intreccia col racconto di vere guerre e conquiste del tempo.  La sorgente più evidente di personaggi e vicende surreali è la Gerusalemme  liberata:  modellata su Clorinda, sta Alidea, principessa cattolica, che converte e battezza il principe pagano Biliguanto, innamoratosi di lei durante una tragica battaglia navale in cui Alidea gli uccide il padre. I due fidanzati si trovano poi condotti al patibolo per intrighi di nemici ma, come Olindo e Sofronia, ne verranno liberati. E vi è anche una specie di Armida,  in Magabella che tenta sottrarre forze al campo cattolico con la menzogna  di una presunta persecuzione. Il meraviglioso nasce anche dalla descrizione di paesaggi, costumi e animali esotici e il tutto fa da sfondo degno alla nobiltà, eroismi, valori morali di una civiltà cavalleresca. Occorre riconoscere infatti che il Mancini difende una cultura in cui la nobiltà dei natali ha una importanza decisiva: solo essa garantisce lo studio e la saggezza, sicchè persino la teologia e le posizioni gerarchiche della Chiesa vanno riservate ad essi, come a depositari dell’ordine religioso oltre che civile. I disordini succeduti al libero esame della Bibbia, messa in mano a laici incolti (Anabattisti; dissensi fondamentali fra Lutero, Zwingli e Calvinismo) erano pel Mancini la prova che solo una  perseveranza nello status quo sociale poteva salvare gli stati e le anime. Discussioni di questo genere sono frequenti nel romanzo, che esalta Luigi XIV per la presa della Roccella agli Ugonotti e difende l’opera missionaria in Oriente, dalla Cina alle Filippine e Giappone, sostenendo la libertà delle conversioni e la estraneità sostanziale delle armi nell’accesso dei nuovi popoli al cristianesimo. Spirito reazionario? Fino ad un certo punto: lo scrittore non esita a combattere la moda del duello, che era bensì fatto tornato di moda, ma antico come la barbarie germanica e residuo autentico del Medioevo; e delimita la superstizione astrologica,  lascito della cultura romana. Nel complesso, al dire del Varese, la apologia del cattolicesimo portata avanti dal romanzo Altomiro è fra le più pensate ed efficaci della letteratura controriformistica, così come la parte del concettismo è molto moderata nello stile: vi è piuttosto una esuberanza di particolari nelle descrizioni, quale ritroveremo in Daniello Bartoli. Tante qualità positive, che però non salvano l’opera dal punto di vista estetico. Valgono, infatti, anche qui le osservazioni fatte per il Morando: la difesa della relgione e della morale assorbe l’attenzione del Mancini, che non ha poi “tempo ed energie” per sentire ed esprimere emozioni e commozione attraverso quello che racconta.[33]         

 

Giovanni Battista e Luigi Manzini (fratelli, di Bologna: il secondo,   benedettino) si trovano sulla stessa scia di apologetica cattolica. Più discretamente il primo (con il Cretideo, 1637); con tutto il candore della sua professione religiosa, il secondo, che si ispira direttamente alla Bibbia per i suoi romanzi (Il dragone di Macedonia estinto è la storia di Ester in Assiria; Le turbolenze d’Israele seguite sotto il governo di due re Seleuco il Filopatore ed Antioco il Nobile; Le battaglie d’Israele, La vita di Tobia, Flegra in Betuglia, cioè la storia di Giuditta).

Giovanni Battista Manzini nacque nel 1599 e morì nella sua città nel 1664, ma dopo aver molto viaggiato. Fu simpatico a molti principi, a cominciare dai papi, da Urbano VIII ad Alessandro VII, sino al re di Francia, ai  regnanti di Savoia, di Toscana, di Parma e di Modena. In gioventù polemizzò contro Matteo Pellegrini (bolognese pure lui) che aveva tentato di tracciare un codice di condotta per “Il Savio in corte” (1624): egli vi oppone Il servire negato al savio, parte della composizione più ampia I furori della gioventù. Esercizii rethorici di Gio. Battista Manzini (1629). Due anni dopo pubblicava una tragedia regolare (la Fleride gelosa), mentre solo nel 1643 pubblica Amori innocenti di Dafne e della Cloe. La commedia L’avarizia scornata è  di un anno solo precedente la morte. A metà del cammin di sua vita, egli pubblicò il romanzo Cretideo (1637). Egli, convinto difensore del romanzo come genere letterario superiore ad ogni altro, lo ritiene valido anche per  scrivere vite di santi poco conosciuti, di cui fantastica le vicende complementari, asserendo che le biografie dei santi sono le più feconde di quel meraviglioso che rende grandi i romanzi! His fretus, cioè su questi bei fondamenti, scrive la Vita di San Eustachio martire (1631). L’azione del Cretideo parte dalla crudeltà del re di Creta che minaccia uccidere la moglie se gli partorirà ancora  bambine: la sostituzione della nuova  figlia con un bimbo non suo, darà origine a vicende strane e complicate, che per di più sono facilmente occasione a discussioni morali, soprattutto sulla ragion di stato. Ma l’azione resta chiusa nell’isola e manca quel riferimento a vicende contempooranee che sono invece in Mancini. Anche il viraggio cristiano dato alla religione del luogo non convince (Giove adorato quasi fosse il crocefisso!).

Luigi Manzini (Bologna 1604- 1657) fu consulente a Roma del cardinale Maurizio di Savoia e morì per una archibugiata spagnola, mentre navigava sul Po. Scrisse tragedie (L’Aristobulo| L’Ottone), Rime, i romanzi già segnalati, nonchè il trattato Il principe ecclesiastico. La trama dei romanzi è dettata dal testo biblico e le interpolazioni fantastiche hanno poco spazio. La dizione è barocca e contribuisce a far perdere interesse. Citiamo con il Varese, da p. 589 della Garzantiana: “Il reo superbo (Aman) avvilì in un momento. Non ebbe più cuore, nè per resistere, nè per difendersi. Eclissato il sole della grazia del re, per l’interposizione della regina che n’era la luna, egli smarrì il sentiero dell’alterigia e quello della fortuna. Il Dragone divenne tanto vile, chè ne meno seppe fuggire.”

 

Luca Assarino ( Siviglia, nato da padre genovese: 1607-1672). Fu al servizio della corte sabauda (e fatto cavaliere dei ss. Maurizio e Lazzaro) e fu scrittore di storia contemporanea (Rivoluzioni di Catalogna; Delle guerre e successi d’Italia... dall’anno 1613 fino al 1630) e di opere edificanti (Il tormento vilipeso, ossia il martirio dei santi Alfio, Filadelfo  e Civino; Vita e miracoli di Sant’Antonio di Padova). Come letterato, si occupò di stile nella Notomia della Rettorica ed anche nell’epistolario che lo vede vivace interlocutore con Chiabrera, Loredano, Brignole Sale. Pubblicò anche versi (I lavori di Aracne). Imitando il Boccalini, scrive Ragguagli d’Amore del regno di Cipro (arguzie, novelle, motti sparsi nelle dispute  sull’amore, la cortesia e la donna). Egli porta nei suoi romanzi entrambe queste finalità: La Stratonica (1635), L’Ercole Novello (1639), Armelinda (1640), Il Demetrio (1643). Il suo intento è scrivere  piuttosto che romanzi storici, storie romanzate: “Io non alterando parte alcuna del testo di Giustino sono andato sovra di esso fabbricando la serie di quegli avvenimenti, nei quali è verosimile che potessero incontrare Astiage e Mandane...” (Prefazioine a L’Armelinda). Ma, attraverso la sua storia romanzata, egli ha di mira di aiutare  i lettori a formarsi una coscienza morale: afferma di aver scelto di raccontare le avventure di Demetrio, perchè esso contiene “mille varietà d’accidenti atti ad erudire i prìncipi”. A tal fine, i suoi romanzi non sono molto estesi, pur affidandosi a peripezie contorte, perchè devono condurre ad una soluzione che istruisca ed educhi. Egli  credeva funzionale a tali scopi l’uso di una lingua arzigogolata (l’ingegno stilla finezze preziose), cioè baroccheggiante, fino al punto di ritenere la rigorosa sequela del toscano un impaccio più che un aiuto: giustificava tale opinione con la convinzione che fosse la via per una maggior diffusione ed efficacia dei suoi scritti (in realtà era solo  un corollario estremo dello stile barocco). La sintesi[34] che il Varese dà del “Demetrio” e la pagina esemplare che ne riporta sono conferme dei difetti ed intenti delle opere dell’Assarino e parrebbe giustificare il suo giudizio conclusivo: “Una vita avventurosa ed inquieta, una ricerca di paesi e di climi nuovi, una varietà di tentativi letterari, l’ammirazione per lo stile del Mascardi[35], come esemplare si concludono dunque in questo – favoleggiar sull’istorie-“. Quanto  egli aggiunge (“Gli intrecci e le sovrapposizioni sono aspetti di una civiltà che non ha un centro preciso e di una cuiltura letteraria risolta nella retorica”) merita invece una precisazione: molti letterati del Milleseicento dimostrano di essere gente disorientata, ma non tutti; e nel complesso il popolo di quelle generazioni ebbe un chiaro senso (quello cristiano) della vita,anche quando accettava ingenuamente, dalla moda, una maniera di esprimersi enfatica e scriteriata. Don Ferrante e donna Prassede, in proposito, possono essere paradigmatici: Manzoni li dipinge come gente macante di senso critico nella vita teoretica e pratica, ma sostanzialmente, profondamente buona. Non tutti avevano un  gusto letterario così acuto da preoccuparsi del fatto espressivo in se stesso. Quel che contava era il contenuto. E, in proposito, non pare irragionevole chiedersi  se ancora nel secolo XX la società occidentale abbia tratto profitto dalla carica di convinzioni e sapienza, di buon senso e di virtù,  giunta a maturazione nei popoli cattolici grazie alla riforma  tridentina in quel secolo. Pagando lo scotto di una minor attenzione alla ragionevolezza della tecnica espressiva.

 

Girolamo Brusoni (ca. 1610- dopo il 1686),nato  nel Polesine (Badia di Vangadizza) fu un poligrafo ed un avventuriero. Entrato nell’ordine certosino e due volte uscitone (la seconda volta finì in prigione), visse in Emilia ed in Toscana, finchè non lo accolse Venezia, dove si legò alla Accademia degli Incogniti, in amicizia con il Loredano ed il Pallavicino (Ferrante, quello che finì  giustiziato, ad Avignone, per eresia). Finì per sistemarsi nel 1676 alla corte di Torino come storiografo. Forse la sua passione più vera fu proprio la  storia: nel 1656 pubblicò Le guerre d’Italia dall’anno 1653 fino il  1655,   con cui si attirò odi e polemiche, perchè l’opera era fortemente antispagnola; e la Historia d’Italia (vicende dal 1627 al 1680). Scrisse anche quattro novelle  impudenti (L’Eccellenza delle corna)  che raccolse con versi in veneziano ed in italiano, con lettere  e con un panegirico a Venezia ne Il Camerotto (1645: il “camerotto” è la prigione). Ma le cose più importanti sono i romanzi, anche se i primi sono prove maldestre,calchi della cronaca scandalistica o addirittura rimaneggiamenti da opere straniere. Cominciò, dunque, erotico-scandalistico. La fuggitiva (1639) è la storia romanzata di un fatto di cronaca del tempo, nell’ambito di casati nobili bolognesi (Bentivoglio, Cappello, Manzoli): amori extraconiugali, puniti dal figlio con la uccisione della madre, peccatrice impudente. L’Ambizione calpestata (1641) parrebbe invece la storia allegorica della impresa di Gustavo Adolfo, il re di Svezia, caduto in battaglia a Lutzen nel 1632. Con Lo scherzo di Fortuna(1641), egli passa al tema amoroso puro, rivelando acutezza di introspezione psicologica (lo pubblicò assieme a Ragguagli di Parnaso); lo continuò  ne L’amante maltrattato (1654: è il rimaneggiamento di un libretto francese, a sua volta derivato da un testo spagnolo). Degli amori tragici (1658: già edito come La turbolenza delle Vestali), è libro scandalistico, che –sotto la corruzione delle Vestali romane- velava  quelle di  un convento contemporaneo, ma senza fondamenti storici, nonostante la connessione  operata da scrittori successivi con un monastero di Napoli.[36] Ma è nella trilogia La gondola a tre remi (1657); Il carrozzino alla moda (1658) e La peota[37] smarrita (1662) che il Brusoni giunge alla migliore espressione di sè,  pur non attingendo mai l’arte: interessa il contemuto. In questi tre romanzi, in cui il protagonsita Glisomiro incarna un don Giovanni di provincia ed è in parte autobiografico, egli abbandona il surreale cavalleresco e la  introspezione della passione amorosa, per creare il romanzo di costume (realistico-borghese). Egli ritrae (o inventa) gli aspetti deteriori della società veneta avviata alla decadenza, mentre dà spazio alla curiosità intellettuale con le conversazioni brillanti dei salotti,  con la concretezza dei riferimenti alle situazioni vive del momento e con lo spirito di arguzia proprio di una mente scanzonata se non  lincea: acuta nella percezione dei particolari,  ma     superficiale nell’unilateralità delle prospettive, sorprendenti perchè parziali e, perciò, apparentemente  giustificanti ogni  permissivismo. Si passa così dalla proposizione di versi alla narrazione di vicende storiche di rilievo (imprese del Wallenstein, difesa della Dalmazia e di Candia da parte di Venezia), al giudizio sulla società del tempo, che Glisomiro  ritiene superiore ad ogni altra precedente, mentre  qualcuno ne propone un  quadro del tutto pessimistico. Si discute di libertà naturale (interpretata praticamente come anarchica) e sottomissione di fatto a prìncipi che si mantengono al potere con la forza (gli eserciti e le fortezze non servono a difendersi dai nemici, ma a tener servi i popoli!) e si pone allegramente lo stato di totale libertà come esigito dalla natura e lo stato di sottomissione ai dèspoti come esigito dalla rivelazione e legge di Dio!

 Questo frate sfratato ci rende avvertiti di due componenti della cultura che stanno variando: in peggio, il contenuto di idee e di costumi; in meglio la forma espressiva. Troviamo in lui uno stile sobrio, alieno da ogni metaforeggiare o concettizzare secentesco; troviamo discusssioni  se non vivaci almeno disinvolte ed anche  un comportamento dei personaggi psicologicamente più coerente: il miglioramento dipende anche dal tramonto della cultura spagnola e dal sopravvento di quella francese, dopo la guerra dei Trenta anni. Della prosa barocca, è rimasto il descrittivismo chiaccherone,  che si sofferma su un cumulo di particolari inutili: al di fuori delle rievocazioni storiche, i vari viaggi (distinti in “scorse” di gondole, carrozzini...) si riducono a gran desinari, accenni a vicende amorose (Glisomiro è  in libera convivenza con la gelosissima Laureta) e  commenti sul tempo, sui paesaggi incontrati e, talvolta, persino su argomenti impegnativi. Quello che in Boaccaccio era la “cornice”, che poneva poi al centro delle novelle personaggi e fatti distinti, interessanti almeno pel contenuto, qui diventa la novella stessa: un lungo viaggio con peripezie meno che mediocri e chiaccherate talvolta persino interessanti!

In peggio ci ritroviamo di fronte ad una inquietudine di vita, ad una stranezza di amicizie (il Loredano, il Pallavicino), alla sfrontatezza sensuale che sanno molto di Rinascimento; e soprattutto ad un semplicismo riduttore nella impostazione dei problemi, da far rabbrividire un filosofo serio, ma da affascinare un salotto galante. E’ il quadro del cosiddetto “libertinismo italiano”. Sono tutti  sintomi  di uno sfaldamento che sta ripetendosi: un’altra “trahison des clercs” è in vista: spiriti brillanti alla deriva dalla disciplina morale e dalla fede religiosa. Porteranno, attraverso l’ottimismo intellettuale e l’allegria immorale dell’Illuminismo, ad un altro rivolgimento, ma molto più sanguinoso e demolitore di quello luterano: sarà la rivoluzione farncese. Nota bene  C. Varese: “Tra il Brusoni e G. A. Marini  corre una differenza netta ed evidente di impostazione, di linguaggio, di civilità... il Calloandro fedele parte dal poema cavalleresco e vi tende, i romanzi del Brusoni invece sembrano riprendere modi e forme di una commedia di costume che invece in Italia non c’è stata” (Garazantiana, p. 601).

E potremmo fermarci qui. Ma alcuni altri romanzieri interessano per motivi culturali singolari: due, John Barclay e Gian Vittorio Rossi, perchè scrissero romanzi in latino; Francesco Fulvio Frugoni perchè la sua individualità di avventuriero lo avvicina al Brusoni nella vita girovaga e nella scrittura poligrafa; e perchè sorprende la complessità, stilisticamente ricchissima, del suo  minestrone barocco.

 John Barcaly scrisse in latino Argenis,  in cui le vicende religiose inglesi sono considerate in prospettiva cattolica. Il romanzo  fu tradotto in mezza Europa e divenne emblematico, assieme all’Astrée del d’Urfè, per aver adombrato in vicende antiche personaggi e avvenimenti del proprio tempo o comunque recenti: era un  modo per avviare il romanzo storico. In Italia fu tradotto  da Francesco Pona e da Carlo Antonio Cocastello fra il 1525 ed il 1530. Gian Vittorio Rossi (latinamente, Janus Nicius Erythraeus: Roma, 1577-1647). Fu allievo dei gesuiti e scrisse in latino molte opere, fra cui il romanzo Eudemia (1637).[38] I Dialogi  (1642-3) sono  27 e trattano di problemi etici e culturali; la Pinacotheca imaginum illustrium virorum... (1643-8), è una galleria a stampa (ritratti di personaggi del tempo) ed ebbe diffusione europea; le Epistulae ad diversos (1545-9) e molte opere religiose (Omiliae, Documenta sacra ex Evangeliis, Exempla virtutum et vitiorum) testimoniano di una attività intellettaule inesauribile, con una unità di intenti e intelligenza di esecuzione che contrastano con l’immagine stereotipa  di una società “oggidiana”, cioè disorientata, in crisi e ipocrita, del secolo. Il romanzo Eufemia è allegorico: il Varese ne parla così: “il motivo di un viaggio e di un approdo in terra sconosciuta serve per una ricostruzione reale e fantastica della Roma contemporanea”, compresi personaggi singolari dell’Europa tutta (Gustavo Adolfo, Campanella (Garzantiana, p. 567).  Il Rossi  rifiuta esplicitamente l’ermetismo del metaforeggiare concettista, ma non è lontano dalla effusività loquace di Daniello Bartoli: il Varese addita come sempio la descrizione delle fontane delle ville romane, coi loro giochi d’acqua.

 

 FRANCESCO FULVIO FRUGONI (1620 ca.- 1684 ca.) fu uno dei tanti personaggi di Genova che illustrò (a suo modo) la cultura italiana del Milleseicento. Dopo aver trascorso la adolescenza in Spagna (vi conobbe  davvero Il Gòngora e Francisco de Quevedo?), si fece relgioso, fra i Minimi di S. Francesco di Paola (fondati nel sec. XV) e, messosi al servizio di Anton Giulio Brignole Sale, ambasciatore della repubblica, ebbe modo di viaggiare in Italia, Olanda, Inghilterra, Francia e di tornare con lui in Spagna. Rientrato a Genova,  appoggiatosi presso casa Spinola, finì per divenire il difensore della figlia Aurelia, vedova di Ercole Grimaldi principe di Monaco; e si diede da fare a  sostenerne i diritti, facendo la spola tra Genova, Monaco e Parigi. Sistemata la posizione di lei, volle stabilirsi a Torino,  ma non riuscì a rimanervi più di tre anni: era un girovago per natura, perchè temperamento nervoso ed instabile. Venezia era la città più ospitale per un simile individuo: vi si recò, dunque, dopo aver toccato Bologna e Piacenza. Dovette accorrere però a Parigi nel 1670,  ad assistere la contessa Aurelia in fin di vita. Dopo un anno trascorso a Milano, nel 1679 approdava di nuovo (e pare definitivamente) nella città lagunare, dove uscì (1687-9) il suo capolavoro, quando lui era già morto: non ci ha lasciato gli estremi della propria anagrafe, nè di nascita nè di morte.

 Era stato amico e discepolo di E. Tesauro. Scrisse molto e di molti generi: del 1643 è il poema giocoso La guardinfanteide; del 1661, il romanzo La vergine parigina (ispirato al martilogio francese della vergine e regina Aurelia, interpretata come la donna di alto sentire, che viene perseguitata fino alla morte); del 1669 i Ritratti critici; del 1673 L’eroina intrepida (4  volumi massicci per la vita romanzata della duchessa Aurelia Spinola di Valentinois,  la sua protetta); del 1675, il melodramma Epulone.

 Postumo uscì  il capolavoro Il cane di Diogene (1687-1689). La recentissima riedizione del “quinto latrato” (Il tribunal della critica) per la Fondazione Pietro Bembo, presso Ugo Guanda editore (Varese, 2001), nel risvolto della sopracoperta così puntualizza il duplice carattere dell’opera: “L’idea di scrittura come artificio e quella di letteratura come gesto pedagogico di moralizzazione sono le due spinte propulsive della singolare proposta frugoniana, -opera massima- in cui -il desiderio del mio lettore troverà tutto ciò che può saziar la curiosità di sapere, un mappamondo geografico in cui si vede la terra delineata in compendio”: Si tratta di un romanzo allegorico-satirico-autobiografico, in cui “Saètta” racconta le avventure capitate al seguito di vari padroni,  fino al ritorno al filosofo cinico. I giudizi del cane si identificano per lo più con quelli del Frugoni. E la conoscenza di storia antica e moderna, dei principali paesi europei, di lingue innumeri, dà modo allo scrittore di presentare  le più diverse condizioni  di professione, cultura, costumi e mentalità, sia nei differenti personaggi con cui il cane deve vivere sia nelle varie vicende  in cui vengono coinvolti. Il cane non parla, ma abbaia: di qui la divisione dell’opera in sette “latrati” (libri) che contengono ciascuno uno o più stralci di vita sociale di ogni tempo, sicchè nei sette latrati si raccolgono dodici racconti. Il primo è dedicato particolarmente alla vita dei dotti (La scuola di Antistene) ed alla moda (La moda smoderata); il secondo,  alla dimensione morale della vita cittadina (La biblioteca di Attico| Atene esplorata); il terzo, alle corti ed ai loro vizi (pare descritta quella di Parigi: Le corti dell’Asia| Il solitario sgomento); il quarto  si interessa di molti argomenti (I padroni variati| Gli incontri diversi); il quinto, intitolato “Il tribunale della critica”, è consacrato ai letterati (volume di 658 pagine, risulta un esame delle letterature d’Italia, Francia e Spagna); il sesto, intitolato “La barca di Charonte”, è imitato su Luciano e consta di 37 dialoghi sui costumi (i vizi, in particolare) e le sventure degli uomini; il settimo è intitolato “La lucerna del cinico” e narra  della passeggiata di Saetta (sottratto da Mercurio a Caronte e riportato presso  Diogene) per la città di Corinto, dove incontrano forme le più diverse di corruzione e di insipienza: il laureando in giurisprudenza che puntualmente sa le formule a memoria senza comprenderne il senso; il giudice venale, così frequente che fa ricordare i versi di Petronio Arbitro (“Quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat| aut ubi paupertas vincere nulla potest?”) o quello di Giovenale (“ Rara avis in terris, nigroque simillima Cygno”). Per  sottolineare l’amore assorbente di Diogene  per la Verità, egli gli contrappone la adulazione menzognera di Aristippo “adusato ai (vini) Falerni di Siracusa, commensal di Dionigi, perchè alla tavola dei Tiranni, la Verità Colomba non comparisce se non isgozzata, pelata, ed arrostita”.

Nella farragine di notizie storiche, di invenzioni fantastiche, di giudizi letterari e morali, il tema che più riaffiora ed attrae le frecciate dell’autore è la sensualità, vista annidata specialmente nelle donne  e nelle corti dei prìncipi.

Manca però un motivo ispiratore positivo che unifichi la gran mole della erudizione  e della passione moralizzatrice, visto che “il suo vero interesse  è quello di rappresentare e toccare lo spettacolo del mondo”, ciò che lo rende dispersivo ed inferiore al valore culturale di un Rabelais o di un Quevedo. Dice il Varese: “non partecipa di nessuna delle civiltà che giudica e non ha un suo mondo da contrapporre a quello dissestato che ritrae”: o almeno non lo sa esprimere, perchè al Frugoni non si può negare fede e zelo morale in chiave cristiana.[39]

Neppure, in tanta fretta di scrivere le migliaia di pagine pubblicate (i sette volumi o latrati assommano a ben 4.364 pagine, di cui bel 246 di molteplici prolusioni!), è dato incontrare un alito di emozione lirica: neppure nel campo dell’umorismo. La satira è troppo collerica, cioè il sentimento non sa  purificarsi ed universalizzarsi. Ecco che, allora, il Frugoni, per quel che riguarda la dimensione letteraria, ci ha lasciato quasi solo un documento di barocco letterario, anzi  il caso complessivamente riassuntivo ed esemplare di  prosa secentista, nelle sue molteplici componenti.

Motivo di interesse  critico, allora, nel Cane di Diogene, diventa lo stile dell’opera. Non si deve pensare solo ai concettini (che non mancano, come vedremo) ma, in primo luogo, alla  organizzazione tutta dell’opera,  che riflette la... disorganizzazione del cervello nel suo autore. Si  può e si deve parlare di scioperataggine da grande fantasista, di sfoggio da superlativo erudito e di sfogo da appassionato moralista: siamo di fronte al prodotto di una più che discreta intelligenza, che però non riesce a tenere in pugno la spinta emozionale. Questa  mobilita e scuote i centri della memoria e della parola, sicchè la  massa delle nozioni assume la forma di un ricamo visto dal rovescio: alla  scapigliatura interiore fa riscontro, nella espressione, una struttura policentrica ed ingarbugliata. In essa il  barocco si manifesta, poi, nella giustapposizione dei generi letterari, così come le arti figurative si imparentavano fra loro nelle  cupole delle chiese o nelle volte dei palazzi: la prosa si mescola con i versi (sonetti, canzonette, quartine, distici); il dialogo scettico di Luciano si accosta alla novella cinica picaresca ed allo sciocchezzaio maccheronico; l’improvvisazione si rivela  attraverso la ripetuta presentazione dei personaggi con cui polemizza, nella mescolanza tra racconto realistico, proiezione simbolica ed eventuali paralleli storici o mitologici; la indisciplina mentale si tradisce attraverso una incontentabilità di riprese del soggetto, che viene schizzato anche in postille stampate a  margine del testo, per ribadirne il senso e legarlo a princìpi filosofici, per sottolineare la insipienza e ridicolaggine dell’episodio oppure per spiegare le dizioni metaforiche meno trasparenti. Per  mantener vivo il caleidoscopio in cui tenta imprigionare il mondo intero, egli  “si vale della scomposizione, della proiezione, dell’insistenza e della proliferazione” (Garzantiana, p. 643). Ne nascono stilemi affini al concettismo: “elenchi di parole e di sinonimi...sfilata di fatti, di persone, di simboli, di oggetti, di case, di palazzi, di animali” (ib.).  Intanto nell’intreccio di lingua dotta  e dialetti volgari, le parlate francese e spagnola, il latino classico e quello maccheronico si assommano al gergo secentista, ai neologismi, ai giochi di parole.

 Ma attenzione, chè il Frugoni (discepolo di Emanuele Tesauro) distingue tra “concettini” e “concettoni”: “quei che scrivono con giudicio virile non anfaneggiano a seminar le carte loro, con una superficiale vaniloquenza, di vetri luccicanti e lievi, ma di gemme luminose, sode, perciò durevoli. Nell’aria svagano le lucciole: nel cielo fissan le stelle: queste durano tutto l’anno, e quelle per pochi giorni compaiono. Tali sono i lumetti dei concettini, paragonati agli astri dei concettoni[40]D’accordo, anch’egli talora bamboleggia (simile agli adolescenziali lirici secentisti,  melensamente petrarcheggianti) , come nel descrivere la rosa: “Nata sul regio trono d’un tronco, tra la porpora natia, coronata d’oro, pur lagrimosa spunta colla  rugiada e, svenata dalla punta d’un raggio, langue svenuta per sincope d’un deliquio” (L’eroina intrepida); oppure “Vide... che vide? Oh Dio, la penna interizza (si intirizzisce), gela l’inchiostro, sviene lo stile. Vide nel mezo di quella stanza letteraria un’Ombra...” (ib.). Pure egli aspira a metafore che  si traducano in un giudizio critico, un confronto virile, un principio morale: “L’Istoria è maestra dei costumi, e perciò ha da portar lo staffile, per lasciarlo ad uopo scorrere con qualche manrovescio addosso ai mal viventi”.[41] E’ così che egli giustifica il suo parlare alla moda nella premessa alla Vergine parigina, con il criterio della Gerusalemme: “per istuzzicare con la stravaganza dei successi varii l’allettamento dei palati molto svogliati, o delli spiriti poco svegliati, perchè siamo in tempi sì finti, che bisogna fingere per dir il vero, e intesservi fregi, adornando in parte le narrative, ancorchè siano delle gesta dei santi, d’altri diletti che di quelli del cielo, acciò dagl’inganni ricevano vita i mortali”.  Ecco, dunque, un esempio dei... concettoni frugoniani: Aurelia, principessa di Francia, ostacolata dai genitori regali alla sua entrata in convento “non si crocifigge sopra lo specchio, ma si specchia nel Crocefisso. Se la penitenza gli serpeggia sul volto co’ suoi smortigni pallori, la modestia glielo ricolorisce col bel vermiglio de’ suoi redivivi cinabri; se sè col digiuno si pasce, con la contemplazione dell’eterna vita si sfama”. Ahimè, dietro i propositi di virilità e serietà, sta solo il temperamento drammatico, non controllato da una mente  adeguatamente intelligente: i concettini non sono quelli  svampiti degli innamorati, ma sono quelli teatrali degli esaltati; non sono aerei e frivoli  bensì massicci come quelli di un predicatore sacro...aggiornato alla moda barocca. Eccolo a tentare in tutti i modi di far accettare l’ossimoro del “romanzo verace” sulla “Eroina intrepida” : egli la chiama “Historia adornata” e, dopo aver discettato sulla verità che deve essere nuda ma  coperta di ornamenti, conclude: “ Scrivo un Romanzo Verace, nè dovrà il mio lettore far inchiesta più d’avventure sognate, di sogni venturosi, che invogliano la curiosità, per tradire la sincerezza. Bastano queste non finte peripezie per occupare con la verità lo stupore, col riflesso l’imitazione. Invito a commiserare ogni affetto, ad encomiar ogni eloquente, a giudicar ogni retto, ed a correggersi ogni reo”. Del principe Ercole Grimaldi dice: “Fu Ercole del culto divino severissimo zelatore, nè mai la chiesa l’accolse feroce perchè lasciava  sul limitare di essa la pelle del lione, indossandola dell’agnello”. Nell’Epulone, egli parla di Anna Bolena che, donna di bassa condizione  soppiantò Caterina d’Aragona (moglie di Enrico VIII, regina d’Inghilterra), in questi termini che iniziano con una equivocazione (pedina= donna di umile estrazione) e continuano con tono di oratoria sacra: “La pedina diè scacco matto (e veramente matto perchè fe’ impazzire il più savio de’ regi regnante nel settentrione) ad una dama la più pudica che mai infiorasse il talamo maritale”. Nelle 246 pagine che fanno da introduzione all’inizio vero e proprio del Cane di Diogene, egli trova modo di  mettersi in compagnia dei grandi prosatori satirici   dell’antichità -da Luciano a Petronio- e della età di mezzo –Rabelais-. Quest’ultimo è così introdotto: lo “sfacciato, più che faceto, Rebellezio, ribelle alle venerande leggi dell’onestà critica”.[42] Ma la grandine di metafore e di concettini  dura così a lungo, da lasciar sospettare  quella costituzione fisica eccezionale che la incisione a principio della edizione conferma: per aver fiato a scrivere centinaia  di pagine sempre sul tono esaltato della girandola di immagini balorde e di giochi di parole, occorrevano anche un cuore in piena forza, un vigore  neurovegetativo inesauribile, una dedizione allo studio e scrittura da maniaco: ed anche, però, uno zelo  tempestoso, degno di un predicatore infuocato, contro la corruzione ed in  sostegno della virtù (zelo di convertito, dopo la  dissipazione giovanile e l’ingresso fra i Minimi,  attorno ai 23-25 anni). Difatti egli, nei panni dello Spartano, può affermare “Ho per costume, non che salutare, instruttivo, di non istringermi troppo, o mio ingegnoso, col sonno, per essere questo fratello uterino dell’ignoranza”.  Eccolo ribadire per mezzo di concettini: “Tanto ho preteso far io, pescator di penna, col filo del discorso, con l’amo dell’arguzia e con l’esca della dottrina... Posso accertarti, amico (se amico mi sei, e se non sei amico, poco mi preme, perchè sarai un furbo) che in questa mia fatica fatidica ho spremuto quasi che tutto il midollo del mio ingegno, attento, per comportene un vital elisire nel mio inchiostro epitomico (condensato), lambiccato al fervore dell’intelletto acceso, chiarificandolo per infeltrirlo (renderlo più  spesso, sostanzioso) più volte con una riflessiva revisione ed assottigliandolo in alcalizzarlo (ridurlo ad alcali, come la soda caustica) sovente con uno scintillante riflesso....”. Egli  è innamorato del lavoro libresco, pel quale  si accolla tutte le fatiche dell’amore: “Osservastovo (sic! “Avete voi osservato”) mai sollecito innamorato, se pur non pazzo, che sotto la finestra dell’idolatrata sua dama, gelato alle brine, geloso ai sospetti, sta intirizzito più dalla pazienza che dal freddo, e divenuto pietra sul sasso, di là non parte sino a che  nol discacci Morfeo?” Coloro che, pretendendo a grandezza, vivono in ozio, si deve convenire “ non aver altr’entrate di giorno che le uscite notturne; altre rendite che il non rendere ciò che debbono; altri capitali che i capi loro, come ramosi, fruttiferi; altri frutti che i furti; altr’arte che l’artificio; altra fatica di mano che ’l gioco e il gioco di mano; altro impiego che ’l piegarsi ad ogni sconcio; ed altro negozio che l’ozio”. Ed ecco una grandinata di metafore proprio sull’ozio: “rugine della ragione, tarlo del cuore, lebbra dell’anima e corrosivo della virtù. Calma che fa verminire l’acqua stagnante; nebbia che offusca la luce sorgente; cancro che mangia il petto più forte; seppia che intorbida l’umor più chiaro; torpedine che stecchisce il braccio più valoroso”. E, per Saetta, accumula questi elogi: “Eccoti hormai, mio generoso Molosso, mio fido Veltro, mio Segugio sagace, mio Alano intrepido, mio veloce Levriero, mio bravo Melampo, mio Mercuriale Mastino, mio Apollineo  SAETTA!”. Ad un certo punto  le due figure retoriche si alleano, si mescolano, si fondono nello stesso periodo: “Affamano (languiscon di fame) i virtuosi, che son all’ingegno fenici e camaleonti al digiuno; sguazzano gl’ignoranti, che sono asinoni all’ozio e maiali al truogolo”; “Raccolgo le vele del mio discorso, spiegate soverchio dalla mia confidenza all’aura della benignità vostra, o cortese amico; e conchiudo che si doverebbe intagliar a lettere cubitali, già che le lettere oggidì, se grosse non sono (se non sono come quelle scritte sulle monete, cioè il danaro stesso), non sono intese, sopra le porte d’ogni Commune queste parole fatidiche, suggeritemi da un valent’uomo di esperienza: “Conviviorum et vestium luxuria aegrae civitatis indicium” (il lusso dei banchetti e delle vesti sono indizio di una città malata) (Ricciardiana, cit, pp. 920; 925; 927; 941). Insomma, ci siamo lasciati rubare tempo da un caposcarico che ha esploso i fuochi d’artificio del più ingegnoso barocco, a conclusione degna di una stagione letteraria indegna: un anno dopo l’edizione completa del “Cane di Diogene”, gli Arcadi abiuravano (quasi in presenza di   esorcisti, chè il primo custode dell’Arcadia è l’arciprete G. M. Crescimbeni!), a tutte le rigatterie dello  spumeggiante e spagnoleggiante secentismo.  Il Frugoni, vissuto dapprima come libertino e poi come frate avventuriero, era l’uomo adatto a  pronunciare l’elogio funebre sulla salma. “Requiescat in pece”, avrebbe detto fra’ Bernardino da Siena (da tradursi con un “va all’inferno!?”).

Vogliamo concludere con un giudizio di C. Jannaco su un limite generalissimo di questa produzione secentista: benchè riguardi, di per sè, solo i Motivi ispiratori, tuttavia  esso indica troppo giustamente una causa fondamentale del fallimento di questi romanzi o, meglio, una delle fondamentali deficienze interiori –intellettuale- di questi scrittori: la genericità. A p. 531 del volume più volte citato della Vallardiana, egli afferma dunque che “... l’infrazione di ogni misura e... l’ipertrofia narrativa,... non è solo gusto spiccato della divagazione, ma impossibilità di cogliere in pochi tratti un’immagine e di dominare la materia del racconto. Si vedano i personaggi: incapaci di individualizzare, questi scrittori devono rifugiarsi nel tipico, ignorandone tuttavia le brevi ed essenziali determinazioni: l’eroe di forza mirabile, ma pronto ad una facile e femminea commozione, il cavaliere errante, la donna guerriera, le eroine di altezzosa virtù, il sovrano dignitoso e solenne, gli eroi gravi e prudenti, i corsari, i malvagi, i personaggi travestiti; sono pochi convenzionali caratteri che si ripetono a sazietà, quasi simbolo di sentimenti passioni e situazioni note a priori; poichè questo tipo di scrittura tende tutt’al più alla mera aggressione del sentimentalismo e non chiede al lettore l’adesione, il convincimento o la scoperta, ma solo la passiva accettazione di una materia già presente nel gusto comune per lunga consuetudine e che ha le sue ricorrenti situazioni: duelli, tornei e battaglie, fughe, assalti di pirati, agnizioni, rapimenti, travestimenti (particolarmente di fanciulle), tempeste e naufragi, equivoci e calunnie, morti presunte, separazioni di amanti e di fratelli fanciulli, e loro repentino inaspettato ricongiungimento; elementi favolosi e prodigiosi (che peraltro andarono progressivamente perdendo di rilievo): sogni, balsami miracolosi, incantagioni, giganti, draghi. Se si guarda al contenuto, quindi, riesce evidente come tutta la tradizione, anzi tutte le convenzioni narrative affluiscano qui come in una specie di repertorio complessivo...”[43]

 

                  LA NOVELLISTICA

 

Anton Giulio Brìgnole Sale, genovese (1605-65), figlio del doge Giovanni Francesco, dapprima si diede alla vita pubblica, avendo come segretario F. F. Frugoni; a 43 anni si fece sacerdote e nel 1652 entrò nella Compagnia di Gesù. Si dedicò a quasi tutti i generi letterari, dal trattato politico- morale, che “setaccia, cioè purifica” Tacito (Tacito abburattato: 1634), al poema in versi (Maria Maddalena peccatrice e convertita), dal romanzo galante, in prosa, (Istoria spagnuola o il Celidoro: 1640-6) ad una collezione di sonetti e canzoni (Il carnevale)... Oggi lo si ricorda più che altro per il volume di novelle Le instabilità dell’ingegno, in cui ha voluto dipingere lo stile di vita di una certa fascia sociale. Lo schema è, tutto sommato, boccaccesco: quattro giovani e quattro dame, per fuggire la peste, si rifugiano su un colle, cercando di ammazzare l’ozio con gli svaghi più diversi. A questo modo, la cornice boccaccesca diventa gran parte del libro, sviluppando le  attività marginali del Decamerone ad  occupazioni di tutta la giornata (un giorno ogni dama deve rallegrare col canto; un altro, ogni personaggio lancia una sfida che gli altri devono accettare e superare; nella terza giornata, ognuno deve impersonare una figura storica e recitare un componimento adeguato... ). A parte che ogni giornata, per un verso o l’altro, diventa occasione per qualche recita di versi (si  mettono in ottave novelle del Boccaccio!) od altra invenzione che colla letteratura ha a che fare (una lettera di Tancredi, prigioniero di Armida, a Clorinda!), la giornata ultima, la ottava, vede tutti impegnati a rintracciare nella memoria qualche vicenda che possa essere tema di un dramma: le otto novelle che ne escono sono tutte macabre, dovendo fornire spunti per tragedie. La letteratura è considerata come cosa seria dal Brìgnole e, come tale, trattata con cura e impegno che allunga e rallenta la narrazione: manca la sintesi geniale della poesia.

 

Giovanni Sagredo (1617-1668: patrizio veneziano, ambasciatore nelle corti più importanti -Parigi, Londra e Vienna- giunto alla carica di Procuratore di S. Marco). Scrisse  le Memorie istoriche de’ monarchi ottomani (1673). A sollievo di tanta ufficialità, egli scrive L’Arcadia in Brenta o vero la melanconia sbandita (1667). Lo schema boccaccesco è variato a fondo: tre gentiluomini e tre gentildonne passano la fine del carnevale evadendo dalla città, sul Brenta, verso le colline attorno a Padova, appunto alla ricerca della mitica pace arcadica.  Anche qui la novella principale è il viaggio stesso con le sue varie stazioni; a variarlo si introducono ospiti occasionali che portano scherzi, motti, allegria: fra questi personaggi di passaggio, Sagredo inventa un certo Fabrizio Fabroni da Fabriano, che sarà ripreso da Carlo Porta nei suoi versi satirici. Non vi si cerchino  concettini ispano-barocchi, ma piuttosto l’esprit francese, il bon mot salottiero: oltre al Decamerone, sullo sfondo del libro sta l’opera del francese Le Metel d’Ouville “Contes aux heures perdues” (1644).  In parallelo all’ottava giornata nella Instabilità dell’ingegno, qui, nella  terza, si propongono racconti non tragici, ma arguti: vi sono madrigali, canzonette, battute in versi, ma senza esiti lirici di rilievo. Anche due personaggi famosi come Bertoldo (lo vedremo  presto) e Pasquino non offrono vena ad una comicità citabile. Passatempi, che preludono alla nuova cultura filofrancese,  che forse suggeriscono il nome alla grande Accademia che sta per sorgere in Roma nel 1690, ma che non hanno valore lirico proprio.

 

Giovan Battista Basile ( Napoli, 1565-1632). La sua opera principale è la raccolta di novelle in dialetto napoletano. I posteri lo han chiamato Pentamerone, cioè un “decamerone dimezzato” (Cinque giornate con cinquanta novelle). Ma il titolo originario è Cunto de li cunti, overo trattenemiento de’ peccerille (1634-6: postumo). Non raggiunge il lirismo, ma è interessante per le trame, cioè per la curiosità del contenuto: per questo l’opera ha suggerito spunti, nel Milleottocento, sia ai fratelli Grimm che a Ludovico Tieck.

Del resto, il Basile fu uomo d’arme (al servizio di Venezia) e di corte (presso i Gonzaga di Mantova). Rientrato nel Napoletano, fu fatto  governatore in varie terre.  Fu amico di Giulio Cesare Cortese, il padre della letteratura dialettale napoletana ed ammiratore entusiasta del Marino.  Sempre in dialetto, egli scrisse nove Egloghe (Le muse napolitane), anch’esse edite postume nel 1633. Si noti che , anzichè a spirito pastorale, esse sono ispirate a realismo comico-satirico, con intento moraleggiante. Per le opere napoletane si servì dello pseudonimo Gian Alesio Abbatutis. Ma scrisse anche opere in lingua: Il pianto della Vergine (poemetto religioso: 1608), Madriali e ode: 1609-17), Egloghe amorose e lugubri (1612), Idilli (il più notevole è Aretusa: 1619), un poemetto romanzesco (Teagene: 1637) e le due prose: Osservazioni intorno alle opere del Bembo e del Della Casa (1618); e “Imagini delle più belle dame napoletane ritratte da’ lor propri nomi in tanti anagrammi (1624).

 

Giulio Cesare Croce (San Giovanni in Persiceto, Bologna,  1550-1609). Figlio di un fabbro, ad un certo punto della sua vita lo troviamo cantastorie popolare in lingua ed in dialetto; e poeta buffonesco presso famiglie bolognesi. Scrive in terzine ariostesche (quelle delle Satire) la sua autobiografia: Descrizione della vita del Croce. Stentò la vita (con una famiglia, oltre tutto, numerosa) con il ricavato delle sue esibizioni sulle pubbliche vie, distribuendo a pagamento i foglietti delle strofe che cantava: fra le molte conservate, è  interessante quella intitolata Lamento della povertà per l’estremo freddo del presente anno MDLXXXVII. Scrisse testi per teatro: in bolognese preparò “Vanto di dui villani cioè Sandron e Burtlin sopra l’astuzie tenute da essi nel vender le castellate quest’anno (1607); in italiano scrisse Il banchetto de’ Mal cibati, commedia in terzine dantesche sulla carestia del 1590, allegorica, ma non senza qualche spunto di riflessione sociale, sui poveri oppressi dalla fame ed i benestanti che se la cavano sempre; e La farinella (1609). Morendo a 59 anni, logorato dalla miseria, si confessa anche scontento della sua vita di poeta (Sclamazione ad un amico).

Ma il Croce è famoso per la triade di “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”: Le sottilissime astuzie di Bertoldo| Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino| Novella di Cacasenno, figliuolo del semplice Bertoldino. Ma qui bisogna intendersi. Il Croce trascrisse il “Bertoldo” da un antico, anonimo testo (“Dialogus Salomonis et Marcolphi”, tradotto anche in italiano) liberandolo dalle citazioni bibliche e dandogli una impostazione più moderna: al posto di Salomone vi è la corte del re longobardo Alboino; in luogo di Marcolfo, troviamo Bertoldo. Contadino astuto e  sagace, Bertoldo è accolto a corte come consigliere del re ma, mentre inventa battute che gli moltiplicano ammirazione e potere, combina anche delle malizie  che gli attireranno la inimicizia della regina, per la quale egli viene condannato a morte per impiccagione. Con un’ultima trovata egli eviterà la forca. Chiede, infatti  una grazia: la scelta dell’albero  cui venir appeso. Optando egli per una pianta di fragola, se la cava. [44] Salvo a morire per il rifiuto dei medici a lasciargli mangiare i cibi semplici e salutari della campagna (rape cotte sotto la cenere e fagioli  bolliti con cipolle).

 Ottenuto successo con questo rifacimento, Giulio Cesare Croce vi volle aggiungere il libro di Bertoldino, figura inventata da lui: ma egli non riesce, come inventore, a “tener botta” con trovate all’altezza dell’anonimo precursore: concepito come l’opposto del padre (ingenuo lui, quanto è astuto il genitore),  il Croce tenta cavarne divertimento per i lettori inventando locuzioni in cui lo scambio di significato in parole ambivalenti rivelino la “semplicità” di Bertoldino; ma tali equivoci non rivelano acume sufficiente a divertire. Le favole raccontate in questa seconda opera e la crescita di importanza della donna  (Marcolfa) nella società, non bastano a salvarla dalla velleità e dalla insufficienza. La Novella di Cacasenno è stata aggiunta nel 1641 da Adriano Banchieri, che ne volle fare una continuazione del Betoldino. Ma neppure lui riesce a riproporre la malizia intellettuale e la arguzia giocosa dell’anonimo autore quattrocentesco.

 

                        LA PROSA D’ARTE   (Daniello Bartoli)

 

Seguendo sempre Claudio Varese, nel volume sul Seicento di Garzanti, 1976, diamo uno sguardo a Daniello Bartoli, storico della Compagnia di Gesù; ed all’oratoria sacra,  vicina o meno al secentismo.

Daniello Bartoli nacque a Ferrara nel 1608 e morì a Roma nel 1685. Entrasto presto tra i Gesuiti, aspirò inutilmente a partire per le missioni nei paesi non ancora cristianizzati. Accettò con solerte zelo (cioè come un surrogato della vita di missionario) dapprima il compito di  insegnamento e di predicazione e,  dal 1646, quello di storico ufficiale della Compagnia. Dal 1671 al 1674 fu rettore del prestigioso Collegio romano. Al collegio romano morì nel 1685.

La sua produzione scrittoria è enorme: spazia dai volumi sulle  origini e vicende della Compagnia di Gesù alle opere di interesse fisico e scientifico, ma tocca anche l’agiografia, la polemica teologica, la riflessione letteraria e qualla ascetica. Ecco gli scritti più importanti.

Istoria della Compagnia di Gesù, edita fra il 1650 ed il 1673 in sette parti: Della vita e dell’istituto di S. Ignazio; L’Asia; La missione al gran Mogor del p. Ridolfo d’Acquaviva; Il Giappone; La Cina; L’Inghilterra; L’Italia.

Opere riguardanti lingua e stile: L’uomo di lettere difeso ed emendato (1645); Il torto e ’l diritto del –non si può- dato in giudizio sopra molte regole della lingua italiana (1670).

Opere esplicitamente  religiose (agiografiche, ascetiche): benchè la preoccupazione religiosa si manifesti in ogni scritto del Bartoli (ad esempio, “L'uomo di lettere difeso ed emendato” comprende anche “emendazioni” morali e non solo stilistiche), tuttavia egli  consacrò la sua penna anche ad opere esplicitamente ispirate alla vita morale e religiosa. L’agiografia (biografie di santi) comprende le vite dei maggiori uomini della Compagnia, da S. Ignazio a S. Francesco Borgia, da Niccolò Zuccoli e S. Stanislao Kostka a S. Roberto Bellarmino. I libri di riflessione spirituale [45] iniziano con L’eternità consigliera (1650) e proseguono con La povertà contenta descritta e dedicata ai ricchi non mai contenti (id.), L’uomo al punto cioè l’uomo in punto di morte (1657), Dell’ultimo e beato fine dell’uomo (1670), Della ricreazione del savio in discorso con la natura e con Dio (1659), Della geografia trasportata al morale (1664),  Delle due eternità dell’uomo, l’una in Dio e l’altra con Dio (1675), Dei simboli trasportati al morale (1677), Delle grandezze di Cristo (id.), Pensieri sacri (postumi). Possiamo far rientrare in questa categoria anche la polemica teologica, contro il quietismo (Che orazione sia quella che chiamano di “Quiete” e come si pratichi| Esame della risposta ad una scrittura il cui titolo è –Che orazione sia ...-).

Negli scritti su esperimenti naturali, è più vicino allo sperimentalismo che alla genialità: La pressione e la tensione disputanti qual di loro sostenga l’argento vivo nei cannelli dopo fattone il vuoto (1677), Del suono de’ tremori armonici e dell’udito (1679), Del ghiaccio e della coagulazione (1681).

Non che il Bartoli sia un grande scrittore, ma una sottile esigenza di efficacia letteraria si insinua  in ogni sua opera, risultando particolarmente  evidente in alcune parti della storia delle missioni della Compagnia, dove il Bartoli confessa: “E’ questo il campo... dove ho preso a descrivere le industrie, i travagli, e le fatiche, che nel coltivamento d’esso hanno sofferte i figli di S. Ignazio, per seminarvi la Fede, e raccoglierne  frutto conveniente a’ sudori e al sangue, che v’hanno sparso. Nel che fare, spero che non m’andrà fallito, che questa mia fatica, qualunque ella sia, non riesca a’ lettori di non minor piacere che giovamento[46]. E’ vero che egli subito dopo attribuisce la sorgente del piacere e giovamento al contenuto della sua esposizione (“scoprimento di nuovi e incogniti paesi, conversioni e battesimi di re, e di regni barbari e idolatri, ambascerie fino all’ultimo capo del mondo...”), ma giustamente osserva il Varese: “Perciò il documento e lo scrupolo descrittivo si alleano con la meraviglia e la meraviglia si allea col documento. I lunghi viaggi per mesi nelle immense caracche portoghesi, le improvvise tempeste e gli improvvisi approdi, la bellezza selvaggia o raffinata dei luoghi, i cieli e i climi più strani e diversi sono il teatro delle imprese pie insieme ed umanamente ardite di San Francesco Saverio, del padre Matteo Ricci e del padre Ridolfo d’Acquaviva. La descrizione geografica più precisa può diventare perciò un modo per accrescere prestigio agli eroi della fede. Tuttavia l’autore vi si dimentica e porti, golfi, baie, foreste sono dipinti come pannelli autonomi. L’isoletta di Ormuz brilla come esempio della bravura del prediletto Bartoli in una pagina della Crestomazia leopardiana...”.

E’ inutile riportare brani dalle opere del Bartoli:  l’ammirazione che destano in noi tanti costumi esotici, paesaggi sorprendenti e fenomeni sconvolgenti, nasce tutta dal contenuto,  perchè la descrizione appassionata non riesce a tradursi in uno stato emotivo, libero dalla tensione pratica di suscitare appunto meraviglia: la scrittura rimane perciò prolissa e analitica, l’espressione è al più quella sentimentale ed enfatica, non lirica od emotivogenetica. Egli accumula particolari per stupirci, non accorgendosi che la meraviglia poetica nasce dalla sintesi spontanea ed estrosa di una intuizione geniale , non dalla studiata e diligente analisi di un ricercatore  solamente ingegnoso.

I limiti della intelligenza discreta ma non suprema del Bartoli si riversano poi anche sulla parte puramente documentaria della ricostruzione storiografica: egli, onesto  e diligente nella ricerca ed esposizione dei dati di fatto, si lascia vincere dalla passione per la causa della fede e tende a vedere troppo  entusiasticamente uniti la verità (quella cattolica, nel caso) con il successo; e viceversa: non si è accorto che, in Europa, la guerra dei Trenta anni, vinta da Svezia, Francia e La”nder protestanti, stava smantellando almeno in parte quel fervore di iniziative, quel numero di vocazioni e quel periodo di successi che era  dovuto certamente al Concilio di Trento, ma non senza l’apporto della vittoria spagnola e la pace di Castel Cambrese, favorevole  ai popoli ed alla educazione  cattolica d’Europa. Vi è un ritorno alla ingenuità medioevale, che si rivela anche nella superficialità delle analisi psicologica dei personaggi e  nel semplicismo della causa di riferimento per le decisioni prese da prìncipi (l’interesse è la chiave unica –e perciò illusoria- per spiegare le mosse dell’Inghilterra nella sua politica antispagnola ed anticattolica). Così il suo favore senza dubbi al sistema monarchico di governo, nonostante la vastità delle sue conoscenze storiche; o l’accettazione indiscussa dell’eliocentrismo, nonostante l’ammirazione per l’astronomia e la scienza, testimoniano  che il limite maggiore del Bartoli è nella misura della sua intelligenza. Egli aveva troppa stima per la facoltà visiva dell’uomo. Pure la sua non è orgia descrittiva nè egli merita di essere detto “il Marino della prosa” (l’infelice definizione è di Francesco De Sanctis): il suo eccesso di analisi ed una certa verbosità non sono concettismo nè gioco,bensì  il segno di una intelligenza  non sublime che non riesce a stringere in poche note sintetiche un contenuto ricco e affascinante; non sono il programma di una mente balorda che si vuol mettere in mostra, scherzando sull’oggetto del suo discorso od evadendone attraverso collegamenti arbitrari e divagazioni capricciose, ma il tentativo sincero (anche se non del tutto felice) di far apprezzare dal lettore quello che ritiene degno di ammirazione. Ecco che cosa ne dice il Varese: “La sua arte letteraria  costruisce con eguale, instancabile sollecitudine i nessi e i passaggi, le cadenze e i richiami da parola a parola, da proposizione a proposizione, da peridodo a periodo con una coscienza vigile del rapporto tra logica evidenza e armonia di suono, di immagine, di equilibrio e di calcolo psicologico. L’evidenza, la logica e la proporzione delle parti sono gli elementi che hanno nella consapevolezza dello stesso autore (come nell’ultimo capitolo dell’Uomo di lettere) e spesso nel giudizio dei critici allontanato questa prosa dal concettismo”.

La serietà del pensiero e dell’attività libresca del Bartoli la si può ammirare allora, meglio nelle opere di riflessione morale.  Ivi lo stile è più sobrio e le osservazioni morali ed educative sono, se non geniali, pure ricche di sapienza ed esperienza etico-religiosa. Vi è spazio per una spontaneità e cordialità che non si sospetterebbero rimanendo prigionieri del mito circa la rigidità e uniformità della formazione gesuitica: che è un’altra “leggenda nera”, perchè nessuno che abbia conosciuto da vicino i membri della Compagnia può negare la varietà e spontaneità con cui i vari temperamenti e ingegni riescono ad esprimersi, entro le maglie non soffocanti della morale evangelica e delle regole patenti[47] della Compagnia stessa.

 

                        L’ORATORIA SACRA

 

Anche le prediche ed i predicatori spagnoleggiarono[48] e concettizzarono nel secolo barocco. Ma, ovviamente, non tutti: la più parte dei sacerdoti (e non solo di campagna) si può scommettere che non sapevano neppure della esistenza del fenomeno (come, oggi, la più parte di loro, anche di città, non sa che cosa sia lo “strutturalismo”: per fortuna!): predicavano quello che avevano studiato sui banchi di teologia, alla maniera  che consentiva loro la maggior o minor intelligenza, le maggiori o minori doti artistico-letterarie.

Il che non toglie che la moda era quella, al punto che il Marino scrisse e pubblicò le Dicerie sacre (1614) che, lungi dall’iniziarne il movimento, lo seguivano,  sfruttandolo. Infatti le “dicerie sacre” non sono prediche, ma “nobili discorsi su soggetti in parte anche sacri”: delle tre “orazioni”, la prima, incentrata sulla Pittura, si estende anche alla Sacra sindone; la seconda, dalla Musica passa alle sette parole di Cristo in Croce; la terza, impostata sul Cielo, tratta in modo allegorico della sfera! Ma il titolo fa pubblicità al libro, facendo leva su un costume invalso.

L’andazzo non aveva un crisma ufficiale, anzi!  Infatti i concili (Lateranense nel 1516; Tridentino nel 1545-63) avevano raccomandato di nutrire la predicazione con idee teologiche fondate sulla Scrittura e sullo studio dei Padri della Chiesa. Ma pur potendosi  intuire che oppositori di simile abuso siano sempre esistiti, a farne cessare del tutto la moda dovette intervenire papa Innocenzo XI con una apposita bolla del 1680.

Al centro dello stile barocco della oratoria sacra stanno i “concetti predicabili”, che consistono in interpretazioni allegoriche di un passo della Bibbia, di  uno scrittore di cose religiose e morali, di un fatto di natura od anche di  una notizia profana: frasi o fatti  interpretati metaforicamente per servire da immagine, da analogato maggiore per far penetrare meglio la idea teologica che il predicatore svolge.[49] Spiegamo la cosa, al seguito di Jannaco, con esempi[50] tratti dal più famoso predicatore secentista, p. Emanuele Orchi, cappuccino (di Como, morto a Procida nel 1649). Le sue Prediche quaresimali (solitamente citate come il Quaresimale) furono edite postume nel 1650, ma il confratello che ne curò la pubblicazione, pur elogiando come angelico l’intelletto di p. Orchi e parlando  dello splendore della sua predicazione come di un “meraviglioso in eccesso”, doveva riconoscere che esse non potevano servire da modello,  poichè la “fioritezza soverchia del dire è diametralmente opposta a quel fine della conversione delle anime, ch’esser dee l’unico oggetto” della predicazione.  Riassumiamo il primo esempio. Chi è il peccatore incallito? è colui che si comporta col peccato come i Parti, “de’ quali scrive Giustino Historico, che mai smontano da cavallo”. Riportiamo il secondo. Quale è l’attitudine con cui il cappuccino  lascia Napoli, dopo avervi predicato il Quaresimale? E’ un atteggiamento di amore, espresso però in   forme che rischiano di essere offensive non solo del buon senso, ma dello stesso pudore: “Il predicatore parte recando con sè l’Amore nel cuore stesso concepito per il suo pubblico napoletano, nutrito e fatto quasi Gigante dalla amorosa nodrice la Nobilissima Udienza. Tale amore dunque “dalle  vostre poppe slattato con l’aloè di questa amara partenza, si pascerà all’avvenire co’l cibo solido del massiccio mio affetto, nè volarammi dal seno, prima che dal mio seno esali la vita mia: anzi, dopo morte ancora viverà eterno nella mia mente d’immortale cibo pasciuto, che ben di cibo immortale egli è capace, essendo di sostanza tutto spirituale. Amando sempre io dunque, starò sempre desiderando di nuovamente servirvi; e già questa brama è una gravidanza matura d’animo amante, vedete, Signori a qual termine amandovi, io son ridotto, che sin’a tanto che l’effetto di servirvi non segua, starò sempre co’ dolori del parto. Pregate voi almeno che favorevole Lucina mi sia la gratia dal Cielo, acciocchè presto avventurosamente un nuovo maschio Quadragesimale figlir’io possa alli servigi vostri già inaugurato...”. “E quinci sian le nostre orecchie sazie,|| chè perder tempo a chi più sa, più spiace”. Crediamo, infatti, inutile qualsiasi commento, che a stento si potrebbe astenere dalla insolenza.

 Jannaco discorre ancora di altri predicatori barocchi: Luigi Giuglaris di Nizza (1607-1653), Tommaso Caraffa (Dicerie,stampate nel 1631, 17 anni dopo la sua morte) e Giacomo Lubrano (1619-93: napoletani entrambi). Se non altro per la titolatura, le “Sacre ringhiere” di Fr. F. Frugoni invitano ad accostarle allo sbracato stile dell’Orchi: ma il Frugoni aveva almeno un cervello più  vario e brillante, anche se non molto più profondo od organizzato.

Fedeli alla serietà del contenuto ed alla sobrietà della forma restarono particolarmente i figli di S. Filippo Neri (gli “Oratoriani”).

Anche il più famoso predicatore del secolo, il gesuita p. Paolo Ségneri[51]  si astenne dalla moda imperversante, almeno nella sostanza. Nativo di Nettuno (1624: morirà a Roma nel 1694), alunno del Collegio romano ed entrato nella Compagnia di Gesù a tredici anni, fu destinato alla predicazione al popolo, nonostante il suo desiderio di portarsi invece nelle missioni tra i non cristiani. Si preprarò con lo studio approfondito delle sacre Scritture e dei Padri della Chiesa, dei libri di Agostino e Tommaso, di Teresa d’Avila e di S. Ignazio; ma anche con la lettura delle orazioni di Cicerone. Dal 1651 al 1692 predicò in gran parte d’Italia, specie negli Stati pontifici ed in Toscana. La predicazione più impegnativa era quella dei Quaresimali, che occupavano quotidianamente tutto il periodo prepasquale. Nel 1679 fu pubblicato il suo Quaresimale: ebbe molte edizioni ed ancora oggi lo si può consultare con frutto, per la ricchezza del contenuto e la chiarezza e forza della esposizione. Ma per capirne la efficacia (concorso di folle e conversioni clamorose, stima e richiesta anche di personaggi potenti, come Cosimo III di Toscana, che se ne servì per missioni delicate e lo fece  membro della Crusca; e papa Innocenzo XII, che due anni prima della morte lo chiamò in Vaticano come predicatore apostolico e  teologo della Penitenzieria) occorre tener presente anche la penitenza con cui p. Segneri personalemente concludeva la predicazione (flagellazione pubblica sul pulpito) e che  esigeva anche dai fedeli, con la organizzazione di processioni penitenziali. Egli segue uno schema di predicazione comune ai suoi tempi: divisa in due parti (una pausa di riposo e di riflessione le separa), “nella prima, la più lunga e nutrita, abbiamo la dimostrazione del tema e il vero e proprio svolgimento, mentre nella seconda parte... avviene la perorazione conclusiva, destinata al riepilogo della materia ed al sommovimento degli affetti”. Quando il tema è propriamente morale, la oratoria del Segneri è incisiva e davvero efficace, con una sua forza trascinante, ottenuta anche con ripetizioni di brevi sentenze assiomatiche, che traggon valore dalla fede o dalla evidenza razionale: sono frasi latine che valgono come pro memoria di tutta la dottrina spiegata con ragionamenti filosofici, con esempi storici, con episodi della Sacra Scrittura, con l’esperienza di tutti i giorni. Ora, per incitare alla fuga delle cattive compagnie, vi è, martellante, il monito “Stabit ex adverso” (si ergerà come avversario)  a richiamare che  il consigliere malvagio non si alzerà a discolpa al tribunale di Dio, ma sarà invece un accusatore impudente e pervicace; ora, per ricordare l’amore con cui Dio ci segue e ci vuole salvi, si richiama a molti casi di amore materno, nei pericoli sia fisici che spirituali dei propri figli. Ecco, questo richiamo generico non è che una avanguardia dei molti esempi storici e persino di novelle, di scenette riportate dal vivo (terrificanti come quella dell’uomo che muore impenitente per morboso attaccamento alla donna con cui aveva convissuto scandalosamente; ovvero consolanti, come quello di Dio che ama l’uomo come questi ama i propri lavori: come la donna, ad esempio, ama il ricamo che ha fatto colle proprie mani): era un materiale  così significativo, che ne furono fatte stampe a parte in diversi volumetti.  Diciamone pure anche i limiti: egli, certo, si rivela più sensibile ai temi  della morale naturale (le virtù e le opere buone, i vizi ed il peccato, il timore di Dio e la chiamata a conversione attraverso il sacramento della Penitenza) che a quelli della religione soprannaturale (la adozione a figli di Dio, l’Amore di Dio, la eredità del Paradiso, la dimensione sacramentale della Chiesa...); egli, per inclinazione congenita e per formazione umanistica antiluterana,  sente più fortemente la parte che deve avere l’uomo nell’opera della salvezza, la sua responsabilità, pur senza rinnegare la necessità della Redenzione e della Grazia[52]; egli non ha la magnificenza della mente di Dante (o di Bossuet, per citare un contemporaneo francese, come fa giustamente Jannaco) per elevarsi a tematiche universali che rivivano il senso provvidenziale della storia passata o si proiettino profeticamente verso quella futura... Pur tuttavia resta, oltre che un pensatore di non comune livello, uno psicologo acuto e talora anche profondo, un comunicatore eccezionale: forse più adatto ad un uditorio medio che ad uno di professori o studenti di Università, ma certo straordinario nel fascino ed efficacia della sua parola sulle masse; ma certo anche un catechista che non si  asteneva dal trattare il problema sociale sull’uso della ricchezza; ma certo un santo che viveva, anche nella penitenza, la passione di  annunciatore del Vangelo e convertitore di anime.[53]

 

                        IL TEATRO BAROCCO

Si è già parlato del “Teatro dell’arte”, cioè della “Commedia improvvisa o delle maschere”.

Oltre a questa produzione, occorrerà tener presente la esistenza di altre tecniche più vicine al teatro regolare, perchè imitato su quello spagnolo contemporaneo. Ma mentre questo poteva contare su alcuni compositori geniali,[54] da noi si imitò soltanto il sottobosco plebeo delle rappresentazioni eroicomiche, romanzesche, violente, truci o buffonesche, che non si differenziavano, nello spirito, dal teatro dell’arte improvvisa. Un aiuto provvidenziale per conservare un minimo di dignità a simili rappresentazioni fu dato dalla Chiesa con la censura. Sappiamo in particolare, da Niccolò Barbieri (Discorso famigliare intorno alle commedie, Venezia, 1628, pp.54-5: cfr. Jannaco, p. 370), della convezione tra S. Carlo Borromeo ed i Comici. Riferisce lo Jannaco che tutto il Discorso del Barbieri tende a sostenere la necessità di “distinguere la comedia honesta dall’inonesta”; e che la  efficacia di tale opera della Chiesa  fu questa: “ora la comedia è corretta in modo che si può recitare sino ne’ Monasteri”.

Nessun’opera  merita di essere ricordata. 

Va qui notato che i primi luoghi di rappresentazioni teatrali al coperto furono le corti o le case di grandi signori: erano aperte gratuitamente, ma solo dietro invito e riservati, quindi, ad élites di gente benestante ed acculturata: Mantova, Firenze e Roma (il palazzo Barberini, dei parenti di papa Urbano VIII,  aveva una sala capace di tremila spettatori). I primi teatri pubblici, a pagamento ma aperti a tutti, furono edificati a Venezia (1637) e Firenze (in via della Pergola: 1657): nel corso del secolo, ben altri sedici teatri  pubblici vengono  inaugurati (Garzantiana, p. 474). L’impetuoso successo di simile nuovo trattenimento fa moltiplicare la quantità dei libretti, a scapito di  verosimiglianza nella trama e dignità della forma. La sola musica è attesa con impazienza negli assolo (cavatine) dei cantanti.

Circa il nessun valore del teatro improvviso, si veda p. 381 del “ Settecento” garzantiano..

 

 

 

LA LETTERATURA DEL MILLESEICENTO NON SECENTISTA

 

NON TUTTA LA LETTERATURA DEL MILLESEICENTO E’ SECENTISTA.

Benchè non proprio impermeabile a qualche spiffero della moda imperversante, tuttavia complessivamente tradizionale, classica, sobria, aderente alla realtà rimane la prosa in Toscana, dove la maschera regionale di Stenterello non sarà solo sinonimo di “ parsimonioso” nel danaro  (che “stenta” a dare), ma anche “sobrio di parole” (le misura sulla ragione e non sulla fantasia).[55]

In genere, poi, gli scienziati, gli storiografi più in vista ed i politologi (i trattatisti di tacitismo) rimangono fedeli ad una prosa asciutta e filosofica, mentre anche gli scrittori di poemi epici e di tragedie si mantengono lungo la linea classico-tradizionale, cioè nei limiti di una espressione severa. Lo stesso poema eroicomico concede alla moda quel tanto di “sproporzione” che serva a destare comicità, attraverso la contrapposizione fra dizione ed intenzione, fra espresso direttamente e suggerito implicitamente: è la tecnica della comicità indiretta od allusiva. Nella stessa produzione lirica, vi è un gruppo di poeti che si attengono alla (o rifluiscono verso la) classicità più rigorosa, salvo ad aggiungere alla imitazione dei poeti latini, quella dei greci, dal lieve e femmineo Anacreonte al solenne e maschilissimo Pindaro: sia pure su traduzioni latine,la lirica greca è ben presente a Gabriello Chiabrera, ad Alessandro Guidi, a Fulvio Testi ed a Vincenzo Filicaia. Nella “conversione dal marinismo al classicismo” del Guidi e del Testi vi è anzi la testimonianza patente del declino nel primato spagnolo e dell’imporsi della cultura francese, dopo la pace di Vestfalia: subentra il modello di una cultura nata da un temperamente razionale, introverso, orgoglioso, riservato, autolesionista e sottilmente nevrosico, rispetto alla psicologia iberica (o visigotica?) intuitiva ed estroversa,  millantatrice ed esuberante, presuntuosa e sovrabbondantemente vitale.

 

                        LA POESIA NON SECENTISTA

 

LA POESIA TRAGICA

 

Daremo spazio specialmente alla produzione dei collegi gesuiti, perchè quantitativamente dominante; ed a quella di Federico Della Valle e di Carlo de’ Dottori, perchè essi ci han dato le cose migliori del secolo.

I Gesuiti, per il loro teatro, si ispirarono alle “Commedie dei santi” spagnole, che non si preoccupavano di regole classiche e si concedevano al gusto del pubblico, mescolando nelle trame realtà e romanzo, materia sacra e scene profane. Nelle tragedie,  gli autori gesuiti, per motivi   sia di edificazione religioso-morale, sia di semplice  divertimento pei giovani collegiali, indulgono al meraviglioso attraverso non solo la componente soprannaturale ed eroica, propria della realtà di molti santi, ma anche attraverso quanto la leggenda riconosciuta o le tradizioni romanzesche dei secoli medioevali, storicamente disinformati, metteva loro a disposizione. Ne nascono rappresentazioni altrettanto inverosimili e superficiali quanto la più parte della produzione laica del tempo, che non escludono neppure le peripezie ed agnizioni di origine greco-latina.

Meritano un ricordo Ortensio Scarmacca, gesuita siciliano (1562-1648) che scrisse 45 tragedie, in cui va riconosciuta la serietà e l’impegno etico, oltre che storico e critico: egli si appassiona nella discussione della legge naturale con razionalità acuta, che pur non attingendo la poesia, si atttira interesse e stima. Inizia una guerra contro la mitologia pagana che trionferà col Romanticismo: nel suo Oreste, egli sostiene, con la legge morale più ovvia, che non tocca ai figli (Oreste, appunto) punire le colpe dei genitori  (Clitennestra) e che la scusante del “fato” è un assurdo di comodo. Anche il mito della fatale Elena, la cui bellezza giustificherebbe la guerra di Troia, è smantellato e ridicolizzato.

Emanuele Tesauro, scrivendo l’Ermenegildo, rinnova la casistica  drammatica, fornendo nuovo ossigeno al materiale “tragediabile”, fermo altrimenti alla stanca ripetizione delle trame mitologiche antiche. Il che si può dire anche del Cromuele (1671) di Gerolamo Graziani: l’autore ( 1604-1675: poeta alla corte di Modena, scrisse anche il poema epico Il conquisto di Granata) non è, dunque, un gesuita, ma cooperò a rompere le rigide regole classiche ed a fornire nuovi motivi ispiratori al teatro, nell’ambito di una interpretazione cattolica della storia recente. Possiamo aggiungervi i drammi edificanti del francescano (Minori osservanti) padre Benedetto Cinquanta: Il ricco epulone (1621), La peste del 1630 (forse la migliore), Il figliuol prodigo (1633), Il fariseo e il pubblicano (1634), Santa Agnese (1635).[56]

 

Federigo Della Valle, nato attorno al 1560 nelle Langhe (Asti), morì nel 1628[57]. Passò dal servizio dei Savoia a quello degli Spagnoli a Milano, dove pubblicò due tragedie bibliche ed una di storia moderna: Iudith (1627), Esther (idem), La reina di Scotia (1628). Aveva composto una tragicommedia (Adelonda di Frigia) pubblicata postuma (1629) e qualche altra opera poetica minore. Nell’Adelonda due tempeste di mare separano e poi riuniscono due fidanzati di rango regale, che cadono nelle mani delle Amazzoni e devono sacrificare od essere sacrificate all’idolo dell’isola.

Importanti davvero sono le tragedie, due delle quali però peccano delle loro...virtù. Il Della Valle, infatti è un poeta lirico, cioè contemplativo, con poco senso del movimento e dell’azione. I personaggi rivivono situazioni passate e si proiettano verso quelle future, ma debole rimane la trama, che si svolge quasi più fuori, nelle quinte, che sulla scena. Degli stati d’animo contemplativi, gli è più congeniale quello elegiaco: una tristezza nobile, pensosa, quasi una patina di timidezza e rassegnazione, una nebbia di pessimismo e abbandono, che domina la vicenda e sostituisce gli scontri drammatici ed il terrore pei pericoli e la morte imminente. Tale atmosfera caratteristica permea sia La reina di Scotia che termina con la morte violenta dell’eroina protagonista (Maria Stuarda) sia la Judith e la Esther che invece vedono –sia pure solo alla fine- il trionfo dei personaggi cari all’autore ed ai lettori cristiani. E’ un’impronta digitale, un’aura poetica che firma i versi dello scrittore, indipendentemente dal motivo ispiratore.

Il Della Valle fu probabilmente il primo a mettere in scena la vicenda tragica di Maria Stuart, prigioniera e vittima della cugina Elisabetta d’Inghilterra: la scene più lodate sono in II, 2 e IV, 1, entrambe mestamente, non tragicamente intonate.

La Esther vive più di un principio politico-psicologico (l’incostanza del potere regale) che della paura per l’imminente massacro del popolo ebraico. Anche Mardocheo, il rappresentante più consapevole dell’addensarsi della tempesta sul popolo in esilio, è personaggio flebile e timoroso, non tetragono e combattivo. Il personaggio malvagio, Aman, che vuole la morte di Mardocheo e del suo popolo perchè si è rifiutato di adorarlo, è reso più degno di compassione che di obbrobrio per il contesto creatogli attorno da Della Valle (è la moglie Zares che sobilla la sua superbia alla congiura di morte). Ester non occupa il posto centrale nell’opera: l’autore non ha saputo farne un  personaggio psicologicamente risoluto, intraprendente, magnanimo, all’altezza della situazione, che dovrebbe lacerarsi fra insulti di disperazione, volontà di reazione ed  esaltazione al martirio.

Capolavoro dello scrittore e più vicino allo spirito tragico è la Judith: vi è in essa azione e dinamismo, intraprendenza eroica e situazione formidabile, sviluppo di vicende ragionevolmente adeguate al rovesciamento della situazione. L’azione si impernia sul contrasto fra due personalità volitive e risolute in senso opposto: Oloferne (il generale che assedia la città ebraica di Betulia) è passionale ed orgoglioso, sprezzante ed aggressore; Giuditta (la giovane vedova avvenente) è casta ed umile, fiduciosa solo in Dio e consapevole del dovere di un’uccisione  progettata solo in nome della legittima difesa. Essi incarnano e sintetizzano in sè  non solo due situazioni di fatto (il campo assiro, che è luogo di empietà, sensualità, presunzione e violenza; la città di Betulia, che è invece un’oasi di virtù, di relgiosità, di sofferenza), ma anche due concenzioni di vita in perpetua lotta fra loro: la città del mondo, potente di armi e di ricchezze, ma disorientata nella empietà  ed  in preda all’edonismo; quella di Dio, umanamente disarmata, ma  luminosa per la fede e coerente nella vita morale. Ritorna il confronto fra Davide e Golia. Nel contrasto, all’inizio tutto è favorevole all’assalitore pagano e prepotente, ma alla fine Dio darà la vittoria alla virtù, disarmata ma fidente in Lui. Il campo assiro è vittima dei suoi vizi: Oloferne succube del vino e della libidine, è sorpreso da Giuditta mentre, in attesa del piacere, è caduto in preda del sonno; a preparare la disfatta universale, serpeggia nel campo assiro un senso di disordine e di dissolvimento dopo il banchetto orgiastico. Il presentimento della fine precipita in panico e disperazione quando esce sulla scena Giuditta, vittoriosa di Oloferne, cui ha reciso il capo: allo sbando dei guerrieri assiri si oppone l’entusiasmo del popolo di Betulia che, accese le luci sulle mura della città, accorre a completare la vittoria.

Questa vicenda psicologicamente così ben congegnata è piaciuta molto ad Attilio Momigliano, che ha proclamato capolavoro l’opera, nella sua Storia della Letteratura italiana (Milano-Messina,Principato, 1935). Capolavoro, sì, rispetto alle due precedenti e smorte tragedie, ma non in assoluto. Si pensi che, nell’atto finale, la scena  del banchetto orgiastico rimane celata nella tenda di Oloferne, sullo sfondo  del palco, sicchè tutti i momenti salienti (baldanza iniziale, richiesta del generalissimo alla accondiscendenza della fuggitiva ebrea, attraverso il suo  luogotenente Vagao, ebbrezza dei convitati) sono narrati sulla scena da soldati che escono dal convito, in dialogo con il coro. Rimane cioè il “peccato originale” della staticità e “contemplazione” a scapito del dinamismo, movimento, drammaticità. Occorre che attori eccezionali traggano brividi di commozione in un pubblico già ben disposto ad una specie di “sacra rappresentazione”, in stile solo “quasi classico”, perchè i molti settenari mescolati agli endecasillabi lo avvicinano ad un dramma pastorale.

 

Carlo de’ Dottori. Di nobile famiglia padovana, visse fra il 1618 ed il 1685. Egli stesso mise in versi la sua esistenza con le Confessioni, che già dal titolo agostiniano fa presentire la vita di sbandamento morale,dapprima e la conversione, poi. Della vita e delle opere minori  rimandiamo in nota i particolari più salienti.[58]

La tragedia Aristodemo la comprenderemo meglio tenendo presente quanto dell’autore dice Francesco Flora: “Uomo di umor melanconico, di spiriti veementi ed estrosi, in una vita spesa talvolta senza misura, il Dottori non poteva dissiparsi nel facile riso: c’era nel fondo della sua anima, nell’orgoglio del suo sangue impaziente ed amaro... un sentimento tragico delle cose: e questo si manifestò nella tragedia Aristodemo... la più grave e lirica che abbia il Seicento, in uno stile rattenuto ed essenziale anche nei motivi descrittivi” (Storia della Letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1947, II, II, pp. 781-5). Noi parlemmo, più sinteticamente, di un temperamento collerico, trascinato all’azione impulsivamente e variabilmente, secondo le coordinate “emotivo| attivo| instabile o primario”.

Il motivo è classico: è un episodio narrato da Pausania come avvenuto nelle guerre tra Sparta ed i Messeni. Questi temono la sconfitta per il sacrilegio compiuto da due giovani che, durante una incursione, hanno fatto credere di essere Castore e Polluce. L’oracolo di Delfo impone, come espiazione, il sacrificio di una fanciulla della nobiltà più autentica dei Messeni. Due le possibili candidate: messe nell’urna, è destinata Arena e salvata Merope, figlia di Aristodemo. Ma il padre di Arena fugge con la figlia sicchè Aristodemo, pur spedendo un arciere ad inseguire Arena con l’ordine di ucciderla, decide di sacrificare la figlia. Il fidanzato Policare, giovane ardente ed innamoratissimo della mite Merope, più disposta al sacrificio e quasi da sempre presaga del fato triste che le incombe, tenta uno stratagemma: inventa una gravidanza della candida Merope, che, non essendo più vergine, non varrà più come vittima accetta di riparazione. Il disorientamento di Aristodema sospende quella che sembrava la catastrofe ovvia dell’azione: egli acconsente al matrimonio della figlia. Ma poi si riprende: egli deve in coscienza punire la figlia che ora è due volte sacra alla giustizia, del popolo e degli dei. E si precipita lui stesso a sopprimere Merope, che non s’attende un tale immolatore!. Anche Arena è stata raggiunta e uccisa, ma si scopre che essa pure era figlia di Aristodemo! Questi, allora, si suicida.

La figura di Merope è, almeno nella stesura definitiva del 1657, concepita in chiave prettamente religiosa, anzi cristiana: Merope si sente la vittima destinata a liberare il suo popolo col proprio sacrificio ed aderisce intimamente con umiltà e vera “pietas” a questa vocazione straordinaria. Ma, poi,  accade per lei quello che avviene per le figure create dal Della Valle: il personaggio declina verso l’elegia anzichè rimanere nella sfera del dramma: non l’Antigone, ma la Elettra di Sofocle è il suo riferimento classico. La figura di Arostodemo, viceversa, è troppo tagica: il suo agire diventa un agitarsi, il suo procedere diventa maniacamente razionalistico, anzi sofistico: il suo modo di ragionare è un sillogismo paranoico, un entimema, cui manca sempre un elemento per abbracciare tutta la verità e dedurne una regola di comportamento ragionevole, umana. Per questi due  personaggi –l’uno imperfetto per mancanza di forza e l’altro, per eccesso di violenza- la tragedia stenta a convincere: cade nell’inverosimile. Che poi nella sua illogica coerenza siano coinvolti problemi di politica machiavellico-tacitiana; che, cioè, il senso del dovere si confonda con l’orgoglio di salvare l’onore e la figura sociale del capo (l’imperterrita giustizia  lo rende degno del regno), questa è una componente secondaria, storico-sociale, che ha facilitato il disorientamento nella coscienza di Aristodemo, il quale però è “vittima” anzitutto e soprattutto della psicologia sviata e disequilibrata  del suo creatore, Carlo de’Dottori.

Questi difetti non tolgono che nell’opera vi siano versi  e brani toccanti. Il passo migliore è la espressione di Policare, che non vuol rassegnarsi alla morte della promessa: alle parole con cui  Merope lo esorta ad una maggior fortezza d’animo, a trattenere le lacrime, risponde commosso: “piango le cose umanamente amate” (atto III, scena 3).


[1] Nel Canzoniere (che, nel 1601, raccolse i Madrigali e le Rime già editi nell’ultimo decennio del Millecinquecento;  ed al quale si aggiunsero le “Rime nuove” nel 1603) egli dimostra una certa fatica nella costruzione del verso, sicchè singole parole o immagini intere assumono forme strane più che sorprendenti. Così  la punta di una onda gigantesca è detta monte; così il verbo “oltraggiare” sta per “superare le onde del mare, gettarvi un ponte sopra ”  (“Ecco d’onda spumosa ogni gran monte| d’altezza gareggiar non che di moto...”; “ma candido voler, ma cor devoto| oltraggia il gonfio mar d’un ricco ponte...”); così si avviano all’ermetismo immagini come queste: “Gemme de l’Appennin, frondose piante,| ornamento alla selva e reti al vento, | scatenate a la danza il piè d’argento,| scosso più d’un amor dal sen pregnante”.

[2] Abbiamo posto in corsivo le due “vivezze od agudéze o concettini” più clamorosi. Inutile spiegare che le “due stelle” che, assieme, formano e gareggiano col sole, sono gli occhi della donna amata.

[3] Il primo a paragonare gli occhi delle gatte (nell’ospedale di Sant’Anna) a due fuochi accesi, a due lucerne nel buio è stato il Tasso in un suo sonetto giocoso.

[4]E’ B. Croce nei due volumi di  “Saggi  (e “Nuovi Saggi”) sulla Letteratura italiana del Seicento”, Bari, Laterza, 1911| 1929, ad aver sgrovigliato la matassa dello scherzo ingiurioso orchestrato dallo Stigliani contro il Marino. Si tratta di questo. Come egli aveva già foggiato versi strambi nell’ultimo libro del suo Canzoniere (1623), per  satireggiare la moda secentista (ed in pariticolare il caposcuola, a lui ormai ostile), così ne l’Occhiale  (1627) egl inventa versi con giochi di parole semplicemente ridicoli, ma li attribuisce a due presunti verseggiatori secentisti, seguaci del Marino. Si chiamerebbero Vanetti e Sissa: il primo, autore di Rime; il secondo, di Idilli. Eccone il fior fiore, sulla scia dei Nuovi Saggi del Croce, a p. 12-14: “Ove in ceruleo trono il dio salato| coll’acquatico rostro all’onde impéra” (Nettuno che governa le onde con il tridente: onde la satirica accusa al Vanetti di aver convertito Nettuno in baccalà!); “il cristato bargel de le galline” (il gallo); “candido camerier del Re raggiante” (il crepuscolo); “fioriscon gemme e gemmano fioretti” (all’apparire delle belle nife); “Saliva dagli Antipodi ai Postipodi| il radioso tesorier del Numine,| a cui son sacri i delficani tripodi” (il sole, venerato dai greci, come Apollo –cui è sacra Delfo-  percorreva il cielo dall’aurora al tramonto); “ricamato a macigni il corpo mostra” (S. Stefano, primo martire)... Per far valere la invenzione calunniosa, egli non esitò  a far pubblicare una finta lettera del Marino,  quasi risposta ad una sua che gli omaggiava i volumi dei due inesistenti poeti, che il Marino  dichiarava (pretende lo Stigliani) “felicemente arditi” nelle metafore. Gli amici del Marino (ormai già morto) scoprirono l’inganno e scesero in campo ancor più incolleriti contro lo Stigliani...

[5] Riportiamo il madrigale “Sparge Amarilli mia di nere croci| del seno il latte, ond’io| con la vista nudrìa il bel desio:| Deh, che sperar più deggio,| misero me!, se veggio| scritto, mirando in sì bel foglio intento,| con caratteri infausti il mio tormento?”  L’altro madrigale (su un appuntamento notturno mancato, nonostante la promessa della donna)  ed il sonetto (la soddisfazione del poeta nel contemplare il seno della donna) sono più realistici. Dopo di che l’Achillini è il tipo che ammonisce le donne circa la effimerità della loro bellezza; e gli amanti, circa la necessità di sciogliersi dalla schiavitù d’amore, perchè  vecchiaia e morte incombono su tutti (canzone senza rime, scritta per recita in teatro).

[6] Il sonetto “Fra la solitudine della villa biasima la corte” descrive il paesaggio campestre (anzi “selvaggio”, cioè boscoso) con diciassette sostantivi e diciotto aggettivi, raccolti nelle due quartine (“Verdi poggi, ombre folte, ermi mirteti...”) che non riescono a defnire una atmosfera lirica: le terzine completano il  silenzio lirico, con una minor chiarezza nell’elogio alla solitudine della natura contro la vanità delle corti.

[7] Ecco, da “In morte di Nicea”, la terzina conclusiva: “Chè senza lei, che sovra i cieli è gita,| un’oscura prigion mi sembra il mondo,| una morte crudel parmi la vita”; ecco la seconda quartina di quello per “Bella di nome Mercuriola...”: “Provo, in un punto sol, la state e’l verno,| e sono insieme misero e contento| in fra speme e timor, gioia e tormento,| e nel ciel mi ritrovo e ne l’inferno”; ecco la finale del sonetto “Lidia invecchiata vuol parer giovine”: “Stanca pur l’arte, il tuo primier colore| mentisci pur: chè nel tuo volto fai| un sepolcro dipinto al morto Amore”....

[8] La citazione dal Qoélet (1, 13) è nei versi 132- 5 della canzone “Della miseria e vanità umana” (la ricerca dei “perchè” del mondo e della vita è “travaglioso pensier, insana cura,| che forse il Cielo diede| per occupar de l’uomo| la curiosa mente...”). Ed ecco il sonetto su Lidia invecchiata: “Ah come poco  incontra il tempo dura| di caduca beltà raggio terreno,| che sen fugge qual rapido baleno| e ritenerlo invan l’arte procura.|| L’etade, o Lidia, al crin gli ori ti fura| e gli ostri al volto e gli alabastri al seno,| e turba della fronte il bel sereno,| e de’ begli occhi il chiaro lume oscura.|| Nel Giardin de le Grazie e de gli Amori| solca indiscreto il vomere degli anni| non perdonando ai più leggiadri fiori.| E tu sciocca cultrice in van t’affanni,| che per nutrir d’esca mentita i cori| vai tra que’ solchi seminando inganni”.

[9] Della canzone “A Iola” che racconta i viaggi fatti  con le navi maltesi dei Gerosolomitani in caccia di navi turche , non senza scontri e catture, da Malta alla Sicilia, dalla Libia alle isole greche dell’Ionio, citiamo sparsi versi citabili: “Freme il ciel, mugge il mar, rimbomba il lido” (148); “Fugge timido il giorno| tra dense nubi ascoso,| che celando l’orror l’orrore accrersce” (153-5). Ecco un concettino per dire come, tra le rovine di Alicarnasso, stanno i resti di una delle sette meraviglie del mondo antico, il sepolcro che Artemisia fece erigere al marito Mausoleo. “chè tra l’arena e l’erba| è lo stesso sepolcro ancor sepolto”. Dell’altra intitolata “Della miseria e vanità umana”, ecco la finale, uguale per  ognuna delle undici stanze: “Misera sorte umana,| e che cosa è qua giù che non sia vana?”; ed ecco la seconda strofa che dà una idea generale dei 267 versi: “E’ la vita mortale| vana un’ombra che passa,| lieve un’aura che fugge;| quasi a’ raggi del sole opposta nebbia,| che tosto si dilegua;| un lampo che, venendo, è già sparito;| un fior che, nato appena,| o lo rode la greggia,| o lo tronca la falce,| o lo svelle l’aratro,| o lo recide l’unghia,| o lo calpesta il piede,|o turbine l’abbatte,| o grandine l’oltraggia,| o da soverchio ardor, soverchio gelo,| inaridito inlanguidito cade.| Misera sorte umana,| e che cosa è qua giù che non sia vana?”

[10] G. Guido Ferrero nelle note del volume 37 della Ricciardiana, dedicato appunto a “Marino e i Marinisti”, parla di preromanticismo e fa riferimento all’Alfieri: la cosa mi sembra vera a metà, cioè solo per la musicalità sostenuta, drammatica, chè la forza con cui Alfieri vive e sente il contenuto è notevolemnte superiore. In senso opposto, allora, si può e si deve accennare anche ai precorrimenti leopardiani:  benchè in un musicalismo ben diverso, pure alcuni pensieri sembrano usciti fuori dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, non solo in questo verso (che ritroviamo in G. Fontanella).

[11] Ecco anche i due sull’ “Orologio da polvere”. Il primo: “Poca polve inquieta, a l’onda, ai venti| tolta nel lido e’n vetro imprigionata,| de la vita il cammin, breve giornata,| vai misurando ai miseri viventi.|| Orologio molesto, in muti accenti| mi conti i danni dell’età passata,| e de la Morte pallida e gelata| numeri i passi taciti e non lenti.|| Io non ho da lasciar porpora ed oro;| sol di travagli nel morir mi privo;| finirà con la vita il mio martòro.|| Io so ben che’l mio spirto è fuggitivo;| che sarò come tu, polve, s’io mòro,| e che son come tu, vetro, s’io vivo.” Il secondo: “Polve cadente in regolato metro| mi va partendo in ore il giorno e l’anno,| ma nè pur una, oimè, scarsa d’affanno| dal mio duro destin già mai n’impetro.|  La cuna addita l’un, l’altro il ferètro,| di quei duo vetri che congiunti stanno;| e dritto è ben che segni il nostro danno| e la polve inquieta e’l fragil vetro.|| Con l’acqua i Greci opra simìl formaro,| che per quelle stillava anguste porte;| ma ne la polve alfin l’onda mutaro.|| E tal si volge ancor la nostra sorte:| poi ch’è de l’uomo in questo mondo amaro| pianto la vita e cenere la morte.” Ed ecco l’orologio da sole: “Con l’ombra sua del sole i giri immensi| misura un lieve stilo al sole esposto;| e ben di questo dì, che muor sì tosto,| l’ore con l’ombra misurar conviensi.|| Di quell’ombra al girar forza è ch’io pensi| che co’ suoi passi al tumulo m’accosto;| nè m’è il tenor di quelle note ascosto:| parlan del mio morir con chiari sensi.|| Saette son, ch’avventa arco di Morte,| quelle linee ch’io miro; e’n van riparo| di tempra oppongo adamantina e forte.|| A lo splendor del sol veggo pur chiaro| che del giorno vital son l’ore corte;| e ch’io son vanità da l’ombra imparo.” Anche il sonetto “Al sonno” conclude con riflessioni sui Novissimi: “Ma ciò che mi ti rende assai più caro| è ch’all’orror dell’aborrita morte| io col tuo mezzo ad avezzarmi imparo”.

[12] “Sognato tridente” significa: mitico tridente (di Nettuno, con cui i pagani credevano fossero scossi la terra e il mare). Si noti che il secondo sonetto sul terremoto termina con più di un concettino: “L’anime, che stanno a tanto moto immote,| addormentate elle non son, ma spente”. 

[13] Anche l’inizo d’anno è occasione a pensieri tetri e drammatici, che non son guastati da scontri di parole, purtroppo veri: “Già rinovato è l’anno. Ah come corte| l’ore son de la vita! Omai vicine| fansi le méte estreme, e solo al fine| fia che ’l novo anno un novo mal n’apporte.|| Ei fanciul fa noi vecchi; e ognor più forte| cresce a recare altrui danni e ruine.| Causano i suoi princìpi il nostro fine,| e le nascite sue la nostra morte.|| Pur ieri ei nacque, e con novel candore| le nevi oggi apparir canuto il fanno;| ma’n vecchio aspetto ha giovenil vigore.|| Come rapido il tempo in nostro danno| fia che voli a portarne a l’ultim’ore,| se, nato appena, incanutisce l’anno|”.

[14] “Nasamone” era un popolo della Cirenaica, paese caldo; “Mosco” sta per Moscovita, in paese freddo.

[15] Pur mantenendo la musicalità forte, di cui parliamo nel testo, ecco un sonetto  (Per lo tirar di balestra a gli uccelletti) in cui l’incertezza od ambiguità del motivo ispiratore (dinamismo felice della caccia| riflessioni sul paesaggio e sulla vita umana) conclude ad una dissolvenza incrociata, alternando accenni di epicità, di malinconia, di retorica concettista (ultima terzina): “Spesso men vado, accompagnato o solo,| co’ passi lenti misurando il piano,| e di tosco istrumento armo la mano (è la balestra caricata a palle di terra rassodate, forse inventata in Toscana)| a guerreggiar contro il pennuto stuolo.||Quindi per torre agli augelletti il volo| volan globi di creta; e il pensier vano,| pur come augello, intanto erra lontano,| or in mar, or in terra, or sovra il polo.|| Ma la balestra mia spesso non erra,| scoccando ad or ad or colpi fatali,| onde gl’incauti volatori atterra.|| Apprendete timor, quindi, o moratli:| ecco chiusa è la morte in poca terra,| e per fuggir da lei non bastan l’ali”.

[16] Avremmo voluto scrivere “facilità e felicità descrittiva”, perchè abitualmente tale è la sua abilità a delineare cose ed azioni, ma abbiamo dovuto correggerci. In realtà le descrizioni scorrono chiare e piane, ma non proprio del tutto. Si legga questa strofa, che pur riesce a conservare un impeto epicizzante, che si perde poi nel resto del sonetto (“Alla remora”): “Va torreggiante in su le vele a volo| spedita, a tutto andar, nave corrente;| di ricche merci e di guerriera gente,| scorre con aura amica infido suolo”. Ebbene: a parte ripetizioni (spedita| corrente| a volo), vi è la banalità del “a tutto andar”; l’assenza dell’aggettivo “carica, fornita” di ricche merci del terzo endecasillabo; l’imprecisione dello “scorrere un infido suolo”, nel quarto. La chiusa del sonetto “Al garofalo” è banale nel primo verso (“Di rogiada o di linfa egli si pasce”), ermetico negli altri tre versi, che vogliono celebrare la capacità di moltiplicarsi per semplice talea e vanno a  tirare in scena l’idra di Lerna per dirne la capacità di risorgere nelle sue parti tagliate (“sorge, reciso e, pullulando ardito,| quasi mostro lerneo sempre rinasce”). Anche l’ultima terzina del sonetto “Ai capelli” ci sembra una sciarada: “e canuti in età pur belli siete:| benchè in neri cangiar vi veda il mondo!” (che voglia dire che i parrucchieri sapevano già nel Milleseicento decolorare i capelli, rifacendoli neri?).

[17] Le parole che scriviamo in  corsivo sono spie acute della permanente condanna, pur nella complessiva celebnrazione. Anche in altre delle strofe centrali si trovano  espressioni denigratorie: “ambiziose voglie| languido corpo| donzellette lascive| altéra scena...”.

[18] “Lo schioppo”: “Questa di man germana (germanica) opra guerriera,| se di zolfi nitrosi accende il seno| ed a piombo pennuto allenta il freno,| fulmine par de la tonante sfera.|| Svena in mezzo al fuggir partica fera,| benchè, rapida il piè, scorni il baleno,| e di subita morte atro veleno| porta ne’ globi alla volante schiera.|| Erutta il tuono e partorisce il lampo,| fa d’estinti guerrieri il suol fecondo,| e di vermiglio umor lastrica il campo.|| Lascia, o Morte, la falce, inutil pondo,| e con l’ordigno, a cui non giova scampo,| dal mondo impara a fulminare il mondo”.  “Democrito ed Eraclito”: “Democrito tu ridi e col tuo riso| tutte le umane cose a scherno prendi,| e, sia del fato o mesto o lieto il viso,| con lieto viso ogni accidente attendi.|| E tu col mento in su la destra assiso| piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi:|forse che quanto è fra di noi diviso,| lacrimosa tragedia esser comprendi.|| Ma siate pur al pianto o al riso intenti:| chè ’l riso e’l pianto a me rassembra intanto| vano delirio delle vostre menti.|| I mali di quaggiù gravi son tanto| che, per guarir le travagliate genti,| è vano il riso ed è più vano il pianto.”

[19] Ecco invece “La lettera” che è sonetto celebrativo, ma attraverso  negazioni continue (che finiscono in un calembour), sicchè l’esaltazione della potenza (benefica o dannosa)  della missiva epistolare  si elide nelle contrapposizioni, ricercate per la mania barocca di produrre ad ogni costo la meraviglia: “Figlia del mio pensier, nuncia veloce| che corri senza piè, voli senz’ale| rapida più che vento e più che strale,| e dove l’aere agghiaccia e dove coce; |palesi la mia mente e non hai voce,| ordisci tradimenti e sei leale| erba non sei di Colco e sei letale| non sei libica belva e sei feroce.| Spirto de’ passi miei, lingua del core| mi conduci colà dov’io non sono| e chiedi quanto vuoi senza rossore.| Delle tue note, allor che note sono, ha la suora d’Encelado, minore| ne’ vanni il moto e nella tromba il suono”.

 L’erba di Colco (Colchide) è velenosa, sicchè è detta “letale”, che dà morte; nel verso dodicesimo, “note” dapprima è sostantivo (segni di scrittura) e, poi, agettivo (conosciute); infine la “sorella d’Encelado” è la Fama.

                                                          

 

[20] Chiarimenti: “bolla”= ribolla (è voce verbale, da ribollire); “sirii ardori” sono i raggi della canicola, quando il sole è in congiunzione con la stella Sirio; tòsco” è il veleno; “atomo d’insetti”= animale piccolissimo.

[21] Chiarificazioni: “un Perù fiocchi”= in un granello di sabbia, l’occhialino  ti illude a vedere i tesori dell’argento del Perù; “”un schizzo d’ente”= un accenno di realtà (ente=essere qualsiasi); “da un fil...”= da un semplice filo ti illude a vedere il lampo del fulmine che cade; “e giuri...”: quel quasi niente, che sono le creature,  sei tentato di giurare che siano quasi infinite quanto il Creatore.

[22] Oltre tutto,  ci si può accorgere facilmente che l’Artale è poco chiaro, sicchè troppe sue espressioni richiedono spiegazioni o  interpretazioni: il Lubrano è trasparente al confronto, oltre che molto più moderato nelle figure barocche. Ecco qualche chiarimento al sonetto che egli intitolò colla sola dedica “A Maria Maddalena Loffredo, principessa di Cardìto): “di chi piagarlo ardìo” è la Maddalena che ferì il Signore col peccato; i capelli biondi non sono tanto “insegna del peccato”, ma eventualmente “tentazione ad amori illeciti e, quindi peccaminosi: eventualmente! “in amorosa arsura” non si capisce davvero: forse intendeva “in amorosa gara”; l’amante (la Maddalena, fatta amante di Dio col pentimento); “alluma” ci pare significhi “abbaglia” il suo Creatore per il rovesciarsi dell’effetto del “Tago= delle acque di quel fiume cui assomigliano le chiome ondeggianti della Maddalena” (e che dovrebbero, quindi, non asciugare, ma bagnare) con quello del “sole”, cioè dei due occhi piangenti della donna, occhi che per l’amante sono di solito “lumi, stelle e soli” (che dovrebbero quindi bruciare e non bagnare).

[23] Oltre agli autori citati ed esemplificati nel testo, riportiamo qui qualche notizia e verso dagli altri poeti marinisti documentati dal volume della Ricciardiana. Il nostro interesse è  triplice: anzitutto ricercare  la causa prima del loro fallimento estetico, cioè la dissolvenza incrociata fra la loro  ispirazione e musicalità più congeniali (che per lo più di  tempra drammatica) e la scelta  infelice del tema amoroso, offerto e quasi imposto dalla tradizione petrarchesca tuttora imperante (almeno  teoricamente), che è invece presuntivamente contemplativo; in secondo luogo, additare la parte che il concettismo detiene nel fallimento stesso; in terzo luogo, cercare di vederci chiaro nella   inguaribile sensualità di questa produzione,  avendo presente la stessa componente nella lirica del Rinascimento.

Marcello Macedonio (ultimo quarto del secolo XVI- poco dopo il 1620: gentiluomo fattosi poi carmelitano scalzo; le sue composizioni sono raccolte ne “Le nove muse” del 1615). Per lui dobbiamo ripetere il rimprovero: temi  idillici (paesaggi|amore), mescolati a spunti drammatici  (amore trionfante, amore tormentoso, contrasti fra apparenze esterne e realtà interiore) generano dissolvenze incrociate, che si rispecchiano in musicalismi incerti e polivalenti, mentre le troppe metafore od elenchi di paragoni celebrativi finiscono per inaridire i versi. Ci sembra esemplare la canzonetta “Disfida dell’acque e dell’aure”, dove i vanti delle due potenze naturali si basano per lo più su qualità ed azioni di bellezza, cioè su componenti contemplative: la loro dichiarazione in tono di gara e di battaglia le trascina verso la drammaticità che tutto rovina.  Si notino tali difetti pur in queste due strofe  non del tutto insipide : “Noi siam tesor del prato,| argento fuggitivo|, zaffiro molle e vivo,| diamante distillato.|| In petto a le montagne| filze di perle fine,| e serpi cristalline| sembriam per le campagne”. Anche il sonetto “Sopra un fiore che nasce nell’India e mostra i segni della passione di Cristo” ha coerenza drammatica  (tema, lirismo, musicalità) solo nella prima strofa: “Signor, l’acute spine e l’aspra e santa| colonna e la crudel sferza vermiglia| e i tormentosi tuoi chiodi somiglia| misterioso fior d’indica pianta.”

Stessa equivocità nel pur chiaro e non così concettista Scipione Caetano (romano, morto del 1612, anno in cui furono pubblicate, postume, le sue Rime, dedicate a Maria de’ Medici). La bellezza della sua donna messa a ripetuto confronto con la bruttezza della vecchia sua ambasciatrice rovina il sonetto “Alor che immerso in tenebrosi errori”; il tormento perchè deve contentarsi di guardare la casa che accoglie|nasconde la sua amata, fa altalenare pensiero, lirismo e musicalità nel sonetto “Corinna, alor che il rimirarvi è tolto”; e l’elogio  iperbolico della lucciola (superiore alle stelle!), che gli ha fatto da guida alla casa dell’amata in una notte fosca, elide il vagheggiamento e la dolce simpatia per l’umile coleottero, con cui si apre, idillicamente, il sonetto (“Pargoletto animal, cui diè natura”).

Giambattista Manso (Napoli, 1561-1645) fu protettore del Tasso, di cui fu il primo biografo. L’unico suo sonetto riportato dal Ferrero nella Ricciardiana è un capolavoro di ambivalenza rovinosa. Vuol descrivere la natura nel momento più suggestivo (Croce lo ha intitolato “Il ritorno della Primavera”) ed esprime invece il suo rifiuto a goderne,da quando la donna gli ha negato corrispondenza in amore. I primi due versi dicono già la mescolanza indiscreta: “Questi fior, queste erbette e queste fronde,| di novella stagion pompa superba...”; la finale ne è l’assassinio definitivo “Chè, quand’orrido è il mondo, allor mi piace”!

I singoli sonetti citati per Gaspare Murtola (il segretario del duca di Savoia che attentò alla vita del Marino: era di Genova e pubblicò nel 1603 una raccolta di Rime e nel 1608-9 i sonetti della Marineide; nel 1608 pubblicò anche il poema  Della creazione del mondo”; morì nel 1624 ) e per Giuliano Bezzi (di Forlì, autore di rime, del dramma pastorale La maga innocente e del melodramma Le Pleiadi) vogliono canatre d’amore ma si affidano entrambi a similitudini di ostilità (Murtola cita la rosa e il riccio, il cardo, l’istrice e cent’altri esseri viventi, che hanno spine, ma non così aspre come quelle  dello sguardo della donna amata; il Bezzi accusa la gelosia-persiana di impedirgli di vedere la sua donna e minaccia di incenerirla coi propri sospiri...): il ridicolo accentua la dissolvenza incrociata dei motivi ispiratori contrastanti fra idillio e dramma. Quest’ultimo ci pare il difetto anche dei sonetti di incerto autore pubblicati a pp. 685-686. Porfirio Canozza, incarna il contrasto in due amori di risultato opposto: “Ama due donne in un punto, una cortese, l’altra crudele” (i versi “L’uno è pace dolcissima del core,| per l’altra in guerra mantener mi sento” potrebbero diventare una icona della situazione o pendolare o incerta o straziante dei più tra i rimatori marinisti; un lapsus della loro psicologia ambigua, una spia acutissima della sorgente intima al fallimento del loro poetare). Idem per Riniero Grillenzoni, che  tratta del proprio amore col paragone scontato della nave in mare: solo l’ultima terzina si arrende al dramma del fallimento (e sono i versi migliori del sonetto); gli altri versi si aggirano indecisi fra speranze e disperazione; per Francesco Balducci (Palermo 1579; muore nel 1642 a Roma) che non sa decidersi se contemplare amorevolmente il figlio della donna amata o esprimere l’ardore e le attese del ricambio al proprio amore. Più coerente nei suoi versi è Francesco della Valle (calabrese, pubblicò le sue Rime nel 1618), che nel sonetto “Or che’l dì nasce e la mia bella e cruda” si concentra con qualche efficacia sul tormento e dramma dell’amore non corrisposto. Marcello Giovanetti: nato ad Ascoli Piceno nel 1598, fu giurista a Roma, dove morì a soli 33 anno nel 1631. Pubblicò un volume di Poesie nel 1626, ma scrisse anche una favola pastorale (Cilla). Anche lui canta d’amore, ma sempre in situazioni drammatiche, con un risultato conflittuale poco significativo anche nel dramma e peggiorato dalle arguzie barocche abbondevoli. Di incipientemente idillico leggo questa quartina del sonetto “Vedendo lontano il paese della sua donna”: “Ecco al fin pur ti scopro, amato colle,| che’n breve giro ascondi ampio tesoro;| ove non giunge il piè, prende ristoro| lo sguardo almen, che di dolcezza è molle”. Il sonetto continua in contrapposizioni e concettini, che rovinano anche la pretesa sofferenza drammatica del poeta (?) che è vicino alla donna solo con la immaginazione (“Traggami, dunque, il cielo ove il ciel vuole,| chè far non puote ingiuriosa eclissi| lunga terra interposta al mio bel sole”!). Confrontandosi con un suo ritratto, lo trova freddo perchè non esprime la passione che lo divora; e conclude: “Ma, lasso! ardono a me l’alma invaghita| perpetue fiamme, e tu non senti ardore:| chè già fora la tela incenerita”.  Le ottave su “La Bella dormiente” contengono metafore, paragoni, accostamenti surreali, che culminano in questa strofa in cui si meraviglia che, stesa a dormire lungo le sponde, il fiume non asciughi per la vicinanza di un tale sole di bellezza: “Ben si vedean per le beate sponde| arder vicine a lei quell’erbe e queste,| languir le piante, inaridir le fronde,| chinare i fiori l’odorate teste;| e già foran asciutte anco quell’onde,| che per l’erbe muovean tremole e preste,| s’io con l’urne colà del pianto mio| non dava piogge al prato ed acque al rio”. E c’è di peggio: “alga o scoglio non è, che non s’infiori;| fiore, che non si specchi entro quell’onda;| onda, che non sfavilli a tanti ardori”. Pure gli capita di descrivere (od inventare) una situzione in cui gli aspetti delicati dell’amore vengono emarginati, mentre riescono ad allearsi la forza del dramma e la latente comicità delle metafore: è nel cantare la sua “Bella donna vestita da turca di carnevale”. “Ecco la mia bellissima guerriera,| trovando al suo rigor conforme spoglie,| entro fascie barbariche raccoglie| d’attorto e bianco lin la chioma altera;|| e con sembianza vaga, ancor che fera,| fra quei lacci d’orrore Amore accoglie;| chè barbara impietà grazia non toglie| a questa sol di cor barbara arciera,|| che, contra me cercando arme novella,| or con arco di Tracia arma la mano,| fatta turca d’amore, empia e rubella.|| E s’a caso talor l’arco inumano| falla in lanciar le rapide quadrella,| l’arco del ciglio non saetta invano”.

Giovan Leone Sempronio (Urbino 1603-1646): oltre alle rime (La selva poetica, 1648l: la Ricciardiana ne riporta solo sonetti), scrisse un poema (Boemondo) ed una tragedia (Il conte Ugolino).Tentazioni idilliche doveva sentirne,  ma persino  nei versi “Raccorda al signor Gioseppe Ferrari le delizie che goderono insieme nello Studio di Bologna”, che sono quasi romantici come tema (nostalgia del tempo goliardico) non riesce ad escludere le interferenze drammatiche: “In fin di qua dal mio natio terreno| parmi sentir, o mio gentil Ferrari,| che tra i cristalli suoi limpidi e chiari| mormori ancor le nostre gioie il Reno.|| Ivi l’aria tranquila e ’l ciel sereno| e i dì godemmo luminosi e cari,| e mille or dolci amori or colpi amari| n’arsero il core o ne feriro il seno ...” Ma il dramma lieto, tendenzialmente epicizzante (l’impeto del ballo, ad esempio) gli era decisamente più congeniale: salvo quando prevale il concettismo a rovinare anche questa tonalità.  Ecco  un sonetto  in cui la vivacità si comunica nonostante contrapposizioni e paragoni discutibili; e nonostante il calembour finale: “D’una sonora cetra a’ dolci imperi,|move Lilla le piante agili e snelle;| e con sembianti umilemente alteri| danzando preme ora quest’alme or quelle.|| Su quei vasti lassù ricchi emisperi| men vezzose di lei, di lei men belle,| passi movendo or  tremoli or leggeri,| co’ piè d’oro nel ciel danzan le stelle.|| Natura la creò, la fece Amore| mobil di corpo e molto più di fede,| lieve di pianta e molto più di core.|| Oh che bei labirinti ordir si vede| con vario stil, ma con eguale onore,| Dedalo con la man, Lilla col piede!”  Ma non sempre è così: lo vedremo nella prossima nota.

[24] Continua la nota sui “minori e minimi marinisti”, completando il quadro di Giovan Leone Sempronio. Talora il lirismo riesce a permeare una, due  strofe del sonetto; poi la finale epigrammatica tradisce l’intento prevalente della composizione: sbalordire con l’accostamento...improbabile: “Stuol di fanciulle in giro accolte| davanti a la mia Clori un dì sedea,| ed ella molte in  tesser tele e molte| in far trapunti ad instruir prendea||.....|| -O ténere- diss’io- vaghe donzelle,| ch’or questi ite annodando or quei lavori,| ch’ite pungendo or queste tele or quelle;| guardate ancor  non imparar da Clori,| nemiche di pietà, d’amor rubelle,| a punger l’alme, ad annodare i cori”. Nell’altro sonetto “La sua donna giocava ai dadi” sono forti le quartine (“Quelle, che in mezzo a spettatrice schiera| picciol’ossa, giocando, agiti e tiri,| denti fur già de la più vasta fera | che ne’ gran lidi suoi l’India rimiri.|| Quindi, s’a loro il tuo pensier raggiri,| o mia dolce d’Amor bella guerriera,| t’avvedrai dove al fin termini e spiri| orgolgiosa beltà, fierezza altera” ), ma le terzine si sperdono nel confronto tra la magra fine della ferocia nella tigre (i denti ridotti a dadi da gioco) e della crudeltà nella donna ( i suoi dinieghi divenuti motivo di riso). Ma più spesso la ricerca dell’impensabile coincidenza degli opposti (figura retorica dell’ossìmoro) prende decisamente il sopravvento. Ecco le terzine del sonetto “Non poteva aver dalla sua donna altro che sguardi”: “Miro morendo ogni or, moro mirato;| ed usurpando i propri uffici al core,| amo con gli occhi e son con gli occhi amato.|| Or chi dirà che in tenebroso orrore| abbia d’oscuro vel l’occhio bendato,| s’altro non è che un solo sguardo Amore?”. La sua donna, fasciati i capelli appena lavati, sembrerebbe un turco col turbante, se non ci fosse una  diversità: “Ma differente è sol quello da questa,| ch’ella due soli interi in fronte porta,| e mezza luna a lui riluce in testa”. E ch’egli sia servo della sua donna, (“quanto barbara più tanto più bella” ) lo ripete alla noia nelle terzine del sonetto su “La bella serva”: “Tu serva, io servo. Al tuo gentil signore| tu stai soggetta, al mio soggiaccio anch’io;| tu porti lacci al piede, io lacci al core.|| Ma in ciò lo stato tuo vario è dal mio:| tu serva di Fortuna ed io d’Amore,| tu d’uom mortale, ed io di cieco dio”. Altri sonetti  chiedono rispetto e pace sulla  tomba di un grillo che, “ maestro” ed “inventor del trillo”, ha aiutato i sonni del poeta in vita. Altri ancora sottolineano il contrasto fra bianco e nero della sua donna: “Mentre de l’idol mio contemplo e scerno| il bruno ammanto e’l candidetto viso,| l’un mi par co’ suoi raggi un paradiso,| l’altro con l’ombre sue parmi un inferno”: Concludiamo segnalando un sonetto sulla facilità a rivelare lo stato d’animo interno, attraverso indizi anche involontari (“lapsus” diremmo noi, oggi). Ecco le due terzine:  “L’occhio dell’uom è una finestra aperta,| onde si puote ogni suo chiuso affetto| ed ogni voglia sua mirar scoperta.||Un cenno, un gesto, un movimento, un detto,| testimonio assai buon, prova assai certa| pòn far altrui di ciò che chiuda il petto”).

Gianfrancesco Maia Materdona : è un pugliese, di Mesagne, membro dell’Accademia degli Umoristi, in Roma. Ecclesiastico di cui non si hanno notizie precise neppure sulla nascita e morte, scrisse anche opere educative (Le lettere di buone feste, 1624; L’utile spavento del peccatore, 1629) e  alcune raccolte di versi: Rime pescherecce (1628), Rime (1629), Rime nuove (1632). Che sia  duro, aspro nelle rime, lo confessa più di una volta il poeta stesso, pur attribuendo la loro drammaticità ad altre cause che non la propria natura. Ecco il madrigale “Dono di rime”: “Le chieste rime invio: ma sien degne di scuse e di perdòno,| se dolci elle non sono.| Nascer da spirto in amarezze immerso| già non può dolce verso.| Fa’ ch’io giunga una volta| ai dolci labri tuoi| quest’alma amara, in un sol  bacio accolta:|ch’ella saprà da poi,| presa la qualità ch’oggi non have,| verso formar soave.” Finisce così un altro madrigale a Fulvio Testi: “ Amor m’ha punto e morso, divino animaletto:| se’l dolce suon diletto| di tua lira ingegnosa or non m’aìta,| non avrà pace mai l’aspra ferita”.  Reo confesso di asprezza espressiva, neppure l’enfasi o il concettismo  riescono a spegnere del tutto la  la forza del sonetto su una zanzara: “Animato rumor, tromba vagante,| che solo per ferir talor ti posi,| turbamento de l’ombre e de’ riposi,| fremito alato e mormorio volante;|| per ciel notturno animaletto errante,| pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi;| invan ti sforzi tu ch’io non riposi:| basta a non riposar l’essere amante.|| Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza| vattene; e incontro a lei quanto più sai| desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.|| D’aver punta vantar sì ti potrai| colei ch’Amor con sua dorata frezza (freccia)| pungere ed impiagar non potè mai”. Conosce anche accenti tendenti alla epicità, per l’arrivo del “Primo maggio” o per celebrare la felicità del suo amore. Riportiamo quest’ultimo: “La ninfa sua d’orgoglio amica e d’ira| altri pur chiami e rigida e ribella;| s’io miro la mia ninfa, ella mi mira;| s’io d’amor parlo, essa d’amor favella.|| S’io rido o scherzo, e scherza e ride anch’ella;| piange ai miei pianti, ai miei sospir sospira;| s’io lei mia gioia, essa mio ben m’appella;| vuol ciò ch’io vo’, ciò ch’io desio desira.|| Ella è ver’ me pietosa, i’ ver’ lei pio;| de’ suoi cenni io fo legge, ella de’ miei;| ella a me cara e caro a lei son io.|| Ella tutta in me vive, io tutto in lei;| io spiro col suo spirto, ella col mio;| e s’a lei do tre baci, ella a me sei”. Dramma sufficiente traspare anche dalle antitesi  per gli incurabili di Napoli, tra cui egli prende di mira quelli affetti da sifilide e, quindi, ammalati per colpa ed imprudenza propria: “Ahi mondo, ahi senso! or ve’ qui tanti e tanti| in tende anguste, ancor che auguste, accolti!| Di profana beltà fur tutti amanti,| tanto or tristi e meschini quanto pria stolti.|| Per picciol riso hann’or continui pianti,| portan l’inferno ai cor, la morte ai volti,| vita speranti no, vita spiranti,| morti vivi e cadaveri insepolti.|| Questi è in preda al martìr, quegli al furore,| un suda, un gela, un stride, un grida, un freme,| un piange, un langue, un spasma, un cade, un more.|| Quinci impara, o mortal: dolce è l’errore,| breve è il gioir; ma pene amare estreme| dà spesso al corpo, eterne sempre al core”.

Antonio Bruni (Manduria –Lecce- 1593; Roma, 1635). Segretario dei Della Rovere ad Urbino, amico del Marino e suo imitatore, autore di rime raccolte ne “Le tre Grazie” (1630), è intricato nel suo concettismo che lascia del tutto indifferente il lettore.  I due sonetti riportati confermano il giudizio del Ferrero “imitatore del Marino, di assai scarsa originalità”. L’autore incerto, di cui la Ricciardiana riporta quattro sonetti dalla Raccolta di Giacomo Guaccimanni (Ravenna 1623),   si esaurisce nei concettini: il sonetto “Per una mora veduta alla finestra con bella donna” è basato sul contrasto fra sole e luna, notte e giorno, luce e tenebre, splendori e orrori (anzi genera l’ossimoro “splendidi orrori”);  quello in cui “Bella donna, andando in carrozza, fu rivolta nel fango” consola la luna per le sue macchie, “or che tutto macchiato è il sole ancora” (il viso della donna, naturalmente!); ecc.

 Scipione Errico (messinese, 1592-1670: attivo a Roma e Venezia; autore della commedia “Le rivolte di Parnaso” oltre che delle “Poesie liriche”). Questo è veramente verseggiatore sensuale, perchè proclama in Contra l’amor platonico “Ceda al tatto la vista, al labro il lume (gli occhi)”. Pure non siamo ai termini erotici espliciti del Millecinquecento. D’altronde, oltre a tali spunti di lascivia, ha da esprimere soltanto i  ritriti concettini, la solita girandola di immagini sregolate. Prendiamo una sola ottava dal poemetto “La via lattea” in cui vuol cantare la trasformazione, in quell’ammasso di stelle,  di ninfe bellissime e senza vestiti ammirate da Giove, in vena di vagheggiamenti non puramento estetici: “La donna è un ciel: -diceano- ha il capo aurato,| di Berenice i lucidi capelli;| porta ne gli occhi il Sagittario armato,| porta ne gli occhi i lucidi Gemelli;| gli occhi, ond’ è vago un Orion formato,| gli occhi, Soli de l’alma amati e belli,| gli occhi che, vòlti, in varie e gentil arti,| sembran Veneri ed Orse e Giovi e Marti”.

 

 

[25]  Oltre le rime interne nella prosa-poetica e nei versi, si possono notare le allitterazioni, bisticci di parole, ecc. Il Croce cita un autore spagnolo, padre G. Caramuel, che nella sua opera “Metametrica” del 1663 scriveva una prosa  (anche lui!) “leporeambica”: la lettura annoia subito, altrimenti ci sarebbe da schiattare  dalla compassione o dalla rabbia.  Noi, invece,  continuiamo la lettura dei  minori secentisti. Biagio Cusano (di Vitulano, Benevento: nel 1636 pubblica le rime col titolo Armonia) ha un sonetto tra il serio ed il faceto per un uomo che finalmente si è rasa la barba, come ha desiderato la cortigiana, sua amante: il risultato è deludente perchè eliso dalla duplice, contrastante intenzione. Giovanni Andrea Rovetti (genovese, pubblicò nel 1625 i  Mormorii d’Elicona”): suggerisce ma si vergogna (pudore  sincero o convenzione sociale?): “Tu chiedi quel ch’io voglio,| quando a mensa talor ti premo il piede?| Ah che ne gli occhi ogni tuo sguardo il vede!| Lusingando t’infingi,| e ’l bianco volto in bel rossor dipingi.| Vorrei, dolce mio ben...| Lasso, ch’ a dirlo, m’arrossisco anch’io!” Bartolomeo Tortoletti (di Verona,  pubblicò le Rime –1645- molto  dopo il  poema Giuditta vittoriosa -1628) suggerisce in un sonetto l’ipocrisia per salvare l’onore della donna: “Lilla, fa’ a modo mio; non ti dispiaccia| ch’io ti venga a trovar sì parcamente| ch’altri non creda i nostri amori e taccia”. Ma non è poi così sicuro che la ipocrisia nasconda l’erotismo: la quartina precedente ha due affermazioni che paiono contradditorie: “Amiamoci di buon cuor: queste le vere| parti son d’amor puro, amor celeste.| Oh bell’inganno ad altrui fa chi veste| gli amorosi pensier d’arti severe”. Mbeh?!  Paolo Giordano Orsino (di Bracciano, 1581-1656): nelle Rime del 1648 ha un sonetto sulla “Bugia”, che fallisce per le troppe intenzioni: a parte le circostanze che danno alla menzogna valori morali diversi (dalla barzelletta alla adulazione), vi si celebra il modo di vestire, perchè esso denuncia inequivocabilmente la inclinazione del nostro animo politico (o filofrancese o filospagnolo). Michelangelo Romagnesi ha un sonetto sulla Tomba, che ha una seconda quartina citabile (“Ad erger tombe Egitto età consumi;| ciò che i secoli fanno, un dì risolve:| tutte un oblio le umane cose  involve,| come in sè accoglie il vasto mare i fiumi”), mentre il resto è rovinato da reminiscenze mitologiche.  Gennaro Grosso (di Napoli, è autore di due volumi di rime: La Cetra, del 1650 e L’arpa febea, del 1656): il sonetto sui Santi Innocenti è debilitato dai concettini, di cui riportiamo l’ultimo: “pargoletti vassalli a un rege infante, |guerrier fanciulli a capitan bambino”. Antonino Galeani (nessun dato rintracciabile: le sue rime sono riportate in una Raccolta curata da Giacomo Guaccimanni già nel 1623, a Ravenna: si tratta ovviamente di autori del primo Seicento) è maliziosamente reticente (Sii cauta, o bella; di quei nastri ei trama| lacci a l’onore; e, credi a me, n’avrai,| via più che fregio al crin, sfregio a la fama;|| chè l’indegno amator già tra’ caprai| gloriando si va (vedi se t’ama!)| ch’avranne in cambio... Io nol vuo’ dir: tu’l sai!”. Anche Cesare Abbelli (Bologna, 1604-1683: scrisse il poema Il seno di Abramo; una tragedia intitolata La Gerusalemme liberata; e le Rime) si descrive come felice “Amante che va di notte”, ma ciò che deve sorprendere non è la introvabile lascivia, ma quella empietà che nel tardo secolo va presentandosi coi termini di “idolo e adorare” e che  si diffonderà nel classicismo del secolo seguente. Ecco l’ultima terzina: “Così con nova idolatria, ne’ giri| del cielo il bel di quel sembiante adoro,| favellando tra lor gli occhi e i sospiri”. “Idolatria” sarà proprio il termine usato dal Manzoni per motivare il rifiuto della mitologia e la preferenza accordata al romanticismo! Anche Anton Giulio Brignole Sale (genovese, fattosi gesuita a 47 anni e morto nel 1665 a sessanta anni) riproponendo il tema de La Cortigiana frustata, sembrerebbe inclinare a  sadico erotismo. Macchè! Come il Giovannetti (“Bella cortegggiana frustata”) , egli è alla ricerca di concettini: stavolta è il rapporto rovesciato tra il cuore ed il sangue (“In quelle piaghe agonizzando ei langue;| ma nel languir non è il primier costume| che il sangue corra al cor: ei corre al sangue”).  Discreto nella elegia, tranne la prima quartina, il sonetto “Per la morte di Emilia Adorni Raggi”: “De l’arrabbiato Can sotto i latrati,| sotto il ruggir de l’anelante fiera,| io t’ho visto esalare, o primavera,| di moribondo odor gli ultimi fiati.|| E pur sorgi di nuovo, e i pregi usati| teco hai di molli fior, d’aura leggiera:| rinascer tosto entro la guancia altera| miro di rose iblee gli ostri beati.|| Ma d’Emilia gentil che si morìo| più non vedrò le belle guance e i rai,| dove un april rilusse, un sol fiorìo.|| De gli anni tuoi, mia vita, or che farai?| Vengan pur rose, escan pur gigli, oh Dio,| ch’un aprile per me non fia più mai!” In Pietro Michiele (poeta veneziano del primo Milleseicento, membro degli Incogniti, le lodi all’inverno si fondano sulla pochezza delle fatiche e il maggior tempo libero ai piaceri, fra cui quelli venerei sono accennati indiscretamente nella seconda strofa della canzonetta.  Invece in un sonetto di Antonio Fortini (Amante segreto) si elogia un amore così aereo da non osare neppure manifestarsi (“Chi dolce canta e chi lodato scrive| offra sue rime a bella donna in dono| e scopra del suo amor le fiamme vive.|| Io, che solingo amante e muto sono,| queste oscure mie note e di suon prive| al silenzio consacro, a l’ombre dono”). Questo sonetto richiama una realtà più frequente di quanto il lettore moderno sospetti: si tratta di amori imitati dietro l’esempio del maestro Petrarca, ma che sono tutt’altro che reali.  Per almeno due di questi autori siamo sicuri, per loro confessione esplicita: Girolamo Fontanella (Amor finto) e Giuseppe Battista (Che l’amor suo è finto). 

Giuseppe Salomoni (di Udine, si ignorano altri dati: scrisse Delle Rime, Parte prima e Parte seconda: 1615 e 1627). La sensualità si rivela nei sonetti “Sguardi, abbracciamenti e baci”, “Baci mordaci”, “Ninfa che si ciba di fragole”. Citiamo le terzine sia del primo sonetto “Bramo in Argo novello esser rivolto,|di farmi un Briareo sarei contento| e’l volto de la Fama aver  nel volto:|| per mirar te con cento lumi intento,| per serbar te con cento braccia accolto,| per poterti baciar con bocche cento”; che del terzo: “O bocca, alta cagion de le mie faci,| quanto somigli il cibo delicato| di cui pascer te stessa or  ti compiaci!|| De le fraghe hai l’odor nel dolce fiato,| de le fraghe il sapor ne’ cari baci,| de le fraghe il color nel labbro amato”. Ma pel Salomoni non si può tacere del concettismo: egli può venire a competizione con l’Artale e col Pers  per il  Nobel della temerarietà nelle metafore con la finale “a razzo” del sonetto “Stato umano” “L’uomo è nel mondo un corridore umano(!),| e’l cavalier che l’ammaestra è Dio,| che, se talvolta egli si fa restio,| col piè lo spinge in corso e con la mano.||E se talor, precipitoso insano,| s’avventa ove’l trasporta il suo desìo,| con duro fren, che di sua mano ordìo,| dal mortal precipizio il tien lontano.|| E se superbo calcitra e sdegnoso,| stancandolo per strade alpestri e felle| nel maneggio si fa più rigoroso.|| Se poi gli scopre alfin sue vogli ancelle| e corre seco al ciel, gli dà, pietoso,| biade d’eternità, stalla di stelle”. Del resto, sensualità e secentismo a parte, il Salomoni è piuttosto faticoso nella espressione, che  lo costringono a circonlocuzioni e lo inducono a lunghe canzoni, in cui si dice proprio poco pur con molte parole e sfoggio di immagini. Ecco l’inizio di quella su “La Cicala”: “O rauca sì, ma rara,| stridola sì, ma cara,| de la dea biondeggiante| messaggera volante;| de la stagion più fruttuosa e calda| canora insieme e strepitosa aralda;...”.

Bernardo Morando (genovese, visse qualche tempo a Parma, presso i Farnese;  morì nel 1656). Le sue opere complete sono divise in quattro parti nella edizione definitiva, postuma, del 1662: Fantasie poetiche; Poesie drammatiche; Poesie sacre e profane; La Rosalinda (romanzo). Come ispirazione, egli spazia dal paesaggio all’amore, alla religione. In tutte le espressioni ha un timbro drammatico, che svaria dal viraggio epicizzante al lamento sofferto della tragedia. Il tema amoroso genera qualche verso  che lascia sospettare desideri  erotici, che però si concretizzano in accenni di immodestia nella descrizione della donna (“China il sen, nuda il braccio, accesa il volto”;  cfr. anche “Bellissima natatrice”): ma non si va oltre questi lapsus momentanei. Anche perchè il tema si risolve per lo più in concettini o iperboli o immagini squinternate. Il Morando è tra i più inventivi, insistenti e fastidiosi creatori di ingegnosità secentesce. E succede allora la solita doppia dissolvenza: il paesaggio primaverile e l’incanto amoroso si soffermano sui particolari “aspri e selvaggi” dell’inverno che se ne va o sul diniego della donna gelida e severa  (Il primo giorno di maggio); viceversa, il paesaggio estivo può mantenere nostalgie di dolcezze e soavità (Invito alla poesia, nel principio della State); anche i temi sofferti soffrono (!?) poi di barocchismi che ne impediscono l’approfondimento e la intensità (Per la beatissima Vergine...). Esemplifichiamo. Ecco il poeta divenuto “Amante vagheggiator con gli occhiali”, perchè le lacrime nate dal rifiuto della donna si sono trasformate in cristalli, necessari agli occhi abbagliati dal sole d’amore: “Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto,| di sferici cristalli i lumi armai;| chè se per te mancò già spirto al petto,| or luce agli occhi, ecco mi manca omai.|| Fui lince pria, ma poi gli occhi alzai| de’ tuoi begli occhi al troppo chiaro oggetto,| quasi gufo dal sol vinto restai:| nacque da la tua copia il mio difetto.|| Indi per tua fierezza io piansi tanto,| che questi umori incristalliti in giro| da le vene del cor trassi col pianto.|| Ma che pro, s’a me l’alma onde t’adoro| manca, non che la luce onde ti miro?| Se miro, abbaglio, e se non miro, i’ moro”. Grazie all’ultimo verso (in cui si noterà l’uso medio-passivo della voce “abbaglio”: “vengo, rimango abbagliato”) anch’egli merita un posto accanto al Pers, al Salomoni, all’Artale, come  inventore di una fra le più geniali trovate barocche!  Sovente, per assicurare la dimensione drammatica alle rime amorose, sceglie donne  mal messe  nella salute, nel fisico, nella fortuna (“Bellissima spiritata”| “Bellissima donna cui manca un dente”| “Febbre maligna di bella donna”). In questo, il Morando si pone a lato di Giovan Leone Sempronio  (“La bella zoppa”, “La bella nana”, “La bella serva”).  Il tono epicizzante si smorza per il ridicolo della situazione nel “Nano gobbo, bravo, innamorato, di nome Amico”: la ingegnosità si rivela nella distanza fra la realtà del corpo deforme e le pretese virtù del soggetto. Ecco qualche strofa della canzonetta: “S’al di fuori altrui son scherno,| ne l’interno| non la cedo al magno Atlante:| picciol son ne la sembianza,| ma in sostanza corpo nano ha cor di gigante||.... Poco son, ma tutto core,| e timore| non alberga nel cuor mio;| temo sol quando m’assale| col suo strale| picciol nano qual son io.|| Questo è Amor, che, pargoletto,| al mio petto| guerra fa con forze estreme:| ei mi fere e strugge in duolo,| m’arde, e solo| tal nemico AMICO teme”. E’ ancora la ricerca della meraviglia espressiva attraverso le antitesi, le ripetizioni o le iperboli (esagerazioni) che attutisce il valore del sonetto “Nulla in amore appaga”: “Ben veggo, Amor, che il cibo tuo non pasce,| o pur pascendo accresce fame al core;| a pena un tuo desio tramonta e muore,| Ch’un altro sorge e pargoleggia in fasce.|| Un sol desio che muore avvien che lasce| ben cento eredi, ognun di sè maggiore:| idra se’ tu di mille capi, Amore,| a cui più d’uno, al troncar d’un, rinasce.|| Sei di Tantali mille un lago Averno,| una ruota immortal d’alme meschine,| dei cori umani un avvoltoio eterno.|| Sei mar che non ha termine o confine,| confin di questa vita e de l’inferno,| inferno in cui l’ardor non ha mai fine”. A conferma che il Morando ha voglia di scherzare stanno i due sonetti contrapposti “Il bacio appaga” e “Il bacio non appaga”. La  canzonetta “Per la beatissima Vergine... che calpesta il serpente infernale” pecca per l’eccesso di realismo  nella parte prima (strofe 1-3), che descrive la bruttezza e  malvagità del demonio (“Squallido, atroce, immondo,| di mortiferi fiati ingombro e pieno,| ad infestare il mondo| spira l’Angue d’Averno ira e veleno;| e da l’infame strozza| vomita rabbia e spuma orrenda e sozza”); pur molto migliore, anche la seconda parte si svilisce (strofe 4-6) per le antitesi insistenbti con cui il poeta espone la miserabile condizione umana di  inferiorità al tentatore (“ Egra, colma di guai,| o nostra umanità caduca e frale,| misera, onde avrai| ostacolo al furor, rimedio al male?| Tu vil, forte è il nemico,| tu guerriera inesperta, egli oste antico.|| Non pugna in campo aperto,| ma tende insidie al pie’ tra l’erbe e i fiori;| d’arte e di frodi esperto,| col velen del peccato ancide i cori.| Sallo Eva, onde siam tutti| per infetta radice amari frutti.”; nella terza parte (strofe 7-8), che è preghiera alla Madonna, ritornano ripetizioni, crudezze, iperboli, rime sofisticate (“O del celeste impero| Tu che reggi lo scettro, Imperadrice,| schiaccia al nemico altero| col poderoso piè l’empia cervìce;| calca il pestifero angue,| e dà salute a chi per lui già langue”) o giochetti di parole, che rovinano la finale di una strofa -l’ultima-  che ha un paio di versi di incipiente accoramento (“Diva del ciel, ben puoi| al ribelle del Ciel frangere il dorso;| a’ tuoi divoti, a’ tuoi| miseri infermi, ah! non negar soccorso.| Soccorri: hai ben virtute,| tu che Salute sei, di dar salute”.

[26]Il “dilavato manoscritto” Giovanni Getto lo ha  forse ritrovato nella Historia del cavalier Perduto di Pace Pasini.

Proseguiamo con gli ultimi poeti marinisti e coi due criteri di indagine (sconcerto tra motivi e musicalismo| sensualità eventuale) sulle loro composizioni.

Paolo Zazzaroni ( nativo di Verona, pubblicò nel 1641 le sue liriche col titolo secenteggiante: Giardino di poesie, distinto in Mirti, Viole, Rose, Allori, Cipressi, Spine, coltivato da P. Z.  Si deve riconoscere la tempra drammatica del verseggiatore,  come mostra l’unico sonetto univoco nel motivo ispiratore (“Verno”) e nel tono drammatico: la sufficienza poetica gli è negata dai ghiribizzi secenteschi: esagerazioni (orrido, fiero) e  metafore sproporzionate (il cimiero degli alberi, cioè le loro frondi; austri baccanti, cioè venti tempestosi): “Nel partir de l’autunno a noi ritorno| fa di repente il verno orrido e fiero;| e già col suo stendardo oscuro e nero| torna la Notte a trionfar del Giorno.|| La quercia, il cerro e con l’abete l’orno| depongon de le frondi il bel cimiero;| e quel ch’era di fior vago  sentiero| già molle di pruìne appar d’intorno.|| Da le piagge del ciel piogge sonanti| grondano al suolo in rapidi torrenti,| e fremono per l’aria austri baccanti.|| Misero! ma tante acque e sì gran venti| per eterno mio mal, non son bastanti| a spegner del mio cor le fiamme ardenti.”  Per l’assenza di tali difetti, almeno alcuni dei 129 epitaffi da lui scritti per personaggi famosi, reggono discretamente, come questo  per Diogene: “In questa tomba umìl Diogéne stassi,| dal doglio (botte) sùo qui trasportàto a torto;| ma perchè si temea ch’ancor che morto| mordesse altrui, rinchiuso fu tra’ sassi”; e questo per Cane e Gatto: “Morgante ed Aquilin quest’arca serra,| quella d’ugna crudel, questo mordace.| Fur vivendo nemici ognor in guerra;| qui siedon doppo morte amici in pace”. Il contrasto, invece, rovina il resto della produzione, assumendo spesso la forma di incertezza, segnalata dalla congiunzione “Ma” che introduce una diversa interpretazione della situazione (“Ma mi disse un pensiero: Indarno prega| costei, che sì crudel m’affligge ognora;| chè non trova mercè chi altrui la nega”; “Ma teco forse a torto ora mi sdegno...”; “Ma credo –e’l mio pensier s’accerta a l’opre...”). Interviene per altro anche la contraddizione fra argomento comico e tensione seriosa (addirittura epicizzante) del canto: così una “pulice” che morde il seno alla sua donna è  celebrato come guerriero vittorioso, punitore della crudeltà di lei; un’altra pulce (o la stessa?) canta come eroica la propria esistenza, in un sonetto-epitaffio al suo sepolcro!  Il titolo del sonetto al primo di questi pidocchi ne indica la sensualità (“Ad una pulice, per cagione della quale vide scoperto il seno a bella donna”), che si riduce però ad un  solo verso nella prima quartina, che si limita a ripetere la imposta immodestia indicata nel titolo: “Tu ch’avido di strage il piè leggero| per dolci prede a la tenzon movesti,| e da quel sen le spoglie alfin togliesti, quasi in trionfo intrepido guerriero...” : il resto del sonetto è focalizzato sull’animale battagliero!

Federico Meninni (di Gravina, 1636-1712: fu medico ed operò a Napoli). I  cinque sonetti offerti dalla Ricciardiana (pp. 1048-51)  rivelano una temperie drammatica , sia tragicizzante (Fugacità dell’uomo| La bugia regina del mondo) sia, soprattutto, epicizzante (Il pavone| La carta geografica), messa in scacco  non tanto dal tema amoroso, appena presente, ma dal concettismo balordo.  Eccolo all’opera, in particolare, nelle  terzine de “Gli alberi e la sua donna” (“Parla a te sospirando il pero, il moro,|mentre par che sue frondi in lingue cange:| -Io péro, o Nice; innnamorato, io mòro.-|| Il pesco, acceso, il proprio sen si frange;| per te serba l’arancio i pomi d’oro,| per dolcezza d’amor il fico piange”). Lo si ritroverà anche alla fine dei due sonetti che riportiamo perchè, nel complesso, sufficienti nel tono drammatico-risentito, che rivela, anzi, residui di grandiosità vicina all’epica, il tono più consono al Meninni. Ecco “La fugacità dell’uomo”: “Questi libri, da cui più cose imparo,| e che divoro anco di Lete a scorno,| altri, per innalzar forte riparo| contro l’oblio, divoreranno un giorno.|| In questo albergo, in cui ricovro ho caro,| mentre le cure a riposar qui torno,| se’l ciel non fia di sue vicende avaro,| altri faranno in altra età soggiorno.|| In questo letto, ove fra l’ombre assonno| perchè rechi a’ miei sensi alcun ristoro,| altri ancor chiuderà le luci al sonno.|| Quindi rodermi il cor più d’un martòro,| solo in pensar che qui durar ben ponno| cose che non han vita, ed io mi mòro!”. Ed ecco la requisitoria contro La bugia: “Sol menzogne ravviso ovunque il guardo| de l’intelletto e de le luci io giro.| Se d’un nume terren la reggia io guardo,| mille di falsità ritratti io miro;|| se’l piè talora entro i musei ritardo,| iperboli dipinte, i lini ammiro;| lusinghiera beltà viso bugiardo| m’addito, allor che a vagheggiarla aspiro.|| Turba di fole entro i licei dimora,| nè di finte apparenze il cielo è avaro, quando a l’iride un arco il sol colora.| Ma che giova schernir gli altri che alzaro| trono superbo a la bugia, se ancora| bugie da Febo, io che ragiono, imparo?”. L’inizio di quest’ultimo sonetto sarà ripreso dal Metastasio (“Ovunque il guardo io giro| immenso Dio ti vedo...”); la finale presenta una motivazione scialba (l’arcobaleno) in una immagine mitologica giocata infelicemente, tanto da apparire inattinente.

 

[27] Proseguiamo coi lirici minori marinisti. Lorenzo Casaburi, di Napoli, pubblicò nel 1669 Le quattro stagioni (La primavera, Suggetti amorosi. La state. Suggetti eroici. L’autunno. Suggetti morali. Il verno. Suggetti lugubri e sacri).  Costui rivela tentazioni sensuali frequenti: basta contare le volte che parla (anzi, scrive) dei “seni” della donna e degli “abbracciamenti” con lei; o leggere i due sonetti di donne irritate o contro il marito  filosofo che trascura i piaceri del matrimonio (“Amori e vezzi entro le carte accogli,| e di sdegni e rigor mi colmi il core;| legando i carmi in musico tenore,| le braccia dal mio sen, lassa! disciogli.”); o contro quello guerriero che vuol  partecipare ad una spedizione contro i Turchi (“Ma di penne, a fuggirmi, il capo adorna;| chè porterai nel tuo trionfo altero| della luna ottomana ambe le corna!”). Ma più forte, nel verseggiare, è il fascino dell’arguzia,  specie nella finale della strofa, che smorza anche la lascivia. Ecco un calembour nella terzina di chiusura del sonetto per il “Dono di un opale a bella donna”: ora al petto vi sono due “mostri”, quello delle gemme e quello dei seni!  Altrove (“Consolo bella donnna...”), egli  conforta la donna, che si lamenta perchè l’orologio che porta sul petto si è fermato, ipotizzando  una vittoria sul Tempo, che si sarà bruciate le ali di fronte alla sua bellezza o si sarà raggelati i piedi di fronte al rigore del cuore crudele di lei verso gli amanti: in ogni caso la donna non invecchierà più... In una specie di oraziano “Exegi monumentum aere perennius”, egli si vanta di aver ottenuto, coi suoi versi, trionfi quali neppure Orfeo (che con il suono della lira placò l’inferno, riuscendo dapprima ad ottenere  la liberazione di Euridice) ha potuto raggiungere: egli si trascina dietro “cieli di beltà”, cioè donne di celeste belelzza (“Mi glorio di me stesso”). Se vuol condannare la ipocrisia di Clizia, non trova di meglio che metaforeggiare per dodici versi su fenomeni celesti illudenti (arcobaleno, lampo)  su animali ingannatori (dal serpente al cigno, dal polipo alla talpa...). Più riuscito è il sonetto ove la lascivia è confinata sullo sfondo (A bella donna  che fa molti giochi sulla corda) mentre nel descriverne i giochi ginnici ha modo di esprimere la congenialità privilegiata del suo spirito colla sfera drammatica delle emozioni: “Corre Clorinda in sui ritorti lini| qual per l’aeree vie stella cadente,| e formano un meandro aureo lucente,| agitati dall’aure, i suoi bei crini.|| Or non sospiro più gli orti latini,| ch’in aria architettò la prisca gente,| s’in un florido qui volto ridente| godo più belli i penduli giardini.|| Cade e sorge in un punto, onde deriso| vien l’occhio altrui, mentre gli dona e fura| del suo vago sembiante il paradiso.|| E quindi istupidito ogni uom la giura,| del piede al moto, alla beltà del viso,| miracolo dell’arte e di natura”. Pietro Casaburi Urries, di Napoli, scrisse anche una interessante trattazione sulla metafora, in una lettera a mons. Caramuele;  e due  raccolte di rime Le saette di Cupido (elegie amorose) e  Delle Sirene (Poesie liriche: entrambe del 1685). In una delle elegie (quartine di endecasillabi a rima ABBA) mette in versi  I gemiti d’Enone abbandonata da Paride, ispirata dalle solite Heroides di Ovidio. Retorica (quattro strofe di domande retoriche) concettini (“Di Gnido (Venere) alimentando in sen la piaga,| ch’aperta fu da due pupille arciere,| se un dì volasti ad impiagar le fiere,| la gran figlia d’un cigno (Elena, figlia di Leda, mutato in cigno) oggi t’impiaga”) non testimoniano di grandi  commozioni,  e rivelano in compenso una certa   sensualità. Questa ritorna altrove, anche nel sonetto Veggo per tutto argomenti di pensare alla mia donna, dove interessano però più i primi due versi (“Ovunque, o Nice, io le pupille aggiro,| delle bellezze tue veggio l’imago”),  che possono aver ispirato il Metastasio (“Ovunque il guardo io giro, Immenso Dio Ti vedo...”).  Di concettini se ne trovano a bizzeffe. Galatea che piange su Aci trasformato in fonte, dopo aver invitato divinità e semidei a piangere sulla sventura, vuole condolente anche il sole: “per gli occhi in pianti il sol distempri il core:| chè il mio bel foco è trasformato in acque".  Tommaso Gaudiosi, nato a Cava de’ Tirreni, compose le rime (L’arpa poetica) e una tragedia  (Sofia, overo l’innocenza ferita). Ha due composizioni di argomento storico-politico e molte composizioni religiose e morali. E’ felice nella versificazione, chiaro nei pensieri, scorrevole nella musicalità; è solo moderatamente concettista, particolarmente sensibile ai problemi religioso-morali, ma è superficiale: non ha una potenza idealizzatrice (intelligenza) pari alla spontaneità emotiva, per cui non raggiunge la grande poesia. I versi citabili sono però molti. Ecco un paio di strofe dal sonetto Quanto più si vive, più sembrano brevi i giorni: “Un tempo, il dì, cui restringean poch’ore,| parea sì lungo a la tranquilla mente,| che l’ora non vedea che in occidente| tuffasse i raggi il luminar maggiore||....|| Già già parmi l’altrier quand’ero in culla;| or m’aspetta il ferétro, e ’n breve, ahi lasso,| sarò un mucchio di polve, e poscia nulla.||...”. Contro la rincorsa insaziabile del piacere, è detestata la nuova moda de L’uso del tabacco, che termina “Siam de la vita omai giunti a l’occaso!| Ha portato fra noi barbara polve| le delizie del mondo insino al naso”. Moralista convinto, dunque,  scrive risentito  circa la “Stravaganza di bella donna”, l’uso del “Guarda infante”,  la “Infelicità della vita umana” (tanto “Ch’in ogni aspetto sensibile si rappresenta la morte”); oppure ammonisce “A bella donna, memoria di morte”  o sulla “bellezza transitoria”. Alcuni di questi sonetti  val la pena di riportarli, mentre lascia perplessi la canzone “La ragna. Che l’umane fatiche sono sparse al vento”. In essa non sa decidersi, infatti,  se privilegiare la esaltazione (epopea?) delle fatiche umane o la tristezza (elegia?) della loro inutilità; nè riesce a fondere le due tonalità in commozione. Pure privilegia la esultanza epicizzante (un po’  teatrale, a dir il vero) nelle ultime due strofe: “D’un Alcide sognò l’antico mondo,| che per dodici sue famose prove| ascese al padre Giove,| prefissi i segni all’oceàn profondo;| ove, converso in nume,| splenderà sempre mai d’eterno lume.|| Ha pur gli Ercoli suoi, ma veri e santi,| questa età del Messia. Già già su l’etra| si solleva e penétra| chi di tante fatiche, affanni tanti,| con più nobile eccesso,| vinse la terra e trionfò se stesso.” (continua  nella nota seguente).

[28] Del Gaudiosi riportiamo tre sonetti. Il primo, sulla morte incombente, è ricco di concettini nella terzina finale: “S’alzo al canto la voce, o formo accento| o d’affanno o di gioia, il cor m’assale| un profondo pensier: che son mortale| e che la vita mia si scioglie al vento.|| Se giro il guardo al liquido elemento,| contemplo i moti del mio vivere frale;| se calpesto la terra, in cor mi sale| che m’appresta la tomba ogni momento.|| Se sollevo lo sguardo al ciel superno:| -E chi sa- con sospiri esclamo allora-| se n’avrò per mia colpa essilio eterno?-|| Così, senza morir morendo ogn’ora,| riconosco la morte in ciò che scerno:| tante volte si muor pria che si mora”. Il secondo (De le grandezze di Dio) è epicizzante, se pur  il raziocinio prevalente raffreddi lo slancio celebrativo  dell’Infinia Realtà : “Ignoto Dio che d’ogni parte splendi,| che senza loco in ogni loco stai,| tu che, non mosso, il movimento dai,| che compreso non sei, tutto comprendi;| tu che’n ciel regni e negli abissi stendi| l’essenza tua non circoscritta mai;| unica luce in triplicati rai,| che non sei foco e l’universo accendi;|| fosti sempre e sarai; ma propriamente| l’infinito esser tuo non fu nè fia:| sempre, astratto dai secoli, presente.|| Se tenta il volo inaccessibil via,| tu le forze avvalora, e si sostente| su lo spirito tuo la penna mia”. Il terzo è “Preghiera a Dio” (elegiaco nel complesso, anche se oscuro nei primi due versi della seconda quartina): “Signor de l’anno nubiloso e breve| de la mia vita instabile e volante,| ecco mi veggio omai la state avante,| e la bella stagion passata è lieve;|| e già l’avanzo, ch’al mio corso deve,| mentr’io ragiono, con alate piante,| scorre il Tempo fugace e poco stante| su la mia terra agghiaccerà la neve.|| Tu, sommo Sol che su gli eterni giri,| moderando le cose immoto splendi,| e’l mio termine ignoto aperto miri,|| sovra me un raggio di tua luce stendi,| con la cui scorta a l’alta meta aspiri;| e l’alma vaga al suo principio rendi.” Un sonetto d’amore (Tormentato per non poter mirare la sua donna) è vivamente drammatico, fino alla battuta finale concettista: “Guardan la donna mia con occhi cento,| disturbator de le delizie mie,| due furie amanti, due gelose arpie,| ch’a lei recan timore, a me tormento.|| Se volgo un occhio a rimirarla intento,| mi son cent’occhi osservatori e spie;| se vo’ parlarle, alle custodie rie| ogni picciola nota accusa il vento.|| Disperata mia sorte! e qual poss’io| sperar mercè, se capitale (motivo di pena capitale) è meco| una voce cortese, un guardo pio?|| Amor, soccorri: al tuo valor m’arreco.| Ma qual soccorso apporterammi, o Dio,| contra tanti occhi un difensor ch’è cieco?” Ed anche sofferto è Bellezza transitoria: “Donna, ti miro in questa età crescente| di tal bellezza e tante grazie piena| ond’è che posso immaginarmi a pena| che sii cosa mortal, pompa cadente.|| Quella fronte ch’agguaglia il dì nascente,| quella chioma che l’anime incatena,| e quanto veggo in te, dolce mia pena,| la bellezza del ciel mi fan presente.|| Ma quando penso, oimè, che poco stante| vedrà chi vive impallidite e smorte| quelle fattezze ond’or languisco amante,| m’è pur forza ch’esclami: -O Cielo, o sorte,| a che produr tante bellezze e tante,| per pascer gli anni e tributar la morte?”.

Bartolomeo Dotti (Valcamonica, nel Bresciano, 1642|1651- 1713). Morì per il pugnale di un sicario, essendosi procurati molti nemici con le sue satire. Riportiamo il giudizio del Ferrero nella Ricciardiana: “Verseggiatore copioso, ha molte rime encomiastiche insignificanti per l’arte. Nelle sue rime d’amore o descrittive o moraleggianti prevale un laborioso barocchismo”. Commentiamo qualche sonetto tra quelli riportati dalle sue Rime. Ecco il secentismo estremo: 28  ossimori in 14 versi su “Occhi neri: “Luci caliginose, ombre stellate,| Luciferi ammorzati, Esperi ardenti,| Orioni sereni, Orse turbate,| mesti Polluci e Pleiadi ridenti;|| soli etiòpi e notti illuminate,|limpidi occasi e torbidi orienti,| meriggi nuvolosi, albe infocate,| foschi emisperi ed Erebi lucenti,|| ottenebrati lumi e chiare eclissi,| splendide oscurità, tetri splendori,| firmamenti in error, pianeti fissi,|| démoni luminosi, angioli mori,| tartarei paradisi, eterei abissi,| empirei de l’infenro, occhi di Clori!” L’ “Amante che prende tabacco in fumo per solllievo delle passioni amorose” termina con il razzo concettista: “con l’erba va la mia speranza in fumo”. Scherzosa è la prima parte e incerta fra dramma e riso la seconda, nel sonetto “Bella donna uccide una farfalla che le volava negli occhi”: “Farfalla innamorata, in cento voli,| Fille, su gli occhi tuoi si rivolgea,| dove, per non lasciarvi ardere soli| i cori, anch’ella incenerir volea.|| Aquiletta gentil, quasi tenea| fisse le pupillette in quei due soli,| augel del paradiso anzi parea,| che s’accostasse ai duo stellati poli.|| T’infastidì quell’innocente  gioco;| e quando fe’ la semplice ritorno,| con la sua morte al tuo rigor diè loco.|| O viso d’ira al par d’amore adorno,| tralascia di portar ne gli occhi il foco,| se non vuoi le farfalle averc’intorno”.  “A Sirmione” ha discrete le due quartine; poi, subentra il gioco di parole, che rovinano quel tanto di  malinconia che, insidiata da intenzioni epicizzanti, pur affiora all’inizio: “Ognor che del Benàco io vengo e torno| per questa inferior pendice aprìca,| in te fiso le luci, o Sirmio antica,| già, di Catullo mio, dolce soggiorno.|| Tu, penisola umìl, che sporgi il corno| da la terra e da l’acque a gran fatica,| sì nota sei, mercè la musa amica,| che a più province, a più città fai scorno.|| Quel cigno fu di nominarti vago,| e col nomarti sol fu sì fecondo,| che fece del tuo nulla un’ampia imago. || Così ti pose per destin secondo| una striscia di terra in braccio al lago,| una striscia di penna in faccia la mondo.” Ancora migliore ci sembra il sonetto “Il Molino”,  che pure smorza nelle troppe immagini la forza dell’epopea, nelle quartine e del dramma, nelle terzine: “Mole, d’un fiume in su le sponde accolta,|cozza in più rote a l’arietar de l’onda:| la primiera dà moto alla seconda,| e la seconda poi l’altre rivolta.|| Indi leva una selce, ove sepolta| con sollecito piè Cerere affonda,| e la granita sua chioma già bionda| in atomi canuti ecco disciolta.|| Tal noi del Tempo il vasto gorgo incalza:| la puerizia in gioventù risolve,| la giovinezza in mezza età trabalza;|| questa in vecchiezza, o mio Camillo, ei volve;| ed ecco del sepolcro allor c’inalza| la pietra in capo, e ci sfarina in polve.” Che se il tabacco offre ancora spunti per meditare sulla morte e secenteggiare nei paragoni sproporzionati (“tal in aria sospeso, è un fumo il mondo”  sentenzia l’ultimo verso del sonetto: “Il tabacco in fumo”), invece il sonetto “Uomo povero e nemici prepotenti” è libero da ogni barocchismo e si protende alla sfida in tono schiettamente guerriero: “Nemici, eccomi in campo. Oggi fra noi| di virtù si contende e non di sorte.| In questa cedo, in quella no. Di voi| se più povero io son, non son men forte.|| Se, come al vostro piè, gli erari suoi| la Fortuna versasse alle mie porte,| voi chiedereste, o minacciosi eroi,| la vostra vita più che la mia morte.|| Ma, privo di ricchezze, anco incapace| forse d’armi son io? No; chè la terra| così a me come a voi ne fu ferace.|| A la mia povertà, che non si atterra,| se manca l’oro a procurar la pace,| non manca il ferro a proseguir la guerra”.  Con simile coscienza, non meraviglia che cadde sotto il pugnale di qualche nemico.

Andrea Perucci (di Palermo, 1651-1704) appare un concettista pervicace. Se vuol dire che cosa sia l’amore, egli lo distingue in due realtà opposte: “dei tuoi lumi è chiarissimo baleno,| atro fulmine in me, per cui m’infoco.|| Se in te lo miro, è tutto festa e gioco|; se in me lo provo, di miseria è pieno|...|| Sì, bella, vuoi saper che cosa è amore?| Specchiati, e’l mirerai ne gli occhi tuoi;| aprimi il petto, e me’l vedrai nel core”. E, nella vita, egli vede un groviglio di gioie e dolori, da richiamargli due figure opposte di filosofi: Democrito ed Eraclito: “Se Democrito stempra il core in riso| e s’Eraclito stilla il core in pianto,| il pianto di costui merita il riso,| il riso di colui merita il pianto.|| Ma se un’aura di duol fugace è il pianto,| effimero balen di gioia è il riso;| se ride Ciro e versa Creso il pianto,| piange poi Ciro, e di Tomiri è un riso.|| E’ l’orbe un embrion di riso e pianto;| del fato i giochi degni son di riso,| le miserie de l’uom degne di pianto.| Così congiunti sono il pianto e il riso| che scorger non si sa tra riso e pianto| se riso il pianto sia, se pianto il riso”:  la troppa “bravura” non genera meraviglia, ma semmai ridicolo: oltre tutto, l’exploit di chiudere tutto il sonetto in due sole rime (le parole “riso|pianto) toglie musicalità, perchè l’orecchio umano non percepisce come rima musicalmente significativa il ritorno della stessa parola in fin di verso.

Abbiamo trascurato, dei verseggiatori marinisti collezionati da G. G. Ferrero per la Ricciardiana, solo pochi nomi (Giambattista Pucci, urbinate, morto nel 1649; Giovan Battista Narducci; Ludovico Tingoli, di Rimini: 1602-1669; Paolo Abriani, di Vicenza, attivo fra il 1650 ed il 1663; Antonio Fortini, cui si è accennato per il sonetto L’amante segreto; e Martino Lunghi), le cui rime non ci son sembrate interessanti. Ma non possiamo trascurare La mosca nel calamaro di Emanuele Tesauro (Torino, 1591-1675: lo abbiamo già incontrato come teorico della poetica secentista), nel cui “Cannocchiale di Aristotele” sono conservate queste dieci quartine di endecasillabi a rima ABBA. E’ una sintesi di metafore sbracate ( la mosca è “augello infernal”...), di ripetizioni della stessa parola in sensi diversi (la mosca che fa andar la mosca al naso...), di contrapposizioni fra maschile e femminile (“musa” e “muso”), di antitesi forzate (“terra| e mare| arco e saetta| cavallo e cavalier...”), di paragoni spropositati (“ch’io somiglio ad Omero ed a Nasone”, cioè al cieco poeta greco ed a Publio Ovidio Nasone)...  Eppure ha un residuo di efficacia drammatica, oltre ad un principio di comicità divertente: può essere considerata la “fiera” di virtù e difetti del poetare barocco. “Bevi, augello infernal, pugliese mostro (la tarantola),| sanguisuga volante, alata strega;| bevi a schiattabudella e va’, ti annega,| sporca arpìa della terra, in mar d’inchiostro.|| Tanto sangue m’hai tratto, orca vorace,| che come Erisitton vuote ho le vene;| nè di tua crudeltà presi le pene,| chè quant’empia e crudel fosti fugace.|| Senza pace nè tregua, atra Medusa,| di te stessa facendo arco e saetta,| cavallo e cavalier, tromba e trombetta,| bersagliasti il mio muso e la mia musa.|| Gittar la penna e rinnegar Parnaso,| percoter l’aria e schiaffeggiar me stesso,| quante fiate m’hai fatto? e come spesso| mi fe’ una mosca andar la mosca al naso?|| Anzi, mosca non sei: ma il fiero assilo| che Giunon mandò dietro alla baldracca| dal Tonante rival cangiata in vacca| ch’andò per rabbia a pascolar nel Nilo.|| S’io scrivo, in su la man scendi boccone;| se difendo la man, l’occhio è assaltato:| così gli occhi ho trafitti e’l naso enfiato,| ch’io somiglio ad Omero ed a Nasone.|| Trarmi il sangue e gli spirti, questo è un nulla;| ma sorbirlo e cacarlo per dispetto,| e sporcarmi la carta e’l mio concetto,| son pur cose da Ghetto e Carafulla.|| Ma quel dio che protegge in Elicone| l’onor de le Muse e de’ poeti,| con degna punigion t’ha posta in geti (ceppi, catene)| e un corno (calamaio fatto di corno?) per tuo scorno è tua prigione.|| Nel sacro inchiostro, onde l’ingegno ameno| riga gli orti di Pindo, intirizzita,| hai lasciato lo stral, l’ali e la vita,| e il latte delle Muse è il tuo veneno.|| Or voi con labra di tenaglie armate| correte a questa preda, o formiconi;| pulci, vespe, tafani e farfalloni,| a stuzzicar poeti oggi imparate!”. Si esigono applausi. Amen.

 

[29] Per altri minori, cfr. Claudio Varese, Teatro, prosa, poesia, nella Storia della Lett. it., IL SEICENTO, Milano, Garzanti, 1976, pp. 570-1.

[30]  Il Varese, a pp.541-2 dello studio citato, così  introduce alla vicenda: “Poliarte, imperatore di Costantinopoli, per amore della principessa Diana abbandona Tigrinda, regina di Trebisonda, la quale sposa Orcane e giura vendetta contro la famiglia di Poliarte... Nello stesso giorno e nella stessa ora... Poliarte e Tigrinda, già innamorati ed ora nemici, hanno rispettivamente due figli, Calloandro e Leonilda, tra di loro simili come gemelli e destinati a reciproco amore”. Carmine Jannaco, nel volume della Vallardiana citato nel testo (pp.527-8) la dipana più dettagliatamente: “Leonilda, principessa di Trebisonda, odia  C., figlio dell’imperatore di Costantinopoli, ma insieme lo ama, sotto altro nome...C. compare come cavaliere sconosciuto a un torneo che si tiene nella capitale d’Armenia, Ismara, per le nozze di Arfileo, e vi dà prove straordinarie di valore cavalleresco. Intanto si prepara la guerra fra Tigrinda e Poliarte, genitori dei due giovani, separati da odio tenacissimo: uno scudiero ne racconta ad Arfileo le ragioni, ciò che dà luogo a una lunga digressione. Da Tigrinda nacquero gemelli Endimiro e Leonilda, nello stesso giorno nacque Calloandro. Di quest’ultimo, che si nomina Cavalier di Cupido, si seguono ora le vicende amorose ed eroiche. Cade in prigionia di Crisanta duchessa di Ossarena; Leonilda lo libera e se ne innamora, riamata, senza conoscerne la vera identità. La materia amorosa prende il sopravvento nella storia di C. che in abiti femminili convive con Spinalba, sorella del re dei Turcomanni Safar, e dorme con lei nello stesso letto. Nella prima edizione il cavaliere cedeva ai sensi, infrangendo il modello dell’amante cortese e fedele e, alla fine, del romanzo, al momemto delle nozze con Leonilda, giungeva in Trebisonda la fanciulla sedotta.  Ciò fece scandalo e il Marini accomodò la narrazione, rendendo solo apparente l’infedeltà di C. Il giuoco dei travestimenti, degli scambi di persona, degli inganni e delle rivelazioni continua inarrestabile: si giungerà alla singolare situazione di C. che deve combattere, perchè finisca la guerra, contro se stesso. Questa invenzione offre il destro al Marini per ulteriori complicazioni, che sarebbero sanate dal patteggiato matrimonio di C. con Leonilda, se questa non fuggisse sgomenta da Costantinopoli. Nelle avventure che seguono, C. salva, difendendolo dagli assalitori, il giovane Uranio, che si scoprirà poi essere fratello di Leonilda, Endimiro, perduto bambino e creduto morto. Così il romanzo precipita verso lo scioglimento con una serie di matrimoni, che però hanno diverse appendici e code”.  Decisamente, le “telenovele” non sono state inventate dalla e per la televisione: sono molto più antiche.

[31] Il libro anonimo “Le glorie degli Incogniti” o vero gli uomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti di Venezia” (1647) è attribuito o direttamente al Loredano od al suo amico G. F. Biondi, esule in paesi protestanti: il libro esalta non solo il Biondi, ma anche un Ferrante Pallavicino, giustiziato ad Avignone come eretico. Del resto, iscritti all’Accademia risultano nomi  appartenenti agli intellettuali italiani dell’epoca, anche se essi risultano poi, fuori della letteratura minore e minima, uomini davvero “incogniti”. Pel suo anticlericalsimo, sta l’epitaffio iscritto per se stesso nel “Cimiterio”: “Qui giace un ch’ebbe humor di poesia| ma fu più d’un pallon d’ingegno tondo| Pensa s’ei fu poeta. In questo mondo più della peste odiò la sacrestia”.

[32] Come è noto Giovanni Getto, nell’articolo Eco di un romanzo barocco nei P. Sposi (Lettere italiane, XII –1960-, 2, pp. 141-167) volle vedere in più di un particolare del romanzo spunti per la Introduzione e per lo svolgimento del suo capolavoro. Non si può nè affermare con certezza nè rifiutare del tutto le argomentazioni: il c. II è il più  ricco di indizi, ma nel complesso sono troppe le divergenze di trama e di stile per lasciare convinti.

[33] Giovanni Battista Moroni: nato forse a Ferrara da famiglia bergamasca, giurista e diplomatico, morto nel 1645, scrisse due romanzi che pretenderebbero essere relgiosi: I lussi del genio esecrabile di Clearco (1640) e Il Principe Santo (1641). Ma in entrambi sono il peccato ed il delitto  a dominare: la libidine, frutto dello strapotere di Clearco (condanna della tirannide come sfrenatezza viziosa); i peccati di  estrema corruzione del re Vandegislao. In entrambi i romanzi si giunge all’incesto tra padre e figlia, tra madre e figlio. La  superficiale interpretazione della verità che anche il peccato rientra nel “gioco di Dio”, rende  insignificante il pentimento e facile il ritorno al peccato dopo la confessione  sacramentale (Il Principe santo). In Clearco la vendetta finale per i troppi delitti dovrebbe giustificare una narrazione di indegnità morale. Romanzi religiosi? Intenzioni educative? Se davvero il Moroni credeva in risultati positivi da simile trama, doveva essere ben ingenuo e disorientato, perchè non solo liricamente, ma anche intellettualmente e moralmente insufficiente è questo mondo moroniano. A meno che l’aver egli contribuito con due novelle alla “Raccolta degli Incogniti” di Venezia non debba far sospettare  raffinata malizia anzichè infantile ingenuità...

[34] “Demetrio, prigioniero, trama di poter fuggire con l’aiuto di Anticira, moglie di Pausania, suo custode e di Nefulcone, servo e amante di lei.... Nefulcone geloso svela gli intrighi di Anticira a Pausania e Demetrio, per equivoco, uccide Anticira, ch’era venuta all’appuntamento d’amore e di fuga, nelle vesti del marito. Demetrio nel frattempo si innamora di Levilla, che ama invece Selandro, ribelle al re Seleuco. Demetrio, per ottenere i favori della fanciulla, minaccia di denunziare Selandro al re, ma l’intrigo è sventato e Seleuco fa uccidere Demetrio, che nel frattempo aveva complottato con Stratonica”.

[35] Agostino Mascardi fu gesuita, nato a Sarzana nel 1590 e morto nel 1640. A parte le Prose volgari (1620), le liriche latine (Silvarum  libri IV, 1622) e il saggio La congiura del conte Giovanni Luigi Fieschi (1629), egli è noto per il molto lodato trattato Dell’arte historica (1636), in cui, pur difendendo la verità come il fine specifico della ricerca storica, egli

non trascura la questione dello stile nello stenderla. Fatta la grande intuizione che lo stile è innato e personalissimo, egli lascia spazio ad elementi stilistici apprensibili e regolabili in base alla scelta del “carattere” con cui si vuol scrivere. Per “carattere” egli intende ancora  i tre stili danteschi (alto, medio, basso) e, sostenendo che alla storiografia  si confà il “carattere alto”, fa rientrare la retorica dalla finestra, finendo per sostenere ancora il carattere letterario del componimeto storiografico,   fino a non escluderne del tutto “il pregio delle finezze ben adoperate” (da C. Jannaco, o. cit. pp.685-7)

[36] B. Croce, nei Nuovi saggi sulla letteratura italiana  del Seicento, Bari Laterza, 1949 (pp. 178-191),  documenta come le vicende del romanzo del Brusoni furono arbitrariamente riferite agli scandali probabilmente successi negli anni 1525-1526 nel convento di S. Arcangelo a Baiano, che avevano portato alla chiusura del monastero nel 1577.

[37] “Peota” o, meglio, “peata” è grossa barca da carico veneta, piatta e con prua alta e rotonda, in uso nela laguna.

[38] Poche le cose in italiano : nel 1629 pubblicò il dramma sacro Tobia, assieme alle Rime spirituali.

[39] C.Varese, ne Il Seicento , Milano Garzanti, 1976, pp. 647-8. Seguono citazioni da pp. 572, 574, 575, 642, 643- 647: in genere, per l’analisi  del  Cane di Diogene, ci atteniamo a questo studio, salvo a documentare anche con passi dalla Ricciardiana (Trattatisti e Narratori) e con scorribande personali  dentro le pagine (troppe!) dell’opera.

Tra le postille riportate dal Varese, cui accenneremo ben presto, citiamo queste esemplari: “Qui l’autore descrive mirabilmente il corteggio dei damerini: la speculativa è un estratto della osservazione: un astratto del concreto”; “La necessità e la filosofia sono sorelle”; “Libri di schiena e da schiena non hann’anima, perciò cadaveri”; “Ignoranti che presumono, asini che mordon libri”; “Scienza gonfia ed ignoranza pingue”... 

[40] C. Jannaco, Il Seicento, Milano, F. Vallardi, 1963, p. 52. Le altre citazioni sono invece da p. 533 e 558.

[41] L’Eroina intrepida, I, 1: ricitiamo da C. Varese, cit. p. 573. Più avanti, citiamo da p. 643.

[42] Di altri romanzieri, ci pare possa bastare un cenno. Fr. Pona (Verona 1594-1655), medico di professione, traduttore dell’Argenis del Barklay, autore di opere professionali (Il trattato de’ veleni; Academico-medica saturnalia), storiche (Il gran contagio di Verona nel 1630; Duodecim Caesares), una commedia (Parthenio), una tragedia (Cleopatra) ed i romanzi L’Ormondo| La Messalina| La lucerna (1625)| L’Antilucerna (1648: è  il complemento o, se si vuole, il rifacimento-palinodia della Lucerna, criticata per la spudoratezza e sanguinarietà di molti dei personaggi descritti)| La galleria di donne.  Di  Giovanni Pasta (Milano 1604-1666), canonico della cattedrale di S. Alessandro a Bergamo, ricordiamo solo il romanzo Il Dernando, overo Il principe sofferente (1638): leggo che vi vien giustificato il punto d’onore e la uccisione, per difenderlo, come in genere il costume di orgoglio e violenza del secolo.  Manzoni, in Fermo e Lucia, lo giudica con sarcasmo. Per altri  romanzieri religiosamente ispirati, rimandiamo alla Garzantiana, vol. cit. p.590; per autori che si rifanno alla politica ed alla storia, si veda ivi, p. 570-1.

[43]Se val la pena di andar spigolando tra le metafore concettiste della prosa barocca, allora ci si può divertire a leggere   quelle che ha collezionato Carmine Jannaco alle pp. 532-3. Ma sono sciatte, non avendo neppure lo splendore musicale del verso. Lo stesso Jannaco, a p. 551, ha un lungo elenco di novellatori del secolo.

[44] Sua nemica diventa la regina, che ha chiesto di poter entrare nel consiglio di stato. Richiesto del suo parere, Bertoldo propone al re di sottoporre la regina alla prova del segreto, dandole da custodire una scatola per un certo  tempo, senza aprirla. Vi ha rinchiuso un uccello che, appena aperta la scatola, se ne vola via: senza la capacità di frenare curiosità e lingua, nessuna ammissione ai segreti del regno...  

[45] Benchè “sprituale” si riferisca a tutta l’attività dell’uomo in quanto si distingue dagli animali,  perchè dipende dall’anima spirituale; e comprenda, quindi, anche le opere artistiche ed intellettuali pure (scienza, filosofia, ecc.), tuttavia, nel linguaggio comune, per scritti od attività spirituali si intendono quelli attinenti non tanto la intelligenza, quanto la volontà dell’uomo e, quindi,  tutta la prassi umana in quanto si richiama alla morale, di cui la religione è il fondamento ed il coronamento (essendo, la religione, “virtù che regola i rapporti dell’uomo con Dio” e, perciò, la virtù suprema della vita morale).

[46] La sottolineatura in corsivo è nostra, qui come nella riproduzione del brano di p. 636 dal volume della Garzantiana.

[47]  Patenti: si tratta di regole conoscibili cioè da tutti quanti lo desiderano, perchè  il segreto dei regolamenti e dei fini perseguiti da una associazione è condannato dalla Chiesa non solo  nei confrotni di società  quali la massoneria e la mafia, ma anche nell’ambito dell’associazionismo cattolico, religioso o laicale che sia.

[48] Perchè “spagnoleggiarono”? Si veda in B. Croce “Saggi sulla letterrura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1948, pp. 155-181: “I predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnolo”. Vi si dice chiaramente: “In questa predicazione (di un Cornelio Musso, di un Francesco Panigarola, classici del Millecinquecento), in complesso severa e scevra di giuochi rettorici, sopravvennero (elemento rivoluzionario) i “concetti predicabili”. E sbarcarono in Italia dalla Spagna” (p.166).

[49] Per l’oratoria sacra, seguiamo C. Jannaco,  citato, pp. 659-682.

[50] Per un esempio di metaforizzazione predicabile del Vangelo, ci atteniamo a quello che riporta Jannaco a p. 662, tratto da p. Giulio C. Capaccio. Prende le mosse da una semplice frase di Giovanni, 18,1 “Uscito Gesù oltre il torrente (Cedron)”; si sofferma sulla “uscita” e risale alle tre uscite di Gesù: dal Padre alla Madre (per la incarnazione); dalla  Madre al Mondo (per entrare nella vita pubblica); dal Mondo alla Gloria (con la Ascensione). Su ognuna delle “uscite (od ingressi: a secondo dei punti di vista, ogni uscita è anche una entrata) egli ricama un numero infinito di immagini, paragoni, metafore: “Il secondo ingresso fu nell’horto di questo Mondo. Horto di varietà ornato, che per ciò “cosmòs” da i Greci fu detto. La cui siepe è la circonferenza, il cui fonte il mare, pergola il firmamento, arbori gli uomini, fiore la gioventù, frutto maturo la vecchiezza. E che contiene due porte, l’Ingresso della Natività e l’egresso della Morte. Il primo Hortolano fu Adamo...”. Ci fermiamo collo Jannaco: di questo passo si può parlare (a vanvera) sino alla fine del mondo.

[51] Paolo Segneri iunior fu un nipote omonimo: anch’egli gesuita, ne continuò l’opera  ed il successo di predicatore, fino al 1713, morendo a neppure quaranta anni.

[52] La frase che Jannaco cita da Giulio Marzot (-l’uomo è  interamente “padrone di sè, ed ha le redini in mano del suo volere”) non è pelagiana, ma antiastrologica, tanto che finisce così: “ senza che tutti i movimenti sì rapidi delle sfere possano violentarlo” (p. 674 e nota -41- a p. 681).

[53]  Il Segneri non è  artista quanto S. Bernardino da Siena. Lo Jannaco  azzarda però  un parallelo fra le polemiche del  Ségneri contro il Quietismo e le Lettres provinciales di Biagio Pascal, ritenendo con Giulio Marzot che ad es. la Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione sia opera superiore alle prediche(p. 674-5),. Meno ci interessano le altre opere del Ségneri, che pure riportiamo come omaggio alla ricca umanità della sua figura. Si noti intanto  che nella raccolta di omelie (Pamegirici sacri, Venezia 1657) egli si rivela non del tutto alieno da un certo manierismo e, quindi, meno lontano dallo stile infiorato se non propriamente barocco. Una terza collezione di prediche è quella degli ultimi anni “Prediche dette nel Palazzo apostolico” (1694). Ed ecco le opere di formazione morale: Il cristiano istruito nella sua legge (1686), Il penitente istruito (1669),Il confessore istruito (1672), La manna dell’anima (1673-80: meditazioni per ogni giorno dell’anno), Il divoto di Maria Vergine (1677), L’incredulo senza scusa (1690), Il parroco istruito (1692), Dichiarazione del Pater noster (1694). Del 1693 vi sono tre lettere contro il probabilismo del superiore generale dei gesuiti, lettere fatte circolare manoscritte ed edite solo dopo la sua morte. Si noti che la Concordia fu messa all’indice dei libri proibiti, assieme alla Lettera di risposta, che egli oppose ad un’opera scritta dal card.Petrucci nel 1681. Ma una volta condannati sia il Molinos (fondatore del quietismo) sia il card. Petrucci, suo seguace, la Concordia venne tolta dall’Indice e il Segneri sollevatao da ogni condanna dal Santo Uffizio (1692).

 

[54] Si ricordino almeno i tre “matadores” del siglo d’oro. Lope de Vega (1562-1635) ci ha lasciato 426 commedie e 42 autos (ma la tradizione gli attribuisce 1800 delle prime e 480 dei secondi): come migliori vengono citati “Il miglior giudice è il re”; “Il cavaliere di Olmedo” e “Peribànez e il commendatore di Ocana”. Pédro Calderòn de la Barca (1600- 1681) compose almeno 120 commedie e 80 autos (spettacoli di carattere relgioso): il capolavoro fra le commedie è “La vida es sueno”; degli Autos, “El gran teatro del mundo”. Tirso de Molina (cioè il padre -relgioso dell’ordine della mercede, per la liberazione degli schiavi cristiani- Gabriele Tellez: 1584 ca- 1648), delle cui 59 opere teatrali pubblicate fra il 1627 ed il 1630, fa parte il capolavoro intitolato “El burlador de Siviglia y convidado de piedra” (Il beffatore di Siviglia e Convitato di pietra), che inaugura il mito latino-europeo dell’uomo disonesto nei costumi fino alla incoscienza e punito colla dannazione finale: mito parallelo a quella tutto tedesco del Faust, che è dell’uomo che smarrisce addirittura la fede, di cui la corruzione e la dannazione sono conseguenze. Nel “don Giovanni”, ciò che attrae nel peccatore è il suo spirito arguto e il cinismo brillante; nel Faust, cioò che affascina è il tentativo di costruire l’homunculus, cioè di padroneggiare la vita e sfidare il potere creatore di Dio.

[55] Non importa che la maschera sia stata inventata solo intorno al 1790 da  Luigi Del Buono, come carattere del- l’uomo sempliciotto, bonario, dalla battuta pronta e dai costumi piuttosto liberi: il nome suo è un programma che, anche solo inconsapevolmente, era impresso nella psicologia della popolazione etrusca e che affiorò nella maschera, divenuta incarnazione di tale natura economa e calcolatrice.

[56] Scipione Maffei, nel 1723, volendo difendere la indipendenza del teatro italiano da quello francese, pubblicò una scelta di tragedie che, oltre ad alcune del Millecinquecento (Sofonisba, Torrismondo e la Merope di Giulio Cesare Torelli), segnalava anche quelle del Milleseicento che potevano entrare nel “canone” delle opere classiche del teatro italiano: Alcippo| Le gemelle capuane, di Ansaldo Cebà (che scrisse anche  La principessa Silandra); Solimano, di Guidubaldo Bonarelli; Cleopatra, del card. Giovanni Delfino; Aristodemo, di C. de’ Dottori. Il Varese (Garzantiana, p. 492) propone di includervi le altre commedie del Delfino ( Medoro, Lucrezia, Creso); Ipanda, di Giovanni Battista Alberi e  quella di Francesco Bracciolini (Evandro), oltre a quelle di F. Della Valle.

[57] Il poeta fu identificato dal Croce, che almeno ne assicurò la nascita astigiana (lo si riteneva poeta romano!). Poco si è però riusciti a scoprire della sua esistenza: eppure, con il de’ Dottori, rischia di essere  il miglior trageda che l’Italia abbia prima dell’Alfieri. Peccato che non manchino nella sua produzione note di barocco letterario.  Andrebbe tenuto presente anche il fatto che la prima stesura delle sue opere è tutta anteriore al Milleseicento, anche se di pochi anni.

[58] Seguiamo Claudio Varese nella Garzantiana. Egli partecipa delle prepotenze e libertinaggio sessuale  come troppi giovani benestanti del tempo: oltre tutto si fa scortare da bravacci per difendersi ed offendere. Finisce in prigione, accusato di un libello contro alcune dame della città natale, ricavandone un poemetto intitolato appunto La Prigione, dove in otto canti di ottave narra vicende della esperienza umiliante, ma trova modo di inserire una serie di novelle, presentate come dette in prigione, di carattere grossolanamente sensuali. Non fu edito: ci è giunto manoscritto (1643). Nel 1644 pubblica un romanzo (Alfenore, donato alle dame della sua patria), in cui si adegua pienamente all’atmosfera secentesca (peripezie avventurose|linguaggio enfatico). Pure, almeno dal 1643, egli diviene un ammiratore di Fulvio Testi, che saluta come maestro in alcuni versi delle sue Ode. Il 1644 è  poi l’anno del suo matrimonio (ma trova modo di canatare altre due donne amate). Comunque nel poema eroicomico L’Asino (1652: ce ne occuperemo meglio a suo luogo), egli si fa beffe del poeta marinista più noto a Padova, il veneziano Giambattista Bertanni. Prima, nel 1643, egli pubblica Poesie liriche, cui seguono le Canzoni nel 1647 e le Ode. Altri versi rimangono inediti (Galatea, poemetto erotico, diffuso manoscritto ; Il Parnaso, poemetto satirico; Ippolita, dramma per musica, uscito postumo; Zenobia di Radamisto, edita solo nel 1786). Pubblicò con lo pseudonimo di Eleuterio Dularete il drarmma tragico Bianca de’Rossi, scritto in prosa (1661). Intanto  si verifica nel suo animo una conversione etica e religiosa, che è documentabile almeno dal 1647 (nelle odi di quegli anni e ne Il Parnaso). Si inserisce nella vita delle corti, ma non senza difficoltà, visto il temperamento non facile e l’attaccamento alla sua città natale.  Accolto dapprima dalla principessa di Eleonora di Mantova, nel 1650 lo troviamo  a Roma come segretario del cardinale Rinaldo d’Este nei primi quattro mesi del 1650; poi sarà con Leopoldo di Toscana, per passare nel 1658 alla corte di Vienna.  La storia della sua vita, della cui giovinezza e scritti erotici egli esprime il pentimento più acerbo (sia in nome della morale e dignità umana, sia in nome della fede religiosa)  è contenuta nelle Confessioni. Se anche non si elevano alla poeticità dell’opera del vescovo di Ippona, pure l’indagine psicologica e la passione morale le avvicinano agli scritti dei contemporanei moralisti francesi. La vena di fortezza che egli mostra nel capolavoro- la tragedia Aristodemo- la si può sentire spiegata già nell’episodio di Desmanina che,  squarcio tragico nell’Asino (poema eroicomico), cerca morte in battaglia, pur di affrontare  Ezzelino che l’ha ripudiata e per la cui spada riesce a  perire; e nell’ode “L’Appennino” che, pur risentendo in parte dell’enfasi secentista, attinge però, a nostro parere, la  sufficienza poetica (in senso drammatico-epico). Ecco tre strofe di questa ode rupestre: la prima, sulla possanza del monte; la seconda e la terza, sull’opera di ammansimento operata in esso. “Stende le membra immense, e in vario sito| vari titoli usurpa, e sempre regna.| Inospito, intrattabile, e romito,| anco sta in parte, e d’esser vinto sdegna;| in parte il ferro, il tempo e l’uomo ardito| cedere ai colpi, e obbedir gl’insegna.| Ma per forza fu vinto, e ricusando| donar vittorie, egli perdè pugnando.||.... Il fumo ormai di povere capanne| mesce a quei delle nubi i propri errori,| già gonfia il pastorel stridule canne| ignote un tempo a quei selvaggi orrori.| Già liberato il suol d’ombre tiranne,| chiamato è ’l sol, ch’ignota piaggia indori;| e ritrovato il pasco, ove non era,| mugge il giovenco, ove ululò la fera.|| Il silenzio guardingo omai non sente| strider l’aratro co’l timor di prima;| soffre il vomere il monte, e già consente| de’ doni anch’ei partecipe del clima,| così ridotto ha’l secolo presente| campo ferace un’infeconda cima;| e fede serba l’orrido macigno| nell’ignudo bifolco al parco ordigno”.

COMMEDIE IN VERSI

 

Giovan Battista Manzini (Bologna:1599-1664: lo abbiamo già incontrato come autore del romanzo Il Cretideo). Egli non si limitò a polemizzare contro la letteratura pornografica, ma volle porvi riparo anche con una produzione esplicitamente educativa, attraverso sia la la tragedia (Flerida Gelosa: 1632) che la commedia (L’avariza scornata: 1633).

 

Francesco Pona (Verona, 1595-1655: ne abbiamo già visto la attività in prosa per i romanzi La Messalina| L’Ormondo), scrisse anche la tragedia Cleopatra ed il Christo passo. Membro dell’Accademia degli Incogniti, traduttore di Ovidio ed autore di trattati scientifici, qui lo ricordiamo per la commedia  Parthenio (1627).

 

Anonima, apparve nel 1640 Il contrasto dei geni.

 

Francesco D’Isa (Capua:1572-1622), pubblicò fra il 1610 ed il 1633, sotto il nome del fratello, cinque commedie classicheggianti, di imitazione plautina, ma con uno stile rigurgitante che serba tracce della retorica  invadente e fastidiosa del secolo: La Fortunia| L’Alvida| La Flaminia| La Ginevra| Il malmaritato.

 

Michelangelo Buonarroti, il giovane (nipote del grande artista del Millecinquecento, fiorentino, visse fra il 1568 ed il 1642). Accademico della Crusca, collaborò alla compilazione delle due prime edizioni del Vocabolario (1612|1623). Amico della famiglia del granduca, contribuì con favole pastorali, marittime, burlesche e mitologiche alle feste di corte (ad esempio Il natal d’Ercole| Il giudizio di Paride). E scrisse satire, capitoli, cicalate. Continuava (in tono minore) la passione del grande zio per la poesia. Amò sinceramente la gente del popolo –borghesia ed artigiani- della sua città e nelle due commedie La Tancia (in ottave: 1612) e La Fiera (25.000 versi, che alternano endecasillabi e settenari: 1618-19: solo parzialmente rappresentata), volle dar voce all’amore ingenuo del contado ed alle più svariate vicende della vita quotidiana, espresse con un vocabolario  fresco e aderente alla parlata viva della gente. L’urto fra amore govanile, interessi economici ed esigenze morali sono al centro della Tancia, in cui un giovane cittadino si innamora di una contadina: la spunterà l’amore sincero, spontaneo, sano dei due giovani contro i pregiudizi ed i calcoli del contesto sociale. Ne La Fiera si incontrano e si scontrano, nella fiorentinissima città di Pandòra, singole individualità (sia pur caratterizzate un po’ troppo intellettualisticamente, a tavolino), gruppi sociali (con interessi e linguaggio peculiari) e personaggi allegorici in un’azione scenica infinita e sorprendente, ma senza significato specifico ed unificatore: si tratta di cinque commedie di cinque atti ciascuna, per un totale di 25.000 versi. Ciò che sta a cuore all’autore è un moralismo forse troppo scoperto e, soprattutto, la volontà di dar risalto a tutte le sottigliezze o singolarità della lingua fiorentina, col suo vocabolario da cittadino che, nato e vissuto in Firenze, ne conosce tutti i risvolti più gustosi e rari (motti e proverbi,  arguzie e locuzioni arcaizzanti).  Accanto a questi due motivi ispiratori di fondo (celebrazione della moralità professionale e sessuale, incarnata nel popolo sano; e rivalutazione del linguaggio spontaneo e fiorito del popolo semplice) si trova anche una rivendicazione etico-sociale. Il giovane Buonarroti pare che abbia anche l’intento di mostrare come contadini e cittadini, artigiani e dotti, ricchi e poveri siano tutti malati della stessa tigna dell’egoismo e dei pregiudizi, ma anche dotati di un senso morale di fondo che li spinge a superare tale  giudizi convenzionali e di comodo sul prossimo ed a seguire, un po’ convinti, un po’ rassegnati, la soluzione concretamente più saggia..  Così, quando il ricco cittadino Fabio deride l’amico Pietro, che vuol sposare la contadina Tancia, si sente rispondere  con la generalizzazione sulla meschinità delle spose cittadine. Ma il padre di Tancia, contadino, sogna di diventare podestà di Fiesole...

Meno poesia e più filosofia “alla mano”, più riflessione morale, osservazione sociale e studio (divertimento, anzi) linguistico troviamo ne La Fiera, che nel paese di Pandòra mette in scena personaggi tra il reale e l’allegorico: accanto alla personaficazione dell’interesse, mercatura, rapacità, frode, ipocrisia, monopolio, inganno, giustizia, leggi, stanno personaggi categoriali (cioè incarnazione di intere categorie di professioni): il podestà (con la sua “famiglia” di burocrati), ufficiali e marinai, ambasciatori e medici, soldati, ciarlatani, scolari, giudici, albergatori.... Inutile dire che si depreca “lo ’ngordo violento interesse”, mentre si esalta la giustizia; si auspica un diverso ordine economico, ma senza idee chiare, perchè si esaltano le fiere, mercati e concorso di compratori e venditori, contro ogni idea di monopolio.  Non è dal Buonarroti che dobbiamo aspettarci grandi idee, così come meno che mediocre è la sua poesia: egli è solanto il commediografo meno peggiore del secolo suo.[1]

 

I “Cicognini”, padre (Jacopo) e figlio (Giacinto Andrea). Jacopo, nato a Castrocaro (Forlì) nel 1577  visse e morì a Firenze (1633). Fu autore di idilli rusticali: Stanze rusticali di Pippo, lavoratore di Legnaia| Allegrezza di Pippo per la nascita del primo figliuolo; scrisse poi commedie sistematicamente imitate dallo spagnolo. Di queste, l’Amor filiale ed il Trionfo di David sono le migliori: la prima per gli studi di carattere; la seconda, per la non osservanza della unità di luogo e per l’abbandono (su consiglio di Lope de Vega) anche dell’unità di tempo (le famose 24 ore del Castelvetro).

 

Il figlio Giacinto Andrea (nato a Firenze nel 1606 e morto a Venezia nel 1661) fonde surreale romanzesco e realismo verosimile, tradizione e novità,  imitazione spagnola e classica,  motivi comici e tragici, sacri e profani, nobili e popolareschi. Forte è l’influsso spagnolo: Pedro Calderòn de la Barca, Tirso de Molina, Francisco de Rojas Zorilla, G. B. de Villegas. Ma si tratta di imitazioni-degradazioni. Così, in Don Gastone di Moncada e ne La forza dell’amicizia, la retorica e le situazioni forzate, inverosimili, rovinano l’atmosfera di idealismo che vorrebbero evocare. La Vita è un sogno riduce quasi al ridicolo la squisita opera del Calderòn. Peggio è toccato alle commedie di argomento cavalleresco, svolte con triviale buffoneria.  Migliori La forza del fato, pur di intreccio troppo complicato; e soprattutto Il tradimento per onore, a tema borghese e svolgimento fortemente drammatico. Scrisse anche libretti per melodrammi, fra cui Giasone (musicato da Francesco Cavalli) e Orontea (musicata da Antonio Cesti).

Con i Cicognini, la commedia si fa sempre più spagnoleggiante e secenteggiante.

 

Carlo Maria Maggi (1630-1699), milanese, rivela gusto presettecentesco, pregoldoniano; scrive quattro commedie miste di dialetto e di lingua, con una raffigurazione della società e dei singoli personaggi non del tutto infelice, cioè con risultati artistici sufficienti. E’ l’inventore di “Meneghino”(“Domenichino”), la maschera tipica di Milano: Il manco male, difende la medietà morale, come il bene possibile all’uomo; ne Il barone di Birbanza, Meneghino manda a monte un matrimonio macchinato per interesse; I consigli di Meneghino, rappresentano il buon senso e l’equilibrio della borghesia onesta, contro la aristocrazia; Il falso filosofo, è foggiata sull’esempio di Molière e  dimostra un notevole livello di studio psicologico, di introspezione dell’animo umano; vi è  infine l’atto unico Il concorso de’ Meneghini.

E’ poeta perchè le commedie sono scritte in versi; è prepariniano per la satira antinobiliare e per l’amore al dialetto, che lo fa risultare un “ambidestro” (scrittore cioè in lingua ed in milanese) come  l’autore de Il Giorno.

 

DRAMMA PASTORALE

 

Qui ci occuperemo solo della Filli di Sciro, scritta da  Guidubaldo Bonarelli e pubblicata un anno prima della sua morte, nel 1607.[2]

Si ispira a Florio e Biancofiore del Boccaccio, ma  l’aura artistica è quello dell’Aminta e del Pastor fido, i due modelli inevitabili del dramma pastorale. Filli e Tirsi, due fanciulli greci , separati da vicende avventurose e ritrovatisi dopo peripezie abbandonate al caso più fortuito e fortunato, si sposano alla fine. Proprio perchè la vicenda è guidata dal destino e le variazioni di condizione sono indipendenti dalla volontà ed azione dei protagonisti, manca ogni senso di drammaticità e viene a galla uno spirito arcadico fatuo ed infantile: l’opera, invano difesa persino da Ludovico Antonio Muratori, si attirò contro, nel secolo successivo, le stroncature del grande critico francese, il gesuita Domenico Bouhours, che vide in essa  un caso esemplare del malgusto barocco del Milleseicento italiano. In realtà sia il Marino che il Testi che Ippolito Aurispa[3]  fecero a gara a scrivere dei prologhi al lavoro, molto congeniale al loro spirito. Questa conformità ad una moda di sentire ed esprimersi, che doveva dominare un paio di generazioni dopo la morte dell’autore, fece assurgere la “Filli”  al rango della triade pastorale canonica, con l’Aminta ed il Pastor fido appunto.

 

 

 

MELODRAMMI

 

 

Dopo Ottavio Rinuccini, da noi considerato nell’ambito del Millecinquecento, altri scrittori e musicisti si succedettero nel Milleseicento. Ma, fino al Metastasio non vi sono capolavori: si è già detto che il moltiplicarsi di teatri aperti al pubblico (una ventina nel corso del secolo) ed il successo di  gente che li riempiva, costringe a moltiplicare i libretti , avvicinando pericolosamente la superficialità balorda delle trame ai canovacci della commedia dell’arte: ben presto il “rispettabili  pubblico” riempì di schiamazzo il teatro durante la recitazione insignificante, salvo a zittire ed attendere estasiato la “cavatina”, cioè la  melodia particolarmente felice di qualche assolo, cui il cantante si preparava mediante una mimica  convenzionale (aggiustarsi l’abito, rischiararsi la gola, assumere un atteggiamento ispirato, ecc.).

Fra i librettisti troviamo compositori di opere buffe, di drammi sacri, di soggetti storici. Il più fecondo scrittore è un cardinale nella Roma dei Barberini (oltre il papa Urbano VIII, vi erano il fratello e due nipoti cardinali), in cui non solo si esorcizzavano le opere diseducative, ma si incoraggiava il teatro positivamente moralizzatore o religioso. E’ Giulio Rospigliosi (Pistoia, 1600, papa Clemente IX dal 1667  al 1669) che in gioventù compose Chi soffre speri| Dal male al bene| Erminia sul Giordano ( dalla Gerusalemme)| Sant’Alessio. Egli mescola nelle opere buffe (le prime due) elementi moralizzatori (in Chi soffre speri sono introdotti personaggi mitologici ed allegorici –le virtù, i vizi, le maschere- come anche reali, allargando l’orizzonte della rappresentazione e dando spazio a tutte le  tonalità di sentimenti come a tutte le condizioni di vita), così come introduce parti buffe in opere sacre (in Sant’Alessio vi è spazio anche per un demonio non disprezzabile tentatore, perchè ragionatore sofisticato ma non del tutto irragionevole).

Nel 1642 si ha il primo dramma per musica di argomento storico: L’incoronazione di Poppea, opera di Gian Francesco Busenello (Venezia 1598- 1659), che fu musicata da Claudio Monteverdi. Purtroppo vi penetra sia il secentismo delle metafore sproporzionate sia una certa indulgenza per la sensualità, assieme a concessioni verso un machiavellismo sfacciato (i re debbono essere  innocenti finchè non intervengono  fini politici: “chè il peccato commesso| per aggrandir l’Impero| si assolve da se stesso”). Egli scrisse altri quattro libretti per musica; e Vita nostra e morte (raccolta di poesie).

Che non valga la pena di soffermarsi sulla produzione in serie di libretti per melodrammi nel Milleseicento, lo dichiara Francesco Berni, che scrisse decine di testi per gli spettacoli di Ferrara, sua città natale: come proemio faceva dire “Questo componimento fu destinato al teatro ma non alla stampa”, aggiungendo che senza l’apparato scenico-pittorico e il commento musicale il testo perdeva il suo valore e restava “zoppicante, per non dire cadavero” (raccolgo la notizia davvero significativa dalla Garzantiana, p. 476; e la commenterei così: “Oh gran bontà degli scrittori antiqui| che  ammettevano limiti e difetti|  nè difendevan i lor  scritti iniqui| da musica e pittura sol corretti...”.[4]

 

POESIA EPICA ED EROICOMICA

 

 Uniamo  i due generi letterari, perchè l’epopea seria nel Milleseicento è qualitativamente così asfittica da meritare davvero poco spazio. La seconda, l’eroicomica, nasce proprio nel secolo XVII, col Tassoni e col Bracciolini.[5]

Dapprima faremo un elenco dei poemi  flebilmente aspiranti alla epicità. Con lo Jannaco notiamo: “Tra i vari campi nei quali s’esercita l’attività letteraria del Seicento, questo dell’epica si distingue, in genere, per una certa correttezza e misura formali o, diciamo meglio, per il meno accentuato e più sorvegliato cedimento al barocchismo. Ciò deve essere  anzitutto spiegato con la prevalente influenza tassiana...” (p. 480).[6]

Francesco Bracciolini (Pistoia, 1566-1645). Segretario del card. Federico Borromeo, prima e di Maffeo Barberini, poi; quando questi divenne papa (1623), egli passò al servizio del nipote card. Antonio,  ritornando in patria alla morte di papa Urbano, un anno prima della propria. Dovremo riparlare dello Scherno degli dei, poema eroicomico;  qui ricordiamo le tragedie Evandro, Arpalice e Pentesilea (rispettivamente 1612-3-4), i drammi pastorali e  i 35 libri in ottave de La croce racquistata (1611). E’ il poema del ricupero del legno della croce (anno 625) da parte dell’imperatore Eraclio (i Parti l’avevano portato con sè, conquistando la Palestina). Su tale poema facciamo nostro il giudizio di C. Jannaco (Vallardiana, pp. 466-9), che si può riassumere così: imitazione del Tasso e dell’Ariosto, anzi di Dante stesso (ma si tratta di un dantismo snervato); accenni di barocchismo; il carattere complessivo del poema è quello di un manierismo che imita non male, ma non sufficientemene bene, i grandi predecessori. Pel barocchismo, Jannaco cita il distico: “E il Ciel facea con mille lumi intorno| funeral pompa al seppellir del giorno”. Fra i passi migliori, egli ricorda la morte del giovinetto Tieste in battaglia: “...Apre i lumi il fanciullo, e una, e due| volte gl’aggira al terminar dell’ore,| alfin li serra, e l’atre nubi sue| spiega morte nel volto, e spegne amore;| piega il pallido viso al tergo in giùe| dal lento collo, e rassomiglia a fiore,| ch’a terra inchini e resti ancor sospeso| dal Ciel nemico in mezzo al gambo offeso” (XVII, 51). Lo giudica degno di essere il meno sconosciuto dei poemi epici del Seicento, ma per la perfezione tecnica, non per i (troppo rari) versi significativi.

 

Di Gabriello Chiabrera (Savona, 1552-1638) dovremo occuparci a lungo nel trattare della poesia lirica. Egli in gioventù scrisse poemi epici non importanti (Ruggero| Foresto| Delle guerre dei Goti), mentre non sono senza valore quelli della maturità: Firenze (1615: la materia è presa dalla Cronica del Villani; vuol celebrare i Medici); Amedeida (1620: vuol celebrare i Savoia).

 

Ansaldo Cebà (Genova, 1565-1623). Scrisse Rime (di stampo petrarchesco); due poemi sacri: Lazzaro il mendico (1614) e La reina Ester (1615); ed un poema storico (Furio), in cui si rivela fautore della libertà politica. Come si è visto, è anche l’autore di tragedie: La principessa Silandra| Alcippo spartano ... Il rifiuto del secentismo si rivela esplicitamente nel dialogo Il Gonzaga, overo del poema heroico (1621).

 

Giovan Battista Lalli (Norcia, 1572- 1637). Seguì la moda del tempo, stilando poemi burleschi (che vedremo). Ma scrisse anche un poema epico:  Tito Vespasiano overo la Gerusaleme desolata, che rimase incompiuto, anche se edito lui vivente (1635).

 

Gerolamo Graziani (Pergola –Pesaro- 1604-1675) Fu poeta al servizio degli Estensi di Modena e scrisse anche una tragedia (Il Cromuele), che è svincolata dalle regole pseudoaristoteliche. E’ più noto, però, per il suo poema eroico Il Conquisto di Granata (di imitazione tassesca) che celebra la conclusione della grande epopea della “reconquista” del territorio spagnolo  ai mori, nel 1592, da parte di Ferdinando e di Isabella.

 

Scipione Errico (Messina, 1592-1670)  scrisse Rime (1619), Poesie liriche (1646), due commedie di stile aristofanesco (Rivolte di Parnaso: 1625| Liti di Pindo: 1634), tre favole pastorali (Deidamia| Endimione| Arianna) ed un romanzo di critica letteraria, in forma allegorico-didattica (Le guerre di Parnaso: 1642). Contro lo Stigliani ed in difesa del Marino, scrisse L’occhiale appannato (1629). Ma  pubblicò anche un poema epico: Babilonia distrutta (1624). Esso non manca di dignità complessiva ed anzi contiene qualche strofa discreta. Ecco un galeone fastoso in una ottava solenne: “Con contrario sentier l’altera sponda| il gran legno fendea de l’ampio fiume,| e a dietro e intorno mormorando l’onda| tumide forma e inargentate spume:| di gemmate bandiere e fiocchi abbonda| e par la poppa di piropo allume,|ed ha l’antenne e le grand’effi aurate,| e le vele d’argento al Ciel spiegate” (IV, 2). Ed ecco un notturno idillico: “Era vaga la notte e’l Ciel mostrava| le stellate sue pompe ad una ad una:| ma la sembianza al fosco suol velava| l’aria presso a la terra algente e bruna:| su l’orto in tanto il lume suo spiegava| con l’argentee sue corna ormai la Luna:| e l’ombre già de la gelata notte| son da puri suoi rai dispersi e rotte” (XI, 35).

Pur schierandosi dalla parte del Marino, non si ritrovano in lui nè un concettismo fastidioso nè una sensualità smoderata: nei versi con cui Alone respinge la seduzione della maga Bessana c’è tutto un programma di lotta tra “senso e ragione” come nel Bracciolini: “Ma a le dolci quadrella e velenose| la severa ragion lo scudo oppose” (V,62: Jannaco, p. 479).

 

Il passaggio dalla considerazione della poesia epica a quella della poesia eroicomica lo si può effettuare sul ponte della osservazione di B. Croce già riferita: egli ha segnalato  quali pagine di  sincera commozione nell’eroicomico poema L’Asino, di Carlo de’ Dottori, quelle dedicate alla passione e morte di Desmanina che si fa uccidere in battaglia dal marito infedele Ezzelino, introducendo, col personaggio di Ardiccione, un ammiratore così affascinato dalle doti mirabili di lei, da seguirla in battaglia come cavalier servente devoto e candido, quasi impazzito di desolazione di fronte alla sua morte (cc. I, 30 ss; IV, 41 ss.; IX, 31, ss: riportiamo da B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1957, pp. 358-61).

In realtà la lunghezza dei poemi facilita la inserzione di parti di genere diverso  rispetto al registro fondamentale in cui è pensata un’opera. Anche nella Gerusalemme, la figura di Vafrino è umorale e non disdegna  la battuta ed il sorriso; e persino nella “Secchia rapita”, che vedremo subito, l’episodio di Jaconia ed Ernesto è almeno in parte  ispirato alla serietà ed al dramma della morte volutamente comune: spesso i poeti danno retta alla famosa ode di Orazio che raccomanda, con la medietà della virtù, anche la commistione delle occupazioni (“Rectius vives, Licini, nec altum| semper urgendo neque, dum procellas| cautus horrescis, nimium premendo| litus iniquum”), ode che ricorda come neppure Apollo è sempre affannato cacciatore, perchè ha come diletto e distensione la poesia (“neque semper| arcum tendit Apollo”).

 

Ed eccoci ai poemi eroicomici, di cui il più riuscito è quello di Alessandro Tassoni, La secchia rapita.

Lo scrittore nacque a Modena nel 1565, da famiglia nobile e si laureò a Pisa, dopo aver studiato anche a Bologna e Ferrara. Fu accademico della Crusca. Ebbe un periodo di vita sregolata, ma poi si mise al servizio del card. Ascanio Colonna a Roma (1599). Con lui fece un viaggio in Spagna l’anno seguente, riportandone una impressione negativa, espressa già in certune delle sue Rime. Non si sa perchè  si sia allontanato dal servizio del cardinale, nel 1604, pur rimanendo a Roma, ma con vita riservata (sebbene pare che  facesse da informatore per i Savoia, quale unica potenza capace di cacciare gli Spagnoli dall’Italia). Negli anni 1618-21 fu al servizio del card. Maurizio di Savoia, vivendo qualche tempo a Torino. Anche da questi si allontanò, sentendosi in dovere di mettere in carta le motivazioni del distacco, in un’opera che non pubblicò (Manifesto  intorno le relazioni passate tra esso e i prìncipi di Savoia).  Più facilmente sue che di Boccalini, sarebbero le due Filippiche (1615) antispagnole, di cui, pure, rinnegò la paternità. Finì per mettersi al servizio del card. Ludovisi, rientrando a Modena solo nel 1632, dove fu  a disposizione del suo duca, Francesco I d’Este, negli ultimi tre anni di vita. Morì infatti nel 1635: triste, per il magro risultato di una vita iniziata con tante promesse. A diciotto anni, infatti, aveva già scritto la tragedia Errico e, interessato a molteplici settori della conoscenza umana, pubblicò nel 1612 Varietà di questioni, in nove parti, più volte rimaneggiate (erano uscite come “Quisiti” nel 1608 e usciranno come “Varietà di pensieri” nel 1620, con l’aggiunta di una decima parte su “Ingegni antichi  e moderni”, in cui polemizza contro la scienza antica ed Aristotele e difende il progresso e la modernità). Nel 1609 uscirono le Considerazioni sopra le rime del Petrarca, già  stese nel 1603 e da lui rimaneggiate  in seguito: egli vi si mostra contrario alla imitazione  e non esita a rilevare i difetti  nel Canzoniere del poeta di Laura: egli vuole un rinnovamento della poesia e della letteratura. Nel 1613 usciva un altro scritto, La tenda rossa. Lasciò incompiuto quello che forse era l’opera cui  voleva affidare la sua fama: il poema epico  Oceano. Il suo Epistolario è molto interessante per notizie e giudizi.

Il capolavoro rimase invece La secchia rapita, poema eroicomico, steso in dieci mesi fra il 1614 ed il 1615 e stampata solo nel 1621 a Parigi colla data del 1622, per gli ostacoli in Italia da parte della censura ecclesiastica, a causa di qualche battuta volgare od anticlericale. Circolava manoscritta, con buoni guadagni... degli amanuensi.

 

Il temperamento. Si assommano nel Tassoni instabilità ed esistenziale (di vita pratica) ed intellettuale: il mutare frequente del signore cui servire; l’improvvisazione della “Secchia”, la  incompiutezza dell’ “Oceano”; il  dedicare la più parte delle sue energie a “pensieri sparsi” quasi uno zibaldone di considerazioni più o meno acute; il consacrarsi così a lungo a considerazione sul lavoro altrui (le “Rime” del Petrarca), sono –ci sembra- prove più che sufficienti per attestare un temperamento mobile: velleitario  nella concretezza della prassi e discontinuo in quella contemplativa  dell’intelletto. Era, dunque, un emotivo, non attivo, primario, cioè un temperamento nervoso, il più tipico nei poeti e letterati. Vale per lui quello che Riccardo Bacchelli mette in bocca al losco ma intelligente personaggio Virginio Alpi, al suo primo entrare in scena: “Tutto quello che ci capita è colpa nostra”. La sentenza è errata solo per il sostantivo “colpa” che va sostituito con “causa”: per lo più non si tratta, infatti, di  modi di agire coscienti, di cui si sia responsabili, ma di    spinte congenite della nostra individualità che lavorano a nostro vantaggio o perdita all’insaputa, per lo più, della nostra coscienza.[7] Egli è destinato, così, ad essere più grande nei particolari che nell’insieme, più appassionato nella demolizione (Aristotele, i petrarchisti, gli Spagnoli...) che nelle positive proposte di un altro pensiero, di un’altra estetica o  politica... Il Pascoli parla di una sua “trista allegrezza”. Vive troppo di impressioni e si ferma sui difetti degli altri, dimentico della favola antica delle due bisacce sulle spalle, che lasciano vedere meglio le colpe  sul dorso altrui e le virtù proprie sul nostro petto.

Quanto alla intensità emotiva, egli è indubbiamente il più dotato del suo secolo; il registro sostenuto dell’epopea gli si addice, ma la smorfia birichina, la satira beffarda, la caricatura sorniona, il divertimento canzonatorio interferiscono e mettono a repentaglio la forza dell’epica come la gioia dell’idillio  (che è il tono contemplativo più congeniale: vedi l’episodio di di Endimione e gli scontri tra cavalieri, nei canti ottavo e nono).

Per la fantasia, gli si deve riconoscere un eccezionale senso musicale (ma non supremo: si ricordi il suo giudizio sulla superiore abilità del Marino nel campo della versificazione); un  disinvolto   senso della figura e del movimento; un pensiero acuto e concreto, ma scoordinato, non  definitivamente sistemato: era troppo spettatore e troppo poco  riflessivo, troppo impressionista e troppo poco filosofo.

 

Motivi ispiratori. Limitandoci al solo capolavoro, metteremmo in secondo piano le intenzioni canzonatrici di poeti e del poema epico in particolare, visto che egli stesso si dedicava alla scrittura dell’Oceano. Non si tratta, dunque, a nostro parere, di una specie di canzonatura donchisciottesca, destinata a vanificare un genere letterario, mettendolo in burletta. La satira letteraria ha bensì un posto fra i motivi ispiratori, ma secondario e limitato: si veda, contro i petrarchisti, X, 7; e, contro i secentisti, XI, 25-9. 

La realtà è che manca, poeticamene, un vero motivo dominante.

D’accordo, quello della rivalità fra Modena (ghibellina) e Bologna (guelfa) dà materia al maggior numero di canti e vita  alla più parte degli episodi, che però non sono la cosa più sentita del poema: sono  solo una cornice, all’interno della quale si mettono in versi altri temi che stanno più a cuore al Tassoni. Si noti che il  fatto della “Secchia rapita”, è accaduto davvero  nel 1323, dopo la vittoria a Zappolino dei Modenesi (i “Gemignani”, dal nome del patrono; oppure “quei del Pòtta”,  da “pottà”  venuto in uso parlato dalla abitudine di scrivere, nei documenti, abbreviato il termine “podestà”), contro i Bolognesi (i “Petroniani”, sempre dal protettore; o “quei del sipa”, dal modo di dire “sì”: cfr. Inferno, 18, 61); ma tale vicenda comunale viene contaminata con la grande battaglia della Fossalta, avvenuta nel secolo precedente(1249), quando fu fatto prigioniero il re Enzo, figlio dell’imperatore Federico II. Già in questa confluenza di vicende, la tragedia e la commedia sono forzate a fondersi o almeno a convivere.

L’amore,  sia pur motivo  episodico, è ben più vivamente vissuto: da quello fra Endimione e la Luna (nelle strofe appassionate del cantastorie cieco Scarpinello)a quello, becero, del conte di Culagna per Renoppia,  per la quale quello tenta avvelenare la moglie  onde esser libero di avere  la “sua” donna,  finendo per essere beffato con un forte purgante, sicchè si può immaginare  il séguito.  Anche l’amore di Ernesto ed Jaconìa sono declinati verso una finale farsesca: manca un amore serio e ammirevole, che possa costituire una parentesi di dramma o di idealismo come l’episodio di Desmanina nell’Asino di C. de’ Dottori. L’amore è un motivo di comicità, non di epopea. Persino Renoppia, la “Camilla-Clorinda” (vergine guerriera) del poema è maltrattata nella clausola finale dell’ultima ottava a lei dedicata nella presentazione (I, 17).

Un altro tema frequente, seppur anch’esso stemperato e disperso, è la  satira, ora  sorridente ora mordace, di taluni aspetti della società a lui contemporanea (Italia, sottomessa allo straniero, ma spensierata e divisa da beghe cittadine o regionali; gli uomini di Chiesa non sempre all’altezza dei princìpi evangelici, ma anche imbelli o  concilianti, incapaci di posizioni forti e decise; la pomposa moda spagnola spadroneggiante...). Certi personaggi come il conte di Culagna e il cavalier Titta Cola, sono anche “prototipi” di certi ambienti del secolo e sintesi di difetti comuni ad interi strati sociali. Ma neppure questi motivi passano dalla polemica particolaristica (ostilità al dominatore spagnolo) ad un loro superamento in un orizzonte di valori universali. Omero è  sottovalutato, ma per il principio ingenuo che vi sia un progresso continuo e quasi necessario nelle arti, per cui il Tasso rappresenterebbe (pel momento) il culmine di ogni poesia. L’Italia è deprecata come meschina nelle guerricciole per un villaggio di confine, ma  non è auspicata come unita: il suo ideale è un ritorno alla feudalità di una nazione indipendente da stranieri, per vivere la sua vita antica dove era la nobiltà che comandava. Vi è (nelle Filippiche) il disprezzo per la plebe che non ha senso dell’onore, sicchè anche la figura di Titta, romanesca progenie, arricchitosi fra mestieracci e ladronecci, ha funzione di polemica filoaristocratica. Manca universalità, profondità, umanità definitiva e pura a quest’uomo legato a passioni reazionarie e risentimenti di provincia.

Purtroppo il motivo dei rancori personali vi ha troppa parte. Il conte Alessandro Brusantini, il cui feudo conteneva una frazione dal nome innocentissimo di Collagna, diventa per beffa volgare “conte di Culagna”ed è presentato come millantatore e vile, perchè avrebbe scritto nel 1614 un libello contro di lui; e perchè, ferrarese di nascita, subiva l’antipatia dei modenesi, che l’accusavano vanamente di aver ceduto per codardìa una fortezza ai Fiorentini. Il cavalier Titta Cola è un cacciatore di gonnelle, ma tanto  vanesio quanto ridicolo. Innamorato della moglie del conte, è lui che orchestra lo scherzo della purga contro di questi, che è presentato come “l’eroe della paura” (Jannaco) “filosofo, poeta e bacchettone| ch’era, fuor de’ perigli, un Sacripante,| ma nei perigli un pezzo di polmone” (La secchia, III,12) . Si è già detto che  contro il damerino di Roma, Titta, probabilmente si sfoga  il disprezzo dell’autore, nobile, contro il villan rifatto.

In conclusione, il poema è un divertimento ed il Tassoni lo confessa: “...quando l’autore compose questo poema... non fu per acquistare fama in poesia, ma per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili mischiati insieme” (A chi legge,, ediz, 1624). Fortunatamente, è anche un discreto divertimento pei lettori.

 

 Toni lirici. Il poema è la cosa migliore della versificazione del secolo XVII in Italia. Difatti tutto il poema si fa leggere volentieri, anche se  non merita, nel complesso, un giudizio superiore alla mediocrità: poco più che sufficiente, cioè. Questo non toglie che singole strofe o singole chiusure di ottave o singoli episodi diano un risultato  poetico migliore: c. VIII: amore di Endimione per la Luna; c. IX: la sfida di Melindo alla magica giostra degli eroi; altri passi che citeremo  subito.  

 

Vi è, intanto, una sfumatura tonale  precisa in molta parte del poema, per la volontà sistematica di fondere la grandiosità epica e la caricatura.[8] Ma si tratta di simbiosi, di   fusione che dia origine ad una  forma emotiva complessa (come la tenerezza fra idillio ed elegia; la commozione fra epopea ed elegia o la estasi fra idillio ed epopea; il grottesco fra doloroso-disgustoso e comicità; la satira fra dramma e riso...)? oppure si tratta semplicemente di accostamento e consecutività, di successione ed alternanza? Tutte e due le cose. Difatti, quando la   sovrapposizione riesce, la epopea ed il riso danno origine a quel tipo di comicità che è la farsa (rabelaisiana, per far un esempio universale): come dice lo Jannaco, occorre “la grandiosità dell’iperbole, che è la via maestra della poesia burlesca” (o. c. p.435). Il caso del “Concilio degli dei” (II, 28-43), ci sembra paradigmatico[9]. Ma  spesso non è la epicità che sottostà alla voglia di scherzare del Tassoni: come dice bene lo Jannaco “un senso di bonomia (virtù ch’è il fondo vero dell’anima emiliana) dà vita al pacato sorriso del Tassoni nel narrare l’eroicomica gesta e percorre tutti e dodici i canti del poema” ( o. c. p. 436). Là dove manca la epicità,  la vena comica si colora più di umorismo benevolo che di satira pungente. Quest’ultima è però particolarmente sviluppata negli episodi riguardanti il conte di Culagna, specie nei canti IX, X, XI: ma qualitativamente non è sempre alta, per l’affiorare della volgarità dettata dall’astio, cioè da un dato della vita pratica, dovuto alla insufficiente purificazione dei propri sentimenti da parte del poeta (III, 11-13; X, 39-74; XI, 12-62). Ma veniamo ai singoli toni lirici.

            Epopea pura:  E’il tono ancora prevalente. Si leggano  i seguenti passi: I, 8-10; 13-15;  24; 26; 32-33; 35-6; 45 II, 1; 10-11| V, 9; 37-8; 58-59; 61; 64-65| VI, 1-8; 19-26; 31-32; 42-43; 47; 72| VII, 1-3. Noi riportiamo I, 8-10: “Mòdana siede in una gran pianura,| che da la parte d’austro e d’occidente| cerchia di balze e di scoscese mura| del selvoso Appennin la schiena algente; |Appennin ch’ivi tanto a l’aria pura| s’alza a vedere nel mare il sol cadente,| che sulla fronte sua cinta di gielo| par che s’incurvi e che riposi il cielo.|| Da l’oriente ha le fiorite sponde| del bel Pànaro e le sue limpid’acque;| Bologna incontro; e a la sinistra, l’onde| dove il figlio del Sol già morto giacque;| Secchia ha da l’aquilon, che si confonde| ne’ giri che mutar sempre le piacque;| divora i liti e d’infeconde arene| semina i prati e le campagne amene.|| Viveano i Modanesi a la spartana,| senza muraglia allor nè parapetto;| e la fossa in più luoghi era sì piana,| che s’entrava ed usciva a suo diletto.| Il martellar de la maggior campana| fe’ più che in fretta ognun saltar dal letto;| diedesi a l’arma: e chi balzò le scale,| chi corse alla finestra e chi al pitale” (l’ultima nota è realistica e grossolana; è la chiusura scherosa tipica del Tassoni: se ne riparlerà).

 

             Idillio (salvo, spesso, la chiusura comica dell’ottava):  I, 6 (la citeremo in sede di analisi stilistica); II,16-17[10] (“Ancor dopo tant’anni e tanti lustri| il suo nome primier conserva e tiene;| furon già stagni e valli ime e palustri,| or son campagne arate e piagge amene;| non han però gli agricoltori industri| tutte asciugate ancor le natie vene;| ma vi son fonti di perpetui umori,| che sogliono abitar pesci canori.|| Le Sirene de’ fossi, allettatrici| del sonno, di color vari fregiate,| e del prato e de l’onda abitatrici,| fanvi col canto loro perpetua state;| i regni de l’Aurora almi e felici| paiono questi, ove son genti nate,| che ne’ costumi e ne’ sembianti loro| rappresentano ancor l’età dell’oro”);| III, 1;  VIII, 47-59 (Endimione e la Luna); IX: tutto (incanto della favola cavalleresca:  sinergismo di epopea ed epicità, come in Ariosto); XI, 21 (“E la pittrice già dell’oriente,| pennelleggiando il ciel de’ suoi colori,| abbelliva le strade al dì nascente,| e Flora le spargea di vaghi fiori;| quindi usciva del Sole il carro ardente,| e di raggi e di luce e di splednori| vestiva l’aria, il mar, la piaggia e’l monte| e la notte cadea da l’orizzonte”.

 

             Ironia benevola (Umorismo) o pungente (Satira): I, 1-2; 30; 37; 40; 51; 52; 58; 60| II, 11; 15-16; 28; 55| IV, 8;25. L’umorismo benevolo è forse la corda migliore nell’arpa poetica del Tassoni: si vedano i versi dedicati a mons. Quarenghi, suo amico ma fatto passare per legato del papa al tempo mitico della “Secchia rapita” (V, 28-30: “Egli partì da Vienna in su le poste;| e nel passar de l’Alpi, a un ponte rotto,| il pefido caval per certe coste| lasciò cadersi, e non gli fece motto;| anzi, da discortese e bestia d’oste,| stava di sopra e Monsignor di sotto;| onde la nunziatura indi levata| con mal augurio fu mezzo spallata.|| Quivi ei montò in lettiga: e seguitando| con una spalla fuor d’architettura,| giunse a punto a Bologna il giorno quando| l’esercito uscìa fuora a la ventura:| si fe’ porre il rocchetto, in arrivando,| da don Santi, e salì sopra le mura,| dove a l’uscir de la città le schiere| chinavano a’ suoi piè lance e bandiere.|| Ed egli con la man sovra i campioni| de l’amica assemblea, tutto cortese,| trinciava certe benedizioni,| che pigliavano un miglio di paese.| Quando la gente vide quei crocioni,| subito le ginocchia in terra stese,| gridando: -Viva il papa e Bonsignore,| e muora Federico imperatore-); XII, 14-6. 

 

            Grottesco (il ridere sul dolore, sulla bruttezza: il riso che si mescola al ribrezzo: lo documentiamo, perchè è una somma di stati d’animo rari ad incontrarsi, ma caratterirstici dell’arte –figurativa ancor più che verbale- del Milleseicento): I, 17 (la finale della descrizione di Renoppia:  “Bruni gli occhi e i capegli rilucenti| rose e gigli il bel volto, avorio il petto,| le labbra di rubin, di perle i denti,| d’angelo avea la voce e l’intelletto.| Maccabrun da l’Anguille, in quei commenti| che fece sopra quel gentil sonetto| -Questa barbuta e dispettosa vecchia-,| scrive ch’ell’era sorda da un’orecchia”; VI, 36-37 (“A lui si volse il re (Enzo) con un riverso,| e’l colse a punto al confinar del ciglio;| tutta la testa gli tagliò a traverso,| balzò un occhio lontan da l’altro un miglio,| per la cuffia il cervel se ’n gìo disperso;| stè in sella il tronco, e l’alma andò in esiglio,| e’l destriero, che’l fren sentìa più lasso,| incognito il portava attorno a spasso.|| Non ferma qui la furibonda spada,| ch’era una lama da la lupa, antica;| ma tronca, svena, fende, apre e dirada| ciò ch’ella incontra; uomini ed armi abbìca.| Or quinci or quindi si fa dare la strada,| ma innumerabil turba il passo intrica;| veggonsi in aria andar teste e cervella,| e nel sangue notar milze e budella”; VI, 60 “Ma quello sforzo[11] aprì la piaga, e sparse| l’alma col sangue, e certo fu peccato;| ch’amico più fedel non potea darse| e non bevea giammai vino inacquato.| Lo scudo ch’ei lanciò venne a incontrarse| nel braccio che spingea Perinto irato| e nel volto e nel petto e ne la mano,| e gli fe’ rimaner quel colpo vano.|| Ma che pro, se’l garzon non si ritira,| e nuova fiamma al vecchio incendio aggiugne?| colpi raddoppia ai colpi, e a ferir mira| dove s’apre la piastra e si congiugne.| Perinto avvampa di disdegno e d’ira,| e d’una punta a mezzo il ventre il giugne;| la panciera d’Ettòr, ch’era incantata,| non gli avrebbe la vita allor salvata”.

 

            Dramma: II, 25 (stupore: “Qual resta il pescator che ne la tana| mette la man per trarne il granchio vivo,| e trova serpe o velenosa rana| o qual si voglia altro animal nocivo;| tal la gente del Potta altiera e vana,| trovar credendo un popolo corrivo,| quando sentì quella protesta, tutta| raggrinzò le mascelle e si fe’ brutta”). | III, 2| VIII, 63-4 (Renoppia e Scarpinello);

 

Note stilistiche. E’ un poema di dodici canti in ottave, che mescola epopea e comicità., composto in dieci mesi. Non ci si può aspettare -e per la natura del genere misto e per la fretta della stesura-, grande raffinatezza od eleganza di versi.

 Il Tassoni, contrario nel complesso[12] al concettismo, condivide invece con la letteratura barocca la popolanità, cioè un realismo accentuato: che giunge fino alla volgarità (VIII, Scarpinello, alla fine del canto, tanto che Renoppia lo deve scacciare seccata; i canti IX-XI dedicati alla... purga del conte), ma che comunque frequenta vistosamente le realtà più umili, banali, plebee, umilianti.[13] Egli, che è critico di certe leziosità del Petrarca oltre che della imitazione ridicola dei petrarchisti, si lascia andare anche alla critica del Dolcestilnovo (X, 7), perchè il suo animo (mediocre, ma sincero) rifiuta gli eufemismi e le finzioni dell’amore cortese. Il fatto che egli passi all’estremo opposto non toglie che la sua rivendicazione della realtà comune e popolare non sia indizio di una modernità di vedute: anch’egli, come la opinione pubblica che sta alle spalle della produzione lirica barocca, si accorge dell’ascendere del popolo ad un miglior stato di vita, ad un peso sociale maggiore attraverso la cultura o la diminuita distanza dalle classi colte. La simpatia per il popolo non entrò nell’animo del Tassoni, ma quella per il loro mondo di vita, sì. Egli si affianca ai poeti che cantano la donna serva o contadina, zoppa o guercia, vecchia o frustata, con pidocchi o sbalestrata di carrozza, “mendicatrice” (è il titolo di un sonetto del Tassoni) o pazza.... Dice, dunque, bene lo Jannaco: “Si legga l’apostrofe di Culagna a Renoppia prima del duello (XI, 25-29) per costatare questo fatto veramente interessante dal punto di vista critico: interessante anche in quanto vale a confermare il nuovo orientamento naturalistico dell’estetica nel primo Seicento....Di naturalismo secentesco... bisogna parlare, anche a proposito del modenese, piuttosto che di echi o residui della schiettezza rinascimentale” (o. c. p. 427). Ed a p. 434: “Nè mancano, nella Secchia rapita, accenni di poesia realistica (es. morte di Braghettone: IV, 28-29), suggerita da quella stessa vena cui si accennava, che induce talvolta l’autore a rifare scherzosamente le parlate dialettali bolognesi o modenesi, bresciane o ferraresi o romanesche...”.

E’ facile notare che l’autore usa abilissimamente della clausola finale dell’ottava (ultimo verso o distico) per introdurre la nota di comicità in ogni tipo di discorso e tonalità lirica. Il caso più divertente è forse quello della  sesta strofa nel primo canto, in cui l’alba primaverile, che risente addirittura del Poliziano, scavalca improvvisamente in una platealità asinina, da precipitare il lettore nella risata. Leggiamola assieme: “Del celeste Monton già il sole uscito,| saettava co’ rai le nubi algenti;| parean stellati i campi e’l ciel fiorito| e sul tranquillo mar dormìeno i venti;| sol Zefiro ondeggiar facea sul lito| l’erbetta molle e i fior vaghi e ridenti,| e s’udian gli usignuoli al primo albore| e gli asini  cantar versi d’amore”).

Ma,  rileviamolo con Jannaco, “la comicità della clausola è talora di grana molto grossa”. Lo diciamo per introdurre il rilievo sulla tecnica del riso in Tassoni: è molto più frequente la comicità caricaturale, diretta, deformatrice che non quella allusiva, indiretta, fintamente elogiativa. Equivoci, ambivalenze (da interpretare a rovescio, pel contesto che lascia affiorare il vero senso inteso dal poeta) non mancano, ma sono rari: si veda per altro I, 5 e 60| II, 16-17| VII, 28.

E in funzione caricaturale egli sa usare non solo i dialetti, ma un toscano antiquato od un secentismo sollecitato al peggio per demolirlo: (I, 6| X,7| XI, 25-29). Leggiamo il ricupero a fine eroicomici della metafora del Salomoni (“biada d’eternità, stalla di stelle”), in II, 29: “Da le stalle del ciel subito fuori| i cocchi uscir sopra rotanti stelle...”.

Il Varese (Garzantiana, p. 732) fa notare come la paratassi sia di gran lunga prevalente; come l’uso delle proposizioni relative costituiscano la complicazione più solita (“ma l’oste ch’era guercio e bolognese...”| Saturno ch’era vecchio e accatarrato”...): in realtà vi sono altre subordinate (temporali, causali...), ma quasi mai più di una per periodo.

Certo, non un’aquila era il Tassoni: ma sapeva bene l’arte di volare come un falco che si tuffi a predare veloce, per risalire a godersi la  vittima: ed a farla godere a quanti, anche oggi, vogliono riappropriarsi della sua “secchia” per spegnervi lietamente  la sete di un sorriso o di una risata.

 

 

Altri poemi eroicomici

            Lo scherno degli dei (1618| 1626), di Francesco Bracciolini. L’opera fu intenzionalmente pensata per opporsi al residuo paganesimo, presente attraverso la mitologia, nella letteratura cristiana anche del Milleseicento. Al centro dei primi 14 canti (1618)  vi sono gli amori  ridicoli di Venere-Marte- Vulcano-Anchise; e coinvolti sono anche Mercurio e Cupido, come osteggiatori o favoreggiatori del groviglio indegno. Gli altri sei canti, editi  nel 1626, non concludono il poema, che doveva giungere alla conflagrazione del mondo mitologico, attraverso una battaglia fra gli dei e la conseguente loro  sparizione. Alcune divinità, come Venere e Cupido, sono comunque già estinte ad opera della Notte che li annulla.

 

 L’Asino (1652), di Carlo de’ Dottori. L’argomento è parallelo a quello della “Secchia” del Tassoni. Qui, i Padovani rubano ai Vicentini uno stendardo che ha per insegna un asino.

 

La Moscheide (1624), La Franceide (1629), L’Eneide travestita (1634), di Giovan Battista Lalli (Norcia, 1572-1637: studiate leggi a Perugia, fu al servizio dei papi come gorvernatore  in varie città ). Il primo mette in scena Domiziano che vuol vendicarsi di una mosca che gli ha disturbato un sogno amoroso: la guerra finisce con una congiura che porterà alla morte l’imperatore romano ed alla vittoria delle mosche. La Franceide riprende l’argomento della sifilide, già trattato dal Fracastoro nel secolo precedente: la disfida di Barletta, dando la vittoria agli italiani contro i Francesi, assegna definitivamente la causa del male a questi ultimi, liberando l’Italia dalla calunnia (“il male napolitano”). Il morbo sarà dunque detto “gallico”. Il travestimento del poema virgiliano è ovviamento burlesco.

Ma il Lalli scrisse anche un poema epico serio: Tito Vespasiano overo Gerusalemme desolata (1635).

 

Piero de’ Bardi: fiorentino (1570-1660): letterato e membro della Crusca, collaborò alle prime due edizioni del Vocabolario (1608|1623) ed è autore del poema Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri (1643: elaborato per decenni a partire dalla fine del sec. XVI). Vi si narrano le avventure e scapestrataggini dei quattro personaggi che già l’Ariosto presenta come furfanti (Furioso, XVI, 17 e XVIII, 8). Altro che cavalleria seria ed impegnata! questi pretesi figli di Namo di Baviera servono solo a destare risa con imprese ribalde e vita da animalacci, riempendo un poemone picaresco di sedici canti.

 

Bartolomeo Corsini (1606-1673: nasce a Barberino di Mugello) è autore del Torracchione desolato, scritto verso il 1660, ma edito solo nel 1768: è piuttosto un romanzo in versi ed in tono scherzoso, basato su vicende sentimetali e lubriche.

 

Lorenzo Lippi (Firenze, 1606-1664): fu pittore e poeta, amico di Salvator Rosa e  fondatore, con lui,  della Accademia dei Percossi. Come pittore, dipinse molto per soggetti religiosi, anche se la sua fama resta più legata ai ritratti, fra cui  l’Autoritratto e quello del Rosa.  Iniziò a Innsbruck (vi  era stato dal 1647 al 1649, al servizio della duchessa Claudia de’ Medici) quello che sarebbe diventato Il Malmantile racquistato, poema eroicomico in 12 canti, pubblicato solo dopo la sua morte (1676), con nome anagrammato. Narrano la causa presunta della rovina di un castello presso Firenze: sarebbe stata la guerra per la regina Celidora, caduta in mano al ribaldo Cornacchia e liberata da Baldone. Ma il poeta bada a inserire motti e riboboli, proverbi del parlar vivo  fiorentino, senza riuscire a convincere liricamente. 

 

Federico Nomi: nato ad Anghiari, in provincia di Arezzo: 1633-1705). Fu professore di diritto medioevale a Pisa e pievano a Valtiberina. Tradusse Orazio e scrisse anche un poema epico (Buda liberata), tragedie, egloghe e drammi vari, liriche, fra cui i sonetti per un santo al giorno sono raccolti nel volume intitolato “Santuario”. E’ però famoso più per  Il catorcio d’Anghiari, in cui si narra di un catenaccio rapito ad una porta di Anghiari da quelli di Santo Sepolcro. Composto  attorno al 1685, il poema vide la luce solo nel 1830.

 

Ippolito Neri: nato ad Empoli, visse dal 1652 al 1709 e fu medico, allievo di Francesco Redi. Fu un ammiratore del Tasso ma, non sentendosi all’altezza di  quel grande poeta, si rassegnò ad imitare il... Tassoni e un po’ tutti i poeti eroicomici. Il frutto che ne risultò fu La presa di San Miniato, su una presunta guerra fra Empoli e Sanminiatesi. La trama fittizia è un pretesto per scherzare e canzonare. In un linguaggio sciolto e verso di  un  messaggio preciso da esprimere, di un centro di comicità dominante ed unificante, di un avversario (almeno) o di una società da parodiare. Così il poema nasce da una finzione e procede  per spunti occasionali, che lo riducono ad un lavoro disorganico e, alla fine, noioso. Il poema du pubblicato solo nel 1760. Egli ha lasciato anche Saggi di rime amorose, sacre ed eroiche.

 

POESIA SATIRICA

 

SALVATOR ROSA.     La vita. Nato ad Arenella (Napoli) nel 1615, morirà a Roma nel 1673. In patria si formò, oltre che nella pittura, anche nella musica e negli studi letterari.  Come pittore egli diede il meglio di sè nella rappresentazione di paesaggi, marine, battaglie, più che non in ritratti. A Roma si recò una prima volta a vent’anni e vi soggiornò dal 1635 al 1640: dovette alla fine sbrattare dagli stati pontifici (come il Cellini ed il Caravaggio nel secolo precedente) per le ostilità nate dal suo comportamento rissoso. Lo accolsero i Medici a Firenze, dove fondò col Lippi l’accademia dei Percossi, recitandovi come attore in commedie improvvise. A Firenze compose pure le prime quattro satire: le  ultime tre le scriverà a Roma, dove rientrò definitivamente nel 1649, non senza  processi dell’Inquisizione per la sua vita scellerata e la audacia delle sue satire, che  venivano recitate dall’autore in circoli e salotti di amici (la stampa avvenne solo nel 1694).

Le Satire[14]. Egli  si diede alla poesia solo per hobby (“Pinger per gloria e poetar per gioco” dirà nella terza satira). Ciò non toglie che le sue Satire siano le migliori fra le moltissime scritte nel secolo. Sono sette, ma l’ultima non è finita. Sono in terzine dantesche e le ultime quattro sono a forma di dialogo. La prima è intitolata La musica e si scaglia contro la corruzione sessuale cui essa dà troppo spesso ocasione; critica pure la evirazione dei ragazzi per ottenerne dei soprano-contralto d’eccezione una volta adulti; e condanna le autorità vaticane che, assumendo tali cantanti nella cappella sistina, favorivano il triste fenomeno. La seconda è dedicata a La Poesia: tuona contro i poetastri in genere ed i marinisti in specie. E’ forse la satira migliore: sua è l’accusa ai marinisti di aver trasformato Nettuno in baccalà, avendolo chiamato il “dio salato”; sua la denuncia della ridicolaggine nel verso di G. Salomoni “biada d’eternità, stalla di stelle”; sua l’apostrofe caricaturale al sole “boia che tagli| colla scure de’ raggi il collo all’ombre”... La terza satira riguarda La pittura: depreca i volgari realisti (ed anche Michelangelo sente le sue!); la pittura deve essere intesa invece come colorito e disegno (ma è poi definita quale pura imitazione, anche se egli vuole che il pittore renda visibile l’invisibile ed evidente, lo spirituale). Delle incoerenze del Rosa dovremo riparlare.  La quarta satira tratta de La guerra: apostrofa il mestiere del mercenario e l’uso stesso delle armi; si scatena contro la immoralità del secolo; denuncia la moda del vestire venuto dalla Francia (vestiti attillati e succinti andavano sostituendo quelli sgargianti e sovrabbondanti degli spagnoli); svela i motivi non tutti limpidi del diffondersi dei viaggi di cultura e di diporto; parla invece bene di Masaniello e della sua rivolta. La quinta (L’Invidia) è un’autodifesa contro i denigratori, che erano giunti a negare che le satire fossero farina del suo sacco... La Babilonia è scritta contro Roma e contro Napoli (città  dominata da furbi e prepotenti, che opprimono i deboli ed i poveri)  e contro la donna scostumata. Il Tirreno, incompiuta, è un addio alla scrittura di satire: egli ha la coscienza di aver dato all’Italia l’esempio di una poesia degna del profeta Elia e del greco Tirteo; ma tant’è, neppure essa ha efficacia; è inutile...

Giudizio sulle Satire e sull’uomo. Il motivo moralistico e lo stile lucilianeo[15], con la varietà dei bersagli contenuti, lo fanno, nel complesso, superiore anche all’Ariosto  tra i predecessori. Ma vi sono dei limiti innegabili. Uno fu pronunciato dal cardinal Pietro Sforza Pallavicino, suo contemporaneo che ne ascoltò la recitazione: “ a pezzo a pezzo, vi erano dei bellissimi squarci”: dietro l’elogio stava la negazione della validità dell’insieme. Due secoli dopo, Giuseppe Giusti ne giudicò con queste parole: “sorridono d’una certa scioltezza gaia e ciarliera: vi senti il brio pronto e loquace del napoletano: il fare dell’uomo avvezzo in palco a spassar le brigate: ma io lo scorgo povero in mezzo a quel lusso erudito; declamatore pieno di lungaggini.... che vanga e rivanga uno stesso pensiero e lo rivolta da tutti i lati; come se sfaccettasse un brillante...”

In conclusione: manca di concretezza, si dilunga e ripete, non presenta quelle vette poetiche delle  favole (o di qualche squarcio autobiografico) dell’Ariosto, anche se la sua versificazione è molto più sciolta e disinvolta, scorrevole e  armoniosa.

Rimangono poi, a carico dell’uomo, i problemi della coerenza. Due sostanzialmente. Egli è un franco antisecentista nelle Satire, ma usa talora una retorica subsecentista o scopertamente barocca: si vedano i vv. 31-66 della terza (quella sulla Poesia); e La strega (una delle rare composizioni poetiche, fuori delle Satire). L’altra contraddizione sta nel divario fra lo sdegno (sincero, parrebbe) dei suoi versi e la rilassatezza della sua vita (violenza, prodigalità, libertinaggio sessuale, vanità ed esibizionismo).  Oltre tutto, solo in punto di morte egli si decise a sposare la madre dei suoi figli.

 

Benedetto Menzini (Firenze, 1646-1704). Ecclesiastico e letterato, professore di eloquenza a Prato ed a Firenze, ma inutilmente aspirante ad una cattedra in Pisa, fu protetto da papi (Innocenzo XII e Clemente XI) ed entrò alla fine al servizio di Cristina di Svezia. Fu membro della Crusca, dell’Accademia fiorentina ed infine dell’Arcadia: dell’Arcadia, anzi, fu il più efficace preparatore, diffondendo le sue idee antibarocche e  sapientemente classicistiche. Non per nulla era un letterato di Firenze. Poetò in diversi generi: scrisse Poesie liriche (amorose, eroiche, sacre); compose elegie; in versi sciolti  stese la Etopedia (di carattere pedagogico); in terzine dantesche  espose la sua poetica ed i suoi princìpi di critica letteraria (Arte poetica); un’opera di versi misti a prosa  fu intitolata Accademia tusculana. Le sue  tredici Satire  godettero di fama superiore al loro valore, ma  posson reggere al paragone con quelle del Rosa.  I suoi migliori versi,  però, sono da ricercarsi in qualche lirica di spirito georgico-pastorale,[16] mentre la sua opera culturalmente più efficace fu l’Arte poetica, per l’influsso avuto sul nuovo gusto nel precorrimento dell’Arcadia e del classicismo. Le Satire furono edite postume (1718), come gran parte delle opere (1731-2).

Vediamo dunque un giudizio sulle Satire. In quanto ai Motivi ispiratori sono inferiori a quelle del Rosa, perchè  quest’ultimo si rivolge contro mali sociali e categorie intere di persone, a costo di risultare generico. Viceversa il Menzini, pur tenendo presente il contesto morale del tempo, si chiude troppo  nella considerazione del riflesso, sul proprio mondo di aspirazioni, dei vizi sociali: si deve costatare che il suo estro si desta a vigore satirico quasi solo là dove egli si scaglia contro avversari personali e specialmente contro il professor Moniglia (Giovanni Andrea), che gli precluse l’accesso alla cattedra di eloquenza a Pisa. Dai versi riportati dallo Jannaco nel suo Seicento vallardiano, ci sembra esatto il giudizio: “...Menzini è più accanitamente individualista dello stesso Rosa: in lui può soprattutto –come ben vide il Cian- la passione personale, che, se gli preclude la più ampia prospettiva dei tempi, in compenso, lo salva dal pericolo, tanto frequente negli altri poeti satireggianti, di adirarsi a freddo-”(p.407). Questa, dunque, la componente positiva dei suoi versi: ma, leggendoli, ci si deve accorgere che il poeta non purifica del tutto la passione pratica, l’astio egoistico, la dimensione sentimentale dello stato emotivo: “egli stesso... confessa in una lettera: -Alle volte io non conosco me medesimo, e quando scrivo arrovellato, mi par di fare una soavissima melodia” (ivi). Di qui insulti a “Curculione” (il Moniglia) e persino alla moglie ed al figlio di lui! Che non è una bella cosa: neppure per un prete! Ma ecco i versi che cita lo Jannaco: “Trippe, venite a incoronar costoro,| che in cattedra ruttando barbarismi,| forman de’ barbassori il concistoro.|| Ditemi un poco: i primi tre aforismi| d’Ippocrate non bastan per dieci anni| per dar materia ai vostri solecismi?|| O dottoracci, che un’arpia vi scanni,| insin che avete avanti il Comentario,| so, che tirate il collo al Barbagianni.|| E noi preti osserviamo il calendario,| e diciam tuttodì messe ed ufizzi| perchè rubiate e decime e salario.|| Io non prego, che il diavol ve n’attizzi,| che’l tempo è lungo, e vi vorrei impiccati| veder fra le colonne degli Ufizzj.|| Ed il primo tra lor degli squartati| vorrei il fiorentino Curculione,| archinmandrita degli sciagurati;|| ed il secondo quel moral Catone,| buffone anch’egli ed inclito ciarliero,| che dentro è un Epicuro e fuor Zenone” (p.408).

I versi del Rosa sono, oltre tutto, più scorrevoli e melodiosi; ma non giungono alla “rabbia” del Menzini, il quale talora sembra sfiorare la potenza  espressiva di Dante. Si veda questa ribellione ai poeti pindareggianti del tempo: “Che tracotanza, che superbia è questa| con un parlar spropositato e matto| con Pindaro voler alzar la cresta?|| Che s’egli gira, e per immenso tratto| stende il suo volo, ei sa però quel punto,| che quasi centro al suo discorso ha fatto...”. Sì, i versi dicono chiaramente la compattezza della unità nelle composizioni di Pindaro, nonostante i voli che  egli stacca dal motivo occasionale del canto, ma lo dicono stentatamente, con giri di parole; e soprattutto non dimostrano la mancanza di tale estro solenne negli imitatori, i quali sono condannati senza prove concrete.

 Altri poeti satirici li portiamo in nota.[17] 

 

 

POESIA LIRICA

 

Non sono molti gli scrittori di versi che si sottraggono alla moda del tempo. Loro modelli sonoquelli di tutta la letteratura classica, sia  latina (con Virgilio ed Orazio ai primi posti), sia greca (con Anacreonte e Pindaro, che balzano sul proscenio: anche se la imitazione avviene attraverso traduzioni in latino). Rimangono i mostri sacri del Petrarca e del Tasso, ma altri riferimenti si aggiungono: la poesia spagnola (specialmente per Fulvio Testi) e francese (specialmente per Gabriello Chiabrera) interferiscono, dando e prendendo spunti. 

Se è lecito avanzare un processo al loro subconscio, diremmo che la moda del barocco incide su di loro indirettamente, attraverso lo spirito del grandioso, dell’epicizzante, dell’enfasi: l’amore per Pindaro e il tentativo di imitarlo può aver avuto uno stimolo anche in questa sfida inconsapevole a dimostrare che non occorreva  cadere nelle astruserie dei concettini per destare la meraviglia: bastava seguire i grandi classici...

Cominciando dal Campanella, intendiamo rifarci ad un fuori serie: non si riuscirebbe ad assegnarlo a nessuna scuola, così come lui non è riuscito a crearsi  nessun seguace.

 

Tommaso Campanella.

Vita e pensiero. Nacque a Stilo (Reggio C.) nel 1568 e morì a Parigi nel 1639. A 14 anni fu novizio dei Domenicani, certo perchè aveva una tensione verso la radicalità di soluzioni  di vita  in ogni campo, ma probabilmente anche perchè la vita religiosa permetteva l’esaudimento della sua    specifica brama di sapere , senza necessità di condizioni economiche adeguate. A diciotto anni snobbava già l’aristotelismo; nel 1589 si recava arbitrariamente   a Napoli, dove Giambattista Della Porta lo iniziò alla scienza, ma anche alla astrologia ed alla magia. In questo contesto si   andò evolvendo l’influsso del conterraneo Bernardino Telesio: la natura tutta sarebbe animata, tanto che,  trovata la chiave delle sue operazioni, può essere sia interpretata con la previsione del futuro (oroscopi astrologici); sia usata per ottenerne effetti miracolistici a servizio dell’uomo e del suo dominio sulla vita (formule magiche). Simili concezioni gli attirarono processi da parte della Inquisizione, la cui sentenza gli ingiungeva anche di rientrare nel convento di Calabria. Si recò invece a Padova, passando per Roma e Firenze. Anche a Padova incappò in nuovi processi, che lo videro sottoposto a tortura e trasferito a Roma, al carcere della Inquisizione: una formale abiura lo liberò una prima volta, ma  già nel 1597 era ancora arrestato per eresia e questa volta dovette decidersi a tornare in Calabria. Ma quivi la sua parola suscitò una congiura antispagnola (1599: magari col fine di far rifluire alla Chiesa il dominio diretto del regno di Napoli, in vista della vittoria su tutti i nemici del cattolicesimo: ma se ciò è vero, come potè invitare i Turchi ad appoggiare la congiura?): tradito ed arrestato, processato per congiura ed eresia, riuscì a resistere ad ogni tortura ed a fingersi pazzo. Si salvò così dal capestro. Fu condannato al carcere a vita, di cui quattro anni durissimi in castel Sant’Elmo a Napoli. La più parte degli studiosi ritiene che fino al 1602-5 Campanella fosse fuori della ortodossia cattolica e che solo il dolore del carcere lo abbia davvero convertito. Per poter capire a fondo in che cosa  egli si staccasse dalla dottrina cattolica (ancora c’è qualcuno che  lo pensa sostanzialmente sempre ortodosso, come egli sempre si protestò; altri che pensano che mai si sia seriamente convertito e che solo per salvarsi abbia abiurato) occorrerebbero due condizioni: anzitutto che il Campanella  potesse disporre di una intelligenza così coerente da non lasciarvi coabitare (anche dopo la conversione)  dottrine  filosofico-teologiche contradditorie; in secondo luogo, che la sua  posizione mentale prima della conversione fosse stata messa in carta così estesamente, come il carcere gli permise di fare per  il suo pensiero ritornato alla fede (salvo ingenuità, anche allora,comprensibili nella sua individualità alquanto disequilibrata). L’avvento al soglio pontificio di Urbano VIII (1623) segnò la sua liberazione (1626), sia pure sotto la sorveglianza ( dapprima in carcere, fino al 1629) del S. Ufficio. Ma la Spagna ne chiese ancora la estradizione per  la congiura napoletana dei Pignatelli, in cui lo credeva implicato. Allora papa Urbano VIII gli facilitò la fuga in Francia, dove visse gli ultimi cinque anni di vita, circondato dalla stima di politici e di dotti.

 La individualità. Le vicende tempestosamente varie del suo pensiero mutevole,come della sua esistenza irrequieta, rendono sospette tutte le idee e tutte le conversioni di quest’uomo. Credente sino a farsi religioso, miscredente sino ad aggregarsi al materialismo telesiano, ingenuo sino alla illusione di poter organizzare la liberazione dal dominio spagnolo il vicereame di Napoli, astuto fino a fingersi pazzo ed a scansare, così, la condanna a morte; sostenitore di una teocrazia col potere assoluto nelle mani del papa, affidata alla protezione della Spagna (prima) e della Francia (poi), dopo aver sognato un regno comunardo-religioso-schiavista, dove si vivesse ( sotto il dominio assoluto di una triade di potenza sapienza e moralità, che avrebbe rispecchiato la Trinità di Dio) una specie di paradiso in terra (La città del sole: 1602), egli rivela un temperamento “mercuriale” (direbbero gli anglosassoni) o “collerico” (diremmo noi), con un insufficente controllo della  sfera razionale su di esso, per la superiorità della veemenza emotiva rispetto alla chiarezza  intellettuale, che  avrebbe dovuto imbrigliarne le sollecitazioni al pensiero|azione  ed organizzare l’uno in un sistema coerente e l’altra in una prassi efficiente.

Noi ci interessiamo unicamente della sua produzione poetica (Poesie filosofiche) in parte pubblicate nel 1622 con lo peseudonimo di Settimontano Squilla e, integralmente, solo nel secolo XX. Rimandiamo in nota i titoli delle altre opere più importanti di filosofia, teologia, magia, politologia.[18] Il contenuto dei versi è in genere davvero filosofico: metafisica, religione, morale, politica; raramente egli tratta il tema amoroso. Ma la forma difficilmente corrisponde alle grandi idealità messe in versi; nè queste sono sempre chiare e coerenti.  Tre infatti i limiti del poetare campanelliano: uno, strettamente formale, è la insufficiente, talora urtante  musicalità (tale dissonanza è dovuta anche al frequente battere del secondo “ictus” sulla settima anzichè sulla sesta od ottava sillaba dell’endecasillabo); l’altro, riguardante i motivi ispiratori o tematiche, è la dispersione nell’esporli, per la difficoltà a concentrarli nella misura della metrica; è la incertezza nel concepirli, vagando essi e contrastandosi nel corso degli anni; è il loro carattere utopistico che li rende ardui ad una espressione chiara e forte, commovente od almeno convincente; il terzo è il più solito   affievolimento dell’impeto iniziale, che delude dopo aver aperto la fantasia all’attesa di un sonetto|madrigale interamente ispirato.  In genere i versi autobiografici o relativi alla psicologia e morale sono più riusciti che non quelli “metafisici o filosofici”.

Si vedano questi avvii o versi isolati: “Io nacqui a debellar tre mali orrendi,| tirannide, sofismi, ipocrisia...” (son. 8); “Il popolo è una bestia varia e grossa,| che ignora le sue forze; e però stassi| a pesi e botte di legni e di sassi| guidato da un fanciul che non ha forza...”; “e il fuoco più soffiato, più s’accende| poi vola in alto e di stelle s’infiora...” (son. 64). “La morte è dolce a chi la vita è amara:| muoia ridendo chi piangendo nasce”. Sembrerebbe di sentire Dante od Alfieri: ma il restante dei versi non regge al brio iniziale (è il difetto dei canti di Lutero, ispirati ai Salmi: dopo la mossa felice iniziale, scadono nel prosaico; è il limite dei verseggiatori di temperamento “collerico”: hanno uno slancio formidabile, ma poi scadono, perchè sono “primari od instabili, esauribili”).[19]

Questo non toglie che vi siano  sonetti quasi al tutto riusciti. Ecco quello (caudato) del Buon Samaritano tradotto in termini  storico-ecclesiastici (ed allora è da definirsi filoprotestante) e teologici (e, allora, rimane cattolico): “Da Roma ad Ostia un pover’uom andando| fu spogliato e ferito da’ ladroni:| lo vider certi monaci santoni| e’l cansar, sul breviario recitando.|| Passò un vescovo, e quasi nol mirando,|  gli fece sol croci e benedizioni:| ma un cardinal, fingendo affetti buoni,| seguitò i ladri, lor preda bramando.|| Alfin giunse un tedesco luterano,| che nega l’opre e afferma la fede:| l’accolse, lo vestì, lo fece sano.|| Chi più merta di questi? chi è più umano?| Dunque al voler l’intelligenza cede,| la fede all’opra, la bocca alla mano,|| mentre quel che si crede| s’a te ed agli altri è buono e ver non sai;| ma certo è a tutti vero il ben che fai”.

 Ecco un congedo di canzone, il quale sembrerebbe cantare (rifacendosi a quella di Dante “Tre donne intorno al cuor mi son venute”) chissà quali ideali od auspicare chissà quali eventi  fortunosi, per concludere, però, in una balorda vanità personale: “Tre canzon, nate ad un parto,| da questa mia settimontana testa,| al suon dolente di pensosa squilla| ch’ostetrice sortilla,| ite al Signor, con facce e voce mesta| gridando miserere| del duol, che’l vostro padre ange e funesta.| Nè sia chi rieda a darmi altra novella| del Rettor delle sfere| che’l fin promesso dell’istoria bella| (sia stato falso o vero il messaggiere),| cantando: -Viva, viva Campanella!”.

Ed ecco un sonetto d’amore, drammaticamente intonato da cima a fondo: “Donne, dissi talor che gli occhi vostri| eran del ciel due fiammeggianti stelle:| dicolo ancor, ma di quell’empie e felle| ch’apportan peste, ira, serpenti e mostri.|| E dissi ch’eran fiamme: or con inchiostri| che sian fiamme ridico, ma di quelle| che tormentan l’inique alme rubelle,| sulfuree e smorte nei tartarei chiostri.|| E dissi che il sembiante e che il crin era| di dea: or questo affermo, ma d’Averno,| di Tesifon, d’Aletto e di Megera.|| Il vero allor conobbi, il vero or scerno;| vera fu allor mia voce, or anco è vera:| chè allor Paradiso, or sete Inferno”. Altro sonetto leggibile ci pare il seguente (anche se un po’ generica ne è la fierezza polemica): “Sciolto e legato, accompagnato e solo,| gridando cheto, il fiero stuol confondo:| folle all’occhio mortal del basso mondo,| saggio al Senno divin dell’alto polo.|| Con vanni in terra oppressi al ciel men volo,| in mesta carne d’animo giocondo;| e se talor m’abbassa il grave pondo,| l’ale pur m’alzan sopra il duro suolo.|| La dubbia guerra fa le virtù conte.| Breve è verso l’eterno ogn’altro tempo,| e nulla è più leggier ch’un grato peso.|| Porto dell’amor mio l’imago in fronte,| sicuro d’arrivar lieto per tempo,| ove io senza parlar sia sempre inteso”.

Diremo, concludendo, che là dove il Campanella attinge poesia (a sprazzi), questa non è mai idillica od elegiaca, ma drammatica od epica. Ma, ripetiamo, “dove e quando la attinge”.

Per lo stile, se non manca qualche concessione a Petrarca e persino al gioco dei contrasti di moda, pure Dante è il suo modello e, per il resto, bada a cavar fuori dalla propria mente (filosoficamente ed evangelicamente informata) il vocabolario  schietto e univoco: è fin troppo diretto ( impulsivo: “tuosto”, dicono a Napoli), ingenuo e semplice sia come pensatore, che come poeta, che come uomo pratico.[20]

Gabriello Chiabrera (Savona, 1552-1638).

La vita. Fu il caposcuola della corrente non marinista nella lirica secentesca. Nella sua formazione hanno importanza Roma (dove studiò presso i gesuiti, a carico dello zio Giovanni, essendo morto il padre e risposatasi la madre); Padova, dove ebbe maestro di classicità Sperone Speroni; Savona,  che dovette lasciare in gioventù, perchè vi aveva avuto brighe e risse, come a Roma, e dove ricevette ferite e si mostrò vendicativo; e Firenze, infine, la patria ideale, della lingua e della poesia. Pur viaggiando per molte città (ebbe favori dai Savoia a Torino, dai Gonzaga a Mantova e dai Medici a Firenze), egli visse sostanzialmente a Savona, con qualche incarico pubblico, ma assicurandosi una vita agiata ed indipendente con una produzione letteraria nutrita e fortunata.

Opere: prosa: 5 Dialoghi (questioni estetiche: Il Vecchietti, ovvero del verso eroico volgare| L’Orzalesi, ovvero della tessitura delle canzoni| Il Geri,dialogo della tessitura delle canzoni| Il Bamberini, ovvero degli ardimenti del verseggiare| Il Forzano o Discorso sopra il sonetto del Petrarca -Se lamentar augelli-); Vita (autobiografia, un po’ idealizzata), Discorsi, Lettere.

            poemi: Gotiade| Amedeide| Ruggero;

            tragedie: Angelica in Ebuda| Erminia| Ippodamia;

            drammi: Alcippo;

            poemetti storico-mitologici: Alcina prigioniera| Erminia| Le perle| La conquista di Rabicano| Il diaspro| L’ametisto| Gli strali d’amore| Il verno| Il tesoro| Le nozze di Zefiro| Foresto| Egloghe (sono 7: in terza rima anch’esse)| La Giuditta| Firenze (poemetto in lode della città).

            poemetti sacri: Il Battista| Per S. Margherita| Per S. Agnese| Per S. Carlo| Le feste dell’anno cristiano| La disfida di Golia| Il leone di David| Il Diluvio| La conversione di S. Maddalena| La liberazione di S. Pietro| Vendemmia in Parnaso;

            Sermoni: sono trenta, su modello oraziano, in enedecasillabi sciolti, più colloquiali che fortemente satirici (il Parini ha certo imparato qualcosa da lui);

            Canzoni: sacre (alla Vergine), religiose (contro i riformatori protestanti), morali, civili (celebrazione di dinastie regnanti in Italia, vittorie contro i pirati turchi da parte di galere toscane, gare al pallone, elezione di Urbano VIII.... Di esse, 114 ripetono lo schema strofico di Pindaro;

            Odicine e Canzonette amorose ( anche per musica, con melodie di Piero Caccini, Jacopo Peri, camerata de’ Bardi: sono le sue cose migliori).

 

Sulla  grandezza umana e poetica del Chiabrera si è piuttosto severi o almeno scettici, ormai: il successo goduto al suo tempo fu davvero sproporzionato al suo vero valore (Manzoni commenterebbe pressappoco così: “Che caso strano, eh!  Ma! così va spesso il mondo letterario... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo.”). A noi pare che un minimo valore estetico   l’abbia comunque e che (ben dopo il Tassoni), sia da  tener prezioso nel  modesto forziere della poca e non sublime poesia del Milleseicento.

 Ecco due canzonette  sufficienti: “Belle rose porporine ,| che tra spine| sull’aurora non aprite; |ma ministre degli amori,| bei tesori| di bei denti custodite:| dite, rose preziose,| amorose,| dite, ond’è, che s’io m’affiso| nel bel guardo vivo ardente,| voi repente| disciogliete un bel sorriso?” || “La violetta| che in sull’erbetta| apre al mattin novella,| di’, non è cosa| tutta odorosa| tutta leggiadra e bella?| Sì, certamente,| chè dolcemente| ella ne spira odori,| e n’empie il petto| di bel diletto| col bel de’ suoi colori”. Davvero sufficienti, nonostante quell’abuso dell’aggettivo “bello” che ritorna troppe volte? Bisogna accontentarsi.

 Appare da questi versi che l’animo del Chiabrera,  anche quando intendeva esprimere l’idillio (galante o di natura, d’amore o di paesaggio), conservava nella espressione qualche elemento musicale di drammaticità:  benchè quelle rose siano, poi, le labbra di una donna, si presentano  proprio  armate di spine (si contino solo  le”t” e le “i” ictate, taglienti e pungenti...).  Tale  convivenza di musicalità dolce e forte rimane anche nelle canzoni, senza attingere la simbiosi  del’estasi: nel poeta di Savona vi è una drammaticità angolosa, una forza nervosa, un impeto  risentito. Vorremmo arrischiare un riferimento malizioso: nel cognome (Chiabrera) vi la sintesi del suo stile, della sua musicalità: una prevalenza di rigore, che il nome (Gabriello)  tenta di compensare con l’eccesso opposto, la sdolcinatezza (si noti che nel testo antico il nome era scritto con due “b”. Gabbriello”).

Si prenda, dalla canzone  per C. Colombo, la  sestina migliore: “Qual uom che torni alla gentil consorte,| tal ei da sua magion spiegò l’antenne;| l’oceàn corse e i turbini sostenne,| vinse le crude immagini di morte;| poscia dell’ampio mar spenta la guerra| scorse la dianzi favolosa terra”. A parte il discutibile paragone tra l’amore sponsale e la passione per l’ideale  di portar la fede al di là dell’Oceano, vorremmo notare che, nella  strofa, due delle rime sono ictate su una “e”, disturbata dalle consonanti (dentali che precedono, magari con “s” ad aggravarne il suono; doppia “r” che segue). Sono la spia che l’impresa celebrata non è sentita con quella limpidezza e  potenza che  si sia liberata da ogni incrinatura di sforzo e di tormento;  che esprima epicità  solenne ed esultante, senza  screzi di elementi tragici irrisolti.

 Questi altri versi, coerentemente drammatici, rischiano di confermare che, nonostante la impressione di un Chiabrera anzitutto idillico e semmai anche epicizzante, in realtà è poeta che sente di più le punture della vita e crea versi migliori nella espressione di protesta, di sofferenza, di dramma ribelle: “Così tempo verrà –crudi pensieri-| che ove Dio s’adorò, latreran cani;| e fieno roderan greggie adunate,| siccome in stalle; e nitreran destrieri,| nel passeggier destando ira e pietate” (poemetto sacro “Le feste dell’anno cristiano”).

Nei Sermoni si trovano facilmente gruppi di versi di valore poetico tollerabile,  più pacati, ma sempre con vestigi di tale ispirazione, lirismo, musicalità: “Fia quel che fu nel corso di cent’anni:| vestiransi sull’alba e colcheransi| in su la sera e sederansi a mensa;| altri fia col dottor per suoi litigi| altri fiuterà l’orma dell’amica|[21]; il giocator bestemmierà le zare;| il soldato, la pace; e finalmente| speme e timore ed allegrezza e doglia| agiterà ciascun, questo è sicuro;| e più sicuro che anderassi a morte” (Sermone XVII). Difatti questi versi comunicano ironia malevola (a proposito: che qualche lettore  abbia pensato alla “Palinodia a Gino Capponi” di Giacomo Leopardi?)[22]

Ma, prescindendo dal valore propriamente artistico, rimane al Chiabrera un merito tecnico notevole nella storia della letteratura italiana. Egli conduce a compimento e quasi alla ovvietà la imitazione dei classici latini e greci, praticamente in ogni genere: poemi, sermoni, tragedie, odi, egloghe...  Infatti,  esteso e ben assimilato è stato il processo di formazione letteraria e stilistica: i suoi versi sembrano intarsi di reminiscenze altrui, ricucite assieme molto abilmente: talora, non meno sentite che ricordate.  

Nonostante le prove che già l’Alberti faceva nel Millequattrocento e che Giangiorgio Trissino  aveva  ripetuto,  dilatandole, nel secolo seguente, bisogna rifarsi al Chiabrera per avere una esemplificazione vasta ed influente del trasferimento in lingua italiana dei metri greco-latini più diversi, Pindaro ed Anacreonte non esclusi. Dal suo tentativo nasceranno le “odi barbare” del Carducci. Non che la originalità sia assoluta: anche a non tener conto degli esempi precedenti, rimane il fatto che il Chiabrera non conosceva il  greco; che, egli, Pindaro lo  leggeva nella traduzione latina di Enrico Stefano (Henri II Estienne, umanista francese del sec. XVII, erede di una famiglia di tipografi famosi); che egli conobbe e seguì l’esempio della Pléiade francese e del suo corifeo Pierre Ronsard, specie per la imitazione delle strofette tradotte dall’Estienne e da lui attribuite ad Anacreonte.[23] Ammessi questi limiti, egli ha lasciato un patrimonio talmente imponente di schemi metrici, da essere destinato alla più vasta fortuna ed imitazione. Il Testi, il Filicaia, il Guidi (che ora vedremo) e molti altri lo seguirono per la imitazione di Pindaro; Parini (per il Giorno) e Gaspare Gozzi (per i Sermoni) ne sentirono l’influsso. Come si è detto, egli riprodusse la struttura dell’ode pindarica (strofe| antìstrofe| epodo) in 114 composizioni. Si aggiunga lo schema della strofa alcaica; quello delle strofe asclepiadee del II, III, IV sistema; l’epodo oraziano; il ditirambo... Più felice la imitazione delle strofette anacreontiche, che egli usò per alleggerire e volgere alla galanteria ed alla vanificazione il tema dell’amore e per rendere più vivaci (anche se meno aulici) i motivi dell’encomio e di celebrazioni civili. Nelle canzonette, egli usa  prevalentemente versi di quattro  sillabe, sebbene siano anche frequenti quinari, settenari, novenari.

            Venendo ai caretteri tecnici più rivelatori, dobbiamo anche noi affermare di essere uscito dalla lettura di canzoni e canzonette, sonetti ecc. delusi e insoddisfatti. Si comincia dalla non perspicuità dei concetti, che necessitano di note per  chiarirne il senso; oppure si trascinano in circonlocuzioni per incapacità di quella sintesi che dice chiaramente anzichè descrivere faticosamente. Nella canzone per Cristoforo Colombo troviamo nella terza sestina la pretesa di attribuire a Savona la gloria dello scopritore dell’America,  anche se non lo dice espressamente  suo concittadino. Tra le altre glorie della sua Savona, egli pare citare particolari rapporti tra la città ed il Vaticano; lo fa con questi versi: “ Armata incontro al Tempo, aspro Tiranno,| fulgida sprezzi di Cocito il fiume.| Su quai rote di gloria? o su quai piume| i tuoi Pastor del Vatican non vanno?|Coppia di stabilir sempre pensosa| la sacra dote alla diletta sposa” (forniture di carrozze e di panni?).  Si tratta di nove sestine: ebbene, delle 54 parole in rima, 23 sono ictate su una “e”; 4 su una “i” e 4 su una “u”: è difficile approdare alla epopea “eroica” con simile congenialità musicale. La strofa più bella è quella citata sopra.

Ad essere sinceri, le cose più vive ci son sembrate le tre canzoni “morali” contro Lutero, le due contro Calvino e quella contro Beza, cioè contro i “riformatori” che avevano stracciato la inconsutile veste della Chiesa cattolica, nel secolo precedente. Ma non si possono riportare, perchè giungono all’insulto volgare e perchè avviene per queste composizioni quanto si è riportato delle satire del Menzini: lo sfogo è troppo caricò di passione pratica, di collera personale; manca la purezza della emozione, rimane troppo del sentimento immediato. Ma questo conferma che il Chiabrera sentiva il dramma, inclinato alla tragedia, come un affetto di fondo, l’unico che riesca ad esprimersi non compromesso da altri, mentre esso interferisce nella manifestazione di tutti gli altri.

            Ancora: le forme chiuse (terzina| ottava| sonetto) sono meno felici in Chiabrera, che si trova più a suo agio nelle forme aperte (canzone, ode, verso sciolto).

            Molto spesso l’aggettivo ha solo valore decorativo: non dice nulla di specifico e di profondo: ha valore esornativo e musicale, tanto che spesso è in posizione ictata.

            Infine, sono rari gli enjambement: il pensiero (o un suo elemento) finisce con il verso, non si  definisce nel seguente. Questo conferma chiarezza e denuncia semplicità di pensiero.

I limiti della sua poesia. Di Pindaro, manca al Chiabrera la potenza della sintesi che fonde mito e realtà; di Orazio, manca la  bonaria pensosità filosofica, ma soprattutto la concretezza degli sprazzi autobiografici, che rendono sprizzanti le composizioni del poeta di Venosa, nelle Odi come nelle Epistole. Manca però soprattutto la ricchezza emotiva, che solleva, nel primo, fatto e mito a rivelazione di valori splendidi anche se effimeri; e che allieta, nel secondo, tanto  la descrizione di una scenetta ospitale (Vile potabis, modicis sabinum...) come la meditazione sulla prudenza epicurea (“Rectius vives, Licini, nec altum...”). Il Chiabrera privilegia, come motivi ispiratori, la natura ed il  paesaggio,  l’autobiografismo psicologico e l’amore (mai lascivo). Sente anche  la storia, la vita morale e soprattutto la religione: ma è interesse superficiale, generico; sono   temi già al limite della sua potenza intellettiva. 

 

Fulvio Testi (Ferrara, 1593-1646). Ebbe fortunata carriera alla corte degli Estensi. Di tale proteziome egli finì però per abusare, dando fuori scritti antispagnoli, che lo portarono alla fine a tentare un passaggio al servizio della Francia. Era governatore di Modena. Scoperto ed incarcerato, morì in prigione di malattia. Sulla sua esistenza di cortigiano e sulla politica del secolo restano interessanti testimonianze  nel suo vastissimo Epistolario.

Dapprima marinista (esordì con le Rime, a 20 anni, che ripubblicò arricchite nel 1617), subì poi l’influsso del Chiabrera e giustificò con motivazioni anche morali la condanna del Marino. Gli altri suoi versi sono raccolti nelle Poesie liriche, in  tre parti, edite dal 1627 al 1648. Nel 1636 stampò anche L’isola di Alcina (tragedia).

Quanto ai motivi ispiratori, egli si rifà ad Orazio:  celebra la vita campestre,  disdegna la  servitù che impone la vita cortigiana, satireggia il secolo corrotto, esprime dolore per  il dominio straniero in Italia e ne auspica la liberazione.

            Lirismo. Fattosi, dunque, anche lui imitatore di Pindaro ed Orazio, ma senza andare al di là del merito di chiarezza e dignitosa sostenutezza nella espressione, egli si rivela più dotato di vigore drammatico che non Chiabrera, mentre gli sono meno consoni  i toni contemplativi. Ma in ogni caso, è eccezione il palpito della poesia. Il meglio è nei versi  A Carlo Emanuele: “Carlo, quel generoso, invitto core,| da cui spera soccorso Italia oppressa,| a che bada? a che tarda? a che più cessa?| Nostre perdite son le tue dimore...”; e nel Pianto d’Italia “Per satollar la non mai sazia fame| del sangue mio scese la gente ibéra| pronta a furti, a rapine, a fraudi, a trame;|turba tanto più vil quanto più altéra,| scellerata reliquia, avanzo infame| di quanti mai, con barbari furori,| predar l’Europa, o Saracini o Mori”.

 

Francesco Redi (Arezzo, 1626-1698). Scienziato, fu protomedico alla corte di Firenze, membro dell’Accademia del Cimento e della Crusca (collaborò al vocabolario), ma è degno di memoria soprattutto per gli studi sulla generazione degli insetti e sulla esistenza dei parassiti nell’ambito delle forme viventi: studi che condussero a smantellare l’errore della generazione spontanea e facilitarono la scoperta delle cause vere alle epidemie.

Meno importanti sono i due lavori letterari cui ha posto mano, anche se ce lo  ricordano simpaticamente: il ditirambo Bacco in Toscana e la prosa Il gobbo di Perétola. Il ditirambo nacque come componimento legato al culto di Dioniso e si mantenne poi sempre caratterizzato da un contenuto gioioso e  un po’ mattacchione, con una libera mescolanza di metri e di versi. Il ditirambo del Redi è appunto un polimetro sui vini di Toscana, che conclude con la proclamazione “Montepulciano d’ogni vino è re”. Era stato iniziato nel 1666 come canto conviviale e rifinito  dopo diciannove anni. Ma non basta l’elegante padronanza del verso, un musicalismo talora onomatopeico (chi celebra i vini, Bacco, è brillo e riesce a rendere il suo stato confusonario) nè la fantastica  alternazione di lodi e buffonate per ottenere poesia al lavoro: si sente troppo la costruzione intellettuale, il lavoro di lima, la fatica nelle ricerca di cose da dire. Nei punti dove la spontaneità si libera più felice, è il motivo ispiratore a deprimere il valore della composizione: manca un colpo d’ala che elevi lo sproloquio verso un senso umanamente importante, spirituale, universale (o, se si vuole, manca il colpo di pollice che lo abbassi al livello di farsa grandiosa, di comicità piena e scrosciante). La prosa Il Gobbo di Perétola vede raddoppiata la  scoliosi all’ingenuo e  maleducato poveretto, che era andato alla “noce di Benevento” per farsi togliere la protuberanza di troppo.

 

Vincenzo da Filicaia nacque a Firenze nel 1642 e  vi morì nel 1607. Laureatosi in legge a Pisa, si dedicò fin da studente alla posia (versi d’amore in italiano e latino, che poi rifiutò). Dedicatosi alla poesia civile e patriottica, piacque ai Medici, che  lo fecero senatore, governatore di Volterra (1699) e di Pisa (1700). Ma era già stato, a Roma, nelle grazie della regina Cristina di Svezia, che gli affidò i figli da istruire ed educare: entrò così nel circolo dei letterati che avrebbero dato origine alla Arcadia, subito dopo la morte della loro generosa protettrice.

Fiorentino dalle idee chiare ed elevate, rifuggì da ogni secentismo e si accostò ad Orazio ed a Pindaro. Espresse sentimenti di forza e fierezza nelle  composizioni civili (ad esempio le cinque “Canzoni in occasione dell’assedio di Vienna: 1684), in forme dignitose e presuntivamente pindariche, retoricamente solenni e raffinate, razionalmente elaborate e complesse; ed esternò  sentimenti di pacata affettuosità nei sonetti in morte della moglie Camilla. Ma non riesce a trasmettere gli stati d’animo: i sentimenti non si sublimano in emozioni pure. Per leggere i versi del Filicaia occorre un supplemento di buona volontà: il fascino del testo non basta.

 

Francesco da Leméne (Lodi, 1634-1704). Fu scrittore burlesco e  redasse un poema intitolato Della discendenza e nobiltà de’ maccheroni; fu autore di una commedia in vernacolo lodigiano (La sposa Francesca); fu poeta religioso, scrivendo il Trattato di Dio, il Rosario di Maria vergine e tre oratori sacri (Il sacro Airone; Il cuore di San Filippo Neri; La morte di San Giuseppe); e compose  versi per musica (ariette cantate ad una sola voce). Ma non c’è nulla di  particolarmente poetico.

 

Alessandro Guidi (Pavia, 1650-1712): dapprima marinista, mutò lira quando passò al seguito di Maria Cristina di Svezia e di Clemente XI. Imitatore di Pindaro (anche lui!), organizzò in strofe la canzone libera; fu autore di Rime, della favola pastorale Endimione e del dramma Amalasunta. Molta rinomanza ebbe la sua canzone Alla fortuna. Ma non c’è nulla di  liricamente valido.

 Di Benedetto Menzini si è già parlato, anche come poeta lirico, in sede di poesia satirica.

 

 

                        LA PROSA NON SECENTISTA

 

Abbiam visto che lo stile barocco ha caratterizzato la prosa più diffusa del secolo: dalle gride spagnole (che –lo ribadiamo- potrebbero aver influito sul resto della scrittura aritmica, cioè in prosa,     “plagiando” la mente degli estensori di “gazzette” e di libri divulgativi, più che non si pensi comunemente) alle opere che descrivevano la pestilenza del 1630, dai romanzi alla lingua del teatro....

Ma vi sono eccezioni, specialmente tra gli scrittori toscani e, vorremmo dire, fra tutte le persone particolarmente intelligenti o letterariamente molto dotate. Fra queste ultime, ne emergono poche per il numero, ma sufficienti per la caratura lirica e  sorprendenti per lo spessore intellettuale. Ciò che  ulteriormente rende simpatico il fenomeno è la loro provenienza da tutte le latitudini della penisola: se Galileo è toscano (anzi, fiorentino), Torquato Accetto è napoletano, Traiano Boccalini è marchigiano (Loreto) e Paolo Sarpi è veneziano.

 

Cominciamo dallo scrittore che è forse il più poetico di tutti: Torquato Accetto.

Nacque  nell’Italia meridionale (si opta per Trani) sulla fine del Millecinquecento (1586|1598?) e morì verso a metà del secolo seguente. Le altre notizie biografiche praticamente sono ridotte alle date della edizione dei suoi scritti: in versi, le Rime (1621, 1626, 1638); in prosa, Della dissimulazione onesta (1641). D’altro si sa che  ebbe rapporti con il gruppo che faceva capo a G. B. Manso, il primo biografo del Tasso.

 Le Rime si ispirano all’amore (delicatamente petrarchesco) ed alla meditazione etico-religiosa. Stilisticamente non sdegnano un moderato secentismo. Meritano comunque ricordo alcuni madrigali (Non ha potuto asconder le sue fiamme), sonetti (A una vedova| Per gli inganni che la sua donna ordisce agli uccelli, rassomigliante la sua amorosa condizione) e soprattutto le due canzoni: Il tempo| e Il giorno dell’universal giudicio.

Della Dissimulazione onesta merita di essere esaminato dettagliatemnte, perchè ha parecchie cose da dirci.

                        I Motivi ispiratori. Sono, più che politici, morali e religiosi (anzi, ascetici, cioè di ricerca del “meglio”). Cercano di chiarire e risolvere la problematica di una coscienza che vuol vivere cristianamente in una società che non è tutta cristiana; che vuol esercitare virtù come la quiete interiore, la serenità d’animo, perchè sa che a possedere questa pace spirituale non basta la onestà, non è sufficiente l’essere buoni.  La “dissimulazione” diviene così affine (ci sembra) a quel supplemento di umiltà e carità che il contemporaneo S. Vincenzo de’ Paoli esprimeva con quel sublime assioma della misericordia cristiana: “Bisogna farsi perdonare il bene che si fa”.

Il libro ha anche una valenza politica, ma la applicazione la si trova solo al capitolo diciannovesimo.[24] Gli stralci che ora riferiamo dimostrano la prevalente impostazione meditativo- spiritualistica del volumetto.

“Il danno che avrebbe potuto farmi lo sfrenato amore di dire il vero, di che non mi son pentito; ma amando, come sempre la verità, procurerò nel rimanente de’ miei giorni di vagheggiarla con minor pericolo” (50). “Io tratterei pure della simulazione... ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità a farne di meno; e benchè molti dicono –Qui nescit fingere nescit vivere”- anche da molti altri si afferma che sia meglio morire che vivere con questa condizione” (59). “Dissimulazione è un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti, da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a suo tempo” (60).. “...in persona...molle e poco intendente riesce inoltre dura questa pratica, la quale contiene l’esser d’assai e talora parer poco” (68). ). Nel c. IX (pp. 76-9) si  avanza l’ipotesi che la natura dissimuli la caducità della rosa sotto la bellezza della corolla!. E si dice ancora: “...nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere o perchè son brutte o perchè portan pericolo di produrre brutti accidenti”. “Il prudente candor dell’animo è, dunque, il centro della tranquillità. Hoc opus, hic labor” (83).  “Così dee ciascun corrisponder a scusar disordini o in particolare quelli dei superiori, ogni volta che alcuno di loro vi incorre” (c. XIII, p. 91). L’ira è nemica della dissimulazione: “Il maggior naufragio della dissimulazione è nell’ira, che tra gli effetti è ’l più manifesto, essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta la fiamma al vigor” (c. XV, pp. 98-102). Ecco il mezzo per vincerla: “Importa il prevenir con la considerazione di quanto è maggior diletto vincer se stesso in aspettar che passi la procella...” (ib.). “Chi ha soverchio concetto di se stesso, ha gran difficoltà di dissimulare” (c. XVI). “Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerare e però il dissimulare le cose che in altri ci dispiacciono” (c. XVII, pp. 105-7). “Del dissimular all’incontro dell’ingiusta Potenzia” è il titolo del c. XIX (11-13): “Orrendi mostri son quei potenti che divoran la sostanza di chi lor soggiace; onde ciascuno, che sia in pericolo di tanta disavventura, non ha miglior mezzo che l’astenersi dalla pompa nella proprietà e dalle lagrime e da’ sospiri nella miseria”. “...  e però spesso è virtù sopra virtù (da proteggere) il dissimular la virtù, non col velo del vizio, ma in non mostrarne tutti i raggi per non offender la vista inferma dell’invidia e dell’altrui timore”.  A p. 119: “Lucrezio, De reum, c. II, 7-10: - applicando però io questi versi al senso che conviene a significare un’altezza d’animo e una quiete che conduce al piacer e alla gloria immortale e non al diletto fallace”. “Se in questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell’altra (Vita) non occorrerà mai; e, lasciando di trattar dell’anime infelici, che con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli orribili mostri del peccato... veggono i beati colui che vede, sì che nel cielo non occorre che alcuno si celi” (125). “Ma qui dove siamo vestiti di corruzione si procura con ogni sforzo il manto con che si dissimula per rimedio di molti mali; e ancorchè ciò sia onesto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di questa necessità e, spesso, rimuovendo lo sguardo dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero” (126). Ed ecco la conclusione del trattato (c. XXV): “Avendo affermato che in questa vita non sempre si ha da esser di cuor trasparente, mi par bene di conchiuder con affettuoso rivolgimento alla dissimulazione stessa. –O virtù che sei decoro di tutte l’altre virtù, le quali allora son più belle quando in qualche modo son dissimulate, prendendo l’onestà del tuo velo, per non far vana pompa di se medesime; o rifugio de’ difetti, che nel tuo seno si sogliono nascondere; tu alle fortune grandi sei di gran servigio, per sostenerle, e alle piccole porgi la mano, perchè in tutto non si veggano andar per terra. Nel buono e nel mal tempo bisognano le tue vesti, e nella notte non meno che nel giorno, e non più fuori che in casa. Io non ti conobbi per tempo, e a poco a poco ho appreso che in effetto non sei altro che arte di pazientare, che insegna così di non ingannare come di non essere ingannato. Il non credere a tutte le promesse, il non nudrire tutte le speranze, son le cose che ti producono. Le porpore nel meglio del lor vermiglio sogliono ricorrere al nero del tuo manto; le corone d’oro non han luce, che talora non abbia bisogno delle tue tenebre. Gli scettri che spesse volte non si portano dalla tua mano, facilmente vacillano; e ’l folgore delle spade, se non si serve di alcuna tua nube, riluce invano. La prudenza tra ogni suo sforzo non ha miglior cosa di te; e, benchè di molte altre si mostri ornata, a tempo sa goder del tuo silenzio più che di ogni altro effetto delle sue industrie. Misero il mondo, se tu non soccorressi i miseri. A te appartiene di usar molti ufici nell’ordinar le republiche, nell’amministrar la guerra e nel conservar la pace; e dall’altra parte si veggono quanti disordini, quante perdite e quante rovine son succedute quando sei stata posta in ababndono, e s’è dato luogo a manifesti furori, da che son seguiti quegl’infortuni che tante volte hanno diturpate le provincie intere.  Quando un, che doverebbe perire di fame, ha fortuna di poter dar il cibo a molti, quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche degnità e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere, se tu non accomodassi i sensi a così duri oggetti? Vorrei che mi fosse permesso di manifestare tutto l’obligo che ho a’ benefìci che mi hai fatti; ma, invece di renderti grazie, offenderei le tue leggi non dissimulando quanto per ragione ho dissimulato.”

  ,                     I Toni lirici Si tratta di un’opera modesta, che merita però la sufficienza (ci pare) per il sorriso di idillio e l’ombra di malinconia che la percorrono da cima a fondo. L’una tonalità e l’altra nascono da un temperamento sentimentale (emotivo| non attivo| stabile o secondario): non combattivo, mite, dimesso, ma tenace. [25]

  Ne nasce la conseguenza che il pensiero è prevalentemente pessimista sugli uomini, ma non sulla vita, alla quale la visione cristiana della Provvidenza e della immortalità dell’anima conferiscono uno sfondo sostanzialmente ottimistico. E’ così che l’elegia, innescata dalle considerazioni sulla fragile condizione umana, è compensata dall’idillio che si distende sulla disillusa concezione esistenziale, grazie alla superiore prospettiva  religiosa pel fine ultimo della nostra esistenza. Purtroppo i passi che meglio documentano  la sapienza etico-ascetica del libretto (e che, perciò, sono stati riportati) hanno tutti un sapore elegiaco-pessimistico: eppure la impressione complessiva della lettura è lungo la linea della serenità, per la certezza che l’aspirazione alla pace ed alla quiete è realizzabile coll’aiuto della “dissimulazione”, che alla fine significa prudenza, pazienza, umiltà, fiducia in Dio. L’alternrasi dei due stati d’animo induce quasi ovviamente ad una loro aliquale sovrapposizione, che si avvicina molto alla “tenerezza”: certo, come intensità, siamo le mille miglia lontane da quella leopardiana nella canzone “A Silvia”, ma il registro le è affine.

                        Note di stile. Non è del tutto escluso il secentismo, ma si tratta di momentanei concessioni alla moda, che si lasciano contare senza difficoltà. “...quando il vero non par esser vero, convien di tacere come afferma Dante (56:segue citazione da Inf. 16, 124-6)”; “...e però (perciò) è virtù sopra virtù il dissimular la virtù...” (112); “Sarà forza alla dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e con la spada accesa troncherà il fil d’ogni vano pensiero” (121); “mostrano gli orribili mostri del peccato” (125); “Veggono i beati colui che vede, sì che nel cielo non occorre che alcuno si celi” (ib.).

 In compenso vi è una tendenza alla versificazione inconscia[26]. La cosa è meno frequente di quanto Natalino Sapegno ha scoperto nella Vita nova di Dante, ma accade anchi qui. Ci limitiamo ai passi sopra citati. A p. 65, i due periodi che iniziano “Il soverchio flemmatico” sino ad “effetto di prudenza”, riportati nella nota n. 40, sono formati da  dieci settenari, se solo si ha l’accorgimento di trascurare la parola  “sensi” alla fine del primo periodo. Un ulteriore settenario si ottiene so- stituendo la copula “è” con un’altra voce adeguata (ad esempio “va”) nella frase “che è (va) fuor di misura. A p. 68, vi sono due endecasillabi di seguito “ri”esce inoltre dura questa pratica| la qual contiene  l’essere d’assai”. La finale del periodo nel c. XV “L’ira è nemica della dissimulazione” contiene tre senari di seguito, che terminano con un ottonario: “è il più manifesto| essendo un baleno| che, acceso nel cuore| porta la fiamma al vigor”. Sostituendo la preposizione “di” con “a”, nel c. XVI si hanno due endecasillabi “Chi ha soverchio concetto di se stesso| ha gran difficultà a dissimulare”. La preghiera finale presenta una coppia di endecasillabi all’inizio (“le quali allora son più belle, quando| in qualche modo son dissimulate”); un’altra a poco più di  un terzo del testo (“Il non credere a tutte le promesse,| il non nudrire tutte le speranze”); una coppia di decasillabi poco più sotto (Che spesse volte) “non si portano dalla tua mano,| facilmente vacillano e il fòlgore”.  Nel c. 24 vi sono quattro settenari di seguito (“rimuovendo lo sguardo| dagli oggetti terreni,| vagheggiare le stelle,| come segni del vero”). Due dei tre endecasillabi che citiamo  ora dallo stesso capitolo, sono stati ritoccati per la esattezza metrica: (Or considerando così soddisfatti, così felici)“e in eterno sicur gli abitatori| del Paradiso, (già) si vede come| difetto alcun(o) non hanno da nasconder”.

Altri ne troveranno i lettori più smaliziati: la nostra ricerca è stata per campione e non sistematica su tutto il testo. Concludiamo dicendo che tale musicalismo spontaneo rimedia per lo più alle imprecisioni della lingua toscana rispetto all’uso dei contemporanei: il Marino ed in genere gli altri verseggiatori e prosatori  scrivono in una lingua più moderna ed aggiornata (eccetto Paolo Sarpi, incorreggibile pressappochista, che pensa in veneziano e lo traduce, come può, in italiano).

 

Traiano Boccalini (Loreto 1556-Venezia 1613). Dopo gli studi a Perugia, Padova e Roma, soggiornò nella città dei papi fino al 1611, con incarichi di governo nella amministrazione pontificia. Nel 1611 si trasferisce a Venezia, dove aveva come amico Paolo Sarpi e dove lo attirava la maggior libertà  di espressione, specie per le opzioni politiche: egli era cordialmente avverso alla Spagna. Da documenti venuti alla luce nel secolo XX, però, deve ritenersi infondato il sospetto, circolato a lungo, che la sua morte fosse dovuta   al veleno di persone legate  a tale potenza. Anzi risulta che si adattò a fare il confidente, in Venezia, del  Nunzio apostolico e dell’ambasciatore di Spagna! Lo avrebbe fatto  costrettovi dalla povertà materiale? Condusse, dunque, vita  di impiegato pontificio di alto livello, che sembrerebbe del tutto normale, se non ci fosse la parabola finale a gettare luce ambigua  sulla tempra di un carattere non adamantino. Pur nella adesione alla fede cattolica, egli deve aver subìto, più che amato, la sua attività al servizio di papi: fors’anche per  la loro inevitabile simpatia per la Spagna, ma certo perchè egli aveva un hobby da cui sia spettava fama e soddisfazione. La sua  operosità vera, infatti, era quella degli studi storici e letterari, subordinati a loro volta alla meditazionie politica (su Tacito, soprattutto). Ma egli intuì che le sue opere non sarebbero state tollerate dalla censura.  Difatti  all’Indice furono posti (1679) Commentari sopra Cornelio Tacito, editi pstumi nel 1677. Furono edite ed anche le Lettere, nello stesso anno della edizione (1678: nella raccolta intitolata “Bilancia politica di tutte le opere di T. B.). Solo il capolavoro, i Ragguagli di Parnaso, si salvarono da ogni condanna.

I COMMENTARI A TACITO. Sebbene i Ragguagli siano  giustamente molto più famosi, tuttavia, nella mente dell’autore, l’opera che avrebbe dovuto immortalarne il nome con un apporto decisivo alla civiltà umana (una specie di tucididiano “ctèma eis aèi” -acquisto per sempre-),erano i Commentari. Si tratta di più di mille pagine a stampa, che però vedranno la luce postumi, solo nel 1667![27] Il metodo che il Boccalini segue è quello di trascegliere una singola frase, avulsa dal contesto, commentandola più o meno estesamente: talvolta la illustra ricostruendo la circostanza che l’ha suggerita a Tacito (l’episodio di storia romana  in cui è inserita); tal altra, con esempi della storia in generale, anche contemporanea a lui. Il suo valore e disvalore lo si intuirà dal commento all’altra sua opera, il suo piccolo capolavoro.

I RAGGUAGLI. E’ l’opera letteraria di gran lunga più importante. Sono organizzati in “centurie”, cioè in raccolte di cento immaginati “réportages” giornalistici:  relazioni inviate sulla terra dall’autore, che si finge “menante”, cioè “minutante”, che pretende, quindi, di limitarsi a trascrivere parole e fatti dalla corte di Apollo in Parnaso. Due centurie sono state completate ed edite rispettivamente nel 1612 e 1613. Della terza, 31 ragguagli furono  pubblicati nel 1615   col  titolo (non voluto dell’autore) di “Pietra di paragone politico”: sono i ragguagli antispagnoli più audaci . [28]

I motivi ispiratori. Inutile dire che le cronache si riferiscono in realtà ad avvenimenti del mondo  europeo e specialmente italiano: la corte di Apollo è quella o spagnola o pontificia; e così  il Fisco ed il Senato, le guardie di palazzo ed il Consiglio segreto di Stato; fenomeni ben vivi sulla terra erano anche  i riformatori religiosi e la legione di poeti satirici. Egli sogguarda tutta questa realtà soprattutto lungo tre linee di interesse: la politica, il costume morale, la vita letteraria. 

In campo letterario, abbiamo alcune intuizioni ragionevolissime,anzi esatte. Ad esempio nel ragguaglio I, 58 (Tasso ed Aristotile) egli si pronuncia in favore della libera invenzione nella poesia, al di fuori di ogni pastoia di regole.

In sede    di passione politica, il suo  umore  partigiano esce fuori  specie nella terza centuria (nei ragguagli pubblicati col nome di “Pietra di paragone politico”), dove l’antispagnolismo è insistente. Più artisticamente, però, lo si può trovare anche prima, ad esempio nel ragguaglio quarto della seconda centuria,dove si riferisce la strana richiesta di uno spagnolo (moribondo in seguito a ferite di duello) di venir sepolto vestito come è, senza che sia lavato il suo corpo,. Superata la disposizione per volere di Apollo, si deve costatare che il superbioso e sfoggiante nobiluomo ispanico... non aveva i soldi per comperarsi la camicia e ne andava senza! Ma ce n’è anche per i signori francesi, là dove (I, 98) il Boccalini fa prender la difesa di Dante da Pierre Ronsard, che però non vuole manifestare i nomi dei due detrattori italiani che, per tutta risposta, lo hanno malmenato. Messo alla corda, egli si fa beffe dei tormenti fisici e i giudici devono ricorrere ad una scelta di torture psicologiche per fargli denunciare gli assalitori. Ne pungono l’orgoglio, condannadolo a montare un puledro, senza briglie nè frustino, sicchè esso si porta a suo talento il poeta  malcapitato:  umiliato dalla lentezza e capricci della bestia, il Ronsard  si dimena sulla sella, nell’inutile tentativo di farlo correre a suo talento. Allora si arrende e fa i nomi dei due untorelli, che hanno osato scrivere contro Dante e, per giunta, hanno  bastonato il  suo difensore francese. 

Ma, venendo al pensiero politico, centro  motore della riflessione (e, vedremo, del divertimento)  dell’autore, si deve costatare la stessa incertezza ed indecisione della sua vita pratica: il pensiero oscilla perplesso, in una insuperata ambiguità teoretica, in una perenne poliedricità scivolosa. Il suo atteggiamento complessivo infatti è notevolmente ondeggiante ed insicuro.  Può essere reso coerente (ma con molta buona volontà da parte del lettore), solo  se lo considera puro commento o ricerca dei segreti “che si celano ne’ gabinetti di coloro che governano il mondo”. Ma questo atteggiamento di neutralità arrischiata è  ciò che meno si addice ad uno studioso come il Boccalini, il quale, dotato di  una sensibilità superiore al suo potere di inibizione intellettaule, è portato a prender posizione non in coerenza ad un unico criterio sistematico, ma alla impressione più urgente del momento, destata in lui dal testo che ha davanti. E’ così che,  nel proposito del suo volere, egli detesta la tirannia (quella di Roma antica, come quella della Spagna moderna) ed è nauseato di fronte alla figura complessiva di Tiberio, presentato da Tacito come astuto e prepotente.  Occasionalmente, però, è talmente  affascinato dalla  acutezza  della introspezione psicologica messa in  opera dallo storico romano, che  la stima per lo studioso  tende a trasformarsi in ammirazione anche per Tiberio, che ha saputo costruire una macchina politica così efficiente, da destare stupore per  la sua avvedutezza ed astuzia. Egli entra così nel coro discorde del fenomeno “tacitista”, cioè della riflessione degli scrittori italiani dopo Machiavelli e dopo il Concilio di Trento: non per nulla il Boccalini ne è, con il Botero,  uno dei maggiori rappresentanti.[29]  L’equivoco può essere espresso nella contrapposizione di due nomi: Tacitismo|Tiberismo. Condanna, con Tacito, di Tiberio (tacitismo moralistico) o approvazione almeno marginale della politica di Tiberio?  Abbiamo, nel secondo caso, una forma di “tiberismo”: interpretabile, a sua volta, o come  “machiavellismo mascherato” o come semplice convinzione della innocenza di Tiberio e della malignità dello storiografo latino. Leggiamo alcune espressioni del Boccalini e risolviamo, poi, ognuno per proprio conto, l’indovinello. I tiranni moderni hanno imparato da Tiberio “l’arte di opprimere astutamente i popoli; da lui si sono ricavati concetti nobilissimi” che fanno degli Annali “un tesoro di gran prezzo” e “cosa di grandissima arte”. Negli Annali  è racchiuso “l’artificio di formare una tirannide, mantenerla in impero, assicurarsi di tanti gran senatori senza sollevazione di popoli, spaventare tanti uomini avvezzi alla libertà, mantenersi contro la volontà di tanti in uno stato sì immenso, saper mantenere la pace fuori ed in casa senza perdere”. Entrambe le sentenze iniziano come condanna e terminano come elogio.

Anche nei confronti di Machiavelli esiste la stessa  ambivalenza. Viene condannato in un passo, come colui “che ha dato le regole della crudele e disperata politica moderna” (III, 25: ragguaglio 25.mo della terza centuria). Ma viene accarezzato in un altro e più famoso ragguaglio, l’89.mo della prima centuria, dove egli si difende affermando “gli scritti miei altro non contengono che quei precetti e quelle regole di Stato che ho cavato dalle azioni di alcuni prìncipi”. D’accordo, viene alla fin fine condannato da Apollo, ma equivocamente: “per esser stato trovato di notte in una mandra di pecore, alle quali s’ingegnava di accomodare in bocca i denti posticci di cane, con evidente pericolo che si disertasse la razza de’ pecorai, persone tanto necessarie in questo mondo”.[30]

E che dire dello spagnolo sopra ricordato, che muore chiedendo all’amico: “Hermano, azeme plazer d’enterrarme, sin che ignuno me desnude”? Egli viene altamente elogiato da Apollo, tanto che il titolo del ragguaglio suona così: “In un duello seguìto tra un poeta italiano e un virtuoso spagnolo, trovandosi lo spagnolo ferito a morte, prima che spirasse fece azione tanto virtuosa, che Apollo col funerale censorio a spese pubbliche comandò che fosse portato alla sepoltura”. Era il prototipo di un popolo che conduceva una guerra per una causa ideale, a costo di immiserirsi al punto da non aver i soldi per comprarsi  una camicia: ma combatteva e moriva vestito da “hidalgo”, da signore e cavaliere.

 

In che chiave emotiva legge questo “inviato speciale” gli avvenimenti?   Egli, che dedica il secondo volume di “Ragguagli” al  cardinal Caetano, afferma: “Delle cose politiche e morali seriamente hanno scritto molti begl’ingegni italiani, e bene; con gli scherzi e con le piacevolezze, niuno, ch’io sappia”. Gli pare dunque conveniente, oltre che nuovo, “mischiare l’utile al dolce”. Egli è riuscito nel suo intento, per cui i Ragguagli sono  risultati un’opera attraente, perchè scritta con spirito comico (in 68 anni, i Ragguagli ebbero 24 edizioni). In verità, sul piano del registro lirico, della affinità emozionale, il Boccalini è discepolo del Berni e fratello dei poeti satirici del suo secolo.[31] Salvo a trovarci di fronte ad una nuova ambiguità, parallela a quella del suo atteggiamento sia esistenziale-pratico che dei motivi ispiratori (teoresi politica): si tratta di  una presa di posizione drammatica nel riso, cioè di satira; oppure  della  forma di riso più umile e meno polemica, cioè di umorismo?   Il ragguaglio su Machiavelli, che vuole   render feroci ed armate  le miti, gentili allieve del gregge ovino e che vien sorpreso e condannato per tale pretesa, è satira o umorismo?  Peggiore è la posizione dello scrittore nel caso dello spagnolo “scamiciato”:  la rivelazione della “arsura finanziaria”, che soggiace  allo sfarzo, è motivo di stima, compassione o satira? Parebbe invece certamente benevola, anche se sbarazzina, la critica mossa ai francesi che non hanno pazienza nel  cavalcare, perchè ritengono disonorevole essere alla mercè della cavalcatura.  Vi è dunque incertezza emozionale, oscillazione pendolare da un polo all’altro della comicità, che maschera la mancata coerenza di pensiero, la assenza di un sistema unitario di idee; e concorre a quella complessiva soddisfazione| insoddisfazione con cui si esce dalla lettura di un autore troppo  letterato per essere un grande pensatore; troppo filosofo per essere un grande poeta.

 Dello stile   qualcosa si è detto (divisione in centurie, natura allegorica dei “ragguagli”).  La tecnica della comicità è diretta e realistica,  nei casi del Ronsard e del gentiluomo spagnolo scamiciato; è allusiva, ci pare, nel ragguaglio su Machiavelli, perchè il Parnaso lo condanna per aver attentato alla sicurezza di pastori e pecorai, mentre intende  difendere ad ogni costo regnanti e  tiranni di popoli....

 

E’ della personalità del Boccalini, che invece è bene parlare. Il dissidio originale fra vocazione letteraria e costrizione alla vita sociale, la fuga verso Venezia per poter pubblicare le sue opere, l’amicizia col Sarpi e l’essersi abbassato al doppio gioco di servire da delatore ai due governi meno a lui simpatici (lo spagnolo e il pontificio), sono le facce contrastanti della vita pratica del Boccalini. Le opere politico-letterarie confermano tale perplessità della vita esteriore, sia  a livello di motivi ispiratori (quale giudizio su Machiavelli? Tiberio o Tacito?) che di toni lirici (satira o umorismo?): anche interiormente, vi è un dissidio, dunque, che si rivela nella incapacità psicologica a prendere nettamente posizione: nè sì; nè no; nè nì. Ebbe, il Boccalini una individualità infelice: il temperamento nervoso, infatti, è il più difficile ad accorgersi delle sue contraddizioni, a sentire il bisogno di lume razionale e di  sostegno psicologico da parte della società, che gli appare come ostile o troppo inferiore alle sue geniali intuizioni. E procede, allora, inesorabilmente nei confini del suo mondo interiore, indubbiamente acuto ed inventivo, ma non profondo e non equilibrato. Rimase così un intutivo di eccezione, un  orecchiante filosofo, uno scrittore in prosa con la verve di un poeta: un dilettante di genio, un  incoerente  inconsapevole, un  simpatico disorientato.  C’è in lui il presentimento di qualche altro letterato italiano?  Forse quello di un altro servitore dello Stato pontificio, ma nel Milleottocento: Giuseppe Gioachino Belli.  Tentato di liberalismo, ripiegato su un conservatorismo reazionario, in dubbio perenne se abbandonarsi ad un attitudine critica (satirica) verso il popolo di Roma col suo governo ecclesiastico oppure ammirare la disarmata spontaneità  dei popolani (cafoni innocui) e l’ingenuo  immobilismo  delle gerarchie ecclesiastiche (gentiluomini indifesi), anche lui avrà una povera vita,  sdoppiata non soltanto nel pensiero, ma anche tra fede e vita sessuale, col risultato di una povera poesia, indecisa fra la compassione, la lacrima, il sorriso e la risata. Al Belli manca solo l’ira e la satira: di Dante, frequenta solo il Purgatorio, mentre il Boccalini non manca di fare qualche visita anche all’Inferno. In entrambi, la vita psicologica, poetica e pratica è una nube di probabilità a variazione continua, come l’atomo di Bohr...

 

Paolo Sarpi.

 

L AVITA. Nasce nel 1552 a Venezia; a 14 anni entra fra i Serviti (Servi di Maria) e, a 18 anni, si fa conoscere in dispute teologiche, sicchè nel 1575 è inviato a Milano a collaborare col cardinale Carlo Borromeo, presso il quale però rimane poco. Avrà ammirato il riformatore, ma non lo elogerà mai. Lo criticherà anzi nella Istoria del Concilio di Trento per essere stato il  regista della fase terminale e più feconda dello stesso, in qualità di segretario di Stato per lo zio, papa Pio IV. E il Concilio aveva riaffermato il primato del papa e la  disciplina cattolica, che dispiacevano al Sarpi. Forse non ne condivideva neppure i metodi autoritari, pur non potendo non approvare la vita ascetica formidabile e la  fatica apostolica eroica, che coincidevano colla propria austerità di religioso. Nello stesso anno 1575 lo troviamo allora ad insegnare a Venezia, mentre si prepara al dottorato a Padova, che egli consegue nel 1579. Viene ordinato sacerdote e fatto superiore della provincia veneta del suo ordine religioso. Eletto procuratore generale dei Serviti, vive per lo più a Roma,ove riesce a procurarsi rapporti privilegiati con Sisto V ed Urbano VII (morto quest’ultimo, però, entro pochi giorni dalla nomina, nel 1590). Lasciò la città con l’amaro in cuore dei residui di mondanità nella curia e nello stesso papato, incapace di comprendere che una svolta ad “U” come quella del Concilio abbisognava di generazioni per essere attuata (o, se si vuole, che un processo di corruzione come quello avvenuto durante il Rinascimento, necessitava di  generazioni per essere totalmente corretto). Ma forse era anche risentito per motivi personali, a noi non chiari. Pare infatti che egli si lamentasse anche di qualche delusione propria, se in una lettera scritta un po’ in un linguaggio cifrato (e che gli procurerà un’accusa presso il S. Uffizio), egli giunge a scrivere “E che volete ch’io speri a Roma, ove solo li ruffiani, corrotti e altri ministri di piacere e di guadagno hanno ventura?”

Ma all’interno dell’Ordine egli è sempre sulla cresta dell’onda e viene rieletto “provinciale” e gli vengono assegnati altri incarichi di fiducia. Però inutilmente, dal 1593 al 1601, chiese, con appoggi altissimi, l’assegnazione di una diocesi nel territorio veneto: piccola, affinchè potesse attendere agli studi filosofici e scientifici e rimanere a disposizione, come consulente, della republica di Venezia. Ma le informazioni raccolte non tranquillizzavano Roma: il Sarpi aveva contatti con persone sospette di eresia, oltre che con Ebrei e circoli ancora più sconcertanti, in cui si parlava della dottrina machiavellica e della mortalità dell’anima.

Nel 1606 insorge la contesa fra Paolo V e la Serenissima. Si tratta di problemi di giurisdizione: la signoria aveva arrestato, senza accordi con l’autorità ecclesiastica, due preti rei di delitti comuni. Inoltre aveva proibito nuove acquisizioni di terreni da parte di enti e personalità ecclesiastiche, senza previa autirzzazione della repubblica. Paolo V, dopo le vie diplomatiche e pacifiche, lanciò la scomunica sulle autorità veneziane e, poi, l’interdetto (proibizione di tener aperte le chiese e celebrarvi funzioni liturgiche) su tutto il territorio della repubblica. Il Sarpi fu il consigliere più attivo nello stendere le risposte a Roma e il “protesto” (manifesto) alla popolazione per dichiarare nullo e invalido il provvedimento papale: i gesuiti ed i cappuccini che obbedirono all’interdetto e chiusero le chiese, furono esiliati. La mediazione francese concluse il penoso affare con compromessi che lasciarono tutti scontenti: il Sarpi accentuò il suo atteggiamento (che già da tempo maturava in se stesso) di opposizione all’autorità della Chiesa come organizzazione terrena. Stipendiato dalla repubblica e richiesto continuamente di “consulti”, pugnalato dai partigiani della Chiesa (si vorrebbe addirittura che il mandante fosse il nunzio a Venezia), fu in contatti cordiali e frequenti con gli ambasciatori d’Inghilterra a Venezia. Essi avrebbero voluto che il Sarpi introducesse la riforma protestantica, ma egli non vi si impegnò, perchè la riteneva intempestiva, come appare da un passo della lettera a Jérome Groslot de l’Isle del 27 aprile 1610 (“L’inquisizione cesserà e l’Evangelio avrà corso”, vi scriveva: ma solo con la guerra che Roma teme). Egli contava soltanto su alleanze politico-militari coi paesi riformati e su una guerra conseguente, per ottenere la punizione della Chiesa di Roma e il ritorno ad una Chiesa di tipo “apostolico, primitivo” che abbandonasse la forza e si fondasse solo sulla virtù evangelica. Ma  allorchè la guerra scoppiò, nel 1618, le vicende andarono talmente a favore di Spagna e Impero che quando egli moriva, nel 1623, doveva temere il peggio per la sua causa. Aveva mandato a Londra il manoscritto della sua storia del Concilio, che vi fu pubblicato nel 1619: dopo pochi mesi, essa era posta all’Indice. Morì fuori della comunione con la Chiesa: durante l’interdetto era stato chiamato a Roma dal tribunale della Inquisizione e, non avendo obbedito all’ordine, venne scomunicato, non preoccupandosi egli di chiedere assoluzione o Confessione sacramentale, neppure in punto di morte. Lo stesso Viatico pare gli sia stato portato su iniziativa del suo collaboratore (pure lui scomunicato), fra Fulgenzio Micanzio.

 

LE OPERE. Fra le moltissime ( non tutte edite), le principali sembrano essere le seguenti.

            Istoria del Concilio tridentino (Londra, 1619, a cura del vescovo di Spalato, Marcantonio de Dominis, passato all’Anglicanesimo e poi rientrato nella Chiesa): è l’opera principale, senza la quale le altre sarebbero ricordate a stento e solo in libri specialistici di storiografia.

            Il gruppo di opere connesse con l’interdetto su Venezia:

Istoria particolare delle cose passate tra il Sommo pontefice Paolo V e la Serenissima Repubblica   di Venezia negli anni 1605-1607 (edito nel 1624);

Considerazione sopra le censure della santità di papa Paolo V contro la Serenissima Repubblica di Venezia (1606);

Trattato dell’interdetto della Santità di Paolo V (1606);

Apologia per le opposizioni dell’ill.mo e rev.mo signor cardinale Bellarmino alli trattati e resoluzioni di Giovanni Gersone sopra la validità delle scomuniche (1606).

            Altre opere importanti per capire pensiero filosofico e mentalità giurisdizionalistica (cioè tendente a sottomettere la Chiesa alla autorità dello Stato) del Sarpi:

Pensieri (naturali, metafisici e matematici) (Bari, Laterza, 1951; Napoli-Milano, Ricciardi, 1996).

Trattato delle materie beneficiarie (iniziato al più tardi nel 1610; forse non rifinito);

Trattato della immunità delle chiese (è premessa alla Istoria);

Discorso sull’origine, forma, leggi ed uso dell’Uffizio dell’Inquisizione nella città di Venezia;

Scrittura sopra l’appellazione ad un concilio nazionale.

            Epistolario (specialmente con personaggi della Chiesa riformata di Inghilterra e con francesi, gallicani o calvinisti).

 

PERSONALITA’, FORMAZIONE, CONDOTTA PRATICA. Per comprendere il pensiero sfuggente di quest’uomo, dobbiamo risalire alla sua personalità e formazione.

Dalla “Vita di padre Paolo dell’ordine dei Servi e teologo della Serenissima Repubblica di Venezia” (scritta dal confratello unanime fra F. Micanzio e pubblicata a Leida nel 1646), Gaetano Cozzi ricava  alcuni dati significativi per la sua “Nota introduttiva” alle Opere del Sarpi (Milano-Napoli, Ricciardi 1969: i rimandi senza altra indicazione, si intendono riferiti a questa opera). Il padre, Francesco, era  “-uomo feroce, più dedito alle armi che alla mercatura-... e mercante fallito, per giunta, ridottosi dopo vari insuccessi a basso stato: e lo descrivevano –di statura piccolo, di color bruno, di aspetto terribile-, dai modi e dall’ira di –un bravo-. Mentre la madre era –di statura grande, di color bianco, d’aspetto umile e mite al possibile-, dedita alle devozioni, al punto che dopo la morte del marito aveva vestito l’abito di religiosa ed era venuta in fama di singolar santità. Era un’unione da destar scalpore nella cerchia di familiari e conoscenti, per quell’estremo contrasto di condizioni, di temperamenti, di modi e di gusti di vita, ed il biografo del Sarpi lo sottolinea, ad apertura della sua operetta, quasi a farne la premessa necesaria per la comprensione della personalità sarpiana” (p. 3).

Fu introverso e dedito agli studi per propensione ingenita, come testimoniano suoi condiscepoli: “Tutti a bagatellare... e fra Paolo ai libri” (ivi).

 La formazione lascia gran spazio a Duns Scoto, al nominalismo, ad Occam in particolare: suo maestro fu il servita p. Giovanni Capella, amico di casa oltretutto. Questa formazione può aver confermato la tendenza innata nel Sarpi a privilegiare la esperienza, come sorgente del vero sapere, svalutando la ragione astratta e il ragionamento a partire da princìpi universali ed evidenti. Che egli fosse incline agli studi sperimentali, lo indicano sia i suoi “Pensieri filosofici e scientifici” (della prima giovinezza) sia i più tardivi “Pensieri medico-morali”; lo conferma la amicizia col Galilei, gli interessi sul magnetismo, la pratica abituale dell’anatomia, le relazioni con Girolamo Fabrici di Acquapendente (noto anche come Frabrizio Acquapendente: fu docente di medicina alla Università di Padova) che gli dovette, pare, più di una osservazione (sul dilatarsi o restringersi della pupilla secondo la minor|maggior luce presente; sulla esistenza di valvole nei vasi sanguigni...).

A noi pare che questi precedenti temperamentali (più il magistero nominalistico del Capella) siano sufficienti a spiegare la tendenza spontanea del Sarpi alla incertezza teoretica,  allo  scetticismo e disinteresse per le questioni ultime della metafisica e della morale; così come la sua passione per le conoscenze sperimentali e particolari e con le preoccupazioni di ordine metodologico e critico sul valore della conoscenza astratta ed universale. Ne vedremo le conseguenze sulle sue convinzioni, affidate soprattutto ai Pensieri filosofici, che spiegheranno,  a loro volta, la condotta anguillesca della sua vita pratica.

Ma il Sarpi, non dovette  incontrare, nel suo ordine religioso, un contesto  adeguato alla  formazione di un soggetto come lui, molto dotato ma   anche molto scompensato. Altrimenti egli avrebbe potuto, attraverso una  educazione intellettuale pertinente, riequilibrare i limiti della sua intelligenza e carattere. Invece,   si trovò probabilmente accanto dei superiori e confratelli mediocri, che troppo  rimasero abbagliati dalle componenti positive della sua personalità, tanto che lo promossero subito alle più alte cariche; e lo protessero poi sempre. Questo ambiente non poteva non favorire la superbia che, incline a prender troppo piede in ogni figlio di Adamo, è caratteristica degli intelletti unilaterali e miopi come era il suo, che soffriva di una forma di deficienza prospettica, di una specie di astigmatismo  concettuale.  Anche il Cozzi avanza l’ipotesi di un orgoglio non dominato: “Viene alla mente, di fronte a questo Sarpi ancor giovane, alle sue nostalgiche idealità religiose, alla sua rigida dirittura morale, ed al suo indulgere su temi di un’etica precristiana (epicurea o stoica: della padronanza e serenità, comunque) e al suo orgoglio così incline al disprezzo, la raccomandazione rivoltagli, una ventina d’anni prima, dal cardinal Paleotti: e ci si domanda se il vescovo, nell’incitarlo, per la sua vita futura, ad –iactantiam evitandam et humilitatem amplectendam- (evitare l’orgoglio ed abbracciare l’umiltà), non gli indicasse perspicacemente il limite più profondo della sua personalità di religioso e di cattolico”(pp. 4 e 19-20).

Ma comunque sia da risolversi il problema delle cause, è certo che egli rivela, nella vita pratica come in quella teoretica, una ambivalenza, anzi una ambiguità che sconcertarono a suo tempo e cattolici e protestanti.

 Nella prassi, egli restò nella Chiesa come scomunicato: pretese di rimanervi, erigendosi a giudice ultimo, quando egli faceva fatica ad accettare l’autorità che, incarnata da persone più o meno degne, era pur sempre quella additata dal Vangelo. Scontento della non sufficiente purificazione negli uomini di Chiesa, aveva però rinunciato alla collaborazione  con San Carlo, che della stessa  stava  attuando  una forma ben esigente, anzi eroica. Invece, coltivava moltissime amicizie con protestanti francesi e inglesi. Era intrinseco di Arnaud du Ferrier, ambasciatore di Francia a Venezia e già ambasciatore a Trento per l’ultimo periodo del Concilio, dove aveva rappresentato la volontà del suo paese di ostacolarne la conclusione e la proclamazione della primaria auotrità del papato. Amicizia ancor più intima e duratura fu quella col medico calvinista, residente a Venezia come straniero, Pierre Asselineau: con lui era legato anche da interessi scientifici, da ricerche mediche. Ebbe corrispondenza con francesi, cattolici ma gallicani (rivendicanti ampia autonomia della chiesa di Francia, con parallele concessioni alla ingerenza del re nelle nomine ed altre questioni  religiose), come Jacques Leschassier e Jacques Gillot. Francesi e calvinisti erano Isaac Casaubon, Jérome Groslot de L’Isle e vari altri con cui ebbe scambi epistolari. Degli inglesi (anglicani) diremo fra poco. A parte i legami (già accennati) con comunità e  circoli al margine o fuori della Chiesa cattolica (Ebrei, Zecchinelli), era poi in contatto con cattolici, religiosi e laici, che contestavano o la riforma tridentina o il proprio  istituto religioso o lo stato della Chiesa del tempo. Camillo Oliva era uno di questi: già segretario, al Concilio, del card. Ercole Gonzaga, era però “amaro e polemico” e sottolineava gli aspetti meno edificanti del Concilio. Da lui, come dal Ferrier, potè il Sarpi (che non cita le proprie fonti) avere notizie di prima mano: anche se erano tuttte su una sola lunghezza d’onda, quella della minoranza contestatrice. A Roma aveva  fatto conoscenza con Martìn de Azpilcueta, sostenitore di una tesi estremista sulla residenza dei vescovi, dovere che,  come aveva inutilmente sostenuto a Trento, sarebbe stato addirittura di diritto divino. Si era pure legato con un vecchio gesuita, Nicolàs Alfonso de Bobadilla, cofondatore dell’Ordine con S. Ignazio, ma attuale suo critico radicale ( la Compagnia stava tradendo l’idea del fondatore..): ma va tenuto presente che il Bobadilla aveva impegnata tutta la pazienza di S. Ignazio, che se lo tenne vicino, sopportandone la imprevedibilità non del tutto normale. Sembra, in conclusione, che il Sarpi  armonizzasse solo con persone o pensieri ambigui. La fascia d’onda, su cui la stazione neuro-ricevente del Sarpi era sintonizzata, era zigzagante: a un certo punto se ne stancarono gli stessi riformatori, che l’accostavano inutilmente per indurlo a fondare a Venezia una  nucleo evengelico: “L’uomo che doveva esserne al centro, Paolo Sarpi, era accusato dai suoi amici riformati di freddezza, di inerzia, fin di incredulità. Una sorta di Melantone, lo si definiva: ed era, di tali giudizi, di gran lunga il più benevolo...Non è possibile ritrarre da quest’uomo altro che parole e queste, poche,asciutte ed ambigue” (pp. 636-7: a p. 231 si possono leggere altri nomi di riformati delusi dalla sua ambiguità inconcludente). Giacomo I Stuart l’aveva invitato, nel 1612, in Inghilterra, per facilitargli il passaggio alla riforma: egli aveva rifiutato. Eppure era stato in contatto di idee e di intenti con più di un ambasciatore d’Inghilterra, dapprima com Henry Wotton e, poi, con sir Dudley Carleton. L’uomo di contatto col primo era il cappellano dell’ambasciata, William Bedell, col quale il Sarpi aveva studiato l’inglese, mentre gli dava lezioni di italiano; con questi aveva cooperato alla traduzione di un’opera anglicana (“Relation of the state of religion”), che verrà pubblicata a Ginevra dopo la morte del Sarpi (1625), con aggiunte inserite da lui. Ma quando si trattava di passare alla riforma,  egli rispondeva, al solito, di andare con prudenza; e dilazionava. Dal 1610 al 1615 fu in rapporto di totale confidenzialità col successore di Wotton, il Carleton: fu questi a decidere il Sarpi alla stesura della Istoria del Concilio, che egli per altro andava accarezzando e preparando da tempo. E il Sarpi, che rifiutava il passaggio all’anglicanesinmo e il   soggiorno in Inghilterra, spediva colà  l’opera in fascicoli, facendovela pubblicare collo pseudonimo di Pietro Soave Polano (Pietro era il suo nome di battesimo).

 

IL PENSIERO DEL SARPI. L’ambivalenza dell’azione  sembra presupporre una ambiguità nel pensiero, ma forse non è così.  E’ questo, almeno, la persuasione cui è giunto Romano Amerio, riuscendo ad interpretare uno scarabocchio[32] contenuto in otto pensieri  del manoscritto dei Pensieri filosofici. Esso era stato un rompicapo già per chi aveva redatto l’apografo del manoscritto originario, tanto che si era ridotto a darne due interpretazioni totalmente diverse, ora  leggendolo come “terra” ed ora come “tortura”, ma lasciando in ogni caso incomprensibili gli otto pensieri. Eppure sono proprio questi la chiave per comprendere altre posizioni  fondamentali nella filosofia del Servita. Lo scarabocchio  va letto “torà”, che in ebraico significa “legge” (di Dio: sono i primi cinque libri della Bibbia, dalla Genesi al Deuteronomio), ma che  significa anche la religione ebraica tutta  e, per estensione, la fede religiosa in genere. Ne esce anzitutto  questa prospettiva  gnoseologica. Egli aderisce al principio averroistico della duplice verità, perchè ritiene nulla la capacità e volitiva e raziocinante dell’uomo: solo la Rivelzione divina dà certezze sulla vita, come solo la Redenzione dà potere di azione morale. Fin qui parrebbe coincidere, nella dottrina, esattamente con Lutero, Zwinglio e Calvino. Ma le cose stanno, poi, diversamente se si considerano le cause di tale stato debilitato dell’uomo. Il Sarpi non appella alla colpa originale per giustificare il suo radicale pessimismo sull’uomo spirituale e le sue facoltà: egli ritiene tale  impotenza umana come naturale, congenita con la creazione stessa, precedente il peccato originale, che a lui non pare interessare per nulla. Egli si può, così, permettere il lusso di essere, come filosofo, materialista (atomismo epicureo: non esisterebbe sostanziale differenza tra animali ed uomini), sensista, negatore della immortalità dell’anima, salvo ad accettare la dottrina cristiana per soli motivi di fede.[33]  Egli poteva, allora, appellarsi alla “sola fede”, come facevano i riformati, ma in un senso che è inaudito nella tradizione del mondo cristiano, cattolico o protestatnte. Di qui il suo temporeggiare fino alla inconclusione dei rapporti con calvinisti ed anglicani: fra di loro avrebbe trovato le stesse incomprensioni e persecuzioni che fra i cattolici, poichè per entrambi egli era eterodosso. Ma da un simile punto di vista, si rendono spiegabili anche le sue preferenze per i riformati, dal momento che essi  si appellavano alla “sola Scrittura”, demolendo molti dogmi o dottrine di fede ormai consolidatisi nella Chiesa cattolica, ma non chiaramente esplicitati dal Vangelo:  i riformati si accostavano a quel suo desiderio di ritornare alla fede minima delle origini cristiane, al sistema di vita semplice e disorganizzato del tempo degli apostoli, perchè in tale condizione gli pareva  che ci fosse spazio per una visione simile alla propria o che con la propria addirittura coincidesse. Ogni chiarificazione e consolidamento di nuove verità di fede ( e la cosa, col Concilio tridentino, si era ingigantita) era per lui una pretesa della ragione umana a comprendere al di là di quanto Dio aveva voluto accennare, per offrire al povero uomo una salvezza facile, attraverso delle verità semplici. Eccolo allora a far notare anche ai calvinisti “che il moltiplicar articoli di fede, e specificar, come soggetto di quella, cose non specificate, è dar negli abusi passati (cioè ritornare ai metodi della Chiesa cattolica). Perchè non contentarsi di lasciar in ambiguo quello che vi è stato sino al presente?” (p. 238). Ma, naturalmente, le sue obiezioni maggiori erano quelle nei confronti della Chiesa cattolica, specialmente sul primato del papa, che egli vedeva come la sorgente del dogmatismo: per lui la chiesa primitiva era quella che giungeva sino al secolo VIII, cioè sino a Carlo Magno escluso: una Chiesa povera di mezzi, di organizzazione, di  teologia e di dogmi. Un testo esplicito in materia è quello  contenuto nel Trattato delle materie beneficiarie, dove egli cerca di “dimostrare come la Chiesa, partendo dall’originaria povertà e dalla struttura democratica dell’organizzazione cristiana primitiva, si sia gradatamente corrotta nel suo spirito a causa del deformarsi dei suoi istituti e del suo regime patrimoniale; il rompersi della vita comunitaria del clero, la fine dell’originario sistema elettivo, il trasformarsi dell’episcopato e del monachesimo, l’accentuarsi dell’autoritarismo pontificio favorito dal distacco della Chiesa d’Oriente, il nascere delle decime...l’organizzarsi di un regime beneficiario....sono le conseguenze e le manifestazioni evidenti di quel processo degenerativo” (pp. 241-2). Ad una simile chiesa primitiva egli è disposto a perdonare quei difetti, che non riresce a sopportare nella Chiesa del papa (lettera a Groslot de Isle: pp. 238-9). E il Cozzi, che pure intimamente non è sfavorevole alla figura del  Sarpi, costata onestamente che proprio lui, che contesta il legalismo della Chiesa e l’organizzazione razionalistica del suo “credo”, deve poi ricorrere a dimostrazioni “abili e insidiose” che “risentono spesso di un formalismo cavilloso, e si inaridiscono in intonazioni causidiche” (123);e si rivela “sottilissimo, mordace, avvincente; ma capzioso, a volte, e imbarazzato quando è costretto ad appoggiarsi ad autori recenti o al diritto vigente”. Egli lascia trasparire la “pervicace esigenza di contestazione nei confronti delal Chiesa, della sua realtà attuale, del suo passato” (p.223): atteggiamento che sarà, poi, caratteristico di tutta la Istoria. Poste queste premesse, in che misura è sincero il suo preferire l’autorità di un concilio (anche solo nazionale) contro l’autorità del papa? Egli ne tratta nella “Scrittura sopra l’appellazione ad un concilio nazionale” (pp. 122-6; 129-34). Nè si deve credere che la sua contestazione contro il “lontano papato fosse atto di forza e di coraggio, quando si legge in quali termini si rivolge al vicino governo veneziano: -Nissuna cosa ho desiderato più ardentemente alla mia vita che di poter esser atto in qualche maniera di servire la Serenità vostra, mio principe (il doge) sotto il quale son nato in questa inclita città” (p. 118). E lo stesso tonno e stile, che anche Cozzi ammette non fanno onore all’uomo, è nelle lettere per ottenere la mediazione del governo veneziano all’assegnazione a lui dell’episcopato di Nona (pp. 23, 30, 223).

 

LA “ISTORIA DEL CONCILIO TRIDENTINO”.

Edita a Londra nel 1619, l’opera è in otto libri, che abbracciano gli avvenimenti dal 1517 (le tesi di Lutero a Vittemberga) al 1565 (prime elezioni cardinalizie dopo la fine del Concilio).

            Motivi ispiratori.  Materialmente sono le vicende che costituiscono i precedenti e lo svolgimento del Concilio di Trento: la ribellione di Lutero e di molti paesi del Nord Europa; la tensione fra la Germania che chiedeva il Concilio e Roma che lo temeva e rimandava (fino al 1534, cioè fino alla morte di papa Clemente VII); le difficoltà a tenerlo, poi, quando Paolo III lo voleva decisamente, mentre le lotte tra Francia e Impero lo impedivano ed i luterani, ormai, lo sdegnavano; le varie vicende ed attività del Concilio stesso dalla sua riunione a Trento nel 1545 allo spostamento a Bologna nel 1547; dalle sospensioni alla sua veloce parte finale, sino alla conclusione, nel 1563. Il metodo è quello annalistico: ognuno dei 67 capitoli della Istoria segue spesso pochi mesi, talora solo qualche decina di giorni di attività.

                                           Formalmente, il filo di Arianna, il  significato essenziale della Istoria, il punto di vista, che l’autore pone a cardine della sua ricerca, è espresso nella prima pagina dell’opera, all’inizio del libro primo e  val la pena di leggerlo nelle stesse parole del Sarpi: “Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di  22 anni, per diversi fini e con vari mezi, da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni   18 ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rasignare li pensieri in Dio, e non fidarsi della prudenza umana.

Imperò che questo concilio, desiderato e procurato dagl’uomini pii per riunire la Chiesa, che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai prìncipi per la riforma dell’ordine ecclesiastico ha causato la maggior disformazione che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitù; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza da picciolo princìpii pervenuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggietta, che mai fu tanta nè così ben radicata.” [34]

La dichiarazione “candida” è fatta ad inizio dell’opera e denuncia una tesi  pregiudiziale: non è il risultato della ricerca, ma il criterio della ricerca stessa: il che rivela, in apertura di libro, un preconcetto, che è il suo difetto principale. Certo, alcuni fatti sono innegabili: il Concilio si radunò   anche per tentare di conciliare le parti; è indubbio, ma già qui vi è una interpretazione equivoca: per il Sarpi, la ricompattazione tra cattolici e protestanti sarebbe stato non uno scopo, ma lo scopo del Concilio. Per il papa, i vescovi, i cattolici, il Concilio doveva anzitutto e soprattutto definire la dottrina vera della  “giustificazione” (per la sola fede o anche per le opere,  di cui l’accettazione della fede era la prima e le altre un frutto?): la riunione doveva essere un corollario della verità  chiarificata, non la meta assoluta cui sacrificare anche la verità  tradizionale nella Chiesa cattolica!  E ancora:  che prove adduce il Sarpi per permettersi di affermare che i vescovi volevano adoperare il Concilio “per racquistar l’auttorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano”? Alcuni ve n’erano, certo, ma una minoranza, tanto che il Sarpi deve riconoscere che fu proprio il Concilio (cioè la enorme maggioranza dei vescovi) che “gliel’ha talmente stabilita e confermata.... che mai fu tanta nè così ben radicata”. E al Concilio si votava democraticamente, per numero di vescovi. Ripetiamo: pregiudizi  fin dalla prima pagina dell’opera. [35]

Vorremmo ora segnalare come tale animo sospettoso, pessimista ed ostile riaffiori continuamente nella Istoria: così frequentemente che, per discrezione, ci limitiamo a documentare solo alcuni casi che si incontrano “à livre ouvert”, cioè nel primo capitolo del primo libro.

 Vi si dice[36] che il card. Tomaso de Vio (detto il “Gaetano” dal luogo di nascita a Gaeta) avrebbe tentato di ridurre Lutero a ritrattarsi e tacere, mediante promesse di onori ecclesiastici; fallita la missione, a Roma -in curia- ci si lamentò che il legato non avesse offerto addirittura il cardinalato  al frate, pur di placarlo. Ora non vi è prova alcuna di simili maneggi: il Gaetano andò alla dieta di Augusta del 1518 convinto che Lutero era un eretico notorio e deciso ad eseguire quanto il papa gli aveva indicato: o la ritrattazione o il processo a Roma. E quello di Sarpi rimane un sospetto temeraio, un processo alle intenzioni, una calunnia: chi era presente agli eventuali colloqui privati e segreti tra il legato e Lutero?  Un’ipotesi destituita d’ogni fondamento.

Lutero amplierebbe il raggio della sua contestazione alle dottrine tradizionali (specie sui sacramenti), per  la soddisfazione (orgoglio, anzi) di vederee le sue idee esportate da Zuinglio fuori Germania. Il processo alle intenzioni si raddoppia nel giro di un solo periodo, rovesciandosi però di senso: questa volta sono le condanne di alcuni corpi universitari a spingere Lutero alla intransigenza ed ostinazione nelle sue idee. Non si salva neppure Lutero dalla inclinazione maligna al sospetto temerario, propria del Sarpi: lo accusa di pervicacia sia a motivo dei successi ottenuti che  in reazione alle opposizioni incontrate!

Leone X, pentito di aver preso troppo sul serio quella che poteva essere considerata semplicemente una “discussione fratesca”, ne prevederebbe l’esaurimento tanto più celere quanto più essa fosse trascurata dalla autorità ecclesiastica. Conseguenza? Emana la bolla di condanna del 15 giugno 1520 (“Exsurge, Domine”). Alla pratica impossibilità (mancando documenti al riguardo) di leggere nell’animo di Leone X, si aggiunge la controindicazione degli atti compiuti dallo stesso pontefice, che fa stampare al sua “brava grida” ad esterminio delle eresie....

Della Bolla “Exsurge”, il Sarpi trascura la essenza e si sofferma su particolari accidentali: dedica otto righe ai 41 articoli di condanna e  ventisei alle  circostanze di composizione ed espressione, dove trova modo di esercitare la sua perspicacia nel sottolineare difetti veri o presunti, mentre il valore della bolla sta  anzitutto nella  verità delle dottrine di Lutero riportate e, in secondo luogo, nella loro dissonanza rispetto alla dottrina tradizionale della Chiesa. Ebbene, su tali rapporti, il Sarpi sorvola, sebbene poteva almeno riconoscere che le parole che definiscono  i singoli errori sono tratte, quasi sempre alla lettera, da opere di Lutero. Così egli può  sofisticare sul fatto che il documento contenga un periodo di oltre 400 righe; che non si applichi alle singole proposizioni la specificazione dell’erroneità, ma vengano condannate in blocco, salvo a  indicare alla fine che tra esse alcune erano propriamente eretiche, altre  soltanto scandalose o false; che non si citino i passi della Scrittura contro cui le affermazioni di Lutero urterebbero; che  “tante proposizioni in diverse materie di fede fossero state decise in Roma col solo conseglio delli cortigiani, senza parteciparne con gli altri vescovi, uinversità e persone letterate d’Europa”. Ora egli trascura che un documento di condanna, che  usciva dopo quasi tre anni dalle “tesi “ di Vittemberga, con tutto il vespaio ormai suscitato, era così in ritardo che la fretta poteva  scusarne i limiti; che,   per quanto riguarda la citazione delle prove  della erroneità, la Chiesa non era obbligata ad addurne, perchè non è chi nega, ma chi  asserisce che deve portare le prove, secondo la regola di ogni buona discussione (“affirmantis est demonstratio: la prova tocca a| è di pertinenza di chi afferma); e, infine, che non solo le  Università di Colonia e di Lovanio avevano contribuito al processo  svoltosi a Roma contro Lutero (in contumacia) nei mesi tra gennaio ed aprile del 1520, prima  che fosse emessa la bolla “Exsurge Domine”con la condanna, ma che, anzi, la più parte delle proposizioni condannate erano quelle indicate dalla università di Lovanio (nel suo giudizio su Lutero del 7 novembre 1519).

Che Lutero facesse bruciare un esemplare della bolla “Esxurge” a Vittemberga come risposta al bruciamento dei suoi libri alle università di Lovanio e di Colonia, è una pietosa ipotesi: gli scritti contemporanei (“Contro la bolla dell’Anticristo”| “La cattività babilonese della Chiesa”) rivelano motivazioni di logica interna ai suoi errori ben più trainanti ed efficienti che non una rivalsa   passionale, una  iperreazione al gesto di obbedienza (di due sole università!) all’obbligo fatto dalla bolla “Exsurge”  di dannare al rogo i libri del frate ribelle. Si trattava di quella forza terribile che regge il mondo umano ed è la coerenza o consequenzialità delle idee. Il Sarpi non s’accorge, probabilmente, che riducendo i gesti di Lutero e lo sviluppo  dei suoi prinìpi a reazioni emotive  contro le misure di Roma, rischia di  immiserire quella che fu chiamata la rivoluzione copernicana in campo religioso, riducendola ad una questione di puntigli e di ripicchi personali.

La sentenza “Ma li vescovi che non avevano altra mira se non al conservar la loro autorità, dicevano che nella causa della religione non si dovesse venire ad alcuna trattazione...”. Questo è un vero processo alle intenzioni, un voler “um die Ecke gucken” (guardare dietro l’angolo) della coscienza umana, un condurre la storiografia in base a sospetti temerari, graditi a quanti fra gli sprovveduti o corrotti lettori cercano ad ogni costo una malignità negli altri per appagar la propria collera, per soddisfare la propria aspirazione a trovar colpevoli, per assecondare la propria inclinazione a punire.  Difatti lo Jedin scopre il motivo della cessazione (da parte ecclesiastica) delle trattative: “Fu il cardinal Camporeggio ad avvertire chiaramente il pericolo insito in questa pretesa dei protestanti (di considerarsi ancora cattolici) e pertanto egli si dichiarò (proprio in considerazione di questo pericolo) decisamente contrario ad ogni concessione e ad ogni tolleranza: altrimenti si sarebbe avuto come conseguenza che cattolicesimo e luteranesimo sarebbero stati considerati come due fedi sullo stesso piano” (vol I, libro 2, cap. 1, pp.161-2 della traduzione italiana, Brescia, 1949, cit.).

 E infine: “Ma il papa (Clemente VII, Medici,  tuttora signore di Firenze), così per esser stanco dalli travagli, come anco perchè, restando li collegati (Francia e alleati) superiori, avrebbono mantenuto la libertà di Fiorenza (tornata repubblica) il governo della quale egli più desiderava di ricuperare che di vendicarsi delle ingiurie ricevute da Carlo, fece risoluta deliberazione di non esserli contrario, anzi di congiongersi con lui la prima occasione per ricuperar Fiorenza: la quale certo era che se il re di Francia e li Veneziani fossero restati superiori in Italia, averebbero voluto mantener in libertà. Tenendo nondimeno questo per allora nel petto suo, si scusò che per la povertà ed impotenza sua sarebbe stata di gravezza e di non giovamento alli collegati....”. Il nostro commento in parte consente (Clemente VII fu certo moralmente meschino e prepotente a voler riavere Firenze con la violenza delle truppe imperiali), ma sostanzialmente deve dissentire: la conversione politica del papa dal favore alla Francia (in nome del tradizionale  principio della politica papale di non lasciar in mano allo stesso padrone le due chiavi d’Italia, cioè Milano e Napoli, perchè un tale fatto avrebbe tolta la libertà di azione al papato stesso) all’appoggio per Carlo V non avvenne  per l’avidità di riavere Firenze, ma per  il disastro del sacco di Roma, che  mise il papa praticamente alla mercè dell’imperatore. Papa Clemente si comportò come un don Abbondio qualsiasi, sempre disposto all’obbedienza col più forte.

 In conclusione: le analisi psicologiche di questo storiografo risentono molto  del viraggio di introspezione messo in voga dal Machiavelli, ma  si rivelano controproducenti:  di fronte ai fatti documentati, non c’è speculazione suppositiva che tenga. Forse lui credeva di imitare Tacito, ma si rivela invece una talpa che scava cunicoli tenebrosi sotto terra; e che, portata a confronto dei fatti, resta abbacinata e si lascia cogliere in fallo. E’ una spia che sorpassa sempre chi sta pedinando, anche perchè  il motivo del sospetto spesso esiste solo nella sua mente.

            Le tonalità liriche (?). Tutto il discorso che si è fatto sinora sul Sarpi, avrebbe senso in sede di storia della letteratura italiana, solo se, nella espressione delle sue idee (esatte od errate, non importa) l’autore le avesse permeate di un pathos lirico. Dobbiamo però confessare che ciò non  risulta minimamente vero al nostro senso critico: egli ci  appare un re nudo, aggregato a forza nella disciplina letteraria per motivi politico-ideologici. E’ un’altra gherminella  della congréga degli studiosi risorgimentali (di una certa loro parte, almeno) che incominciò con Francesco De Sanctis: egli ebbe l’ingenuità di celebrarlo come rappresentante della civiltà della “nuova scienza”, che soppiantava quella medioevale e segnava la resurrezione della società italiana, dopo la corruzione del Rinascimento[37]. Molti studiosi vogliono mantenere in auge tale tesi, all’attenzione dei giovani studenti, per  scopi decisamente extraletterari: l’esaltare il Sarpi fa parte della vociante opinione   anticattolica   e del linguaggio politichese di moda. Al contrario, il valore della Istoria del concilio tridentino, qualunque esso sia, rimane limitato al campo storiografico: il libro, con la storia letteraria, non ha nulla a che fare.

 Comprendiamo che almeno due domande insorgono a questo punto: come dimostriamo la nostra esclusione così radicale dalla storia letteraria d’Italia  di uno scrittore solitamente apprezzato? E ancora: perchè mai si è dato tanto posto in queste nostre riflessioni alla sua opera, se si tratta di un disvalore estetico?

 Per sè, la prima esigenza non ha senso: sembra legittima solo alla impressione emozionale. Abbiamo, infatti, già riportato il principio troppo logico, per cui “tocca a chi afferma dimostrare la sua tesi”, non a chi la nega (affirmantis est demonstratio). Noi, negando la sua artisticità letteraria, non siam tenuti alla prova; anzi ne siamo proibiti: dovremmo riportare brani (e lasciamo al lettore di sceglierne ovunque voglia) per  concludere “Vedete che non hanno nessun plus-valore estetico?”. Il  che è giusto l’opposto di ciò che deve fare una storia della letteratura, cioè  documentare e definire la poesia là dove il critico è persuaso che essa esiste.

Tuttavia, possiamo offrire qualche indizio indiretto che appoggi la nostra tesi: prendendolo dal modo con cui i “lodatori” si esprimono o si documentano (anzi, non documentano le lodi).

Anche un grande critico come Natalino Sapegno giunge a questa nuova specie di “ossìmori” in cui si afferma in seconda battuta  l’artisticità che si è negata dapprima (o viceversa): “Questo stile potrà, a prima vista, sembrar addirittura monotono e scialbo, perchè da esso sono assolutamente esclusi così il pittoresco come la rettorica sentimentale[38] e anche il movimento drammatico rimane tutto implicito e si risolve in potenza di ragionamento dialettico, di sintesi espositiva, di rappresentazione psicologica... Ma questa educazione letteraria[39] opera, per così dire, da sola e immediatamente, senza che mai si possa avvertire in essa un’ombra, anche lieve, di compiacimento artistico: senti che il Sarpi è tutto intento alle cose più che alle parole...” (Compendio di St. d. Lett. it., Firenze, La Nuova Italia, 1963, II, 298). Se abbiamo capito bene, da quanto si può capire da un simile ermetismo “rettorico”, il Sarpi poteva essere un grande scrittore, ma di fatto non lo è. O, se si vuole, si pretende affermare la grandezza letteraria di Sarpi sulla irragionevole base della assenza in lui di difetti soliti nella scrittura del Milleseicento (pittoresco, retorica, sentimentalismo, compiacimento artistico...): che è troppo poco; anzi è indizio che di meriti autentici non se ne sanno indicare.

Ed ecco Gaetano Cozzi, nelle sue Note introduttive alla edizione ricciardiana di varie opere sarpiane (o di loro parti antologiche): egli parla di “arguzia che spesso si appuntisce nel sarcasmo insistito, corrosivo”[40]; di “giudizio spesso sferzante” e di ironia che può presentarsi con tratti di bonomia sorridente, ma che scava, insistente, spietata, lacerante sugli uomini e sulle istituzioni” (Istoria, in Ricciardiana, p.733); e di “un tono ironico, tanto più pungente, quanto più velato di compunzione” (ib. 734); di “increspature di ironia”, di “nota sarcastica” di “frecciata polemica” (ib. 735). Quello che qui manca sono solo gli esempi concreti, le citazioni di passi precisi, di frasi  tratte dall’opera. Uno, veramente, lo riferisce ed è quello riguardante la morte di Zwinglio nella battaglia di Kappel  (Istoria, libro I, c. 4: Ricciardiana, 827-8; ed. Sansoni, p. 74). Ma tale passo è tutt’altro che ironico o sarcastico; è semplicemente una riflessione etico-religiosa sulla storia umana; di comicità o di altre passioni non v’è traccia. Ci sembra più utile riportare un altro passo, dove manca forza comica di qualsiasi genere, pur avendo il Sarpi tra mano non un capo a lui simpatico come Zwinglio, ma un papa a lui antipatico e, perciò, facile esca alla sua ironia, se egli ne avesse posseduta. Si tratta della descrizione della figura di Leone X, in apertura di volume o quasi: “E sarebbe stato un perfetto pontefice, se con queste cose (cultura umanistica, dolcezza e amabilità di tratto, mecenatismo...) avesse congionto un poco di cognizione delle cose della religione e alquanto più di inclinazione alla pietà, dell’una e dell’altra de’ quali non dimostrava aver gran cura” (Istoria, l. 1, c. 1, Sansoni, p. 6). Ci pare che il Sarpi denunci qui la assenza totale di ogni vis comica, di ogni capacità di sorridere e deridere. O, se si vuole, diventa lui motivo di riso (ridicolo, quindi) perchè definisce quasi perfetto un papa che manca delle doti più necessarie, cioè quelle per cui egli è uomo di Dio, colla più grande responsabilità spirituale sulla terra e con la coscienza di una missione impossibile agli uomini, la cui riuscita è solo nelle mani di Dio. Ma il Sarpi non sembra  risentire questa lacuna come  uno strappo decisivo nel manto pontificale: la denuncia quasi come una  lieve smagliatura.  Se il Sarpi non ha saputo ricavare il comico sarcastico da una simile figura di papa, anzi ha volto al serio ed ha espresso  con tanta bonomia un giudizio oggettivamente squalificante per  il responsabile primo della situazione penosa da lui deprecata nella Chiesa, allora di senso di humour e di comicità egli non doveva proprio possederne, svergognando così quanti, per motivi ideologici, lo vogliono   ingabbiare ad ogni costo nel museo della nostra letteratura, nonostante la sua aridità di cuore e  sofisticazione di mente.

Ma perchè, allora, abbiamo dedicato tanto spazio ad un “re nudo”? Ecco la risposta: per rimediare  alle artificiali quotazioni, all’asta dei valori letterari, che abbianmo dovuto documentare come pervicacemente  resistenti; e per non mandar perdute tutta la pazienza ed il tempo impiegato a perseguire  la illusione di rintracciare qualcosa di buono fra tanto vuoto lirico ed insolenza intellettuale.

                 Note stilistiche. Mente indagatrice di intenzioni (a costo di inventarle), anatomizzatrice di coscienze (a costo di deformarle), il Sarpi non ha tempo per curare la espressione: ce lo ha detto Natalino Sapegno e lo ripetiamo “marte nostro”, cioè a nostra esperienza e responsabilità. Il grigio è il colore che suggerisce la sua prosa, greve, monotona, sistemata in periodoni lunghi di righe, zeppi di notizie o di processi alle intenzionmi: noiosa e pesante.

Su questo sfondo di intellettualismo troppo analitico ed ipercritico, stonano le numerosissime note di dialettalismi veneti. Esse, anzitutto, per le loro sfumature bonarie e per il loro impasto musicale riescono piuttosto cordiali e distensive; e sono perciò impertinenti al discorso sospettoso e  corrosivo in cui vengono ad inserirsi. Ma, in secondo luogo,  non s’accordano con l’impasto  più intellettualmente sobrio ed equilibrato della lingua fiorentina: è come se Veronese o Tiziano,  Giorgione o Tintoretto volessero aggiungere delle tonalità cromatiche alle opere uscite dalla scuola prevalentemente disegnativa o sfumata dei pittori toscani.

Nella prosa della Istoria, la filologia veneta scopre tutti i suoi discordi rispetto a quella della lingua  già allora detta italiana. Ci limitiamo, anche per questa documentazione, al primo capitolo del primo libro, tenendo presente il testo della Sansoni (già più “rimediato” che non quello offerto dal Cozzi nella Ricciardiana): “congiòngere  elude la legge del fiorentino che, davanti a “ng” mantiene la “u” latina (coniungere), anche se essa  è vocale breve (il fiorentino evita così due suoni dolciastri di seguito –“gion-ge”-, per amore di equilibrio musicale); “assonzione” ignora la continuazione “dotta” (assunzione, da “assumptio”) preferita dal fiorentino, per adottare  la prosecuzione popolare; “nova”, nonostante che la “o” breve in latino esiga la dittongazione in “uo” (“nova=nuova”); “longo”, nonostante la “ng” di “longus” imponga la continuazione in “u”; “abbrugiò” (dal tardo latino “brusiare): ridotto in forma veneta e non toscana (bruciare); “conseglio” non rispetta la continuazione “dotta” che mantiene la “i” in toscano, nonostante essa, in latino, sia vocale breve; “noncio” è un iperpopolarismo: la “u” (radicale) di “nuntius” è lunga e perciò prosegue tale  e quale in fiorentino (per altro, il Sarpi usa anche “nuncio”: Sansoni, 34-5); “dechiara” è una fedeltà alla regola filologica anzichè all’uso di fatto: la “e” del prefisso nel verbo latino “declarare” è bensì lunga (e, come tale, dovrebbe davvero proseguire con una “e” anche in toscano), ma di fatto il popolo toscano ha preferito la continuazione in “i” (“dichiarare”); “Préncipi”: iperpopolarismo, perchè la “i” del latino “Princeps” è lunga e si mantiene tale; Qualonque| quantonque|: la “u” latina è lunga e si mantiene in toscano.

Tali venetismi si ripetono troppo di frequente e disturbano davvero il lettore sintonizzato sull’italiano di Firenze e dintorni: l’Adige, il Brenta ed il Bacchiglione hanno...ubriacato il povero Sarpi.

 Anche la sintassi non è perfetta. Ecco un anacoluto balordo: “E con queste risoluzioni fu formata la bolla sotto li dì 15 giugno 1520, la quale essendo come principio e fondamento del concilio di Trento, di cui abbiamo da parlare, è necessario rappresentare qui un breve compendio di quella” (l. 1, c. 1: Riccirdiana, 757; Sansoni, 13). Ecco un passaggio dal discorso diretto a quello indiretto: “Si raccordasse Sua santità di quel celebre luogo della Glossa, allegato da lei nel suo quarto delle Sentenze, che intorno al valor delle indulgenze la querela è vecchia e ancor dubbia...” (Ricciardi, 774; Sansoni, 28). Ed un altro: “E, lodato l’imperatore, essortò tutti ad ubidire quello che ordinerà. (avrebbe ordinato)..”.

 Ma il difetto non è in questi svarioni: Machiavelli e Guicciardini li ricuperano con la forza e lo splendore complessivo della locuzione, talvolta facendo degli anacoluti  leva ad espressioni sublimi, drammaticamente liriche. Qui non si ricupera nulla; nulla si comunica di speciale: gli arbìtri rimangono errori e la scrittura conferma i sofismi ed i pressappochismi di uno scrittore mediocre e sprovveduto, disinformato spesso e maligno sempre.[41] 

 

 

 

 

 

 

Galileo Galilei. 

I GIORNI E LE OPERE. Nato a Pisa, nel 1564, morì ad Arcetri, presso Firenze, nel 1642. Il padre Vincenzo, fiorentino, era il teorico della “Camerata de’ Bardi”, da cui nacque il melodramma. Egli studiò a Pisa, ma ne ritornò senza laurea. Eppure non ebbe difficoltà ad ottenere la cattedra di matematica, dapprima a Pisa (1589-92) e, poi, a Padova (1592-1610), dove fu invitato dalla serenissima repubblica di Venezia.. Egli, infatti, aveva già sorpreso i coetanei con la scoperta dell’isocronismo nelle oscillazioni del pendolo (1583), con la invenzione della bilancia idrostatica, capace di determinare il peso specifico dei solidi (1586); con i teoremi sul baricentro (1586-7). Certo, egli sulle questioni teoriche (fin dal 1597 si era messo in relazione con Keplero e ne condivideva la teoria eliocentrica, ma non l’ipotesi della traiettoria elissoidale nel percorso planetario), privilegiava quelle  tecniche, che fossero prova sperimentale ed applicazione  pratica delle intuizioni e dimostrazioni scientifiche. Fu così che nella piccola officina annessa alla casa di Padova, fabbricò il regolo calcolatore (lo annunciò nella pubblicazione “Le operazioni del compasso geometrico militare”), inventò un termometro, costruì calamite. Soprattutto fabbricò e perfezionò il cannocchiale, sia pure sulla scia di voci circa vetrai olandesi, che ne avevano preparati di più rudimentali, mediante l’abbinamento delle lenti in un tubo di metallo. Con esso scoprì quattro satelliti di Giove; osservò montagne e crateri sulla luna e  macchie  nel sole. Col “Sidereus Nuncius” del 1610 dava notizia delle scoperte. I “pianeti medicei” (come aveva chiamato i satelliti scoperti) gli ottennero da Cosimo II il privilegio di trasferirsi a Firenze per attendere ai suoi studi, in qualità di “Matematico primario dello studio di Pisa”, senza obbligo di residenza nè di lezioni. Ma non tutti i beni vengono per giovare. Galileo, libero, si dedicò alla diffusione delle sue convinzioni scientifiche, alla loro difesa contro avversari di estrazione dapprima materialistico-aristotelica (Cesare Cremonini, Fortunio Liceti, Vincenzo di Grazia)[42] e, poi, religiosa ed ecclesiastica. I primi erano inclinati al rifiuto della identità di  natura corruttibile tra la materia, di cui è composta la vile terra e quella spirituale di cui constano le stelle ed i corpi celesti (dogma aristotelico, fatto proprio da tutto il Medioevo); i secondi erano indotti alla ripulsa dalla interpretazione filistea di certe frasi della Bibbia (come  il famoso comando di Giosuè: “Fermati, o sole, in Gàbaon e tu, o luna, sulla valle di Aialon. Si fermò il sole e la luna rimase immobile...”: libro di Giosuè, c. 10, versetti 12-13; cfr. il salmo 104, v. 5: “Hai fondato la terra sulle sue basi, mai potrà vacillare”). Sebbene avesse dalla sua parte parecchi ecclesiastici (padre Benedetto Castelli, il canonico Paolo Aproino, ad esempio); sebbene l’università di Salamanca avesse deciso fin dal 1594 di adottare il testo di Copernico a base dell’insegnamento di fisica celeste ed i gesuiti del Collegio romano fossero favorevoli alle osservazioni (in particolare il padre Cristoforo Clavio era un ammiratore di Galileo), tuttavia, quando il domenicano p. Niccolò Lorini introdusse una formale accusa presso la Inquisizione romana contro alcune proposizioni di Galileo, contenute nella lettera del 21 dicembre 1613 al padre Castelli (lettera che ebbe vasta diffusione), gli avvenimenti assunsero svolgimento sfavorevole allo studioso.

Nel 1616 Galileo è chiamato a Roma  a rispondere delle sue asserzioni: non si tratta però di un processo inquisitoriale, ma di un richiamo all’ordine. Il cardinal Roberto Bellarmino (gesuita e santo)ebbe parte predominante nella soluzione amichevole della questione. Pur senza processo formale, l’Inquisizione condannò due proposizioni (eliocentrismo| rotazione della terra su se stessa e attorno al sole): la immobilità del sole al centro del sistema solare come “assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica, perchè è espressamente contraria alla S. Scrittura”; la non centralità della terra rispetto al mondo tutto, ruotante anzi attorno al sole, come “assurda e falsa in filosofia e... per lo meno erronea nella fede”. Galileo non fu presente al dibattimento, rimasto puramente generale e teorico fra teologi: ma i cardinali dellla congregazione dell’Inquisizione approvarono le conclusioni degli uomini “dotti”, presente il papa. Fu così vietato a Galileo di sostenerle (24 febbraio 1616): egli si sottomise due giorni dopo. Si comandò inoltre che l’opera di Copernico venisse ritoccata per eventuali nuove ristampe, così che l’eliocentrismo apparisse come pura ipotesi di indagine, non come tesi dimostrata. Proibite furono le opere di p. Michele Foscarini e tutte le altre che sostenessero l’eliocentrismo (5 marzo). Galileo non dovette abiurare, ma solo impegnarsi a non  sostenere tale tesi: poteva però difenderla come ipotesi di lavoro. Era pontefice Paolo V,  che si era mostrato poco diplomatico e troppo rigido  nei confronti di alcuni provvedimenti unilaterali di Venezia contro il clero: l’interdetto scagliato contro tutto il territorio della repubblica dovette essere ritirato, per la mancata obbedienza di gran parte del popolo e dello stesso clero. Morto questi nel 1621 ed il sucessore (Gregorio XV) nel 1623, fu eletto papa Maffeo Vincenzo Barberini (Urbano VIII) che a Galileo era benevolo, tanto da aver scritto versi in suo onore. Galileo allora preparò il Dialogo dei massimi sistemi (1632), nel quale le due ipotesi (eliocentrismo  copernicano e geocentrismo tolemaico) dovrebbero apparire come equiprobabili. Ma da tutto il contesto, l’ipotesi tolemaica esce  sconfitta ed il suo sostenitore (Simplicio: nomen est omen et iniuria: un nome di offesa, di derisione), sbeffeggiato. Il “Dialogo” era uscito con il regolare “Imprimatur” del teologo ufficiale della S. Sede (“maestro dei sacri Palazzi”: era il p. Niccolò Riccardi), del vicegerente di Roma, del vicario generale e dell’Inquisitore di Firenze. Eppure Galileo (era morto il cardinal Bellarmino, ormai) fu convocato dall’Inquisizione romana già nel settembre del 1632; giunse a Roma nel febbraio 1633 e, pur trattato cordialmente, fu processato e, il 22 giugno dello stesso anno, condannato ad abiurare l’eliocentrismo, con la pena del carcere a vita, per essere “vehementer suspectus de haeresi” (fortemente sospetto di eresia). Il carcere fu mutato subito con la residenza presso l’ambasciatore fiorentino a Roma (sul Gianicolo), anzi –poco dopo- con il domicilio coatto presso l’arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, suo amico ed ammiratore (30 giugno 1633). Col primo dicembre di quello stesso anno potè infine ritornare alla sua villa di Arcetri e risiedervi: senza poterne però uscire. Per qualche mese ebbe accanto la figlia suor Maria Celeste, dolce e serena, ma la consolazione di tale assistenza venne meno colla morte di lei il 2 aprile 1634. L’altra figlia, suor Angelica, era bisbetica e non adeguata alla penosa situazione del padre (che d’altronde l’aveva monacata a forza, come la prima, per mancanza di dote maritale adeguata!). Nel 1637 divenne cieco completamente: gli stavano vicini discepoli fedeli come Vincenzo Viviani, che ne scriverà poi la vita (Evangelista Torricelli gli sarà accanto particolarmente negli ultimi mesi). Essendo state proibite tutte le sue opere precedenti, dovette far pubblicare a Leida (dagli Elzeviri, tipografi olandesi) l’opera nota come il Dialogo delle nuove scienze (cioè “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica et movimenti locali). Morì l’8 gennaio 1642; solo nel 1737 sarà tumulato in S. Croce. La stampa del Dialogo sopra i due massimi sistemi era stata però permessa già nel 1644, mentre i libri sull’eliocentrismo furono tolti dall’Indice dei libri proibiti solo nel 1757 (da papa Benedetto XIV, il grande Prospero Lambertini).

LE OPERE. Quelle fondamentali sono quattro: il Sidereus nuncius (Avviso  astrale, 1610: scoperta dei satelliti di Giove); Il Saggiatore (1623: polemica infelice sulle comete, contro il gesuita p. Orazio Grassi); Dialogo dei massimi sistemi (1632); Dialogo delle nuove scienze (1638: noi citiamo dalla edizione 1958 di Boringhieri, Torino, a cura di Adriano Carugo e Ludovico Geymonat).

 

SIGNIFICATO MOLTEPLICE DELLA VITA E  DEGLI SCRITTI DI GALILEO GALILEI.

            La figura dello scienziato fiorentino interessa la storia umana in molti settori, di cui quello strettamente artistico-letterario non è il più importante.

Anzitutto egli incide sulla storia del sapere e del potere umano, come tecnico, come astronomo, come fisico.  Secondariamente, egli occupa un posto fondamentale come “metodologo” della ricerca scientifica. In terzo luogo, egli vale come punto di riferimento obbligato per la storia dei rapporti tra scienza e   Rivelazione cristiana e, di conseguenza, della estensione della  verità nella Sacra Scrittura, che la trasmette; e dei limiti nella infallibilità del magistero cattolico  per la interpretazione  della stessa. Scrivendo, infine, “Il Saggiatore” ed il “Dialogo dei massimi sistemi” (con la chiarezza e l’organizzazione esemplare delle idee e con un pizzico di ironia che condisce più spesso le battute dell’interlocutore Salviati, nel Dialogo; e si acuisce spesso in satira nel Saggiatore) e redigendo qualche lettera con drammatica convinzione circa la giustezza delle proprie idee,  Galileo si è acquistato  anche un posto nella storia della Letteratura italiana, come il miglior prosatore del suo secolo. Diamo ora uno sgurado ad ognuno di questi meriti.

            Come scienziato e tecnico, Galileo, anche se non inventò il cannocchiale, lo perfezionò decisamente, però;  e per primo lo puntò verso il cielo, scoprendovi i satelliti di Giove, gli anelli di Saturno, le fasi di Venere (e queste ultime bastavano a dimostrare la verità del sistema copernicano: ma Galileo non ne fu cosciente), le macchie solari (scoperta che smantellava il mito del “cielo incorruttibile”, trasmesso dalla filosofia  antica alla Scolastica medioevale). A lui si deve inoltre, come già detto, la costruzione della prima bilancia idrostatica, la scoperta dell’isocronismo del pendolo, l’invenzione del compasso geometrico-militare, che anticipò la costruzione del regolo calcolatore. A lui si deve la enunciazione del principio della proporzionalità tra l’accelerazione di un corpo e la intensità della forza motrice (è il principio ora detto della “azione delle forze”, sul quale si fonda la parte della Fisica chiamata Dinamica); e la formulazione dell’altro principio di “risultanza” tra varie forze-vettori (forze definite dalla loro intensità e direzione) componenti (sollecitanti, cioè, uno stesso corpo, ma con intensità e direzione diverse: è il principio della “composizione dei movimenti”[43], che  comanda un capitolo della Meccanica cinematica).

            Come filosofo, cioè “metodòlogo” della scienza, egli ha avuto almeno due grossi meriti: quello di dare fondamento razionale alla distinzione tra scienza e filosofia; e quello di  specificare, precisare e delimitare l’elemento differenziatore  tra il metodo induttivo e quello deduttivo.  Si noti: nonostante la gravità dei pregiudizi ancora esistenti sulla interferenza tra scienza e teologia e sul principio di autorità nella ricerca sia filosofica che scientifica, la sua lotta contro di essi è meno importante. Difatti è relativo il merito di aver ribadito la teorica inattinenza del motivo di autorità[44] nel dibattito scientifico (anche della scienza filosofica, oltre che di quella sperimentale) e  il dovere, quindi, di  riesaminare, al lume della esperienza dei sensi e della evidenza razionale, gli effati di uomini anche famosissimi (Aristotele, nel caso specifico degli oppositori di Galileo): tale convinzione, infatti, è sempre stata presente in tutti gli uomini, di diritto; e, di fatto, negli studiosi intelligenti di ogni tempo[45]

Anche circa la distinzione tra i vari settori del sapere scientifico (cioè del “conoscere attraverso le cause”), già la filosofia tomistica aveva posto una chiara separazione tra scienza-filosofia (da una parte) e teologia (dall’altra): quelle, fondate sulla ragione che elabora i dati sperimentali; questa, fondata sulla parola di Dio che,  infinitamente sapiente e buono, non può ingannare nè ingannarsi ed è quindi teste al di sopra di ogni sospetto, autorità assolutamente degna di fede. Invece,  neppure S. Tommaso aveva intuito la distinzione tra le scienze “sperimentali o matematiche od esatte” e la filosofia.  D’accordo, quelle erano le scienze delle cause prossime,  scoperte dalla ragione  che astrae, universalizza, elabora l’esperienza dei sensi, pur non riuscendo a prescinderne mai del tutto, come testimonia  in esse l’uso della matematica, che si serve dei numeri, cioè è legata alla dimensione quantitativa della conoscenza. Viceversa, la filosofia  era ben concepita come la scienza delle cause ultime, scopribili solo attraverso la astrazione più completa dai dati sensibili; delle cause essenziali, costituenti gli esseri e non solo motivanti il loro dinamismo; delle cause rintracciabili proprio  attraverso un ulteriore esame di confronto e di  analisi  delle cause  prossime, individuate dalle scienze sperimentali od “esatte” o “matematiche”. Eppure,  guidata dal riferimento al solo “mezzo” di indagine, che per entrambe le forme di sapere –scientifico e filosofico- rimane la pura ragione (e non l’autorità della  Parola divina), la scolastica non aveva distinto nettamente fra le due branchie di sapere razionale: per quei pensatori, si trattava  solo di due momenti od oggetti diversi all’interno dello stesso  sistema generale di indagine razionale. Erano insomma come due filosofie, una “fisica” che continuava spontaneamente nella “filosofia metafisica”, al punto che la prima diventava premessa che offrva come “postulati” le  proprie conclusioni alla  seconda, abbassandosi, perciò,  per rapporto naturale, a suo trumento subserviente (come la metafisica, poi, doveva  prestarsi ad esser “ancella della teologia”).[46]

  In tale processo di “separazione” tra i due rami della indagine razionale, una forte battaglia stava combattendo  anche l’inglese Francesco Bacone (1561-1626) che, praticamente contemporaneo di Galileo, critica fieramente il metodo deduttivo del sillogismo aristotelico-scolastico e, volendo fare l’ “Instauratio magna scientiarum”(rinnovamento generale delle scienze), comincia col tentare di  mutare lo strumento dell’accrescimento o progresso della stessa, cioè la Logica (chiamata “Organon” nei voluni di Aristotele). Peculiare e costitutivo della indagine filosofica è il metodo deduttivo[47], che gli pare coincidere col sillogismo e che, prendendo le mosse da una affermazione universale (od  assiomatica o comunque già  dimostrata come vera) vuol giungere alla prova di una affermazione particolare, contenuta in quella prima. Il metodo sillogistico di indagine non è  creatore, ma solo confermativo. Per “inventare” nuove conoscenze, occorre sostituirlo con l’esperienza: solo la esprienza, infatti, è la base del progresso, perchè può prender l’avvio da aspetti sempre nuovi della realtà, per trarne nuove leggi.  Si deve trattare, ben inteso, non di una esperienza “passiva”, ma aggressiva, cioè provocata, a sfida dei segreti della natura: si deve passare dalla esperienza all’esperimento, che avvicini sempre più alla prova definitiva: L’esperimento “cruciale” è quello che risolve il problema e prova la nuova legge: che indica cioè la via giusta al bivio della incertezza (experimentum crucis, che  dà la indicazione esatta ad un crocevia).[48] Ma Bacone non aveva saputo nè dire in che modo la serie degli esperimenti poteva, come doveva, sfociare in quello risolutivo (“experimentum crucis” o cruciale) nè aveva capito che per rendere dimostrativo l’esperimento stesso, doveva proprio riportarlo ad un valore universale, cioè a quella caratteristica iniziale del tanto disprezzato e misconosciuto sillogismo aristotelico. E’, questa, invece, proprio la intuizione che fa di Galileo il fondatore (e non solo promotore) del metodo scientifico o induttivo.  Quale è il difetto di Bacone? Egli non aveva compreso che la differenza fra il metodo “deduttivo” e quello “induttivo” non è essenziale, ma solo accidentale: si potrebbe definire tale differenza “metodologicamente geografica”. Infatti consiste nella diversa collocazione della affermazione (o proposizione o giudizio) universale, che è  comunque necessaria per stabilire una dimostrazione valida per sempre (sia che riguardi la natura di due realtà messe a confronto, sia che si riferisca alle relazioni tra le diverse realtà esaminate: sia che si tratti, cioè, di giungere alla prova di una identità|diversità fra cose,  sia che si tratti di scoprire un rapporto stabile fra di esse, cioè una legge scientifica). Il metodo deduttivo colloca la proposizione universale più facilmente al primo posto (“Ogni essere intelligente è interiormente libero”), mentre il giudizio particolare[49] viene dopo (“atqui l’uomo è un essere intelligente”) e conclude  alla “scoperta” di una verità particolare (“quindi l’uomo è interiormente libero”). Viceversa, il metodo induttivo si mobilita partendo dal “particolare”, cioè da una premessa di valore singolare o comunque definito, non universale. Su un solo particolare o su una serie di esperienze particolari, si formula una ipotesi di interpretazione. E’, questa ipotesi, già la legge universale: ma come provarla vera? Occorre la “verifica”. L’ipotesi diventa certezza sperimentale-matematica, se si riesce ad impiantare un meccanismo che renda l’esperimento singolo di significato generale: hic Rhodus; hic salta. E’  qui che Galileo si dimostra un genio, mentre (ci si permetta un gioco quasi concettista) Bacone si rivela solo un ingegno.  Ancora nel “Dialogo sui massimi sistemi” Galileo si limita ad insistere su una serie di esperienze[50] per dimostrare l’eliocentrismo piuttosto che il geocentrismo.   Ora, invece, Galileo  lavora con la coscienza che bisogna uscire dalla pura sperimentalità particolare: va costruito un esperimento (una macchina) che funzioni soltanto se la legge universale, intuita in ipotesi, esiste e  lavora. E’ quello che  egli propone, ad esempio, a proposito della velocità della luce: è infinita o finita?  Egli  descrive, fin dalla “prima giornata” dei Discorsi, un esperimento risolutorio: “Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l’interposizione della mano... sì che quando l’uno vede il lume dell’altro, immediatamente scopra il suo... pongansi.... in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l’istessa esperienza (prima  eseguita nell’ambito  di una stanza),... quando ella (l’espansione della luce) ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia... la dimora dovrebbe essere assai osservabile”. L’esperimento verrà effettuato  dopo secoli, con una sorgente luminosa elettrica e con l’impiego di una serie di specchi che moltiplicassero il percorso della luce, senza bisogno di troppe distanze, confermando che la sua velocità non è infinita, è misurabile, è definibile.[51] Si può allora costruire un sillogismo “inventivo”: “Solo se la luce ha velocità infinita, la sua propagazione  è istantanea;  ma l’esperimento dimostra che la sua espansione avviene nel tempo; quindi la sua velocità non è infinita”. Esso  prova e misura una qualità della luce, una volta per tutte, stabilendo una legge scientifica  con valore illimitato nel tempo e nello spazio, cronologicamente e geograficamente universale. Con la introduzione dell’ipotesi (per Galileo, “assioma”) e dell’esperimento di laboratorio (“cimento”), la “sensata esperienza” diventa legittimo metodo di indagine della verità universale, ma proprio perchè si rende simile al “metodo deduttivo” che, rispetto all’induttivo non è metodo contrapposto, ma complementare.[52] Bacone non ha saputo  intuire lo snodo decisivo della prova o dimostrazione scientifica.

Più solitamente, il nostro “Accademico” (come lo chiama il Salviati, sottintendendo “dei Lincei”) dimostra la sua ipotesi generale con ragionamenti geometrici, cioè  formula teoremi (assiomi, ipotesi) che poi prova  riducendo a rapporti spaziali  anche le relazioni di tempo o di altra natura (resistenza, ecc.).[53] Benchè la più parte esiga una competenza matematica non comune, tuttavia alcuni di questi teoremi sono alla portata del comune lettore, come quelli alle pagine 188-194 dell’edizione Boringhieri, in cui si dimostrano tre teoremi. Ecco il primo: “Assumo che i gradi di velocità acquistati da un medesimo mobile su piani diversamente inclinati, siano eguali allorchè sono eguali le elevazioni di quei piani medesimi”.  (la “elevazione” è l’altezza, da cui prende inizio la caduta e che corrisponde al lato del triangolo rettangolo da cui partono i vari piani inclinati, la cui  linea obliqua costituisce l’ipotenusa del triangolo, completato dalla linea della superficie terrestre, ove finiscono). Segue il secondo: “Il tempo in cui uno spazio dato è percorso da un mobile con moto uniformemente accelerato a partire dalla quiete, è eguale al tempo in cui quel medesimo spazio sarebbe percorso dal medesimo mobile di moto equabile (uniforme), il cui grado di velocità sia sudduplo (la metà) del grado di velocità ultimo e massimo  (raggiunto dal mobile) nel precedente moto uniformemente accelerato”. Ed il terzo: “Se un mobile scende, a partire dalla quiete, con moto uniformemente accelerato, gli spazi percorsi da esso in tempi qualsiasi stanno tra di loro... come i quadrati dei tempi”. Le figure geometriche annesse alle spiegazioni di Salviati convincono anche i “non addetti ai lavori”...

 

            Per la storia socio-religiosa, Galileo assume particolar importanza sia per i suoi scritti illuminanti, sia per le penose vicende personali: è entrata in crisi la falsa credenza che la Bibbia fosse inerrabile anche in campo scientifico, oltre che religioso e morale.[54] Gli scritti più significativi sul suo pensiero in proposito sono alcune lettere: una a padre Benedetto Castelli (del 23 dicembre 1613), una alla granduchessa madre, Cristina di Lorena (1615) e due a monsignor Piero Dini (del 16 febbraio e del 23 marzo 1615). La ingiusta condanna inflittagli, poi, dal tribunale dell’Inquisizione (S. Uffizio) nel 1633, è risultato un errore così madornale che ha reso coscienti le autorità ecclesiastiche, i teologi ed i biblisti dei propri limiti e dei confini dei propri specifici  ambiti di competenza. Sebbene Urbano VIII non abbia firmato di persona il documento di condanna, sicchè esso resta un atto del tribunale inquisitoriale che non coinvolge il problema della infallibilità pontificia, tuttavia la persona del papa  fu di fatto così direttamente implicata nel processo, da  far entrare in crisi, presso molti intellettuali e cristiani  riflessivi, l’amore per la Chiesa e la fiducia nel suo magistero anche in campo etico-religioso, fino a far dimenticare che in fin dei conti la nuova dotrina era stata presentata al mondo proprio da un eccelesiastico, il canonico di Cracovia Niccolò Copernico. Si noti  ancora: la crisi di fede non si fece sentire subito (chè la scienza ufficiale era purtroppo non meglio illuminata degli uomini di Chiesa), ma nei secoli seguenti, man mano che il copernicanesimo  si rivelava vero.[55]

Se questi furono i torti –ben gravi- di quelli che giudicarono Galileo, specie nel vero processo del 1633, non si deve tacere, però, sul suo comportamento  impudente ed imprudente.  La impudenza sta anzitutto nella sua “irregolarità sessuale” che (senza contare le vicende minori) gli procurò, fuori del matrimonio, tre figli dalla veneziana Marina Andrea Gamba; e sta nell’altro gravissimo fatto che egli prese con sè a Firenze solo il figlio Vincenzo Andrea, mentre costrinse al convento le due ragazze. L’imprudenza si rivelò troppe volte: frutto, probabilmente, anche di un non felice temperamento ereditato dai genitori. Il padre, Vincenzo, musicista e musicologo era “arguto, ma sarcastico”; la madre era di “carattere aspro e litigioso”. Gliene venne con ogni probabilità quella “certa aggressività polemica, certa insofferenza che scatta in subitanee collere e si esprime con ingiurie e sferzanti irrisioni che, accrescendogli il numero dei nemici, saranno tra le cause delle sue sventure”. In buon napoletano si dice che era “troppo tuosto”: impulsivo, indiscreto, irrispettoso. Del comportamento a Roma nel 1616 dice Ferd. Flora: “accorse a Roma, dove tra i molti maneggi, le molte noie e le ansie, trovò anche modo di darsi al bel tempo, tanto da provocare le proteste dell’ambasciatore di Toscana che, costretto ad ospitarlo d’ordine del granduca, trovava  ch’egli  menava una  -pazza vita- e che la –spesa- era –grossa-; e la sua permanenza a Roma, fastidiosa e pericolosa: -egli ha un humore fisso di scapolare i frati, et combattere con chi non può se non perdere-; e prima o poi sarebbe cascato –in qualche stravagante precipizio-”.[56].

 Temperamento risentito, egli lasciò a desiderare  nel comportamento con più di più di un collega di valore: con Tycho Brahe (l’astronomo danese) e con p. Orazio Grassi, ebbe sulle comete discussioni che non gli fanno onore, perchè aveva ragioni da vendere nella metodologia delle ricerche anche in proposito, ma lavorava sul vuoto della esperienza in materia, non avendo potuto osservare le comete apparse nel 1618-9. Contro ogni “sensata esperienza” tentò di interpretare come fenomeni ottici sul tipo dell’arcobaleno, illusioni dovute a rifrazioni della luce, ma non astri veri e propri. Dice il Flora: “Dei due contendenti, di troppo impari valore, l’uno, il Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi) difende una ipotesi più vicina al vero; l’altro, Galileo (ne “Il Saggiatore”) suggerisce una ipotesi erronea e la sostiene con mente di scienziato che indaga dal vivo il gran libro della natura, per scoprirne le leggi...”. Anche non gli fa onore il suo rifiuto di accettare le conclusioni di Keplero sulla ellitticità (non circolarità) delle orbite degli astri. E, soprattutto, va ricordato che il “Dialogo dei massimi sistemi” non provava la tesi copernicana, ma solo la dimostrava non assurda e di pari razionalità che il sistema tolemaico. Egli, infatti, non vi cita   la scoperta delle fasi nel pianeta Venere (che, per affinità, poteva costuituire una gran prova in favore della rotazione anche della terra), ma tenta invece di dimostrare la sua tesi attraverso il fenomeno delle maree (che sarebbero dovute al ritardo della massa acquea nel seguire la velocità di rotazione, per la viscosità del liquido marino): che è una interpretazione rivelatasi falsa.[57] 

 E rimane un segno di  impulsività, di impazienza e di imprudenza l’aver voluto risolvere lui le difficoltà teologiche che nascevano dalle sue scoperte scientifiche. Non interferendo con il compito dei teologi, li avrebbe avuti esaminatori senz’altro più imparziali, più benevoli. Non canzonando col nome di “sempliciotto” il portavoce dei suoi oppositori, avrebbe avuto non ostile il pontefice (che –forse non del tutto a torto- vi si vide rispecchiato); rimanendo cautamente entro i confini delle sue competenze, della pura sperimentazione, avrebbe lasciato sulle spalle dei teologi il carico di risolversi i loro problemi, senza che lui ne venisse necessariamente coinvolto. In fin dei conti, Copernico aveva in circolazione tranquuilla il suo “De revolutionibus orbium coelestium libri sex” sin dal 1543...[58]

Non si vuole per nulla scaricare la responsabilità della ingiustizia  sostanziale operata  dal S. Uffizio, sulle ingiustizie marginali dello scienziato fiorentino. Pure vogliamo affermare che egli non seppe farsi perdonare la verità grandiosa e rivoluzionaria che portava al mondo.

Ma che, per soprammercato, egli fosse condannato nel 1633 anche su questioni filosofiche (cioè scientifiche) dal tribunale della Inquisizione, fu davvero troppo: non solo i teologi si mostrarono meno lincei di lui in materia di fede (“in che senso la Bibbia è inerrabile?”), ma si arrogarono anche il diritto di entrare a giudicare in campo non di loro competenza, definendo l’eliocentrismo e la mobilità della terra come “assurde e false in filosofia”. Papa Giovanni Paolo II, chiedendo perdono al mondo durante l’anno santo del Duemila, per gli errori dei figli della Chiesa lungo i secoli, aveva certamente in memoria anche questo.

 

            Come letterato, Galileo merita un posto non eccezionale, ma neppure poi tanto piccolo, nella nostra storia letteraria “per le lettere polemiche e per quelle tristi o deluse in cui si riflette il tormento del suo spirito combattuto fra la devozione alla verità e la devozione alla autorità ecclesiastica; per le sicure e potenti canzonature degli avversari, ragionanti al buio delle loro astrattezze; per certe pagine scandite e sottolineate, che sono una dichiarazione di battaglia a visiera alzata; per quelle in cui si palesa chiaramente la concezione severa e aristocratica che egli ha della scienza; per quelle in cui il suo culto per la verità e la sua meraviglia inesauribile dinanzi alle forme innumerevoli e mutevoli della realtà si manifestano con la commozione del poeta che contempla l’opera di una mente sovrana”[59]

Lo scritto migliore, letterariamente, è quello scientificamente meno valido, cioè “Il Saggiatore”: è infatti l’opera più battagliera,umorale, sarcastica.

 Le tonalità liriche. Da questo scritto e dai restanti passi cui rimanderemo, si rileva che egli  ha una emotività  complessivamente non contemplativa, ma drammatica. Il tono lirico a lui più connaturato è quello del tormento (se triste), della aggressione ironica (se allietato dal sorriso): non gli si può riconoscere nessuna espressione di rilievo nel registro della pace, della quiete interiore, così come non gli è congeniale la pura solennità epica, esultante. Anche la pagina famosa de “Il Saggiatore”, in cui un uomo curioso ed ingenuo   scopre quanto siano varie le sorgenti dell’armonia musicale (canto degli uccelli, suono dello zufolo, sfregamento delle corde del violino, strofinamento dell’orlo di un bicchiere...), presenta un modesto tono idillico all’inizio: ben presto la coscienza dei limiti dello scibile umano, della pochezza dell’umana capacità a conoscere inducono in lui l’atteggiamento solito dell’inquietudine curiosa, della passione indagatrice (si vedano i brani che iniziano: “Parmi d’aver per lunga esperienza osservato”; e “Nacque già in un luogo assai solitario...”). [60]

Sempre nel “Saggiatore” è notevole la polemica della Introduzione (“Io non ho mai potuto intendere”); quella del brano in cui lamenta la rarità dei veri pensatori, mentre “infinita è la turba degli sciocchi” (n. 9); e quella delle pagine in cui difende (garbatamente, invero) la propria parte nella invenzione del cannocchiale (n. 13).

Nel Dialogo dei massimi sistemi, artisticamente notevoli sono le battute alla fine della prima giornata, in cui si dichiara che la conoscenbza scientifica eguaglia, qualitativamente, la conoscenza divina; il brano (nel corpo, invece, della stessa prima giornata) che inizia “Io non posso senza grande ammirazione” e che propone la grandezza e nobiltà della terra, nel suo mutare e rinascere in vite nuove, al punto che non è impensabile esista negli astri celesti lo stesso dinamismo che loda Dio nella sua varietà di esistenze, senza dover ricorrere ad immaginare un modo di essere immutabile ed incorruttibile (la materia spirituale!).

La polemica volge all’ironia ed alla satira in altre pagine non meno drammatiche che comiche: nel Saggiatore, al n. 7, ad esempio, dove canzona le immagini barocche di padre Grassi per descrivere le comete (“anzi con gran gusto si son letti i natali, la cuna, le abitazioni, i funerali della cometa...”).  Così, la demolizione del principio di autorità, all’inizio della seconda giornata (contro l’Ipse dixit) è un attacco alla cocciutaggine stordita degli aristotelici che, durante una lezione di anatomia in cui si dimostra all’evidenza che i nervi hanno origine e fine nel cervello, non nel cuore, escono nella battuta: “Voi mi avete fatto vedere questa cosa talmente aperta e sensata che, quando il testo di Aristotele non fusse in contrario, che apertamente dice i nervi nascere dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera” (inizio della seconda giornata). [61]

Al dramma forte si ritorna nella polemica antiperipatetica conservataci in “Frammenti e lettere”ed editi a cura di Giovanni Gentile (Livorno 1925).[62]

Altre pagine sono interessanti, ma con un miscuglio di tonalità non facilmente precisabili: si legga (nella seconda giornata) il passo che principia “La disposizione non è nuova”; e (nella terza giornata del  Dialogo)  quello che inizia “Vorrei, signor Simplicio”; o (nel Saggiatore), il brano sul libro della natura “scritto in lingua matematica”.[63]

Triste, ma non elegiacamente, bensì nel senso drammatico della fierezza e del tormento, è la lettera ad Elia Diodati del 1638, cioè di due mesi dopo la cecità.

 Polemicamente grandiosa è la dichiarazione a visiera alzata: “Galileo, essendo usato a studiare sul libro della natura, dove le cose sono scritte in un modo solo, non saprebbe disputar problema alcuno –ad utramque partem- (cioè sostenendo due soluzioni opposte per un unico problema) nè sostener conclusione non creduta e non conosciuta prima per vera” (Frammenti e lettere, Ricciardina, p. 8).

               Diamo ora uno sguardo complessivo alle dimensioni artistiche del Dialogo sopra idue  massimi sistemi del mondo. Crediamo di dover premettere che il libro non è un capolavoro di poesia, ma un’opera di divulgazione scientifica, ove la preoccupazione dimostrativa e raziocinante prevale sulla partecipazione emozionale. Subito, però, va aggiunto che, come in Platone, vi sono margini artistici, in cui appunto la partecipazione emotiva fa capolino o si impone. In terzo luogo, già la caratterizzazione dei tre partecipanti al dialogo è degna di nota e di stupore: le parole, il modo di sistemarle in ragionamento, i gesti che si intravedono al di là della loquela, tutto è così peculiare a ciascuno e coerente in tutto il libro, che sembra di assistere davvero al dialogo intenso ed animato delle tre giornate. Simplicio è candido fino alla ingenuità, è mite fino alla apatia, è semplice sino alla sciocchezza: prevenuto, succube dell’autorità, incapace di un pensiero proprio: memoria formidabile, mente chiara perchè non complicata, retorica nella espressione, ridicola nei giudizi. E’ un eunuco! Salviati è l’opposto: teso, impaziente, nervoso,  anche polemico; sa essere anche un po’ disordinato, talora, ma è sempre geniale. Sembra che abbia fretta nel parlare, tanto che può persino (ma raramente, veh!) risultare meno evidente, proteso come è alla conclusione, intuìta, intravista come evidente quando ancora non è del tutto dimostrata. Per questo giunge talvolta a sopprimere qualche passaggio dimostrativo che, esposto con pacatezza, riuscirebbe forse più convincente, ma certo meno vivace e brillante. Personalissimo, devoto soltanto alla verità (in particolare,contro ogni autorità), impersona certo lo stesso Galileo: non superbo, ma intemperante, fiero e cosciente di sè. Sagredo, se non risulta sul piano logico il mediatore, convinto anche lui non meno di Salviati della verità del copernicanesimo, mediatore risulta, però, a livello psicologico e (nella sua modestia) anche nella dimensione emotiva: bonario, arguto, benevolo nella stessa ironia, è la persona distesa, calma, riposata e...talora sorniona.

            E se dessimo uno sguardo anche allo stile dell’opera? Diremo che la lingua del Dialogo non è molto musicale: è sobria, non riducibile a versi, precisa e chiara nella capacità di trasmettere un pensiero non facile, diciamo pure complicato. E’ un fiorentino moderno, quasi sempre esatto anche per noi distanti lettori. Pure, cercando le farfalle sotto l’arco di Tito, possiamo permetterci di essere pignoli. Si incontrano talora consonanti semplici, là dove si aspetterebbe una doppia (Academico| mecaniche|camina) o viceversa (proccuriamo), specie per le “z” (“mezo” per mezzo; “orizontalmente”, ma “costruzzione|proiezzione|imperfezzione”). Si trovano forme disusate (“arà”, per avrà; “doviamo|ponghiamo|riduchiamo”) o preziose: “elleno”; “se gli” anzichè “gli si”. La seconda persona plurale di un verbo, identica alla singolare (“voi avevi detto”); o forme decisamente errate di verbi usatissimi e, forse perciò, suscettibili di varie formulazioni fra i vari strati o quartieri di Firenze “venghiamo| vadìa”.


[1] Imitatore della “Tancia” del Buonarroti fu Giovannandrea Moniglia (Firenze, 1624-1700), professore di medicina a Pisa e membro della Crusca, scrittore di parecchi libretti per  melodrammi, ma più interessante per la commedia Il podestà di Colognole, che fu messa in musica  per la inaugurazione del teatro degli “Immobili”  (via della Pergola) in Firenze nel 1657. Il solito matrimonio contestato da pregiudizi e povertà (Leandro, povero del contado, riesce a sposare Isabella, figlia del cittadino fiorentino Anselmo Giannuzzi, podestà di Colognole). Chi risolve la intricata diatriba è l’astuto Bruscolo, servo di Leandro. Trama scontata, ma svolgimento chiaro, ordinato (mente  toscana) ed espressione fiorita (ingegnosità, se non proprio genialità, fiorentina). E’ vero che è utile quella specie di vocabolarietto che “dichiara” proverbi e vocaboli del contado, ma l’impronta di classica stesura e la scioltezza di lingua e la sorpresa delle trovate e lo splendore delle battute sono il segno che il barocco a Firenze non è potuto entrare, grazie alla  genialità i  della “razza” etrusca. Altri suoi lavori drammatici: Pazzo per forza| Serva nobile| La vedova| Tacere e amare| Il conte di Cubio.Fu avversario tenace all’accettazione di Benedetto Menzini come professore di eleoquenza a Pisa. Ne riparleremo.

[2] Di autori meno interessanti che han scritto anche drammi pastorali, abbiamo parlato o parleremo in quelle sezioni della poesia non barocca del secolo, in cui gli autori si sono meglio distinti. Si veda in Garzantiana, pp. 467-8, un elenco di scrittori e di opere ( Prospero Bonarelli, fratello di Guidubaldo, scrisse Fidalma; Lo Stigliani, Polifemo; Scipione d’Errico, Deidamia| Endimione| Arianna; Fr. Fulvio Frugoni, L’innocenza riconosciuta; il Chiabrera, Meganira|e Gelopea.

Del pesarese Guidubaldo Bonarelli (1563-1608), scrive lo Jannaco: “precocissimo negli studi, ebbe vita assai turbinosa e contrastata di cortigiano con scarsa fortuna” (Vallardiana, p. 300).

 

[3] Ippolito Aurispa: è da lui che D’Annunzio (sempre al corrente delle rarità un po’ strane della storia letteraria, italiana e no) ha preso i nomi per Giorgio Aurispa ed Ippolita Sanzio, i due protagonisti del suo romanzo  “Amore e morte”?

[4] Claudio Varese, nella Garzantiana, cita anche Il pastor regio di Benedetto Ferrari Della Torbia come “confuso libretto di strane, inverosimili metamorfosi” (p. 476).

[5] La questione del primato ci sembra da risolvere a favore di Alessandro Tassoni, perchè La secchia rapita circolava già da vari anni quando l’autore si decise a stamparla nel 1622, cioè solo quattro anni dopo Lo scherno degli dei di Francesco Bracciolini. Senza dire della differenza qualitativa fra le due opere. Il Bracciolini scrisse anche un poema, la Elezione di Urbano VIII, al cui centro pose la contesa fra senso e ragione, innovando così rispetto alla mitologia, alla storia, alla leggenda cavalleresca od altra fantasia: siamo quasi alla allegoria continuata in un poema, da avvicinarsi ai morality plays della letteratura inglese nel Millequattrocento. Altri poemi epici scrisse, di cui terminò la Bulgheria convertita (1637) mentre lasciò incompleto La Roccella espugnata (1630).

 

 

[6] Meno  sensato ci sembra invece Jannaco, quando risponde al quesito “quale fosse... l’esito, nel mondo letterario aristocratico e borghese, di quegli innumeri conclamati programma di “riforma dei costumi” e di rafforzamento della ortodossia religiosa che formano l’assunto convenzionale ed esterno di quasi tutti gli epigoni del Tasso...” con queste note pessimistiche: “Se dovessimo guardare solo ai fragorosi prodotti della letteratura epica diremmo che gli avanzamenti del cristianesimo romano non toccano l’intimità delle coscienze...”. Poco “sensato” ci pare anzitutto un esame dei risultati della “riforma tridentina” limitato alla produzione epica dei poemi: perchè tale limite? In secondo luogo, visto che di geni come Torquato Tasso non ne sono più sorti, pare evidente (biologicamente, vorremmo dire) che neppure ci si può aspettare, da gente mediocre, grandi  esperienze di vita  e geniali espressioni di arte per quei valori spirituali supremi ed ardui,  che sono quelli religiosi e morali. D’altronde se si paragonano i frutti della letteratura postridentina con quella del Rinascimento, si devono fare i conti con le intuizioni maligne ma ben precise di Federico Nietzsche: “I tedeschi hanno privato l’Europa dell’ultima grande messe culturale, che avrebbe potutto avere il Rinascimento. Mi vedo innanzi la possibilità di un incanto del tutto ultraterreno, di un fascino lucente; mi pare che essa risplenda in ogni spasimo di raffinata bellezza, che in essa vi sia in azione un’arte così divina che si ricerca invano nei millenni per una seconda volta: Cesare Borgia papa. Mi si comprende? Orbene, ciò sarebbe stato una vittoria che io oggi unicamente desidero: con ciò il cristianesimo era distrutto. Che succede? Un monaco tedesco, Lutero, va a Roma. Questo monaco, pervaso da tutti gli istinti vendicativi di un sacerdote naufrago, a Roma si ribellò contro la Rinascenza. Invece di comprendere con profondissima gratitudine il grandioso che era avvenuto, il superamento del cristianesimo nella sua sede, il suo odio seppe trarre da questo dramma soltanto il suo nutrimento. Il tipo religioso pensa solo a sè. Lutero s’accorge della rovina del papato, mentre il contrario era evidente: l’antico scandalo, il peccato originale, il cristianesimo non sedeva più sulla sedia papale! ma bensì la vita! anzi il trionfo della vita! anzi la grande affermazione di ogni cosa alta e bella e rischiosa! E Lutero ristabilì ancora la Chiesa: l’attaccò. La Rinascenza divenuta un fatto senza senso, grande cosa vana! Ah! questi tedeschi, quanto ci sono già costati” (L’Anticristo: citato da Konrad Algermissen, La Chiesa e le chiese, Brescia, Morcelliana, 1943-4, pp.586-7).

[7] Naturalmente, se Tassoni si fosse conosciuto in tempo o fosse stato educato a riconoscersi e controllarsi, avrebbe evitato lo sbandamento morale in gioventù e, in genere, i più gravi errori della sua vita (la instabilità sistematica, ad esempio): ma si tratta di correzioni a livello “morale”, cioè operate in nome di precisi  scelte imposte da una coscienza esigente anche di fronte al problema di seguire o meno le proprie doti-difetti ereditati con i cromosomi. E, di solito, si tratta di precetti morali (od anche di scelte più alte) di carattere negativo: non si tratta cioè di scelte fra il bene ed il meglio, ma fra il bene ed il male: a questo livello vale la libertà interiore dell’uomo e la sua responsabilità morale. Ma quando si tratta di “sistematiche scelte del meglio” in un campo ove la natura non ci ha dotati, è inutile pretendere che un cieco disegni o che un sordomuto dalla nascita canti o scriva musica : sarebbe un voler “drizzar le gambe ai cani o slongar le corna ai tori” .  Era inutile pretendere dal Tassoni un’opera epica valida, specie se prolungata, visto che la sua intelligenza non era all’altezza di dominare la pendolarità fra gli estremi  momenti di violenza polemica e di volgarità ridanciana: gli mancava  una potenza intellettuale paragonabile alla forza della sfera emotiva, il che lo rendeva superficiale, mancante di un’idealità organizzatrice delle sue convinzioni ed operazioni e lo lasciava schiavo  di  affetti meschini, come il risentimento personale o la canzonatura plebea.  Esiti migliori (ma sul piano strettamente morale, non artistico) avrebbe ottenuto sottomettendosi ad un consiglire-guida prudente, forte ed amico: ma un nervoso è il meno   predisposto a scoprirne uno e ad essergli ligio.

[8] Naturalmente, non si tratta di invenzione assoluta: senza avere la coscienza di trattare un atteggiamento raro e non facile nel campo della espressione lirica, tuttavia dal Satyricon di Petronio arbitro a Francesco Rabelais, che tra il 1534 ed il 1552 pubblicò i suoi  quattro libri su Gargantua e Pantagruel, precursori ve n’erano stati, seppure in prosa.

[9] Le ottave del secondo canto che descrivono farsescamente il “Concilio degli dei” ci sembrano a ragione citate come uno dei brani più riusciti (a livello di “eroicomico o farsa”) del poema: la minor stima di A. Momigliano e di C. Jannaco  (o. c., pp.425 e 432) credo dipendano da una reazione alla eccessiva  attenzione dei critici che lo riportano puntualmente nelle antologie scolastiche. La verità ci sembra stia nel mezzo: il “Concilio” è davvero fra le cose migliori non di tutto il poema (assieme alle ottave di Scarpinello su Endimione e la Luna, nel c. VII; e la sfida di Melindo nel c. IX), ma in sede specifica di tonalità farsesca od eroicomica. Che poi neppure tutti i versi dell’episodio soddisfino o che certe grossolanità disturbino, ciò è cosa comune a quasi tutto il poema ed in particolare a tutti gli episodi di eoricomicità. La Secchia rapita non è poesia assoluta o suprema, ma media o mediocre: il Concilio è più in su come poesia, ma non va al di là di un “discreto” stentato, un valore imperfetto superato però solo dai due grandi brani segnalati or ora (oppure da singole strofe o battute isolate, cioè da momenti occasionali).

[10] Riportiamo le due strofe di II, 16-17: le riportiamo, perchè si costati che le “intenzioni” del poeta, sottintese, rimaste inespresse, non interessano la realtà della poesia: difatti qui, la intenzione era quella di canzonare Grevalcore, in quanto  la sua posizione geografica era il contrario dell’amenità e della fertilità, che egli finge di attribuirle, trattandosi di luoghi pantanosi in cui cantavano le rane (pesci canori, sirene dei fossi). La realtà lirica delle due strofe rimane però idillica, non avendo il Tassoni saputo dare uno “spin” caricaturale sufficiente.

[11] Perinto, bolognese, ucciderà la coppia Jeconìa ed Ernesto ( imitata su Eurialo e Niso, dell’Eneide), soldati modenesi che combattono sotto la guida di Enzo, figlio di Federico II e  re di Sardegna e, alla Fossalta, fatto prigioniero dai Bolognesi.

[12] “Nel complesso”:  in alcune delle Rime, il Tassoni si  è concesso alla moda,  in qualche sonetto come quello intitolato La bella mendicatrice (Garzantiana, cit., p. 726); ma nel poema, egli usa il concettismo per canzonatura, come si può vedere anche nella pur bella strofa I, 6, riportata più sotto. In essa, le due metafore  barocche sono più “argute” che concettiste (“Dal celeste Montòn giù il sole uscito”| “parean stellati i campi e il ciel fiorito”) e la stessa arguzia viene assorbita dal prevalente contesto idillico.

[13] In questo il “nobile” Tassoni non si accorge della incoerenza: lui che rimpiange il mondo feudale dell’ideale ordine e serietà, si abbassa alle espressioni più popolane e volgari? Si veda, nelle Rime, Le bellezze di Valladolid (Garzantiana, cit., p. 726).

[14] La satira è diffusa, come  ci si accorge dai non pochi poeti, nel secolo. Questo mi sembra segno di due fenomeni già ripetuti ma da sottolinearsi ancora. Da una parte la corruzione diveniva più clamorosa, perchè denaro e lusso si diffondevano (basti pensare alle corse dei carri signorili per le strade, che il Parini bollerà con più felice ironia, ma che già Jacopo Soldani  canzona; od al trionfo delle cantanti, che attirano folle in ogni città: cfr. Lodovico Adimari, messo in nota fra i minori). E’ nota la sentenza popolare: “il danaro è come le brache degli uomini: servono a nasconderne le vergogne”. E questo è contro il vulgato giudizio della povertà nel Milleseicento italiano: se si vuole, il progresso tecnico suppliva al mancato progresso economico, causa la guerra dei Trenta anni e la peste del 1629-30. La seconda cosa che rivela il genere satirico è la ripresa della coscienza morale: che anche il non raccomandabile Salvator Rosa recriminasse contro i vizi del secolo è una prova eloquente che l’atmosfera complessiva era in favore della moralità e contro la corruzione. Segno evidente che la Riforma cattolica aveva inciso ed incideva, pur con limiti inevitabili (che erano eventualmente accresciuti dalla nuova cultura francese; ed erano ciò contro cui i “satirici” inveivano). Questo doppio senso rivela anche la produzione anticlericale, frequente (per la quale vedi C. Jannaco, o. c. p. 413): da una parte una Chiesa sempre con rughe e macchie, non all’altezza della santità esigita dal Vangelo; ma, dall’altra, il senso di scandalo che denunciava la relativa rarità dei casi e la perdurante coscienza delle forti richieste del Tridentino: ciò che non avveniva nei secoli rinascimentali.

[15] Gaio Lucilio (Suessa Aurunca, 148 ca-102 ca a.C.), fu l’iniziatore del genere satirico in quanto ne fissò per il mondo latino il verso esametro, ma soprattutto in quanto ne fece passare il contenuto, dal più vario (“satura lanx” era il piatto saturo, pieno di ogni cibaria od argomento) a quello unico della critica sferzante. Dei 30 libri di satire, non ci rimangono  neanche 1300 versi, ma questi sono sufficienti a dimostrare la forza  morale con cui  fustiga la società del suo tempo (tanto che Orazio lo definrà acre e Giovenale lo rappresenterà con la spada brandita contro i vizi della città).        

[16]  Da B. Croce, Storia dell’età barocca, cit. p. 424, riportiamo il sonetto che probabilmente  è stato presente sia a Giacomo Zanella  (Temporale estivo) che ad Alessandro Manzoni (P.S., c.35: i prodromi della pioggia liberatrice dalla peste): “Sento in quel fondo gracidar la rana,| indizio certo di futura piova;|canta il corvo importuno, e si riprova| la foliga a tuffarsi alla fontana.||La vaccherella in quella falda piana| gode di respirar de l’aria nuova;| le nari allarga in alto e sì le giova| aspettar l’acqua che non par lontana.|| Veggio le lievi paglie andar volando| e veggio come obliquo il turbo spira| e va la polve, quale paléo, rotando.|| Leva le reti, o Rastagnon; ritira| il gregge agli stallaggi: or sai che quando| manda i suoi segni il ciel, vicina è l’ira!”.

[17] Seguiamo sia C.Varese, nelle pagine ultime del volume sul Seicento della garzantiana; sia C. Jannaco, nel c. IV (S. Rosa e la satira: soprattutto per il Soldani).  Il Varese fa notare anzitutto come  il centro della satira sia Firenze e la Toscana, così come per il poema eroicomico in genere. M. Buonarroti il giovane scrisse Satire, cicalate poco vigorose, invero: edite solo nel 1845, contengono anche l’espressione del dispiacere per l’invasione d’Italia da parte di stranieri e il rincrescimento per la propria vita morale, con un proposito di conversione. Jacopo Soldani (1579-1641), il migliore forse dopo il Rosa, oltre a scagliarsi contro i vizi del mondo, difende Galileo e combatte i “peripatetici”, seguaci di Aristotele e contrari al copernicanesimo (nella quarta delle sue otto satire, edite postume, 1751). Pure egli non combatte nè la filosofia in sè nè il pensiero tutto di Aristotele: solo vuole distinti i campi di scienza, filosofia, teologia. Ammiratore ed imitatore di Ariosto e di Dante, egli, che è un buon cristiano, prende di mira soprattutto l’ipocrisia religiosa, lo sfrenato lusso dei nobili (ecco i cocchi, cui si accennava sopra), l’avidità di danaro, la sensualità e l’ambizione che la sostituisce in età avanzata. Ludovico Adimari (di famiglia fiorentina e vissuto a Firenze, anche se nato a Napoli:1644-1708): oltre alle Poesie e Prose sacre, scrisse cinque satire, che mancano però di unità e di forza (edite postume, con la falsa indicazione di Amsterdam,  nel 1716). Gabriello Chiabrera, troppo più noto come lirico, concluse la sua attività di scrittore con i trenta Sermoni. L’ispirazione non è giovenalesca o lucianea, cioè violenta e sarcastica, ma oraziana: egli riesce molto più convincente quando esprime l’ideale pacifico e rasserenante dei panorami e della quiete nel ritiro della gente semplice, che non quando condanna avvocati e tribunali o critica gli italiani come troppo leziosi per riuscire buoni soldati. Antonio Abati (Gubbio, inizio del Milleseicento- 1667): ebbe vita movimentata fra l’Italia e l’Austria, finendo governatore in città degli stati pontifici. Scrisse drammi, canzonette, oratori per musica. Ma le cose più valide restano Il ragguaglio di Parnaso contra i poetastri, e partegiani delle nationi (1636) e Le frascherie (1651). Forse a lui, suo amico, si ispirò il Rosa, che dovette tener presenti anche  Cesare Orsini (un folenghiano che scrisse i Capricia macaronica, fra cui vi è la Macaronea de laudibus ignorantiae), il Basile delle egloghe napoletane, contenute nel Cunto; e soprattutto G. B. Ricciardi, di cui diremo sotto.  Pier Salvetti, fiorentino (1609-1652), sacerdote, autore dell’Amante di bella donna bacchettona, del Soldato poltrone e de Il grillo. In quest’ultimo si immagina un rapimento in sogno da parte di un grillo, che lo porta a visitare il gran teatro del mondo, ove i regni vanno e vengono, vincono e sono sconfitti e dove la giustizia è così lontana, che vien la tentazione di invocare i Turchi a spazzare l’Europa cristiana dalle  tirannie imperversanti. Giovanni Battista Ricciardi,  tra le Rime burlesche (imitate sul Berni) ne ha una contro  Il bacchettone, che ebbe successo ai suoi tempi. Era pisano (1623-1686). Nicola Villani, scrive tre capitoli  che valgono per la serenità delle descrizioni paesaggistiche di un piccolo mondo pastorale, situato tra i monti, da dove gli pare che il grande mondo sia pronto per il fuoco e la distruzione. In altri cinque, invece, egli si fa critico della poesia contemporanea e, in varie lingue, combatte la fretta, la faciloneria dei compositori (Marino compreso) che non sanno elaborare, pazientare, maturare col tempo. Si aggiungano infine Federico Nomi, che scrisse in latino il  Liber satyrarum sedecim (1703), imitando più l’acre  Giovenale che Orazio gentile; Lodovico Sergardi (1660-1726) che pure scrisse  satire latine contro Vincenzo Gravina; Bartolomeo Dotti (Val Camonica, 1649-1713) che  compose Rime non spregevoli, ma soprattutto frottole popolaresche e pungenti,  finendo dapprima in prigione perchè, come confessa, “La mia musa non camina| dove lodo e dove adulo,| ma s’inalbera e s’ostina| più d’un asino e d’un mulo”; evaso e datosi alla vita militare, alla fine si attirò le pugnalate  di sicari, che lo uccisero a Venezia.

[18] Delle altre  opere, ricordiamo: Discorsi ai prìncipi d’Italia (1593 ca: è l’invito ad accettare la monarchia spagnola, per realizzare una federazione di stati europei con a capo il papa, pensiero esposto in due opere perdute: Monarchia christianorum e De regimine Ecclesiae); Epilogo magno (1597 ca: breve trattato filosofico sulla natura e sulla morale); Monarchia di Spagna (ca. 1599); Aforismi politici (1602); La citta del sole (1602); De sensu rerum et magia (1603-4: Il senso delle cose e la magia: teorie pansensistiche);  Monarchia Messiae (1605); Antiveneti (1606); Atheismus triumphatus (Trionfo sull’ateismo: 1607: contro averroismo e machiavellismo); Philosophia rationalis (1613: grammatica, dialettica, retorica, poetica, storiografia); Realis philosophia epilogistica (traduzione in latino e completamento dell’Epilogo magno: vi sono anche nozioni di antropologia);  Metaphysicarum rerum iuxta propria dogmata partes tres (iniziato in gioventù, terminato nel 1614, è un ponderoso e farraginoso trattato di metafisica e gnoseologia);  Apologia pro Galilaeo (1615: senza accettarne l’ipotesi copernicana!); Theologicorum libri XXX (un trattato completo di teologia, ultimato nel 1624, elaborato colla sola memoria, non potendo egli consultare libri in prigione: è stata edita criticamente e tradotta a cura di Romano Amerio, per l’Istituto internazionale di Studi Umanistici); Quod reminiscentur (“lo ricorderanno”: raccolta di messaggi a tutto il mondo per affrettarne la conversione al cattolicesimo e la realizzazione dell’unico ovile di Cristo): Ecloga (per la nascita del delfino, cioè del primogenito del re di Francia, nel 1638: sarà Luigi XIV).

 

 

 

[19] Che Lutero fosse un temperamento collerico, lo rivela il realistico ritratto di Lucas Cranach e il difetto o limite dei suoi versi tedeschi, che appunto scadono dopo l’impeto iniziale.  Anche Ernst Kretschmer (Geniale Menschen, Berlin, Springer-Verlag, 1958, p. 199), ammettendo in lui crisi di depressione, implicitamente lo include nella classe dei collerici, che ne sono i più soggetti. Per accorgersi della felicità negli inizi e del grigiore nel seguito dei suoi “salmi”,  si legga anche solo il più famoso: “Eine feste Burg ist unser Gott”.

[20] Mettiamo qui quei pochi poeti dialettali che hanno una qualsiasi  significanza culturale o qualità estetica. Felippo Sgruttendio de Scafato (pseudonimo per Francesco Balzano?) scrisse De la tiorba a taccone (strumento musicale a plettro): l’opera fu edita nel 1646 e risulta, con le sue “dieci corde” una satira-caricatura (in dialetto napoletano) dei canzonieri  del Marino e del  Petrarca : difatti, canta in versi donne brutte e sguaiate. Ignota la data di nascita e di morte! Alcuni vorrebbero che  La tiorba fosse opera di Giulio Cesare Cortese (Napoli 1575 ca – 1625 ca: visse qualche anno a Firenze, presso il granduca). Certamente sue sono La Vaiasseide (1615: il poema delle serve), che canta l’amore contrastato di tre serve (vajasse), che finiscono per sposarsi;  il poema (scoperto dal B. Croce) “Micco Passaro ’nnammurato”, che narra le imprese del protagonista e del suo gruppo di “guappi” in una guerra contro i briganti. Il Viaggio in Parnaso (1621) è un poema in ottave di carattere autobiografico, fantasticamente variato, con intenti critico-letterari. Si è già parlato di Gianfrancesco Busenello (1598-1659), poeta dialettale veneziano, per il suo melodramma L’incoronazione di Poppea, musicato da C. Monteverdi per la inaugurazione del teatro della Pergola a Firenze (1657) ed altri quattro libretti, musicati da P.Fr. Cavalli. Ebbene egli fu autore anche di versi (ancora indediti) tra satira e umorismo,in cui appaiono costume e malcostume dei compatrioti pettegoli e libertini;  il mondo sembra una  babilonia, mentre la vita gli appare breve ed insensata. Di Carlo Maria Maggi (1630-1699), poeta milanese e inventore della maschera di “Meneghino” (Domenichino) si è già detto: le sue commedie (Il falso filosofo| Il barone di Birbanza| I consigli di Meneghino) sono parte in lingua e parte in dialetto.

[21] Il verso manca degli accenti ritmici regolari. E’ un endecasillabo stonato.

[22]   Leggendo Canzoni, canzonette, sonetti ecc. del Chiabrera, ci siamo accorti che lo spoglio fatto nel “Seicento” dello Jannaco è  molto significativo, per cui ricitiamo passi già segnalati   dalla sua opera. (o. c. pp. 244-70). Ricordiamo però che il capitolo II (La lirica) è stato  steso da Martino Capucci.

[23] Ad Anacreonte risale solo il verso (era in origine un dimetro giambico catalettico?) in cui furono scritte, dopo di lui, le moltissime “anacreontee od anacreontiche”.

[24] Citeremo dalla edizione di Le Monnier (Firenze), 1941, a cura di Goffredo Bellonci. La parte politica è a pp. 111-113. I numeri tra parentesi delle prossime citazioni si riferiscono a tale edizione. Ricordiamo  che è stato B.Croce a riportare in onore nel nostro secolo questo scrittore, prima trascurato del tutto.

[25] Come è tipico, poi, dei temperamenti “sentimentali” (e “nervosi”)  egli rivela anche doti non comuni di penetrazione psicologica che, con il soccorso che gli viene dalla fede, lo avvicinano alla sapienza manzoniana (si rilegga, nel c. XVI, il pensiero che inizia: “Chi ha soverchio concetto di se stesso, ha gran difficultà di dissimulare”); e, a p. 65, questo tentativo di fare della teoria dei temperamenti allora conosciuta, la base per una previsione di maggior o minor disponibilità alla prudenza della dissimulazione:Quelli in cui prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l’umor collerico è molto indisposto a dissimulare. Dove abbonda il sangue è comune l’allegrezza, la qual non si cela facilmente...L’umor malinconico...si fa tante impressioni che difficilmente le nasconde. Il soverchio flemmatico, perchè non fa gran conto di dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleranza; e la collera che è fuor di misura, è troppo chiara fiamma da dimostrare i propri sensi. Il temperato, dunque, è molto abile a questo effetto di prudenza...” .

[26] Importano le copie, triplette, quartetti... di versi identici consecutivi: i versi isolati non.... fanno verso (cioè non sono percepiti come tali) nello scanning del nostro orecchio-fantasia-intelligenza.

[27] L’edizione in unico volume del 1678 contiene due parti, intitolate “Osservazioni politiche sopra i sei libri degli “Annali” di Cornelio Tacito” e “Osservazioni e considerazioni politiche sopra il primo libro delle “Storie” e la “Vita di Agricola”.

[28] Dai manoscritti, Luigi Firpo  (che ha curato l’edizione dei Ragguagli per la collana degli Scrittori d’Italia: Bari, Laterza, 1948), ha estratto altri  67 ragguagli che, uniti ai 31 già editi, completano o quasi la terza centuria.

[29] Si è già detto che è difficile se non impossibile dare al “tacitismo” politico  al tempo della riforma cattolica un volto chiaro: in molti l’equivoco (disapprovazione generale e sequela in qualche particolare) nasceva non tanto da malizia ed ipocrisia (per cui il “tacitismo” sarebbe stato un machiavellismo mascherato per gettar polvere negli occhi della censura inquisitoriale) ma dalla incapacità a dominare il formidabile binomio  di scienza morale ed operazione politica, dalla inabilità intellettuale a  conciliare il bene e l’utile. Crediamo che il caso più clamoroso di tale fraintendimento rimangano gli studi di quel grande cristiano che fu Ludovico Settàla, tutt’altro che soddisfacente nelll sue conclusioni.

[30] L’ambiguità complessiva del Boccalini è stata riconosciuta da tutti i critici, ormai: lontani sono i tempi del Risorgimento italiano, in cui il suo atteggiamento  negativo nei confronti della Spagna era interpretato positivamente come  precorrimento delle aspirazioni di libertà ed indipendenza, in senso patriottico-nazionalistico.  

[31] Sul piano tecnico, il Boccalini non fu l’inventore del “genere letterario” giornnalistico, ma ne fu il trasformatore e divulgatiore più efficace, per la carica artistica che rese popolare fra i dotti la sua opera. Il primo a immaginare un “Viaggio in Parnaso  e degli “Avvisi di Parnaso” fu Cesare Caporali, di Perugia (1531-1601). Ma si trattava di  poemetti    giocosi (comprendevano anche le Esequie di Mecenate)  in cui la vena satirica si esercitava solo sul mondo letterario. Egli meriterebbe la palma anche per il primo poema eroicomico: Vita di Mecenate. Le sue opere  comprendevano anche capitoli berneschi e satire (La Corte| Il Pedante), che son forse le sue cose migliori.

[32] Come annotano qua e là i due curatori dell’edizione Ricciardi dei “Pensieri” del Sarpi (Luisa  Cozzi e Libero Sosio), molto probabilmente alcune particolarità del testo sarpiano (lo “scarabocchio” sulla “Torà” non è l’unica stranezza) dipendono dalla intenzione dello scrittore di mantenere occulto certe parti del suo pensiero, che dettava ad uno scrivano, sulla cui segretezza o consenso non poteva contare.

[33] Anzi, sulla imortalità dell’anima, egli ha una sua  concezione, ben lontana dalla dottrina tradizionale. L’uomo è così destituito di valori spirituali, che la immortalità dell’anima non è un dato di natura, comune a tutti: è un risultato offerto dalla Rivelazione-Redenzione a chi vi corrisponde e se ne rende degno. Le sue ultime parole “Aeterne vivas” sono intese abitualmente come augurio rivolto alla repubblica di Venezia (possa tu durare eterna!), mentre erano augurio alla propria anima, che sentiva sfuggire al corpo: che fosse tra le privilegiate, destinate a vivere eternamente in Dio, dal momento che la massa delle altre era destinata alla morte, assieme al corpo!

Ci si permetta di obiettare al Sarpi quello che Piero Martinetti (“Introduzione alla metafisica”, Torino, 1903) obiettava all’idealismo da Kant in poi: se la ragione è così destitutita di ogni potere logico, come è possibile prestar valore dimostrativo a  tutte le affermazioni che si  continuano a fare in base ad essa (per Sarpi: la ricostruzione dello stato materiale e spirituale della Chiesa nei primi sette secoli di vita; lo stabilire le verità minime della fede da condividere da tutti e distinguerle da quelle di libera discussione); anzi come è possibile accettare la ipotesi stessa della invalidità complessiva o radicale della potenza dimostrativa della intelligenza, quando essa è la conclusione di lunghi, seppur non sempre coscienti, ragionamenti operati dalla stessa inaffidabile ragione? Se l’unica certezza sono i sensi, non è più possibile erigere nessun ragionamento neppure minimalista, non è più lecito neppure giocare al ribasso del potere raziocinante: rimane  logico solo il silenzio e l’agnosticismo su tutto. Come fanno (con più...coerenza) gli animali.

[34] Cito dall’edizione antologica di Ricciardi, a cura di Gaetano Cozzi, pp. 742-3.  L’ortografia pressappochista è quella del testo: ne riparleremo, dando uno sguardo allo “stile” dell’opera, alla fine dello studio.

[35] Altro difetto è la mancata citazioni delle fonti. L’unico nome fatto (sempre in apertura di opera, nel primo periodo del primo libro) è quello di Giovanni Sleidano: per quanto testimone abbastanza libero e disinibito, è davvero troppo poco:, sia perchè è di parte riformata; sia perchè fu a Trento solo un anno (primavera 1551- aprile 1552), morendo poi nel 1556 a cinquant’anni.[35] I suoi “informatori” dovettero essere identificati con faticose indagini erudite. Non solo la recente “Geschichte des Konzils  von Trient” di Hubert Jedin (1949-1975: traduzione, Brescia, Morcelliana, 1949-1981), da chiuqnue ammirata e ritenuta lavoro di superiore diligenza, intelligenza ed onestà, ma la stessa “Istoria del Concilio di Trento” del pur scialbo card. Sforza Pallavicino è più documentata ed oggettiva di quella sarpiana. Ma sui limiti e difetti della Istoria del Sarpi  non ci sono più dubbi ormai: nessuno, neanche tra quelli che tentano di difenderne il valore artistico, ne sostiene le tesi storiografiche.

[36] Come si è detto, citiamo sette casi dal pirmo capitolo della Istoria. Il loro testo l’abbiamo letto sia nella edizione antologica di G. Cozzi (Ricciardiana, pp. 752-3| 754-5| 756|| 757-8| 760| 796| 806); sia nella edizione Sansoni, a cura di Renzo Pecchioli, Firenze, 1966 (pp. 10-11| 12|ib.|  14-15| 16| 45| 56).

[37] Nella sua “Storia della letteratura italiana”, il De Sanctis dedica alla “Nuova scienza” il capitolo diciannovesimo, che ingombra qualcosa come 115 pagine, con uomini come il Bruno (cui dedica 25 pagine), il Campanella, il Vico, il Sarpi e Pietro Giannone: a Galileo dedica poco più di una pagina, nel contesto delle più che venti impegnate per il Campanella!

[38]   Che cosa significhi “rettorica sentimentale”  non ci sembra “ovvio”: forse Sapegno vuol dire “sentimentalismo, patetico, enfatico” o qualcosa del genere. Quelle due “tt” di “retorica” che il Sapegno usa ancora forse  come residuo della sua età di formazione, ci sembra quasi un lapsus dello sforzo di cercar parole di lode, senza persuasione intima.

[39] Pretende il Sapegno di vedere confluire nel periodare sarpiano: “l’asciutta e spregiudicata forza delle relazioni degli amabasciatori veneti e la robusta struttura sintattica dei latini”: forse vuole mettere le mani avanti  per giustificare il periodare lungo  e contorto del Sarpi,  in cui i periodi di dieci righe e più sono frequenti (quasi la norma), con effetti di noia non piccola sul lettore.

[40] Questo elogio è detto, veramente, per alcuni passi della “Istoria dell’Interdetto”: cfr. pp. 239-40.  Riguardano invece la Istoria del Concilio tridentino gli altri giudizi.

[41] Alla Istoria del Sarpi i cattolici opposero  La Istoria del Concilio di Trento del card. Pietro Pallavicino Sforza. Delle virtù e dei difetti dell’opera si è parlato a pp. 18-19, nota 23, nella sezione dedicata agli studiosi di poetica.

[42] Si noti  per altro che il Cremonini, che non volle mai guardare nel cannocchiale, per non dover mutare tutte le proprie convinzioni di  cosmologia tolemaica; e che si fece seppellire con  l’epitaffio “Hic jacet Cremoninus totus”, non era poi nemico acerbo di Galileo: ebbe a fargli, anzi,  una garanzia per un prestito,  ed amichevolmente lo pregò di non chiedergli  il  sacrificio di guardare nel cannocchiale, che avrebbe sbalestrato tutta la sua vita intellettuale.

[43] Galileo si interessa soprattutto alle due forze  agenti sul percorso di un proiettile lanciato dalla artiglieria: forza di propulsione dello scoppio della polvere da sparo, che lo scaglia in avanti e forza di gravità, che lo attrae verso il centro della terra. Il risultato della composizione di tali forze sarà una semiparabola. E’ il tema della quarta giornata di dialogo nei Discorsi.

[44] In proposito, si veda in particolare il Dialogo dei massimi sistemi, inizio della seconda giornata.Ci sembrano, sulla esclusione del principio di autorità, ancora valide le specificazione di A. Manzoni circa la sua portata ed i suoi limiti (Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, nella parte finale del c. III): “..il diritto comune di tutti gli uomini d’esaminare l’opinioni d’altri uomini, senza distinzione di celebri e d’oscuri, di grandi e di piccoli. Fu anzi, ed è forse ancora, opinione di molti, che il riconoscimento di un tale diritto sia stata una conquista ed una gloria di tempi vicini al nostro: cosa però che ci par dura da credere, perchè sarebbe quanto dire che il senso comune non sia perpetuo e continuo nell’umanità, ma abbia potuto morire in un’epoca e risuscitare in un’altra: due cose delle quali non sapremmo quale sia più inconcepibile. S’è bensì creduto in diversi tempi che l’autorità, ora d’uno, ora d’un altro scrittore, costituisse una probabilità eminente: non s’è mai creduto (meno il caso per impossibile, ma che non deve contare, di qualche pazzo, ma pazzo a rigor di termini) che fosse un criterio infallibile di verità. Quel celebre e antico: amicus Plato, amicus Aristoteles, sed magis amica veritas, non fu che una formola particolare e nova di un sentimento universale e perenne: formola più o meno ripetuta d’allora in poi, ma non mai rinnegata. Esagerando, come si fa qualche volta, gli errori dei tempi passati, ci priviamo del vantaggio di cavarne degl’insegnamenti per noi: ne facciamo de’ deliri addirittura; e allora non si può cavarne altro che la sterile compiacenza di trovarci savi; se guardando più attentamente, vedessimo ch’erano miserie, potremmo esserne condotti a osservare che abbiamo bisogno anche noi o di preservarcene o di curarcene. No, non si dichiarava espressamente infallibile uno scrittore; ma si chiamava a buon conto irriverenza, temerità, stravaganza il trovar da ridire alle sue decisioni, senza voler esaminare con che ragione si facesse. Non era un delirio; era una contraddizione; ed è appunto di una contraddizione di questo genere che abbiamo paura. Chè, se i tempi moderni non hanno inventato quella libertà sacrosanta, non hanno nemmeno distrutta quella schiavitù volontaria. Come mai levar dal mondo, rendere impossibile ciò che non è altro che l’abuso e l’eccesso di un sentimento ragionevole? giacchè chi vorrebbe negare che il giudizio di una mente superiore alla comune costituisca una probabilità? Può dunque ancora, come in qualunque tempo, nascere il bisogno di ricorrere a quel principio, per prevenire de’ rimproveri non meritati e di rammentare che i grandi scrittori ci sono dati dalla Provvidenza per aiutare i nostri intelletti, non per legarli; per insegnarci a ragionar meglio, non per imporci silenzio...”

[45] Vi è un ulteriore principio che Galileo pare anticipare  in favore della scienza moderna: quello di non ricercare, nella natura, finalità in servizio dell’uomo, traguardi umanistici. La scienza si limita a costatare la esistenza le  leggi di azione nelle realtà che cadono sotto la sua esperienza; non deve tener conto di “intelligenze” ordinatrici che sfuggono alla sua osservazione. Il principio, per altro contrastato dalle complicazioni dell’evoluzionismo, anzi della cosmologia stessa, tiene conto solo delle cause “efficienti” che si vedono all’opera nei fenomeni, non di quelle “finali” che si possono solo dedurre da principi filosofici non sperimentali. Per questa esclusione del finalismo dalle premesse dell’indagine scientifica, si veda la terza giornata nel “Dialogo dei massimi sistemi”.

[46] Vi erano anche altre motivazioni per la confusione tra “filosofia fisica” e “filosofia metafisica”: le conoscenze della fisica, della matematica, della astronomia, della geometria e del corpo umano (medicina)  erano così esigue che anche quantitativamente parevano costituire una pura introduzione allo sviluppatissmo pensiero filosofico, già  organizzato da Aristotele e perfezionato dalla Scolastica medioevale.

[47] Qualcosa del genere afferma anche Galileo nei Discorsi, quando fa  dire dal Salviati: “A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo io” (Discorsi.... Torino, Boringhieri, 1958, p. 150).

[48] F. Bacone, contemporaneo di Galileo (1561-1626)  pubblicò, della progettata Instauratio magna scientiarum, solo tre parti, di cui le principali sono il “De dignitate et augmentis scientiarum” (1605, rielaborato nel 1623: espone il fine – subordinazione delle scoperte scientifiche alla vita pratica-, fine che scambia la scienza pura con la sua applicazione pratica, la tecnologia); ed il “Novum Organum” (1620: è appunto il nuovo “strumento” o metodologia del sapere) Queste due opere contengono l’essenziale della sua dottrina. Altre parti della “Instauratio” furono pubblicate lui vivente (Historia naturalis et experimentalis) o postume (Silva silvarum: ha in appendice la sua “utopia”, intitolata “Nuova Atlantide”). A parte, egli pubblicò i “Saggi”, un anno prima di morire. Si noti che già il titolo “Novum organum” (nuovo organo o strumento di indagine) è polemico contro l’opera (“Organum”) di Aristotele, che contiene la Logica, scienza dell’umano conoscere (astrazione delle idee| formazione del giudizio nella frase| organizzazione del ragionamento nel sillogismo, che fa entrare in rapporto dialettico due giudizi già noti -la premessa maggiore e quella minore- per giungere alla conclusione nuova).

[49] Ma se anche il sillogismo deduttivo deve contenere (et quidem in prima battuta) una  premessa universale, non è poi detto che ne debba possedere una sola: se anche la proposizione seconda è universale, allora anche la conclusione sarà di carattere universale e non particolare. Come diremo alla fine, anche la scienza più progredisce, più facilmente  prende le mosse da una ipotesi universale e inserisce, poi, l’esperienza (particolare od universale) al secondo posto, per ottenere  leggi singole o sistemi di leggi o concezioni universali di natura fisico-matematica, limitate cioè dalla sola necessità di rimanere legate al numero e, quindi, alla quantità materiale.

[50] La mancanza di esperienza diretta gli era costata cara nel dibattito con padre Orazio Grassi, a proposito della comparsa di tre comete durante gli anni 1618-9: Galileo, ammalato, non aveva potuto osservarle  direttamente, sicchè nel “Saggiatore” (uno scritto in proposito) si trovò ad avanzare l’ipotesi che la cometa fosse una illusione ottica, come quella dell’arcobaleno! La interpretazione era perdente rispetto alle proposte del gesuita, che le aveva potute scrutare e seguire col cannocchiale. Nel “Dialogo” egli si apprende alle maree, come esperienza di prova della rotazione della terra: non era un esperimento costruito così che funzionasse solo se la ipotesi era vera. A questa arriverà Leone Foucault col suo pendolo, nel 1851, nel Panteon di Parigi. 

[51] In realtà Leone Foucault si servì della differenza  del tempo tra la scomparsa della luce durante un eclisse di sole (determinata con esatta precisione dai calcoli astronomici) ela sua percezione da un telescopio terrestre, per determinare con definitiva certezza che la luce corre nel vuoto alla velocità costante di circa 3x 10 elevato alla ottava potenza/ metri al secondo”. Léon Foucault (1819-1868)  è quello stesso scienziato che dimostrò anche sperimentalmente la rotazione terrestre, mediante il famoso “pendolo” con un filo di 67 metri, cui era appesa una sfera di 28 chilogrammi, posto ad oscillare nel Panthéon di Parigi nel 1851; sfera che doveva segnare nella finissima  polvere sfiorata dalla punta estrema della sfera, un angolo di 15 gradi moltiplicati per il seno della latitudine del luogo, a causa della immutabilità dell’asse di oscillazione. Riuscito l’esperimento-trappola, la rotazione della terra era determinata una volta per sempre.

[52]  Sia il sillogismo deduttivo che quello induttivo, dunque, devono introdurre nel processo dimostrativo un elemento universale, se vogliono concludere ad una scoperta di valore universale. Difatti una legge del sillogismo dice “Nihil sequitur geminis ex particularibus unquam” (da due premesse particolari, non segue nulla). Il metodo deduttivo inizia il sillogismo con una universale e lo continua con sentenze od universali o particolari; viceversa, il ragionamento induttivo inizia con un elemento particolare (esperienza  unica od anche moltiplicate) e solo in seconda battuta (nella “premessa minore” si dice in linguaggio scolastico) dà  spazio alla (premessa) universale. Tra filosofia e scienza non vi è sostanziale diversità di metodo dimostrativo, ma solo differenza accidentale: una differenza di “posizionamento” o “geografica”.

[53] Non è solo Bacone a rivelarsi inferiore a Galileo, ma lo stesso Giovanni Keplero. Nonostante la intuizione mirabile e formidabile che le orbite dei pianeti non fossero delle circonferenze, ma delle ellissi; nonostante le tre leggi sublimi che del moto ellittico celeste lo scienziato tedesco formulò, egli rimase anche astrologo, credulo cioè nell’influsso degli astri sulla vita umana; e rimase un discendente dei filosofi pitagorici, che interpretava i cieli in funzione dell’uomo e studiava la loro “qualità” come diversa da quella terrestre. Keplero è un uomo di transizione: un genio, ma artigianale; Galileo imposta modernamente la grande industria della scienza esatta. 

[54] L’ulteriore problema del rapporto tra Bibbia e storia sarà messo in crisi dall’imporsi della teoria dell’evoluzione, dopo il libro di Charles Robert Darwin “L’origine delle specie” (1859): sarà uno dei fattori centrali nella crisi del modernismo, all’inizio del secolo XX. Che la Chiesa avesse, però, imparato la lezione dal “caso Galileo”, lo dimostra il fatto che solo l’evoluzionismo materialista fu condannato, perchè esclude la creazione ed anzi la fede stessa in Dio: non fu condannata la dottrina dell’evoluzione in sè. Anzi il primo dogma proclamato dal Concilio ecumenico Vaticano I (1870) riguarda proprio la perfetta compatibilità fra scienza e fede, che non possono mai contraddirsi.

[55] Il papato di Urbano VIII non fu, a nostro parere, all’altezza dei tempi e dei problemi che comportarono, sicchè la condanna di Galileo è il caso emergente in una serie di mosse discutibili. Intanto ci fu il il nepotismo sfacciato (fece cardinali il fratello Francesco, cappuccino e due nipoti: Francesco il giovane e Antonio); poi ci fu il caso “Campanella”, che egli volle sottrarre alla prigione spagnola, pur essendo reo di delitto civile e di tradimento religioso (alla ribellione aveva invitato anche i Turchi!) e che aiutò a fuggire in Francia, quando sembrò implicato in  nuove macchinazioni di  rivolta politica; infine c’è il comportamento disorientato nei confronti della guerra dei Trenta anni, perchè vi condusse una politica quasi altrettanto indecisa  quanto quella di Clemente VII: aiuto finanziario all’Impero, ma equidistanza politico-diplomatica nella lotta tra i difensori del Cattolicesimo (Austria e Spagna) ed i sostenitori della causa protestantica (Richelieu e Svezia), a rischio –come accadde- di inimicarseli tutti. Egli era impegnato ad abbellire Roma ed a completare la piazza di S. Pietro con il colonnato del Bernini: proprio come i papi medicei, pensava allo sfarzo materiale, quando erano in gioco le sorti della cattolicità a livello europeo, con le conseguenze di Illuminismo, rivoluzione francese e persecuzioni annesse.

[56] Prendiamo le note che seguono da Ferdinando Flora, Introduzione alla antologia commentata delle opere galileiane, nella collezione Ricciardi (G.Galilei,  Milano-Napoli, 1953, pp. X-XIII).           

[57] Invece, ciò che non si può mettere in dubbio nella sua vita è la fede relgiosa e cristiana. Non si può neppure (come fa Bertolt Brecht nell’opera teatrale dedicata a Galileo) attribuire con sicurezza a pusillanimità il sottomersi alla decisione del S. Uffizio. Dovette, più probabilmente, trattarsi invece di un vero dramma interiore: fino a che punto egli era così certo di idee contrastate da tutto l’establishment universitario del tempo e senza una prova definitiva, da sentirsi in coscienza  obbligato a subire un martirio religioso per difendere una verità profana? E’ un mistero che solo lui potrebbe rivelarci: di fatto prevalse la fedeltà alla (presunta) verità della Bibbia e non è lecito sospettare che si trattasse  invece del trionfo della viltà e della ipocrisia.

[58] “Il destino personale di Galileo fu determinato dall’aver preso egli stesso in mano la soluzione dell’apparente contraddizione tra i suoi risultati scientifici e la rivelazione biblica, invece di lasciarla ai teologi. I tentativi di conciliare le nuove conoscenze scientifiche con la fede cristiana furono intrapresi soprattutto da gesuiti, come Atanasio Kircher, Cristoforo Scheiner e Gaspare Schott” (H. Jedin, Storia della Chiesa, VI, p. 786 della traduzione italiana, Milano, Jaka Book, 1975). Nicola Abbagnano conviene: “Tragedia che non ci sarebbe stata, se Galileo si fosse limitato a coltivare le indagini matematiche e fisiche in cui era maestro e avesse fin dall’inizio rinunziato a illustrare i fondamenti di queste indagini, cioè la portata che essi hanno tra l’uomo e il mondo”. Attilio Momigliano, nella sua Storia della letteratura italiana, edita da Principato,  imposta il suo giudizio su una linea diversa, ma seducente: “... processo... che ... fu in sostanza effetto... della malignità degli avversari e delle paure rimaste nell’ambiente cattolico in conseguenza della riforma protestante” (p. 306).

[59] Attilio Momigliano, Storia della Letteratura italiana, Milano-Messina, Principato, 1956, p. 308.

[60] Si veda “Il Saggiatore”, n. 21: riportiamo sempre dal volume citato della Ricciardiana, a cura di Ferdinando Flora.

[61] Il brano  tutto godibile occupa varie pagine ed inizia: “Io vi confesso che”, per finire “e non sopra un mondo di carta”.

 

[62]  Si vedano specialmente le pagine 49-50; 82; 86; 94 della Ricciardiana.

[63] Ivi, pp. 484-93; 730-4; e, di Frammenti e lettere, le pp. 5-6.

 

20/07/01Ultima modifica il .
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