Dal Medio Evo al rinascimento
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Don  Marcello De Grandi

 

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                                          CAPITOLO IV

LA LETTERATURA NELL’EPOCA DI PASSAGGIO DAL MEDIO EVO AL

 RINASCIMENTO (SEC. XIV, DALLA MORTE DI DANTE A QUELLA DI BOCCACCIO)

 

A) LA CRISI DELLA CIVILTA’ MEDIOEVALE

 

Premesse di metodologia generale.  Un principio critico generale: la complessità culturale di ogni epoca. Non esiste mai una cultura monolitica: una società è formata da individui liberi, che in pratica finiscono per non aver mai nè gli stessi gusti estetici, nè la stessa condotta morale e neppure (ahimè!) la stessa visione dei valori fondamentali della vita, dell’uomo, della società, della storia. Ogni epoca culturale è polivalente: si differenza dalle altre per il prevalere nella opinione pubblica di un certo indirizzo di pensiero, costume e gusto (sensibilità), coesistente sempre con altre correnti minoritarie. La definizione di un’epoca culturale è fatta sempre “a potiori”, cioè in base ad un criterio di predominio, non di monopolio.

 Vi sono generazioni di uomini, poi, che  determinano epoche di crisi, di passaggio da una prevalente cultura ad una diversa: è  ovvio che tali società siano caratterizzate dalla equipollenza di due o più indirizzi nella mentalità, nella prassi, nel gusto. Tale fu certamente il secolo XIV in Italia, quando la civiltà cristiana entra in crisi, mentre  non si è ancora affermata quella dell’umanesimo rinascimentale: è un secolo di autentica tensione e slittamento di valori. Si instaura una specie di condominio culturale, senza che si possa parlare della prevalenza  di una Weltanschauung (prospettiva esistenziale, concezione della vita) sull’altra. Petrarca, per alcuni aspetti, Boccaccio, per certi altri, segnano il punto di incontro, attrito e disarmonia (non ancora di separazione): sono veri fotogrammi centrali di una dissolvenza incrociata fra contrastanti punti di osservazione dell’uomo e della vita. Petrarca e Boccaccio solo in parte sono radicati nel Medioevo, mentre per altre componenti sono protesi verso l’umanesimo: di quello sono gli stanchi continuatori, i nostalgici estenuatori e, più o meno consapevolmente, i pietosi necrofori; di questo, sono gli incerti instauratori, gli audaci sponsorizzatori, i parziali  fondatori.... Attorno a loro vi è una  comunità di gente battezzata che è divisa tra pensatori (ed attori) ancora sostanzialmente medioevale (nel senso migliore e peggiore); oppure già appartenente ad un sistema di pensiero e di azione profondamente diverso; oppure incerta fra un pensiero  candidamente improntato al Vangelo, ma praticamente operante in almeno parziale incoerenza. Siamo in una regione di penombra, di twilight, di crepuscolo.

Quali sono le categorie fondamentali di valori da prendere in considerazione per comprendere esaurientemente una cultura, per giudicarla eventualmente, se non altro sottolineando le coincidenze o le diversità rispetto alla cultura (dominante) precedente o seguente? Per la cultura del Duecento, ci si è limitati al fattore “ideologico, conoscitivo, mentale”, salvo ad accennare ai corollari della visione cristiana della vita , cioè la presenza di molti grandi santi e l’equilibrio della sfera emotiva per la universalità della sua orientazione (in base alle idee-forza della cultura dominante). Ora è bene che cerchiamo di distinguere più specificamente i vari settori di attività umana e di esaminarli partitamente, così che il quadro di una “civiltà” risulti più completo e lo schema delle componenti sia una conquista per sempre: a poco a poco ci abitueremo ad inquadrare una determinata cultura (compresa la nostra dell’ormai trascorso secolo XX e del prossimo futuro Duemila). Per “fabbricarci” le “scaffalature” in cui situare una cultura, rifacciamoci alle due attività umane (cioè proprie solo dell’uomo, non in comune con gli animali) che sono la radice di altre da esse dipendenti. L’intelligenza si rivelerà diversa di età in età per il suo contenuto di verità|opinioni: non trattandosi spesso di concetti ben definiti (come  sono, invece, i dogmi di fede del Medioevo cristiano o il pensiero filosofico di qualche pensatore di spicco), ma di un modo di vedere più o meno partecipato dalla massa, parleremo di MENTALITA’. Che dalla volontà libera discenda il COSTUME MORALE, ci pare scontato. Più complicata è la comprensione di altri due parametri culturali: il GUSTO O SENSIBILITA’ e LA TECNICA ESPRESSIVA ( non solo in sede artistica, ma anche a livello di eleganza, di moda, di gergo...). Quello che chiamiamo “gusto” è in realtà il “sentimento” privilegiato in una data epoca|società: la sfera emotiva, preferita dalla mentalità diffusa in un dato luogo geografico e tempo storico, cioè in una società localmente e temporalmente specificata (con  vocabolario strutturale si direbbe “una società sincronicamente e diacronicamente connotata”). Ma qui va chiarito il senso preciso di “sentimento” in rapporto alle emozioni. Il sentimento è la simbiosi (convergenza o fusione o sinergismo o collaborazione) tra la sfera razionale e la sfera emozionale, cioè tra una idea (gruppo di idee) e la loro risonanza emotiva. I sentimenti sono infiniti, non per la incalcolabilità delle emozioni (abbiamo detto che sono solo quattro, quelle di fondo), ma per la innumerevolezza delle idee. Altrove[1] abbiamo cercato di  addurre, sulla scorta di studiosi di psicologia, qualche catalogo dei più soliti sentimenti. In verità, lo stesso desiderio di insegnare|imparare, che unisce chi scrive a chi legge, è un sentimento, cioè una convinzione conoscitiva (importanza del sapere) che stimola la gioia delle due attività e ne sostiene la fatica.  Il corteggio dei sentimento che accompagnano l’amore, il patriottismo, la religiosità e la filantropia  “più che il doppiar degli scacchi s’immilla” : l’amore è gioia di possesso, rabbia di gelosia, tormento di attesa; il patriottismo diventa esaltazione nella vittoria, disperazione nella sconfitta e (talvolta) odio etnico; la religiosità  si fa devozione a Dio, compassione verso il prossimo e (talvolta) fanatismo violento; la filantropia si spiega come entusiasmo di fraternità universale e(talvolta) odio di classe...  E come l’intelligenza  cattura  la sfera emozionale  complicandola nei sentimenti, così la volontà privilegia  alcune espressioni della emozione a scapito di altre, inducendo uno stile di vita e di parola, che diventa la moda del vestire come la forma metrica, lo stile  pittorico come la architettura dell’edilizia, il concettismo barocco come l’informale di molto  Novecento... Tutto questo chiamiamo “tecnica espressiva”, che caratterizza una società in un certo tempo.

Quale è l’ordine  di successione ed, eventualmente, di causalità fra queste componenti culturali? La logica   nell’agire veramente umano prevede il primato della conoscenza|verità, da cui deve scaturire la decisione di volere, con i corollari di gusto e tecnica espressiva agli ultimi posti. Ma la realtà storica constata anche un’altra successione, forse più frequente: la prassi dell’arbitrio o comunque del più forte impone idee (opinioni), gusto e mode, anche contro la coscienza del vero, oscurato dalle passioni (paura, ambizione, piacere, vanità). L’uomo trascorre dal principio evangelico di Cristo “In principio era la Parola” (la verità, la conoscenza) a quello faustiano di Goethe: “Am Anfang war di Tat” (in principio era l’azione).

E’ per questo che nel delineare il quadro di ogni epoca culturale, che spiega idee, fantasmi, gusti e mode da essa privilegiati, dovremo anticipare abitualmente gli avvenimenti politico-militari e socio-economici che la preparano e la condizionano: non perchè quella società sia schiava, di diritto, degli avvenimenti esteriori, ma perchè,  di fatto, l’uomo prostituisce spesso il libero arbitrio interiore in cambio di vantaggi esterni: anzichè vivere (come può e deve) dall’interno della coscienza all’esteriorità dell’azione, sovente preferisce vivere dall’esteriorità dell’interesse|piacere fino alla deformazione della coscienza intima. L’uomo è libero anche di rendersi schiavo del più forte o succube della mentalità, condotta, gusto e moda imperanti. In altre parole, il fattore volontà (eventualmente  ricattato dalle passioni, cioè dagli istinti ed emozioni utilitarie, pragmatiche) precede –di fatto, statisticamente- quello del pensiero. Non sempre. Ma sui casi eccezionali avremo modo di avanzare delle ipotesi a suo luogo (un passo alla volta!). Si noti ancora che , per comodità, indicheremo come fattori volontaristici-passionali-pragmatici gli avvenimenti più significativi a livello militare e  politico, rimandando lo studio delle conseguenze etico-religiose a livello  sociale e  individuale fra le  spie del pensiero o della mentalità. Sarebbe più pertinente studiare anzitutto le premesse politico-militari; vederne gli influssi sul pensiero e sulla prassi morale; studiare infine, in rapporto a tutti i precedenti fattori, il gusto e la tecnica espressiva. Ma ci dilungheremmo troppo, con un paragrafo ulteriore.

 

Le novità più clamorose nel campo della prassi durante il secolo XIV.[2]

Le vicende politiche e militari in Europa ed in Italia nel sec.XIV sono affini per  alcuni risultati  etico-sociali.Trionfa il particolarismo regionale, dopo il crollo  degli istituti unitari di Chiesa ed Impero, durati fino alla metà del secolo precedente. La morte di Federico II  (1250) segna la fine effettiva del Sacro romano impero di nazione germanica: l’inutilità e fallimento della venuta di Arrigo (Enrico) VII al principio del Milletrecento ne è la conferma. L’unico risultato fu la sostituzione, in Milano già capitale del guelfismo, dei ghibellini Visconti al governo dei guelfi Torriani: pel resto, fu l’impresa dell’ingenuità e del velleitarismo. Dopo di lui  qualche imperatore intraprende il   “Ro”mer Zug (viaggio a Roma) solo per raccogliere danaro, concedendo patenti di feudalità ereditaria ai vari “signori di fatto” nelle varie città che lo richiedevano; per ricevere omaggi dalle popolazioni in festa e per rendere ossequio al papa, da cui farsi incoronare imperatore in Roma. Così avvenne a Carlo IV di Lussemburgo. Ma capitò anche che il viaggio fosse inteso in senso  laico  e l’incoronazione avvenisse per opera di un antipapa, creato dall’imperatore: è il caso di Ludovico IV il Bavaro (della casa Wittelsbach di Baviera) nel 1327, osteggiato da papa Giovanni XXII, residente in Avignone. Sono gesti privi di contenuto autoritativo, che  fanno da parallelo alla diminizione di significato e potere universale nella Chiesa, per il passaggio in Francia con Clemente V, che nel 1309 si stabilirà ad Avignone, succube di Filippo IV il Bello. Il rientro a Roma nel 1375 (provvisoriamente) e nel 1378 (definitivamente) precederanno di poco il grande scisma d’Occidente (1378-1314), che vedrà addirittura sorgere due antipapi, ciascuno appoggiato da qualche regnante d’Europa, con l’effetto di confusione e disorientamento tra i fedeli, diminuzione di stima e autorità del vescovo di Roma. La conseguenza della cessazione od indebolimento dell’autorità centrale è il trionfo della oligarchia ed un accostamento all’anarchia: i signorotti locali, mancando di un freno superiore, tendono a spadroneggiare; i privati si difendono fondando delle organizzazioni (“mafiose” ante litteram), per difendersi (nei migliori dei casi) o per offendere a loro volta. Per la situazione italiana si può arguire qualcosa dai versi di Dante in Purg. 16, 115-20: “In sul paese ch’Adice e Po riga,| solea valore e cortesia trovarsi,| prima che Federigo avesse briga;| or può sicuramente indi passarsi| per qualunque lasciasse, per vergogna,| di ragionar coi buoni o d'appressarsi” (e si veda anche Purg. 14, 88-123).  In Germania, sorge la “Santa Vehme”, per  attuare, privatamente in modo spiccio e sicuro, quella giustizia che i tribunali dei signori non garantivano più: era un regresso alla vita brada,  al di qua “dal dì che nozze e tribunali ed are| diero all’umane belve esser pietose di se stesse e d’altrui...” (Foscolo, I Sepolcri). Ad un livello superiore, in Italia imperversano le lotte fra città e contado, per allargare le signorie urbane a livello di regione almeno. La guerra è uno stato di fatto endemico: ogni principe si assicura un esercito mercenario, che, anche in tempo di pace, si comporta nel territorio di stanza come una banda di rapinatori (si leggano, nel primo capitolo de Promessi Sposi le belle abitudini dei soldati spagnoli nel lecchese “che insegnavan la modestia alle fanciulle ed alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne per diradar l’uve e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia”): usanze arrivate fino al Milleseicento dalla barbarie degli uomini primitivi. In Francia, dopo i (e a causa dei) capricci prepotenti di Filippo IV, si giunge alla guerra dei Cento anni (1337-1453) contro l’Inghilterra, con la quasi cancellazione del potere regio per decenni di predominio anglo-borgognone, che solo il miracolo della  “pulzella d’Orléans, S. Giovanna d’Arco (1412-31), risolve in un salvataggio insperato. L’ autorità della Chiesa è in declino persino in centro Italia: sul territorio della Chiesa, dove si sono sviluppate fin dalla seconda metà del Duecento, dai liberi comuni, le signorie (gli Estensi a Ferrara, i Montefeltro ad Urbino, i Polentani a Ravenna: cfr. Inf. 27, 37-54),   si vede ora instaurarsi  a Roma  un tentativo di governo laico con Cola di Rienzo (1347 e 1353-4). Il papa deve inviare legati per riportare un qualsiasi ordine: dopo un primo tentativo fallito, vi riesce il cardinal Egidio Albornoz, che deve accettare però le larghe autonomie dei signori ormai affermati.  Lo stato di soggezione clamorosa al re francese (condanna del papato di Bonifacio VIII; condanna a morte dei Templari, religiosi già addetti alla custodia dei luoghi santi ed ormai diventati una potenza economica in Francia) logora il valore universale del papato, che vede sminuita la sua funzione di educatore per eccellenza, in quanto garante della giustizia e della perfezione evangelica. Ora appare immersa in problemi di sopravvivenza e di arricchimento. La cosa si farà ancor più scandalosa con la dispersione dei popoli nel grande scisma d’Occidente (1378-1417). Ecco allora diffondersi eresie tenaci, come i Lollardi in Olanda (e, con John Wycliffe, in Inghilterra) e l’Hussitismo in Boemia. I santi non sono molti:  S. Chiara di Montefalco muore nel 1308; S. Umiltà di Faenza, nel 1310 e Santa Agnese di Montepulciano, nel 1317: ma  sono sante del secolo precedente. A cavallo fra i due secoli sta S. Giuliana Falconieri (1270 ca-1341: fondatrice delle “Mantellate”, ramo femminile dei “Servi di Maria”); totalmente trecenteschi sono solo S. Andrea Corsini (fiorentino: 1301-1374) e S.Caterina da Siena (1347-1380), anche se  più numerosi sono i beati (il b. Giovanni Colombini, fondatore dei Gesuati, che muore nel 1366 è il più noto: la b. Angela da Foligno, vissuta dal 1248 al 1309, appartiene in realtà al secolo precedente). Fuori d’Italia c’è S. Brigida di Svezia (1303- 1373). Anche gli ordini religiosi fondati nel corso del secolo (tutti di tipo agostiniano, cioè fraternità di santa vita, senza regole troppo rigide) avranno vita breve: Gerolimiti (b. Pietro Gambacorta, di Pisa); Gesuati (b. G. Colombini, di Siena); Fratelli ambrosiani (1370: fondazione milanese, che parte dal Romitorio di S. Ambrogio ad Nemus). Altri segni dei tempi: a Parigi, l’università è retta per la prima volta da un laico,  Giovanni Buridano; gli studenti aumentano e sono detti tutti “chierici”, ma l’attributo appiccicatogli di “vagantes” (girovaghi da una università all’altra) è segno di decadenza; e sempre di più sono gli studenti che non si occupano di teologia. Anche la vita del clero pare in ribasso moralmente: ma non sorgono movimenti riformatori come a Cluny (sec. XI), Chiaravalle (sec. XII) o nuovi ordini come i Francescani e Domenicani (sec. XIII), ma contestatori del tipo di John Wycliffe che osteggiano il clero che combattono, anzichè edificarlo col loro esempio.

 Una prova della situazione di declino etico-religioso, pur nella permanenza di una fede  ancora sicura ed attiva, la si può ricavare dal paragone fra la spiritualità di alcuni laici di spicco, implicati nella vicenda letteraria della Toscana nel Due e nel Trecento. Antonio Pucci (1310ca-1388) si rivela, nelle sue innumerevoli ma fin troppo facili rime, un cristiano vivamente interessato alla vita morale; Franco Sacchetti (1332ca-1400) scrive addirittura (lo vedremo) commenti a testi evangelici  per la predicazione (Sposizioni di Vangeli). Ma Dante, Dino Compagni (1255 ca-1324), Giovanni Villani (1376 ca-1348) e Francesco da Barberino (1264-1348) che appartengono più al Due che al Trecento, per la loro giovinezza e formazione, sono ben più coerenti ed appassionati nella difesa dei valori etico-religiosi: la fede religiosa è non solo il primo valore, ma quello assorbente e, in fondo, l’unico irrinunciabile, l’assoluto. Non è già più così per il Sacchetti ed il Pucci. Spiriti superficiali, scrivono troppi versi e di limitato valore estetico; dedicano versi alle belle donne (un capitolo, il Pucci; un cantare in ottave su “La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie”, il Sacchetti), in tonalità ben lontana dalla serietà scrupolosa del Dolcestilnovo; qualche novella del Sacchetti e i sonetti finali della  “Corona del messo d’amore” di Pucci      

 non servono a costruire il pudore nei lettori.Anzi! Sono ancora cristiani, ma non sono cristiani  coerenti fino in fondo. Naturalmente non mancano neppure questi ultimi nel Trecento, anche toscano: ad esempio, abbiamo un Lapo Mazzei  (di Prato:1350-1412)  che nelle sue lettere rivela, ispirato alla fede, un eccezionale fuoco di carità verso i poveri. Ma si tratta di personalità minori, non paragonabili ai giganti della poesia e della cultura nati nella seconda metà del Duecento. A questo punto Petrarca e Boccaccio non fanno che colmare la misura: non sono casi isolati, eccezioni che si possono ritrovare in ogni epoca della storia cristiana, ma sono le punte di un iceberg che connota un’epoca, incerta tra una fede che occupi ogni spazio del pensiero ed una religiosità che deve fare i conti con altri centri di interesse: i corollari più clamorosi sono la incoerenza morale in campo sessuale e la critica alle persone di Chiesa esercitata con spirito  irriverente, anzi ostile. Credenti, ma peccatori ed anticlericali: cosa tanto più disorintante, in quanto entrambi sono tonsurati (cioè iscritti al clero, col primo passo del percorso che dovrebbe condurre al sacerdozio) e, quindi, viventi  sul reddito di benefici ecclesiastici, per ottenere i quali si sono abbassati all’impegno del celibato! Un comportamento scandaloso che poteva già esistere nel Duecento, ma in numero più ridotto ed in personaggi meno significativi che non nel Trecento. La nostra società si scandalizza (o finge) per la doppia vita degli “abatini” nel Settecento: in realtà essi non sono che la ripresa del malcostume del Tre-Quattrocento, dopo la parentesi austera imposta dal Concilio di Trento.

Sul piano socio-economico, vi sono tre avvenimenti da tener presenti: l’aumento della produzione,  dei traffici e, di conseguenza del benessere, specie nella prima metà del secolo; la peste del 1348-9, che  portò via forse un terzo della popolazione in Europa; la  guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che rese insolventi re e privati e indusse una grave crisi economica in Fiandra, Italia e Francia. Essa sfocia, in Francia, nella “jacquerie”,  rivolta di contadini del maggio-giugno   1358, repressa duramente; in Italia, nel “tumulto dei Ciompi” in Firenze (1378), ricacciati, dopo un primo trionfo, nel nulla sociale e politico; in Inghilterra, il movimento dei Lollardi, che avevano rivendicazioni anche sociali nel loro programma.

 

Il pensiero o la mentalità nel Trecento. Aumenta nelle Università il numero di studenti, mentre diminuisce lo spirito di fede e disciplina cristiana. Di qui, le eresie e, durante lo scisma, il disorientamento circa la verità del papa autentico. Si è detto dei Lollardi che, partiti come movimento dall’Olanda, sono però noti soprattutto per il programma religioso-sociale dell’inglese Giovanni Wycliffe. E’ notevole che il movimento prenda piede all’università di Oxford e si trasmetta in Boemia a Giovanni Hus attraverso un’altra università, quella di Praga.

Ma queste eresie, come sono più pragmatiche ed estroverse, così sono più marginali di uomini e situazioni particolari. Invece, ad introdurre alla mentalità, al pensiero generale dell’epoca, serve di più conoscere il pensiero filosofico e teologico che, dalle cattedre universitarie, scende poi ai predicatori e, quindi, al popolo cristiano. Ora, proprio nelle università, dopo San Tommaso, era iniziato il movimento di decadenza della filosofia scolastica, con Duns Scoto (1265-1308), teologo francescano che insegna ad Oxford. Sulla scia di una sua tesi circa l’arbitrio di Dio nello stabilire il bene ed il male (se Dio lo volesse, la bestemmia potrebbe diventare atto virtuoso!), si sviluppa lo “scotismo”  come “volontarismo”. Sempre partendo dal “primato” del volere (in pratica, la volontà sarebbe potere di decisione indipendente dalla ragione: altrimenti ne sarebbe schiava!), si giunge a considerare la volontà come coincidente con la libertà: non c’è atto volontario che non sia libertà di scelta (in realtà, per fermarci solo all’uomo, il bene supremo della felicità non è libero, ma necessario, perchè connaturato: eppure è atto pienamente volontario).  Ma una volta stabilito che l’essenza della volontà è la libertà, allora, se vien meno la libertà, vien meno la stessa volontà, che è parte necessaria dell’anima. Ora, come l’uomo non può essere senza l’anima, così non può mancare in lui la volontà-libertà di scelta. Ne consegue che neppure  dopo il peccato originale può essere messa in discussione la pienezza della  volontà-libero-arbitrio nell’uomo: di un indebolimento della facoltà decisionale dell’uomo non si parla. Guglielmo Occam (1290-1349: con ancor più decisione, il suo seguace Gabriele Biel, nel secolo seguente) ne deduce che la volontà umana basta a se stessa nel compiere tutto il bene: può rispettare con le sole sue forze tutta la legge di Dio.[3] Siamo in una mentalità molto vicina  all’eresia del Pelagianesimo, che vede nella volontà umana un potere addirittura capace di seguire colle sole proprie forze anche i consigli evangelici (voto di povertà, verginità...).[4] Con un simile sistema di pensiero, l’ottimismo sull’uomo è  già di tipo rinascimentale ed illuministico, come avremo modo di vedere a suo luogo.

Ma i Nominalisti non sono tutto il pensiero filosofico-teologico del secolo XIV: vi è la scuola  dei teologi agostianiani che rappresenta il polo opposto. Il pessimismo eccessivo si esprime in formule esplicite nell’agostiniano Gregorio da Rimini: l’uomo, in seguito al peccato originale non può fare, senza la Grazia redentrice di Cristo, assolutamente nulla di buono; anzi, neppure può volere alcunchè di buono; anzi, neppure può giungere a sapere che cosa sia buono. Coerentemente, egli sostiene poi che l’uomo decaduto per il peccato originale, non è più in grado, con le sole proprie forze, di evitare neppure un peccato: ogni sua azione è peccaminosa, se non intervenisse  la Grazia ad illuminare e sostenere. Siamo alla fatalità della colpa nell’uomo abbandonato dall’aiuto soprannaturale. E Dio, dopo il peccato di Adamo, può privare l’uomo di tale Grazia senza ingiustizia: non gli è dovuto, ma è puro dono, l’aiuto redentore di Cristo. Siamo alla predestinazione (anche) al male; alla concezione agostiniana della umanità come “massa destinata all’Inferno” (“massa damnationis”), da cui Dio, sottrae chi vuole (molti? pochi?) con giudizio insindacabile.  Siamo già al pessimismo tragico della concezione di Lutero (anche lui monaco agostiniano), che esploderà nel 1517. L’equilibrio della teologia di Tommaso e Bonaventura circa tale rapporto di libertà e peccato originale, libertà e Grazia viene dissolto in una contrapposizione inconciliabile: agostiniani radicalmente pessimisti ed occamisti impenitenti ottimisti. Ma è ancor più grave e profondo il disorientamento introdotto dalla dottrina “nominalistica” dapprima sul meccanismo e valore della conoscenza umana; e, di conseguenza, sulla natura del creato tutto, dell’uomo in particolare e della stessa rivelazione e fede cristiana. Il “Nominalismo” contraddistingue buona parte della filosofia-teologia dei secoli XIV e XV.  Iniziato da Giovanni Roscellino nel secolo XI, si impose con Guglielmo Occam nel sec. XIV, quando moltissimi docenti universitari vi aderirono: compreso il rettore della Sorbona di Parigi, Giovanni Buridano! Si tratta di un sistema filosofico che  vede come oggetto proprio e primario della mente la sostanza individua,  mentre i cosiddetti “universali” sono abbassati a generalizzazioni per scopi pratici, senza valore conoscitivo. Questo conduce a negare che noi conosciamo veramente l’essenza delle cose; anzi si anticipa Nicola Malebranche e George Berkley, non escludendo l’ipotesi che la realtà del mondo sia un prodotto della volontà di Dio sui nostri sensi, senza una esistenza vera. Le verità rivelate non sono più dimostrabili o difendibili dalla ragione, ma solo accettabili per fede (fideismo).  Con un simile allegro  sbaraccamento del potere di conoscere della ragione, il dubbio e lo scetticismo entrano in una parte almeno dei battezzati europei. Se alle sollecitazioni che provengono dagli intellettuali col loro pensiero sofistico  e corrosivo si aggiunge la brutta fama che si attira la curia avignonese, che gode di pessima stampa (avidità e scostumatezza sono le accuse più solite, diffuse anche da Petrarca, attraverso un paio di sonetti e  la ventina di Lettere “sine  titulo”, cioè senza nome del destinatario), allora si può cominciare ad intravedere la sorgente del diverso clima, anche letterario, che caratterizza  la produzione postdantesca. Si capiscono allora certe novelle del Boccaccio, come quella di ser Cepparello(I, 1), delle tre anella (I, 3), di Martellino (II, 1) di Nastagio degli Onesti (V,8), di Guido Cavalcanti (VI, 9) e di frate Cipolla (VI, 10). Ma si noti, lo stesso Boccaccio (che rappresenta già un caso-limite: nessun altro novelliere del Trecento è così temerario nella fede ed impudente nella morale) diviene un testimone della ambiguità del secolo: egli finisce per ravvedersi, si converte  in età avanzata e giunge al proposito di distruggere il Decàmeron. Anche le 155 “Novelle” di Giovanni Sercambi (1347-1424: pubblicate solo nel 1816, parzialmente; ed integralmente, solo nel 1972)  è teste di ambivalenza: devozione e salacità.[5] Tali collezioni di  narrazioni più o meno fantastiche sono in parallelo con i Canterbury tales di Geoffrey Chaucer, scritti fra il 1386 ed il 1400 (editi però solo nel 1478) che, volendo di proposito rappresentare tutte le classi sociali incarnate in individui psicologicamente molto ben definiti, accosta gli estremi più diversi, dal patetico al comico, dalla tragedia alla satira, dall’edificante al licenzioso, con una visione realistica, propria di un rappresentante della classe borghese.

Ma colui che meglio testimonia, a livello ideologico e pratico, la sfaldatura e precarietà del cristianesimo nel secolo XIV è Francesco Petrarca: la sua figura è davvero paradigmatica dello stato mentale e morale della società; un icona del suo ondeggiare nel pensiero e nella condotta.   Nella   “anceps pugna” (battaglia indecisa)  che lui stesso usa per descrivere  la sua condizione dentro l’amore per Laura, si sintetizza in realtà e si specchia la media statistica dell’anima trecentesca: egli è un campione privilegiato che, colla sua sensibilità distonica, ha potuto interpretare a livello di coscienza (e non solo sperimentare a livello pratico) l’anima incerta ed oscillante, equivoca ed indecisa del suo secolo. Da una parte non è mai messa in questione la fede in nessun principio essenziale; anche in lui avviene una conversione a livello pratico (si è detto non del tutto scherzosamente che il più grande dono che Laura gli potè fare fu quello di morire prima di lui) che lo porta a scrivere i  “Trionfi” (cantano i valori eterni come unica rivalsa all’inesorabile tramonto degli altri beni,a cominciare dall’amore), un paio di libri di meditazione spirituale davvero pregevoli (De vita solitaria| De ocio religiosorum) e sette “Psalmi poenitentiales” (scritti di pentimento e preghiera). Dall’altra parte, però, basta leggere il suo “Secretum” (cioè “il segreto conflitto delle mie passioni”: de secreto conflictu curarum mearum), per sentirlo confessarsi di due colpe da cui non riesce a guarire e che S. Agostino gli rimprovera: l’ambizione della gloria letteraria e l’amore mondano per Laura (l’opera antecede la morte della donna amata, perchè è del 1342-3; venne poi rivista fino al 1358, quando Laura era morta da dieci anni). E i suoi rimproveri al mondo ecclesiastico peccano in tre direzioni: perchè non tengon conto che anche lui è un chierico, infedele e scandaloso; perchè gli ecclesiastici non sono tutta la Chiesa, per cui è doverosa quella distinzione che non manca mai in Dante; perchè il tono di rimprovero non nasce da sofferenza di figlio della Chiesa, compartecipe dei danni, ma di estraneo, insolente e quasi contento di sorprendere altrui in peccato. E’ un anticlericalismo impietoso e quasi  compiaciuto. Si leggano i sonetti del Canzoniere “Fontana di dolore, albergo d’ira” e “L’avara Babilonia ha colmo il sacco”, nonchè le 19 lettere “sine titulo” già accennate. Ma il sintomo più grave dell’insufficienza del Petrarca nella stessa materia di fede sta nel pratico oblio del peccato originale. Egli lo cita bensì, ma senza avere il senso (così vivo in Dante) delle conseguenze concrete sulla psiche umana, sulla sua insufficienza, cioè, di fronte ai doveri morali, non solo a livello individuale, ma anche sociale e storico (in senso sincronico e diacronico). Perchè il “Secretum” (l’esame di coscienza fatto alla presenza di S. Agostino) termina con lo “stallo” della constatazione di una situazione insuperabile di peccato? Perchè Petrarca non ha presente, nella coscienza più viva e più abituale, la necessità della Grazia redentrice di Cristo per superare la concupiscenza che, senza il sovrappiù di energie morali che solo dalla Redenzione ci viene, fa l’uomo perdente nella lotta per l’uso equilibrato delle passioni. Il “Secretum” non termina con l’appello alla preghiera ed ai sacramenti cristiani: Petrarca è un  inconsapevole stoico che  ritiene di poter  costruire una vita integra colle sole proprie forze. Eppure  parrebbe un autentico cristiano, perchè afferma con decisione che l’umile donna  battezzata ne sa più, sui problemi elementari (esistenziali) della vita umana, che non  Aristotele e i filosofi pagani, in quanto  essa è illuminata dalla rivelzaione di Dio, che mancava a questi. Il motivo? Nel campo del pensiero Petrarca, pur senza avere la stoffa del grande logico, del ragionatore sistematico, però aveva abbastanza esperienza per accorgersi del divario tra il brancolare incerto e deludente dei pensatori prima di Cristo e le certezze trasparenti e consolanti dei fedeli in Cristo. Nel campo della morale, conosceva solo le proprie sconfitte e non la misericordia di Dio, che perdona le colpe e preserva  dalle ulteriori cadute. E’ sempre la mancanza di tale “tessera”,  nel codice di princìpi per giudicare le società e  le civiltà della storia, che Petrarca ha una stima  così alta della perfezione nella vita classica di Atene  e di Roma, da obliarne la corruzione etica e la insipienza religiosa (cose  di cui Dante era invece ben consapevole): è l’illusione fondamentale dell’umanesimo storiografico. In tanto egli può giungere alla ammirazione incondizionata per le età di Pericle e Cicerone, in quanto il dogma del peccato originale e la dottrina conseguente della impossibilità ad una perfezione di vita morale (che è il coronamento tanto della vita associata che di quella individuale) è presente più nel subconscio che nella parte cosciente della sua personalità. Egli è più impressionato dalle deviazioni di fatto dalla legge evangelica in (molta) parte del clero a lui contemporaneo, che della mancanza, incertezze, errori nei criteri stessi di orientamento morale propri del mondo pagano: privi addirittura di una “sinderesi” o capacità di giudizio morale definitivo, non potevano poi certo condurre una vita di perfezione etica. E’ attorno alla coscienza delle conseguenze della colpa originale che inizia quello sfaldamento rispetto alla fede cristiana, che condurrà alla reazione uguale e contraria di Lutero. Questi infatti proporrà una dottrina in cui la forza del peccato originale rimane superiore alla potenza della redenzione di Cristo. Anche le preferenze per Platone rispetto ad Aristotele denunciano un pensiero debole e la riduzione della problematica filosofica a livello di una antropologia (cioè alla risposta ai problemi esistenziali sull’origine, finalità, destinazione eterna dell’uomo). In tanto egli non subisce le tentazioni del materialismo neoepicureo di qualche ghibellino od averroista miscredente, in quanto è insensibile agli interessi per la natura e per le cose fuori della psiche umana: egli è negato alla scienza. Alla pari, in tanto è appassionatamente ostile alla astrologia, in quanto è sordo all’interesse ed al fascino della astronomia. Il padre dell’umanesimo rinascimentale rivela già i limiti del fenomeno: l’attenzione all’uomo (umanesimo) è così assorbente, da trasgredire nel disinteresse per la scienza e nell’insensibilità per i problemi generali dell’essere in quanto tale (ontologia o metafisica); la stima per gli aspetti intelettuali della  cultura umana è tale, da  trascurarne (o non vederne) i difetti al livello umanamente più alto e importante, quelli morali e religiosi, appunto, nelle epoche pagane.


[1] Si vedano le pp.  60-4 del nostro MUSICA IN PAROLE, Varese, Tipografia S. Vittore editrice, 1983.

[2] Per molti dettagli sui secoli XIV e XV in Francia, Borgogna, Belgio, Olanda e Germania, è  fondamentale “ L’autunno del Medio Evo” di Johan Huizinga, 1919 (traduzione Sansoni, 1966).

[3] Se si domanda a questi teologi quale è il motivo della necessità della Grazia per la salvezza (concetto fondamentale del Cristianesimo, che ha al centro della sua fede il sacrificio redentore di Cristo: concetto drammaticamente vivo, in particolare, in San Paolo ed in Sant’Agostino), essi rispondono che la Grazia è necessaria in due sensi: da una parte  lo è per rendere “facile” l’osservanza della legge, che alle forze naturali è bensì accessibile, ma faticosa; dall’altra, la Grazia è ovviamente indispensabile per  quegli atti che eccedono la nostra natura ( i consigli evangelici di povertà, castità e ubbidienza, oltre ai doni mistici ed al potere dei miracoli). Le idee di Occam saranno chiarite ulteriormente da quello che è chiamato “l’ultimo scolastico”, cioè l’ultimo  rappresentante significativo della Scolastica medioevale (filosofia e teologia), Gabriele Biel (nato a Spira, in Germania tra il 1410 e il 1425 e morto nel 1495).

[4] Pelagio, monaco inglese (ca 354- ca 427) nell’intento di innalzare il tono della vita cristiana, appiattitasi nella mediocrità o peggio dopo la cessazione delle persecuzioni, valorizzò a tal punto le intatte forze del libero volere umano, da negare le conseguenze morali del peccato originale e la necessità della Grazia alla piena onestà umana: nelle parole di un suo seguace (Giuliano d’Eclano), “L’uomo mediante il libero arbitrio si è trovato emancipato da Dio”. La redenzione di Cristo è necessaria solo al raggiungimento della visione diretta di Dio, cioè alla salvezza soprannaturale del Paradiso.

[5] Le cinquanta novelle di ser Giovanni Fiorentino, raccolte col titolo de “Il pecorone” erano abitualmente ritenute scritte nel 1378: risultano invece posteriori al 1409. Anch’esse, nella loro dignità complessiva, hanno uno sfondo equivoco: sono  narrate da   due innamorati: Auretto, che si è fatto prete per diventare cappellano dove c’è la suora che egli ama, alla quale non può esprimere altrimenti i suoi sentimenti se non conversando in parlatorio; e suor Saturnina, monacatasi dopo una delusione d’amore.

Il gusto o sensibilità complessiva. Sembra proprio che sia in  parallelo perfetto con la dicotomia del pensiero: allegria spensierata e disperazione irredimibile; società gaudente e desolata.

 Serena e rassicurante è la filosofia della “setta invincibile” dei Nominalisti., come  abbiamo visto a suo luogo. Ed ecco, allora, l’allegria  spassosa o spavalda nella più parte delle novelle del Decàmeron, che anticipa addirittura il machiavellismo,   in quanto si accosta sempre al più furbo o più forte o più fortunato, senza troppi scrupoli circa i mezzi per raggiungere il successo. Beffe e giochi d’astuzia fan ridere e attraggono simpatia, anche se sono a scherno della religione (ser Cepparello ipocrita anche nella Confessione in punto di morte; frate Cipolla,  sfrontato ma allegro sfruttatore della  ingenua fede del popolino nelle reliquie dei santi; Martellino che si finge miracolato per gabbare la folla; la favola dei tre anelli che pone in dubbio la verità della religione cristiana...) o della correttezza sessuale (qui, non si finirebbe più di citare).

Ma, in controcanto, stanno le novelle della quarta giornata, con qualche amore infelice che giunge al suicidio. Esse sono la manifestazione umana, troppo umana dell’incapacità a far fronte  alle due tentazioni più solite della vita umana, quella del piacere (amori illegittimi) e quella della sofferenza (imprevisti  negativi della vita),  una volta che, disorientati nella fede e disabituati a guardare  nella sua luce alle vicende umane, si  ritrovano senza l’aiuto della Grazia:  non riescono  più a far proprie le virtù cardinali, di cui sono parte la temperanza (che regola il rapporto dell’uomo di fronte al piacere) e la fortezza (che rende equilibrati nella reazione al dolore). E gli anni finali del Certaldese furono tristi e doloranti:  mordeva la solitudine lui, che aveva sempre goduto di amori sterili.

A conferma di questa interpretazione  tragica della vita sta una nuova forma metrica, la “disperata”, unione di due o più “rispetti”[1]. Antonio Beccari da Ferrara (1315-1373ca), poeta girovago sempre a corto di danaro, non canta solo disperazione amorosa, ma giunge a maledire la vita. Simone Serdini (1360-1419|20), non compone solo “disperate”, ma  si augura l’inferno e finirà suicida in carcere. Anche senza tale schema metrico, abbiamo personalità letterarie disequilibrate od estremamente drammatiche: da Giannozzo Sacchetti, che finisce condannato a morte a Firenze, a Pietro dei Faitinelli (1280ca- 1349) ed a  Francesco di Vannozzo (1340ca- dopo il 1389) che polemizzano contro la propria sorte e la società. Contro la fortuna scrivono (e talora bestemmiano) anche Fazio degli Uberti (nato a Pisa fra il 1305 e il 1309- morto a Verona nel 1367), Bartolomeo di Castel di Pieve, Antonio degli Alberti (1356ca-1415)...Contro la decadenza del secolo ha parole di fuoco anche Santa Caterina; piange e freme anche il figlio dell’Alighieri, il sacerdote Pietro. Un secolo di divertimenti e di grida disperate, di evasione e di richiami drammatici.

Il personaggio, però, più emblematico nei due sensi è sempre il Petrarca. Il Canzoniere è quasi un diario intimo,  cioè non delle sue peripezie esteriori, ma dei suoi stati psicologici: e ci testimonia dell’oscillazione continua fra la gioia della attesa corrispondenza di Laura e la delusione del suo rifiuto; fra  la sognata conquista d’amore e il rimorso per la coscienza del peccato. Anche qui, il “Secretum” conferma in prosa latina quanto le rime dicono in versi italiani: il cuore di Petrarca  è inquieto, perchè è diviso fra le direttive di una fede serenamente presente e la constatazione di una condotta tristemente aberrante. Egli descrive la sua anima che “or ride or piange, or teme or s’assecura”; che “si turba e rasserena”, che vorrebbe “cangiar questo mio vivere dolce amaro” . Egli si lamenta della sua incapacità a liberarsi dal giogo d’amore in sonetti famosi (“L’aspetto sacro della terra vostra” :Canzoniere, 68; “Io son sì stanco sotto il  fascio antico”, 81); e prega pentito per ottenere il perdono (“Padre del ciel, dopo i perduti giorni”: 69; “Tennemi Amor anni ventuno ardendo”: 364; “I’ vo piangendo i miei passati tempi”: 365; “Vergine bella, che di sol vestita”: canzone, 366). D’altronde, tutti i versi dei Trionfi sono un tentativo di celebrazione di valori effimeri e un rimpianto della loro inconsistenza.

E di tutti gli scrittori del secolo XIV, l’unica che esprima uno spirito epico è Caterina da Siena, cioè la donna eccezionale, che come santa non è nè medioevale nè rinascimentale: è cristiana e, quindi, capace di tutte le emozioni, adeguate all’orizzonte soprannaturale in cui colloca le vicende della vita terrena. C’è spazio per la contemplazione della Resurrezione di Cristo, per la gloria del Cielo, per la vittoria finale di Dio al di là delle peripezie sconcertanti della stessa Chiesa militante in terra. La gioia del secolo si manifesta invece come comicità ridanciana e banale: anche il capolavoro della  comicità boccaccesca (la novella VI, 10 di “frate Cipolla”), se guardata come espressione  del livello intellettuale ed etico del suo autore e del mondo a lui simpatico, davvero è desolante: siamo  pressappoco in una bolgia infernale, in compagnia di dannati e di  demoni (22, 15: “ma in chiesa| coi santi ed in taverna coi ghiottoni”). Meno volgare Franco Sacchetti, ma anche il suo riso è di una superficialità scoraggiante: manca l’arguzia della battuta intelligente:  i suoi personaggi fan ridere perchè sono ridicoli, non perchè sono comici: sono cioè oggetto passivo, non soggetto attivo di allegria. Le novelle del Sacchetti sono, in realtà, tutti accadimenti di cronaca in cui qualche “babbeo” diverte colla dabbenaggine del suo comportamento: sono personaggi poco più su del livello intellettuale del boccaccesco Calandrino, mentre non compare nessun Buffalmacco e nessun Cisti fornaio a creare comicità alle spalle della credulità od indiscrezione altrui. Anche la vivacità di un Antonio Pucci manca di contenuto adeguato: è troppo univocamente dedito all’ottimismo delle sue relazioni in versi. Sembra sempre il portavoce di una autorità che deve dare una versione celebrativa anche a vicende grigie o perdenti: alla fine il suo tono stentoreo non convince più (anzi, non  ha mai convinto).

 Insomma, a ben riflettere, la letteratura del secolo decimoquarto esprime una umanità  mediocre ed inconcludente: non solo manca corenza tra pensiero e vita, ma manca persino una pienezza di vitalità che si faccia ammirare, anche se non se ne condividono i princìpi che la guidano. Si tratta di personalità mediocri anche intellettualmente: Petrarca fa eccezione, ma in fatto di “carattere”, di forza di volontà, è una frana, sempre tra il sì ed il no, perpetuamente pendolare ed indeciso.

 

Tecnica stilistica.  “Anceps pugna”, anche qui. Si ricorderà che, pel Duecento, si è parlato di una possibilità che la lingua d’oi”l prendesse piede in Italia come strumento espressivo per la prosa: ora tale pericolo è tramontato, salvo che nel Veneto, dove in un ibrido franco-veneto si scrivono le “Geste Francor”.  Ma l’altalena ricomincia nel Trecento fra toscano (trionfante all’inizio del secolo) e latino (che finirà per prendere il sopravvento tanto più quanto più il secolo avanza). Dapprima il culto di Dante ingigantisce e la lingua toscana prende sempre più piede anche in atti pubblici (traduzione dal latino originario di costituzioni comunali, imposizione del volgare per atti da portare a conoscenza del pubblico come bandi, elenchi di merci soggette a dazio...). Così si ha la poesia degli ultimi Dolcestilnovisti, quelli della seconda generazione (Matteo Frescobaldi e lo stesso Fazio degli Uberti, oltre al longevo Sennuccio del Bene) e quella dei vari poeti già citati a proposito della “sensibilità” del secolo. In volgare fiorentino si scrivono le varie “croniche” (da Dino Compagni all’inizio del secolo a Giovanni, Matteo e Filippo Villani fin oltre la metà). Forse  del principio del secolo XIV sono le 309 stanze dell’ “Intelligenza” poema allegorico in nona  rima, che conosce il Roman de la Rose, ma ne imita solo tratti genericissimi,, con motivi ispiratori molto più spirituali. Di Fazio degli Uberti ricordiamo ancora il “Dittamondo”  che, scritto fra il 1346 e il 1367, espone in terzine dantesche la geografia del mondo allora conosciuto.  Nel frattempo, però, il latino assurge a segno di perfezione così alta nella coscienza degli scrittori, da indurre il Petrarca ad affidare la propria fama alle sue opere latine (egli si fa incoronare poeta laureato in Roma per le parti pubblicate del suo poema “Africa”, cioè per gli esametri latini sulla seconda guerra punica). Egli non intuisce che la sua grandezza sta invece in quel Canzoniere, che egli chiama sdegnosamente “Rerum vulgarium fragmenta” (schegge di  cose, di argomenti in lingua volgare); che anzi snobba come “nugae” (sciocchezze, inezie, futilità). Egli  disprezza talmente la lingua “plebea” (questo è il senso latino di “volgare= lingua del vulgus, del popolo analfabeta),  da  coinvolgere nell’oblio anche la Commedia, che si rassegnerà a leggere solo per l’insistenza del Boccaccio. Dopo la lettura, imiterà, nei “Trionfi”, la terzina dantesca: seconda ed ultima sua opera scritta in lingua toscana. Con parabola inversa, Boccaccio dedica le sue ultime fatiche ad opere di erudizione classica, scritte in lingua latina (sulla mitologia antica e sulla nomenclatura geografica ricorrente in opere classiche). D’altronde anche per molte opere scritte in volgare si mantengono titolature latine; in lingua latina vengono stese le note ad esse esplicative (persino per la Commedia di Dante, per mano del figlio Pietro; le annotazioni autografe di Petarca alle  proprie rime, come quelle di Francesco da Barberino al libro toscano “Documenti d’amore”); in latino viene tradotto, da Cristoforo Guidini, il “Libro della divina dottrina” dettato in volgare senese da S. Caterina. Parallelamente al Petrarca, e ad imitazione del suo esempio, si va sviluppando la coscienza  dell’Umanesimo che, dopo un Lovato de’Lovati ed un Albertino Mussato, trova  in Coluccio Salutati , discepolo dell’Aretino, il fondatore: fin verso la metà del Quattrocento, la sola lingua degna di pubblicazione è quella di Cicerone. Sono tutte testimonianze di un contrasto che agisce per dissolvenze incrociate fra le due lingue, terminando in un reale anche se effimero trionfo del latino a livello di persone dotte e di scrittori dotti. Davvero importanti letterariamente saranno, nella prima metà del Millequattrocento, solo le prediche di S. Bernardino; e,  a cavallo della metà del secolo, le settantadue “Lettere” di Alessandra Macinghi Strozzi ai figli in esilio da Firenze (erano avversari dei Medici), che sono appunto l’opera involontariamente artistica di una “non addetta ai lavori”, che usava la penna per scopi pratici, ma con una genialità autenticamente fiorentina (d’altronde furono edite solo nel 1877).

Segno della collutazione-collaborazione fra le due lingue è l’abbandono delle clausole prosodiche, proprie del cursus medioevale  alla terminazione di periodi o loro suddivisioni, nelle prose sia latine che volgari: il latino imitato comincia ad essere quello più aderente agli autori classici che, clausole, ne  usavano, ma più spontanee e, in ogni caso,  non obbligatorie. In compenso, si cerca di imitare il periodare vasto e complesso, comune a Cicerone e congeniale alla lingua di Roma, dove una folla di subordinate attorniano la principale. Anche le inversioni tra soggetto e verbo tipiche del latino si vanno incontrando. A questo risultato si giunge anche grazie alle nuove traduzioni dal latino, fatte da uomini dotati di intelligente capacità di aderire allo stile dell’autore toscanizzato: il domenicano Bartolomeo da S. Concordio (1262-1347) traduce da Sallustio (il Catlinario| il Giugurtino) è forse l’autore più importante per questa svolta nel nuovo stile del volgare trecentesco. Ma anche l’anonimo  traduttore della terza e quarta decade di Tito Livio (a meno che non si tratti di Boccaccio stesso) contribuì alla svolta nella scrittura del volgare, perchè aderisce al testo latino in maniera pedissequa, eccessiva. Anche Alberto della Piagentina traduce Severino Boezio, con  una aderenza al testo originale che giunge fino all’oscurità dell’espressione. Pure interessante, anche se più libera, la riduzione in toscano delle sole “concioni” (discorsi) di  Livio, opera probabile del domenicano fiorentino Jacopo Passavanti (ca 1302-1357)... E’ questa la via che conduce al periodare  più solito del Decàmeron, quando esso è studiato e non spontaneo. Sebbene non si deve credere che tutto procedesse univocamente: la psiche umana è così complicata da poter risultare anche contradditoria. Lo stesso Boccaccio, nelle opere erudite ma in volgare (“Trattatello in laude di Dante”, “Comento alla Divina Commedia”), ritorna al cursus medioevale. Il risultato? Una prosa pesante ed impacciata, ben al di sotto di quella dell’opera maggiore.

La lingua toscana progredisce nel complesso per questo confronto spontaneo con la lingua latina. Si pensi ad esempio ad uno scrittore come il domenicano Domenico Cavalca ( 1270 ca- 1342) che,  alla pari di molti altri, gioca su due scacchieri: quello della scrittura in proprio e quello delle traduzioni. Ebbene, la produzione originale è di una piattezza scoraggiante; viceversa la libera traduzione delle “Vite dei santi Padri” è di una vivacità stilistica accattivante. Ma anche un altro fattore contribuì: l’influsso del parlare senese, che, come capita a S. Caterina in questo secolo ed a S. Bernardino nel seguente, offre una lingua ancora più sciolta e felice di quella degli stessi scrittori fiorentini!

Pure incertezze rimangono: l’uso della doppia piuttosto che della semplice consonante è contradditorio nello stesso scrittore: nella stessa pagina si scrive, ad esempio, “eterno” ed “etterno”. Il gerundio, poi, non è ancora percepito come attributo verbale del solo soggetto della frase: ne nascono anacoluti[2] insopportabili al nostro orecchio, ma quasi universali allora (documenteremo in particolare per Franco Sacchetti). Non si dimentichi, inoltre, che la punteggiatura è ancora quasi inesistente nei manoscritti dell’epoca.

 

Premesse di metodologia particolare. Se dovessimo studiare la letteratura del secolo XIV in base alla intensità della poesia espressa (e isolando Dante,perchè sintesi della cultura del secolo precedente e poeta incomparabile), dovremmo iniziare lo studio con Petrarca e proseguirlo con Boccaccio, gli unici autori “di stacco” rispetto alla mediocrità che accomuna ed appiattisce tutti gli altri versificatori o prosatori del Trecento. Ma questo solito ordinamento finisce per separare troppo da loro gli autori “minori”, che alla fin fine devono essere inquadrati (se non altro per motivi didattici, cioè per facilitare l’apprendimento ed il ricordo) in base a motivi non propriamente estetici, ma genericamente culturali (motivi ispiratori e tecniche espressive). Tanto vale allora che studiamo prima questi autori secondari che, offrendo una panoramica d’assieme della varia vitalità letteraria del secolo, permette di coinvolgervi anche i due “maggior”. Essi per altro verranno studiati soprattutto per la loro connotazione estetica (dimensione che non  sarà trascurata neppure per i “minori”, anzi!). In concreto proponiamo questo schema di lavoro: 

 

B)  SCRITTORI ANCORA LEGATI AL MEDIOEVO: I) Allegorici e didattici.  II) Poeti e scrittori popolareggianti:  a) Poeti popolareggianti; b) Franco Sacchetti (poeta e novelliere); c) Giovanni Sercambi (novellatore e cronista).   III) Cronisti:  a) Sercambi;   b) Vita Coli;   c)Giovanni, Matteo, Filippo Villani;   d) Dino Compagni;   IV) Poeti e prosatori romanzeschi.   V) Poeti e prosatori religiosi.   VI) Poeti che vanno dal morente Dolcestilnovo al nascente Petrarchismo, al preconcettismo (comprendendo anche il prosatore “ser Giovanni Fiorentino”).

C) I PREUMANISTI. D) PETRARCA.   E) BOCCACCIO. 

             

 B) SCRITTORI ANCORA LEGATI AL MEDIOEVO.

 

I) Allegorici e didattici.  Le opere di questi scrittori, precedano la Divina Commedia o siano a lei contemporanee o addirittura sue imitazioni, non meritano più che un cenno. La poesia non vi è assente del tutto, ma è veramente poca favilla cui non seconda alcuna gran fiamma. Il meglio riteniamo sia concentrato in alcune strofe del poema anonimo “L’INTELLIGENZA  (attribuito, ma senza fondamenti persuasivi, a Dino Compagni). L’allegoria fa della Intelligenza una bellissima donna, che l’autore incontra e con la quale visita il palazzo ove essa abita precariamente (cioè l’uomo: definitivamente, essa ha la sua sede in Dio). Il poema imita, spiritualizzandone il fine e le vie per raggiungerlo, il Roman de la rose di Guglielmo di Lorris e Jean de Meung. E’ composto da 309 stanze o strofe in “nona rima”: nove endecasillabi ciascuna, con rima ABABABCCB. I versi validi sono idillici e sono quelli fuori delle preoccupazioni simboliche: sono quelli che descrivono l’incontro del poeta con “Madonna (Intelligenza)”, in un ambiente primaverile che tocca il cuore. Di più affascinerebbe, se la povertà della lingua, la ingenuità dei concetti, la semplicità della sintassi, qualche imperfezione di metro non abbassassero l’effetto lievitante di una musicalità dolce e danzante, basata su una accentuazione giambica notevolmente pura (accenti sulle sillabe pari 2-4-6-8-10) ed un impasto di vocali (tenui) e di consonanti (liquide-nasali-fruscianti) in netta prevalenza. Eccone una stanza in saggio (la terza del poema):

“ed io istando presso a una fiumana,

in un verziere, all’ombra d’un bel pino

(d’acqua viva avèavi una fontana

intorneata di fior di gelsomino)

sentia l’aire soave a tramontana,

udia cantar gli augelli in lor latino;

allor sentio venir dal fin Amore

un raggio che passò dentro dal core,

come la luce che appare al mattino”.

L’Intelligenza dovrebbe essere precedente al poema di Dante: potrebbe anzi appartenere ancora al secolo XIII. E così si dica de Il FIORE, pure precedente alla Commedia: si tratta di 232 sonetti, che sono scritti in un fiorentino fastidiosamente improntati al francese; riprendono il “Roman de la rose”, attenendosi alla sola trama centrale, cioè la conquista della donna amata, nonostante i mille ostacoli che vi si frappongono. Stentata l’espressione, infelice la ictazione degli endecasillabi, goffo l’insieme. Artisticamente se ne salvano (salvo migliore sentenza) i sonetti 52-55 e la prima quartina del sonetto 97. Questa quartina viene attrribuita a Dante in una novella anonima , ma si ritrova invece in un sonetto attribuito a Bindo Bonichi (senese: 1260 ca- 1338). Parlare, perciò, di Dante come autore de IL FIORE non si capisce se dipenda più da insipienza critica o da malizia morale (che vuole ad ogni costo affibbiare a Dante una complicità qualsiasi nella vicenda così poco esemplare di quella povera cosa che è il  “Roman” anche nella forma originaria francese).

IL DETTO D’AMORE  è un’opera incompiuta, di cui ci rimangono solo 480 versi. Questi rimano a coppie  usando la stessa parola: ma si parla di rime equivoche e non baciate, perchè la parola assume due sensi leggermente diversi. Il “DETTO” si rivela per molti indizi opera dello stesso autore del FIORE: ma ne è una redazione molto peggiore, per cui si è pensato ad un primo tentativo o stesura. Vi si cercherebbe invano un alito di poesia, per cui neppure possiamo fare rimandi o citazioni.

DOCUMENTI D’AMORE e REGGIMENTI E COSTUMI DI DONNA sono le due opere rimasteci di Francesco da Barberino (1264-1348). Implicato nelle stesse vicende politiche di Dante, anch’egli dovette esulare (in Francia) dal 1304 al 1314. Entro una tenue cornice allegorica, Amore ed Eloquenza (nella prima), Eloquenza ed Industria (nella seconda) danno gli “insegnamenti” o “documenti” alle donne per amare onestamente e per comportarsi dignitosamente nelle varie condizioni della vita.  I DOCUMENTI sono scritti in metri variati: prevalgono le quartine formate da due endecasillabi e due settenari. I REGGIMENTI sono scritti invece parte in prosa e parte in versi (endecasillabi sciolti prevalenti). L’autore rivela tutta la sua saggezza e rettitudine di animo, ma anche la sua prosaicità didattica, aliena dall’estro poetico. E’ un uomo della generazione di Dante, Dino Compagni, Giovanni Villani, tutti uomini di un senso morale e probità di vita ammirevoli, ma non tutti altrettanto dotati di genialità artistica. Si è già accennato ai due riferimenti alla Divina Commedia presenti nelle due opere (l’una pubblicata nel 1314; l’altra, fra il 1318 e il 1320), che permettono di datare il tempo di divulgazione delle due prime cantiche della Divina Commedia.

L’ACERBA è il poema  di Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli: 1269ca- 1327). Il titolo deriverebbe   dal latino “acervus”, che significa “mucchio, coacervo” (a meno che non sia da interpretare come aggettivo, per il tono “acerbo, amaro, polemico” dei suoi versi). Il poema (interrotto all’inizio del c. 5) vuol costituire un’enciclopedia scientifica di nozioni sui cieli ed i loro influssi sulle proprietà di animali, piante e pietre; sulle virtù morali e le forze (fortuna, amore) che dominano la vita umana: alchimia ed astrolgia vi hanno parte. Divulgatore informato ma ingenuo, non superiore ai mille errori pseudoscientifici del suo tempo, si rivela credente e moralista, ma legato ad un astrologismo deterministico, a cui è sacrificata la libertà umana. Temperamento polemico, aggressivo (pare che se la prenda anche con Dante, come divulgatore di favole: “qui non si canta al modo delle rane”), finì sul rogo nel 1327 a Firenze. Dispiace la misura eccessiva, ma nè la scienza nè la poesia hanno perso alcunchè di valido: è una fortuna che l’opera si fermi all’inizio del canto quinto. Arido e disordinato verseggiatore, povero catechista di dottrine donferrantesche, impulsivo don Chisciotte che combatte la poesia vera in nome di una scienza falsa, aveva tutte le qualità per riuscire antipatico ad ognuno e trovarsi indifeso di fronte ad una macchinazione montatagli contro da medici e politici non meno che da ecclesiastici ed umanisti.

Il DOTTRINALE è di Jacopo Alighieri, il figlio notaio del poeta, chiosatore mediocre dell’Inferno (attento, più che altro, al senso allegorico) e compositore dei sessanta capitoli in tremilaseicento settenari a rima baciata che formano il “Dottrinale”, poema o trattato di scienza e morale,versificate senza estro nè scioltezza.

Il DITTAMONDO è opera di Fazio degli Uberti, il discendente della grande famiglia ghibellina scacciata da Firenze. Nacque a Pisa fra il 1305 ed il 1309, morendo a Verona dopo il 1367. Girovago per le corti d’Italia, dedicò molta parte della sua vita e dei suoi versi alla restaurazione dell’autorità imperiale in Italia (canzoni a Firenze, a Ludovico il Bavaro ed a Carlo IV).Altre poesie (amorose) le esamineremo a suo luogo. L’opera più nota deriva il titolo dal latino “Dicta mundi”, cioè “detti (notizie) sul mondo”, perchè il contenuto dei 6 libri è geografico. Il poema è incompiuto ed imita chiaramente quello di Dante. Consigliato dalla Virtù ed accompagnato da Solino, geografo dell’antichità greca, egli visita i tre continenti allora conosciuti, incontrando altre figure di scienziati  (Tolomeo, Plinio il Vecchio...) allegorizzate; e visitando città (come Roma) che legano le descrizioni sull’Europa, l’Asia e l’Africa a digressioni morali e religiose (polemica contro la corruzione della Chiesa, l’inattività dell’imperatore nei confronti dell’Italia...). Il lavoro è in terzine dantesche; il verso è scorrevole e dignitoso: ma qui finiscono i suoi meriti. Difatti le preoccupazioni didattiche bloccano ogni possibilità di lirsmo (o, forse, meglio: l’assenza di estro poetico riduce a insegnamento metricamente disposto la materia scientifica o leggendaria). Ma il pensiero è lento, il contenuto è generico e il lettore si stanca. Si salvano alcune descrizioni di paesaggi italiani.

IL QUADRIREGIO è un’altra imitazione  del poema dantesco, che ha presenti però anche i “Trionfi” del Petrarca, “l’Amorosa visione” del Boccaccio e il “Roman de la rose”. L’autore è Federico Frezzi, , nato a Foligno circa il 1346, frate domenicano e vescovo della sua città, morto durante il concilio di Costanza nel 1416. I quattro regni che egli presenta in terzine dantesche sono quelli dell’Amore (descrizione dei suoi errori giovanili e della sua conversione), di Satana, dei Vizi e delle Virtù: come il primo libro risente del Roman de la rose, così il seocndo ed il terzo riecheggiano l’Inferno dantesco, mentre al Paradiso si ispira più particolarmente l’ultimo. Dobbiamo ripetere il giudizio pronunciato per il Dittamondo: versificazione scorrevole e facile; assenza di partecipazione emotiva. Egli ha presente Ovidio come fonte di immagini e gli assomiglia per l’inutile abbondanza dell’eloquio.

 

II) Poeti e scrittori popolareggianti  Popolareggiante è lo scrittore che, pur essendo dotto (e sapendo, eventualmente, scrivere anche in stile raffinato), si atteggia tuttavia ad imitatore dei giullari e cantambanchi,  quali abbiamo trovato già nel secolo precedente. La definizione non ha nulla di sociologico, non nasce cioè dall’ambiente in cui è cresciuto e si è formato il poeta o scrittore: si tratta solo di una definizione basata sullo stile adottato. Ad esempio Antonio da Ferrara, Francesco di Vannozzo e Simone Serdini furono poeti ambidestri, pur vivendo nelle corti e scrivendo anche versi aulici: ma siccome sono migliori i versi estemporanei di stampo giullaresco, noi li studieremo in questo capitolo. Se poi uno scrittore compone anche prosa (novelle, ad esempio), si troverà    catalogato in base alle sue migliori scritture (Franco Sacchetti merita fama più per i versi che per le novelle). Giovanni Sercambi, infine, lo ricordiamo in questo gruppo, perchè tutte le  sue prose sono scritte con una sorprendente  elementarità e rozzezza: egli sa, d’altronde, di essere un uomo semplice, non letterato: geniale nelle doti politiche, ma dilettante  nel maneggio di carta penna e calamaio.[3]  Ma cominciamo dai poeti, riferendoci alla antologia di “Poeti minori del Trecento”, edita ne “La Letteratura Italiana- Storia e testi”-, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1952.

                       

1. ANTONIO PUCCI. Fiorentino, visse dal 1310 ca al 1388: fu campanaro, banditore del Comune, gran compositore di versi, ma autodidatta: a metà strada fra la rozzezza dei cantambanchi e la raffinatezza dei poeti colti. E’ il più tipico fra i poeti popolareggianti dell’età sua, per la profusione di versi e per un loro livello che raggiunge talora anche la  sufficienza. Molti i campi in cui cimentò la sua musa: compilazioni storico-cronachistiche come il CENTOLOQUIO (riassume, in  91 canti di terzine dantesche, la Cronica di G. Villani), e   LA GUERRA DI PISA (sette “cantari” in ottave); i SIRVENTESI sulla inondazione dell’Arno (1333), sulla cacciata del Duca d’Atene (1342), sulla carestia (1346) e sulla peste (1348); composizioni sulla sua Firenze, come LA PROPRIETA’ DI MERCATO VECCHIO (in terzine dantesche) e il CAPITOLO sulle belle donne di Firenze; versi religiosi (laude) o moraleggianti; sonetti occasionali: gnomici, educativi oppure su avvenimenti comici o di evasione (sonetti sulle NOIE), o di malizioso divertimento (CORONA DEL MESSAGGIO D’AMORE); cantari leggendari o romanzeschi, cioè poemi in ottava rima, di materia cavalleresca o mitologica da “cantare” al popolo sulle piazze (APOLLONIO DI TIRO, GISMIRANTE, BRITO DI BRETTAGNA, MADONNA LIONESSA, REINA D’ORIENTE).

Più che analizzare le singole opere, accenniamo al “registro lirico” più congeniale al Pucci ed a qualche brano particolarmente riuscito in quello od altro tono emotivo. Ebbene la tonalità di fondo è tendenzialmente grandiosa, epicizzante: sembra di udire il brav’uomo declamare al pubblico i suoi versi che cantavano vicende del passato, sullo stesso tono di voce con cui annunciava le decisioni e gli ordini del governo comunale. Ma non è l’unica nota  in cui si provi: c’è anche lo scherzo, la comicità che affiora in sonetti occasionali (contro seccatori che lo richiedono di versi, contro il pollivendolo che lo ha gabbato, contro il barbiere scorticatore...), oppure nella celebrazione di alcuni aspetti più folcloristici che dignitosi di Mercato vecchio. Rara la elegia (nel finale del sonetto sulla educazione dei figli: “Quando’il fanciul da piccolo scioccheggia”, dove prende in considerazione il caso del fallimento dell’opera formativa). Più facile l’idillio, seppur sempre superficiale, appena accennato. Se ne troverà nei cantari specialmente: questi sono delle vere cantafavole, cioè ottave costruite con un’armonia metrica  discretamente scorrevole che   tentano di creare, qualunque sia la materia (sia di passione amorosa che di avventure cavalleresche) una atmosfera di favola, di danza cullante, di visione soporifica. La spiegazione ci sembra risieda proprio nel ritmo giambico quasi sempre  riuscito negli endecasillabi delle ottave. L’accentuazione alterna (una sillaba accentata e una no) è abbastanza puntuale e crea un’onda di regolarità che concilia il “sogno ad occhi aperti”,  accennando ad un’aura onirica: nel contesto, s’intende, delle rime e dell’impasto, dolce quanto al consonantismo delle parole. Il motivo delle imprese cavalleresche (cui l’eroe deve di solito sottoporsi per meritarsi la donna del cuore) è, di per sè,  favorevole al piglio epico, così come la forza delle vocali, che nel Pucci sono più facilmente quelle larghe, specie in posizione ictata. Eppure la forza degli avvenimenti e di una parte della musicalità verbale viene quasi ovattata, perchè avvolta, fasciata in una confezione soave di incanto, di sogno, di evasione. Non che si giunga ad intensità liriche sublimi, di idillio estatico: le componenti epiche accennate non riescono a fondersi con quelle idilliche, soprattutto per la mancanza di padronanza definitiva della espressione. Rimane una certa difficoltà alla scorrevolezza per parole ora deformate(“dimoro”, dimora) a far rima; ora pressapochiste (“t’aterò” , “ti aiuterò”) per  far ritmo; ora popolareggianti (“giogante”, gigante) per far allegria. Ma va anche detto che Pucci sembra avere  eccessiva fretta: gli episodi sono troppo celeri ed inverosimili: si intuisce facilmente non solo come andranno a finire (la vittoria dell’eroe), ma anche con quali poche mosse stereotipe si concluderanno (il primo colpo, in un duello, è favorevole al “cattivo” che riduce l’eroe buono a pericolo di morte; il secondo, rovescia la posizione e dà la vittoria al protagonista simpatico).  Così si svolge (nel giro di due strofe o poco più) ciascuno degli scontri di “BRITO DI BRETTAGNA” con i vari difensori dello sparviere del re Artù, che egli deve portare alla donna che ama, per averne la corrispondenza: il pensiero della donna, immancabilmente in ogni duello, gli dà la forza per riaversi e vincere. Ecco l’ultimo (vv. 329-344):

“E ferirse l’un l’altro colla lancia

sì forte che le rupper negli scudi,

e poi che dato s’ebbon cotal mancia,

miser mano alle spade i baron drudi;

e l’uno e l’altro non pareva ciancia

quando si riscontrar co’ ferri ignudi;

e  ’l baron per tal forza Brito offese

che dell’elmo tagliò quanto ne prese.

                        E Brito si ricordò su quell’ora

                        di quella donna per cui amor fa questo,

                        di che el rinvigorisce e risan’ora,         

                        e con la spada in mano ardito e presto

                        ferìe ’l  baron sì che, sanza dimora                                                   

                        in sulla terra cadde manifesto;

                        volendosi levar a questo tratto,

                        e Brito smonta e anciselo affatto”.

La strofa seguente rivela la “fretta” che urge il Pucci a concludere senza troppi fronzoli la avventura  E poscia se n’andò ritto alla stanga

e tolse lo sparvier, la carta e i cani,

e partendosi disse: -“A Dio rimanga

lo re Artù coi suoi baron sovrani!”-

E tutta quella corte par che pianga

ch’un uom così gaiardo s’allontani.

Licenziato dal re che se ne vada,

              vettorioso tornò a sua contrada. (vv.345-52).

. Questi “intoppi” sono il frutto del troppo comporre e insufficiente limare: ne  risulta una versificazione che si fa tollerare, ma senza affascinare. Il poemetto è definito da 368 endecasillabi, in 46 ottave. Siamo lontani, dunque, dall’Ariosto, che trovò una aliquale armonia tra episodi epicizzanti ed atmosfera sognante, a forza di perfezionare il linguaggio, la musicalità, la scorrevolezza; e seppe prolungare e variare i particolari dei duelli e degli incidenti cavallereschi. Qui il lirismo rimane incipiente, il volo è quello di un gallinaceo: i difetti verbali urtano e impediscono di  sognare, perchè richiamano allo sforzo della versificazione anzichè trascinare all’oblio della realtà.. Non mancano, naturalmente, composizioni intere o passaggi mal riusciti. Annoianti sono talora le  fredde e sentenziose “Noie” (terzine); non interessanti le “Bellezze della sua donna” ( SIRVENTESE tetrastico, che sarà ulteriormente  elaborato nel Quattrocento: quartine formate da un endecasillabo libero, da un altro rimante col settenario seguente, con l’ultimo endecasillabo rimante col primo della quartina successiva: ABbC| CDdE| EFfG...).[4]

 

2. ANTONIO DA FERRARA (“del Beccaio” o “de’ Beccari”). Il Petrarca lo definì “uomo non cattivo, ma stravagante”: troppo adeguatamente! Nato a Ferrara nel 1315, fatto studiare dal padre, si lasciò trascinare dalla passione del gioco, che lo costrinse a girovagare di corte in corte per tutta Italia, componendo versi politici a servizio dei mecenati del momento. Riesce però artista molto più convincente nel canzoniere autobiografico, in cui il dramma della “disperata” (“Le stelle universali e ‘ciel rotanti”) è meno convincente, anche se più blasfemo,  che non le invettive di Cecco Angiolieri, cui si ispira. Almeno due sonetti, però, di compassionevole autoironia (“El me ricorda, cara mia valise”| “Antonio mio, ben vedo che le spise”) e quello violento contro Carlo IV imperatore, che trascura l’Italia (“Se a legger Dante mai caso m’accaggia”) sono discretamente felici. Cortigiano di professione, è popolaresco (fino alle forme dialettali) di espressione.

 

3. PIETRO DEI FAITINELLI. Visse fra il penultimo decennio del sec. XIII e il 1349. Era lucchese e fu esiliato da Uguccione della Faggiuola: potè rientrare in patria nel 1331. Poeta occasionale, è di una sincerità accattivante, anche se di una approssimazione metrica e musicale che denunciano un toscano “marginale” rispetto a cittadini di Firenze o di Siena, le due città della maggior genialità linguistica. La sua ispirazione è quella olemica. E’ innamorato? Scriverà sonetti contro la perfidia delle donne (“In buona volontà non m’è avviso,| avvegna ch’ello piaccia alla Scrittura,| che femmina pur veggia il paradiso...”). Fa politica? Assalirà i nemici colla falange dei suoi versi pungenti (“Veder mi par già quel della Faggiola...”| “...Chi Uguccion prenderà, pur non l’uccida,| ma menilo a Firenze per prigione...”). Si deve lamentare per la corruzione del mondo? Contesterà la Provvidenza e giurerà di farsi musulmano per protestare contro la ingiustizia che regna sulla terra! Solo quando pensa ad un possibile rientro in Lucca, il suo dramma sale di tono e diventa quasi epopea (“S’i veggio in Lucca bella mio ritorno...”).

 

4. PIERACCIO TEDALDI. Fiorentino (1290-1350 ca) e nobile, fu a lungo ufficiale di Firenze in Romagna. Ci ha lasciato un canzoniere di circa quaranta sonetti: sono autobiografici.  Si ispira  all’amore, alla  scarsezza dei mezzi economici, alla inconsistenza delle amicizie, ai vari guai della sua vita; ma polemizza anche contro la corruzione della società e sa pregare in versi. Nel lamento sulle proprie miserie è per lo più autoironico; nel lamento dei costumi del proprio tempo è invece drammatico. Una  certa tenerezza, tra idillica ed elegiaca, si esprime nella invocazione della Vergine. E’ degno di nota la “crescita” stilistica della sua espressione. I primi sonetti rivelano la sua bonaria popolanità borghese, con una  sonorità badiale nella plebea prevalenza di vocali larghe, anche in quei contesti (amore, lamento) in cui il sentimento suggerito sarebbe quello o idillico od elegiaco e l’impasto musicale quello dolce e lieve. Con l’esercizio egli giunge a raffinarsi e migliorare: ma non oltre un certo segno.


[1] Il “RISPETTO” è una forma metrica (di origine)  popolare  composto da una quartina  di endecasillabi a rima alterna (ABAB) seguita da uno o due distici di endecasillabi a rima baciata (CC|DD). La forma ad otto versi corrisponde ad uno dei tre schemi possibili di “STRAMBOTTO”, con cui il “rispetto” è spesso confuso.L’argomento di entrami è quello amoroso, per lo più: il “rispetto” esprime un senso di venerzione e riverenza verso la donna. Che caratterizza la “DISPERATA” è il motivo ispiratore, solitamente la delusione amorosa per l’abbandono della donna amata: la sua forma metrica è quella di un “doppio rispetto”, ma potè esprimersi anche nella forma di “canzone regolare” o di “CAPITOLO ” (componimento in terzine dantesche, come i “capitoli” dei “Trionfi” di Petrarca: dapprima destinato ad argomenti o motivi ispiratori diversi, dal Berni in poi rimase riservato all’argomento burlesco). LA “NONA RIMA” è la strofa (stanza) di nove endecasillabi, rimanti in ABABABCCB.

[2]Anacoluto” deriva dal verbo greco “colùo” che significa “recido, lascio senza seguito”  e più direttamente, dal composto “anacoluthéo” =non seguo, lascio senza conseguenza”. Già i greci conoscevano l’ “anacòluthos” nel nostro senso di “inconseguente” e, quindi, di “irregolare, erroneo” in generale. In concreto si ha anacoluto quando si inizia il discorso con un soggetto e lo si continua con un altro. L’anacoluto può,  in qualche caso,  risultare  liricamente espressivo di uno stato emotivamente agitato ( drammatico, commosso, ironico). Famosi anacoluti artistici  sono in Machiavelli “quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui” (Letetra a Fr. Vettori); in Cellini (“Il primo che esce di bottega, l’altro corra per il confessoro, chè il medico non ci arà che fare” (Vita: c.); “Io, la mia patria or è dove si vive..” (Pascoli, “Romagna”); “Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro” (Manzoni, c.36). Di anacoluti a causa dell’uso improprio del gerundio abbiamo già documentato a proposito del Novellino e altrettanto faremo per le Novelle del Sacchetti e pel Decàmeron.

[3] Nel sec. XIV  si complicano alcuni schemi  metrici e ne nascono dei nuovi. Tra i primi vi è la  BALLATA, che si era già ingentilita per opera dei poeti bolognesi, toscani, specialmente dolcestilnovistici, sul modello della canzone, assumendo la strofa anche il nome di “stanza”  e, le mutazioni, quelle di  “piedi” e di  “volte” . Essa trova nel Trecento una grandissima fortuna, contrastando il primato alla canzone ed al sonetto sesso.  Riportata dal Magnifico Lorenzo e dal Poliziano alla sua struttura popolare, ha una rifioritura fino alla prima metà del Cinquecento, quando esce dallo orizzonte dei laboratori metrici. Ritornerà, ma solo di nome, col romanticismo: allora deriverà dalla “ballads” scozzesi e sarà un genere lirico- narrativo, che svolge spunti di carattere leggendario. In Italia arriva attraverso la mediazione tedesca: famose saranno le due ballate di Gottfried August Bu”rger (Eleonora| Il cacciatore feroce) tradotte da Giovanni Berchet nella Lettera semiseria  di Grisostomo, del 1816. Esse daranno il via alle ballate romantiche nostrane che vanno dal Berchet stesso a Luigi Carrer, da Tommaso Grossi a Giovanni Prati, dal Carducci al Pascoli e D’Annunzio.  Entra, poi, nella poesia d’arte, il “MADRIGALE” , composizione d’origine contadinesca, nato come idillio pastorale ed amoroso, che assume una forma metrica fissa: due terzine (od anche tre)  di endecasillabi che sono chiusi da un distico a rima baciata. Gli endecasillabi delle terzine rimano da una strofa all’altra, secondo lo schema: ABCABCABC. Nel Cinquecento lo schema metrico viene liberalizzato al massimo e si introducono anche settenari: era una composizione che doveva esprimere una gentilezza (amorosa o meno), un complimento, una arguzia (battuta, delicata però). Torquato Tasso ne ha di eccezionalmente riusciti. Il madrigale si sposò alla musica proprio nel Trecento:  una alleanza che doveva avere durata lunghissima e fortunatissima. Il Madrigale finì per assorbire la “villanella o villotta” (distico di endecasillabi a rima baciata, con eventuale altro endecasillabo libero).  Nel Trecento nasce anche la “FROTTOLA” (le prime conosciute sono quelle di Fazio degli Uberti, Francesco Vannozzo, Franco Sacchetti): alla varietà del metro corrisponde la  capricciosa e divertente combinazione di  temi. Nel secolo seguente, mentre il contenuto rimane leggero e comico, fino alla scurrilità, lo schema metrico si definisce (endecasillabo con rimalmezzo; distico caudato, continuo o concatenato). Si diffonde, infine, il genere della CACCIA, composizione nata in Francia. Fisso è solo l’argomento (oltre a quello denunciato dal nome, può essere anche la scena di un festino, di un tumulto, di un incendio...). Nasce assieme alla musica: è tipico componimento per canto (a due voci alterne, con eventuali intermezzi solo strumentali). Franco Sacchetti ed il Poliziano diedero lustro a questo genere.

[4] Il SIRVENTESE nacque in Provenza già nel secolo XII, per trattare argomenti civili, politici, religiosi e morali: argomenti gravi, insomma. Di tale tematica, sono noti per l’Italia quello “romagnolo” contro Carlo I d’Angiò e quello “dei Geremei e Lambertazzi” del 1280. E’ andato perso quello di Dante per le sessanata donne  più belle di Firenze. Passato in Italia ad argomenti amorosi, nel secolo XIV fu usato dal Pucci, dal Serdini; nel XV, da Leonardo Giustinian. Le sue forme metriche ebbero una evoluzione, mantenendo ferma solo la regola della concatenazione nelle rime: sirventese duato (distici monorimati, con versi di varia estensione: dall’ottonario all’alessandrino o doppio settenario;); sirventese incatenato (terzine variamente rimate); sirventese incrociato (quartine di endecasillabi a rima alternata: ABAB, CDCD...). Finirà assorbito dall’ottava di endecasillabi.

 

5. FRANCESCO DI VANNOZZO. Nato a Padova da famiglia aretina (1340 ca-dopo il 1389), fu un caso tipico di poeta cortigiano, una figura più diffusa nell’Italia settentrionale. Fu giullare a Padova, Venezia, Boglogna, Verona. Scrisse rime politiche: la più notevole è la collana di otto sonetti (“Cantilena pro Comite Virtututm”) per invitare Gian Galeazzo Visconti (conte di Virtù) a placare con la sua autorità le lotte fra le varie signorie. Ma il suo canzoniere comprende anche  canzoni amorose (si sente ormai l’influsso di Petrarca), frottole giullaresche e sonetti autobiografici. Merita pure ricordo l’averci lasciato il primo  “mariazo” che si conosca: sono versi in dialetto veneto (pavano, cioè  in parlata padovana rustica), in forma di “frottola” col titolo “Se Dio m’aide”. Ne nascerà quella composione per teatro (drammatica) che il Ruzante e Andrea Calmo porteranno a livelli di arte. Ma, in questo prolifico verseggiatore, alla scioltezza e facilità verbale non corrisponde la scorrevolezza e regolarità metrico-musicale. Egli trova con facilità le parole appropriate e felici, ma il loro suono opera da dissolvente all’incanto estetico: vi è una discordanza fra concetti e suoni, tra componenti verbali e accordi musicali. In senso urtante lavorano in particolare le voci venete dissone rispetto al contesto toscano. Si leggano questi versi  di sonetto:“Giravan gli occhi miei di dolor pregni| per voglia di veder quella lezadra| che nuovamente il cuor me piega e squadra| come a lei piace senza troppi inzegni” (ma anche il termine “squadra” è troppo drammatico per  lamento impostato elegiacamente).

 Non parleremmo però di Vannozzo, se non avessimo incontrato composizioni sufficienti artisticamente. Il tono lirico più congeniale è quello drammatico. Si legga la canzone sui diversi stati o professioni degli uomini: sdegno perchè in ogni situazione non vi è che abuso ed egoismo: uomini d’arme che vivono di guerra e vizi connessi; mercanti che rubano, signori che tiranneggiano... Si veda anche il sonetto sulla propria mala sorte. In senso epicizzante è la “Cantilena” degli otto sonetti al “conte di Virtù”. Non manca il viraggio autoironico nel confronto tra la propria misera condizione e i sogni  del suo cuore: “El poder basso col voler altiero...”.

 

6. SIMONE SERDìNI (Siena, ca 1360- 1420 ca). Senese di animo instabile ed ingovernabile (nonostante fosse detto “il Saviozzo”), fu incarcerato in patria, servì presso alcuni signori dell’Italia centrale ma, inprigionato di nuovo, si uccise in carcere (nel Viterbese, a Tuscanella, odierma Tuscania). Le sue rime sono in consonanza col temperamento infelice e tormentato: egli è autore di “disperate”, che solo in parte sono artificiose e assecondano la moda del tempo. Anche i sonetti ed i capitoli, infatti, hanno spesso piglio drammatico.  Non tanto, quindi, la “mediazione letteraria” riduce il valore dei suoi versi, ma la presenza di una drammaticità ancora troppo passionale, impulsiva, arrabbiata, sì che, non decantata, risulta patetica (nel senso dell’enfasi): questa “collera praticistica” gli chiude la via a grande espressione emotivogenetica. Più convincente il rimorso (sempre drammatico, comunque) nel sonetto alla Vergine; e la passione per la libertà comunale (sonetto “Deh, non v’incresca la spesa e l’affanno”).

 

7. BRACCIO BRACCI. Aretino, appartiene alla seconda metà del secolo. Fu poeta presso i Visconti di Milano. Per quanto sia un poeta totalmente “cortigiano”, tuttavia egli, vivendo nell’Italia settentrionale, scrive il linguaggio toscano senza eccessive raffinatezze (voci dialettali o comunque destinate a cadere: “albitrio”, per arbitrio; “resìa” per eresia...); e mette in carta i versi con accentuazioni fastidiose (settima sillaba troppo frequentemente ictata al posto della sesta; iati chiusi a forza troppe volte, per necessità metriche). Per questo lo ascriviamo ai poeti popolareggianti. Fra questi non sfigura: il sonetto contro la guerra detta “degli Otto santi” e la preghiera-lamento per lo scisma d’Occidente lasciano trapelare un dramma sentito e sofferto, nonostante qualche verso ancora scazonte.

 

8. ANONIMI POPOLAREGGIANTI. Nel volume che “La Letteratura Italiana” della Ricciardi dedica ai POETI MINORE DEL  TRECENTO, Natalino Sapegno presenta una serie  di “Testi minori anonimi e popolari” , ordinandoli secondo il motivo ispiratore, la materia trattata (pp. 425-56). E’ un po’ naturale, perchè l’antologia ricciardiana deve esemplificare un po’ tutta la produzione, per dare una idea della  versificazione di tutto il secolo, a scopo di informazione culturale, non di stretti criteri artistici. Noi invece, tra i versi che ci sembrano trasmettere almeno un briciolo di commozione lirica, accostiamo quelli che sono dettati da uno stesso stato emozionale. Così i primi due sonetti da lui riportati (“Per consiglio ti do di passa passa”| “Prima ch’io voglia romperne o spezzarne”) esprimono un “dramma” particolarmente colorato: è l’amarezza compressa che aspetta l’occasione di vendicarsi della Fortuna ingiusta. Ci sembrano opera, perciò, dello stesso autore. Altri due sonetti contro la Fortuna  (“Dimmi, Fortuna, tu che reggi il mondo”| “O pien d’affanni, mondo cieco e vile”) esprimono un dramma meno chiuso, più  candido e lo stile è più discorsivo: non c’è monologo, ma dialogo; non si maledice solamente, ma si interroga; non si parla solo di se stesso, ma della umanità in generale. E non solo la impostazione complessiva, ma le singole parole del linguaggio sono più pure e sciolte e il periodare disinvolto e scorrevole. Anche questi riteniamo di un’unica mano, diversa da quella che ha vergato i precedenti.

La ballata “Se la fortuna o il mondo” tratta lo stesso tema, ma con spirito realistico, anzi cristiano (è attribuita, senza prove sicure, ad un frate Stoppa de’ Bostichi): vi è una serenità che discende dalla esperienza della storia (che ha visto umiliate tante personalità potenti) e dalla speranza cristiana di una giustizia nell’Altra vita; e si esprime la contentezza per la grande “fortuna” di essere uomini e non bruti, di essere intelligenti e liberi, anzichè animali incoscienti.

La canzone “Io son la donna che volgo la rota” tratta dantescamente della Fortuna come Provvidenza: parla lei stessa, difendendosi dalle accuse calunniose. Lo fa con purezza di lingua e serenità di spirito, attraverso cui soffia una lieve aura di poesia.

La canzone “Molti son que’ che lodan povertade” è polemica contro il voto stesso di povertà (oltre che contro quelli che pretendono di osservarlo): ma la espressione è anche qui ragionativa e serena: il dramma è poco, come poca è la poesia.

Come può stare l’idillio assieme all’epopea? E’ una questione che dovremo affrontare studiando l’Ariosto. Ma è un’alleanza che si verifica in tutta la favolistica, anche se ridotta ad un solo sonetto,  che abbia, per di più, una finale sapienziale-educativa. Ecco un esempio:

“Andando la formica alla ventura

si arrivò in un teschio di cavallo,

 il qual le parve senza niuno fallo,

                                                      un palagio real con belle mura;

    e come più cercava sua misura

         le parea più chiaro che ‘l cristallo,

             dicendo: -Questo è ‘l più bello stallo

            ch’al mondo ma’ vedesse criatura-.

Ma quand’ella si fu molto aggirata,

                                                    di mangiare le venne gran disio

                                                    e, non trovando che, si fu turbata;

                 ond’ella disse: -Ancora è meglio ch’io

        mi torni al buco ov’io sono usata

              che morir qui di fame, e gì con Dio.

Così vo’ dire io:

 -la stanza è bella, avendoci vivanda,

                ma qui non n’ha chi non ci reca o manda”.

Il risultato è modesto, ma c’è un po’ di poesia, appunto tra l’epico della narrazione e l’idillio della favola.  Altre volte la trama è così mossa, che il dramma ha il sopravvento (“Un abate avea un suo bel catellino”), fino  a rasentare l’epopea (“Io fui l’ardito Cesare imperiere”: ma si noti l’elegiaco verso finale: “E tutto il mio poter morì in un giorno”).  L’idillio dell’evasione in un mondo da paradiso terrestre, già espresso da Lapo Gianni (“Amor, eo chero mia donna in domìno”) e da Dante (“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”) ritorna, con reminiscenze di Folgòre, nell’anonimo “Io vorria in mezzo al mare una montagna”: è inferiore ai modelli, ma risulta ugualmente significativo, visto che sa creare un principio di idillio nonostante che le rime del sonetto caudato siano basate su 13 “a” e 3 “o” ictate! Più che discreto l’idillio galante del sonetto “S’io potessi far, madonna bella”, così come dell’altro “Ad un altar dinanzi ginocchione” (questo ritenta l’alleanza tra amore e religiosità, ma con minor successo che nei poeti dello stile dolce e nuovo...). Ha un alito di poesia idillica anche il sonetto “Passa per via la bella giovinetta”, che però finisce tetra e drammatica (“Io son colei che cotanti n’accoro”:  che uccido, innamorandoli).

In un mondo di dramma programmatico ci si imbatte con altre composizioni: anticlericalismo esasperato, che rischia di far perder la fede per la incorenza scandalosa del clero a riguardo della ricchezza ( sonetto “Io sono stato e sono ancora in forse”); cinismo disperato è espresso nella ballata: “Di questo mondo ognun si faccia beffe”,| perchè non ci è più nè elle (lealtà?) nè effe (fedeltà?). Di origine politica è il risentimento  di altri vari sonetti:”Nati di pescatori, o gente bretta” (sdegno dei Fiorentini per l’unilaterale pace di Venezia con Mastino della Scala, all’insaputa degli alleati Fiorentini, cui la guerra era costata danari a non finire); “Stan le città lombarde colle chiave” (appello al “conte di Virtù” di molte città italiane, per averlo signore: anche Roma lo vuole!); “Io ho provato che cosa è l’amore” (sonetto contro la tirannia,  male peggiore che l’innamoramento od il mal di denti...).

 

9. RIME PER MUSICA E DANZA. Mentre, delle molte anonime del secolo, i critici riescono pure a riunire un mannello di composizioni sufficientemente artistiche, nel campo invece della versificazione per musica e danza ben poco si salva: speriamo che almeno fosse bella la musica! Nominato è Niccolò Soldanieri, ma egli rovina la galanteria dei suoi versi d’amore con una musicalità stridente o comunque tormentata. Mentre i vocaboli scorrono precisi e il pensiero dei “madrigali”  (pur banale o addirittura volgaruccio) si snoda chiaro e ben definito, la durezza del musicalismo ne compromette la espressione lirica. Qualcosa di meglio è dato trovare in alcune sue compoisizioni più impegnate, di registro satirico-polemico: ma non convincono del tutto neppure queste. In Alessio di Guido Donati avviene una multiforme dissolvenza incrociata: questo versaiolo vuol polemizzare usando versi sdruccioli (parla la monaca fallita che vuol tornare al mondo); o cantare d’amore con suoni sostenuti (“Accese montanine che portate”); o far poesia descrivendo troppo da vicino l’amore fisico, che prende il sopravvento: l’erotismo impedisce di sentire (e, quindi, di esprimere e trasmettere) ogni vibrazione emotiva.

Idillio tenue è nella ballata “Che cos’è quest’amor che ’l Ciel produce”, di Francesco Landini (fiorentino, detto il Cieco degli Organi: fu buon compositore di melodie e anche di versi,talora). Ancora  più intenso è l’idilio del madrigale anonimo “Quando l’aere comincia a farsi bruno”. Parti idilliche mescolate con altre di registro drammatico sono rintracciabili nelle due ballate “Era tutta soletta in un prato d’amore” e “Cantando un giorno in voce umìle e lieta”.

Idillio unito a tono epicizzante si trova in alcune composizioni di esultanza amorosa: “Sì vagheggiavon fiso gli occhi miei” (madrigale); “Ecco la primavera” (ballata di Fr. Landini).

Il dramma è pure frequente. Ad esempio, per temi morali, come nel madrigale: “Non dispregiar virtù, ricco villano”. O ispirato da motivi politici: “Nell’ora cha segar la bionda spiga” (madrigale). Molto frequente anche in materie amorose: “Chi pregio vuol, in virtù ponga amore” (una ballata da rileggersi con altri criteri e sottolineature); “Tutta soletta si gìa mormorando” ( ballata); “Donna già fui gentile innamorata” (madrigale di rivalsa contro l’amante traditore: mi pare sia della stessa mano dell’altro: “Nel bel giardin che l’Adize zinze(= cinge)”, che fallisce per il contrasto fra intento idillico e musicalismo sempre polemico: questa volta, dell’uomo contro la donna fallace); “Un cane, un’oca ed una vecchia pazza” (madrigale: contro la madre che custodisce la figlia; cfr. il simile “Una smaniosa ed insensata vecchia”). Altra sorgente di ispirazione drammatica: l’inverno (“Di nuovo è giunto un cavaliere errante”: madrigale anonimo); la neve (“Straccias’i panni ’ndosso”: madrigale); un incendio notturno (“Da poi che il sole i dolci raggi asconde”: caccia); e lo sport della cacciagione (“Mentre ch’io era in uno arbor montato”: sonetto di Simone Prudenzani, autore di due volumi di versi, il “Savoretto” e il “Sollazzo”: a quest’ultimo appartiene il sonetto).

Terminiamo con un’osservazione già avanzata altre volte. Alcune di queste poesie sono ballate, composte di strofe in sesta rima, che hanno il ritmo puro del giambo latino (o quasi), accentuando pressochè tutte le sillabe pari dell’endecasillabo. A questo modo la composizione  (in genere amorosa) assume un andamento saltellante, danzante: e la galanteria diventa allora scherzo; l’idillio   sfuma nel  gioco. Esaminiamone qualcuna. La ballata “Chi pregio vuol, in virtù ponga amore” può essere letta in due tonalità notevolmente diverse. Se si dà la precedenza al senso delle parole, allora l’argomento concettuale invita alla serietà e tende a spostare  verso il dramma il timbro lirico (si deve amare la virtù, non la donna: i dolcestilnovisti si sono ingannati, chè la donna è una tentazione al male ed è essa stessa corrotta); ma se si segue precipuamente la  cadenza del ritmo, allora la ictazione puntuale su “ (2)-4-6-8-10” fa obliare in una cantilena soporosa ogni significato razionale, per indurre al sogno della favola.  Il  poeta della ballata “Il senno, e bei costumi e lo splendore” non lascia indovinare se parli sul serio (vagheggiamento idillico) o dica per scherzo, anche se stavolta la sorgente dell’equivoco non sta solo nel ritmo: anche il vocabolario pare tradire un’intenzione scherzosa. Difatti, sia questa che l’altra ballata “Io innamorai di una fanciulla all’onda  (che non ha però il ritmo molto puro) paiono anticipare lo spirito del Magnifico ne “La Nencia da Barberino”. Altra ballata: “O donna sanz’amor, fatti con Dio” mostra come non basti il ritmo giambico puro ed il conseguente procedere saltellante del verso a deformare il senso delle parole e dei concetti, se questi non si prestino in qualche misura essi stessi alla ambiguità: la prima strofa si presta al doppio senso (delusione seria o tema della donna  inespugnabile, trattato per scherzo?), ma non le altre due, chè il vocabolario drammatico (“vendetta| punire| follia| crudo...) rivelano tutta l’amarezza ed il risentimento del pretendente rifiutato, che ora si è attaccato ad altra donna. Questa composizione dimostra nel concreto della esperienza poetica, che la parola come concetto ha il predominio nella espressione delle emozioni, mentre il musicalismo è semplice cooperatore o del tutto perdente.[1] Nella composizione (ancora una ballata) “S’io t’ho fallito, donna e’ mi dispiace” ritorniamo all’incertezza della intenzione vera del poeta: è pentito davvero del tradimento di madonna od il suo chieder pietà ha solo lo scopo di riavere la donna in suo dominio? Il messaggio non è univoco, perchè la “langue” generica non si trasforma in “parole” del tutto specifica: dramma o scherzo? Il ritmo, qui, ha tutto il suo spazio per far “marameo” al linguaggio. Diamo uno sguardo ad un’ultima ballata: “Fatevi all’uscio, madonna dolciata”. Qui, al contrario che nella precedente, il ritmo (scazonte spesso) non c’entra: la comicità predomina sovrana, perchè due sole cose affiorano chiaramente: il corteggiatore non è un innamorato, ma un  gaudente che vuol conquistare la ragazza;  e questa non deve avere molto sale in zucca, visto che si fa pagare, accontentandosi di doni contadineschi di basso prezzo (anche le ghiande per il maiale, anzi le “giande” per il “porcello”). Non per nulla si dubita che anche questi versi non siano del secolo seguente e precisamente della vena  canzonatoria del Pulci e del Magnifico o del loro ambiente.

Abbiamo così (speriamo) suggerito il capoverso di quelle poche composizioni che val la pena di leggere, se capita l’occasione: le altre collezionate dalla antologia ricciardiana sono a un livello ancor inferiore. Dalla analisi dei versi, si è cercato di ricavare alcune componenti espressive che sono  sorgenti del loro valore-disvalore. A questo modo, dalla lettura di qualche composizione, si può apprendere a risalire alle cause (ad alcune di esse, almeno) del loro fascino (o meno) estetico| lirico| artistico| poetico.

 Passiamo ora ad introdurci alla lettura di quegli scrittori che sono ambidestri, che cioè ci han lasciato opere sia in prosa che in versi. Fra questi troviamo il più grande dei poeti minori del secolo: Franco Sacchetti.

 

10. FRANCO SACCHETTI. Di tutti i minori scrittori del Trecento (e considerando Dante come fuori e sopra ogni paragone) il Sacchetti è uno dei pochi che meritano una trattazione  a sè stante: non tanto per la vastità della sua produzione quanto per la riuscita artistica di alcuni tratti di essa. Egli può competere per il terzo posto fra gli scrittori del secolo, dopo Petrarca e Boccaccio ma accanto a Caterina da Siena, a Dino Compagni, a Filippo degli Agazzari, al traduttore dei Fioretti di S. Francesco.

Nacque a Ragusa (Dalmazia), da padre fiorentino (mercante) e madre bolognese, circa il 1332. Ebbe temperamento sereno, collegabile col suo fisico robusto e florido (come lascia intendere nella novella 112, sornionamente maliziosa). Moderato, amante della pace, ebbe incarichi politici in Firenze sia in tempi quieti che in anni bellicosi. Fu critico sia del demagogismo dei Ciompi (1378: tumulto) che della reazione oligarchica che ne seguì per qualche tempo. Poi, dal 1383 alla morte, venne il suo tempo: al ministero dell’interno (gli “Otto di balìa” per l’ordine pubblico), al governo (“priore”), ambasciatore e podestà. E fu onesto al punto da avere una vecchiaia economicamente disagiata. Altre disgrazie le aveva già sofferte: il fratello Giannozzo- tormentato e mutevole, quanto lui era costante e pacifico- finì giustiziato; un figlio gli premorì nel 1376; perse due mogli, sposandone una terza pochi anni prima della morte, che avvenne nel 1400). Fu uomo di fede: con Lapo Mazzei ed A. Pucci è testimone del permanere di una profonda religiosità nel popolo cristiano di  Toscana,nella seconda metà del sec. XIV.

Delle sue opere, parte sono in versi (IL LIBRO DELLE RIME| La battaglia delle belle donne); parte, in prosa (TRECENTONOVELLE| Lettere| Sposizione dei vangeli).  Specie nel “Libro delle rime” e nel “Trecentonovelle” si incontra qualche scintilla  lirica; in nessuna opera  è dato però trovare una pagina di grande poesia. La migliore composizione in versi è quella universalmente riportata dalle antologie scolastiche: la “Ballata delle pastorelle”. In nesuun’altra delle moltissime rime (ne sono state individuate 309 ed in più il titolo di una diecina andate perdute) gli riuscirà di esprimere tanto rapimento idillico (nelle strofe ove parla il poeta-vagheggiatore) e tanta commozione elegiaca (dove rispondono le “pasturelle”). Delle prose, il meglio è una lettera: quella ironico-snobbatrice che egli scrive a proposito di un ex impiegato del comune, sbandito ed esule a Bologna, che si millantava di saper rientrare in Firenze alla faccia degli Otto di balìa, cui era affidato il compito di incarcerarae i colpevoli. La “sprezzatura” (disinvolta sicurezza) con cui il Sacchetti risponde all’informatore preoccupato, trasforma  l’esule Salvestro di Martino (banditore) in un povero vanesio che “bandendo perdè molto fiato: e ancora a Bologna al prsente pare che sel perda. E venendo a Firenze, forse il perderà affatto; la qual cosa gli sarebbe grandissima grazia, considerando che abbaia per fame, nella quale fame e miseria lo conservi Dio e tutti i suoi pari in saecula saeculorum.Amen”. In nessuna novella il Sacchetti ritroverà più tanta leggerezza di tocco da minacciare quella bagatella che è la pena di morte, come  la via più sicura a perder definitivamente la voce: si rivela qui l’uomo pratico, che è  abituato ad usare il pugno di ferro avvolto nel guanto di velluto...

Viste le due pagine migliori, cerchiamo ora le caratteristiche generali del poetare e del narrare in Sacchetti:  Nelle espressioni versificate, egli tocca un po’ tutti i registri emotivi: vi è spazio per l’idillio, la elegia, la intonazione epicizzante, anche se i toni prevalenti sono quelli drammatico (nella polemica) o comico (dello scherzo). Manca però di coerenza interiore, nei motivi ispiratori e, di conseguenza, nella intonazione lirica. Egli è un distonico a prevalenza vagale, ma non ne è consapevole.  Si abbandona alla spontaneità “oscillante” dei suoi sentimenti e finisce per approdare ad una ambiguità che genera una dissolvenza incrociata fra aspetti diversi del tema assunto e, inevitabilmente, nelle diverse facce  degli stati d’animo sentiti ed espressi. L’ambivalenza, si noti, è presente anche nella ballata capolavoro: ma qui, in un momento di estro particolarmente felice, lo scrittore ha diviso nettamente la duplicità del suo mondo interiore, riservando l’elegia al coro delle ragazze e l’idillio al poeta-ammiratore. Abitualmente, invece, la dissolvenza subentra. Quando, per rimproverare il clero corrotto, egli impiega una preghiera-lamento (nn. 33| 43...), il risultato è un aggrovigliarsi di tristezza elegiaca e di dramma polemico e non supera la mediocrità, anche se i momenti ove prevale il solo dramma o la sola elegia non sono assenti e dettano i versi migliori. Lo stesso alternarsi lo si può trovare nella composizione 114 (Malattia di un amico fuori patria). Altre volte il contrasto è fra il motivo propostosi pel canto e lo stato d’animo del momento. Questo si verifica, ad esempio, quando il poeta vuol cantare d’amore, ma si trova in una condizione sofferta, agitata (ad es. nelle composizioni 50| 52| 87| 89). Egli intende celebrare idillicamente l’amore, ma la lunghezza d’onda più congeniale in lui è quella amara, della ribellione e scontentezza: l’esito è insignificante. Forse, psicologicamente, egli ha avuto il beneficio di placare con i versi d’amore la sua tempesta interiore, ma non di esprimere la gioia della contemplazione.

Tutto il poemetto (quattro cantari in ottave) “La battaglia delle belle donne” soggiace allo stesso compromesso fatale: una battaglia scherzosa, una zuffa tra donne avvenenti (giovani) e deformi (vecchie) all’insegna della caricatura e della canzonatura avrebbe potutto generare dei versi eroicomici (sul tipo che riuscirà ad Alessandro Tassoni ne “La secchia rapita”). “Ma non eran da ciò le proprie penne” (Paradiso, 34, 139). Il musicalismo si equilibra tra la greve pesantezza delle vocali larghe “a” ed “o” (in posizione ictata ed in rima), da una parte; e la dolcezza del complesso consonantico con il ritmo scorrevolissimo, quasi perfettamente giambico  degli endecasillabi, dall’altra. Ma la concezione nell’insieme è povera, priva di vicende concrete interessanti; e mancano descrizioni precise, specifiche (le  giovani donne  sono tutte insuperabilmente belle: ma non sa distinguerne una  dalla veste, dal gesto, da una parola specifica). Talora si crea l’impressione di una allegra sarabanda, di una danza disordinata e indisciplinata: siamo alla presentazione delle brutte streghe.  In genere il contrasto fra codice e messaggio , fra idee e musica, elide la poesia. E’ un poemetto che leggono (una sola volta!) gli addetti ai lavori: per scrupolo di documentazione, non per interiore godimento.

Anche dalla struttura del suo linguaggio si può arguire il limite della personalità e del poetare di Franco Sacchetti. Nei suoi versi si affollano sostantivi concreti e verbi operativi, mentre scarseggiano avverbi, aggettivi e verbi intransitivi. Questo particolare lascia sospettare un temperamento  fattivo, dinamico, pratico: la poesia e la narrazione sono per lui un “hobby” marginale. Egli stesso, d’altronde, nel Proemio al Trecentonovelle, si definisce “uomo discolo (materialone) e grosso (incolto)”. Noi preferiamo dirlo  un dilettante di troppo facile contentatura letteraria.

Ed eccoci alla prosa delle novelle. Delle trecento scritte, a noi ne sono giunte solo 223 e non tutte intere. Sono brevi: questo conferma quella tendenza alla concretezza e praticità propria della personalità del Sacchetti: vi è una certa fretta di dire, per giungere alla conclusione moraleggiante che ne è la matrice prima. Le sue novelle sono strumento di passatempo sereno e di ammaestramento sapienziale: non ha la pazienza nè il gusto per l’inquadramento psicologico, lo studio dell’ambiente, la convergenza del contesto  sul particolare comico o sulla battuta intelligente: questa dimensione, ovviamente, costituisce la molla del sorriso, ma rimane isolata, nuda  e cruda e, per ciò stesso, meno efficace. Brevità a parte, vi è un altro  tratto comune alle novelle del Sacchetti: nessuna è inventata o fabulosa; si tratta di aneddoti reali, della cronaca (fiorentina , per lo più.), con tanto di nomi e di località (di solito). Queste due caratteristiche (brevità e storicità) rendono facilmente memorizzabili e raccontabili le sue novelle; alcune, quelle più ridevoli, sono “citabili” con sicuro effetto di ridestare il divertimento. Ma ci si accorge ben presto che l’arte dell’autore è quasi inesistente. Certo egli non annoia con  balorde trame di magia o di  inverosimile  invenzione o con  fantastiche peripezie amorose, come fa il Boccaccio in  qualche sua  “sbalorditiva” novella che non finisce più. Ma l’infecondità inventiva degrada  la narrazione degli stessi aneddoti raccolti: la ridicolaggine  di certi comportamenti (e l’obnubilamento intellettivo che vi sta dietro) o la comicità di certe osservazioni (con l’acutezza intellettuale che rivelano) è di altri: egli fa da semplice magnetofono. Anzi fa da relatore piuttostto “riducente” e mai arricchente: depaupera la potenza comica del fatto. E’ un caso parallelo a quello di Giulio cesare Croce[2] che, scrivendo le vicende di Bertoldo e del figlio Bertoldino, riesce a sorprendere (con le  trovate del contadino dalle scarpe grosse ma dal cervello fino) finchè lo soccorre l’originario medioevale “Dialogus Salamonis et Marcolphi” che egli liberamente rielabora; quando deve inventare da sè, allora le battute non tengon più botta e l’interesse scade.

La fretta e il dilettantismo si possono notare anche dal mutare del tempo narrativo dei verbi, col passaggio facile dal presente storico al passato remoto nella stessa novella; dalla trascuraggine del vocabolario (la novella undecima infila 26 volte il verbo “dire” nel corso di una pagina o poco più) e della sintassi. Di quest’ultimo pressappochismo si danno almeno due casi frequenti. Da una parte, la congiunzione “e” la si ritrova dove meno ci vorrebbe: “passando una forese, o trecca, con un paniere di ciriege in capo, e il detto paniere cadde”  (novella 17). Dall’altra, l’insensibilità abituale del Sacchetti all’uso del gerundio secondo il “genio” dellalingua toscana, che fa di questo aggettivo verbale un attributo obbligato del solo soggetto della frase in cui viene a trovarsi. Egli invece lo attribuisce normalmente a soggetto di altra proposizione (della sovraordinata, di solito). Questo capita di frequente nelle titolature delle novelle (anche per questo, di non facile comprensione, talora). Si veda ancora questo caso della novella 12: “Costui (è Albero da Siena, per il quale si veda Inferno, 29, 109-120)... accattò da un suo vicino un ronzino, sul quale salendo suso e andando insino alla porta, come là giunse, il ronzino si cominciò a tirare addietro...” I gusti del Sacchetti sono poco raffinati: sebbene le novelle sboccate siano molto più contenute che non nel Boccaccio[3], tuttavia esse sono accompagnate anche da un parlare sboccato, di volgarità non oscene. D’altronde le coordinate dominano fin troppo: la ipotassi sembra poco familiare allo scrittore, che in questo si pone all’estremo opposto rispetto al Boccaccio. Lo studio del latino (conosciuto, come documentano lettere d’ufficio) non gli ha giovato molto come complessificazione del pensiero.

Tutti questi limiti non dispensano dal riconoscere che alcune novelle raggiungono una comicità breve ma discreta. La stessa novella 11 (or ora citata per la pesantezza delle 26 voci dal verbo “dire”) presenta il solito Albero da Siena, ingenuo impenitente, che trema di paura, perchè viene accusato per celia dall’inquisitore di esser caduto in eresia,  visto  lo storpiamento  di una invocazione nella seconda parte del Padre nostro, che nella sua pronuncia, attraverso inversioni e tmesi, vedeva trasformato il “(panem nostrum quotidianum) da nobis hodie” in una “madonna Bisòdia” con grave disdoro della fede. Il poveretto si vede già dannato al rogo, mentre l’inquisitore si sta prendendo gioco di lui. Altra volta la novella attinge momenti di tenerezza deamicisiana (la 90sima: un messer Ridolfo costringe un calzolaio saccente a riconoscere i propri limiti, con parole patetiche di pentimento). Le novelle 88, 195 e 202 splendono per una saggezza sorprendente e divertente, quando tre popolani si difendono dalle prepotenze di uomini nobili con trovate ingegnose ed irresistibili.


[1] Una casistica ancor più convincente in proposito la si può riscontrare nella possibilità di un uso non drammatico (epicizzante, meglio ancora) del verso “DECASILLABO” che, col suo andamento anapestico (due sillabe non accentate che gravitano sulla terza ictata), musicalmente tende ad esprimere epopea o almeno dramma concitato. Si vedano i casi classici Berchettiani (“L’han giurato: li ho visti in Pontida”) e manzoniani (“S’ode a destra uno squillo di tromba” del “Carmagnola”; e “Soffermati sull’arida sponda” del “Marzo 1821”). Ma avremo modo di trovare l’uso del decasillabo in versi elegiaci o d’altro registro lirico nel “Marco Visconti” di Tommaso Grossi ed in altre composizioni romantiche.

[2] Giulio Cesare Croce (1550-1609) nacque da famiglia di umili fabbri; aiutato da  persone benestanti, compì studi irregolari e fino al 1575 visse tra l’antico lavoro della famiglia e quello di cantastorie a Bologna. Datosi alla sola seconda professione, visse tra successi popolari nelle fiere, mercati ecc., ma sostanzialmente nella povertà. A lui si attribuiscono più di quattrocento operette tra edite e non, in lingua e in dialetto. Le cose principali sono appunto i due libri “Le sottilissime astuzie di Bertoldo” (1606) e “Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, figliuolo del già astuto Bertoldo” (1608). E’ uno dei pochi scrittori  di ispirazione davvero popolare.

[3] Benedetto Croce  riconosce che il Sacchetti, inferiore come narratore,  è superiore come uomo al Boccaccio (“sta sopra di lui ed è più di lui uomo intero”: “Poesia popolare e poesia d’arte”, Bari, Laterza, 1957, p. 99). Tralasciamo per ora le motivazioni di tale onesto giudizio, perchè ne tratteremo a proposito del Boccaccio. Qui ci limiteremo a dire che la impudenza del Sacchetti è meno provocante di quella boccaccesca, perchè non è ricercata da una intelligenza maliziosa che gioca sui doppi sensi ed eccita cogli equivoci: è la narrazione di fatti sconcertanti (che volete farci? capitò ad un pescatore che mise in acqua nella stanza matrimoniale i granchi da lui presi: questi scalarono  il letto e pinzarono la sposa là ove il tacer più che il parlare è bello: deve intervenire il fabbro a liberare l’infortunata donna!); o la ripetizione di frasi  realistiche , quali delle persone maritate possono raccontare lecitamente: Ecco, sembra sempre, nel Sacchetti, che sia sottintesa la clausola “per sole persone adulte, psicologicamente sane” : non c’è il dilungarsi e farci attorno delle malizie. Nel mondo (sembra ancora dire) c’è anche questo: delle persone moralmente a posto possono prenderne atto e rimanere serene.

11. GIOVANNI SERCAMBI: lucchese, novellatore e cronista (1348-1424). Era uno speziale, entrato nella attività politica dopo la riacquistata libertà  da Pisa (1369). Si dimostrò consigliere prudente, sagace, deciso e fu protagonista del passaggio  della città alla signoria della famiglia Guinigi, passaggio favorito dal malgoverno della oligarchia precedente. Ne ricavò benefici ed autorità notevoli, fino alla morte. Tornata però al potere la consorteria oligarchica pochi anni dopo la sua scomparsa, i suoi eredi (nipoti, adottati come figli) dovettero subirne il malanimo.

Egli scrive sostanzialmente per scopi pratici, chè  ben più del Sacchetti rivela una mentalità molto operativa e poco contemplativa. La “Nota a voi Guinigi  (1392 ca) è un promemoria di consigli politici per la famiglia che, grazie alla sua avveduta e ferma attività, era giunta al potere. Purtroppo è uno scritto estemporaneo, vergato con penosa negligenza letteraria: la titolatura, però, rivela coscienza  del valore del suo giudizio e fermezza di volontà.   Le “Croniche delle cose di Lucca dal 1164 al 1424” narrano la storia di Lucca, in realtà, solo fino al 1400: la liberazione dai Pisani nel 1369 segna lo spartiacque  tra i due volumi in cui l’opera è divisa. Lucca, dapprima ghibellina, era divenuta guelfa dal 1197, legandosi ai comuni liberi di Toscana. Ma la discesa di Enrico VII aveva dato in mano la città ai ghibellini Pisani (1314): se ne liberò con la dittatura di Castruccio degli Antelminelli (Castracani) che inizia nel 1316 e giunge alla sua morte nel 1328. Ritorna la “ schiavitù babilonica sotto Pisa” (1342), da cui l’imperatore Carlo IV libera la città nel 1369. Non c’è tempo per Sercambi alla introspezione psicologica, ma c’è spazio per la sua passione di patria e per il suo moralismo. Il patriottismo si rivela in una pagina famosa, quella in cui  i lucchesi abbattono le mura (che impedivano il soccorso dalle città guelfe) ed il castello (dove era alloggiato il presidio pisano). Le preoccupazioni morali si rivelano, positivamente, nel mettere in luce le tuttora frequenti manifestazioni di fede e di generosità di vari gruppi (i “Bianchi” e le loro processioni penitenziali) o di singole personalità; e, negativamente, nella accorata rassegnazione alla decadenza che egli  sentiva avanzare nella società italiana in genere e nella sua città in particolare. La finalità pratico-educativa delle “Croniche” si rivela anche nel riporto di “auctoritates”, cioè di versi e  racconti  che hanno  valore esemplare dal tempo e dalla saggezza e possono, così, aiutare la  storia a diventare “maestra di vita”: la poesia e le favole contengono la sapienza dei popoli e, quindi, servono al suo scopo ammaestrativo. Tra le cose inserite con questo intento vi sono anche sedici “exempli” del suo novelliere. La malattia finale, come interruppe al 1400 la narrazione, così impedì una revisione letteraria del testo (edito, oltre tutto, parzialmente, nel 1761; e, integralmente, solo nel 1892...).

Aveva, invece, fatto in tempo a selezionare dalle 155 novelle scritte, le cento migliori, forse sul modello del Decàmeron (come l’occasione alla loro narrazione si rifà ancora alla peste ed al bisogno di fuggire l’epidemia scoppiata in Lucca): lo sappiamo da un codice posseduto da uno studioso lucchese (Bernardino Baroni), che purtroppo è però scomparso. E il codice rimasto, non autografo e mal ricopiato (il Trivulziano 193), contiene tutte le155 novelle, non rivedute. Comunque l’edizione di questo testo è stata fatta (parzialmente e male) nel 1816; e curata integralmente nel 1972. Che cosa dire di tale opera? Anzitutto il titolo da lui lasciato non è affatto quello di “novelle”, ma di “exempli”: egli ha sempre il fine pratico di indagare sulle virtù ed i vizi degli uomini, di tutta Italia, di offrire dei “campioni” della condizione morale della intera nazione. Ancora: si è parlato di somiglianze col Decàmeron di Boccaccio: ma molti particolari sono indipendenti: la brigata non ha numero  preciso ed è composta di  frati e preti, di donne e uomini, che  eleggono  un  responsabile fisso (preposto), il quale ha l’autorità per l’ordinamento del viaggio, dalla riscossione di danaro per le spese alla disciplina, che è molto severa (i viaggiatori vivono parte del tempo separati per gruppi di età e di genere, così che certe novelle non  siano udite da fanciulli e donne; e neppure gli sposati  potranno avere rapporti coniugali; la vita religioso-liturgica è pure regolata). Il narratore, che deve far passare il tempo lietamente, è uno solo; e viene scelto proprio il nostro scrittore. E, più che il Decàmeron, Sercambi ha presente il “Dittamondo” di Fazio degli Uberti, delle cui descrizioni geografiche si serve  puntualmente. Un terzo carattere: le novelle spaziano nel tempo (anche fatti di epoche antiche) e nella geografia (dall’Europa all’Oriente), pur privilegiando Lucca (dei cui personaggi ed avvenimenti abbiamo testimonianza che unicamente parlassero   le cento novelle, selezionate per l’edizione prevista dall’autore). Per di più non resta ancorato (come il Sacchetti, che probabilmente egli conosceva) ai dati di cronaca e storia, ma entra volontieri nel fantastico e nella affabulazione. Si aggiunga che egli conferma il suo dilettantismo letterario.Già  al principio delle “Croniche”  egli si è definito “homo simplici”, appartenente alla terza categoria di scrittori, dopo i teologi e dopo i letterati-scienziati di professione. La povertà del suo stile è così continua e penosa che non val la pena documentarla. Notiamo solo un particolare: alle  lungaggini di certo periodare nel Boccaccio, complicato di subordinate alla latina; ed al semplicismo delle elementari coordinate del Sacchetti, il Sercambi sotituisce un compromesso grottesco: una para-ipotassi che non riesce a distinguere le congiunzioni coordinanti da quelle subordinanti, le frasi dipendenti da quelle reggenti! Ne risulta che quasi sempre gli “exempli” interessano solo per il contenuto, per la trama. Nessun alito poetico, dunque?  No: qualche eccezione si trova. L’exemplo quarto finisce con una pagina di commozione patetica, deamicisiana.[1] La saggezza e decisione di una giovane fiorentina (Calidonia Salviati) integrano e sublimano l’umiltà e generosità del padre (Aluizi): smascherato l’adulterio della regina del Portogallo, questa viene condannata a morte, mentre il re (Gostansio: sic!) sposa quella donna splendente per bellezza, intraprendenza, virtù e saggezza...

Ma vi è un ulteriore riflessione cui gli “exempli” conducono  a causa della patente contraddizione tra la severità della vita attribuita alla brigata e il contenuto sboccato di certi “exempli” che, pur  potendo esser visti come mezzo a documentare la immoralità dell’Italia e del mondo, rimangono davvero poco “edificanti” (è infatti epserienza psicologica   che il narrare il male per condannarlo, lungi dallo scoraggiarlo ed esorcizzarlo, lo diffonde e facilita: l’uomo è fatto così; c’è già: non si può inventarlo diverso; non cambia pel fatto che  ci si illuda che diverso sia!). Ebbene, proprio tale doppiezza ne fa un segno dei tempi. Penso sia un caso parallelo a quello dei contemporanei “Canterbury tales”  (Racconti di Canterbury: 1387-1400) di William Chaucer, in cui i pellegrini espongono con realismo  anche i vizi delle varie categorie sociali dell’epoca; od a quello dei due poemetti di Simone Prudenz(i)ani (di Orvieto, attivo tra il 1387 e il 1440), il “Saporetto” e il “Sollazzo”. Nel primo, una nutrita raccolta di 184 sonetti divisi in quattro parti dal titolo “Mundus placitus| blandus| tranquillus| meritorius”, si alternano sacro e profano, disquisizioni teologiche, filosofiche, morali con racconti di spassi e con le gaie conversazioni di Sollazzo, giullare, figlio di Bona(i)re, che giunge alla corte di Pierbaldo, nella terra di Buongoverno, dove è ambientato l’azione del poemetto. Nel secondo (che porta il nome del  giullare testè ricordato) si  versificano, in forma di agili ballate, 18 novelle, tratte dal Decàmeron e da altre fonti. Pur con stile impacciato e pressappochista, anche il Prudenzani è un testimone della società  aristocratica e cortigiana del suo tempo: di gusti e costumi che confermano il disorientamento dell’epoca, che concilia fede e prevaricazioni,  quaresima e carnevale, idealismo e materialismo, Boccaccio e S. Caterina, l’appartenere al mondo ecclesiastico e il vivere libertinamente (come Petrarca e Boccaccio). Mentre la filosofia oppone ragione e rivelazione nell’occamismo; mentre la gerarchia è straziata dallo scisma occidentale che cavalca i due secoli (1378-1417), con due o tre papi ad un tempo; mentre cessa l’unità politica d’Europa e si affermano le nazioni-stato, anche molti scrittori non sanno come orizzontarsi, han perso la trebisonda e si aggregano alla comune perplessità con opere ambivalenti, accontentando un po’ tutti per non dispiacere a nessuno. Non è più solo il camaleontismo di un Maghinardo Pagani da Susinana “che muta parte dalla state al verno” (Inf. 27, 51); non è più solo l’ondeggiare sentimentale del Petrarca, la cui anima “stassi così tra misera e felice”: qui è  a rischio la fede o, almeno, la coerenza della coscienza morale (e non solo della condotta!) verso di essa. Questi scrittori sono lo specchio di  un pubblico che “ vive tra fede, dubbi  ed incertezze,| or in virtù or in sregolatezze”.

 

III) Cronisti e storiografi.

 

1. CRONISTI MINORI: Gino Capponi, Donato Velluti, La vita di Cola di Rienzo, Le storie pistoiesi, Il libro d’oltremare; Relazioni sul viaggio-esplorazione in Terra santa.

            Pur esulando da una storia letteraria in senso stretto (in senso estetico), tuttavia questi cronisti del Milletrecento sono interessanti sia per poter seguire il processo di purificazione linguistica, in Firenze e fuori, verso l’unità del volgare nella sua forma più moderna; sia perchè è difficile che manchi qualche tratto letterariamente felice in ognuna di queste opere.

                        GINO CAPPONI (Firenze, 1350 ca - 1421) ci ha lasciato i Commentari del tumulto dei Ciompi, in cui sono notevoli certe descrizioni drammatiche degli avvenimenti, ma soprattutto l’equilibrio del giudizio: sia su personaggi come per Michele di Lando (l’onesto capo dei rivoltosi, che non insuperbisce per il successo iniziale nè si lascia dominare dalla insolenza dei più dissennati fra loro, ma si ritira in buon ordine, senza risentimenti nè rimostranze, quando la signoria ricade nelle mani dei borghesi); sia sulle intemperanze di alcune frange tra gli scatenati plebei come tra  i superbi signori.

 

            DONATO VELLUTI (Firenze, 1313-1370) descrive invece la sua ascendenza familiare nella “Cronica domestica”. E’ notevole nel tratteggiare macchiette di uomini e donne, viste più nell’esterno che nell’animo, ma pur sempre  singolari.

 

            LA VITA DI COLA DI RIENZO. E’ solo la parte più importante di anonimi “Historiae romanae fragmenta” (frammenti di storia romana), che vanno dal 1327 al 1354. Scritte in dialetto romano, con l’impiego di tecniche retoriche antiche (allitterazioni) e medioevali (prosa rimata, secondo lo “stile isidoriano”), tali cronache brillano per la vivacità della narrazione, immediata, densa, drammatica (la pagina più famosa è quella della fine tragica, in cui Cola è scoperto, ucciso e arso, mentre tenta fuggire dal Campidoglio). Non sappiamo quanto l’opera risenta della legge del “dòmino”, per cui il fiorentino  stava già prevalendo e influenzando gli altri dialetti italiani: ci mancano altri testi di lingua romana del tempo (o addirittura precedenti) per un confronto. Certo che la distanza dal dialetto romano al fiorentino qui non è eccessiva: il romanesco dei poeti del Milleottocento è molto più locale e differenziato!

 

            LE STORIE PISTOIESI. Sono di un anonimo della città o del contado: ne narrano i fatti (per lo più dolorosi). E’ più franco narratore che non il Sercambi: conciso e discretamente mosso. La lingua, poi, è più corretta e moderna che in Franco Sacchetti.

 

            IL LIBRO D’OLTREMARE: è di p. Niccolò da Poggibonsi, francescano e missionario in Palestina nel 1345: predominano interessi religiosi, ma non mancano curiosità folcloristiche.

  Le RELAZIONI SUL VIAGGIO-ESPLORAZIONE IN TERRA SANTA sono il racconto   di tre pellegrini di Firenze, che narrano (ciascuno con stile proprio) il pellegrinaggio nella terra del Salvatore, attraverso l’Egitto. Prevalgono in tutti e tre le osservazioni pittoresche o paesaggistiche e in ognuno è una capacità di narrare in modo interessante e vivace. La “relazione” migliore è quella di Leonardo Frescobaldi.

 

2. GIOVANNI VILLANI (e continuatori: il fratello Matteo ed il figlio di questi, Filippo). GIOVANNI (Firenze, ca. 1280-1348) fu del partito dei “Neri” e morì nella peste del 1348, dopo aver ricoperto le supreme cariche (fu priore  tre volte, nel 1316-17; 1321-2; 1328) e dopo aver subito l’umiliazione delle “Stinche” (le prigioni di Firenze), in seguito al fallimento dei banchieri Bardi e Bonaccorsi, di cui era socio, per l’insovenza dei re di Francia ed Inghilterra durante la guerra dei Cento anni fra i due stati.

Quelle che sono chiamate normalmente le “Istorie fiorentine” in realtà portano il solito titolo medioevale di “CRONICA” (ovvero di “Nuove Croniche”), essendo una storia che inizia dalla dispersione dei popoli alla Torre di Babele, per terminare al 1348.  L’idea gli venne nell’anno santo 1300:  dire di Firenze, figlia di Roma, era un po’ come celebrare Roma stessa. Sono dodici libri, che narrano le vicende “annalisticamente”, alla maniera degli antichi storici romani, di cui Livio è il modello per eccellenza e Sallustio, Lucano, Valerio Massimo e Paolo Orosio gli altri luminari tenuti presenti. I primi sei libri accettano le fonti citate (più il racconto biblico) acriticamente e arrivano al 1265, cioè alla discesa di Carlo d’Angiò, con particolare attenzione a Firenze. Ed ecco allora lo stigma dell’acrisia storiografica comune al Medio Evo, di cui è partecipe anche Dante. Anzi la condivisione di certo lessico, e la notevole vicinanza alle credenze  leggendarie (oltre che ai criteri  pei giudizi sui fatti),  che si ritrovano anche nella Commedia, fa sorgere addirittura il problema del rapporto fra le due opere. Che sia il Villani ad attingere al capolavoro dantesco dovrebbe  esser prova il fatto che l’opera del Villani fu edita solo tra il 1537 e il 1554, mentre Dante  rendeva pubbliche le parti  del poema, man mano che finiva una cantica.[2] La narrazione dei fatti è senza preoccupazione di nessi causali  eccetto quelli esteriormente evidenti e quelli “presuntivi” della Provvidenza che premia o castiga... secondo i criteri dello scrittore. Manca cioè di introspezione psicologica, di profondità nel ricercare  nell’animo degli uomini la sorgente  degli avvenimenti storici. Machiavelli correggerà il difetto, passando all’estremo opposto (quello del sospetto,  non sempre  verificabile, che vede egoismi e  astuzie in ogni avvenimento). Anche peggiore mancanza di criterio storiografico è la incapacità a distinguere tra verità e leggenda che si rivela specialmente nei primi sei libri dell’opera. Egli accetta testimonianze dagli antichi senza parametri di controllo critico; ed allo stesso modo accetta le testimonianze auricolari dei contemporanei. Così per la fondazione di Fiesole da parte di Atlante (libro 1, capitoli 7 e 30); su Luni, alleata dei Greci contro Troia (l, 50); sulla ovvia certezza della donazione di Costantino, dopo la guarigione dalla lebbra mediante il battesimo;  per la confusione fra Totila ed Attila, sicchè quello precede Teodorico e diventa, lui, il “flagellum Dei” (2, 3). Si dà allora il caso che egli sia più propenso ad accettare i miracoli (attribuiti all’effigie della Madonna collocata nella loggia dell’orto di S. Michele, cioè in Orsanmichele) che non lo siano i religiosi francescani e domenicani (7, 154). Nel l. 6, al c. 30 vi è un altro caso clamoroso di acrisia. Un giudeo di Spagna si converte per il ritrovamento di una scrittura sepolta, in cui si profetizzavano avvenimenti da Adamo alla nascita del Redentore, anzi fino ai tempi della scoperta. Il Villani non sospetta l’errore-inganno, che a noi subito viene all’occhio per il solo fatto che le “profezie” riguardano tutte dei fatti passati e nessun avvenimento futuro verificabile.

 E il suo “fideismo” affiora anche nella troppa facilità a vedere l’intervento punitore di Dio nel rapporto tra fatti storici. La fine precoce di Federico II e, nel giro di 18 anni dalla sua morte, quella dei suoi discendenti con qualche  possibilità di potere politico (nel 1268 muore, dopo Tagliacozzo, Corradino di Svevia)  non poteva non lasciare una scia di riflessioni etico-religiose nell’animo dei contemporanei. E certo la condotta del secondo Federico era stata tale da  indurre il sospetto (nell’animo di un credente) di un collegamento soprannaturale con la precipitosa scomparsa di lui e del suo casato. Ma dal sospettare all’esser certi corre proprio il filo del senso critico. Il Villani invece accetta con tutta  ovvietà tale nesso ed avalla la “leggenda nera” messa in giro dai guelfi sulla sua nascita diabolica oltre che sacrilega. La madre, Costanza d’Altavilla, monaca, sarebbe stata strappata dal convento  e data in sposa al figlio del Barbarossa Enrico VI, quando aveva già superati i cinquant’anni: avrebbe generato, quindi, il figlio Federico II al di fuori delle leggi naturali. Questo avrebbe spiegato la sua avversione alla Chiesa e la sua sconfitta totale. Tale “castigo” risolve, per il nostro scrittore, la questione del torto e della ragione nella lotta fra papato e impero: “E perchè molti fecero questione chi avesse il torto della discordia dalla Chiesa allo impero... a ciò rispondo udendo le sue scuse per sue lettere e per dimostrazione di miracolo divino si mostrò apertamente che lo impero ebbe il torto palese e Dio ne mostrò aperta e visibile vendetta sopra di lui e sua progenie dopo il suo mal fare” (5, 16 e 18; 6, 24-5). Il periodare ansimante dice la passione, ma denuncia i limiti letterari dell’autore: sui quali, ora, dobbiamo insistere. Anche sul piano letterario, infatti, è raro trovare pagine artisticamente vivide. La sciattezza si rivela nella scelta dei vocaboli (Atlante per lui è Atalante; Sassonia, Sansogna;  il casato degli Hohenstaufen è tradotto “di Stuffo”; Cunegonda è trasformata in Cinegonda; (Rodolfo) d’Asburgo diventa “di Furinborgo”.In 11, 91, troviamo “ligistri” anzichè “registri”; e “ligistra”, per “registra”,.al capitolo seguente... Figure e imprese capaci di destare la santa bile di Dante o di Dino Compagni, sono da lui riportate piattamente. La tragica e superba  vicenda  di un Ezzelino da Romano (6, 73), che aveva avuto un’eco  straordinaria fra i contemporanei, è sintetizzata stancamente. La descrizione è condotta a base di coordinate principali, con le sole eccezioni di un gerundio, di una finale infinitiva (“per” con infinito) e di una modale (“come piacque a Dio”). Così tutto il racconto e giudizio perdono vigore e si smorzano in un grigiore deludente. Egli si accende di collera (umanamente tanto simpatica, anche se artisticamente non riuscita, per la carica di passionalità prassica che i brani mantengono), quando deve difendere la povera gente contro gli sprechi della città e l’esorbitanza delle gabelle: puro zelo morale o anche interesse del mercante che si lamenta delle troppe tasse? Ecco un brano: “O signori Fiorentini, come è mala provedenza accrescere l’entrate del comune della sustanza e povertà de’ cittadini colle sforzate gabelle per fornire le folli imprese! Or non sapete voi, che come è grande il mare, è grande la tempesta, e come crescie l’entrata, è apparecchiata la male spesa? Temperate carissimi i disordinati desideri, e piacerete a Dio, e non graverete il popolo innocente.” (11, 91).

Ma veniamo ai pregi, che fan degne di lettura molte pagine della Cronica villaniana. Si tratta della concretezza con cui documenta la storia a lui contemeporanea (o quasi) dopo il 1265. Intanto,sotto l’anno 1321, troviamo la più antica biografia di Dante (9, 136). Ed i suoi interessi dimostrano un’apertura a valori socio-economici  ed un amore ai numeri delle statistiche, che lo rivelano molto moderno: lo fanno, in questo, più che umanista, quasi  un anticipatore di Giovanni Botero e delle sue “Relazioni universali” della fine del Millecinquecento. I  cc. 90-93  del libro undecimo propongono le spese di guerra (25.000 fiorini d’oro al mese)[3], le entrate generali (attorno ai 300.000 fiorini all’anno),[4] le spese comuni (in tempo di pace, cioè: oltre 40.000 fiorini), il numero di nascite (circa seimila , con un esubero di maschietti sulle bambine del 5-10%), quello degli abitanti (circa 80.000), degli uomini da portare armi dai 15 ai 70 anni (25.000), degli scolari dei vari gradi di insegnamento (sulle diecimila unità)[5]; il numero delle parrochie e dei conventi ed ospedali (vedilo nella nota precedente), quello delle varie industrie (la lavorazione della lana occupa più di 30.000 persone, in più di 200 botteghe; l’arte dei Calimala, che raffinava le lane venute dall’estero, aveva aperto circa venti fondachi, con un ricavo di 300.000 fiorini d’oro solo per le vendite interne); il numero dei giudici (sul centinaio), dei notai (circa 600), dei medici (una sessantina), degli speziali (cento circa). Prima di elencare i vari ordini di autorità, civili, militari, ecclesiastiche, egli cerca di calcolare il cibo e le bevande necessari per tanti cittadini (cosa non facile, chè moltissimi, avendo possessioni e case in campagna, vivevano per mesi fuori città):  egli deduce dalla gabella imposta a mugnai e fornai ecc., che ogni giorno occorrevano 150 moggia di grano; e sulle 55.000 cogna[6] di vino,  con 4.000 grosse bestie e 80.000 tra pecore e capre, all’anno.

E, poi, vale per la lettura della Cronica del Villani quanto Manzoni afferma del valore di ogni scritto contemporaneo ai fatti: “Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un’idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per così dire, incomunicabile, ci sia sempre nell’opere di quel genere, comunque concepite e condotte” (Promessi Sposi, c. 31). Ecco, si apprende di più, circa la mentalità del popolo non privo di istruzione, ma al di fuori della laurea universitaria, dalla lettura dei dodici volumi di cui stiamo trattando, che non da libri di studi critici, che devono essere riassuntivi e asettici, cioè senza quel minimo di affezione che Giovanni Villani sente e trasmette quando parla della sua Firenze.[7]

 Difatti, pur non attingendo una caratura di valenza artistica, però dalla pagina di Giovanni (ed anche di Matteo) traspira un candore di mentalità che rischia di diventare sapore di favola: vi è una adesione ai fatti narrati che è informata da una passione latente, da un senso della loro importanza che si distingue molto bene dal distacco critico e scettico di Filippo. Questi è un laureato in legge ed ha ormai il senso umanistico della distinzione fra storia e leggenda: è in contatto con Coluccio Salutati; mostra un certo disdegno per la lingua volgare e pare provare più compassione che orgoglio per il lavoro dello zio e del padre. Pur considerando Dante il momento supremo della cultura fiorentina, nel “Liber de origine civitatis Florentiae et eiusdem famosis civibus”; pur avendo dedicato un intero commento alla Commedia (giunto però incompleto), egli scrive in latino. Ebbene, proprio la sofisticata attitudine di Filippo, fa rimpiangere la patina di favola che è sottesa alla mentalità dello zio e del padre e ne rende simpatici i loro libri.

 

3. DINO COMPAGNI. Fiorentino, più o meno contemporaneo a Dante (1260 ca-1324), di lui condivise la passione per la giustizia e la collocazione politica, favorevole ai Bianchi. Non fu esiliato, perchè la legge  escludeva un tal provvedimento contro chi avesse ricoperto la carica di priore nell’ultimo anno; e Dino, per la seconda volta, era stato in quella posizione proprio durante il prevalere dei Neri grazie alle truppe di Carlo di Valois (metà di Ottobre-metà di Novembre 1301). Nè si può dire che il candore eccessivo con cui egli gestì il potere (cogli altri priori Bianchi) non abbia aiutato la malizia e prepotenza del Donati e di altri capi del partito dei Neri. Ritornato alla mercatura, non depose lo sdegno dell’innocente “umiliato ed offeso” dalla volpina astuzia degli avversari: lo covò dentro fin quando la discesa di Arrigo VII non destò in lui, come nel fuoruscito Alighieri, la speranza del ritorno alla giustizia violata. Non sete di potere, ma dignità di uomo sconvolgeva il suo animo gentile ed emotivo, debole ed impulsivo. Egli voleva aiutare a ristabilire l’ordine con la memoria, rievocandola con la “Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi” (questo il titolo della sua opera). Egli vuol chiamare in giudizio quei fiorentini che apostrofa in questi termini: “O malvagi cittadini che tutto il mondo avete corrotto e viziato di mali costumi e di falsi guadagni! voi siete quelli che nel mondo avete messo ogni mal uso. Ora vi si ricomincia il mondo a rivolgere addosso. Lo Imperadore con le sue forze vi farà prendere e rubare per mare e per terra” (II, 22). Il fallimento dell’impresa e la morte di Enrico VII fermarono anche la penna del Compagni. Che non scrisse più. Egli aveva già scritto delle poesie. Fra esse, la “Canzone del pregio” vien citata non per alcun valore poetico, ma perchè conferma la sua coscienza di cittadino probo e di cristiano esigente, che passa in rassegna le varie professioni del tempo, chiedendo all’ imperatore come al medico, al notaio come all’orefice... di essere galantuomini e competenti. Allora c’è pregio, valore, nobiltà, dignità, cortesia, ecc.: concetto che discende dagli “ensenhamen” provenzali e, attraverso il Guinizelli ed il Dolcestilnovo, vien tradotto in una casistica rigorosamente democratica, da cui esula ogni diritto di nascita o di borsa Non è dimostrata l’ipotesi che vorrebbe suo il poemetto “Intelligenza”. Ma se questo fosse suo, esso non farebbe che confermare  la nostra conoscenza e stima per lui: accrescerla, no. Quella di Dino Compagni è una testimonianza che si riallaccia alla atmosfera di Francesco d’Assisi e di Luigi di Francia, di Tommaso e di Bonaventura: la generazione di Dante, Francesco da Barberino e Giovanni Villani, uomini di una integrità umana ed interezza cristiana, da bastare allo splendore per una generazione di cittadini  di Firenze, nonostante i molti dannati che la città potè fornire all’Inferno dantesco.

Dedurre da queste qualità che egli fosse anche un gran pensatore od un geniale uomo politico, sarebbe una estrapolazione fallace: ingenuo nella prassi come candido nella stesura dei suoi ricordi, dal 1280 al 1312. Talora nella “Cronica” si trovano fatti tanto aggrovigliati da non potersene districare il preciso svolgimento; tal altra è la espressione stessa che è così estemporanea da render difficoltoso persino intendere quanto lo scrittore vuol dire. Questi casi, in cui la urgenza affettiva non è dominata adeguatamente dalla ragione nella forma espressiva, stanno in parallelo con gli incidenti della vita politica, in cui l’emotività disorientava l’intelletto del priore Dino Compagni e gli faceva prendere decisioni, tanto sorprendenti nell’apparenza quanto insignificanti nella prassi concreta, di fronte a cittadini con una coscienza bruciata ma con la mente pervicace nel volere attuare ad ogni costo i propri intenti (come era il caso almeno del capo dei Neri, Corso Donati). Tale fu certamente l’iniziativa commovente di far giurare ai capi delle due fazioni la promessa di lealtà e pace sul fonte del loro Battesimo, nel bel San Giovanni (II, 8).

Ma tale urgenza della sfera emotiva, come lo rendeva  irresistibile a tutti in queste iniziative solenni ed inefficaci, così crea in molti punti dell’opera un sinergismo emotivo-razionale che fa del Compagni il più grande prosatore della sua epoca: superiore anche a Dante nella scrittura sciolta. I passi migliori sono facilmente riconoscibili e sono più numerosi nella seconda che nella prima e terza parte (come per il Purgatorio della Commedia!). Nella prima parte sono notevoli solo (ci è sembrato) la descrizione di Guido Cavalcanti: “Uno giovane gentile...nobile cavaliere, chiamato Guido, cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio...” (I, 20); e la denuncia della inettitudine e viltà dei Cerchi, capi riconosciuti ma imbelli della parte Bianca (I, 27). Nella seconda parte i capitoli vivaci e appassionati si affollano. Vi è l’invettiva contro i guelfi Neri (II, 1); il discorso dell’autore nel Battistero di San Giovanni (II,8); i vari interventi nel Consiglio sul da farsi di fronte alla venuta delle truppe del Valois (II, 10); la composizione di una signoria mista, cioè di tre priori per partito, più il settimo insignificante (II, 12); le minacce dei Neri, la dappocaggine dei Bianchi, le insidie di Carlo ai priori e l’inizio delle prepotenze di parte Nera, col conseguente smarrimento della “signoria” (II, cc. 13, 14, 15, 17); il ritorno di Corso Donati in Firenze e il lamento-invettiva contro l’operato della casa francese (II, 18); l’invettiva (in parte riportata) “ai malvagi cittadini” (II, 22); la figura di Baschiera Tosinghi (II, 24: guelfo di parte Bianca, deciso a resistere alle prepotenze dei Neri e del Valois, ma isolato nel suo inutile eroismo); le nuove discordie anche dopo la cacciata dei Bianchi (II, 34), lo schiaffo di Anagni (II, 35). La presentazione della figura di Corso (II, 20) merita la citazione per intero: “Uno cavaliere della somiglianza di Catellina romano, ma più crudele di lui, gentile di sangue, bello di corpo, piacevole parlatore, adorno di belli costumi, sottile d’ingegno, con l’animo sempre intento al mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano e gran seguito aveva), molte arsioni e molte ruberie fece fare, e gran dannaggio ai Cerchi e a’ loro amici; molto avere guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati, che per sua superbia fu chiamato il Barone; che, quando passava per la terra, molti gridavano -Viva il Barone!- e parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti servigi facea”.  Nella terza parte sono ancora notevoli alcuni dei primi dodici capitoli; ed il lirismo viene acceso ulteriormente dal constatare la vendetta di Dio, nel trionfo di una “Dìche” (giustizia) inesorabile sui colpevoli, alla maniera delle tragedie greche di Eschilo: siamo alla mala fine di Corso Donati (morto pressochè suicida nel 1308: III, 21) e dei Neri responsabili delle preppotenze a danno dei Bianchi (III, 38-41).

 Il sentimento più congeniale al Compagni è il dramma (perchè rivive amaramente le vicende della sconfitta indegna del proprio partito) con forti sfumature di epopea (perchè, mentre scrive, si sente certo della vicina vittoria della verità e della giustizia): lo sdegno, per la violenza ed il torto sofferti, si eleva  allo zenit,  quando riesce ad animarsi della certezza del trionfo del bene e  dell’ordine. Talora si forma un vortice di caotica concitazione, ma più spesso l’armonia tra emozioni e razionalità è sufficiente a tradursi in drammatica invettiva ed in epica esultanza, in travolgente accusa ed in veemente  minaccia.

Del suo stile si è già detto a proposito del suo scrivere di getto, ora felicemente sintetico ed icastico, ora confusamente disordinato e falloso (si veda l’anacoluto riportato). Aggiungiamo che sui valori musicali prevalgono quelli cinestetici (cioè sulle sfumature armoniche di vocali e consonanti predomina il senso del movimento e della concitazione: il verbo di forma attiva domina la sua prosa). Fino alla “Vita” di Benvenuto Cellini, nel Millecinquecento, di libri in prosa scritti con cuore così caldo e mente così sprovveduta (e con risultati artistici così alti) non ne incontreremo più.

 

IV) Poeti e Prosatori epico-cavallereschi.

 

            Ve ne è una nutrita produzione, su suggestione francese, sia in versi che in prosa. I poemi romanzeschi si lasciano dividere in due schiere: quelli in lingua franco-veneta e quelli in pretto toscano. Si incontrano poi numerosi “romanzi” in prosa, sugli stessi temi.

Quasi nessuno di questi scritti esce dalla “letteratura di consumo” nè attinge, quindi, il plus-valore dell’arte. Il meglio lo si è visto a proposito di Antonio Pucci, di cui si è  notato come la troppa fretta e la coscienza della falsità della vicenda tarpi le ali ad un sincero slancio di epicità, alle “tentazioni” di idillio od elegia, con un vocabolario raffazzonato e deformato e con il ritmo danzante dell’ottava

giambica, che lascia sospettare il sorriso  sornione dello  scetticismo. Si crea così quella ambiguità che, quando non lascia prevalere il riso scoperto, risulta in una dissolvenza incrociata (anche nel Boiardo ed in Luigi Pulci), perchè il codice serioso dell’intenzione  si deforma  nel messaggio scherzoso della versificazione; il paradigma intellettivo della inpresa epica si proietta in sintagma emotivo della favola divertente; il senso ovvio della ” langue” si deforma nel sottinteso  astuto della “ parole”; lo schema ingenuo dell’eroismo esplode nell’uso della consapevole evasione fantastica. 

Presentiamo ora i poemi scoperti dalla ricerca appassionata dei filologi positivisti nella seconda metà del Milleottocento e nella prima parte del secolo ventesimo: pur privi di poesia, segnano il passaggio dalla epopea francese del Milledue-Milletrecento alla produzione italiana dei secoli XV e XVI (il MORGANTE  di Luigi Pulci, l’ORLANDO INNAMORATO di Matteo M. Boiardo e     l’ORLANDO FURIOSO di Ludovico Ariosto)

POEMI IN LINGUA FRANCO-VENETA. Sono la maggior parte di questa produzione; sono imitazioni e sviluppi di esempi francesi e i più usano il decasillabo tronco (corrispondente  ad un endecasillabo italiano). Cominciamo  dalle canzoni di gesta anonime (assonanzati, non rimati): ROLAND e CHANSON D’ASPREMONT sono contenuti nel codice 225 (o Gall. IV o semplicemente V4) della biblioteca Marciana, di Venezia; BEUVE DE HANSTONE| BERTA DE LI GRAN PIE’| KARLETO| BERTE, MILUN E ROLANDIN| OGIER LI DANOIS| MACAIRE sono invece da cercarsi nel codice Gall. XIII della stessa biblioteca.  Seguitiamo con poemi, del ciclo carolingio e non, di cui si conosce l’autore. L’ENTRE’ DE SPAGNE   dovrebbe esser stato scritto  da un Minocchio da Padova. Ma gli ultimi 131 versi li finì Niccolò da Verona, che si firma. Quest’ultimo è altresì l’autore della PRISE DE PAMPELUNE (che continua il precedente: entrambi cantano gli avvenimenti che precedono la rotta di Roncisvalle), di una PHARSALE e di una PASSION. Anche firmato è il poema di gesta AQUILON DE BAVIERE, scritto da Raffaele da Verona. Di nuovo anonimo, ma del ciclo classico, è la ENFANCES HECTOR (sic: infanzia di Ettore). RAINARDO E LESENGRINO è poema anonimo del ciclo didattico-sapienziale: Rainard è una forma del francese “renard” che è la volpe (astuta: da cui difendersi).

Di questi vari poemi, alcuni aggiungono episodi ad episodi per esaltare presunti eroi locali, altri cercano di fissare il carattere di personaggi e loro gruppi (i Maganzesi sono tutti traditori; i Chiaramontesi, tutti fedeli all’imperatore Carlo Magno); altri si sforzano di metter ordine e continuità fra le varie trame. Chi riuscirà davvero a dar ordine e coerenza al mondo fantastico della materia carolingia sarà però uno scrittore in prosa, un romanziere toscano: Andrea de’ Mengabotti da Barberino con i REALI DI FRANCIA. Egli, in una prosa sciatta e pedestre, scriverà anche il GUERRIN MESCHINO  e le STORIE NARBONESI. Sarà   l’ordito comune, su cui si intesserà la trama  dei futuri poemi cavallereschi.

Con l’ENTRE’ DE SPAGNE viene importata e sviluppata in Italia la commistione dei due cicli di Orlando e di re Artù, della difesa contro i Mori e della Tavola rotonda, dell’epopea carolingia e delle avventure amorose. La materia del ciclo arturiano (o bretone) è derivata da una Historia regum Britanniae (Storia dei re di Britannia) di Goffredo di Monmouth (1100 ca-1155 ca), riscritta da lui nel  1136 con le interpolazioni fantastico-avventurose,  che risalgono fino ad un immaginario “Bruto” (da cui il termine “Britannia”!), preteso pronipote di Enea. Tale  tematica cavalleresco-amorosa troverà in Chrétien de Troyes il grande  poeta[8] , che la renderà famosa in tutta Europa.

 

POEMI IN LINGUA TOSCANA.  Oltre la prosa di Andrea da Barberino e a parte i già citati poemi di Antonio Pucci, sono  giunti a noi altri poemi di questo genere, anonimi. Inferiori a quelli del Pucci, ma con qualche residuo di lirismo, ci sembrano MORTE DI TRISTANO  e   PIRRAMO E TISBE. Degli altri ci interessa citare sia l’ORLANDO che LA ROTTA DI RONCISVALLE perchè, scritti in ottava rima, servirono da fonte immediata di ispirazione per il MORGANTE di Luigi Pulci. Il migliore di questi poemi in ottave è però la SPAGNA, in 40 “cantari”, scritta verso il 1380 forse da Sostegno di Zanobi, fiorentino. A parte la migliore versificazione rispetto agli altri poeti canterini in lingua[9] (oltre che ai franco-veneti), tale poema sarà la fonte immediata per Matteo M. Boiado e per l’Ariosto.


[1] La “commozione” è la simbiosi fra l’emotività epica, che nasce dall’eroismo della condotta di un personaggio; e la elegia, che insorge sulla sua fine sventurata. La commozione può nascere, però,  o da situazioni verosimili (se non da da fatti  storici) adeguataamente esposte; oppure da circostanze inverosimili, pur abilmente descritte. La ragione avverte la differenza; non la sfera emozionale:  ci si commuove convinti di fronte ai “Sepolcri” di Foscolo od a molte pagine dei Promessi Sposi (“Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci...”; il colloquio tra Renzo e Lucia nel c. 36, al Lazzaretto...), ma si rischia di piangere  anche leggendo certe pagine del “Cuore” (di Edmondo De Amicis), pur avvertendo la inverosimiglianza, la non verità nè possibilità delle vicende. Quella è commozione sana, virile,  che rappresenta una delle vette nella espressione artistuica verbale; questa seconda è commozione infantile, patetica, eccessiva, patologica o quasi.

[2] Se si legge, da una parte, Paradiso, 15, 97-129 e, dall’altra, il libro 6, c. 70 del Villani, si nota  nei due fiorentini la medesima convinzione  circa la onestà mirabile della città che “si stava in pace, sobria e pudica”, nella pochezza del  popolo che viveva in “Fiorenza, dentro dalla cerchia antica”.

[3] Siamo negli anni 1336-8, contro Mastino della Scala, Firenze era alleata a Venezia, cui forniva i soldi per l’esercito impiegato contro il comune pericolo della dinastia veronese, residuo di Ezzelino da Romano, di cui Mastino era stato comandante delle truppe sia a cavallo che a piedi. G. Botero (1544-1617) è il famoso autore “Della Ragion di Stato”.

[4] Si tratta di “gabelle”: le quattro principali erano quelle che si pagavano alle porte della città, per ogni tipo di merce importata od esportata  (più di 90.000 fiorini l’anno); quella sul vino (pare fosse un terzo del suo valore: più di 59.000 fiorini); quella della decima sui prodotti del contado ( più di 30.000 fiorini); quella sul sale (14.450 fiorini).

[5] Da otto a diecimila imparano a leggere (sia bambini che bambine: penso si tratti della sola lingua toscana); da 1000 a 1200 imparano anche il calcolo (abbaco ed algorismo: sei scuole di soli ragazzi); da 550 a 600 studiano anche il latino (grammatica) e le altre materie del Trivio e del Quadrivio (4 grandi scuole). Siccome il Villani non fa censimento dei maestri e docenti di tanti scolari; siccome si deve escludere che le donne fossero impiegate come insegnanti, allora si deve pensare che il Villani dia per scontato che gli istruttori erano i sacerdoti ed i frati, di cui fa l’elenco subito dopo (assieme alle 57 parrocchie, alle due priorie benedettine, ai 24 monasteri femminili, ai dieci conventi di frati- è da pensare, francescani e domenicani- ed ai 30 ospedali): più di settecento frati e dai 250 ai 300 preti.

[6] Il “cogno”  valeva circa 10 barili; il barile classico, 60 litri.

[7] La Cronica fu continuata dal fratello di Giovanni, Matteo (nato tra il 1380 e 1390) , fino al 1363. Questi incaricò il figlio Filippo di condurla a termine con le notizie sulla guerra contro Pisa che era in corso ancora quando egli venne a morte.Gli undici libri da lui scritti hanno meno preoccupazioni documentarie e più pagine moralistiche. Filippo (1325-1405) concluse l’opera fino al 1364, cioè sino al termine della guerra contro Pisa.  La continuazione dell’opera fu edita tra il 1554 e il 1577.

[8] A Chrétien de Troyes (ritenuto il più grande poeta medioevale prima di Dante ed attivo fra il 1160 ed il 1190) si riconoscono con sicurezza cinque romanzi cavallereschi: “Erec e Enide| Cligès| Lancillotto o il cavaliere della carretta| Ivano o Il cavaliere del leone| Perceval o il racconto del Graal). Prima di lui aveva già sfruttato la materia “bretone” od “arturiana”  il  chierico Robert Wace (scrittore normanno morto dopo il  1174) nel poema “Roman de Brut” (Romanzo di Bruto) del 1155. E’ Wace che introduce l’ottosillabo rimato a coppie, che sarà il verso tipico della letteratura francese antica. E, in Francia, avverrà la prima mescolanza dei due cicli ad opera di Bertran-de Bar-sur-Aube (un poeta vissuto a cavallo tra i secoli XII e XIII), nei suoi poemi “Girart de Vienne” e “Aimert de Narbonne”.

[9] Tra  le opere anonime cantate sulle piazze in lingua toscana, che si rifanno alla materia dei vari cicli (od a quella più moderna di volta in volta inventata), ricordiamo LANCILLOTTO| e TRISTANO perchè hanno un posto anche nella Divina Commedia (Inferno, 5, 67 e 128; Par. 16, 15). Del ciclo classico-eroico, si hanno GUERRA DI TROIA| FATTI DI CESARE... Dalla materia amoroso-mitologica son derivati PIR(R)AMO E TISBE| PROGNE E FILOMENA; da motivi moderni si son scritti FLORIO E BIANCOFIORE (ridotto in prosa dal Boccaccio col titolo “Filocolo”)| LA DONNA DEL VIRGIU’ (verziere)| LIOMBRUNO| BEL GHERARDINO| PULCELLA GAIA| GIBELLO....

V) Poeti e prosatori religiosi.

 

In un secolo di transizione dalla cultura esplicitamente cristiana del Milleduecento a quella implicitamente pagana del Rinascimento, si può presumere a priori che in una buona metà della produzione letteraria il motivo religioso sia ancora presente in senso positivo e devoto; e che, anzi, la percentuale delle scritture religiose si accresca ulteriormente se si tien conto anche degli spunti negativi, ribelli (ed eventualmente blasfemi) o comunque devianti dalla perfetta ortodossia e disciplina cattolica. La analisi degli scritti del secolo conferma tale presunzione. Noi qui vogliamo accennare alle diverse posizioni di poeti e scrittori del secolo, anche se tra quelli che si dedicarono unicamente o prevalentemente alla tematica religiosa solo tre o quattro emergono con un messaggo lirico capace di commuovere i lettori: l’anonimo traduttore dei FIORETTI DI SAN FRANCESCO, le LETTERE  di S. Caterina da Siena, qualche pagina di Jacopo Passavanti e di Filippo Agazzari da Siena. Sono tutti prosatori. Gli scittori in versi professionalmente devoti sono spesso anonimi; hanno composto LAUDE sia liriche che drammatiche; sono fioriti in Umbria (già forse a cominciare dal Milleduecento) e negli Abruzzi (più tardive): ma non ve n’è uno che commuova come Jacopone e, siano essi popolareggianti o dotti (chè scrittori di Laude fuorno anche Sennuccio del Bene e Giannozzo Sacchetti), rimangono tutti al di sotto di quel minimo di liricità che renda degni di citazione i loro versi. In compenso abbiamo poeti abitualmente profani, che esprimono emozioni autenticamente artistiche, ispirate a tormenti od elevazioni religiose.

 

1)      POETI RELIGIOSI.

Anche in questo ambito particolare, il più grande poeta (Dante a parte) rimane il Petrarca. Avremo modo di scoprire  che uno dei poli fondamentali della sua ispirazione è proprio la coscienza cristiana del peccato insito nel suo amore per la sposata Laura. In tal senso le poesie più religiosamente intonate e liricamente  alte sono i sonetti “Padre del Ciel, dopo i perduti giorni” (62) e “Io son sì stanco sotto il fascio antico” (81) e la canzone “Vergine bella, che di sol vestita” (366). Ma altri versi sono da aggiungersi sia dal Canzoniere sia dai Trionfi (specie dal “Trionfo dell’eternità”). Senza dire dei bei versi anticlericali ma cristiani, dei sonetti 136-137-138 (“Fiamma dal Ciel su le tue trecce scenda”| “L’avara Babilonia ha colmo il sacco”| “Fontana di dolore, albergo d’ira”); o di quelli estatici del sonetto “Movesi il vecchierel canuto e bianco” (16) (anche se profanati dalla mondana frivolezza del paragone amoroso finale). Petrarca rivela in ognuna di queste poesie l’oscillazione di un’anima  rappresentativa del suo secolo. In verità, i poeti,  individualità ipersensibili, sono come dei perenni giovani, quasi cartine di tornasole alla temperie dell’ambiente: risultano quindi facilmente uno specchio dei tempi (degli aspetti di novità, almeno).

 Gli ultimi versi del Boccaccio sono più spesso a tema religioso. Nè si può dire che manchi sincerità nel sonetto “O regina degli angioli, o Maria”, in cui filtra la malinconia e la speranza del vecchio peccatore tra l’ordito dei riecheggiamenti liturgici, danteschi e petrarcheschi.

Nè Petrarca e Boccaccio sono gli unici grandi pentiti del secolo tra i letterati. Francesco di Vannozzo (1340 ca- dopo il 1389), dopo aver esplicitamente maledetto Dio; dopo aver chiamata “dea” la sua donna e “messia” G. G. Visconti, si converte a Dio e si rassegna alla Provvidenza, insultando il mondo corrotto, lui che aveva sfacciatamente cantato il proprio amore libertino. Caso parallelo è quello di Niccolò Soldanieri, di cui avremo modo di riparlare.

Anche Giannozzo Sacchetti è da porre in tale prospettiva di ambivalenza etico-religiosa. Prodigo e disordinato nella condotta, imprigionato per debiti e finito giustiziato per congiura, durante le prime disavventure (dovette anche rifugiarsi in campagna per sfuggire ai creditori) entrò in relazione coi gruppi fiorentini devoti a Caterina da Siena e produsse versi di devozione. Meno riusciti di quelli autobiografici, segnano però chiaramente l’ascesa da una visione della vita,  come insensata ed iniqua vicenda dominata dalla fortuna (canzone “Perch’i son giunto in parte che ’l dolore”), ad una concezione provvidenzialistica di quella, in cui egli difende il succedersi apparentemente insensato delle vicende umane alla maniera di Dante, perchè “ell’usa quella legge| che data li è da Chi tutto corregge” (canzone “Poi che da voi Fortuna è rampognata”). Ed a Dio innalza la sua voce perchè la Chiesa sai riformata secondo lo spirito sofferto ma filiale di Caterina (la canzone “Io fui formata Chiesa in ferma fede” inizia la seconda stanza così: “Provvedi, Padre mio che mi creasti”).

Rara la poesia, fra gli altri autori di versi religiosi: ne elenchiamo qui alcuni, significativi come testimoni di quel bipolarismo che caratterizza il secolo: tra la fede e l’empietà, fra speranza e disperazione, fra sensualità e devozione, fra lamenti filiali contro la corruzione ecclesiastica ed anticlericalismo presuntuoso ed insolente.

                        Per i dubbi circa la fede, il documento più esplicito è quello dell’anonimo autore del sonetto “Io sono stato, e sono ancora, in forse| che la fe’ de’ cristiani sia bugia”. Invece il più impudente rinnegatore della stessa è l’autore del FIORE (sonetto 5, in cui Amore impone al suo fedele: “fa che m’adori, ched i’ son tuo deo;| e ogni altra credenza mett’a parte,| nè non creder nè Luca nè Matteo...”: si vedano anche i sonetti 53| 67| 117...). Ma la permeante presenza della fede trova testimonianze così numerose da renderne impossibile un elenco qualsisasi. Riferiamo solo casi particolarmente significativi. I poeti canterini (scrittori dei “cantari”, poemi da recitare al popolo sulle piazze) iniziano ancora la loro composizione con l’invocazione alla Trinità od alla Vergine (anche se vi sono eccezioni, come “La morte di tristano” e “Pirramo e Tisbe”). Gli stessi eretici rivelano un vivissimo senso religioso, deviato in determinati settori più per eccesso che per difetto: Cecco d’Ascoli, se gli si concedesse il perdono per la pervicace difesa degli influssi astrali anche a scapito del libero arbitrio, si rivelerebbe un educatore esigente sia alla fede che al buon costume; e così si dica di altri ribelli arsi vivi, come fra Michele da Calci. Anche la traduzione del libro di Margherita Porete, gravemente inficiato di quietismo, quasi una spiritualità buddista, testimonia in tal senso. Ecco  Niccolò Soldanieri, poeta fiorentino che  fu attivo attorno alla metà del secolo (morto 1385 ca). Di lui si hanno versi per musica: madrigali, cacce, ballate. L’ispirazione è quella amorosa, in gioventù; quella morale, negli anni maturi. Sebbene queste ultime rime siano più scialbe e risentano di Guittone d’Arezzo, tuttavia concettualmente sono molto decise:  la fede nella immortalità dell’anima l’aiuta a disprezzare  i  valori effimeri della vita terrena, quelli esaltati in gioventù: “Se la terra ha le cuoia| ella se l’abbia, ma l’anima mia| di Quel che me la diè vo’ pur che sia”. Anche degli anticlericali acerbi come il ghibellino Fazio degli Uberto ed Antonio degli Alberti (fiorentino che nella sua villa detta “paradiso” ospitò i migliori ingegni della città, da cui –per motivi politici- fu bandito nel 1400: morì a Bologna quindici anni dopo, neppure sessantenne) si lamentano della corruzione della Chiesa o addirittura ne bestemmiano Dio, ma Lo pregano contemporaneamente di rimediarvi. Se poi veniamo a Francesco da Barberino, a Dino Compagni, all’autore della “Intelligenza”, ai figli dell’Alighieri Pietro e Jacopo, a Franco Sacchetti, a Brusaccio da Rovezzano (un poeta quasi sconosciuto come dati biografici, ma il cui canzoniere è di intonazione nettamente guelfa, che lega religione e politica, con fedeltà ad oltranza alla Chiesa), allora anche a prescindere dagli scrittori ecclesiastici o monastici, si ha un quadro del perdurare di una visione cristiana del mondo. Che è in precario equilibrio è la prassi cristiana, la carità coerente con la giustizia, non ancora  propriamente la fede.

                        Ma le incertezze circa la fede, per poche che siano,  incrinano  la fermezza della Speranza, al cui riguardo gli sfagli sono più vistosi. Lo stesso Pietro Alighieri, sacerdote, traduce l’accorato ma rispettosissimo lamento paterno “E, se licito m’è, o sommo Giove...” (Purg. 6, 118-23) in una specie di inchiesta giudiziaria sull’operato di Dio, che permette tanti mali nella Chiesa (canzone: “Non si può dir che Tu non possi tutto”). Invece in  Brizio Visconti (figlio naturale di Luchino, uno dei signori di Milano) il lamento contro la Fortuna trova in Dio una stentata ma creduta soluzione (canzone: “Senza la guerra di Fortuna ria”, che contiene versi del tipo “perchè è da Dio concesso| che poco senno vince assai follia”; “e quanto in ciò Fortuna li è più fiera| tanto più gloria spera...”). Gli autori delle “disperate” (poesie sul metro della canzone, ma con motivo ispiratore obbligato: contro la Fortuna) hanno talora espressioni contro Dio, che li ha creati; o di preferenza per l’Inferno in paragone alla vita dolorosa che conducono. Si leggano i versi di Fazio degli Uberti, Antonio da Ferrara, Francesco di Vannozzo, Antonio degli Alberti, Bartolomeo di Castel della Pieve (“mal fu Dio in terra per me crocefisso”) e Simone Serdini (suicida in prigione).  D’accordo: il genere poetico scelto (dal tema obbligato) può aver esagerato l’espressione, sul tipo dei versi di Cecco Angiolieri contro i genitori o contro il mondo intero, a cui vuol dar fuoco. Ed è anche vero che molti di loro hanno pur poesie religiose, come il convertito Francesco di Vannozzo; come Fazio degli Uberti, che nel “Dittamondo” rivela fede sicura; come Simone Serdini, che ha pure un sonetto di pentimento a Maria Santissima (“I non servati voti e i molti errori”).  D’accordo: frate Stoppa de’ Bostichi canta la fiducia in Dio che fa cooperare al bene ogni vicenda della vita (“Se la fortuna o ’l mondo| mi vuol pur contrastare,|non me ne vo’ turbare,| anzi ringrazio il mio Signor giocondo”), mentre un anonimo verseggiatore rievoca in una sua canzone la figura dantesca della fortuna angelicata (“Io son la donna che volto la ruota”), esprimendo  affidamento alla Provvidenza.  Ma Antonio da Ferrara rimane pertinace nel suo pessimismo sia a proprio riguardo che a proposito della situazione politico-eccelsiastica del suo periodo. Nel Milleduecento una simile sfiducia radicale non aveva posto:  troppi di questi poeti sono segni dei tempi.

Circa la tematica etico-religiosa della giustizia umana perfezionata dalla carità cristiana, qui, si è detto, la bilancia va pendendo sempre più contro lo splendore della poesia evangelicamente ispirata del Dolcestilnovo, di Dante e di Jacopone, per avviarsi ad espressioni di una impudenza che meraviglia potesse essere lasciata in libera circolazione, anzi come potesse essere scritta da autori che si ritenevano pur cristiani. E’ vero: non mancano, neppure nella seconda metà del secolo (ed inizio del Millequattrocento), autori moralmente preoccupati senza incertezze, ma si tratta di ecclesiastici o religiosi o di aggregati a cerchie di laici specialmente impegnati nella vita devota (magari, come santa Caterina, terziari di un ordine religioso). E’ vero: vi sono ancora manifestazioni che destano la meraviglia di un uomo realista come Giovanni Sercambi, che nelle sue Croniche non manca di notare  il numero di movimenti devozionali, come quello dei seguaci di Santa Caterina e del beato Giovanni Colombini o il movimento dei –Bianchi (1399-1400: iniziato a Chieri, attraversò tutta l’Italia)- che continuano quello dei Flagellanti del secolo precedente. Così impressiona ancora il trovarsi davanti, nell’Italia centrale specialmente, a tutto un fiorire di “Laude” che, da Perugia ad Orvieto, da Assisi a Gubbio fin giù nell’Abruzzio, cantano i misteri della vita di Cristo  e di Maria, il martirio del Battista o combattono i disordini del carnevale con il richiamo alla Passione del Salvatore od ai Novissimi (morte, giudizio...). Si tratta di composizioni per lo più anonime, anche se alcuni testi sono firmati (laude liriche del Colombini, di Bianco da Siena, suo discepolo, di Giannozzo Sacchetti; laude drammatiche di Sennuccio del Bene). Ma intanto le manifestazioni processionali non hanno più la forza di suggellare lo spirito culturale del tempo, di colorare della loro spiritualità la espressione letterari. E la produzione spirituale, per quanto nutrita, cede di fronte  alla marea di versi per musica e danza, popolari e dotti, anonimi e firmati, parecchi dei quali sono decisamente impudichi. Anche il Sacchetti (che pure canta “chè tanto è donna quanto onor desia”: 60) paga un suo tributo nei versi a quella sboccatezza che abbiamo già visto nelle novelle (sia pure ancora tollerabile). Antonio Pucci battezza i suoi cantari con l’invocazione introduttoria alla SS. Trinità ed ha rime gnomiche molto sagge per la crescita onesta di ragazze e giovani, ma almeno nella collana dei 19 sonetti che formano la “Corona del messaggio d’amore” riesce di una notevole impudenza: ha mandato in vacanza le preoccupazioni morali che di solito gli stanno a cuore ? E ci rimangono da citare i versi che tentano di rallegrare  le serate  decameroniane, che prescindono  da ogni sentimento cristiano, preoccupati unicamente dell’attitudine dei narratori nei confronti dell’amore: l’amore sessuale pare riassumere ogni ideale di vita in questa diecina di giovani spensierati. Il neopaganesimo   del Boccaccio viene  riecheggiato in forma ora più sfumata, ora più sfacciata  nel Rinascimento. Per ora, come testi ultimi  della convivenza  disarmonica tra moralità ed immoralità, citiamo ser Giovanni Fiorentino e Simone Prudenzani. Quest’ultimo divide i 184 sonetti del suo “Saporetto” in quattro parti, di cui due (“Mundus placitus| Mundus blandus) hanno sonetti libertini; e due (Mundus tranquillus| Mundus meritorius) hanno riflessioni morali e religiose. L’altra sua opera, “Sollazzo” presenta  18 novelle in forma di ballate, con materia desunta dal Boccaccio e da altre fonti: stessa equivocità e disinvoltura. Ser Giovanni è castigato nella forma, ma ha come sfondo una situazione oggettivamente  sacrilega. Le 50 novelle sono narrate in 25 giorni da frate Auretto e da suor Saturnina: lui, innamorato follemente, si è fatto cappellano nel convento (dove lei  è entrata per delusione affettiva), solo per poter colloquiare assieme in parlatorio ed esprimerle il proprio amore e rimanere in contatto con lei! Ne riparleremo più esplicitamente al paragrafo sui poeti influenzati dal Petrarca. Ecco intanto un’altra coppia di contrasto etico: se non appartenenti all’ultimo decennio del Milleduecento, allora il Milletrecento che stiamo indagando inizia con  i 232 sonetti, che formano lo spudorato e cinico poema “Il Fiore” e riassumono il “Romanzo della rosa”. Ebbene, il secolo termina con un’imitazione della Commedia (ed anche dei “Trionfi” del Petrarca), la cui compoisizione si protrae anche nei primi anni del Millequattrocento. Si tratta del “Quadriregio” di Federico Frezzi. Se ne è già parlato: poema in 74 canti, espone in terzine il viaggio educativo attraverso i regni di Amore, di Satana, del Vizio e della virtù. Percorso di conversione, che fa uso del francese Roman de la Rose e della boccaccesca Amorosa visione , della Commedia e dei Trionfi di Petrarca...

Insomma, un secolo equivoco, un guazzabuglio di posizioni che preparano l’ottimismo dell’Umanesimo,  il pessimismo di Lutero, la disciplina inquisitoriale del Concilio di Trento, l’Indice dei libri proibiti e la dittatura ginevrina di Calvino... E la unità della cultura occidentale sarà tramontata: l’anarchia in agguato sarà fronteggiata da colpi di autoritarismo, che non dureranno però oltre la pace di Westfalia (1648). Poi, cominceranno le rivoluzioni: quella inglese del 1688; quella americana del 1776; quella francese del 1789....

 In una simile temperie, non meraviglia che anche anime di credenti come il Petrarca esprimano una forma di anticlericalsimo ben diverso da quello di  Dante: al dolore ed accorato rimprovero del fiorentino, che sente i mali del mondo ecclesiastico come quelli della propria madre, subentra la condanna dell’aretino, scagliata  non con sofferta amarezza di figlio, ma quasi col godimento di sorprendere in fallo un estraneo, una istituzione che si odia. D’altronde, anche molta attività di santa Caterina –con tutto il rispetto e l’amore al papa, che essa chiama il “dolce Cristo in terra”, è rivolta alla conversione della Chiesa gerarchica ed al ritorno a Roma del papato avignonese. E’- al modo dei santi- anche lei una anticlericale: una testimone che qualcosa nel secolo proprio non andava bene. Ora la sentiremo più particolarmente.

 

                        2) PROSATORI RELIGIOSI

 

In questo ambito si raggiunge un buon livello artistico con S. Caterina da Siena e con l’anonimo traduttore dei Fioretti di S. Francesco.

            SANTA CATERINA DA SIENA (1347-1380)

Nata nel 1347, penultima di 25 figli, entrò a sedici anni tra le “mantellate” (terziarie dell’ordine domenicano, che vivevano nel mondo i voti religiosi e portavano il mantello nero sopra l’abito bianco). Si acquistò la piena fiducia del suo confessore (il beato Raimondo da Capua) non senza manifestazioni prodigiose per convincerlo. Col suo aiuto, superò le diffidenze ed ostacoli alla sua opera apostolica che mirava alla riforma della Chiesa, alla pacificazione degli animi nelle città divise in fazioni, alla conversione dei peccatori, alla formazione spirituale di un particolare gruppo di uomini e donne che ben presto si riunirono attorno a lei, sia in Siena che, nel suo nome, in altre città. Il primo aprile 1375, a Pisa, ricevette le stigmate, le ferite del Crocefisso. La troviamo, nello stesso anno, anche a Lucca, mentre nel 1376 è addirittura ad Avignone, mediatrice fra la S. Sede e la città di Firenze (guerra degli “Otto santi”); e ambasciatrice al papa Gregorio XI, perchè affrettasse il già deciso rientro a Roma. Nel 1377 si reca in Val d’Orcia; nel 1378 è a Firenze (tumulto dei Ciompi) e, dall’autunno, è a Roma per volere di papa Urbano VI. Ivi muore nel 1380.

Il suo capolavoro sono le 381 lettere, sebbene anche nel “Libro della divina dottrina” non vi è solo sapienza straordinaria, ma anche un ardore  espressivo che dona una patina drammatico-epica all’opera. Ella la dettò fra il 1377 e 1378 “vertiginosamente” (fra i seguaci, c’erano tre scrivani a disposizione di questa giovane analfabeta!). Eppure l’opera ha una struttura se non propriamente filosofica, certo organica e chiara nella prospettiva psicologica: e questo, nonostante che voglia sintetizzare diverse esigenze. Le “rivelazioni” rispondono infatti a domande pressanti della santa, che chiede al Signore quattro grandi misericordie: per se stessa, per il mondo, per la Chiesa e per un caso particolare (forse la conversione di Niccolò di Toldo). Nelle risposte, trova sistemazione la dottrina dei tre stadi di perfezione, che il penultimo capitolo riassume così: “Ancora ti mostrai, per illuminarti più sulla mia verità, come il ponte si sale per tre gradoni, cioè per le tre potenze dell’anima. Ed in questo verbo, mostrato a te come ponte, ti raffigurai tre gradoni nel suo corpo, cioè i piedi, il costato e la bocca. In essi io posii tre stati dell’anima: lo stato imperfetto, il perfetto ed il perfettissimo, nel quale l’anima giunge all’eccellenza dell’amore unitivo”. E trovano trattazione conveniente interi settori di dottrina ascetica. Vi è il trattato della discrezione (o discernimento o sapienza, che è conoscere la propria impotenza ad attingere la perfezione morale e la onnipotente Misericordia divina che a tale perfezione ci eleva, per il “ponte” che è Cristo, l’uomo nuovo che il Padre non può non amare assieme a tutti quelli che in Lui –cioè sul ponte- si collocano e camminano con le virtù dell’amore guidato dalla discrezione); vi è il trattato della orazione, della Provvidenza e della obbedienza. Negli ultimi tempi della vita, la santa usciva in preghiere spontanee, raccolte dai discepoli (ma edite  solo nel 1978, col titolo di “Orazioni”).

Le “Lettere  hanno per motivi ispiratori gli scopi della sua missione apostolica, che traduce in atto le idee spirituali del “Libro della divina dottrina”. La riconoscenza per la carità di Dio (Libro, c. 167: “Io confesso, non lo nego, che Tu mi amasti prima che io fossi e che Tu m’ami ineffabilmente, come pazzo della tua creatura”) diventano espressioni di un ardore epicizzante, di un fervore grandioso nelle lettere: “L’Agnello immacolato per render la libertà all’uomo e farlo libero, diè se medesimo alla obbrobriosa morte della santissima croce. Vedete amore ineffabile! che con la morte ci ha dato la vita; sostenendo obbrobri e vituperi, ci ha renduto l’onore; con le mani chiavellate e confitte in croce, ci hai sciolti dal peccato” (Lettera 28). E nella Lettera 97: “O dolcissimo amore Gesù, tu hai giocato con la morte in sulla croce alle braccia”. E ancora: “hai pacificato con la morte tua l’uomo con Dio: chè i chiodi ci sono fatti chiave che ha disserrata la vita eterna” (Lettera 184). Dalla conoscenza di questo amore preveniente, l’anima si sente spinta ad ascendere nel cammino spirituale. Condizione e mezzo di progresso: il raccoglimento interno: “Fatevi una cella nella mente, dalla quale non possiate mai uscire”. In essa noi “troviamo il cibo angelico dell’affocato desiderio di Dio inverso di noi”. In essa noi apprendiamo la discrezione, cioè la conoscenza di Dio e di noi stessi: “Essa è come un rampollo innestato e unito colla carità...è piantata nella terra della umiltà... cosicchè l’uomo rende subito con giustizia a ciascuno quanto gli deve... A se stesso rende quello che vede di aver meritato, conoscendo però la nullità del suo essere e che quell’essere che ha, lo ha ricevuto per grazia da me” (Libro, c. 9). Altra volta, più concisamente le dirà Dio: “Tu sei quello che non è; e io, invece, Colui che sono” (Legenda maior, I, X; cfr. Libro, c. 18). Eccola allora ad aderire a Colui che è, per diventare come Lui: “Ponete, ponete la bocca al costato del Figliuolo di Dio; però che è una bocca che gitta fuoco di carità e versa sangue per lavare le vostre iniquitadi. Dico che l’anima che vi si riposa e ragguarda coll’occhio dell’intelletto il cuore consumato e aperto per amore, ella riceve in sè tanta conformità con Lui, vedendosi tanto amare, che non può fare che non ami” (Lettera 97).

Da questo momento inizia la sua missione per il prossimo “Ti fo pure sapere che  tutte le virtù e tutti i difetti si esplicano per mezzo del prossimo. Chi è in stato di odio verso di me (il Signore che parla), fa danno al prossimo e a se medesimo, che è il primo prossimo: e gli fa danno sia in generale, come in particolare. In generale; perchè voi siete tutti tenuti ad amare il prossimo come voi stessi...Chi non ama me non ama lui; non amandolo non lo aiuta, ma fa danno prima di tutto a se stesso col privarsi della grazia, e al prossimo col togliergli quelle orazioni e quei dolci desideri, che è tenuto ad offrirmi per lui. Ogni aiuto che gli dà, deve uscire da quella dilezione del prossimo, che è l’effetto del suo amore per me... Le utilità particolari invece sono quelle che fate a coloro, i quali sono più vicini agli occhi vostri...Il peccatore non lo fa, perchè è privo di dilezione verso di lui; non facendolo gli reca danno particolare, non solo perchè lo priva di quel bene che potrebbe fargli, ma anche perchè gli reca un male e un danno continuo. Come mai? Ecco il modo. Sappi che il peccato è di due specie: interno ed esterno....” Finora abbiamo citato per mostrare la forza logica (i “perchè” causali  in una donna e, per  di più, giovanissima!) e psicologica di Caterina. Ora, sempre dallo luogo, citiamo due periodi più mossi. “ O crudeltà miserabile! Tu sarai privata della mia misericordia, se il peccatore non tornerà alla pietà e alla benevolenza verso il prossimo. Qualche volta (la crudeltà) partorisce parole ingiuriose, alle quali spesso segue l’omicidio. Alle volte partorisce la disonestà nella persona del prossimo, per la quale diventa un animale bruto, pieno di puzza[1]; e non intossica soltanto uno o due; ma chi gli si avvicina con amore o per conversare, rimane intossicato. Partorisce anche la superbia, perchè la troppa riputazione di sè, trae dispiacere dal suo prossimo, stimandosi maggiore di lui; ed in questo modo gli fa ingiuria. Se poi è signore di uno Stato, partorisce ingiustizie e crudeltà, ed è rivenditore delle carni degli uomini. O carissima figlia, duòlti pure della mia offesa e piangi su questi morti, acciocchè coll’orazione venga distrutta la loro morte! Ora vedi come da tutte le parti e da ogni genere di persone, vengano i peccati partoriti sopra il prossimo e si facciano per suo mezzo. Senza di lui non vi sarebbe peccato, nè occulto nè palese; poichè è peccato occulto, quando non si dà al prossimo quello che gli spetta; palese, quando partorisce i vizi, come ti ho detto. Così è chiara la verità che ogni offesa, fatta a me, si fa attraverso il prossimo” (Libro dela dottrina, c. 6). L’insegnamento è ribadito spesso: “Con quella perfezione con cui amiamo Dio, con quella amiamo la creatura ragionevole” (Lettera 263; cfr. Libro, cc. 7 e 64). Ne discende che un amore si può misurare sull’altro “come in verità mi ama, così fa l’utilità al prossimo suo...perchè l’amore verso di lui (il prossimo) esce di Me (Dio). Questo è quello mezzo che Io v’ho posto acciò che esercitiate e proviate la virtù in voi, che non potendo fare utilità a me, dovétela fare al prossimo” (Libro, c. 7). Con “la croce al collo e l’ulivo in mano” (Lett. 219), essa passa dal convertire singole persone alla rapacificazione di famiglie e di fazioni, di città e repubbliche. Durante i tumulti di Firenze nell’estate 1378 rischiò di rimanere uccisa. Essa, che sospirava il martirio (e ne aveva pegno nelle stigmate), scrisse poi delusa: “Lo sposo eterno mi fece una grande beffa” (Lee. 295).

La sua opera si allarga alla Chiesa tutta. E scrive con amore filiale e rispetto altissimo al papa, ma con tutta la forza e libertà di spirito: “Andate tosto alla sposa vostra (la Chiesa di Roma), che vi aspetta tutta impallidita, perchè gli portiate il colore” (lett. 231). “Reponetele il cuore che ha perduto, dell’ardentissima carità: chè tanto sangue le è succiato per l’iniqui divoratori che è tutta impallidita... Respondete alla Spirito Santo che vi chiama. Io vi dico: Venite, venite, venite...siatemi uomo virile e non timoroso” (Lett. 206). Essa vuol parlare come “agnello mansueto”, ma col cuore straziato “Oimè, Padre, io muoio di dolore e non posso morire”(Lett.196): essa ha presente la rovina delle anime per la fuga del papato in Francia. E quando lo scisma avrà  annullato il vantaggio del ritorno a Roma del papa, allora Caterina si fa centro di iniziative per rimediare al grande scandalo. Ma, mentre rimprovera aspramente per lettera quei cardinali italiani che han presenziato alla elezione dell’antipapa Clemente VII, dopo aver votatao per il papa Urbano VI (Lett. 310), essa si offre vittima a Dio per la unità della Chiesa, la quale “non è altro che lo stesso Cristo” (lett. 171): “O Dio eterno, ricevi il sacrificio della vita mia in questo corpo mistico della santa Chiesa” (lett. 371). Gli aggettivi “dolce| umile” e i sostantivi “Amore| sangue” dominano le sue lettere, che si aprono “Al nome di Gesù crocefisso e di Maria dolce”. Così Cristo è “la prima dolce Verità” e il papa è “Cristo in terra il quale ci ha a ministrare il sangue” (lett. 313 e 321), perchè è lui che tiene le chiavi del sangue dell’umile Agnello” (Lett. 339). La lettera-capolavoro è la relazione circa la morte di Niccolò di Tuldo (perugino decapitato a Siena nel giugno del 1375? Lett. 273)[2]. Ivi la parola “fuoco” si rinterza nell’amore e nel sangue; e vi si aggiunge ancora la parola “io voglio”, davvero virile, che pare comandare anche alla Misericordia di Dio: “E così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella bontà divina; dicendo: -io voglio!-“ Una volontà resa umile dalla “discrezione” e infuocata dalla “carità”: “Io Caterina, serva e schiava dei servi di Dio, scrivo a voi (p. Raimondo) e raccomàndomivi nel prezioso sangue del Figliuolo di Dio, con desiderio di vedervi affogato e anegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, el quale sangue è intriso col fuoco dell’ardentissima carità sua” (ivi,inizio).

Ma leggiamo la parte centrale di questa lettera 273: “Su, su, padre mio dolcissimo, e non dormiamo più, chè io odo novelle che io non voglio più nè letto nè testi. Ho cominciato già a ricévare uno capo nelle mani mie, el quale mi fu di tanta dolcezza che’l no’l può pensare, nè la lingua parlare, nè l’occhio vedere, nè orecchio udire..... Andai a visitare colui che vi sapete, e elli ricevette tanto conforto e consolazione che si confessò e disposesi molto bene. E fécemisi promettere per l’amore di Dio che, quando venisse el tempo della giustizia, io fusse con lui: e così promisi e feci. Poi, la mattina inanzi la campana, andai a lui, e ricevette grande consolazione; mena’lo a udire la messa e ricevette la santa comunione, la quale mai più non aveva ricevuta. Era quella volontà accordata e sottoposta alla volontà di Dio; solo v’era rimaso uno timore di non essere forte in su quello punto: ma la smisurata e affocata bontà di Dio lo ingannò, creandoli tanto affetto e amore nel desiderio di me in Dio, che non sapeva stare senza lui, dicendo: -Sta meco e non m’abandonare, e così non starò altro che bene, e morrò contento-, e teneva el capo suo in sul petto mio. Io sentivo uno giubilo, uno odore del sangue suo, e non senza l’odore del mio, el quale io aspetto di spandere per lo dolce sposo Gesù. Crescendo el desiderio nell’anima mia e sentendo el timore suo, dissi: -Confortati fratello mio dolce, chè tosto giogneremo alle nozze. Tu n’andrai bagnato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, col dolce nome di Gesù, el quale non voglio che t’esca dalla memoria; io t’aspettarò al luogo della giustizia.- Or pensate, padre e figliuolo, che ’l cuore suo perdè ogni timore, la faccia si trasmutò di tristizia in letizia, godeva e esultava e diceva: -Unde mi viene tanta grazia che la dolcezza  dell’anima mia m’aspettarà al luogo santo della giustizia?- (è gionto a tanto lume che chiama el luogo della giostizia luogo santo!). E diceva: -Io andarò tutto gioioso e forte, e parrammi mille anni che io ne venga, pensando che voi m’aspetterete ine-; e diceva parole tanto dolci che è da scoppiare della bontà di Dio. Aspetta’lo al luogo della giustizia, e aspettai ine con contiua orazione e presenzia di Maria e di Caterina vergine e martire. Prima che giognesse elli, puosimi giù e distesi el collo sul ceppo; ma non mi venne fatto che io avessi l’effetto pieno di me ine su. Pregai e costrinsi Maria che io volevo questa grazia, che in su quello punto gli desse uno lume e pace di cuore, e poi el vedesse tornare al fine suo. Empissi tanto l’anima mia che, essendo la moltitudine del popolo, non potevo vedere creatura, per la dolce promessa fatta a me. Poi egli gionse, come un agnello mansueto, e vedendomi comincò a rìdare, e volse che io gli facessi el segno della croce; e, ricevuto el segno, dissi: -“Giuso alle nozze, fratello mio dolce, chè testè sarai alla vita durabile-. Posesi giù con grande mansuetudine, e io gli distesi el collo, e china’mi giù e ramenta’li el sangue dell’Agnello: la bocca sua non diceva se non Gesù e Caterina, e così dicendo ricevetti el capo nelle mani mie, fermando l’occhio nella divina bontà; dicendo: -io voglio!-”.

Pur con una forma sintattica piuttosto semplice (o forse proprio in grazia di questa) essa esprime una risolutezza di pensiero e di volere, che induce a rileggere con un certo gusto i suoi   scritti, sicuri di incontrare, qua e là, delle pagliuzze d’oro, qualche frase, cioè, poeticamente atteggiata, imprevedibile nel contenuto e sorprendente nella forma. Il tono lirico  del suo dettare è più congenialmente quello epicizzante: un lirismo che esprime certezze di fede e di visione ideale, decisione nell’operare il bene al di là di ogni ostacolo, ottimismo nell’incoraggiare (anzi, nel  mobilitare) gli altri a cooperare, gioia nei risultati ottenuti o da ottenere con la grazia di Dio. Essa sa trovare, però, anche l’impeto drammatico, come nella lettera ai cardinali traditori, di cui si è parlato. 

Ma la sua epicità è raddolcita dalla carità dei suoi propositi, opere, raccomandazioni, intenzioni e comandi: sono i motivi stessi ispiratori, le idee che scutono la sensibilità a dare  un manto di cordialità alla forza con cui vengono espresse. Il vocabolario ha la potenza fraterna del Vangelo: amore, sangue, fuoco, umile, dolce, padre, figliuolo... Le peculiarità del parlare senese sono per lo più ammorbidenti: gli sdruccioli sono decisamente privilegiati rispetto alle parole piane, tanto da ricuperare le terminazioni in “are” di molti verbi in “ere” (offéndare| scrìvare| éssare|...); voci come “constregnere| “amore mercenaio” giocano nel senso dell’ammorbidimento dell’espressione. Essa conforta mentre rimprovera, persuade mentre consiglia, rianima mentre consola.            E, conseguente al pensiero, il musicalismo è di una ambivalenza accattivante: la carezza delle  conosnanti liquide e nasali, prevalendo, ovattano la forza delle vocali larghe (non solo A|O, ma anche UA|UO), mentre gli sdruccioli frequenti  attutiscono i suoni taglienti e virili che sono introdotti dalle vocali media e stretta (E|I) accompagnate da consonanti labiali, dentali e gutturali.  Ecco un paio di brani che ci sembrano esemplari: “E (il pastore secondo il cuore di Dio) non si ritrae di procacciare la salute dell’anima e del corpo per ingratitudine che truovi in loro, nè per minacce nè per lusinghe d’uomo; ma in verità vestito del vestimento nuziale, séguita la dottrina dell’umile e immacolato Agnello, pastore dolce e buono; il quale, come innamorato, per la salute nostra corse l’obbrobriosa morte della santissima croce”.(Lett. 291 a papa Urbano VI). “O dolce portinaio, o umile Agnello, tu sei quell’ortolano, il quale avendo aperto le porte del giardino celestiale, cioè del Paradiso, porgi a noi i fiori et i frutti della Deità eterna” (Preghiera: in Giovanni Penco, Storia della Chiesa in Italia,  Milano, Jaka Book, 1977, I, p. 465: appartiene alla orazione 21).

           

            I FIORETTI DI SAN FRANCESCO.  Sono la collezione di 53 episodi edificanti della vita del santo assisiate, volgarizzati nel tardo Milletrecento dall’originale latino “Actus beati Francisci et sociorum eius” (forse scritto da frate Ugolino di Monte Santa Maria, in data incerta). Il volgarizzatore è anonimo, probabilmente senese: egli, omettendo dell’originale le parti dottrinali e scegliendo i fatti più significativi, li trascrive con vivo senso d’arte che migliora l’afflato poetico già presente nel testo latino.

Motivi ispiratori. I “Fioretti” narrano atti di ascetismo (digiuni, umiliazioni...), di estasi (rapimenti dalla coscienza delle cose terrene nella visione di apparizioni celesti), di magistero (quale è la perfetta letizia), di servizio al prossimo (lebbrosi guariti), di tentazioni e dubbi (pregare solo o anche predicare?), di conversioni e miracoli (prediche agli uccelli, addomesticamento del lupo di Gubbio e delle tortore selvatiche, guarigione del lebbroso...). Non tutti sono storicamente accertabili, ma tutti riproducono con coerenza l’atmosfera ideale di San Francesco (o, almeno, l’aspetto più simpatico e più popolare del santo). Lo spirito che li informa, infatti, è il senso della religiosità del creato, analogo a quello che ha dettato il “Cantico di frate sole”. Ma mentre nei versetti del Cantico la presenza di Dio nelle realtà terrestri induceva anche un entusiasmo celebrativo, qui esso dà origine solo ad un atteggiamento fiduciale, di filiale serenità. Gli uomini, gli animali, le cose e le stesse malattie (la lebbra) sono viste costantemente alla luce della paterna, infinita bontà di Dio. Ne nasce un senso di pace, di consolazione, di estasi, che fanno pensare a Francesco come ad una caparra, ad una garanzia dell’amore di Dio per gli uomini. Quasi vicario di Dio, egli è signore delle forze del mondo, a favore della povera umanità. La lebbra scompare al suo tatto, gli uccelli ascoltano attenti e ubbidiscono alla sua voce, il lupo si ammansisce, le tortore si addomesticano, i peccatori tornano a vita virtuosa, Francesco stesso, Chiara, i frati sono rapiti in visioni celestiali quasi angeli, capaci di vivere in perfetta letizia pur fra le tribulazioni e le persecuzioni più irragionevoli.

Toni lirici.  Nel “Cantico delle creature” la prospettiva religiosa genera, separati, l’idillio di fronte alla bellezze del creato e l’esaltazione epicizzante nel considerare la potenza benefica del Creatore. Nei Fioretti  i due registri lirici si fondono: la prevalente idillicità della mitezza francescana, assurge talora ad un’aura idillico-estatica per l’ammirazione della grandezza soprannaturale della sua persona ed opera. E’ invece assente (o emotivamente non sentita) la parte drammatica della vita  del santo, quella delle penitenze scarnificanti, come le stigmate e la morte per etisia a 44 anni. Sul piano storico tale interpretazione è certo unilaterale, monca, perchè rischia di scorciare la figura gigantesca  di Francesco ad una sognante oleografia tutta pace e godimento: troppo bella per essere vera, anche se così piace meglio alla moltitudine. Ma a livello emotivo, estetico, i “Fioretti” hanno un valore non sublime, ma discreto e pervasivo, con una intonazione lirica specifica, subito riconoscibile e piacevole: quella estasiata, appunto, di fronte alla presenza in lui dell’opera esaltante di Dio ed all’umiltà affascinante del suo sentire ed operare. Essi fanno rivivere la “letizia francescana”; comunicano la dolcezza del saluto tipico dei suoi figli, “pace e bene”; evidenziano un aspetto vero, anche se non unico, della vita e dello spirito di San Francesco. E’ la dimensione confortante che attenua la presenza del calvario per accentuare la gioia pasquale;    scorcia anche le penitenze e la povertà crudele del francescanesimo (specie delle origini) alla luce dei frutti di serenità e fiducia, di pace e rinnovamento da lui apportati al mondo. Il meraviglioso miracolistico ricompensa prontamente la santità, di cui è sottaciuta l’asprezza. Dante, nel canto undecimo del Paradiso, ha equilibrato la partita  sottolineando, con veemenza polemica, la spogliazione eroica e le nozze con Madonna Povertà, sulla croce di Cristo. Sono in verità due visioni complementari, non contradditorie, della vita del Santo assisiate.

Tra i “Fioretti”, quelli più riusciti artisticamente sono anche i più noti: la pefetta letizia (n.8); perchè tutto il mondo segue S. Francesco (n. 10); il convito di Francesco e frate Masseo col pane dell’elemosina e l’acqua pura (n. 13); la predica agli uccelli (n.16); l’estasi notturna di Francesco, sorpresa dal novizio devoto (n. 17); il lupo di Gubbio (n. 21); la guarigione del lebbroso (n. 25)... Il candore  e l’estasi, la sublimazione e il trasumanare nel miracolo si traducono in idillio consolante, in stupore estatico.

Note stilistiche. Scrittura elementare, ma prettamente toscana. Vi è qualche svarione sintattico ma, fors’anche per la semplicità della sintassi a frasi brevi, raro. Il vocabolario non è sempre fiorentino puro: sia per l’influsso del latino da cui è tradotto (refectione corporale=pranzo), sia per il gergo francescano, particolarmente attento a non  andare contro la carità (lo schiaffo diventa “guanciata”; il malvagio, “cattivello”; frate Leone, frate lupo, pecorella di Dio; il convento è detto semplicemente il “luogo”...). Per altre particolrtà fonetiche (che fanno propendere per la parlata di Siena piuttosto che per la lingua di Firenze), scegliamo esempi dal “fioretto” ottavo sulla perfetta letizia: angioli| avvegnachè (benchè)| esemplo| allumini i ciechi e distenda gli attratti (guarisca ciechi e storpi)| li demoni| mutoli| fòssongli rivelati tutti li tesori della terra| cognoscesse| arbori| iscrivi| io ti priego| rispuose| piova (pioggia)| aggiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame| faracci istare fuori| gaglioffi importuni| partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale| gotate (schiaffi)| bastone nocchieruto| sosterremo (sopporteremo)| piglieracci per lo cappuccio e getteracci a terra nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone...

Se la  melodia dei “Fioretti” nasce dall’atteggiamento di ammirazione per l’opera di Dio nel santo e di fascino per la semplicità di cuore con cui Francesco vive il soprannaturale che lo coinvolge e sublima, la loro armonia  consiste anzitutto in un linguaggio imbevuto di sapienza, in cui la carità detta parole miti ed umili,  che rendono incantevoli (non spaventevoli) le opere grandiose della fede. Oltre a tale vocabolario caratteristico (quello testè segnalato), vi è tutto un musicalismo competente: liquide, fruscianti (f|v) palatali (c|g dolci) esprimono la dimensione idillica, contemplativa, mentre  le  soccombenti gutturali, dentali, esplosive (labiali), rafforzate dalle vocali larghe A|O, prevalenti con la “media” E rispetto alle recessive deboli I|U, creano l’atmosfera solenne della epicità. Il tutto lega in misura così equilibrata ed armoniosa, da evitare (sembra a noi) quella leziosità romantica che Giuseppe De Luca ha creduto di sentirvi. Noi ci vedremmo una classicità minore, che non scade però nell’Arcadia per la serietà e il realismo della ispirazione, che nasce dalla fede.

Altri scrittori religiosi dell’aureo Trecento. Sono ancora numerosi gli scrittori di cose religiose (per lo più essi stessi “religiosi”, cioè segregati dal mondo per consacrarsi a Dio coi voti di povertà, castità e obbedienza); qualcuno di essi sfiora la poesia, ma per lo più valgono invece come testimoni ed operatori del progressivo chiarirsi della lingua toscana verso la forma più coerente nella musicalità e nella grafia dei vocaboli; e nella sintassi della loro sistemazione nella complessità del periodo espressivo.

Cominciamo dalle “Lettere” (114) del beato Giovanni Colombini da Siena.[3] In esse vi è una passione ascetica, uno zelo religioso indiscutibile: ma cade nell’enfasi o nella espressione sproporzionata. Basti un esempio (dalla lettera 4, alla superiora del convento di S. Bonda): “Carissime chi mi potrà dire l’amore e la carità, che di voi sente la anima mia e il cuore mio, il quale tutto arde e incende dell’amore dello Spirito Santo, trasformandosi tutto in carità di Cristo nell’anima vostra con istrignimenti affocati e saette passanti, e che feriscono l’anima e dessa vulnerano e abragiano nella bragia e nei carboni, accesi nel fuoco ardenti del fuoco di vita eterna, nel quale l’anima viene meno d’ebbrezza dell’amore?” Il pressappochismo del vocabolario e della sintassi pare denunciare la sproporzione fra l’altissima passione devota e la pochezza  della profondità nel pensiero (manca la introspezione psicologica di Caterina e la chiarificazione dei mezzi ascetici e delle grazie mistiche per giungere alla fiamma di carità, che è l’unico tema toccato e ripetuto dal Colombini).

Una stessa urgenza enfatica (dramma non decantato, zelo  ascetico impaziente) accende e tormenta le lettere del betao Giovanni delle Celle.

Anche la relazione del “Supplizio” di fra Michele da Calci (1389) e la traduzione della “Cronaca delle sette tribuolazioni” (sic! scritta da Angelo da Clareno, un francescano della corrente degli Spirituali, perseguitato da Bonifacio VIII) hanno pagine subdrammatiche. Qust’ultimo morì nel 1337 e la sua operetta in latino ebbe più di una traduzione. E’ interessante come la personalità dei volgarizzatori si imponga visibilmente, dando un viraggio diverso allo stesso testo originario (pacato-contemplativo| risentito-nervoso).

Tono elevato e forte è dato trovare nel volgarizzamento delle lettere di San Bernardo. Su tale linea di fermezza e potenza si pongono    anche le traduzioni (di Sallustio) e gli “Ammaestramenti degli antichi” (silloge originale di citazioni sacre e profane attorno a tematiche o rubriche da consultare: sono opera del frate domenicano Bartolomeo da S. Concordio (Pisa: 1226-1347). Come i confratelli Cavalca e Passavanti, come la terziaria santa Caterina, anche padre Bartolomeo sa scrivere elegantemente: chiaro nel pensiero, moderno nella scelta di vocaboli e sintassi, personale nella patina di   emotività che  rischia di colorare la loro espressione. A loro deve molto il progresso del linguaggio verso le forme di musicalità coerente colla restante lingua toscana e di formule sintattiche che finirà per imporsi nei secoli e caratterizzare la lingua italiana.  In particolare la letteratura nostra è doppiamente debitrice a padre Bartolomeo, perchè egli operò sui due versanti, religioso e civile: la sua traduzione di Sallustio è superiore per forza e concsione a quella stessa di Alfieri di quattro secoli dopo; e la ricchezza di citazioni  cristiane e pagane, collezionate secondo argomenti non solo etico-religiosi, diffusero il suo magistero espressivo in ambienti anche profani, rendendolo punto di riferimento, sapienziale e linguistico, universale.

A mezza strada fra scrittura  virile e materna, si pone il troppo lodato Domenico Cavalca. Anima non inventiva (anche quando tenta un’opera propria- “Medicina del cuore”- non sa far altro che saccheggiare un autore francese), ma equilibrata, egli riesce buon stilista, nella traduzione delle “Vite dei Padri” e della “Vita di San Benedetto” (quest’ultima, dal latino di Gregorio Magno): dolcezza e forza si bilanciano in una musicalità che piace e invoglia a leggere, anche se non giunge a commuovere.

Con Jaopo Passavanti ci avviamo ad una espressione tendente alla contemplazione ed all’idillio. Ci ha lasciato una sola opera, lo “Specchio di vera penitenza”: è un quaresimale del 1354, tenuto nella nativa Firenze, tre anni prima che morisse ( giovane, perchè nato ai primi del secolo; e rimpianto da quanti lo avevano maestro nel convento e chiesa di S. Maria Novella). Gli “esempli” che egli vi introduce sono rasserenanti, così come pacata è la esposizione della dottrina sulle varie virtù. La lingua è un fiorentino pretto e singolarmente moderno; la sintassi è esatta; il pensiero è logico e armoniosamente complesso. Peccato che, anche negli “esempli” più suggestivi (la vergine Maria che sostituisce come sacrestana la povera suora fuggita per disperazione dal convento) rimanga sulla soglia del lirismo senza mai attingerlo sufficientemente.

Minore di lui, ma pur attraente e simpatico è Filippo degli Agazzari, agostiniano (1339-1422): negli “Assempri” (raccolta di fatti e leggende educativi) presenta mende senesi (sdrucciole ad ogni costo; infiniti in –are- anche per la seconda coniugazione; preferenza per suoni palatali-liquidi...), ma anche momenti di vibrazione drammatica, che, senza affascinare il cuore, si impongono però alla mente.

 Vicini ad una scrittura subidillica, contemplativa si pongono altri testi, sia originali, come la “Cantica” (di Simone da Cascina?), sia tradotti  (“Contemplazione e regola dei novizi” dell’abate Isacco, vescovo di Ninive e le “Confessioni” di S. Agostino; nonchè le “Meditazioni sulla vita di Gesù, la “Leggenda di S. Elisabetta” e i “Miracoli della Vergine” che sono invece traduzioni da anonimi scritti latini).

Maldestro nello scrivere in lingua, ma appassionato nel sentimento religioso è un laico esemplare di Prato, Lapo Mazzei, che nell’epistolario (circa 500 lettere: edite solo nel 1860) ha lasciato la testimonianza di un cristianesimo coerente ed eroico nel matrimonio e nella professione (era notaio: 1350-1412).

Benchè poeticamente aride, sono notevoli altre opere del secolo, perchè sono esempi della lingua toscana pura, rimasta nella parlata italiana fino a noi. Fra queste  troviamo le“Sposizioni dei Vangeli” (Franco Sacchetti), il “Trattatello” (volgarizzamento dal latino sul greco del Crisostomo), le “Collazioni” di Cassiano, “La coscienza” (traduzione tanto pulita quanto noiosa di un’opera del XII secolo), la “Leggenda di S. Domenico” (Costantino di Orvieto), il “Giardino di consolazione” (Iacopo di Benevento), “La bella e utile dottrina” (beata Angela da Foligno), “Rivelazioni sulla vita della Madonna” e un gruppo di “Leggende” (cose da leggersi): di S. Maria egiziaca, di Santo Albano, di S. Giovanni l’ospitaliere...

 

            VI) Poeti e prosatori dal morente Dolcestilnovo al nascente Petrarchismo: la poesia dotta del Milletrecento.

 

Il Dolcestilnovo ha un seguito nel corso del Milletrecento, con Matteo Frescobaldi, figlio di Dino e con Cino Rinuccini. Tra lo spiritualismo stilnovistico e l’ amore terrestre del Petrarca stanno Sennuccio del Bene e altri minori rimatori, che vanno mondanizzando l’affetto per la donna, pur senza cadere nella profanità di molti popolareggianti. Al di là di Petrarca stanno poeti che risentono del magistero delle sue Rime: fra questi, anche l’autore del Pecorone, con le sue venticinque ballate, che pure segnano più un innalzamento di modi popolari a finezza ed eleganza che non una specifica sequela dell’Aretino. In ultimo poniamo un verseggiatore che, del Petrarca, ha imparato il peggio: quel giuocare sulle parole, contrapporle, esprimersi per paradossi e concettini. Si tratta di Bartolomeo di Castel della Pieve. La sua maniera troverà diffusione sullo scorcio del secolo e imperverserà, poi, fino all’Arcadia (rinascendo nell’ermetismo del secolo ventesimo!).

Ciò che accomuna tutti questi  poeti è una eleganza espressiva, una scioltezza musicale, una raffinatezza del vocabolario, una scorrevolezza della lingua che –sia pure in misura diversa- li stacca a prima vista dai popolareggianti (anche fattisi cortigiani come A. de’ Beccari da Ferrara, F. Vannozzo e Simone Serdini). Non solo “si nasce poeti”, ma si nasce predisposti a determinati codici espressivi e registri lirici.

 

1.      RISONANZE TARDIVE DEL DOLCESTILNOVO.

 

Non ricerchiamo fra loro dei grandi poeti: alcuni di loro, anzi, o mancano di caratura lirica (Guido Novello da Polenta e il parente di Petrarca Francesco degli Albizzi) o scadono addirittura nella sciatteria della espressione popolare (Ventura Monachi), così lontana dalle esigenze più caratteristiche del Dolcestilnovo.

Ma vi è qualche verseggiatore che si difende con un filo di sentimento incorporato nei versi. Fra essi, Sennuccio del Bene (Firenze: 1275-1349). Esule e paladino di Arrigo VII, come Dante, rientrò in patria per intercessione di papa Giovanni XXII. Amico di Petrarca, che gli indirizzò un paio di sonetti (iniziano col suo nome, “Sennuccio”: sono il 112 e il 287), egli imita come gli riesce i poeti della sua giovinezza. Dante avrebbe addirittura risposto alla sua “Canzone dell’amor senile”! Egli impiega i paradigmi amorosi degli stilnovisti (bellezza sinonimo di virtù, gentilezza, cortesia; donna, di salute o salvezza di chi laguarda; fedeltà d’amore che si sgomenta per una nuova beltà apparsa, ma pur vince, come Dante di fronte a Lisetta...), ma non perviene a grandi risultati poetici. Non è causa di “stanchezza” di fronte a “schemi abusati” (moh! son gli schemi che si stancano e si abusano?); non è solo “insincerità” di animi mutati per cause “ambientali”, cioè per l’atmosfera di una società che non vive più certi ideali (anche questa componente avrà la sua parte, ma non la precipua): il motivo più vero sono i limiti innati di Sennuccio, che non è un genio, ma solo un ingegno  poetico. Per di più, egli si conosce poco sicchè, esprimendosi spontaneamaente su motivi non congeniali, inciampa nella solita “dissolvenza incrociata” fra la lingua in quanto “filosofica” ( concetti) che tratta di tematiche dolci, gentili, soavi (amore felice o non corrisposto, ma visto in chiave mite, non risentita); e la parola in quanto “musica” (stile) che in lui è, invece, più incline alla forza e durezza drammatica.

 La cosa più riuscita ci sembra ci sembra, comunque, il sonetto:

“Non si potrìa compiutamente dire

                                                 quant’è la tua bellezza, nè tu il sai,

                                                 però che non ti vedi quando vai,

                                                 più bella ad ogni passo divenire”.

                                                           Sannol coloro a cui dobla desire

                                                           a ogni volger d’occhi che tu fai;

                                                           e non porria chi non ti vide mai

                                                           imaginar quel che se’ per udire.

                                                 Chè mai Ovidio o altri non descrisse

                                                 valor di donna tanto affigurata,

                                                 che tu non passi ciò che se ne disse.

                                                           O puritade, o bellezza incarnata,

                                                           chi l’occhio tuo innamorato aprisse

                                                           solo tra noi are’ vita beata.

Ci si può accorgere che la prima strofa ruba il cuore, equilibrando la sonorità fra gutturali-dentali e liquide-fruscianti. Le altre strofe, invece, sono meno affascinanti e rimettono in primo piano una musica di “ì” in rima, di gutturali, di dentali, di altri suoni duri che testimoniano il declinare dell’ispirazione. Testimonianze più univoche dello stacco fra tema amabilmente tenero e musica metallicamente dissona sono nel sonetto

 “O salute d’ogni occhio che ti mira,

conforto d’ogni mente isbigottita,

o chiara luce di nuovo apparita

lo cui splendor ciascun vedere disira;

o pace d’animi, o vittrice d’ira,

o angiola discesa in questa vita,

di tal bellezza e di vertù vestita

ch’ogni uom per maraviglia a te si tira;

chè, a veder l’angelico piacere

che spande la tua gaia giovinezza,

ogni altro che si vede fa sparere;

in te perfetta fa la gentilezza,

in te riluce valore e savere,

in te è assembiata ogni bellezza”

 

Le quartine costruite su due rime in “ira” e in “ita”; le terzine lambiccate su altre due in “ére” ed “ezza” esorcizzano ogni tentazione di innamoramento... Anche la “Canzone dell’amore senile”, specie la quarta stanza, dopo un inizio suggestivo (“Ell’era grande, gentil, leggiadra e bella”) scade nella stessa dissolvenza. E lo stesso accade alla “flebile” canzone in delusione per il fallimento e morte di Arrigo VII: le rime appoggiate alla “i” ictata denunciano, complici le dentali e la doppia “z”, una disarmonia che, senza  riuscire a destare un’atmosfera  drammatica, impediscono che  si insinui quella elegiaca. E un altro limite va segnalato in Sennuccio: egli è un poeta “ a lena mozza”, cioè ad ispirazione breve, di fiato corto: facilmente gli riesce bene la prima strofa; poi, la caratura lirica decresce e delude l’aspettativa insinuata dal brillante inizio.

Ma non avremmo spese tante osservazioni per i versi di questo poeta, se un’aura gentile, una melodia sussurrata non si diffondese a tratti dalle sue composizioni.

Matteo Frescobaldi (con molta probabilità, figlio di Dino, il contemporaneo di Dante), fu fiorentino e morì di peste a circa quarant’anni nel 1348. Meno dotato di Sennuccio, ha una individualità poetica opposta: gli è estraneo il registro drammatico. Ma purtroppo anch’egli non si conosce: non si è accorto che la sua vena si accende su un unico tono, ambiguo ma sentito: l’idillio scherzoso. Siccome di solito si pone a cantare “seriamente” di amore, egli non convince. Quando, nel sonetto “Io veggio il tempo della primavera” si trova sintonizzato sul doppio motivo della contemplazione idillica nella coscienza della artificiosità di tutta la messa-in-scena, riesce a creare un idillio festante, tra  estatico e scherzoso: molti versi gli escono come giambi puri,  ondeggianti e danzanti. Là dove l’accento cade sulla settima anzichè sulla sesta sillaba (versi 5 e 9), il castello di favola giocosa si dissolve. Forse, se il musicalismo dei vocaboli fosse in tutto coerente con la dolcezza del doppio motivo (vagheggiamento e sogno), egli riuscirebbe a ricuperare la stonatura ritmica: occorreva che la musa fosse più  coinvolgente....

Cino Rinuccini (Firenze, ca 1350-1417) è poeta sempre levigato, scorrevole, dignitoso,anzi sempre con una piccola vena lirica che traluce dai suoi versi: ma è luce fosforescente, tiepida. Idillio, epicità celebrativa, dramma moraleggiante, elegia: tutti i timbri lirici sono aperti al Rinuccini, ma tutti allo stesso grado di stentata sufficienza. E sì che padroneggia la tecnica del verso in maniera non comune. Gli riescono tepidamente melodiose anche composizioni come il sonetto giocato non su cinque rime-desinenze, ma su cinque intere parole (or| donna| signore| amante| perle); ed anche la ben difficile costruzione della “sestina” [4](“Quando nel primo grado il chiaro sole”) egli la conduce in modo dignitoso nelle prime cinque strofe, mentre riesce, nella sesta, ad esprimere il dramma e l’impeto del rimprovero.

 


[1] Si noti la chiarezza e acutezza con cui vien dinostrato essere l’impurità con terzi offesa alla carità verso il prossimo!

[2] Non si è riusciti  a rintracciare gli estremi della persona e delle circostanze  relativi alla  decapitazione di Niccolò di Tuldo.

[3] Colombini Giovanni nacque a Siena nel 1304 e morì nel 1367. Fino al 1355 si  dedicò alla mercatura; poi vendette tutti i suoi beni (era di famiglia nobile) per darli ai poveri e  iniziò una predicazione di tipo francescano. Ebbe seguaci e fondò l’ordine dei “Gesuati”. Ci ha lasciato, oltre le 114 lettere,  la “Vita del certosino Pietro Petroni” e alcune “Laudi” (celebre quella che inizia: “Diletto Gesù Cristo che ben t’ama). E’ beato. Ma a noi è sembrato di scorgere nel suo ingenuo pessimismo etico-religioso un precorrimento della disumanità luterana (totale impotenza dell’uomo ad operare il bene) nella autolesionistica accusa di mancare di ogni bontà e nella pretesa universale incapacità di virtù (“per noi non potiamo alcun frutto fare...però che della nostra parte non sapemo se non guastare...”: lettera 1^, alla abbadessa del convento di S. Bonda). Espressioni dettate da retta intenzione di umiltà e certo non “interiormente eretiche”. Oggettivamente, però, non rispecchiano la dottrina cattolica. E (ci pare) tale pensiero conferisce alla enfasi ed eccessività delle sue espressioni, con danno anche alla loro armonia ed arte.

[4] La “sestina” è un metro di endecasillabi, in cui sei parole devono far rima- in ordine rigorosamente predisposto, a rotazione di strofa in strofa, per sei strofe di sei versi ciascuna: si conclude con tre versi che ripetono a metà ed in fondo, le sei parole medesime usate nelle strofe precedenti come rimanti. Un genere davvero difficle, che neppure è riuscito pienamente al Petrarca (in realtà solo il Cerducci ha una intera sestina pienamente affascinante). 

1.      POETI  OLTRE  IL  DOLCESTILNOVO.

 

Facciamo rientrare in questa categoria quei verseggiatori dotti ed eleganti che frequentano più scuole armoniche e si cimentano su più d’una lunghezza d’onda poetica. Elenchiamo fra questi Niccolò Quirini, Matteo Correggiaio, Fazio degli Uberti, Giannozzo Sacchetti, ma anche Pietro Alighieri e ser Giovanni Fiorentino (per le ballate del Pecorone): a questa categoria occorrere  aggiungere, poi, il Boccaccio delle ballate che chiudono le dieci giornate del Decàmeron. Ancora in sintonia coi Dolcestilnovisti (o addirittura coi Provenzali) si muovono però con una discreta libertà, sia nel senso di una concezione dell’amore ancora elevato, ma più  prosaico, non ancor sensuale ma non più angelicato; sia nell’apertura alle novità che provengono dal Petrarca.

Giovanni Quirini (patrizio veneziano, ammiratore e forse amico di Dante: attivo come poeta fra il 1317 e il 1327) risente del “dolce stile” specie nelle poesie d’amore, che mancano però al traguardo della poesia per una componente nervosa che mina la intenzione idilliaca. Fra i meno peggiori sono i sonetti “Io son regina in l’amoroso regno” e “Ora che ’l mondo s’adorma e se veste”. Ma neppure essi  rispettano la coerenza della lingua toscana, mescolata a dialettismi veneti o latinismi ( “ver mi” per “verso me”;  “io contegno” per “io contengo”; “Venete donque a me” “cun sospiri”) e non superano difficoltà metriche (“in l’amoroso regno”| “e ho” non elidono| nei versi 5 e 7 gli accenti sulla settima stonano...). Anche i due sonetti per Dante (“Se per alcun puro omo avvenne mai”| “Segnor ch’avete di pregio corona”) peccano per difetti simili, oltre che per mancanza di grandi cose da dire (e questa carenza di  profondi motivi ispiratori è la manifestazione prima dei limiti complessivi (intellettuali) del nostro verseggiatore: e la sorgente della insufficienza lirica e delle mende stilistiche.

Un altro Quirini –Niccolò-, pur egli veneziano e pievano di San Basso, è teste meno felice della propagazione della lingua toscana in alta Italia: le palatali “g” e “c” rimangono in lui ancora fricanti, come nel dialetto veneziano: zunto| dolze| displaze| planzendo| rason| me ziro| ziascun... Ma il suo fallimento poetico più soltio dipende anche dalla pretesa di erigere in versi ragionamenti causali (sonetto “No vi maravigliate s’eo sospiro”:  il “perchè” dell’insuccesso nel suo tentativo di amore verso una donna crudele va cercato negli astri contrari!). Ma laddove l’ira contro Venezia nobiliare (che l’ha costretto all’esilio, perchè partecipe della congiura di Baiamonte Tiepolo nel 1310) gli arrota il verso, allora il grido polemico è molto più convincente che non i belati amorosi: si veda il sonetto discretamente drammatico “L’orgoglio e la superbia ch’en vui regna”.

Matteo Correggiaio –biograficamente ignoto e letterariamente non omogeneo (le liriche pervenute col suo nome sono diverse nel timbro, nello stile, nonchè nei motivi ispiratori) non vale gran che come poeta aulico: le sue poesie d’amore raggelano il lettore, per mancanza di cose da dire, pur nell’eleganza e facilità espressiva. Invece, quando scherza popolarescamente, allora riesce convincente, anche se non raffinato. Ecco i titoli di due sonetti (il primo, caudato) che si leggeranno volontieri, rievocando composizioni simili di Dante (“Sonar bracchetti e cacciatori aizzare”) o del Cavalcanti (“Beltà di donna e di piagente core””) o di Folgòre (“Di giungo dovvi una montagnetta...”): “E’ non fu mai fanciul vago di lucciola” e “Falcon volar sopra rivier’a guazzo”.

Fazio degli Uberti: lo conosciamo già come autore del “Dittamondo”. Ma scrisse anche liriche per una donna amata (pare la veronese Ghidola Malspina). I concetti dello Stilnovo si dissolvono in atteggiamenti più liberi e sensitivi: la descrizione della donna non è sensuale, ma molto concreta, mentre i desideri sono appena arrestati all’estremo del pudore. Ma la musicalità non aiuta: forte e tagliente, dissipa l’idillio esigito dal concetto ispiratore. Ecco i primi due versi della canzone sulle bellezze della sua donna: “Io guardo i crespi e li blondi capelli| de’ quali ha fatto per me rete Amore...”. Nella collana sui vizi capitali, quello contro l’avarizia è più riuscito: non esprime impeto d’ira, ma amarezza sofferta (“I’ son la magra lupa d’avarizia”). Il petrarchismo dell’Uberti (già intuibile nei versi d’amore) è ancor più evidente nelle canzoni politiche: ma prevalenti sono  l’influsso e le reminiscenze da Dante (“O sommo Bene, o glorioso Iddio”: sull’ingiusto destino di Roma e dei ghibellini a lei fedeli).

Giannozzo Sacchetti ( fiorentino: 1340 ca-1379). Fratello minore del novellatore Franco, animo tanto tormentato e dissipato quanto il maggiore era pacifico e ordinato, finì per congiurare contro  il comune di Firenze ed esser giustiziato, dopo essersi, per qualche tempo, fatto discepolo dei circoli cateriniani della città. E’ scrittore personale, anche se non sistematico: le sue rime hanno la faccia della sincerità ma anche quella della occasionalità (amore, sventure, riforma della Chiesa, politica...). Benchè dilettante, scrive sempre con dignità e proprietà; con emozione sofferta, talora. La sua vita travagliata gli suggerisce, fra gli altri componimenti, due sonetti di forza drammatica notevole (“Mettete dentro gli spezzati remi” e “Ristretto tra levante e’l mar remoto”). La politica assurda di Giovanna I di Napoli gli detta la canzone-invettiva “Giovanna, femminella e non reina”, pure risentita, nel senso a lui congeniale dell’ira veemente. Riportiamo il primo sonetto indicato:

                                               “Mettete dentro gli spezzati remi,

                                                 calate vele, o stanchi marinai:

                                                 fortuna cresce e ’l giorno passa omai,

                                                 lungo è ’l viaggio e non mi par che scemi.

                                                           Non ci lasciàn conducer negli stremi,

                                                           abbandonati corpi pien di guai,

                                                           ove veder si può che sempre mai

                                                           convien che la sua vita fredda tremi.

                                                 E, se volete seguire il cammino,

                                                 cercate di trovar altro padrone

                                                 che più di me avventurato sia;

                                                           ch’io vo’ tornare al Creator divino

                                                           con nova barca e con novo timone,

                                                           lasciando a voi la trista vita mia.

 

Antonio degli Alberti (1358 ca -1415), di grande famiglia fiorentina, partecipe di onori e di cariche pubbliche fino all’esilio del 1400. E’ stato messo al centro del memoriale (di Giovanni Gherardi da Prato?) che il suo editore (il filologo russo Alessandro Wesselofsky, nel 1867-9) ha intitolato “Il Paradiso degli Alberti”: vi si descrivono incontri di letterati e persone dotte, sponsorizzati dalla famiglia degli Alberti nella loro casa, divenuta così luogo di intelligenza e cortesia. E per questo mecenatismo egli merita ricordo più che per le sue rime, dotte ma aride. L’unica vivace (drammaticamente impaziente) è il sonetto “O giustizia di Dio, quanto tu peni” che è una irriverente accusa alla giustizia di Dio, che sopporta la corruzione simoniaca della Sua Chiesa.

 

Ser Giovanni Fiorentino (seconda metà del sec. XIV e inizio del sec. XV). Quasi del tutto ignoto come dati biografici, è l’autore della raccolta di 50 novelle e di 25 ballate intitolata “Pecorone”. Il titolo ci viene da un sonetto messo in fondo al manoscritto che contiene il testo e che dà anche il nome dell’autore e la data 1378  per l’inizio della composizione. Non si sa se il sonetto sia dell’autore. Per di più, indizi interni alle novelle sembrano presupporre la conquista di Pisa (1406) da parte di Firenze, anzi il già avvenuto “concilio di Pisa” (1409) con l’avvio alla soluzione dello Scisma d’Occidente. Di qui il sospetto che l’opera (edita la prima volta nel 1558) sia in realtà stata composta agli inizi del 1400 e retrodatata in riferimento al termine “pecorone”, diffuso nei poeti del Milletre e Millequattrocento (Sacchetti, Burchiello) come sinonimo di “sciocco, ingenuo, babbeo”.

L’opera è significativa  culturalmente per la testimonianza dell’influsso sia di Boccaccio che del Dolcestilnovo e del Petrarca. Le cinquanta novelle, per il fatto solo di essere inquadrate da una cornice (quasi novella che racchiude le altre), richiamano il Boccaccio. Come già detto, un certo Auretto (anagramma di “autore”?) si innamora della bellissima suor Saturnina, monacatasi per delusione amorosa. Si fa frate e diviene cappellano del convento e può così ritrovarsi con lei, rivelarle il suo amore e  incontrarsi per 25 giorni assieme, in parlatorio, a raccontar ciascuno una novella, ultimando con una ballata, con qualche bacio e stretta di mano. Benchè il modo di trattare la materia delle novelle sia castigato più che in altri novellieri dell’epoca, tuttavia il contesto dell’amore sacrilego e la approvazione delle relazioni adultere in qualche racconto fanno dell’opera un teste a carico della non più cristiana cultura del secolo.  Inoltre  nelle ballate si fa sentire la lettura del Petrarca: il verso “Benedetto sia il giorno ch’io trovai” non si può non connetterlo con  l’inizio del sonetto 61 nel Canzoniere di quello (“Benedetto sia il giorno e il mese e l’anno”).

Veniamo ora al giudizio più propriamente estetico. Liricamente, la parte prosastica è inferiore al valore del Decàmeron: sia per mancanza di penetrazione psicologica (le novelle sono sequela di fatti esterni, senza introspezione interiore) sia per la carenza di una commozione qualsiasi. Invece, stilisticamente, il Pecorone usa una sintassi più corretta e una lingua più sciolta che non il Boccaccio: segna un passo in avanti nella creazione di quella “coiné” (lingua comune) toscana, poi accettata universalmente in Italia. Sebbene, per l’assenza di connotazioni emotive, è difficile pensare ad un lettore che si sobbarchi ad una seconda “fruizione” (!) del testo, tuttavia si può sopportare di giungere sino alla fine la prima volta. Come mai? Ser Giovanni usa la “peripezia” o complicazione della trama attraverso colpi di scena inattesi, più o meno verosimili, che stuzzicano la curiosità. Ci avviamo ai “gialli o poliziesci “o “crime books”. Nel Millecinquecento, Matteo Maria Boiardo interesserà i salotti francesi con racconti altrettanto aridi e complicati. A buon conto Shakespeare dovette leggere il libro di Ser Giovanni, perchè “Il mercante di Venezia” fa uso della trama di una sua novella. Un’ultima osservazione riguarda la parte in versi, le ballate che chiudono ogni giornata. Ebbene, esse sono migliori di quelle boccaccesche. Se per la parte prosastica il Pecorone è inferiore al Decàmeron, per la parte poetica gli è superiore. Non che sia dato incontrare grande poesia. Ma i versi sono dignitosi e scorevoli sempre ed anzi attingono una  aliquale sufficienza in senso ora idillico, ora elegiaco, ora drammatico. Drammatiche sono molte ballate della donna, inibita e non rassegnata, che  talvolta si avvicinano alle “disperate”, così diffuse nel secolo. Altra volta una speranza del successo in un amore, al di là della presente impossibilità a realizzarsi, introduce anche qualche esultanza di epopea nei suoi versi. All’idillio propende specialmente quella che inizia “Un’angioletta m’apparve un mattino”. Ma  altrove prevale la dissolvenza incrociata: l’autore non sa optare tra scherzo e vagheggiamento, tra ammirazione ed umorismo, tra fascino della bellezza e galanteria disincantata. E’ come se sia troppo conscio che tutte le lodi rivolte alla bellezza della donna non siano che vezzi e mezzi per ottenere il successo del corteggiamento: dietro l’estasi dell’incanto sta la coscienza dell’egoismo del piacere. E siccome i versi sono scorrevolissimi, il vocabolario eletto e moderno, la musicalità bilanciata, le parole scivolano in quella cullante armonia, che accentua la dimensione di fiaba, di irrealtà, di sogno, a scapito della serietà dei vari affetti. Ci è sembrato che molte strofe si possano leggere con velocità e cadenze diverse, con l’effetto di far loro esprimere diversi stati d’animo,  di cui  un principio di comicità  è il surrogato di ogni altro tono lirico. Una simile ambiguità è segno di poca poesia, in ogni caso...

La versificazione di ser Giovanni fu tenuta presente  dai due maggiori poeti della seconda metà del Millequattriocento, il Magnifico e il Poliziano (Angelo od Agnolo Ambrogini detto il). Venne ripreso poi dal Carducci, che in “Poeti di parte bianca” sembra proprio seguire il ritmo delle ballate del Pecorone (ma con ben più profonde risonanze emozionali, sia nella tristezza del demoralizzato Sennuccio sia nella epopea della fiduciosa attesa di Gualfredo).

Ad altri imitatori del Petrarca si è già fatto cenno, come ad esempio a Fazio degli Uberti per le canzoni politiche. Si può aggiungere Bindo di Cione del Frate (di Siena), la cui “Canzone di Roma” che inizia “Quella virtù che’l terzo cielo infonde” è indirizzata a Carlo IV ed auspica un’Italia unita sotto la protezione dell’imperatore. Scorrevole nel pensiero e nei versi, ma senza afflato lirico. Uno dei verseggiatori “influenzati” da ricordare è poi il Boccaccio: ma di lui si parlerà più avanti. Anche Buonaccorso da Montemagno risente del poeta di Arezzo: elegante, ma freddo, imita le analisi psicologiche (amore non ricambiato), ma senza riuscire a convincere. Più importante (almeno culturalmente) è Bartolomeo da Castel della Pieve, che apre la strada al “Tebaldeo” (Antonio Tebaldi) ed a Serafino Aquilano del secolo seguente: egli si illude che basti riprendere la tecnica delle contrapposizioni del Petrarca, per esprimere, con la battaglia ancipite dei sentimenti a livello pratico-esistenziale (spero che mi Laura ami| ahimè non mi ama...), anche l’oscillazione emozionale (idillio/elegia) e la capacità di esprimerla: egli giunge soltanto a quella tecnica insulsa, che aduggia anche il Petrarca nei momenti di estro declinante od assente, ma che qui diventa gioco di parole, lavoro freddamente concettuale, ridicolo preannuncio del secentismo o barocco letterario.

 

C)    IL  PREUMANESIMO TRECENTESCO.

 

“Preumanesimo” significa qui il movimento culturale che precorre e prepara l’Umanaesimo rinascimentale dei due secoli seguenti. Il Petrarca ne è parte, ma con caretteristiche così peculiari che ne fanno piuttosto il fondatore dell’Umanesimo rinascimentale stesso: in lui troviamo infatti non solo l’Umanesimo filologico, ma anche quello storiografico. Ma spieghiamo prima i termini.

Occorre distinguere tre dimensioni o momenti dell’Umanesimo: se non vengono distinti, si avrà un concetto confuso e mancheranno i criteri con cui assegnare –e in quale misura- uno scrittore al movimento stesso.

 La componente essenziale è costituita dall’UMANESIMO TEORETICO (ideologico| filosofico): è l’atteggiamento di stima (da parte dell’intelligenza), di fiducia (da parte del sentimento, del cuore), di amore (da parte della volontà) verso l’uomo e la vita terrena in generale, a prescindere dalle motivazioni di tale attitudine di stima, fiducia, amore.

Vi è, poi, l’UMANESIMO STORIOGRAFICO”: è la stima, fiducia, amore per le età, le civiltà che han più valorizzato l’uomo e la vita umana.

Vi è, infine, l’UMANESIMO FILOLOGICO che è la stima e l’amore[1] per gli scritti di quelle epoche che hanno celebrato l’uomo e la vita umana, stima e amore che si traducono in ricerca, interpretazione, moltiplicazione e collezione, studio e diffusione dei loro scritti (che, per i secoli dell’umanesimo rinascimentale, sono le opere greche e romane). Al limite, questa passione per  tali libri diventa monomaniaca, portando a disprezzare altre opere ed altre lingue: gli “scritti” per eccellenza sono quelli; quelle sono le lingue per scrivere in maniera degna dell’uomo. Gli altri linguaggi possono venir tollerati come plebei o volgari,  cioè come funzioni pratico-utilitarie adatte al popolino incolto.

La interdipendenza dei tre umanesimi è ovvia: almeno in linea di logica astratta, la terza forma dipende dalla seconda e questa è un corollario della prima. Ma, mentre un certo tipo di umanesimo TEORETICO| ideologico condiziona inevitabilmente il giudizio sul valore o disvalore (grandezza, positività| negatività, insignificanza) di  determinate culture storiche, perchè pensate come viventi   su un  orizzonte identico od opposto ai propri ideali , non necessariamente invece giunge a determinare la preferenza per  la lingua di quelle epoche: per giungere a tale estrema posizione  occorre superare ostacoli pratici ed anche intellettuali. Gli umanisti rinascimentali optarono per l’uso della lingua di Cicerone,  pur sentendo (immaginando) il greco come superiore al latino. Ma solo un gruppo minore di studiosi giunsero, sulla fine del Millequattrocento, a scrivere e parlare nella lingua di Sofocle: il latino era la lingua ufficiale delle cancellerie di tutta Europa; il greco era lingua molto più difficile da apprendere; la erudizione degli studiosi occidentali era sostanzialmente imbevuta di opere latine e solo secondariamente di opere greche (conosciute, di solito, in traduzioni latine). Vogliamo dire che nel progresso dall’umanesimoteoretico|ideologico a quello filologico entrano in gioco fattori diversi, non solo di puro pensiero, ma di psicologia complessa, di esperienze e sentimenti che condizionano la coerenza nella deduzione dei  corollari. Che Dante fosse un umanista ( sia pure non rinascimentale) è fuor di dubbio: ma la sua ammirazione per l’antichità greco-latina non lo portava a disprezzare il volgare fiorentino, ma semmai a costruire (auspicare) una “classicità” del volgare italico, così che potesse assurgere a lingua illustre, degna della reggia e della cancelleria imperiale e papale, cardine di riferimento per i vari “dialetti” d’Italia. Che  l’Umanesimo rinascimentale non fosse fin dall’inizio una cultura strutturata logicamente dal pensiero, ma un atteggiamento più articolato, suggerito da un complesso di fattori sia ideali (superiorità della lingua latina) che sentimentali  (fascino dei grandi scrittori latini: Virgilio, Cicerone e Tito Livio) e praticistici (abitudine all’uso del latino per il tipo di professione: molti preumanisti ed umanisti sono notai o cancellieri di comuni e signorie), lo si dimostra dal fatto storico che prima ci si imbatte nel preumanesimo filologico (da Albertino Mussato a Coluccio Salutati), poi in quello storiografico (Petrarca) e solo in seguito anche in quello ideologico (in genere, nel secolo XV e XVI).

In pratica, i Preumanisti sono dei letterati che, da una parte, ritengono così elevata e nobile la lingua latina, da privilegiarla lungo  tre direttrici. Da una parte, portano la rinnovata stima della lingua di Cicerone  fino al disprezzo del volgare come lingua servile, pragmatica. Dall’altra  sentono la esigenza di ritornare al latino classico, al di là del pressapochismo medioevale (caso conclamato ma non unico: riappropriarsi dell’uso delle infinitive per esprimere  le dichiarazioni  del tipo “Io dico che| E’ noto che”, anzichè  continuare con il “quod”  e  l’indicativo, comune nella tarda latinità e nelle lingue romanze).  In terzo luogo, scoprono l’esigenza di accostarsi ai testi dell’antichità con spirito filologicamente  attento, cioè a leggere le opere antiche anche per l’apprendimento preciso della lingua, oltre che per il fascino dell’arte o la profondità del pensiero.[2] Da questo terzo aspetto alla appassionata ricerca di opere antiche fuori della circolazione e al bisogno di possederle, oltre che leggerle, il passo è breve e trova subito attuazione.

Si tratta, allora, di scrittori non di lingua italiana, ma latina. Il loro studio ha quindi per noi un interesse non propriamente artistico-letterario, ma letterario-culturale: senza una panoramica complessiva del fenomeno umanista non riusciremmo a comprendere il Rinascimento, l’ambiente  in cui respira la risorta letterartura  toscana, a cominciare dalla seconda metà del Millequattrocento.  Ci si permetta un’osservazione. Benedetto Croce afferma che  gli anni che passano tra il 1370 e il 1470   costituiscono il “secolo senza poesia”. Se “poesia” è inteso in senso stretto (letetratura in versi), allor ail giudizio è esatto: Ma se ci si riferisce, invece, alla espressioine lirica, artistica (poetica)  in genere (senso largo), allora la sentenza di Croce è inesatta: le lettere di Alessandra Macinghi Strozzi e soprattutto le prediche di San Bernardino da Siena sono ben “poesia in prosa”. E di più che discreto valore. Va detto, poi, che in ogni caso tale periodo non passa inutilmente per lo sviluppo dei letterati italiani: essi, attraverso il contatto sistematico con le opere dei grandi scrittori del passato e l’assorbimento anche di spunti della loro mentalità, operano il passaggio definitivo dalla civiltà medioevale a quella rinascimentale, superando le incertezze ed ambiguità del Milletrecento. Quando con il Boiardo ed il Pulci , con Lorenzo de’ Medici ed Angelo Poliziano la musa riprenderà a cantare in lingua toscana, motivi ispiratori, tecnica stilistica e la stessa atmosfera lirica saranno profondamente intaccate, con una rivoluzione  di dimensioni copernicane. Se ne accorgerà Lutero, che leverà la sua voce tonante, di collerico geniale, contro la nuova cultura, operando sul piano del pensiero un tentativo disperato di ritorno ad un Medioevo impazzito, con una  interpretazione, la più antiumanistica  mai avanzata, della dottrina  del Vangelo, di San Paolo e di Sant’Agostino, nonostante le proteste di Erasmo da Rotterdam.

            Già prima del Petrarca si evidenziarono, in connessione con centri universitari (Padova, Bologna) od altamente culturalizzati (Vicenza, Verona) tentativi notevoli per una rinascita della perfetta conoscenza e valorizzazione della  scrittura in preciso latino (umanesimo filologico).

A Padova, Lovato de’Lovati (1241-1309) aveva scritto un commento metrico alle opere di Seneca; aveva cantato in due poemi in esametri (andati perduti) gli amori di Tristano e le lotte tra guelfi e ghibellini.. Egli verrà considerato dagli umanisti del Millequattrocento l’iniziatore di una coscienza rinascimentale in Padova. Nè manca in lui, di fronte alla morte, qualche atteggiamento più stoico che cristiano (principio di umanesimo ideologico).

Sempre a Padova, di vent’anni più giovane di lui, segue Albertino Mussato (1261-1329), che morirà in esilio a Chioggia, per aver combattuto contro Cangrande della Scala ed aver partecipato attivamente alla vita politica, contro la signoria dei Carraresi. Scrisse anche in volgare, ma la sua fama (fu incoronato grande scrittore dalla popolazione festante) è legata alla sua attività di storico e poeta in lingua latina. Nella Historia augusta (continuata nel De gestis Italicorum post mortem Henrici VII) narra la spedizione di Arrigo VII: con imparzialità di giudizio, con visuale ampia delle vicende italiane, con sforzo di imitare lo stile di Tito Livio. Nella tragedia Eccerinis, tenta di imitare invece l’orrore di Seneca, mettendo in scena la vita torbida di Ezzelino e Alberico da Romano. Altre sue opere   influirono sul Petrarca (Soliloquia, epistolario latino, autobiografia). Inoltre, egli difese appassionatamente il valore della poesia sia contro alcuni religiosi (il domenicano Giovannino da Mantova ed altri che temevano la oscenità spesso infiltrata in essa) che contro altri giuristi e medici, che disdegnavano l’ozio della fantasia, in nome della prassi, dell’utile, del vantaggio materiale. Le argomentazioni sono, è vero, di tipo ancora medioevale (la stessa Sacra Scrittura contiene, anzi è poesia; la poesia in sè non è corruttrice ma formatrice di popoli, in quanto sostituisce, come “altera philosophia”, la religione naturale), ma il fervore della presa di posizione è cosa nuova.

A Bologna risiede quel Giovanni del Virgilio, che fu in corrispondenza con Dante, rivelandogli il disappunto che egli avesse scritto un’opera così grande in volgare ed invitandolo  a soggiornare  a Bologna: egli provocò in tal modo la stesura delle egloghe latine di Dante. Sempre a Bologna fu un precursore dell’Umanesimo anche il notaio Pellegrino Zambeccari, morto nel Millequattrocento. Fu in relazione con Petrarca, Pier Paolo Vergerio (il vecchio: 1370-1444)[3] e Coluccio Salutati e ci ha lasciato un “epistolario”, interessante per le notizie politiche contemporanee.

A Vicenza troviamo Ferreto dei Ferreti (1297 ca- 1337), che fu scrittore in prosa (“Istoria”: sette libri di cose italiane dal 1250 al 1318) e in versi (“De Scaligenorum origine”: poma in onore dei Della Scala) di cose storiche; in lui si può seguire il progressivo avvicinarsi di sintassi e metrica ai modelli classici.

Da Venezia e da Vicenza sono molti i corrispondenti col Petrarca e col Boccaccio. Giovanni di Conversino, nato a  nel 1343 a Buda, in Ungheria, insegnante o cancelliere in varie città italiane, morto a Venezia nel 1408,  ci ha lasciato opere storiche, un epistolario e un’autobiografia ( “Rendiconto della vita”: in latino,“Rationarium vitae”). Di altri (Paolo di Bernardo, morto nel 1393; e Gasparo Squaro de’ Broaspini, veronese, morto nel 1381: collaborò col Petrarca, trascrivendogli  alcuni libri delle “Familiares”) interessa quasi solo il nome.

 In Toscana ci imbattiamo nei più grandi fra i preumanisti. In ordine di importanza, ne ricordiamo alcuni. Il francescano frate Tedaldo della Casa fu il miglior trascrittore dei manoscritti del Petrarca. Zanòbi da Strada (in Chianti, contado di Firenze) contribuì, più con la propaganda e l’entusiasmo per lo studio dei classici che con sue opere, a diffondere lo spirito umanistico del Petrarca (che gli fu amico e gli indirizzò  varie lettere). Fu anche in relazione col Boccaccio.

L’agostiniano Luigi Marsili (Firenze, 1342-1394) ci ha lasciato solo lettere di contenuto politico-morale, e il commento a due canzoni  (“Italia mia| O aspettata in ciel beata e bella”)e tre sonetti   del Petrarca. Se, nonostante ciò, viene ricordato, è per la sua   cultura straordinaria, per cui il convento di Santo Spirito divenne centro di diffusione  del rinnovamento umanistico, del pensiero e dell’opera di Petrarca: dalla gente più dotta della città era chiamato maestro e padre! Giovanni da Prato, nel romanzo intitolato “Il Paradiso degli Alberti” ne fa l’anima  dei convegni che in tale villa si tenevano (come anche in Casentino, presso il conte Carlo di Poppi). Era amico del Petrarca che gli indirizzò due lettere: per la vestizione dell’abito degli agostiniani; e in accompagnamento del dono di una copia delle Confessioni di S. Agostino (già appartenuta ad altro agostiniano, Dionigi da Borgo San Sepolcro che al Petrarca lo aveva regalato nel 1333 e che, quarant’anno dopo, era consunta per il molto uso fatto dal poeta. Sebbene egli, che era anche grande teologo, avesse assunto qualche atteggiamento  singolare (sosteneva i diritti delle chiese nazionali;  aveva scritto invettive contro la corruzione avignonese; aveva difeso Firenze nella guerra detta degli “Otto santi” contro il legato di papa Gregorio XI), tanto che gli fu negato ripetutamente  il vescovado di Firenze, chiesto per lui dal comune, tuttavia rimprovera alla nuova generazione di umanisti, che vedeva crescersi attorno, di essere imbevuti di troppo culto per gli antichi pagani (“nimium ceditis antiquis”: vi inchinate troppo agli antichi). In lui la conoscenza dei “classici” si univa a quella dei “Padri della Chiesa”, cioè degli autori cristiani dei primi secoli. Tra i suoi ammiratori e discepoli Coluccio Salutati, Niccolò Niccoli (gran raccoglitori e copiatore di manoscritti: 1364-1437), Tommaso Parentucelli da Sarzana ( papa dal 1447 al 1455, col nome di Niccolò V).

Ed eccoci a Lino Coluccio Salutati. Nato a Stignano Valdinievole (Pistoia) nel 1331, muore a Firenze nel 1406, cancelliere del comune dal 1375 (amante di lettere,  aveva dovuto dedicarsi al notariato per la morte precoce del padre). Fu discepolo del Petrarca fin dalla giovinezza, come entrò in amicizia col Boccaccio ed altri umanisti, fra cui il Marsili. Il movimento umanistico vero e proprio comincia in Firenze attorno a lui: suoi discepoli sono il Niccoli (ereditato dal Marsili), Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini. Il suo influsso si esercitò molto attraverso le lettere e le geniali discussioni: egli difese lo studio dei classici e la libertà  repubblicana, sentendosi pienamente realizzato nella sua carica di cancelliere nel libero comune di Firenze. A lui si deve la scoperta, nel 1392, delle “Epistolae ad familiares” (Lettere ai familiari) di Cicerone e la chiamata di Emanuele Crisolora a Firenze per  tenervi pubblica cattedra di greco (a spese del comune, quindi). La descrizione delle sue opere (tutte rigorosamente in latino) ci aiuterà a comprendere meglio l’uomo ed il suo pensiero.

 Ad esempio dobbiamo scoprire  perchè egli è solo preumanista e non pienamente rinascimentale. Anzitutto apprezza ed ama moltissimo Dante. In secondo luogo il suo latino, pur arricchito nel vocabolario e acuto nel ragionamento come elegante per musicalità oratoria, è ancora quello dei “dettatori medioevali”: non sostituisce le dichiarative (quod e indicativo) coll’accusativo e l’infinito! Inoltre ha molti trattati di argomento religioso e morale, ai cui valori è interessatissimo. All’inizio della sua vita di scrittore difende la vita religiosa del chiostro, contro i pericoli del mondo. Il “De saeculo et religione” (La vita secolare e quella religiosa) è in due libri, dedicati nel 1381 a Niccolò da Uzzano che entrava fra i Camaldolesi di Fidenza: vi si rivela un senso di sfiducia pel mondo decadente, che non risparmia neppure Firenze. E’ il più medioevale dei suoi trattati: risente dell’influsso di p. Marsili? Certo non è facilmente concordabile con l’elogio per la vita civilmente impegnata, difesa nel trattato “De tyrannno” (1400). Nel “De verecundia”, del 1390, risponde al quesito di Angelo da Faenza “se la vita debba ritenersi vizio o virtù”. Nel “De fato, fortuna et casu” (dopo il 1396) difende la libertà umana interiore, contro geomanzia ed astrologia (fra l’altro contiene un elogio di Dante, di cui traduce in esametri i versi di Inf. 7, 67-96 sulla fortuna). Nel “De laboribus Herculis” (quattro libri, incompiuti) egli esalta l’eroe mitologico, che merita  di divenire immortale per le sue opere a favore dell’umanità; e soprattutto difende la poesia, come sintesi di sapienza umana e rivelazione divina; e difende il valore educativo degli studi classici. In tale difesa egli continua l’atteggiamento apologetico di Albertino Mussato, di Petrarca, Boccaccio, Pellegrino Zambeccari, Francesco da Fiano, Jacopo da Fermo e P. P. Vergerio. E’ notevole che egli citi la “Poetica” di Aristotele, che era uno dei pochi a conoscere in quegli anni (sia pure in traduzione latina); e che sappia rintuzzare quanti si appellavano alle condanne di Platone,  osservando che il filosofo greco combatteva non la poesia in genere, ma solo quella comica, che era veicolatrice di vizi. In tale difesa, egli insiste con sue lettere sino agli ultimi giorni: contro il cancelliere bolognese Giuliano Zonarini, contro Carlo Malatesta, contro il frate camaldolese Giovanni di Duccio da San Miniato (Epistolario, Roma, 1891-5, IV, p. 170); e contro il beato Giovanni Dominici (ivi, pp. 206-9: la lettera, in risposta alla “Lucula noctis” –Lucciola della notte- del domenicano, non è ultimata, per la morte sopravvenuta il 4 maggio 1406). Si vedano anche le lettere a Gaspare Squaro del 17 novembre 1377; quella del 22 luglio 1393 ad Andrea Giusti da Volterra e quella del 23 aprile 1398 a  Pellegrino Zambeccari. A valori morali o quasi si appella anche l’opera “De nobilitate legum et medicina”, che è un intervento a favore della giurisprudenza e contro l’arte medica: egli continua la polemica tra Petrarca e  gli averroisti che avevano schernito l’umanista sprovvisto di conoscenze scientifiche. Il poeta aveva risposto con il “De sui ipsius et multorum ignorantia” (1367) difendendo  la capacità formativa ai valori spirituali, propria degli studi letterari. A lui aveva obiettato Bernardo da Firenze, difendendo la medicina, che porta salute ai corpi. Ora il Salutati continua la diatriba, osservando che la medicina cura i corpi anche dei malvagi, mentre  le Leggi curano la società, premiando i buoni e punendo i malvagi. In pratica vi è qui la opposizione fra due mentalità e culture: il “magister” Bernardo difendeva le scienze sperimentali ed esatte, mentre gli umanisti difendevano quelle psicologico-letterarie. Pel momento Petrarca doveva trionfare (troppo unilateralmente, ma non inutilmente), lasciando a Leonardo da Vinci la rivincita della sola ironia, contro i latinisti e filosofi (frati non esclusi) che prescindevano dalla esperienza e dal calcolo ma, in compenso, sentenziavano su tutto.

Più decisamente orientati sulla problematica politica sono altri scritti. Col “De tyranno” (1400), egli distingue due tipi di tirannidi: quella toglie solo la libertà politica, e quella che non rispetta neppure la vita e altri beni supremi dei cittadini (religione, morale...). E’  in base a simile distinzione che egli, sostenitore della forma repubblicana di democrazia, difende la interpretazione che Dante dà su Cesare (soprattutto Par. 6, 55-81: il tiranno può essere strumento della Provvidenza per beni superiori alla pura “libertas politica”), mentre non esclude la legittimità del tirannicidio in altri casi.  Circa la esaltazione dell’impegno nella vita sociale si è già detto. Ad una appassionata difesa della forma di governo comunale (fiorentino, in particolare), egli ritorna nella “Invectiva in Antonium Luscum”. Antonio Loschi era il cancelliere dei Visconti milanesi e faceva propaganda per una “pax italiana” che in nome della unità della nazione, permettesse di estendere il dominio del suo signore, Gian Galeazzo. Coluccio ironizza amaramente su questi signori che parlano di una pace da ottenere attraverso la guerra (“pacem cogitent per viam belli”). Si noti che il Loschi era ammiratore e discepolo del Salutati; che il suo padrone diceva essere più temibili le lettere del Salutati che mille cavalieri armati: ma la politica andava oltre la stima e l’amicizia... Per la politica ecclesiastica, egli, che aveva difeso la legittimità del papa romano contro gli scismatici, era però contrario al potere temporale del papato e difese decisamente la libertà del governo fiorentino contro l’ingerenza potificia (segno dei tempi! chè la Firenze del Milleduecento ricordava ancora le disposizioni di Matilde di Canossa in favore del papato, proprio riguardo alla Toscana: ora tali memorie non contano più...).

Ci manca di dire in che cosa Salutati è importante per noi, oggi. Non esteticamente: i suoi scritti non hanno un plus-valore poetico. Troppo filosofo per essere grande poeta e troppo poeta per essere un profondo filosofo? Si è tentati di affermarlo: intuizioni significative come pensiero, ma sul piano psicologico, non metafisico; formulazioni sorprendenti nell’esprimersi, ma non propriamente arte.

E’ invece fonte di notizie interessantissime il suo epistolario, che ci informa sui fatti salienti d’Italia, guardati dalla “specola” di Firenze tra il 1375 e il 1406. Storiograficamente, le lettere del Salutati servono molto di più che quelle del Petrarca.

Notevole poi la sua polemica in favore della vita associata e della preoccupazione a prepararvisi con competenza e con l’onestà dei costumi, onde riuscire in essa parte edificante e non corruttrice. Tipicamente umanistica è la sua crociata in favore della grandezza spirituale della poesia e positività degli studi classici: è significativo che proprio mentre combatteva un’ultima volta tale battaglia (in reazione alla “Lucula noctis” di Giovanni Dominici, che accusava gli autori pagani di essere incitatori di pagana malizia) cadde la stanca sua man.

[1] Come ci si accorge, stavolta manca il termione “fiducia”: L’umanesimo filologico ha per oggetto degli scritti. Per quanto discutibile, il nostro linguaggio ha accettato di parlare di “stima e di amore” per un libro od un certo genere di libri: non è riuscito ad accettare di applicare il termine “fiducia” a dei libri, riservando tale atteggiamento alle sole persone.

[2] In pratica questi scrittori mantengono il pregiudizio che una lingua sia nobile,  adatta ad esprimere i concetti difficili e la bellezza estetica indipendentemente da colui che la parla: il pregiudizio veniva loro dalla acrisia filologica medioevale e durerà fin dentro l’Ottocento. In conclusione le vere novità dei preumanisti  sta nella esigenza di un ritorno al latino grammaticalmente esatto, cioè modellato sugli scrittori più in vista della latinità romana; e  nell’amore per i libri dei grandi scrittori latini, letti non più solo per il pensiero filosofico e le bellezze poetiche, ma  anche in funzione di appropriarsi dei segreti ultimi della scrittura latina. 

[3] P.P. Vergerio, di Capodistria, docente di dialettica e logica a Firenze e Bologna, pubblicò il poema “Africa” del Petrarca e compose, tra l’altro, il trattato “De ingenuis moribus et liberalibus studiis”, che influì notevolmente sulla pedagogia dell’Umanesimo: è destinata a laici nobili, che vuole educati integralemente, a livello religioso, fisico, culturale, con la sottolineatura dell’attività sociale, perchè mira a formare condottieri militari italiani e governatori di popoli che non siano rozzi e tirnnaici, ma onesti e colti. L’opera fu studiata e postillata dal grande educatore umanista GuarinoVeronese ed ebbe vasta diffusione in Europa. Finito segretario dell’imperatore Sigismondo, fu tra i primi a diffondere l’Umanesimo all’estero. E’ detto “il vecchio” (1370-1444), per distinguerlo dall’omonimo che visse fra il 1498 ed il 1565 e che vien detto “il giovane” (questi fu vescovo, nunzio in Germania, passò all’eresia, girovagando dai Grigioni alla Polonia, da Strasburgo a Tubinga, dove morì) ma non ha importanza letteraria, se non perchè provocò la “Dissertatio adversus Paulum Vergerium” di Giovanni della Casa.

 

20/07/01Ultima modifica il .
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