Don Marcello De Grandi
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IL MANZONI
( 1785-1873) LA
VITA. Nasce il 7 Marzo 1785 a Milano da Giulia Beccaria,
sposata nel 1792 al conte Pietro Manzoni[1].
Dopo dieci anni di vita matrimoniale burrascosa, i due decidno una
“separazione amichevole” e Giulia si reca a Parigi col nuovo amante, Carlo
Imbonati. Di Alessandro si occupa il padre, che lo ha subito riconosciuto come
suo figlio e lo lascerà erede universale. Collaborano due fratelli del padre,
sacerdoti, con una sorella, già monaca in un convento soppresso da Giuseppe II.
Ma, in concreto, Alessandro dal 1791 è in collegio e vi rimarrà fino al 1801,
passando dai padri Somaschi (prima
a Merate:13 ottobre 1791- aprile 1796; poi, a Lugano, per circa due anni:
1796-marzo 1798, anticipando la prima occupazione francese) ai Barnabiti (in
seguito alla imposizione del governo repubblicano filofrancese, che costrinse le
famiglie lombarde a far rientrare i figli in Italia). A Lugano ebbe lezioni del
padre somasco Francesco Soave, l’unico di cui conserverà grata memoria.
Stette poi, coi Barnabiti, al collegio Longone, trasferito per le circostanze
belliche a Castellazzo dei Barzi,
ma poi riportato a Milano: Alessandro vi rimase fino agli ultimi mesi del 1801.
Al Longone, egli potè conoscere il Monti, in visita al collegio: le
manifestazioni di entusiasmo del giovane furono così indiscrete, che dovette
essere richiamato all’ordine. Esce, da questa situazione familiare e politica
distorta, profondamente segnato: è illuminista, anticlericale e
filorivoluzionario; anzi, a sua confessione successiva, addirittura ateo.[2]
Il poemetto Del trionfo della libertà viene
scritto in parte forse già nel 1800, quando Alessandro era ancora presso i
Barnabiti. Alla lettura appassionata dei poeti e (rovescio della
medaglia) alla detestazione della matematica, si affianca fin dal nono anno di
età il tentativo di versificare: l’autoritratto, di taglio alfieriano, viene
scritto a 15 anni. Oltre al “fiero Allobrogo” e, forse, più letti stanno
Parini e Monti, Frugoni e Bettinelli, Orazio e Virgilio, Petrarca e Dante. La
terzina dantesca la ritroviamo nel poemetto citato: è, però, una terzina
riletta attraverso la magniloquenza vana del Monti.[3]
Tornato a Milano, nella casa del padre, sfugge agli
sforzi degli zii preti e della zia già monaca e vive una esistenza mondana, che lo porta a
cercare avventure a Venezia e, ad un certo punto, ad innamorarsi dell’
“angelica Luigina”, la sorella di Ermes Visconti, (1801), per la quale
compone un’Ode (“Qual su le Cinzie cime”) ed un sonetto (“Se pien
d’alto disdegno e in me securo”). Essa era inattingibile per uno scapestrato
che rifuggiva dal matrimonio e cercava solo avventure erotiche,
eppure ebbe influenza su di lui: già dopo tre anni, scrivendone al
Fauriel, si vergogna degli anni dal 1801 al 1805 appunto; ed anzi, già nel
1802, nei versi Alla sua donna,
esprime il proposito di rendersi degno dell’angelica creatura. La intensità
di quell’influsso si può arguire dal fatto che, una volta deciso a sposarsi,
il pensiero riandrà a Luigina: che, però, nel frattempo si era già maritata. Non c’erano solo le avventure galanti[4]
a riempire il vuoto di una esistenza senza mete nè ideali precisi. Il
razionalismo era maestro nel distruggere, ma lasciava poi vuota la coscienza,
sia pure liberando i sensi. Anche i quattro Sermoni,
scritti fra il 1803 ed il 1804 in endecasillabi sciolti, esprimono, al seguito
di Parini e di Alfieri, la satira ai costumi del suo tempo: ma sono poi
malcostumi dai quali lui stesso non è immune... Dalla passione del gioco
d’azzardo lo aveva distolto il Monti, quando gli aveva mosso, nel ridotto
della Scala, il famoso rimprovero: “Vogliamo fare dei bei versi, se
continuiamo a questo modo”. La sua vita rischiava di diventare quella di un
“giovin signore” pariniano, anche se non mancava qualche lavoro poetico:
oltre a Del trionfo
della libertà, quattro
sonetti, tra cui quello autobiografico (Capel
bruno: alta fronte: occhio loquace:), l’ode Qual
su le cinzie cime, l’idillio Adda,
e i quattro Sermoni (Amore a Delia, Panegirico a Trimalcione, A G. B. Pagani, Contro i
poetastri). Ma il Manzoni aveva la Provvidenza dalla sua parte.
Anche in questi anni fa incontri che segnano una svolta nella sua cultura,
finora sostanzialmente illuminista, cioè legata al binomio esperienza
sensibile-evidenza razionale. A Milano, infatti, oltre a farsi amico il Monti, a
conoscere il Foscolo ed Ermes Visconti, viene a contatto con profughi sia dalla
Grecia (Andrea Mustoxidi) che dal Napoletano (Francesco Lomonaco e Vincenzo
Cuoco). Del Cuoco egli lesse e rilesse il “Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799”; con lui trascorse ore interminabili in conversazione
anche peripatetica, fino alle ore piccole della Milano napoleonica; da lui
apprese a guardare alla realtà umana non nell’ottica astratta del
razionalismo, ma in quella concreta della dimensione storica per cui, accanto al
nucleo di verità immutabili, occorre tener presente una serie di valori che,
crescendo o diminuendo, incidono sulla effettuabilità degli ideali nella loro
perfezione, sui tempi della loro attuazione. Diventava necessaria la pazienza e
un’opera di formazione culturale come preparazione indispensabile alla
elevazione socio-politica dei popoli. A questo modo, le idee del Vico erano
applicate alla cronaca e discendevano dalla propsettiva cosmica alla
problematica contemporanea. L’Italia, dunque, doveva prepararsi alla libertà,
non riceverla in dono, pena il ripetersi del fallimento della repubblica
partenopea e la vittoria della reazione borbonica. Dall’ambiente milanese lo sottrae
Carlo Imbonati[5],
che lo fa invitare a Parigi: siamo all’inizio del 1805. L’Imbonati, però,
muore improvvisamente a soli 52 anni il 15 marzo, prima dell’arrivo di
Alessandro! Giulia ne accompagna a Milano la salma, sepolta per il momento nella
villa di Brusuglio, lasciatale dall’amante. Ma la società milanese era
indignata per il trattamento riservato dal defunto alle sorelle, sicchè Giulia
ritornò presto con il figlio a Parigi. Qui,
l’essere nipote del Beccaria
valse al giovane Alessandro la stima e l’amicizia degli “ideologi”, cioè
di quel gruppo di sensisti-razionalisti, cioè di “philosophes”, impenitenti
seguaci dell’illuminismo ipercritico e miscredente, oltretutto
filorepubblicani ed antinapoleonici. Essi non mancano di buone intenzioni ed
affermano che la loro attitudine intellettuale è solo metodologica: sono alla
ricerca della verità con un impegno preciso, che “consiste nell’osservarazione
dei fatti condotta col massimo scrupolo ed evitando di trarre nessuna deduzione
di cui non si sia assolutamente certi”. Si riuniscono attorno a madame Sophie
de Grouchy, vedova del marchese di Condorcet, dapprima a
Parigi, poi ad Auteuil ed infine alla “Maisonnette” di Meulan, a 40
chilometri da Parigi. Essa conviveva con Claudio Fauriel, il quale divenne ben
presto l’amico più intimo del Manzoni.[6]
Fauriel continuò in lui
quell’opera di “storicizzazione” delle aspettative ed esigenze che uno
studioso deve avere nei confronti di un’epoca o personaggio, opera che il
Cuoco aveva già iniziato; educò cioè la intelligenza manzoniana a quel sano
senso storicistico del progresso umano, per cui si devono cercare
“vichianamente” in ogni cultura anche ed anzitutto gli aspetti positivi,
senza pregiudizi di ostilità prevenuta nè
atteggiamenti di condanne sommarie.[7] Benchè studiato a scuola, il francese non era
posseduto così bene dal nuovo ospite di Parigi,
da indurlo a scrivere subito in quella lingua: la prima lettera al Fauriel (11
febbraio 1806) è in italiano. Ben presto, naturalmente, si affiaterà con i
grandi scrittori di quella lingua, da Molière a Voltaire, da Corneille a Racine,
da Jacques-Benigne Bossuet a Blaise Pascal ed a François Fénélon: dopo la
conversione, si aggiungeranno i grandi apologisti e teologi, come Jean-Baptiste
Massillon, Louis Bourdalou, Pierre Nicole. E il suo affiatamento con la lingua
francese giungerà al punto da far pensare che le Osservazioni
sulla morale cattolica siano state pensate in francese e... tradotte in
italiano. E’ difficile ritenere che scrittori
recenti e di successo, come lo Chateaubriand (“Le génie du Christianisme”
è del 1802); o che fatti clamorosi come il Concordato napoleonico con la S.
Sede (luglio 1801) non abbiano
influito inconsapevolmente sul sensibilissimo giovane, sebbene la sua
conversione arriverà per una serie di fattori in cui la fede di Enrichetta
Blondel avrà una parte decisiva. La
sua “fede illuministca” sarà messa in crisi dal matrimonio con una fervente
calvinista e, più speicificamente, dal contrasto sul battesimo (cattolico o
protestante?) della primogenita, Giulia (ereditava il nome della nonna
Manzoni). Il
Manzoni intendeva continuare nella sua vita spensierata, ma non così la madre, sia che avesse
imparato la saggezza dalla propria vita sessuale burrascosa, sia che glielo
suggerisse l’amore materno. Essa gli fece trovare da leggere un brano del
poeta Salomon Gessner sull’idillio di
un felice matrimonio: Alessandro capì e, sia per accontentare la madre sia (è
da pensare) per il richiamo più profondo della natura umana, si decise per le
nozze. Si procedette allora a
quella ricerca della sposa che, attraverso la Luigina[8]
e la figlia di Destutt de Tracy, approdò alla scelta di Enrichetta Blondel,
sedicenne[9],
figlia dell’impresario tessile e banchiere svizzero Luigi Francesco, che aveva
un banco nella casa di via Marino, venduta loro dall’Imbonati, quando aveva
lasciato Milano per Parigi. Una cugina di Luigi, Carlotta Blondel, abitava a
Parigi ed era stata di grande conforto a Giulia alla morte dell’Imbonati. Fu
certo essa ad avanzare la proposta per la procugina, che venne contattata,
piacque, divenne fidanzata e sposa di Alessandro col matrimonio del 6 febbraio
1808. Il matrimonio dapprima fu solo civile; quello religioso fu celebrato alla
presenza di un pastore protestante evangelico (Giovanni Gaspare Orelli), venuto
appositamente da Bergamo, dopo che i sacerdoti cattolici avevano fatto difficoltà
di fronte a nozze tra un miscredente ed una protestante. Il 23 dicembre dello
stesso anno nasceva Giulia Maria Claudia Genoveffa (“Giulietta”, per
distinguerla dalla nonna). La questione del battesimo alla piccola fece
precipitare una crisi già presentatasi in occasione del matrimonio religioso.
Per questo, infatti, Alessandro e sua madre Giulia avevano contattato preti
cattolici, per un matrimonio in chiesa. Solo il fatto che il clero non aveva
voluto accedere così facilmente ad un matrimonio misto (per di più con un
cattolico non praticante nè credente) aveva fatto ripiegare sul matrimonio in
presenza del ministro protestante. Al momento di scegliere il battesimo, affiorò
il problema della verità intera e della scelta conseguente. Erano i Manzoni
davvero atei od indifferenti al punto di abbandonare i figli ad una iniziazione,
che appariva loro troppo lontana dalla ragionevolezza? In attesa di miglior
consiglio, il battesimo venne dilazionato. Ad entrare in crisi, questa volta, fu
Enrichetta, con sofferenza tanto più profonda, quanto più candida e profonda
era la sua fede calvinista. In questo clima di sincera ricerca, pare che per i
Manzoni, madre e figlio, sia stato il conte Marescalchi (ministro degli affari
esteri d’Italia presso Napoleone e cattolico praticante) ad incoraggiarli a
sistemare la loro posizione. A stimolare, invece, Enrichetta allo studio della
dottrina cattolica, pare sia stata, invece, la espressione di protesta della
propria fede (“Eppure io ci credo!”), pronunciata dal conte Giovan Battista
Somis di Chiavrie, di fronte al gruppo di ideologi che stavano, a Meulan,
ridendo della religione cattolica.[10]
Enrichetta, dalla cucina, udì l’affermazione e non si peritò di chiedere al
conte di farle da istruttore sulla fede cattolica. Egli si dichiarò inadeguato
al compito, ma potè indicare loro[11]
l’abate Eustachio Degola, che già aveva convertito famiglie cospicue come
quelle dei Geymueller e di Adele Sellon (sposatasi Cavour e madre di Gustavo e
di Camillo Benso). L’abate Degola era giansenista e, come tale,
professava un cattolicesimo che, pretendendo di non essere eretico, era però
vicino alla dottrina calvinista.[12]
Questo fatto favoriva il passaggio dal calvinismo al cattolicesimo senza
eccessivi traumi. Le lezioni cominciarono il 9 aprile 1810 e furono molto vive
di discussioni: era presente, tacito ma attentissimo, anche Alessandro. Il 22
maggio 1810, con convinzione personale, Enrichetta abiurava all’eresia
calvinista e faceva professione di fede cattolica nella chiesa di Saint-Severin
in Parigi (la chiesa allora gestita e frequentata dai filogiansenisti), alla
presenza di una ventina di testimoni, fra cui Giulia ed Alessandro, con due
vescovi. Già prima aveva accettato, non sappiamo con quanta sofferenza o
rassegnazione, di battezzare nella Chiesa cattolica la figlia Giulia (23 agosto
1809). Sui registri di battesimo non poterono essere segnati come genitori
legittimi, perchè non sposati cattolicamente. Già nell’ottobre
1809 veniva fatta petizione a Roma per regolarizzare la loro posizione:
il che avvenne il 5 febbraio 1810, nella cappella privata del ministro d'’talia,
il conte Marescalchi. La conoscenza fatta con questo diplomatico e col Somis era
stata decisiva in un punto: tolsero ad Enrichetta i pregiudizi sul formalismo
cattolico e la pura esteriorità del loro culto. Essa potè finalmente
conoscere, nella società che frequentava, persone colte che professavano un
cattolicesimo convinto e coerente. Di qui il desiderio di un maestro, di lezioni
sistematiche e la conclusione del passaggio alla Chiesa. Dapprima le reazioni
della famiglia Blondel furono risentite; col tempo si riallacciarono i rapporti.[13] Così Parigi era stato il crogiuolo spirituale della
famiglia Manzoni: vi si erano recati alla spicciolata, ciascuno con una propria
ideologia o fede; ne ripartivano assieme, strettamente uniti da una sola
concezione di vita, quella cristiana che, purificandosi man mano delle tracce
giansenistiche, si avviava a divenire sempre più sostanzialmente cattolica. Il
soggiorno a Parigi, d’altronde, aveva avuto un senso non soltanto nel campo
religioso: la padronanza della lingua francese, la conoscenza di molti
intellettuali, il contatto con quello che era il centro europeo di cultura, arte
e politica dell’epoca napoleonica costituiscono per il Manzoni una esperienza,
i cui stimoli affioreranno nella composizione delle sue opere. Ad esempio, egli
potè accedere ai suggerimenti dei grandi apologisti già ricordati[14]
per la scrittura delle Osservazioni;
ne riportò la condanna senza appelli del dominio
spagnolo e del secolo XVII in Italia; mise le basi per il futuro incontro col
pensiero del Thierrey e con la traduzione francese del romanzo “Ivanhoe”
dello Scott, durante il secondo soggiorno a Parigi del 1819-20; per la
dichiarazione a Monsieur Chauvet sulle unità di tempo e di luogo nella
tragedia, del 1820; per la disputa con Victor Cousin sulla natura del piacere in
arte, nella lettera tentata fra il 1829
e il 1831(non finita e non spedita, ma prolungata e tormentata ben al di là
delle dimensioni di una epistola e, piuttosto, come uno studio ); per il
confronto tra la rivoluzione francese ed il risorgimento italiano (a
cominciare dal 1862). Se dal piano del pensiero, ripieghiamo però in
quello strettamente letterario, il soggiorno parigino fu un’epoca di tentativi e
di allenamento, quasi un noviziato poetico, perchè le composizioni allora
scritte ed edite non furono riconosciute dall’autore; furono escluse da ogni
successiva edizione delle proprie opere curata dal Manzoni e non hanno davvero
gran valore poetico, salvo i citati versi della finale del Carme in morte di Carlo Imbonati.[15]
Un’altra composizione , stesa fra il 1808 ed il 1809, fu il poemetto Urania,
edito a Milano nel 1809: ben presto il Manzoni ne scriverà al Fauriel in questi
termini: “ Potrò scrivere versi più brutti, ma come quelli di Urania, mai più”.
Si aggiunga, infine l’epistola poetica “A Parteneide”: l’autore si scusa
colla protagonista di un poemetto idillico dell’amico ideologo Jens Baggesen,
di non aver tempo per darle una veste italiana, cioè di tradurla (la data
oscilla fra il 1809 ed il 1810, ma è anticipabile: edizione postuma, 1879). Il rientro a Milano avvenne il mese successivo alla
abiura di Enrichetta: il 2 giugno 1810 lasciano Parigi, in cerca di pace e di raccoglimento
e si portano a Brusuglio (Cormano). L’abate
Degola diede ad Enrichetta quel “Réglement à une néophite”, che aveva già
steso per Anna de Kalb Geymueller; e affidò a monsignor Luigi Tosi (canonico di
Sant’Ambrogio e, poi, vescovo a Pavia) la direzione spirituale della nuova
famiglia. In Agosto, nel giorno dell’Assunta,
donna Giulia si accosta alla S. Confessione e Comunione; Enrichetta,
probabilmente indisposta in quei giorni, accede
alla Confessione alla fine di agosto, alla Cresima l’11 settembre ed il
15 all’Eucaristia. Anche mons. Tosi apparteneva alla scuola giansenistica, così
come Gaetano Giudici, incaricato del governo austriaco per i problemi dei
rapporti colla Chiesa a Milano: era sacerdote, uscito anche lui da quella facoltà
teologica pavese, che Giuseppe II aveva fornito di docenti giansenisteggianti,
perchè questi erano favorevoli al giurisdizionalismo, cioè all’intervento
dello Stato nelle materie religiose miste (insegnamento, opere caritative,
matrimoni) ed anche non miste (elezione dei vescovi, diritto al nascere di
ordini religiosi, pubblicazione di documenti papali...). Si pone allora
giustamente il problema se Manzoni fosse giansenista, una questione
che esamineremo studiando il suo pensiero. A Brusuglio esisteva, però, il tempietto in stile
classico con la salma dell’Imbonati. Per le pressioni di mons. Tosi o per scrupolo
personale, il tempietto fu distrutto e la salma tumulata (probabilmente, nel
cimitero di S. Gregorio a Milano). Sopra il luogo fu costruita la ghiacciaia.[16]
Prima di questo passo, però, Brusuglio fu riattato, ampliato nelle mura,
rinnovato nel parco, in cui Alessandro stesso –sempre innamorato di botanica e
dilettante agronomo- fece piantare essenze rare e preziose, diffondendo, fra
l’altro, l’acacia (robinia) nelle contrade lombarde. Anche a Milano si pensa
a cambiar casa: da via Brera, cioè da casa Beccaria, Alessandro scelse di
spostarsi in via del Morone, dove sarebbe poi sempre rimasto. Brusuglio era per
l’estate e per le vacanze. L’eredità Imbonati e quella di Pietro Manzoni
furono così messe a frutto, anche se per comperare e sistemare via Morone si
dovette vendere non soltanto la casa di via Brera, ma anche la villa paterna del
Caleotto (a Castello di Lecco).[17]
Si era nel 1818 e quello fu un anno particolarmente tormentato per i Manzoni.
Erano perseguitati dalla gente (a cominciare da mons. Tosi!) perchè Giulia e
“don Alessandro” si erano bensì disfatti della salma e del tempietto a
Carlo Imbonati –segni eloquenti del peccato trascorso- ma si tenevano i frutti
della colpa, cioè appunto la villa e le terre (seicento pertiche coltivabili)
di Brusuglio, mentre le sorelle dell’Imbonati erano ridotte in povertà.
Manzoni soffriva anche della sua nevrosi e si illudeva che l’atmosfera di
Parigi, ove c’erano minori personalismi e maggiore libertà di coscienza,
poteva guarirlo o rimetterlo nella serenità. Per questo, fin dal 1817, i
Manzoni pensarono di espatriare definitivamente, vendendo tutti i loro
possedimenti (che comprendevano anche il “feudo”
di Moncucco nel Novarese, che aveva dato agli ascendenti il titolo di
“conti”, titolo di cui Manzoni si liberò, rifiutando di fare domanda di
riconoscimento al governo austriaco, quando questo ne offerse la opportunità).
Dapprima la polizia austiaca negò i passaporti ma, dopo ripetuta
richiesta per motivi di salute, i permessi
arrivarono e, nel settembre 1819, edite le Osservazioni
sulla morale cattolica (primo, dei due volumi progettati), lasciata in
sospesa l’edizione del Carmagnola
(finito nel luglio), la famiglia Manzoni si avviò alla volta di Parigi, ove li
apsettava il Fauriel e, al posto degli ideologi morti, nuove leve di studiosi
con cui fece conoscenza e strinse amicizia: Victor Cousin (1792-1867), François-Pierre-Guillaume
Guizot (1787-1874), Jacques-Nicolas-Augustin Thierry (1795-1856). I malesseri di
Alessandro non migliorarono affatto, sicchè fu disdetto l’incarico al
fratellastro di donna Giulia (Giulio Beccaria)[18]
di vendere i possediemnti. E ci si preparò al ritorno: l’8 agosto 1820 i
Manzoni rientrano a Brusuglio. A parte la conoscenza col Cousin, che avrà un
seguito quando sarà lui (1829) a venire a Milano, gli furono subito di
vantaggio la conoscenza delle idee storiologiche
del Thierry sulla funzione degli “umili” nella storia. Essi sono capaci di
diventare protagonisti come o contro i “grandi”, sia come diga
conservatrice di certi valori (i cattolici perseguitati durante la
rivoluzione, riaffiorano non appena ristabilito l’ordine, inducendo Napoleone
al Concordato con la Santa Sede), sia come forza rivoluzionaria in occasioni
straordinarie (i sanculotti potevano ben essere i discendenti dei Celti o Galli,
oppressi per secoli dalla nobiltà franco-germanica che li aveva sconfitti e
dominati per secoli). Ne sarà rafforzato il democratismo del Manzoni, che
scriverà difatti una storia di “genti meccaniche e di piccolo affare”. E
gli fu di ispirazione l’Ivanhoe dello Scott, sentito leggere a letto, mentre
era indisposto: benchè, nella traduzione francese, non gli piacesse gran che,
tuttavia esso gettò il seme del romanzo storico, che avrebbe fruttato il cento
per uno ne I promessi sposi. Ma prima del romanzo, erano già venuti
i primi quattro Inni sacri, scritti fra il 1812
(La Resurrezione) ed il 1815 (Il nome
di Maria: 1812; Il Natale: 1813; La
Passione: 1814-5); la edizione de Il
conte di Carmagnola (1820), quella dell’Adelchi
(scritto fra l’estate 1820 e il novembre 1821: edito ottobre 1822); la
composizione delle odi Marzo 1821[19]
e de Il 5 Maggio (luglio 1821: diffuso
manualmente dapprima, per il veto della censura austriaca); de La
Pentecoste (1817-22: ebbe una stesura tormentatissima). Dell’appoggio
morale dato a “Il Conciliatore”, soppresso
quando lui era appena partito per Parigi, si è già detto
nelle pagine dedicate al “Romanticismo”: nella casa del Manzoni, si
era costituito un “superomantico crocchio della contrada del Morone” e a
fare da ponte con il Pellico e gli altri estensori del foglio azzurro era
soprattutto Ermes Visconti, ma del
“crocchio” facevano parte anche Gaetano Cattaneo, Giuseppe Arconati, Tommaso
Grossi, Giovanni Berchet. Il Porta, amico del Manzoni, vi conveniva talora,
mentre su altre sponde ideologiche stavano Ludovico di Breme, Giovan Battista De
Cristoforis, Federico Confalonieri, Pietro Borsieri, il Pellico (redattore
capo), Ludovico Porro-Lambertenghi (il finanziatore) e Gian Domenico Romagnosi. La famiglia, intanto, era cresciuta: dopo la
primogenita Giulia (1808-1834), erano
venuti Pier Luigi (1813-73), Cristina (1815-41), Sofia (1817-45), Enrico
(1819-81), Clara (morta a circa due anni nel 1823) e Vittoria (1822-92), Filippo
(1826-68): si attendeva Matilde (1830-56).[20]
Ma dal 1826 al 1834 gli avvenimenti luttuosi si susseguirono: durante la
gravidanza di Filippo, la vita di Enrichetta parve presso alla fine, tanto che
essa redasse il testamento. Si trattava di etisia, per alleviare la quale si
tentarono anche le cure al mare, a Genova ed a Livorno, durante il viaggio verso
Firenze (luglio-agosto 1827). Ma le condizioni di salute divennero
rirreversibili per la nuova gravidanza che diede alla luce Matilde (nata il 13
luglio 1830) ed anche per il mezzo controproducente che si usava, ancora in
quegli anni, per abbassare la febbre ai malati, cioè il salasso. Il giorno di
Natale 1833, Enrichetta moriva a 39 anni, pianta da Alessandro e dai familiari
per le virù umane e cristiane che rivelò anche nel grande passo della morte (e
che trovarono conferma nei numerosi
poveri che seguirono riconoscenti il funerale, due giorni dopo). La primogenita
Giulietta,andata sposa a Massimo d’Azeglio nel 1832, moriva quattro anni dopo,
avendo già dato alla luce una figlia (Rina).[21] Cogli elogi di Goethe per il Carmagnola e le critiche
di un insegnante di liceo francese (cui risponde con la Lettre
a M. Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie: Lettera
al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia: 1820),
Manzoni si avviava alla composizione del capolavoro. I
Promessi sposi furono stesi
una prima volta col titolo “Fermo e Lucia” dal 24 aprile 1821 al 17
settembre 1823, cioè nei due anni più
ispirati ed artisticamente estrosi del Manzoni, che in quel biennio finiva la Pentecoste;
componeva l’Adelchi, Marzo
1821 e Il 5 maggio; e scriveva la “Lettera al d’Azeglio sul
Romanticismo”. La prima edizione comparve nel 1827 (edizione “ventisettana”),
dopo una revisione generale e col titolo poi rimasto. Incontentabile, lo
scrittore si impose, in seguito, una revisione soprattutto linguistica che si
trascinò per una dozzina d’anni, a causa dei lutti
ed impegni familiari di casa Manzoni (morte della moglie il Natale 1833,
matrimonio nel 1832 e morte di Giulia nel 1834, nuovo matrimonio di Alessandro
con Teresa Borri-Stampa nel 1838...). A
tale scopo non esitò ad intraprendere un viaggio a Firenze, via Genova, con
tutta la famiglia. Erano i mesi estivi del 1827: giunsero a Firenze il 29
agosto. Era atteso al “Gabinetto Vieusseux”[22]
ed il Manzoni potè avere colloqui cordiali col Vieusseux, col Capponi e con
Giuseppe Bonghi. Meno
felice fu l’impatto con l’indiscreto Pietro Giordani; tacito, quello col
giovane Leopardi. Gli aiuti più
concreti per la sua opera di revisione linguistica gli vennero, oltre che da
Guglielmo LIbri, dal foscoliano ed anticlericale G. B. Niccolini (pisano:
1782-1861), che la rivisitò tutta;
e da Gaetano Cioni, che la rivide solo in parte. Ma l’aiuto più costante ed
utile gli venne, attraverso il genero d’Azeglio, da un’umile popolana di
Firenze, Emilia Luti, assunta in servizio in casa Manzoni per sette anni. Anche
a lei, lo scrittore destinerà una copia, con dedica significativa, della
edizione “quarantana”, uscita a fascicoli fra il 1840 ed il 1842, con le
illustrazioni di Francesco Gonin. Questo pittore, procurato anch’esso da
Massimo, veniva da Torino a risolvere, malauguratamente per il Manzoni,
l’iniziativa consigliata da amici e familiari di pubblicare un’edizione a
proprie spese, che lo risarcisse delle innumeri edizioni a stampa, eseguite dopo
il 1827 un po’ dovunque od introdotte liberamente in Italia, perchè non
esisteva la protezione dei diritti d’autore fuori del proprio stato. Sembrò
che il mezzo più efficace per mettere fuori gioco le stampe abusive fossero
questi: un’edizione corretta e definitiva (“risciacquata in Arno”, ma
anche più viva liricamente); l’aggiunta dello studio intitolato Storia
della colonna infame e soprattutto la illustrazione dell’edizione a
dispense, che scoraggiasse il riprodurla per la costosità delle stesse e
l’eccessivo tempo nell’eseguirle. Il Manzoni, uomo dall’intelligenza
teorica formidabile, ma povero di intelligenza operativa (cioè della facoltà
naturale di “prudenza”), persistè nel suo proposito, rifiutando un
contratto parigino (con traduzione a fronte) di lire trentamila. Il ragionamento
suo (e della madre: non della nuova moglie, scaltra negli affari!) peccava per
un defectus elenchi, cioè nel trascurare ingenuamente una ipotesi abbastanza
evidente: la possibilità (subito realizzatasi) di pubblicare nel giro di pochi
giorni la stampa delle dispense senza le costosissime incisioni, che alla più
parte della gente interessavano ben poco. Il libro veniva così a costare
enormemente di meno e ad emarginare dal mercato l’edizione curata
dall’autore. In conclusione, dei diecimila esemplari fatti eseguire, Manzoni
ne potè vendere 4.600 in tutto. Delle 100.000 lire investite nell’impresa, ci
perse in misura tale, che egli non riuscì più e rimettersi economicamente.[23]
Non bastò la pensione di 12.000 lire annue fattagli avere da Cavour con la
nomima a senatore e col conferimento del gran cordone di S. Maurizio. Tanto più
dopo che nel 1848, poco dopo le cinque giornate di Milano, un violentissimo
incendio devastò la villa di Brusuglio, procurando al Manzoni un’altra
perdita di 60.000 lire. Manzoni vivrà di “espedienti” attraverso prestatori
privati (in pratica, usurai), i quali finirono per
ipotecare tutte le proprietà, sicchè alla sua morte i discendenti non
ricevettero nulla, neanche i libri o i manoscritti di un simile padre! Manzoni nel 1837(?) si risposava con una donna piena
di energia e di buon senso, sia perchè attendesse alla casa impegnativa (vi
erano ancora figli minorenni), sia per aver pace da una sessualità esigente: ad
un padre gesuita aveva confidato di aver bisogno dell’aiuto di S. Giovanni
Berchmans (un santo fiammingo,
morto a 22 anni nel 1621, novizio della compagnia, in fama di purezza illibata).
Fu scelta Teresa Borri, vedova del conte Decio Stampa e madre di un figlio,
Stefano, che esercitava l’arte di pittore.[24]
Da questi anni, Manzoni alternerà il soggiorno estivo tra Brusuglio e Lesa
(sulla sponda piemontese del lago Maggiore), dove la moglie aveva una villa di
campagna. Qui aveva modo di incontrare il Rosmini, che abitava a
Stresa: qualcosa dei loro colloqui “peripatetici”, cioè fatti
durante le passeggiate dall’uno all’altro posto, diede relazione, nel volume
“Le stresiane”, Ruggero Bonghi,[25]
che fu presente e si procurò
grande autorità per la sua
relazione amichevole col Manzoni. Il Rosmini ebbe modo di influire sul pensiero
del Manzoni, fino a coinvolgerlo, in campo gnoseologico, nel tradizionalismo
(abbandonato, poi, sia dal filosofo roveretano, sia dal Manzoni, dopo la lettura
delle opere di Locke, nel 1855). Alla sua influenza si devono, almeno
probabilmente, molte idee del trattato Del
romanzo storico (edito nel 1845, ma composto poco dopo il 1830), sia,
sicuramente, quelle .del dialogo Dell’invenzione
(1850). Nel 1841 moriva la madre, donna Giulia. Dal 1857 era
entrato in casa Manzoni il domestico fedelissimo e fidatissimo, Clemente Vismara.
Teresa Borri morirà nel 1861. Di fronte alla questione risorgimentale, Manzoni
manifestò chiaramente la sua posizione favorevole alla indipendenza di
un’Italia democratica, sin dalla caduta di Napoleone: sia scrivendo “Il
proclama di Rimini” (1815), per un’Italia unita sotto Eugenio Beauharnais
(dapprima) e di Gioachino Murat (poi); sia col seguire favorevolmente gli uomini
del Conciliatore; sia componendo
Marzo 1821 in occasione degli effimeri moti del Piemonte e di Modena. Venne poi
l’incoraggiamento a Filippo, sulle barricate nel 1848 e la firma per
l’annessione al Piemonte, pur essendo il
figlio ostaggio degli Austriaci; ai feriti della insurrezione, Manzoni inviò
materassi, biancheria e materiale sanitario. Nel 1858, essendo malato, fu
richiesto di accettare la visita di Massimiliano, fratello dell’imperatore e
governatore di Milano, ma lo scrittore rifiutò. Accettò, poi, il titolo di
senatore (1861); si recò a Torino per il giuramento di fedeltà allo Stato
italiano, per votare Vittorio Emanuele re d’Italia (1861) e per il trasprto
della capitale a Firenze (1864). Gioì per la conquista di Roma ed accettò il
titolo di cittadino onorario, anche se la reazione del papa, che colpì di
scomunica gli autori dell’occupazione violenta, ne smorzarono gli entusiasmi.
(1870).[26] Si è già detto della caduta sui gradini della
chiesa di S. Fedele l’11 maggio 1873: battendo la testa, egli entrò ed uscì,
a periodi, in uno stato di
incoscienza. Quando era lucido, la mente era protesa alla questione del
parallelo tra la rivoluzione farncese ed il risorgimento italiano, di cui non
riuscì a finire lo scritto. Si era preparato scrupolosamente per la Confessione
e Comunione pasquale di quell’anno, ricevendo l’Eucaristia in S. Fedele. Morì
il 22 maggio e i funerali furono un’apoteosi.
Nel 1874, Giuseppe Verdi[27]
compose una “Messa da requiem” appositamente per il primo
anniversario della morte. Nel 1882
gli fu eretta la statua nella piazza di S. Fedele, opera dello scultore
Francesco Barzaghi. LE OPERE
Manzoni ha lasciato scritti che risalgono al 1797
(pochi versi di traduzione dell’Eneide) e morì, si può dire, rimuginando il
suo non rifinito saggio comparativo
della rivoluzione francese col risorgimento italiano, mentre nel febbraio 1873
aveva finito lo scritto Dell’indipendenza
italiana, che è l’ultimo suo lavoro di qualche impegno. Noi segnaleremo solo le opere più importanti,
rimandando in nota quelle da lui rifiutate o comunque meno interessanti.[28]
Va detto che le più che 1500 Lettere,
raccolte da Cesare Arieti per la collana “I Classici” dell’editrice
Mondadori, 1970, sono, con le note, una miniera di dati inesauribili sulla vita,
il pensiero, la personalità, l’attività dello scrittore, otre che sui
familiari, parenti, amici e alcuni personaggi del tempo.
LE LIRICHE Gli Inni sacri: Resurrezione
(1812), Il nome di Maria (1812-3), Il
Natale (1813), La Passione (1814-5), La
Pentecoste (1817-22) Odi civili: Marzo
1821, Il cinque Maggio (18-20 luglio 1821) Cori delle tragedie:
S’ode a destra uno squillo di tromba (fine del
secondo atto del Carmagnola); Dagli
atri muscosi, dai fori cadenti (fine del terzo atto dell’Adelchi); Sparsa
le trecce morbide (fine della prima scena nel IV atto dell’Adelchi).
LE OPERE
TEATRALI (sono in endecasillabi sciolti, eccetto i “Cori”, già
segnalati) Il conte di Carmagnola
(1816-1820) Adelchi (1820-22)[29]
OPERA NARRATIVA (in
prosa): I
PROMESSI SPOSI ( prima redazione, 24 aprile 1821-17 settembre 1823: “Fermo e
Lucia”; seconda redazione e prima edizione, detta “ventisettana”: 1825-7:
“I promessi sposi”; edizione definitiva: 1840-2: I
promessi sposi)
OPERE DI
RIFLESSIONE CRITICA TEOLOGICA, FILOSOFICA,
STORIOGRAFICA, ESTETICA E LINGUISTICA. Osservazioni sulla morale cattolica:
(1819 e 1855)[30] Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica
in Italia (1820-1847:
messo assieme
in preparazione
alla stesura dell’Adelchi, il “discorso” fu edito nelle “Opere varie”
nel 1847)[31]. Storia della colonna infame:
faceva parte, nella stesura originaria del testo di “Fermo e Lucia” e ne fu
poi stralciato, rielaborato ed edito in aggiunta a I
Promessi sposi, nel 1842, deludendo non poco i lettori, che si aspettavano
invece un nuovo romanzo. La rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione
italiana del 1859: osservazioni comparative (postuma
e non finita; era stata iniziata nel 1860-1 e ripensata fin dentro i momenti
lucidi degli ultimi mesi di vita; espone la tesi che la prima sia fallita perchè
ingiusta, mentre il risorgimento italiano era riuscito perchè giusto). Dell’invenzione (1850):
dialogo, in cui Manzoni cerca di
dimostrare (acutamente e disinvoltamente, a dir il vero, salvo l’inizio che
confonde l’idea del fiore con la sua immagine sensibile) la gnoseologia
rosminiana (innatismo potenziale delle idee nell’intuizione dell’essere
ideale-eterno: Dio, in deifnitiva): non sarebbero spiegabili idee identiche in
tutti gli uomini con l’esperienza sensibile o l’astrazione intellettuale. Lettre a M. Chauvet sur l’unité des temps et de
lieu dans la tragédie (1819, ma edita nel 1823). Sul Romanticismo: lettera al marchese Cesare d’Azeglio
(scritta il 22 settembre 1823, fu
ritoccata ed edita nel 1870). Del romanzo storico e in genere de’ componimenti
misti di storia e d’invenzione (1850).[32] Della lingua italiana
(postumo e incompiuto; steso, in parte, subito dopo finito “Fermo e Lucia”,
fra il 1823 ed il 1824; ripreso dopo il 1852). Sentir Messa (postumo, ma steso fra il 1835 ed il 1836, come
sintesi del libro precedente sulla lingua italiana).[33]
Sulla lingua italiana:
lettera al sig. cav. Giacinto Carena (1847, edita nel 1850). Della unità della lingua e dei mezzi per diffonderla:
Relazione al ministro della pubblica istruzione (Emilio Broglio: 1868).[34]
“Appendice” a tale relazione (1869) Lettera intorno al vocabolario (a Ruggero Bonghi:
1868). Le
LETTERE (ediz.
nell’opera omnia per i “Classici Mondadori”, a cura di Cesare Arieti,
Milano, 1970). LA INDIVIDUALITA’
Costituzione
fisica: alto ed esile, snello e asciutto, senza gran torace, Manzoni
ebbe costituzione fisica da leptosomatico, con salute cagionevole e disturbi
neurovegetativi, avvertiti almeno a partire dal 2 aprile 1810 (nozze di
Napoleone con M. L. d’Austria, quando dovette temere che Enrichetta
rimanesse soffocata dalla calca della gente).[35]
Temperamento: fu un “nervoso puro”, ebbe cioè la psicologia dell’uomo
“Emotivo, non attivo,[36]
primario (instabile od esauribile)”. Manzoni conosceva bene i suoi limiti e se
ne difendeva come poteva, chè la scienza medica del tempo annaspava
pietosamente. Come testi di esame autobiografico, rivelatori della coscienza
viva e sofferta che il Manzoni aveva di certi suoi difetti, possono illuminare
la lettera del 7 ottobre 1848, con
cui rifiutava la designazione a deputato al parlamento di Torino nel collegio di
Arona;[37]
e l’altra, al figlio Pier Luigi, del’agosto 1859, in cui vuol sottrarsi ad
ogni costo all’invito insistente
di presenziare alla seduta dell’Istituto lombardo di scienze e lettere,
che lo aveva acclamato suo presidente perpetuo.[38] Una volta informati sulla
misura piuttosto grave di tali limiti e difetti, allora possiamo sospettare loro
conferma anche le figure di don Abbondio e di don Ferrante, che nel romanzo,
ingigantiti dalla vena caricaturale ed ironica, sono controfigure dello stesso
scrittore, nella timidezza che ivi giunge sino alla viltà; e nella
incontentabilità (perfezionismo) che giunge alla
pedanteria. Il Manzoni può sembrare, tutto sommato, un grande
operatore nel suo campo (quello letterario), perchè ha condotto a termine
lavori lunghi e impegnativi, come le due tragedie e soprattutto il romanzo. Ma
il talllone d’Achille del temperamento nervoso affiora in qualche particolare
di tali lavori, ad esempio nella lentezza della correzione definitiva, che lo
tenne impegnato per ben tredici anni, dopo i quattro impiegati a passare
dal “Fermo e Lucia” alla edizione ventisettana de I
promessi sposi.[39]
Inoltre, se dal lavoro strettamente letterario si passa al lavoro di riflessione
critico-filosofica, allora l’eccesso di analiticità, colle sue esigenze di
perfezionismo, si impone come “difficoltà ad architettare in unità le
molteplici considerazioni con cui egli investiva un tutto teoretico: cosa che
non gli riuscì mai, in opere dottrinali, filosofiche.[40]
In particolare, non gli riuscì di scrivere quello studio Della lingua italiana, su cui ritornò più e più volte, senza
giungere ad un’opera di sintesi soddisfacente.[41] Il temperamento nervoso è sempre distonico,
cioè presenta la prevalenza di uno dei due poli del sistema neurovegetativo,
quello (orto)simpat(et)ico e quello vagale (o parasimpatetico). Ci sembra che in
Manzoni prevalesse il tono vagale o parasimpat(et)ico: da questo derivava in lui
la bonarietà, che lo rendeva bensì
inetto al comando, ma gli dava
accesso (grazie alla intelligenza profonda) alla gioia dell’idillio, alla
signorilità del’umorismo e, nelle
tonalità drammatiche, alla prevalenza dell’esultanza epica o della commozione
epico-elegiaca sulla ribellione tragica. Così, anche la morte dei protagonisti
delle due tragedie non è disperata, ma serena nel Carmagnola, commossa
nell’Adelchi: la fede ne è il motivo cosciente, ma la condizione inconscia è
la disponibilità di una carica emozionale di tipo vagotonicoprevalente.[42]
Fantasia Manzoni era dotato soprattutto di fantasia verbale, ma
padroneggiava la parola sia nella sua dimensione filosofica che in quella
musicale. Ottima anche la fantasia visiva,
ma non solo quanto alla linea ed al
disegno (leggeremo la descrizione dei“manichini”o manette nel capitolo 15),
ma anche quanto alla tridimensionalità (vedremo, ad esempio, le figure di don
Abbondio, nel c. 8; dell’Innominato, nel c. 20 del romanzo). Ottima la fantasia cinestetica, che in molti
versi de Il cinque Maggio (specialmente le strofe 5-9 e 14: “Dall’Alpi alle
Piramidi...” ), del primo Coro dell’Adelchi
(dal v. 25 al 54: “E sopra i fuggenti, con avido brando...|| volaron sul ponte
che cupo sonò||....) e in tutto il Coro nel Carmagnola
trascinano vorticosamente con sè.
La
estensione, la profondità e il viraggio della sua intelligenza. Manzoni ebbe una intelligenza completa nel campo
umanistico (cioè nelle scienze che iniziano dalla biologia umana e
risalgono alla psicologia e filosofia, religione e morale, storia e
letteratura), anche se limitata in
quello tecnico-matematico (tanto da manifestare,a scuola, la sua insofferenza
per esse).[43] Fu, nella sua specializzazione, una intelligenza
dotata di eccezionale potere sia di analisi che di sintesi e, quindi, non
solo acuta (che sa scoprire aspetti impensati e leggi nuove nelle realtà prese
in esame), ma profonda (che sa sistemare in organismo coerente i molteplici
aspetti captati dalla indagine analitica). Fu, dunque, fra le intelligenze
dei grandi letterati che si conoscono, una delle più complete in tutta la
storia umana, degna di essere accomunata a quella di Dante e Virgilio, di Omero,
di Shakespeare e di Goethe. Questo
non toglie che si possa osservare una evoluzione della intelligenza del Manzoni attraverso la sua attività
poetica. Dapprima egli appare un precoce e facile estensore di versi: dalle
poche traduzioni da Virgilio e da Orazio sino
a “In morte di Carlo Imbonati” esclusa –dal 1797 al 1805- se ne
contano quasi duemila; poi, si educa a parco tornitore di versi tanto raffinati
quanto freddi e, solo dai
ventisette anni ai quaranta, si rivela un riuscito forgiatore di opere
ispirate, fino alla più sublime genialità. Si passa, così, dalla facile (ma
povera) sintesi di una intelligenza a prevalente viraggio vagotonico su su fino
all’equilibrio fra analisi e sintesi, in cui
la vastità spazzante dell’analisi e la potenza organizzatrice della
sintesi si equivalgonno (tra il 1812 ed il 1827), per discendere poi verso un
predominio del motore ortosimpatetico (che acuisce il potere di analisi). Naturalmente è nel periodo di raggiunta armonia fra
acutezza analitica e coordinazione sintetica che
Manzoni ebbe il suo apogeo
nelle facoltà intellettuali ed artistiche e potè portare a termine con
disinvolta prontezza lavori di impegno e mole notevole: dalle Osservazioni
alle due tragedie, da I Promessi Sposi
alla Storia della colonna infame.
Addirittura Il cinque Maggio fu
composto in tre giorni, nel luglio
1821 (quando la notizia, il 18 del mese, giunse sui giornali europei), sia pure
ssotenuto da Enrichetta, che al pianoforte suonava musiche in tonalità
maggiore, epiche ed esaltanti.[44] Dopo i quarant’anni, come è fisiologicamente
normale, il potere analitico ebbe il sopravvento e il genio
artistico si rivelò solo a sprazzi, in distici
veloci o poche strofe, mentre le
opere storico-filosofico-linguistiche furono di breve mole, si dilungarono nel
tempo di composizione fino a mancare la perfezione della completezza (salvo l’
“Appendice” al capitolo III delle Osservazioni,
di un’ottantina di pagine, composta in vista dell’edizione definitiva
del 1855). Come la completezza dello spettro lirico fanno del
Manzoni uno dei rari poeti universali, così la ambivalenza della sua
razionalità intellettiva lo abilitarono a far materia del suo canto i temi più
urgenti ed elevati della vita religiosa, morale e civile dell’umanità[45],
rendendolo grande aedo, cioè poeta-vate, maestro di vita per ogni
generazione. Ma egli
riesce qualcosa di più: un grande pensatore, cioè un filosofo a pieno
titolo. Ha una visione così completa dei problemi antropologici, che si è
potuto ricostruire con lo “Studio delle dottrine” un vero trattato su
“Ragione e religione; Cognizione e linguaggio; Teodicea e morale; Le
dottrine estetiche; la Politica”.[46]
E’ vero che egli è meno interessato ai problemi metafisici[47]
e cosmologici, ma in compenso scopre rapporti così nuovi ed acuti fra realtà
pur indagate dalle menti più aperte tra gli uomini, che egli sarebbe risultato
un ottimo maestro di filosofia,
inferiore certo ad un Aristotele e Tommaso, ma superiore a Platone ed
Agostino, per non parlare dei pensatori moderni iniziando da Cartesio,
che egli critica sino a demolirne le fondazioni,
con argomenti solitamente insuperabili. Neppure Rosmini, che egli tanto
stimava, gli era alla pari come capacità di addurre prove convincenti pro o
contro una tesi in discussione. Egli è
vero filosofo, in quanto non si limita a pronunciare dei punti di vista, ma
riesce a trovare prove originali
per difenderli; e dimostra, inoltre, di possedere una visione coerente ed
organica dell’uomo e delle sue attività fondamentali, anche se non tutti i
princìpi di tale sistema sono trattati specificamente ed estesamente come
alcuni privilegiati (morale, estetica, linguistica). E’ un peccato che si sia
dovuto attendere più di un secolo
dalla morte per raccogliere in unità
le tessere sparse del suo pensiero
davvero interessante e convincente. L’AMBIENTE Tratteremo solo dell’ambiente culturale[48]
di formazione, cioè della infanzia-giovinezza del Manzoni, perchè quello che
seguì durante gli ottantotto anni di vita, dopo il 1810, non mutò il suo modo
di pensare nè il suo stile di scrittura: fu Manzoni a “far ambiente
letterario” (ed anche culturale in genere), senza praticamente più subirlo.
Che se da una certa adesione al giansenismo si liberò praticamente del tutto,[49]
questo avvenne per un processo di coerenza logica interna, che non fu debitore
ad alcun fatto o libro nuovo, ma semmai
agli apologeti francesi dei secoli XVII e XVII, da lui letti dopo la
conversione. L’ambiente culturale lo riassumeremo,
poi, un po’ sommariamente ma in forma didatticamente utile, nelle due
componenti ideologiche dell’illuminismo (più o meno immanentista) e
del cristianesimo (più o meno cattolicheggiante); e nelle due correnti
letterarie opposte del classicismo
(mitologico, ma non necessariamente paganeggiante) e del romanticismo (più o
meno filomedioevalista, ma non necessariamente cristiano). Queste quattro dimensioni culturali si contrapposero nella giovinezza del Manzoni ed
influirono potentemente sulla sua formazione, ma senza intaccarne la libertà,
come dimostra il suo passaggio radicale dall’una all’altra
opzione e filosofica e letteraria, con la conversione del 1810. Manzoni
era ovviamenyte ben conscio della opposizione delle due coppie di componenti,
come cantò nel Cinque Maggio: “Ei si nomò: due secoli,| l’un contro
l’altro armato,| sommessi a lui si volsero,| come aspettando il fato;| ei
fe’[50] silenzio, ed arbitro|
s’assise in mezzo a lor”. L’AMBIENTE IDEOLOGICOIn realtà,
Manzoni nacque in una famiglia probabilmente già culturalmente divisa
(e, di certo, moralmente opposta):
la madre libertina era fors’anche intellettualmente non più cristiana. Il
padre (magari solo “putativo”, ma comunque responsabile dell’educazione)
chiuso in una fede di tradizione (non motivata razionalmente) ed ina visione
politica conservatrice ad oltranza. Si aggiungano, sul versante cristiano,
i due fratelli preti di don Pietro Manzoni e la sorella che, già vissuta in
convento, continuava fuori di esso a sentire
e condursi come una religiosa; e, poi, l’influsso dei vari insegnanti nei
collegi dei padri Somaschi (1791-1796, a Merate; 1796-98, A Lugano)
e dei Barnabiti (1798-fine del 1801). Ma, sul versante illuminista,
stavano l’esempio della madre, separatasi dal marito già nel 1792 e
fuggita a Parigi con Carlo Imbonati; stavano i “Verri”, di cui Pietro era
stato il paraninfo nell’infelice matrimonio di don Pietro e donna Giulia,
mentre Giovanni poteva ben essere il padre vero del ragazzo; stavano le vittorie
della rivoluzione impersonata in Napoleone, eroe invincibile sin da quando
Alessandro aveva 11-12 anni. E si sa che, come dice Simona Weil, la verità
fugge nel campo del vincitore: specialmente per gli animi
impressionabili di adolescenti e di giovani, in cui, anche nelle
circostanze più pacifiche, parole come ordine, legge morale e sottomissione
alla legittima autorità di genitori ed educatori
sono sentite come odiose e subiscono
la concorrenza dell’istinto di ribellione
verso una libertà generica
ma illimitato, così affine a
quella rivoluzionaria. Ecco difatti il giovane sedicenne comporre in terzine
dantesche il poemetto Del trionfo della
libertà, dove difende il bene grande, ma comune infine con gli animali,
della libertà esteriore come valore supremo della vita, scambiandola
quindi con la libertà interiore, che egli non riconosce più, perchè
si può giurare che la ritenga, con gli
illuministi, una favola irrealizzabile, essendo l’uomo schiavo dei suoi
isitinti. E, nei Sermoni, di poco
posteriori, eccolo satireggiare gli ipocriti sostenitori della morale più
esigente (cioè dell’agire conforme alla libertà interiore), sia che lo
facessero in nome della religione, sia
che la inseganssero in nome di propri interessi. A Parigi
incontra gli “ideologi” del salotto di Sofia Condorcet.
Manzoni vi si trova come nel suo liquido elemento: ricerca spassionata della
verità, ma adesione scontata all’immanentismo
razionalista estremo ed alla gnoseologia sensista. L’attitudine etico
religiosa (non cristiaa) si va moderando nella forma (anche per il sopravvenuto
matrimonio e paternità), ma sostanzialmente si conferma.
Il problema
della libertà
sarà quanto mai vivo in tutto il secolo XIX, secolo della liberazione delle
“nazioni” dal mito degli imperi e dalla brama del dominio su altri popoli.
Di tale aspirazione alla libertà politica (indipendenza da stranieri e
democrazia moderata negli Stati liberi), Manzoni fu partecipe sempre, anche se
una evoluzione viene provocata, prima, dai due incontri già accennati: a
Milano, con Vincenzo Cuoco
che gli trasmise il senso concreto del progresso storico; a Parigi, nei mesi tra
il 1819-20, con le idee del Thierry, che gli comunicarono il senso e la
forza degl umili nelle vicende storiche; poi, dalla conversione alla fede.
[51]
Più interessante per lui era un aspetto di tale
“libertà politico-sociale”, cioè la
libertà della Chiesa ed i suoi rapporti con lo Stato. In questo il Manzoni
era assediato da correnti diverse. C’erano gli ultramontani, che rivolevano
l’alleanza fra trono ed altare (lo Chateaubriand e soprattutto Luigi De Bonald);
vi erano i sostenitori della cooperazione fra Stato e Chiesa, che riconoscesse
una superiorità in campo morale a quest’ultima (neoguelfi e Vincenzo Gioberti);
vi erano i sostenitori della loro separazione totale, neutra
(il vescovo Henri Grégoire)[52]
o addirittura ostile (Rattazzi, la Massoneria), che rimetteva in campo il
giurisdizionalismo e peggio.... Certamente sul
pensiero del Manzoni influirono e fatti politici
(come il concordato napoleonico del 1801), pubblicazioni letterarie (“Le génie
du Christianisme” di François.René de Chateaubriand) ed edizioni
apologetiche (il libro fortunato di Hugues-Félicité-Robert de Lamennais
“Essai sur l’indifférence en matière de réligion”).[53]
Ma vedremo che il Manzoni segue un suo pensiero, che distingue fra rapporti
di politica e religione in genere (rapporti necessari, visto che entrambe
le istituzioni si arroccano attorno al concetto di giustizia, della distinzione
fra bene e male) e relazione fra Chiesa e Stato, che può avere diverse modalità,
compresa quella della separazione rispettosa. Egli esclude, però, sia
l’intervento della Chiesa nella politica (il far difendere dallo Stato
l’osservanza dei precetti della Chiesa; la regalità politica della Chiesa col
potere temporale) sia quello dello Stato nella vita della Chiesa
(giurisdizionalismo e comportamenti ostili in genere).[54] Ma in Manzoni
operarono più fortemente due spinte concordi: da una parte la coerenza col cattolicesimo[55]
di fronte al matrimonio religioso,
prima, ed al battesimo della primogenita Giulietta (cattolico o protestante?),
poi; dall’altra, l’amore per la moglie Enrichetta, che era una protestante,
cordialmente credente. Quando questa, di fronte alla ferma presa di
posizione del Somis a Meulan, si decise ad istruirsi nella dottrina cattolica,
anche Alessandro presenziò alle lezioni del Degola e si convertì. La serietà
della adesione alla fede cristiana può essere documentata anche da un solo
segno: egli principiò subito nel 1810 a chiedere il permesso al S. Ufficio per
poter legegre e tenere libri inclusi nell’Indice dei libri proibiti; infatti,
sono conservate le sue richieste[56]
e nel 1823 gli venne rilasciato il permesso per tutta al vita. Di alcuni
scritti, poi, come le opere filosofiche del Voltaire, si era liberato,
consegnandole a monsignor Tosi. E subito si procurò le opere dei grandi
apologisti francesi che
perfezionarono la sua cultura cattolica e lo disancorarono dalle remore
gianseniste[57]. Col 1826 venne la
conoscenza col Rosmini, le cui opere e conversazioni, completarono (e
deformarono in parte, a livello gnoseologico) la sua formazione e filosofica e
teologica. Influssi seguenti non mancarono, ma furono marginali.
Ad esempio, la lettura del “Saggio sulla conoscenza” di John Locke,
in occasione della rivisitazione delle Osservazioni per l’edizione definitva del 1855, gli fece
abbandonare la dottrina dell’innatismo delle idee, di stampo rosminiano, che
pure gli avevano dettato il dialogo Dell’invenzione
una manciata di anni prima (1850, la edizione). A sua volta la frequenza del
Rosmini lo rese più ottimista sulla capacità dell’uomo, anche senza un
aiuto particolare di Dio, a pervenire alla conoscenza completa della legge morale.[58]
Quanto agli altri filosofi che Amerio cita con singolare competenza, come
conosciuti dal Manzoni per lettura diretta,[59]
si deve dire che su lui non ebebro influssi evidenti: egli li leggeva per aver
conferma eventuale di idee già recepite per via indiretta (la scuola, ad
esempio) o per farne delle
revisioni critiche, cioè per rifiutarli. Questa selezione rigorosamente razionale delle idee
altrui (e delle proprie, anche, vista la disponibilità a mutare parere dietro
prove convincenti), ci prepara all’ultimo atto del rapporto fra Manzoni ed il
suo ambiente: ormai egli non tanto ne
subiva la cultura, quanto la formava,
con un seguito certamente molto vasto,[60]
anche se non si può negare che l’uomo, timido e riservatissimo, non
valeva molto nel “vendere e propagandare” la sua merce intellettuale.
Carducci, molto più limitato nelle facoltà filosofiche e dotato di una visione
di vita molto meno coerente e stabile, aveva una potenza divulgatrice delle
proprie opinioni troppo superiori a quelle del Manzoni, sicchè presto il
magistero del “poeta e politicante maremmano” finì per cancellare o quasi
quello dell’aedo e patriarca milanese. L’AMBIENTE SPECIFICAMENTE LETTERARIO. Il Manzoni sembra
essere vissuto assecondando la moda letteraria prevalente nelle varie
tappe della sua vita: dapprima, quella neoclassica; poi, quella romantica. Ed in
parte è vero, nel senso che ogni grande poeta è sensibilissimo all’ambiente
poetico che lo circonda e vi si adatta prontamente, salvo
a chiamarsene fuori ed a creare lui stesso corrente letteraria o forma
espressiva inimitabile. Va tenuto, però,
presente che il neoclassicismo del giovane Manzoni era alimentato dal
classicismo
di Virgilio ed Orazio, dei quali ci rimangono tentativi di traduzione in versi
sciolti; che egli ammira e legge
l’Alfieri, sul modello del quale compone, a 16 anni, l’Autoritratto; ha imparato molto da Dante, di cui usa, sempre nel
1801, il metro della “Commedia”
in Del Trionfo della libertà;ed ha
presente il Parini nella composizione, due anni dopo, dei quattro Sermoni. Si citano, inoltre, il Frugoni ed il Bettinelli fra gli
altri poeti settecenteschi meglio conosciuti dal Manzoni. Solo in seguito venne il Monti, di cui all’inizio
il Manzoni fu entusiasta, ma che forse già nel 1807 egli criticava in due versi
satirici (“Al dir del Monti, Mascheron che muore| è fiamma, pesce, augello e
fiore”). E va ricordato che il carme in morte di Carlo
Imbonati (1805-6) risente indubbiamente del neoclassicismo, ma nei versi 202-15
l’autore non è nè classico nè romantico: è semplicemente
se stesso, grandissimo poeta. Certo la
conversione favorì il passaggio dal neoclassicismo al romanticismo, chè
non solo il Foscolo, ma lo stesso Manzoni nelle sue opere neoclassiche,
culminando un fenomeno settecentesco, avevano mostrato troppo apertamente che la
mitologia era davvero idolatria (come riconoscerà il convertito a Cesare
d’Azeglio, nella lettera Sul
romanticismo del 1823). Ma questa nota vale solo negativamente, cioè spiega
la rottura colla scuola neoclassica;
non dà ragione dell’adesione al
nuovo verbo romantico. In proposito due cose ci sembrano sicure. La prima: quando
egli inizierà a scrivere gli Inni sacri, non avrà la coscienza di essersi
iscritto ad una nuova corrente
letteraria, ma solo, abbandonato il classicismo con i suoi canoni sofistici,
di parlare secondo il proprio sentire e pensare (“Sentir –riprese- e
meditar”), proponendosi come motivi di canto temi sentiti sinceramente e non
ricercati forzatamente in un bagaglio imposto dalla moda. In altre parole: Il romanticismo del Manzoni è una scoperta del Manzoni stesso. Chi avvicinerà, specificamente, il Manzoni alla
sensibilità ed estetica romantica sarà, invece, il Fauriel. Questi era spontaneamente sintonizzato con i princìpi del
movimento già in atto in Germania, come si può rilevare dalle “Réflections”,
premesse alla traduzione della “Parteneide” del Baggesen.
Discorrendo, egli aveva partecipato all’amico i suoi interessi
di filologia romanza, che lo portavano al Medioevo ed alla sua storia. In
tal senso, fu lui ad ambientare nella nuova mentalità il Manzoni.[61]
Ed a lui il poeta scriverà dopo la composizione dell’Urania, il 15 febbraio
1810: “...je suis mécontant de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’interet;
ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-etre de pires,
mais je n’en ferai plus comme cela.”[62]
Pure, egli aveva perseverato nel classicismo sino
all’Urania, cioè fino al 1809; e quando comprende che una simile composizione
non è arte, non lo fa appellandosi a princìpi esteriori di altre scuole e di
programmi già riconosciuti come a sè congeniali, ma lo fa richiamandosi
unicamente alla propria elementare
intuizione: anzitutto, un argomento “interessante” per potersi esprimere in
maniera interessante. L’argomento deve essere affascinante per l’autore,
anzitutto: l’incanto del fruitore seguirà ovviamente. Se questo è il
fondamento del “romanticismo” manzoniano, allora una conclusione si impone: egli
non l’ha postulato da altri ma, come Foscolo nelle “Ultime lettere di
Jacopo Ortis” e nella prolusione di Pavia (9 gennaio 1809: poco più di un mese in anticipo sulla lettera del 15 febbraio al
Fauriel, con cui il Manzoni ripudiava il classicismo), se lo è inventato da sè. Non possiamo parlare, perciò, di un ambiente
“romantico” che influisse sul Manzoni, ma semmai di un Manzoni che aiutò a
Milano il formarsi di una coscienza diversa da quella classicistica e che finì
per riconoscersi nelle idee romantiche, insinuate felicemente
nell’ambiente culturale milanese dagli articoli della Stael.[63]
Non per nulla i romantici italiani de “Il conciliatore” guardavano al
Manzoni come al capo spirituale del movimento: era stato lui a lasciarsi alle
spalle defintivamente la maniera classicistica ed a cominciare ad esprimersi
secondo il proprio convincimento e sensibilità, a trattare argomenti religiosi
attuali (cristiani), a cantarli con quell’impeto lirico che convince ed
affascina, senza l’abinamento
delle due scuole, come il Foscolo là
dove è grandissimo poeta (sonetti e Sepolcri); e senza cadere nell’enfasi ed
il patetismo, come quello, là dove è pienamente romantico, ma
disequilibratamente tormentato,
fino al suicidio (“Ultime lettere”). In seguito verranno Il
conte di Carmagnola, Adelchi, I
promessi Sposi, Il cinque maggio, La
Pentecoste, meditazioni morali e religiose sulle vicende umane in genere;
la trama di Spartaco, a tema
etico-sociale, Il 21 Marzo, ode
politico-morale-religiosa: tutte opere che possono ben rientrare per qualche
aspetto nello spirito romantico, ma che non hanno in realtà
connotazione diversa da quella, generica ma ben superiore, dell’arte,
della grande arte. Definire “I Promessi” come romanzo storico od opera
romantica è quanto mai riduttivo e depistante: sono un capolavoro di poesia
scritto in prosa; e tanto basti! Come per
la scrittura delle Osservazioni ed in
genere per la parte religiosa delle
opere poetiche vanno segnalati i volumi dei grandi apologisti, francesi e no,
che gli insegnarono la teologia e gli diedero così una preparazione generale ad
affrontare le obiezioni del Sismondi ed a cantare gli aspetti commoventi delle
verità cristiane, così non
andranno trascurate le opere storiche e filosofiche che egli lesse man mano che
si preparava alla stesura di un lavoro letterario. Ad esempio, si sa che conobbe
opere di François Guizot e che consultò i “Rerum italicarum scriptores”
del Muratori prima di scrivere l’Adelchi
(lettera al Fauriel del 17 ottobre 1820). Le opere filosofiche che egli lesse
distintamente le abbiamo già segnalate, parlando dell’ambiente culturale. E
la programmatica fedeltà ai fatti nella ricerca della verità, propria al
circolo degli “ideologi” di Meulan, ha certo confermato la ricerca storica
del Manzoni, che risale il più possibile alle fonti od agli studi più
informati. Una
menzione particolare merita l’apporto
degli scrittori francesi dei secoli XVII e XVIII per la ricchezza delle loro osservazioni psicologiche: il Croce riduce
sbrigativamente la profondità, in materia, del Manzoni all’esempio dei grandi
scrittori francesi ( e si dve pensare che egli aveva in mente Montesquieu,
Voltaire e soprattutto François La Rochefoucauld (1613-80: “Réflections ou
sentences et maximes morales”).[64]
Che la cultura francese abbia influenzato, anche in questo, il giovane Manzoni,
è fuori dubbio; ma che la sua acutezza e completezza di analisi psicologica sia
da imputarsi soprattutto a tale contatto è inaccettabile. Basterà tener
presente due ulteriori e superiori sorgenti. Anzitutto vi è la parentela
cromosomica con quella di Cesare
Beccaria, che nel suo capolavoro “Dei delitti e delle pene” sorprende e
persuade soprattutto per le analisi psicologiche con cui affronta problemi
sociali, politici, giuridici: Manzoni non imita tanto i francesi, quanto
piuttosto continua, perfezionandola, la congenialità avita per le indagine
sulle motivazioni dell’agire umano. In
secondo luogo, vi è la conversione: è la visione cristiana della vita, dal
peccato originale alla redenzione di Cristo, che conduce Manzoni a perfezionare
il proprio genio psicologico, facendolo passare dalla acutezza approssimativa
alla profondità esauriente, dallo
psicologismo pressappochista dei predecessori, alla psicologia
“spazzante” dei Promessi Sposi. Un segno di tale metamorfosi è il passaggio
dalla razionalistica distinzione binaria dei più soliti atteggiamenti umani
alla loro distinzione ternaria, mediante la inserzione della condizione di compromesso o di indecisione, propria della
massa degli uomini. Ne riparleremo, ma fin d’ora si può ricordare la divisione imperterrita del Beccaria fra
processi lunghi ed inconcludenti colla pena di morte; e processi brevi e
chiarificatori anche senza pena di morte, divisione che dimentica le due
possibilità intermedie, dei processi celeri e conclusivi pur con la pena di
morte; e di quelli incerti e inutilmente prolungati, anche
senza la pena di morte. Si legga, a confronto, il famoso brano “Nei
tumulti popolari” del capitolo XIII dei Promessi Sposi, ove la psicologia
della folla è chiaramente distinta in tre gruppi: le due fazioni estreme, dei
sovvertitori|pacificatori ad ogni costo; e quella maggioritaria, intermedia,
degli incerti, che seguono la corrente estrema vittoriosa. La differenza fra
l’acutezza fallosa del nonno e la profondità
incontrovertibile del nipote balzerà agli occhi immediatamente.[65]
Che se per spirito romantico si intendesse l’amore
e la solidarietà con il popolo dei diseredati, allora vi sono almeno due
fatti clamorosi che testimoniano della originalità ed indipendenza nel Manzoni
di tale atteggiamento. Vi è, anzitutto, il rifiuto del titolo di “conte”,
che egli non volle riappropriarsi con l’iscriversi all’albo della
nobiltà, riaperto dal governo austriaco;[66]
e, in secondo luogo, l’aver messo al centro del suo romanzo “ gente
meccaniche, e di piccol affare”, tanto da indurre il critico marxista
Natalino Sapegno a definire il romanzo una “epopea degli umili”. Questo non
vuol negare l’influsso delle idee del Thierry circa l’importanza del
popolo anonimo nella storia, circa il suo peso politico nel causare avvenimenti
anche grandiosi, colla sola inerzia del perseverare in sentimenti e convinzioni
politicamente represse, che finisce per far trionfare alla prima occasione
favorevole. Acquisti innumeri vennero al Manzoni dalle letture
storiche, che gli diedero il primo suggerimento per il nucleo centrale del
romanzo o che servirono a documentarne le parti storiche,
ma le citeremo a proposito dello stile. Qui vogliamo invece riferire le
fonti letterarie che contribuirono alla generica decisione a scrivere un romanzo
storico o gli fornirono particolari di dettaglio alla stesura. L’Ivanhoe di
Walter Scott fu accostato dal Manzoni durante il suo secondo soggiorno parigino,
nel 1819-20: al momento non gli piacque gran che, ma certo fu un seme introdotto
nella mente, che avrebbe dato i suoi frutti, visto che nella lettera la Fauriel
del 29 gennaio 182, egli si ricrede sul merito di quel romanzo. Venuto lo Scott
a visitare Manzoni a Milano, ci fu un battibecco amichevole ed autoironico fra i
due: Manzoni protestava che il merito della sua opera
era da attribuirsi tutto alla idea ed agli esempi del romanzo storico
divulgati dall’inglese; lo Scott, dopo aver inutilmente negato che si potesse
ridurre il valore dei Promessi sposi alla sua spinta generica, concluse che, se
proprio Manzoni insisteva nella sua tesi paradossale, allora “I promessi
sposi” erano il suo miglior romanzo... Nel 1960, Giovanni Getto annunciava di avere scoperto
“Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi” (Lettere italiane, XII,
1960, 2, pp. 141-167). Si trattava della “Historia
del cavalier Perduto” di Pace Pasini, dove alcune vicende del romanzo sono
prevenute. Come generica fonte di ispirazione per un romanzo su
gente di popolo, bisogna ricordare anche “Hermann
und Dorothea”, un idillio in esametri, che Goethe pubblicò nel 1797. Cosimo Galeazzi Scotti, barnabita, fu insegnante al
collegio Longone, dove Manzoni venne a vivere a partire dalla primavera 1798.
Egli scrisse novelle, raccolte in due volumi: “Le giornate del Brembo colle veglie di Belgioioso” e
“L’accademia borromea”, editi fra il 1804 ed il 1809. Vi si narrano
“tradizioni e fatti del territorio di Lecco, soprusi di signorotti circondati
dai loro bravi, rapimenti di donne, i casi di un giovane campagnolo che si
chiama Renzo e di una modetsa e bella Lucia.”[67] Ed ecco Tommaso
Grossi:
prima che egli entrasse nella casa di via Morone, per rimanervi ospite sedici
anni (1822-1838: amico,
faccendiere, maestro di figlie del Manzoni, Matilde e Cristina), tra la fine del
1820 e l’inizio del 1821 diede inizio al poema in ottave “I lombardi alla prima crociata”, che verrà citato addirittura nel
romanzo (c. 11) ed uscirà nel 1836. Ora, il poema è proprio un miscuglio di
storia e di invenzione e il Manzoni nella lettera al Fauriel del 29 gennaio 1821
elogia il lavoro che il Grossi stava facendo e manifesta la più candida fede
nella possibilità di scrivere opere miste di verità storiografiche e fantasie favolose. In realtà il
Manzoni, iniziando “Fermo e Lucia” il 28 aprile 1821 seguiva l’amico e si
può anche sospettare che la iniziativa di quello abbia in qualche modo influito
sulla propria decisione a scrivere il romanzo storico dei “Promessi”.[68] LA POESIA
I MOTIVI ISPIRATORI CARATTERI GENERALI: universalità ed organicità
L’universalità.
Si tratta di una universalità umanistica, che si ispira cioè a tutto
l’uomo. Anticipiamo qui, in una carrellata sintetica, le varie facce di
questo “umanesimo plenario”, mentre più avanti ne documenteremo in
dettaglio alcuni aspetti clamorosi. Manzoni, dunque, si interessa del corpo e
dell’anima, della salute e delle malattie, della psicologia e dei suoi
mutamenti più o meno radicali (conversioni). E’ attento alle sue attività più
diverse, dalla religione alla politica e dalla vita contadina a quella
industriale. E’ ammirato per la sua intelligenza
intraprendente e probità anche eroica, così come è sconcertato dalla
sua follia stravagante e
dalla sua disonestà anche criminale. Si china sulle vicende della cronaca
usuale, propria delle “gente meccaniche, e di piccol affare” e si innalza
agli avvenimenti della storia complessa, accompagnati
dal “rimbombo de’ bellici oricalchi”. Si immerge nella vita di ogni
categoria, dai “feudatari, nobili, mediocri, vili, e plebei”, dai capi di
stato e dai protagonisti più famosi delle umane vicissitudini,
agli umili personaggi , proni nei “solchi bagnati di servo sudor” o dediti
“all’opere imbelle dell’arse officine”. Nelle opere manzoniane c’è
posto per tutta l’umanità: gloriosa e vincitrice o dolente e sconfitta;
gioiosamente dedita al lavoro, alla preghiera ed allo studio
oppure oziosa nel gioco, nei banchetti, nelle cacce o
nel libertinaggio erotico,
quando non impegnata in operazione delittuose e tiranniche; pacifica nei giorni
della sufficienza economica oppure scatenata in tumulti e saccheggi nei giorni
di carestia e miseria.[69] In questo umanesimo plenario c’è ovviamente posto
anche per l’autobiografismo, che va decrescendo però dalla giovinezza
(Autoritratto) alla maturità (vedremo
i pochi accenni nel romanzo). E vi è spazio anche per la natura, per il paesaggio.
Ma esso è sempre subordinato alla condizione di spirito (stato d’animo)
dei personaggi che vi sono ambientati, ispirato, cioè, dall’uomo e
reso riflesso della sua psicologia. Vedremo, tanto nelle tragedie come nel
romanzo, questa abituale “umanizzazione” dell’ambiente naturale. Invece, in
Manzoni manca quasi del tutto la sensibilità per il cosmo e la scienza,
per la metafisica ed il ragionamento rigorosamente filosofico (sillogistico). Rispetto
a quella di Dante, l’universalità dei motivi ispiratori del Manzoni è
settoriale. In Dante astronomia, geometria e matematica, filosofia e teologia
offrono spunti per versi e terzine, per ragionamenti “in formis” (più o
meno sillogistici) su problemi, che vanno dal libero arbitrio (Purg. c. 16),
alla connaturalità dell’intelligenza con la ricerca della verità (Paradiso,
4, 124-32), dalle prove sperimentali per distinguere una differenza di quantità
piuttosto che di qualità nella luce recepita (ivi, 2) all’esame delle virtù
di fede, speranza e carità (ib. cc. 24-25-26), al mistero della Santissima
Trinità e della Incarnazione del Verbo di Dio (ib. c. 33). In Manzoni, non
l’astronomia, ma l’astrologia entra in scena, ovviamente per derisione e
caricature (cc. 32 e 37); i sillogismi sono messi in bocca a quella macchietta
di don Ferrante, che, da solo, toglierebbe
credito aad ogni argomentazione più
seria (c. 37); la scienza è scorciata lungo la dimensione dei suoi
errori storici più marchiani (sempre messi in bocca all’ineffabile marito di
donna Prassede: c. 27). L’unica scienza esatta che trova spazio nella
ispirazione manzoniana è l’economia, su cui aveva meditato a lungo leggendo,
ad esempio, “Sul commercio de’ commestibili
e caro prezzo del vitto” di Melchiorre Gioia (1767-1829): ma è una
aritmetica del tutto funzionale all’uomo ed alla sua vita. (c.12). Universalità, dunque, specializzata, quella di Manzoni: ma in sede di psicologia o
lettura dei moventi più soliti dell’umano operare, non v’è nessuno più
profondo di lui e non ne è sorto uno in seguito.[70] Ed è una universalità sufficiente a generare tutta
la gamma dei registri lirici (universalità
emotiva od estetica) ed a offrire possibilità
agli esiti stilistici più diversi, dagli strafalcioni barocchi della
Introduzione, agli anacoluti popolareschi di
Agnese ( di fronte alla monaca di Monza, c. 9) e di Renzo (“Quelli che
muoiono, bisogna pregare Iddio per loro...”: c. 36), alle sublimi
argomentazioni del cardinale Federigo a colloquio con don Abbondio (cc.25-26).
Organicità dei motivi ispiratori. Il pensiero
corre ancora a Dante, che nella Commedia struttura
princìpi e tesi fondamentali della filosofia scolastica e della teologia
cattolica, finendo per ritenere lui stesso ( per non parlare dei suoi
contemporanei) che la grandezza del poema stava proprio in questa condensazione
della scienza umana e della verità rivelata
in versi, cioè nella “fictio rethorica musicaque posita”. E la
scienza sarebbe stata il fattore più importante; la poesia, solo lo strumento
privilegiato di comunicazione. La struttura organica del pensiero di Dante
inizia dalla natura infraumana e, attraverso i valori|disvalori morali
dell’uomo, culmina nella visione di Dio Uno e Trino. In Manzoni vi
è qualcosa del genere, ma su scala più ristretta. Da una parte, come abbiamo già detto, la natura, pur
non è assente nei suoi versi e nella sua prosa, è però subordinata
all’uomo, cui dice ordine praticamente sempre; dall’altra, sebbene anche nel
Manzoni i personaggi contino
soprattutto per i loro valori morali, di cui la vita religiosa è sia radice[71] che culmine,[72] tuttavia il vertice della
umana esistenza non si rifà direttaemente alla SS. Trinità, ma al Dio
sommamente potente e buono che si rivela all’uomo nella Sua Provvidenza.
Diremo che, in Dante, il vertice della ispirazione poetica è il Dio della
rivelazione cristiana, che eleva l’uomo a sè; in Manzoni, invece, è il Dio
della religione naturale, che si
abbassa sino all’uomo colla Sua paternità,
per aiutarlo a realizzare la
conciliazione fra virtù e premio, fra delitto e castigo. Dopo questa panoramica, possiamo ora analizzare i
singoli motivi ispiratori, per soffermarci,
poi, più a lungo sulla condiscendenza di Dio verso l’uomo e sulla risposta
di questi alla Sua chiamata a salvezza, cioè alla piena umanità nella
vita morale e nel servizio a Lui. I SINGOLI
MOTIVI ISPIRATORI
La natura. Manzoni fu conoscitore non superficiale della vita vegetale, come
testimonia l’impegno con cui si dedicò, per vari anni, al
miglioramento delle coltivazioni nella tenuta di Brusuglio. Non fa, dunque,
meraviglia di ritrovare nelle sue
opere letterarie immagini e paragoni, descrizioni e commenti sul paesaggio, che
tocca anche quello astronomico e
meteorologico, ma che si sofferma soprattutto sulla flora, sulle erbe, sui
fiori, sui frutti. Ma le descrizioni paesaggistiche del Manzoni sono,
poi, tutte o quasi funzionali ai personaggi che vi si ambientano. E questo avviene
spontaneamente, d’istinto: il rapporto è così ovvio, che
il congiungimento è prodotto da una memoria spontanea: vorremmo dire, da
una memoria fisiologica o cromosomica. Non vi è in Manzoni alcun paesaggismo,
alcun pittoricismo od impressionismo, nessun compiacimento dello spettacolo
naturale in quanto tale. Non solo gli ambienti paesaggistici, ma anche
i fenomeni meteorologici sono –di regola- un riflesso dello stato
d’animo dei personaggi in azione. Se vi è contrasto fra paesaggio e umanità,
Manzoni lo segnala (c. 4 dei “Promessi”). Casi notevoli. Si prenda il paesaggio grandioso e sereno delle Alpi
per cui si inerpica il diacono Martino (Adelchi,
II, 1): esso è ovvio presentimento della protezione di Dio nel rischioso
tentativo del messaggero della Chiesa a Carlo Magno e, quindi, della riuscita
nell’impresa ardimentosa. Nel secondo coro della stessa tragedia,[73]
le immagini della funzione contrastante della rugiada e del sole, sono
proiettate esplicitamente all’alternarsi nell’animo di Ermengarda ora della
serenità paziente, nella nuova vita del
monastero; ora, al contrario, dei ricordi esaltanti di sposa
un tempo felice; ora, infine, della pace estrema in una morte cristiana. L’immagine del “Masso che dal vertice| di lunga
erta montana,| abbandonato all’impeto|
di rumorosa frana,| per lo scheggiato calle,| precipitando a valle,| batte sul
fondo e sta...” (Il Natale, vv. 1-7)
dice chiaramente ordine alla tragedia del peccato originale ed alla situazione
drammatica in cui viene, di conseguenza, a trovarsi l’umanità. Ne La
Pentecoste, “la luce rapida” che “piove di cosa in cosa,| e i color
vari suscita,| ovunque si riposa” è detta esplicitamente
essere un simbolo degli effetti benefici dello Spirito che dal Cenacolo,
il giorno di Pentecoste, si diffonde sull’umanità intera, attarverso
l’opera della Chiesa. Nel coro di Ermengarda (Adelchi,
IV, 1) la morte serena della creatura privilegiata e reietta, purificata
dalle colpe del suo casato grazie alla sofferenza accettata in nome di Dio, è
caparra di premio eterno per lei e di sorte migliore
per i due popoli, longobardo e franco, cui essa era appartenuta: “...
Così|| dalle squarciate nuvole| si svolge il sol cadente,| e dietro il monte,
imporpora| il trepido occidente:| al pio colono augurio| di più sereno dì”. Il romanzo si apre con una distesa e distensiva carrellata
paesaggistica sul territorio lecchese: è lo specchio dell’animo pacifico di
don Abbondio, che vi passeggia “bel bello”, ignorando la tempesta che gli
sta per cadere sul capo.[74]
Nel c. 8, la descrizione della fuga di Agnese, Renzo e Lucia per
la persecuzione di don Rodrigo si sofferma sulle condizioni del lago che
“giaceva liscio e piano e sarebbe parso immbole, se non fosse stato il
tremolare e l’ondeggiare leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il
cielo”. La pace di tale “notturno sul Lario” non è senza una patina di
tristezza, perchè si tratta pur sempre di una fuga dal proprio paese, senza una
previsione plausibile di ritorno nè di sposalizio: il risultato è la
tenerezza, simbiosi di idillio ed elegia. Esso, allora, parrebbe in contrasto
con l’agitazione dei poveri fuggiaschi; e certo lo era rispetto al silenzio
sofferto di Renzo e Agnese. Ma tale sentimento concorda perfettamente con
l’animo di Lucia, nella quale la malinconia del distacco e la fiducia nella
Provvidenza si riflettono nella
tenerezza del tono lirico, che armonizza le opposte sollecitazioni emotive e le
fa convivere nella fede in “Chi dava a voi (case, persone e affetti del paesa
nativo) tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi
figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Nel c. 17,
la “sodaglia sparsa di felci e di scope” è un paesaggio arido e desolato
che incarna la stanchezza e la fatica di
Renzo, ormai esausto nel corpo e nell’animo, alla ricerca (parrebbe
infruttuosa) del fiume Adda. All’inizio
del c. 35, l’atmosfera afosa e tesa che annuncia il vicino temporale è
quasi la proiezione, nella meteorologia, dei contrasti penosi di Renzo, che
inizia ad ispezionare il Lazzaretto, drammaticamente incerto se troverà o meno
Lucia; ed è anche un accompagnarsi del clima alla immane sofferenza degli
appestati, che lottano fra la vita e la morte. La pioggia rinfrescante del c.
37, da una parte è in sintonia con lo spirito ormai esultante di Renzo, per
aver trovato Lucia sana ed aver risolto il nodo del suo voto di verginità che
si opponeva al matrimonio; dall’altra, è segno della liberazione dal flagello
della peste per la società italiana
ed europea.[75]
L’autobiografismo. Dato l’esempio di Alfieri ed i princìpi dell’Illuminismo
(e riconosciuto il fatto che la superbia muore un quarto d’ora dopo di
noi), si può essere certi che anche il Manzoni, se non si fosse convertito,
avrebbe fatto del suo “io” un tema fondamentale della sua ispirazione
poetica. Nel 1801 camminava già
con passo promettente su tale strada, imitando appunto, nell’Autoritratto,
l’Astigiano[76]. Segue nel 1802 il
sonetto Alla Musa, che inizia
autobiograficamente (“Nuovo intatto sentier segnami, o Musa| onde non stia tua
fiamma in me sepolta...”). Su toni anche più supponenti è, dello stesso
anno, il sonetto Alla sua donna (“Se
pien d’alto disdegno e in me securo| alteramente io parlo e penso e
scrivo...”). Rimandiamo in nota altre espressioni di tale tema personale
più o meno dello stesso tenore.[77]
Dopo la conversione, Manzoni non riuscì a trovare l’equilibrio fra umiltà e
carità (verso il prossimo, verso la
comunità in cui viveva), così da assumere disinvoltamente il suo posto in
società e affidare ad un diario (diciamo per ipotesi) gli avvenimenti e
sentimenti della sua vita. Egli passa, così, da quella spavalderia che abbiamo
or ora visto, ad una umiltà-timidezza che rifugge dal parlare, nonchè dal far
parlare di sè (vedi la coscienza di tale condizione, parte voluta e parte
subita nella lettera che citeremo più avanti al padre barnabita Francesco
Calandri, del 12 febbraio 1847). Tanto peggio era per lui il comparire in
pubblico come persona ufficiale, l’accettare
titoli (il re del Brasile, il granduca di Toscana volevano attribuirgliene) e
l’assumersi compiti sociali di qualunque genere, salvo quello di senatore, per
una coerenza di patriottismo da lui ritenuta moralmente obbligante. Ma parla ancora di sè, più che altro in versi
improvvisi o battute scherzose, canzonandosi e canzonando amabilmente. Oppure,
in toni davvero drammatici. Qui citiamo solo due testimonianze: una, autoironica;
l’altra, penosamente triste. La prima è un intero biglietto all’amico
Gaetano Cattaneo che gli procurava, dalla biblioteca di Brera, i libri di
documentazione storica per i vari punti del romanzo che la richiedevano:
“Carissimo, invece del libro che t’avevo chiesto ier l’altro, vedi se
potessi procurarmi il Sassi De studiis
mediol. E ti prometto che finita questa bella opera a cui sto lavorando, non
farò più se non poesie liriche, per le quali non fa bisogno di notizie
positive, nè occorre quindi di tempestare gli amici per libri, ma basta stare a
bocca aperta, aspettando l’ispirazione. Ti abbraccio”.[78]
L’altra consta di due endecasillabi, scritti in un momento
di ripresa della coscienza nell’ultimo mese del 1873, dopo la fatale
caduta fuori della chiesa di S. Fedele: “Gambe,
occhio, orecchio, naso e, ahimè! pensiero| non n’ho più uno che mi dica il
vero”. Ci diffondiamo un poco, in nota, su L’ira
di Apollo, l’ottava al Grossi, i versi a Gaetano Cattaneo, i settenari
sulla Perplessità. A parte, però,
questi momenti di buonumore o di
dramma eccezionali, egli diventa riservato e attento a non parlare di sè;
direi, anzi, uno scrupoloso gendarme della sua umiltà. Tanto che avendo, in età
avanzata, citato suoi versi credendoli di altro poeta, messo sull’avviso dagli
amici, egli non esitò a dire che
la citazione non aveva più valore. Non ci sono proprio eccezioni? La più clamorosa è
costituita dai versi de Il cinque Maggio
“Lui folgorante in solio| vide il mio genio e tacque”. Un’altra
può essere vista nei versi inviati al pittore Francesco Hayez, per invitarlo,
dopo l’edizione dell’Adelchi,
ad immortalarne un episodio, così come aveva già fatto per Il
Carmagnola (ne aveva illustrato l’addio alla moglie ed alle figlie): ma
l’umiltà dello scrittore risalta nel contrasto fra l’espressione verbale, nelle due tragedie, di quelle che
egli chiama “idee fugaci e senza forma”, degne solo “di spregio, e poi
d’obblio” e la loro fissazione in linee e colori, che per il Manzoni sono
oggetto “vivo”, “immortale”, di “maraviglia e di pietade”.
Quale posto ci sarà, allora, per l’autobiografismo del Manzoni, se i suoi capolavori vengono scritti dopo la conversione? Beh!, c’è posto per i suoi lettori, per i figli, per gli amici, per i giorni di dolore alla morte della moglie Enrichetta. Manzoni dialoga direttamente con i suoi
“venticinque lettori”,
a cominciare dal primo capitolo, dopo l’incontro di don Abbondio con i
“bravi”: “Pensino, ora, i nostri venticiqnue lettori, che impressione
dovesse fare sull’animo del poverino quello che s’è raccontato...”. Più
solitamente, egli
usa l’anonimo secentesco ed il suo dilavato manoscritto (da cui
finge aver preso la trama del
romanzo) per scusarsi di certi interventi moralistici troppo scoperti e renderli
così più accetti, perchè conditi da una patente menzogna; oppure per
giustificare le “circospezioni” circa cognomi di famiglie, particolari di
luoghi, avvenimenti stravaganti che egli è costretto a narrare. E’, questo
accorgimento, una delle sorgenti del suo umorismo: la
finzione è altrettanto evidente quanto quella delle “citazioni”
dell’Ariosto dal vescovo Turpino. E fermi qui! Nelle grandi opere non si trova
più nulla: Manzoni pratica l’ammonimento della Imitazione di Cristo: “Ama
nesciri et pro nihilo reputari” (“ama essere ignorato e stimato una nullità”). Ma, se non di sè, egli parla di cose, anzi di
persone, proprie. Anzitutto ci sono i figli. Il secondogenito, Enrico, serve da paragone affettuoso al papà
estatico; e da immagine ammiccante
allo scrittore autoironizzante. La scenetta
di lui che tenta di riportare “al coperto un suo gregge di porcellini
d’India” con un certo qual ordine e deve rinunciare ad ogni proposito di
programnmazione nell’eseguire l’intento, per adattarsi al “loro genio”,
sicchè “spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio; poi
andava a prendere gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva” (c. 11)
è anzitutto un piccolo idillio, ricostruito da un padre
consolato, che ripensa ad un
momento di pace e distensione nella villa di Brusuglio. Dietro alla
contemplazione del figlioletto, sta però in agguato l’allegro autolesionista:
ci sembra di sentirlo mormorare “vedete un po’ che povero scrittore sono mai
io, che debbo troncare con ingenua violenza l’azione di un personaggio (o di
un gruppo tra essi) per seguire quella di altri, senza la capacità di operare
dei passaggi più modulati ed
indolori”. Poi, vi sono gli amici.
Nello stesso capitolo undecimo,
egli cita un verso dall’opera “I Lombardi alla prima crociata”, che
l’amico Tommaso Grossi stava ancora rifinendo proprio in casa del
Manzoni.[79]
Lo cita, per definire lo stato d’animo intricato del Griso, il capo dei bravi
di don Rodrigo, che è costretto a raggiungere Monza, onde conoscere il rifugio
di Lucia dopo la fuga dal paese nativo. A Monza il Griso aveva dei grossi debiti
colla giustizia, sicchè aveva tentato di sottrarsi all’impegno, ma invano:
partì, dunque, “bestemmiando in
cuor suo Monza e le taglie e le
donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo che.... “leva il
muso odorando il vento infido”, gira due occhi sanguigni da cui traluce
insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia”. E, subito dopo,
egli si dilunga ad elogiare l’amico e la sua opera, con un brio
condito dal suo allegro umorismo : “Del rimanente, quel bel verso, chi
volesse sapere donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di
lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho
preso, perchè mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba
altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che
l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch’io frugo a
piacer mio ne’ suoi manoscritti”. Un
altro riferimento agli amici è quello in lode del poeta Giovanni Torti,
verso la fine del c. 29: vi si dice che l’Innominato, per assicurare difesa e
servizio agli ospiti capitati al suo castello, in fuga dai lanzichenecchi,
“radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti come i versi di
Torti...” Era uno degli assidui alla “cameretta romantica” del Porta ed
era tramite, con Ermes Visconti, fra essa ed il Manzoni. Ne diverrà così
intrisneco da essee compagno abituale nelle passeggiate, visto che Manzoni non
usciva mai da solo; da riceverne in regalo versi per le proprie composizioni ( i
vv. 4-15 pel secondo dei “Sermoni della poesia”) e da vedersi affidata la
istruzione delle figlie Sofia e Cristina. Ma il tratto autobiografico più liricamente
intenso è costituito dai versi de Il Natale
del 1833,
che, scritti nel 1835 e non giunti ad una composizione conclusa, sono una
meditazione sul rapporto tra la Bontà di Dio ed il dolore umano (costituito,
nel caso, dalla morte della moglie Enrichetta Blondel). L’epigrafe alle
quattro strofe dichiara il principio risolutore del problema: “Tuam ipsius
animam pertransibit” (Lc. 2, 35: una spada trapasserà anche la Tua anima, o
Maria) rivela quanto Manzoni esprimerà come conclusione alla meditazione di
Lucia, costretta a lasciare il paese natio: “Dio non turba mai la gioia dei
suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Come in
Cristo ed in Maria santissima, anche per gli uomini il calvario terreno dice
ordine alla felicità della vita
eterna. Che se nella seconda strofa, quella di più
cocente sofferenza, tale fede è messa in
crisi, (“Vedi le
nostre lagrime,| intendi i nostri gridi;| il voler nostro interroghi,| e a tuo
voler decidi.| Mentre a stornar la folgore| trepido il prego ascende,| sorda la
folgor scende| dove tu vuoi ferir”), la terza vi riconduce paziente: “Ma tu
pur nasci a piangere...”.[80] IL
MOTIVO DELL’UMANESIMO ETICO-RELIGIOSO Richiamiamo qui le due dimensioni fondamentali del’umanesimo
manzoniano: la universalità e la organicità. Alla prima daremo un’occhiata
più analitica, soffermandoci su
alcune componenti più insistite e riuscite; per la seconda, ricordiamo qui la
più solita subordinazione della
natura infraumana all’uomo e dell’attività umana tutta alla legge morale,
che trova il suo apogeo nella vita religiosa. Egli rivela, così, una visione
unitaria ed ascendente della creazione tutta e, in particolare, una concezione
sensata ed armoniosa dell’uomo che trova in Dio l’origine, il sostegno, il
fine del proprio vivere ed operare. In particolare egli, meno
sensibile al mistero della vita intima di Dio
(unità nella natura e trinità nelle Persone),[81]
Lo sente invece sommamente nel Suo
rapporto con gli uomini: come Padre misericordioso dei buoni, come paziente
correttore dei mediocri, e come giudice inesorabile dei malvagi, cioè
come Provvidenza che salva i suoi fedeli,
converte i deboli ed incerti, punisce infallibilmente i ribelli alla Sua Grazia.
Vi è allora come un duplice dinamismo nella visione etico-religiosa del Manzoni.
Da una parte, sta Dio che, dall’alto, tende continuamente la mano per elevarlo
a Sè e salvarlo anche in questa vita. Dall’altra,
l’uomo che o accoglie tale chiamata; o vi si sottrae incerto e
vacillante; o vi si riconverte (ora più rassegnato, come
don Abbondio ed ora più convinto, come l’innominato); oppure vi si
ribella definitivamente. E’ quanto ci avviamo a documentare.
L’UOMO, IN TUTTE LE SUE
DIMENSIONI. Il fisico
dell’uomo sollecita l’interesse del Manzoni, che descrive i bravi nel primo capitolo: “Avevano
entrambi attorno al capo una reticella verde, terminata in una gran mappa, e
dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi
arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due
pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una
collana,: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli
ampi e gonfi calzoni: uno spadone con una gran guardia traforata a lamine
d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano
a conoscere per individui della specie de’ bravi”. Viene,
poi, la baldanza di Renzo: “Lorenzo o, come tutti dicevano, Renzo, ... appena
gli parve di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò colla
lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella
che ama... Comparve davanti a don Abbondio in gran gala, con penne di vario
colore al cappello, col suo pugnale dal manico bello nel taschino, con una
cert’aria di festa e nello stesso tempo di braveria, comune allora anche agli
uomini più quieti” (c. 2). Segue,
nello stesso capitolo, l’avvenenza di Lucia vestita da sposa: “Lucia usciva
in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la
sposa, e le facevano forza perchè si lasciasse vedere: e lei s’andava
schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi
scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e
neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso.I neri e giovanili
capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si
ravvolgevano, dietro il capo, in cerchi molteplici
di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano
all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come usano ancora le
contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con
bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le
maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di
seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta
anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del
giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza,
rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul
viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento
che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la
bellezza, le dà un carattere particolare”. Nel c. 4
è fotografato il portamento ed il
comportamento, con residui di vivacità non domata, di padre Cristoforo, che
vedremo a proposito delle analisi psicologiche, perchè la descrizione fisica
(“Il padre Cristoforo da... era uomo più vicino ai sessanta che ai
cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi
girava intorno, secondo il rito cappuccinesco...”) coinvolge anche quella
morale. Divertente
è la “istantanea” di don Abbondio, nella calma serale del suo studio:
“...stava sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, con in
capo una vecchia papalina, che gli faceva cornice intorno alla faccia, al lume
scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano
fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo,
tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a
cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna” (c. 8). Fisica e morale è anche la descrizione della monaca
di Monza, al c. 9: “Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni,
faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta
e sfiorita e, direi quasi scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato
orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso;
sotto il velo, una bianchissima tela di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte
di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe
circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva
alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si
raggrinziva spesso, come per una contrazione dolorosa: e allora due sopraccigli
neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi
si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba;
talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi
momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto,
corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione
istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e
feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebeb
immaginato una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il
travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare
all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote
pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso
mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un
roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore; i loro moti erano, come quelli
degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza
ben formata della persona scompariva
in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse
repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca.
Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che
annunziava una monaca singolare; la vita era attillata con una certa cura
secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di capelli;
cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di
tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne
del vestimento”. Incontriamo, al c. 14, la “faccia pienotta e
lucente, con una barbetta folta, rossiccia e due occhietti chiari e fissi”
appartenenti all’oste della Luna piena; e, al c. 20, la corporatura vigorosa e
maschia dell’Innominato: “Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli
che gli rimanevano; rugosa la faccia: a prima vista gli si sarebbe dato più dei
sessant’anni che aveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita dei
lineamenti, il lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di
corpo e d’animo, che sarebbe stata straordinaria in un giovane”). L’organismo armonioso, florido e robusto del
cardinal Federigo Borromeo è descritto al c. 23: “Il portamento era
naturalmente composto e quasi involontariamente maestoso, non incurvato nè
impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e
pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni della astinenza, della
meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme
del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più
propriamente si chiama bellezza...”. Ed ecco le diverse costituzioni fisiche dei
miserabili accattoni, convogliati in città dalla carestia feroce degli anni
1627-8: “Vestiti diversamente quelli che ancora si potevano dir vestiti; e
diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del
pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e
stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi fissi, tra il torvo e
l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e
indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle
braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai
cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di
vigore abbattuto, l’aspetto di una natura più presto vinta, d’un languore e
d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli” (c.
28). Al c. 34 son descritti i corpi privi di vita degli
appestati sul carro dei monatti: “Eran, quei cadaveri, la più parte ignudi;
alcuni, mal involtati in qualche cencio; ammonticchiati, intrecciati insieme,
come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; chè,
a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan quei mucchi funesti tremolare e
scompigliarsi bruttamente: e ciondolar teste; e chiome verginali arrovesciarsi;
e braccia svincolarsi e batter sulle rote, mostrando all’occhio già
inorriditocome tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio. Vi si oppone, nello stesso capitolo, la figura e il
comportamento mirabili della madre di Cecilia: “Scendeva dalla soglia di uno
di quegli usci e veniva verso il convoglio una donna, il cui aspetto annunziava
una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e
offuscata, ma non guasta, da una gran passione e da un languor mortale: quella
bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua
andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma
portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di
pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a
sentirlo.... Icastica (sempre nel c. 34) la descrizione della
mossa impetuosa che salva Renzo dalla folla inferocita, che lo ha
creduto un untore: “Prende la mira; spicca un salto; è su, piantato
sul piede destro, col sinistro in aria e con le braccia alzate...”). Impressionante la descrizione del fisico distrutto di
don Rodrigo: “Stava, l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza
sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra:
l’avresti detto il viso di un cadavere, se una contrazione violenta non avesse
reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando,
con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al
cuore, con uno stringer adunco delle dita, livide tutte e, sulle punta,
nere”(c. 35). Ma più indovinate e commoventi delle pitture dei
corpi, è la indagine profonda (acuta ed esauriente, cioè) dell’animo dei
personaggi. Sono
le analisi psicologiche,
in cui Manzoni è maestro, senza aver ancor trovato un discepolo alla sua
altezza. In proposito, dovremo sottolineare un principio di critica letteraria
che non troviamo scritto da nessuna
parte. Solitamente, infatti, l’analisi psicologica è
incasellata nella tecnica
stilistica. Il che solo in parte è esatto. Bisogna, infatti,
isolare le analisi psicologiche esplicite, cioè quelle che
l’autore fa direttamente, descrivendo l’animo di un personaggio o dando una
legge statisticamente valida l’agire di certe categorie o di tutti gli uomini.
In tale caso, lo studio della psicologia
è consapevole e voluto come tale: entra nei motivi ispiratori, dunque, perchè
fa parte del pensiero, della riflessione che (eventualmente) generano emozioni
liriche. E’ il caso più solito del Manzoni e degli scrittori romantici. Allo
stile appartengono, invece, quelle proiezioni dello spirito di una persona che
vien lasciato intuire attraverso il suo parlare ed operare, senza che lo
scrittore dica (lo mettiamo qui come caso esemplare): “Don Abbondio (il
lettore se n’è avveduto) non era nato con un cuore di leone”. Il
temperamento spontaneo (od il carattere voluto) si rivelano indirettamente,
implicitamente lasciando al lettore la gioia (o il tormento) di ricostruire la
individualità-personalità del soggetto.
Un esempio notevole, anzi paradigmatico, è la psicologia di Rosso Malpelo, che traduce in atto alla perfezione[82]
il programma del verismo, per il quale la vicenda deve
sembrare essersi fatta da sè e, quindi, rifugge programmaticamente dalle
analisi psicologiche esplicite o dirette, proprie del Romanticismo.
Programmaticamente solo, però, perchè è stato notato che anche il Verga
talvolta analizza i suoi personaggi alla maniera manzoniana, così come il
Manzoni (e gli autori romantici e tutti gli scrittori dall’inizio della
narrativa letteraria) talvolta lasciano intuire i temperamenti ed i caratteri
indirettamente, anticipando il proposito naturalista-realista- verista. Qui ci
occuperemo, allora, di preferenza,
delle analisi psicologiche esplicite o dirette.
Esse sono però così numerose e diffuse, già nelle tragedie oltre che nel
romanzo, che non solo dovremo operare una scelta e, quindi,
delle esclusioni, ma per lo più limitarci a rimandare a passi precisi
dei tesi, senza riportarli. E cominciamo dalle tragedie, che sono rivelatrici di
spiriti diversi e contrastanti, fotografati mirabilmente dal Manzoni. Nel Carmagnola
(IV, 2) vi è il monologo-esame di coscienza in cui il senatore Marco si
riconosce imprudente, anzi vile, mentre svela la trama perfida del Consiglio dei
Dieci con a capo il senatore Marino, che punta sulla fiducia che il conte ha in
Marco per attirarlo a Venezia (e giustiziarlo); e conta sulla paura di Marco a
morire, per tacitarlo e impedirgli
di dissuadere l’amico condottiero dal venire. Nell’Adelchi
è indagata la psicologia di Ermengarda, ripudiata da Carlo Magno eppure di lui
sempre innamorata (I, 3 e IV, 1). In un altro famoso monologo (I, 7) è denudato
il cuore di Svarto, che “serve pensando al regno”: è l’animo di un
astuto che gioca su tre fronti, pronto a tradire l’imperatore Carlo,
dopo il proprio re Desiderio, pur di salvare sè stesso (IV, 5). E’ svelato,
poi, nel monologo di Guntigi (IV, 3), il processo capzioso e seducente
dell’interesse che induce a rompere il giuramento di fedeltà, ad optare per
il tradimento, in nome di un machiavellismo che prepone gli interessi terreni al
bene spirituale; di una “Realpolitik” che pospone
il dovere morale al vantaggio materiale. Soprattutto è rivelato l’animo
dell’amletico Adelchi, straziato fra il legame al padre (cui finirà per
ubbidire) e la consapevolezza di un dovere più grande, che
gli comanda di far cessare le guerre di conquista, di contentarsi dei
territori già posseduti, di non
invadere quelli del papa e di trovare, invece, le vie per unificare il popolo
longobardo, diviso da partiti e ubbidienze contrastanti. In proposito, gli è
messa in bocca l’espressione poetica di un dato psicologico abbastanza ovvio:
“Incresce l’asta e pesa| alla mia man,| se nel pugnar guardarmi,| deggio
dall’uom che mi combatte al fianco”. Ecco l’elogio che ne fa lo scudiero
Anfrido morente, in presenza di Carlo: “Al ciel diletto| è Adelchi, o re....|
regnante o caduto, è tale Adelchi,| che chi l’offende, il Dio del Cielo
offende| nella più pura immagin sua. Lo vinci tu| di fortuna e di poter, ma
d’alma| nessun mortale: un che si muor tel dice”). Ma si vedano anche i
dialoghi, sia con lo stesso Anfrido (III, 1), sia col padre Desiderio (III, 2);
si rilegga il monologo finale (V, 2). Quanto allo studio psicologico nelle liriche, abbiamo ne Il
cinque Maggio quella dell’animo di Napoleone, sorpreso nella sua ambizione
temeraria durante gli anni di “grandezza e servitù militare” (Alfred
de Vigny), che sono quelli della scalata all’impero,
sino alla lotta tra disperazione e fede, negli anni dell’esilio a
Sant’Elena, dopo la sconfitta definitiva di Waterloo. Leggiamo qualche verso
dalle strofe 7 e 8, 13, 14, 15 e 16: “La procellosa e trepida| gioia d’un
gran disegno,| l’ansia di un cuor che indocile| serve, pensando al regno...||
E ripensò le mobili| tende e i percossi valli| e il lampo dei manipoli,| e
l’onda dei cavalli| e il concitato imperio| e il celere obbedir.|| Ahi, forse
a tanto strazio| cadde lo spirto anelo| e disperò; ma valida| venne una man dal
Cielo...”. Ne I Promessi
Sposi, le
analisi psicologiche si susseguono, ora come
semplice, ma sempre profonda e sorprendente lettura dell’animo umano,
ora anche condite di accattivante malizia; ora con sorniona bonarietà e
divertita canzonatura, ora con trepida partecipazione ed
ora, infine, con ostile disgusto. Esse sono una delle ragioni
dell’attrattiva del romanzo, una delle sorgenti, assieme alla puntigliosa
documentazione storica, del suo carattere realistico, perchè comunicano alle
vicende una forza di verità umana che oblitera la essenza fantastica della
trama centrale. Le analisi psicologiche sono,
infatti, uno degli strumenti più efficaci della verosimiglianza della
vicenda, attraverso la verità e coerenza psicologica dei personaggi. Il primo “indagato” di spicco è don Abbondio, di
cui si è già riportata la sentenza finale: “Don Abbondio –il lettore se
n’è già avveduto- non era nato con un cuor di leone...” (c. I): il
giudizio sta a cavallo tra la descrizione del suo comportamento di fronte
all’inatteso e disarcionante incontro-scontro con i bravi di Rodrigo
(conclusione. “Disposto... disposto sempre all’ubbidienza”: id.) e la
vivisezione operata sul retroscena di un temperamento, di un ambiente familiare
e sociale, di una condotta ormai incarnatasi come abitudine: “neutralità
disarmata in tutte le guerre che scoppiavano attorno a lui”. La timidezza di
un temperamento pacioso (apatico?) si tramuta in egoismo eretto a sistema: dalla
scelta dello stato ecclesiastico come rifugio contro la prepotenza del secolo,
alla pigrizia e disimpegno abituale di fronte ai doveri più esigenti (il
riconoscere da quel parte stia la verità e la innocenza, anche a costo di dar
torto al prepotente pericoloso), sino alla viltà anche pratica, alla menzogna
ed al tradimento dei suoi figli spirituali, per timore del malvagio loro
aggressore. E si vedano le parole ed azioni (ahimè!) coerenti nei cc. 2, 8, 23,
24, 29, 33, 38. La sua domestica è tratteggiata alla brava in questi
termini: “Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio:
serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo
l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone,
e fargli tollerare le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti,
da che aveva passato l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver
rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non
aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le sue amiche” (c. 1). Un’altra diagnosi esauriente di “questo
guazzabuglio che è il cuor eumano” (c. 10) Manzoni la esegue sull’affiorare
ed imporsi della vocazione religiosa in Ludovico, il futuro p. Cristoforo
(c. 4). Attraverso il capovolgimento del padre, che da commerciante di tessuti
diventa “nel suo nuovo ozio” di agiato che vive di rendita, ossessionato dal
ricordo di “tutto quel tempo che aveva speso a fare qualcosa in questo
mondo”, si può qualcosa del giro di boa del figlio? Comunque quest’ultimo,
umiliato ed angustiato dalla pericolosa gara di generosità, di potenza e di
protezioni con i nobili che lo avevano escluso,
come “borghese e villan rifatto”, dal loro ambiente, approda ad un’altra
svolta ad “U”, alla conversione verso la vita religiosa, cioè, attraverso
l’incidente omicida col “signor Tale”. L’evoluzione nell’anima di
Ludovico è coerente ad un processo meditatitvo che si impone man mano alla sua
coscienza (“più di una volta gli era saltata la fantasia di farsi frate: che,
a quei tempi, era il ripiego più comune per uscir d’impicci”), sicchè la
minacciata vendetta dei parenti dell’ucciso sono l’occasione, non la causa
della sua decisione. Decisione, che è però anche aiutata da un sottofondo di
naturale sensibilità per la giustizia, di impulsività e tenacia, poi, negli
impegni: fattori che lo lasciano sospettare come un temperamento collerico,
stabilizzatosi colla scelta di una vita, quella religiosa, che gli comunicava
uno stimolo continuo per quel sovrappiù di volontà necessaria a tener a freno
un temperamento indocile e
proiettato all’azione. Fin qui il “carattere” di Ludovico è
lasciato intendere attraverso l’azione, cioè vien
fatto intuire attraverso i comportamenti: se lo scrittore si fermasse
qui, sarebbe un caso da antologia da riporre nello studio della tecnica
stilistica. Ma il Manzoni ha
esplicitato la psicologia del personaggio, descrivendone, assieme al fisico,
anche la figura interiore: “Il suo capo raso... s’alzava di tempo in tempo,
con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e
d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba
bianca e lunga che gli corpriva le guance e il mento, faceva ancor più
risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali
un’astinenza, già da molto tempo abituale, aveva assai più aggiunto di
gravità che tolto di espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a
terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli
bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che
non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che
scontano subito, con una buona tirata di morso”. (c. 4). Il capitolo ottavo offre spunti di sapienza
psicologica esplicita[83]
non comune. Ad esempio, la difficoltà a distinguere tra innocente e colpevole,
se si guarda solo alle apparenze: “Renzo che strepitava di notte in casa
altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso
assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla
fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga,
spaventato, mentre attendeva trannquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la
vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il
mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo”. La ripresa di effati diffusi, sia in latino che in
toscano, danno leggi universali dell’agire umano, magari commentato
adeguatamente. “Chi è in difetto è in sospetto” calza a pennello per lo
stato d’animo dei bravi sorpresi dal tempestare delle campane (tirate dal
sacrista Ambrogio) nel cortile di Agnese e Lucia; e ne fa prevedere la reazione
di paura, confusione e dispersione, che viene arginata solo dalla presenza di
spirito del Griso, loro capo. Il detto latino “omnia munda mundis” ,
pronunciato da padre Cristoforo per tacitare gli scrupoli di fra Fazio, il
portinaio, di fronte alla presenza di Agnese
e Lucia e Renzo, nella chiesa del convento,
ha un effetto mirabile. Perchè? Padre Cristoforo si è dimenticato che
fra Fazio, il latino, non lo capiva: “ma una tale dimenticanza fu appunto
quella che fece l’effetto. Se il padre si fosse messo a questionare con
ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il
cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide
d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in
quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò e
disse: -basta! lei ne sa più di me”.. Infine c’è la dichiarazione della
poca affidabilità dei presentimenti affettivi: “Certo il cuore, chi gli dà
retta, ha sempre qualcosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore?
Appena un poco di quello che è già accaduto”. Nei cc 9
e 10, è lasciata intuire la psicologia della povera Geltrude (Virginia de Leyva),
che però non è mai descritta direttamente: sono solo indicate le incertezze
che vagano da una mossa ad una contromossa, da un’adesione alla volontà
paterna alla sua ribellione ad essa, dal tentativo concreto di una ricerca di
affetto alla resa a discrezione,
pur nel continuare dei tumulti
interiori, alla tiranna volontà paterna, che la vuole monaca per salvare il
patrimonio dall’onere della sua dote. Finirà per cambiare solo padrone: dal
padre-tiranno all’amante Egidio, sacrilego ed omicida. Una simile creatura
lascia sospettare una astenia nervosa,
una costituzione fisica debole e distonica, che la inclinano ad essere più
succube dell’ambiente e gregaria del più forte, che non la comune
adolescente: non la costringono, ma ve la avviano. Ecco, però, in apertura del
decimo capitolo, una osservazione psicologica diretta, che diventa una lezione
di pedagogia: “ Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’
giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni
cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio; come un fiore appena
sbocciato, s’abbandona mollemente al suo fragile stelo, pronto a concedere le
sue fragranze alla prim’aria, che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti,
che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli che
l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una
volontà che non si guarda”. Ma
nei due capitoli siano sparse altre notazioni psicologiche suggestive. Questa,
sul rapporto religione-orgoglio pare riecheggiare una delle massime di La
Rochefoucault: “Ma la religione, come l’avevano insegnata
alla nostra poveretta, e come essa l’aveva ricevuta non bandiva
l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una
felicità terrena. Privata così della sua essenza, non era più la religione,
ma una larva come l’altre” (c. IX). Quest’altra sentenza, dopo che
Gertrude ha trovato una compagna di collegio disposta ad aiutarla a scrivere la
lettera al padre, per ritirare la domanda di farsi suora, già inoltrata al
vicario moniale, è di un realismo
feroce: “E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo,
sono molto rari, la consigliera fece pagar questo a Gertrude, con tante
beffe sulla sua dappocaggine” (id.). Ecco lo stato d’animo, dopo la
soddisfazione di una vendetta (Gertrude ottiene dal padre che allontani la
domestica che l’ha sorpesa a scrivere il biglietto al paggio e ne è divenuta
la carceriera): “Gertrude...masticava e assaporava la soddisfazione che aveva
ricevuta” e “si stupiva di trovarci così poco sugo”. (c. X). Dopo che
Gertrude ha pronunciato, contro volontà,
i voti religiosi, vi è la già riportata dichiarazione, a visiera alzata, del
cattolico Manzoni sulla potenza della fede nelle circostanze le più intricate e
dolorose della vita. Nel c. 11 ci
si imbatte in una di quelle analisi che non ammaestrano solo la intelligenza, ma
rallegrano anche il cuore: è la descrizione del “circolo delle
consolazioni”, che rivelano la compassionevole e comica fragilità
dell’uomo, il quale solitamente è incapace di perfezionare le opere di carità con il silenzio della umiltà; e, in nome
della fiducia sulla capacità degli amici a tacere le confidenze,
fanno pervenire la notizia
di iniziative, necessitanti il segreto per
giungere a buon fine, a chi le vuole intralciare e vanificare: “Una
delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia: e una delle
consolazioni dell’amicizia è quell’aver a cui confidare un segreto. Ora,
gli amici non son a due a due come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne
ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la
fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un
segreto nel seno di un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa
consolazione anche lui. Lo prega,
è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel
senso rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle
consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto che obblighi soltanto a non
confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendo
la stessa condizione. Così, d’amico fidato in amico fidato, il segreto gira e
gira per quell’immensa catena tanto che arriva all’orecchio di colui o di
coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar
mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno
non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da
tacersi. Ma ci sono degli uomini privilegiati che li contano a centinaia; e
quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengono sì rapidi
e sì molteplici, che non è più possibile di seguirne la traccia”. Rimandiamo in nota, perchè troppo estesa, la
riproduzione del geniale esame sulla disposizione triadica
di una folla scatenata nella rabbia della ribellione (qui, al c. 12, si
tratta della sollevazione di san Martino 1628, in seguito al rincaro del pane
imposto dall’autorità spagnola, a
causa della carestia pervicace e delle necessità
per la guerra del Monferrato), di fronte
alla possibilità di portare l’effetto della propria collera sino
all’uccisione del presunto responsabile (il vicario di provvisione, cioè il
notaio Ludovico Melzi d’Eril).[84]
Come si è già detto precedentemente, il brano è la testimonianza più
clamorosa della conversione di
Alessandro Manzoni rispetto a Cesare Beccaria in campo psicologico. Il nonno
ragionava razionalisticamente sulla umanità, con giudizi
dualistici e manichei (i processi sono soltanto o lunghi e inefficaci,
anche con la pena di morte; oppure brevi e risolutivi, anche senza pena di
morte); il nipote, anche con l’aiuto della concreta, millenaria esperienza
cristiana sugli uomini, pensa per
concrete distinzioni ternarie. Vi sono i buoni, decisi ad evitare un omicidio ad
ogni costo; i malvagi, che nel c. 12 sono così descritti: “Tra i tanti
appassionati, c’eran pure alcuni di sangue freddo, i quali stavano osservando
con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano
d’intorbidarla sempre più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i
furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si propoonevano
di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca”. Sono
gli stessi “che.... avrebbero dato fuoco anche al paradiso”, come dice il
mercante di Gorgonzola al c. 16); sono la massa dei mediocri –disposti ad
uccidere un uomo sul momento, salvo a volerlo risuscitare il giorno dopo-, come
di loro dice Socrate, ne “Il Critone”. Insomma, vi sono anche processi brevi
e risolutivi, pur con la pena di morte; e processi lunghi ed inefficaci, pur
senza pena di morte). Nei capitoli 14, 15, 16, la lente indagatrice e
burlona del Manzoni sottopone il povero Renzo ubriaco (all’osteria
della Luna piena) ad una anatomia impietosa; ma lo segue poi con simpatia
benevola quando si risveglia fisicamente e psicologicamente, riuscendo a
destreggiarsi tra le furbizie e le paure del notaio criminale coi suoi birri,
fino ad averne la meglio ed a fuggire da Milano, trovando al strada grazie alla
acutezza delle sue analisi fisionomiche per sorprendere il più disponibile e
candido tra i passanti ed averne una direttiva sufficiente, senza subire un
controinterrogatorio pericoloso. Ma è ancor più maliziosa e divertita, tale
lente, nei confronti dell’oste (e degli osti, in genere), del notaio
criminale, del mercante di Gorgonzola. La
più parte delle analisi intrecciano la profondità della dissezione
dell’animo umano con la sorridente ironia dell’artista geniale: sono un
pasto per la intelligenza del lettore ed uno spasso per la sua emotività. Dunque, Renzo è capitato per la prima volta nel gran
mondo della città di Milano, portando con sè la
mentalità più semplice e più alla mano del contado lecchese; vi è
arrivato, per di più, in un giorno starordinario, di passioni scatenate che ve
l’hanno coinvolto, eccitandogli l’animo e rendendolo, così, più esposto
alla malizia altrui. Il vino fa il resto e Renzo si ritrova ad essere uno dei
“tangheri” che voglion girare il mondo “senza sapere da che parte
si levi il sole”; o, peggio, un “reo buon uomo” da poter essere
messo in galera senza troppa fatica, se non direttamente dallo sbirro
travestito, che ve lo stava conducendo “caldo
caldo”, “come alla locanda più sicura della città”, almeno dal notaio
criminale, che va a prelevarlo il mattino dopo, con il seguito di due guardie. Vi è, in questi capitoli del romanzo, la
storia della maturazione psicologica del montanaro
onesto, ma sprovveduto, che
cresce alla statura del cittadino galantuomo, ma avveduto.[85]
Il candore di Renzo, in realtà, scade ad ingenuità unicamente perchè sono
“le tribolazioni” che “aguzzano il cervello”; ed egli “nel sentiero
retto e piano di vita percorso... fin allora, non s’era mai trovato
nell’occasione di assottigliare molto il suo”. Ma come per i testimoni del
matrimonio di sorpresa “ne aveva.... immaginata una da far onore a un
giureconsulto”,[86]
così ora, sia pure a guida della Provvidenza (c. 14), ricupererà le battaglie
perse col vino, con l’oste (con gli osti, anzi!), col sedicente Ambrogio
Fusella, finto spadaio e spia vera,
le ricupererà contro il notaio criminale e i suoi sbirri, contro la curiosità
dei clienti dell’osteria a Gorgonzola, contro la difficoltà del cammino e la
dimora in una regione, la
bergamasca, mai prima vista. Dapprima, gli si addice il giudizio dell’oste
della luna piena: “ Altro che lepre!... e in che mani sei capitato! Pezzo
d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve
andarne di mezzo, per le tue pazzie” (id.). Nella storia breve ma intensa di
questa rimonta e rivincita dell’uomo intelligente ed onesto contro le
circostanze avverse e gli uomini malevoli, i primi traditori sono gli osti.
“Girella emeriti” come quello del paese nativo[87], furbi e pilateschi come
quello della luna piena[88]
o curiosi e sospettosi come quello di Gorgonzola,
Renzo li ammucchia in un fascio
solo: “Maledetti osti! Più ne conosco e peggio li trovo”: c. 16).
Ma eccolo alla
riscossa. Intanto, l’autorità arriva a svegliare Renzo a mattino già maturo,
sicchè il cervello del giovane ha riposato a sufficienza e si è ben liberato
dai fumi del vino;[89]
e la folla è di nuovo in strada “in tutt’altra attitudine che di ricevere
bastonate” (c. 18). Eccolo allora che prende tempo (“Il giovine intanto...
si vestiva adagino adagino”: siamo al c. 15);
poi, ben consapevole del pericolo che corre, se finisce in prigione e,
quindi, ben deciso a rimanere uccel di bosco, eccolo percepire ogni particolare della situazione, dal “ronzio
crescente nella strada” alla “titubazione che
(il notaio criminale) si sforzava in vano di tenere nascosta”; ai
cappannelli nella strada che avevan già messo in allarme il capo dei birri
(“un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta
loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e
finalmente si separavn continuando a borntolare; e quello che al notaio parve un
segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà”). Riuscito a liberarsi dai
manichini o manette, dalle guardie e dal loro capo, egli deve ora trovare la
strada per porta Venezia, onde fuggire sul territorio della repubblica veneta,
cioè sul suolo bergamasco. Qui Renzo ha modo di dimostrare la sua avvenuta
maturazione da contadino ingenuo (“Jacques bonhomme” dicevano i francesi) a
cittadino sperimentato (“astuto” in greco significa appunto “abitante
della città”): non abborda la persona per averne le necessarie indicazioni,
se non dopo aver effettuato “forse dieci giudizi fisionomici”: “Quel
grassotto che stava ritto sulla soglia dela sua bottega, a gambe larghe, con le
mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una
gran pappagorgia, e che, non avendo altro da fare, andava alternativamente
sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola
ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di far
delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva
innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e
bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto, che,
a dir il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche
più malizioso; e probabilmente avrebbe preso un gusto matto a far andare un
povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant’è vero che
all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalmente
uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilmente qualche affare
pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacchere; e sentendolo
parlare da sè, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò e
disse...”. Ed eccoci, col c. 16, a Gorgonzola, nome di borgata
che Renzo è riuscito a trar di bocca ad una ostessa anziana e sprovveduta,
presso cui si era fermato qualche ora avanti per mandar giù due bocconi: prima
vittoria sugli osti, benchè fin troppo facile. Quello di Gorgonzola è più
ostico e, alla domanda di una “scorciatoia” verso il confine col bergamasco,
risponde a tono, ma “ficcandogli in viso due occhi pieni di una curiosità
maliziosa... Bastò questo per far
morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate”. E’ una
“anceps pugna”, una battaglia senza vincitori nè vinti, ma è quanto basta
a Renzo per non farsi sospettare uno dei tumultuanti di Milano, che ben presto
il mercante arriverà a rievocare, ad accusare e peggio. Renzo potrà andarsene
indenne e, con la sola fatica fisica ormai, giungere all’Adda, cioè al
confine colla repubblica veneta. Dice il proverbio che non importa correre, ma
arrivare: è quello che è riuscito a Renzo, segno della sua crescita
intellettuale e prudenziale, astratta e pratica. Questo ha implicato anche il
dominio dei propri nervi, il silenzio riuscito, la sensibilità trattenuta
durante il racconto dello straordinario e godibilissimo negoziante milanese,
passato alla storia come “il mercante di Gorgonzola”, perchè ivi entra nel
romanzo. Egli ha un temperamento energico (forse un passionato)
e mente tanto forte nella sintesi quanto povera nel potere di analisi. Ha, cioè,
nella intelligenza il suo tallone d’Achille, per cui tanto sa giocarsi gli
uomini del suo piccolo mondo,
quanto poco comprendere le
motivazioni della grande politica; tanto sa imporsi nella cronaca dei suoi
giorni, quanto poco giudicare delle vicende della storia. Eccolo dominatore
degli uomini e della cronaca: ha intuito subito che l’ordine è tornato
stabilmente e che la sua bottega è al sicuro dai capricci bramosi della folla
scatenata: “...ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti;
e subito s’è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a
spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non
arrischiare d’esser nel numero. Milano, qiuand’io ne sono uscito, pareva un
convento di frati”. E tratta i soliti oziosi della osteria, dove lui pernotta
abitualmente nei viaggi per i suoi affari, con la padronanza dell’uomo
superiore, sicuro di sè e signore degli altri. Regola prima: ad una
domanda, rispondere canzonando e dilazionando (Ah! ecco quelli delle novità...
E poi, e poi... a quest’ora le saprete forse meglio di me”). Seconda
regola: all’insistenza nella indagine, rispondere con un’altra domanda,
per suscitare “suspense” e mantenere la signoria psicologica sull’uditorio
(“Possibile? –disse il mercante...E voialtri... non sapete di tutte quelle
diavolerie di ieri?...Ah! oggi, non sapete niente d’oggi?”). Terza regola:
in ogni caso badare anzitutto a sè ed alle
proprie necessità, lasciando senza turbarsi che i curiosi aspettino e si
sentano soggiogati dalla sua sostanziale indifferenza ad accontentarli
(“Dunque ne sentirete delle belle... o delle brutte. Ehi, oste il mio letto
solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino e il mio solito boccone,
subito...”). Quarta regola: narrare allegramente anche le vicende
drammatiche, per accattivarsi gli astanti e farli aderire al proprio punto di
vista (“... c’era bensì de’ diavoli che, per rubare, avrebbero dato fuoco
anche al paradiso...”; “-Andavan dunque con la buona intenzione di dare il
sacco; ma...- E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise la punta
del pollice alla punta del naso. –Ma?- dissero forse tutti gli ascoltatori.
–Ma... trovaron la strada chiusa con travi e con carri...”;
“Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a
dir delle fandonie?; “La gente? anderà a vedere...Aveva tanta voglia di veder
morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni!, far la festa al
signor vicario di provvisione. In vece sua avranno quattro tristi, serviti con
tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della
buona morte...”). Quinta regola: giudicare le vicende dal punto di
vista del proprio interesse (“Stamattina
dunque que’ birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono
ai posti convenuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose preparate); si
riunirono e ricominciarono quella bella storia di girare di strada in strada,
gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con
riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va
avanti. Quando parve loro d’esser gente abbastanza, s’avviarono verso la
casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che
gli hanno fatto ieri: a un signore di quella sorte! o che birboni! E la roba
che dicevano contro di lui! Tutte invenzioni: un signore dabbene, puntuale; e io
lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della
servitù...”. Sesta
regola: parlare con la convinzione più candida e viscerale che la
versione dei fatti favorevole al narratore sia vera, sia l’unica vera, tanto
da non lasaciar insorgere il minimo sospetto che essa contiene in realtà delle
contradizioni. “C’era una lega, sapete?....C’era una lega....Ne volete una
prova?... La giustizia aveva acchiappato uno in un’osteria... uno che non
si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, nè che
razza d’uomo si fosse; ma certo era uno de’ capi...”. La società
ha bisogno anche di questi “tipi” per condurre
avanti aspetti importanti della
vita, come l’utilità e il
commercio: il danno nasce, quando costoro voglione scendere a giudizi
storico-politici o, peggio, filosofico-morali, dove proprio non si ritrovano e
parlano a vanvera. Tutto sommato, vista la fede imperterrita nella propria
ragione borghese, pensiamo che anche il buon Dio lo avrà alla fine giudicato
con una punta di umorismo e di magnanimità, salvandolo per insufficienza ad
intendere e volere.[90] Le analisi psicologiche del c17 le abbiamo tutte
rimandate in nota, trattandosi di spunti sempre molto significativi, ma brevi.
Eccoci al c. 18, che è quello dove le imprudenze
di Renzo a Milano e la potenza
socio-politca del “conte zio” riescono a far capitolare il povero padre
provinciale dei Cappuccini (ed a “far andare fra Cristoforo a piedi da
Pescarenico a Rimini: che è una bella passeggiata”), ma dove altresì vengon
messe in burla dal Manzoni (alleato, una volta tanto, con “lo spensierato” del
conte Attilio) la ingenuità e la boria dello stesso membro togato del Consiglio
segreto, che si rivela pessimo diplomatico e un povero uomo. Anche in questo
capitolo, il Manzoni semina perle singole di psicologia spicciola, con la
magnanimità della miniera inesauribile. Si attribuisce alle macchinazioni di
don Rodrigo, “per rovinare il suo povero rivale”, la visita dei birri a casa
di Renzo, mentre la causa immediata sono le sciocchezze che questi ha combinato
a Milano? E Manzoni allarga il caso particolare ad una legge generale dello
spirito umano: “Tant’è vero che, a giudicar per induzione, e senza la
necessaria cognizione dei fatti, si fa alle volte gran torto anche ai
birboni”. Don
Rodrigo, fra la passione ed il puntiglio (da una parte) e la impossibilità a
cavar Lucia dal convento di Monza, dove s’era rifugiata (dall’altra), si
trova alla disperazione, perchè “non voleva uscirne, nè dare addietro, nè
fermarsi, e non poteva andare avanti da sè”?. E Manzoni commenta: “La
strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga, ma questo non vuol
dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa
la sua parte, e faticosa, benchè vada all’ingiù”. E viene, poi, la
anatomia spirituale del “conte zio” che “togato, e uno degli anziani del
consiglio, vi godeva di un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo
rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare ambiguo, un
tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva:
non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare in cerimonia;
tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno
che fino a un -io non posso niente
in questo affare-: detto talvolta per pura verità, ma detto in modo che non gli
era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo
potere...”. Ma il grande intuito
de Manzoni sull’animo umano, la profondità del suo scandaglio psicologico lo
si deve aguire da sè attraverso la schermaglia fra lo zio, credulo ad ogni
costo alle parole di chi è parte del suo sangue, ed il nipote Attilio, cinico
mentitore all’ingrosso, che sa di poter contare su tale fiducia scriteriata e
colpevole. Chi farà le spese, almeno momentaneamente, dell’inganno
matricolato; chi pagherà il conto saranno
Cristoforo e Lucia: quello costretto a cambiare convento ed a fare quella
bella passeggiata; questa, andando soggetta
al rapimento ed alla prigionia nel castello dell’innominato. Coll’incontro
fra il magnifico signore ed il padre molto reverendo, siamo già al c. 19, dove
il colloquio conferma l’animo del conte zio (cortese nei modi, minaccioso
all’occorrenza, inesorabile nelle richieste, ritenute giuste esigenze
dell’onore ma in realtà puntigli capricciosi dell’orgoglio). E rivela
la personalità del padre provinciale cappuccino: non ingenua, non
debole, anzi ferma e prudente, ma,
alla fine, costretto a sacrificare l’innocente padre Cristoforo, per
salvaguardare la libertà e sicurezza della sua comunità religiosa. Il conte l’aveva previsto: “..alle volte è meglio aver
che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con uno solo di questi, il
quale non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il
suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento
conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e
si può quindi prenderlo da cento parti.”
Difatti il provinciale capisce al volo la situazione
e cerca di rimandare ogni provvedimento a carico del calunniato
confratello a dopo un controllo dei fatti, non escluso l’aiuto prestato al
pericolosissimo Lorenzo Tramaglino, costringendo così il povero “consigliere
segreto” a sputare l’osso della vera causa per l’invocato allontanamento
di padre Cristoforo, l’urto cioè tra lui e il nipote don Rodrigo: una
questione di prestigio e di orgoglio. Partita persa, ma combattuta tenacemente e
con vivo senso di giustizia, fin quando non son venuti in questione valori più
importanti della congeniale attività di un confratello (di Renzo e Lucia, che
ne sapeva il provinciale, dimorante a Milano?), valori che significavano libertà
da accuse presso le autorità politiche, che potevano rendere più difficile la
vita e l’apostolato dei Cappuccini nei domìni spagnoli in Italia. Fin qui la
presupposta psicologia che si intuisce sotto le parole e le azioni, da
ricostruirsi da parte del lettore, indirettaemnte. Con una eccezione. Vi è
infatti una nota di colore durante
il dialogo fra le due “canizie”: “tocca a noi, che abbiamo i nostri
anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?.... Chi fosse stato lì a vedere,
in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per
isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non
pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona
con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir
quel pur troppo!, tutto fu
naturale; lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere
i suoi anni...”. Sembra di leggere, nell’Ars poetica di Orazio, qualche
caratteristica del vecchio messo in scena: “difficilis, querulus, laudator
temporis acti...”.[91] Ed ecco la figura dell’innominato ad assorbire
l’intelligenza ed entusiasmare la musa del Manzoni. Una sintesi della sua vita
ed attività criminale la offre nel capitolo diciannove, al seguito del
Ripamonti.[92]
Noi lo delineeremo nella psicologia che dalle parole del Manzoni ci
sembra di poter indovinare. Fu un temperamento passionato, cui è congenita
l’arte del comando, che egli mise a servizio di una ambizione sfrenata:
indipendenza da ogni legge; signoria assoluta in un suo territorio e su degli
uomini che, per ammirazione o per bisogno, erano quasi dei sudditi di un
principe feudatario: era un genio dell’intraprendenza e della organizzazione,
asservita all’orgoglio, a costo del delitto sistematico. Anche Manzoni parla
di “ volontà pronta, superba, imperturbata” (c. 20), ma lo sorprende, poi,
ad una svolta della sua vita, come fa Shakespeare spesso coi suoi protagonisti.
A parte il ritratto fisico, già riportato dal c. 19, Manzoni ne offre la
carriera di sfide, di vittorie, di sangue; nel c. 20, lo
rivela invece scivolato nella crisi per l’età avanzata ed il pensiero
della morte in agguato. Comincia a sentire il peso della sua solitudine ( è un
peccato non sia di Manzoni il detto “non si è mai tanto soli, come quando si
è in alto”) ed a meditare sul senso della sua esistenza. E la trova insensata,
cioè senza un fine ragionevole. La sua vita è stata un susseguirsi di vittorie
tattiche, ma si avvia a risultare una sconfitta strategica; è stata una serie
di conquiste momentanee, ma senza
un guadagno definitivo: a che scopo
tanto sangue versato, tante lotte, pericoli e sfide, tanto primeggiare e vivere
da signore assoluto? Che cosa gli rimane di appagante, di costruttivo, quasi
“ctèma èis aèi”, acquisto per sempre? Ed ecco, allora, l’incrinarsi di
una volontà indomita, paragonabile a quello spezzarsi di una “corda”
nell’armonia della propria individualità, di cui parla Shakespeare nel suo
“Giulio Cesare”. Nell’analisi della crisi, bisogna partire da un punto
fermo: Manzoni lascia intendere che l’idea della legge morale l’aveva
sempre avuta; la novità stava nel sentire una specie di fastidio e
di rincrescimento per i suoi delitti (“Già da qualche tempo cominciava a
provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze”).
Ma questa legge morale, per lui, asceso allo stato di signore assoluto
attraverso il crimine, non aveva
valore se non c’era un Giudice finale, garante di premio e punizione. Ebbene
(ecco il secondo passo del processo di conversione) quel Giudice “che da gran
tempo non si curava di negare nè
di riconoscere”, ora gli si presentava con la perentorietà di Chi solo può
dire “Io sono però”. Non che ritorni subito a credere in Chi ha scacciato
dalla sua cosciena da decenni. E subentra, allora, un terzo momento, tragico:
la condizione di chi è disperato per la riacquistata forza della coscienza
morale e non ha nessuno cui rispondere: se non esiste il Garante del rapporto
fra virtù e premio| delitto e castigo, allora vivere o suicidarsi hanno
assolutamente la stessa probabilità di essere atteggiamenti razionali; fare il
bene od il male ha lo stesso senso e non senso: nulla è più certo, nulla è
ormai vero. Eccolo nel suo dubbio insolubile: “Se quell’altra vita di cui
m’han parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa
sicura: se quella vita non c’è, se è un’invenzione dei preti: che fo io?
Perchè morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia
la mia... E se c’è quest’altra vita...! A un tal dubbio, a un tal rischio,
gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si
poteva fuggire, neppure con la morte”. E’ dunque il problema morale (lo si
è già detto) che inchioda l’innominato alla necessità di Dio: una
incertezza sull’Aldilà (e su un Giudicie nell’Altra vita) rende
semplicemnte impensabile, illogica la questione fondamentale per l’uomo: per
qual fine si vive? quale è il significato della nostra esistenza? Al punto che
vivere e morire non fa differenza; sucidarsi o sopravvivere è scelta arbitraria
perchè ingiustificata; agire onestamente o delittuosamente è opzione
indifferente, perchè è irrazionale che il giusto debba lui pure morire, di
quella morte che si dice “naturale”, ma che risulterebbe di fatto una
“condanna a morte” come quella del peggior delinquente. Caduto il legame
virtù-premio| delitto-castigo, non solo è ingenuo agire onestamente con fatica
piuttosto che vivere libertinamente con soddisfazione, ma tutto l’umano
operare perde di significato: allora la
vicenda umana è caotica, illogica, irrazionale. Difatti, non esiste più il
vero ed il falso, se non si riesce a distinguere tra
il bene ed il male.[93]
Questo porre la disperazione più nera non, banalmente, come conseguenza di
colpe ritenute imperdonabili da Dio, ma come costatazione della insensatezza
della vita, se concepita senza la sanzione eterna, è una grande intuizione
psicologica del Manzoni, che lo eleva a pensatore morale almeno alla pari di
Kant: forse il più grande dopo Tommaso d’Aquino. Il capitolo che
segue al rapimento di Lucia, il ventiduesimo, è occupato dalla gran
carrellata sulla personalità e le opere del cardinal Federico Borromeo. Anche
in lui intuiamo (psicologia di riflesso, non direttamente esposta) un carattere
imperterrito, ma nella ricerca continua del meglio. Sullo sfondo sta un
temperamento in parte identico a quello dell’innominato (è facile immaginare
anche nel “buon Federigo” un passionato, cioè un attivo, emotivo, stabile);
in parte diverso (è istintivo immaginarselo florido, come è confermato dai
ritratti). Il temperamento del primo è minato da una incrinatura
ortosimpatetica, che lo porta alla impulsività, dallo stato di allerta e
sospetto sino alla violenza; quello di Federigo è attenuato da un prevalente
vagotonismo, per cui la calma e la pace gli si addicono e costituiscono un
fattore di compensazione e, quindi, di simpatia ed attrazione fra i due
personaggi: l’innominato è alla ricerca di una sicurezza e tranquillità
interiore, che trova dipinta sul volto di Federigo, prima ancora che
nelle parole ed opere. Fatto per l’azione, l’organizzazione degli uomini e,
quindi, per il comando, messosi al servizio del prossimo nella organizzazione
della Chiesa, voluta da Cristo perchè “presiedesse alla carità
universale”, egli è, invece, meno notevole come studioso e pensatore. Manzoni
non manca di lasciar intendere questo limite del grande cugino di Carlo, anche
se lo fa attraverso un giro di parole (di
domande) che rivelano un po’ di clericalismo nello scrittore, un eccesso di
riguardo verso un vescovo e cardinale. O, forse, solo una grande simpatia
versoun personaggio congeniale.[94]
L’azione di Federigo verso l’Innominato, che si
sviluppa nel c. 23, è di una serenità
che sa toccare anche la corda umoristica (“Oh, che disciplina è codesta...
che i soldati esortino il generale ad aver paura?”) e che sa accogliere con
tutto ottimismo il famoso brigante; è di una genialità che sa indovinare e
chiarirgli il motivo della visita inattesa e sa trovare le risposte ai dubbi e
problemi, attraverso una apologetica del cuore, che punta sulle esigenze della
psicologia totale dell’uomo, non esclusa quella della pace interiore, delle
certezze morali nell’orientamento della vita, della riparazione, quindi, dei
torti fatti e delle future opere di bene che la sua finora “sciagurata potenza
e deplorabile sicurezza” saprà sostituirvi.[95]
Il c. 24 è notevole per la impietosa eppure
amichevolissima diagnosi del “sarto”, una delle marionette[96]
più simpatiche del romanzo. Candore fino alla ingenuità,
sapienza cristiana e gran cuore, conoscenza del suo mestiere e passione
per la cultura, doti e limiti che sfociano in una vanità inconsapevole, ma
clamorosa. Eccolo nella descrizione del manzoni: “era, se non l’abbiamo
ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva
leggere, che aveva letto in fatti più di una volta il Leggendario de’ Santi,
il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un
uomo di talento e di scienza: lode che però rifiutava modestamente, dicendo
soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in
vece di tant’altri...! Con questo, la miglior pasta del mondo...”. Le parole
e i fatti, conformi alla pittura: l’entusiasmo con cui ripete la predica del
cardinale a tavola, presente Lucia, appena liberata dalla prigione del castello,
non manca della superbietta di sottolineare la ignoranza della più parte
dei compaesani, che della predica risentono l’effetto emozionale, ma non
saprebbero ripeterne una parola. C’è
posto per la generosità discreta:
egli manda la bimba maggiore dalla vicina di casa, Maria vedova, a portarle un
po’di cibarie, che possa far festa anche lei, quel giorno straordinario per la
visita dell’arcivescovo e la conversione dell’innominato: la manda, con la
raccomandazione di un contegno da non parere “che tu le faccia
l’elemosina”. Ma vi corrisponde l’ingenuità
di mettersi nel mezzo della folla
al seguito del cardinale, che si avvia a “rendere onore alla sventura,
all’innocenza, all’ospitalità ed al suio proprio ministero in un tempo”,
senza accorgersi che la meta del corteo è appunto la sua casa, dove Lucia è
alloggiata, sicchè quando finalmente se ne rende conto, deve sfoderare
una certa forza fisica ed una certa arroganza verbale (“lasciate
passare chi ha da passare”) per farsi luogo ed
essere presente anche lui. Ed alla gioia magnanima di poter ospitare per
qualche giorno Lucia ed Agnese, fa da correttivo l’impaccio del rispondere al
cardinale in maniera adeguata. Finirà col cavarsela con un improvvido “Si
figuri!”, che brucerà poi sempre, come
una umiliazione incancellabile, sul suo orgoglietto ferito. Ma tant’è:
l’ingenuo non è mai un estemporaneo: è un impacciato, alla inutile ricerca
di risposta immediata alla sfida di parole o comportamenti inattesi. Ne trova
poi a bizzeffe, quando non servono più. Lo afferma qui anche Manzoni: “del
senno di poi ne son piene le fosse”. Nel c. 29, ricevendo don Abbondio, Agnese
e Perpetua in viaggio prima verso il castelllo dell’Innominato (per salvarsi
dai lanzichenecchi) e poi, di ritorno, verso la parrocchia, darà luogo ancora
a più d’una delle sue trovate:
dapprima, mostrando una stampa approssimativa del
cardinal Borromeo, appesa in casa per ricordo, non sa frenare la propria vanagloria di aver ospitato per qualche momento
il personaggio e dice “noi non ci ingannano, eh?”. Poi offre libri
dalla sua biblioteca a don Abbondio per passare il tempo al rifugio
provvidenziale, ammettendone il poco valore, ma giustificandosi con un “ma però...”,
che è un’altra perla di lingua, che fa il paio con il “Si figuri!” al
cardinale. Alla fine di “un fracasso del genere” (il passaggio predatorio
dei soldati diretti al saccheggio di Mantova) egli pensa ad una sola cosa:
“S’ha da far de’ libri in istampa”. L’uomo non si smentisce: è
conseguenza della sua psicologia, perchè di questa fa parte la semplicità
della mente, che non riesce a percepire i propri limiti nè, quindi, a
correggersi. Nel c. 25 troviamo, in apertura, una intuizione
psicologica di valore perenne: “gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione
non si pssa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno o tengono
affatto in sè quella che sentono, ma ne senton di meno in effetto”. Non
sarebbe il caso che i giornalisti e i mezzi di informazione ne tenessero
coscienziosamente conto? Segue poi la presentazione di quel capolavoro che è
donna Prassede, studiata attraverso princìpi psicologici generali, meno comici
ma molto azzeccati. “Era
donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere
certamente il più degno che l’uomo possa esercitare, ma che purtroppo può
anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e,
al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre
passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali ben
spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono
che bisogna fare con gli amici; n’aveva poche; ma a quelle poche era molto
affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non
eran quelle che le fosser men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per
bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto
far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti
di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in
confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe
diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c’era di reale, o di
vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e
che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori, ma a donna Prassede, troppo
spesso e, non di rado, tutte in una volta.” Il degno marito, don Ferrante, sarà scorticato a
lungo nel c. 27, ma già ora è umoristicamente
introdotto per la lettera da inviare al cardinale, onde ottenere la gioia e
l’onore di ospitare in casa, a Milano, Lucia (si era alla fine delle
ferie estive, che la “coppia d’alto affare” trascorreva nel
Lecchese: anno 1629). Eccolo, dunque, all’opera: “Partite le donne (Agnese e
Lucia), la lettera se la fece stendere da don Ferrante, di cui, per essere
letterato, come diremo più in particolare, si serviva di segretario,
nell’occasioni d’importanza. Trattandosi d’una di questa sorte, don
Ferrante ci mise tutto il suo sapere e, consegnando la minuta da copiare alla
consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia: ch’era una delle molte
cose che aveva studiato e delle poche sulle quali avesse lui il comando in
casa”. Se don Ferrante appare fin d’ora come
l’intellettuale senza senso pratico, donna Prassede emerge come la faccendiera
senza senso critico, destinata perciò ad ottenere l’effetto contrario ai suoi
progetti, agitazioni e maneggi. E chi ne fa le spese non è solo la povera
Lucia, che donna Prassede si è assunta la funzione di proteggere e...convertire
(essa, donna Prassede ne è certa, si è innamorata di un poco di buono, come
quel mezzo bandito di Renzo; e lei deve distoglierla da un tale legame): vi sono
figlie e generi, case e monasteri da mettere in sesto! Prima
della sinfonia sublime del dialogo fra il cardinale e don Abbondio, ecco una
sentenza di psicologia che svela la segreta viltà
sotto la sbandierata baldanza di troppa gente. Scappato don Rodrigo dal
paese dei promessi sposi, per la notizia non solo della conversione
dell’Innominato e liberazione di Lucia, ma dell’arrivo di Federigo in visita
straordinaria alla parrocchia, si scioglie la lingua dei compaesani, che
sparlano a piacere delle malefatte del signorotto. E si riscalda il loro cuore:
tutti pronti a montar la guardia di notte alla casa delle due donne, rientrate
al seguito del cardinale. Manzoni commenta, lepido e graffiante: “Volete aver
molti in aiuto? cercate di non averne bisogno”. I cc. 25 e 26 sono occupati in gran parte dal
richiamo all’ordine del cardinale verso il suo prete, che ha gravemente
mancato al dovere, rifiutandosi di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia; e
che mostra, per di più, di non esserne cosciente
(per lui, l’unica colpa è la “mezza bugia, detta solo a scopo di salvar la
pelle”, il motivo che credeva assolutore della sua latitanza
a celebrare il matrimonio). E’ l’incontro di un’aquila
di chiarezza e coerenza nel ragionamento, di coraggio ed eroismo nella
carità, con un pulcino di confusione e compromessi, di paure ed egoismo, fino
alla viltà. Le due concezioni opposte di vita si esprimono in due
notazioni psicologiche contrastanti: “Il coraggio, uno non se lo può dare”
è l’assioma di don Abbondio; “L’amore è intrepido” è il principio del
cardinale, principio che risulta vittorioso quando viene completato
nella regola: “Amare e pregare”, perchè il soccorso implorato
umilmente da Dio compensa i limiti umani e li
converte nella virtù, necessaria per la fedeltà alla propria missione. Il capitolo seguente, il ventisettesimo, potrebbe
essere intitolato ai “malintesi”, perchè vi si trovano tre potentati
(i Nevers di Francia, i Savoia del Piemonte e i Gonzaga di Guastalla) che
accampano diritti sulla eredità di Mantova e del Monferrato, tutti ben decisi a
difendere le proprie ragioni ed a mantenersi sordi ai diritti altrui,
apoggiandosi a Francia o Spagna. Vi sono inoltre dei tribulati (Lucia e Agnese)
che debbono comunicare, in cifra, a Renzo il voto di Lucia e l’invio della
metà dei cento scudi (regalati ad Agnese dall’Innominato); tribulati
che sono, per di più, analfabeti e debbono dipendere da uno scrivano, il quale
interpreta e mette in carta le loro
cose come può, aumentando la
confusione e destando collere disperate. Incontriamo infine donna Prassede che
non vuol credere alle sincere risposte di Lucia circa la sua volontà
(dipendente dal voto) di dimenticare Renzo; e perciò le rende più difficile il
suo proposito di non pensare all’ex fidanzato, col parlarle spesso di lui...
per toglierglielo dalla
mente. Ma il personaggio principe del capitolo è don
Ferrante, attorno al quale il Manzoni sviluppa un divertissement da gran
scrittore: divertimento che risulta tanto più signorile ed ammirevole,
quando si pensa che, nel letterato sprovveduto di senso pratico, egli vedeva una
parte di se stesso, sicchè la canzonatura va letta anche come autoironia. Ma in
don Ferrante si accumula (ciò che non si può certo dire del suo inventore, del
Maznoni), il limite ancora più grave della mancanza di senso critico e, quindi,
dell’incoscienza del suo difetto e della impossibilità ad uscirne o, almeno,
di controllarne le manifestazioni più gravi. Non è poi così lontana dal vero
la sposa, donna Prassede, a “nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle
sue idee, un letterato”. Le cianfrusaglie della sua biblioteca (astrologia e
scienza cavalleresca ne sono il fulcro, mentre la storia della scienza e della
filosofia sono accettate con una ingenuità
scusabile in Plinio e Diogene Laerzio, cioè in scrittori vecchi di
dodici-quindici secoli, ma inconcepibili ormai
nel Milleseicento) sono solo una delle sorgenti, che fanno di lui il personaggio
più comico del romanzo. Ci sono anche, infatti, i giudizi sul valore dei
libri e dei loro autori: da tali libri dipendono le sue idee: dai modi
legittimi di difendersi dalla
malvagità delle arti magiche, alle meraviglia della natura (la
salamandra che non brucia nel fuoco; il cristallo che nasce dal ghiaccio
indurito; la remora, pesciolino minuscolo, che è capace di fermare le navi più
robuste in pieno oceano...), all’atteggiamento, filosoficamente dimostrato, da
tenere di fronte alla peste. Convinto, infatti, che dipendesse dagli influssi di
“fatali” congiunzioni fra astri, lassù
nel cielo, egli “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò;
andò a letto a morire come un eroe del Metastasio, prendendosela colle
stelle”(c. 37). Ad impedire che un simile “buon uomo” diventi, oltre che
ridicolo, anche antipatico, sta il fatto che egli è anche un “uomo buono”:
le sue pecche sono tutte nella testa, non nel cuore, sicchè la compassione per
la persona segue al sorriso per le sue ingenuità. A meno che il senso critico
del lettore non sospetti una “oltranza od eccesso” nei limiti del
personaggio e non trovi che Manzoni abbia creato una macchietta tanto godibile
nella vita fantastica dell’arte, quanto impossibile nella vita concreta
della realtà. Tanto più che egli, in due occasioni, rivela una capacità di
giudizio in netta contraddizione con la abituale acrisia
o mancanza di senso critico. Eccolo a sentenziare abbastanza esattamente:
“ ma cos’è mai la storia.... senza la politica? Una guida che cammina,
cammina con nessuno dietro che impari la strada e per conseguenza butta via i
suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza una
guida”. Più esatta ancora la valutazione di Machiavelli e Botero: “Due però
erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti
e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu
solito chiamare i primi, senza poter mai risolversi a quale de’ due convenisse
unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario
fiorentino; mariuolo sì....ma profondo: l’altro, la Ragion di stato del non
men celebre Giovani Botero; galantuomo sì... ma acuto”. All’inizio di questo stesso capitolo 27, sta una
notazione psicologica, segnalata come importantissima da parte del Manzoni
stesso, in vena di canzonatura contro le finzioni di cui è piena la politica.
Si tratta, infatti, delle mosse dell’ambasciatore veneziano , venuto a Casale
per indagare in don Gonzalo, che dirigeva personalmente l’assedio, lo “stato
di salute” del governo a Milano, onde meglio ponderare la opportunità di
muovergli guerra o meno; e della contromossa del governatore spagnolo, che sa
benissimo che cosa si nasconda dietro i complimenti dell’inviato di Venezia.
Dunque “A Venezia avevano alzato la cresta per la sommossa di Milano”.
Quanto a don Gonzalo, “scottandogli molto, e come uomo e come politico, che
que’ signori avessero un tal concetto de’ fatti suoi[97],
spiava ogni occasione di persuaderli, per via d’induzione, che non aveva perso
nulla dell’antica sicurezza; giacchè il dire espressamente: non ho paura, è
come non dir nulla. Un buon mezzo
è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto
il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella
sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sè (notate tutto; chè questa è politica di quella vecchia fine), don
Gonzalo dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo
riparo a tutto, fece quel fracasso a proposito di Renzo...” (passò, cioè,
alla accusa ed alla minaccia aggressiva contro un governo che ricettava un
rivoltoso della importanza di Lorenzo Tramaglino!). Pepìte d’oro nel campo della psicologia se ne
trovano ancora nei capitoli seguenti: di quelle moralmente orientate, faremo
ricordo nell’indagine sul motivo etico-religioso dell’opera manzoniana;
qui ci limiteremo a quelle di natura profana, sempre sorprendenti. Al c.
28: “La moltitudine aveva voluto far nascere l’abbondanza col saccheggio e
con l’incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda. I
mezzi erano convenienti tra loro;
ma cosa avessero a fare col fine, il lettore lo vede”; e ancora: “Ma è
destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate
de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran
cose risolute prima”.[98] Al c. 31 appartengono varie staffilate contro
l’opinione pubblica, cioè le persuasioni “dei
più”,[99] (di quelli che già
Socrate e Platone definivano sprezzantemente come “òi pollòi”) in rincalzo
all’analisi sgomenta che ne aveva
dato nel c. XIII: “Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era
anche in questo caso voce di Dio?) deridevano gli augùri sinistri, gli
avvertimenti minacciosi dei pochi e avevano pronti nomi di malattie comuni per
qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque
sintomo, con qualunque segno fosse comparso”; e, poco più avanti:
“l’opinione di quelli che i poeti chiamano volgo profano e i capocomici
rispettabile pubblico”; e ancora: “Quel volume di roba accatastata produsse
una grandissima impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto
diventa così facilemte un argomento”. Il c. 31, ha nelle prime pagine una notazione, che
prende le mosse dal fatto che la peste di 53 anni prima (1577) aveva avuto il
nome di “peste di San Carlo”; e che viene
espressa con la forza artistica originata da una profonda (e forse anche
polemica) convinzione. “Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie
e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella
d’un uomo, perchè a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più
memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti
que’ guai, perchè in tutti
l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria;
d’una calamità per tutti, far per quest’uomo come un’impresa; nominarla
da lui, come una conquista, o una scoperta”. Lo stesso capitolo si chiude,
prendendo le mosse dal rifiuto viscerale della massa a riconoscere
la inevitabilità di un male come
la peste (onde tentare di farvi fronte, poi, razionalmente, senza cercare
inutili colpevoli da punire), con una considerazione compassionevole della
condizione umana comune, più portata a giudicare che a riflettere: “Non è,
credo, necessario d’esser molto versato nella storia delle idee e delle
parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo,
che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che
conquistino la loro evidenza a un tale prezzo, e alle quali si possano attaccare
accessori d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come
nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto,
prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare,
paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è
talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi
uomini in generale, siamo un po’ da compatire”. Si noti: la intuizione è
ribadita a fine romanzo (Renzo, “prese un po’ più l’abitudine
d’ascoltar di dentro le sue parole prima di proferirle”), ma in un contesto
più moralistico (“Allora s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca
e un altro negli orecchi”): si veda il contesto al c. 38. Anche il c. 32 è ricco di notazioni psicologiche
preziose. Una è lapidaria: “la collera aspira a punire”), con un commento
di Pietro Verri. [100] Altre, più distese, sono latrettanto acute.
Una volta diffusasi la convinzione che la peste dipendeva dalla malvagità degli
“untori”, Manzoni commenta: “Con una tal persuasione che ci fossero
untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano
all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diventava facilmente
certezza, la certezza furore.” Così, sempre a proposito
delle fantasie circa gli untori, “Si raccontava, non da tutti nell’istessa
maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole...)”. E
ancora, circa la sordità intellettuale e morale, che impediva alla massa delal
gente di mettere in dubbio la realtà degli untori ed unzioni malefiche: “il
buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Pagliuzze d’oro anche nel c. 33: “...da tante
cose dipende la celebrità de’ libri!” (a proposito della storia della peste
nel Bergamasco, scritta da Lorenzo Ghirardelli “libro però raro e
sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le più
celebri descrizioni di pestilenze”). “Se lascio scappare un’ occasione così
bella -(La peste! vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel
benedetto istinto di riferire e di subordinare tutto a noi medesimi)- non ne
ritorna più uan simile”. Che la lontananza ed il dolore rafforzino le
amicizie, lo abbiamo già letto e riportato.
Nel c. 36 vi è lo strazio del cuore in Lucia e di Renzo. Per la prima, quello è il momento più tremendo dopo quello del rapimento: neppure la peste è ormai per lei così paurosa (“Oh Signore!.... perchè non m’avete fatto la grazia di tirarmi a voi...!”); è l’acme di quella pena affiorata nella casa del sarto al ritrovarsi (c. 34) la corona del Rosario che si era messa al collo “quasi come segno di consacrazione e uan salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta”: c. 21); e che è divenuta assillo nel palazzo di donna Prassede, per la tenacia del sentimento, che essa combatteva bravamente con preghiere o canti, ma che la padrona ospitante le richiamava continuamente con le poliziesche inquisizioone sul suo cuore (“Ebbene... non ci pensiam più a colui?) e con le calunnie contro il povero Renzo (“il birbante venuto a Milano per rubare e scannare”). Per il secondo, vi è (a livello emotivo) un affetto irrimediabile e (a livello volitivo) un amore perseverante, tanto che è venuto dal bergamasco fin dentro quel luogo di morte a cercarla viva; e vi è giunto armato di una sapienza dialettica che gli deriva dall’amore vivo e perciò inventivo e dalla coscienza cristiana, che gli fa sentire quello che padre Cristoforo confermerà ben presto: non essere, cioè, valido un voto di verginità, fatto senza il consenso di colui cui si era promessa e che doveva sopportarne le conseguenze. Le scintille poetiche, che sprizzano dal colloquio
concitato dell’incontro, le gusteremo in sede di “Tonalità liriche”. Nel c. 37 vi è una gomitata maliziosa contro
l’ignoranza del volgo schiavo dei propri pregiudizi e contro quei dotti
che pretendono sostituirvi delle
assurdità ancor più ridicole. Il volgo disorientato dalle passioni è quello
tragicamente sofferente per la peste; il maestro, lo conosciamo di già: è don
Ferrante in persona: “Fin che non faceva che dar addosso all’opinion del
contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perchè non si può
spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorchè
vuol dimostrare agli altri le cose di cui son già persuasi”. Nell’ultimo capitolo (il trentottesimo), oltre alla
nota psicologia di don Abbondio, incorreggibile nella sua ossessiva paura,
imperterrito nel suo voler sottrarsi alle vendette di un redivivo don Rodrigo,
ci imbattiamo nella novità del povero prete che, liberato da quella condizione
dalla notizia della morte del prepotente, diventa ciarliero a perditempo. Solo
l’avvedutezza nelle cose pratiche volta al bene dei suoi parrocchiani, lo
riscatta un poco: amico e saggio è il suggerimento all’erede di Rodrigo di
comperare lui i beni degli sposi, ormai decisi di spostare la residenza nel
bergamasco. Qui, il commento di Manzoni si trasforma in un altro geniale
assioma: “sono quei benedetti affari, che imbrogliano gli affetti” (cioè è
l’affare della propria incolumità che impedisce a don Abbondio di mostrare la
benevolenza, che pur ha per i suoi parrocchiani). Le ultime introspezioni sono
ancora sciabolate di luce sul “guazzabuglio del cuore umano”. Vi è la
disaffezione ai luoghi, cari per tanti consolanti
ricordi, ma che alla fine ci han fatto soffrire: “Anche il bambino, dice il
manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con
fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia,
per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a
provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca”. Vi sono le bizzarrie dello stato d’animo che si
chiama aspettativa: si tratta della reazione disillusa della gente nel paese
bergamasco, alla vista concreta di Lucia, di cui aveva sentito parlare nel
contesto di vicende esalatanti la sua avvenenza (un nobile che si innamora di
lei, fino a tentare due volte il rapimento), oltre che la sua virtù: “Ora
sapete come è l’aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova, poi,
difficile, schizzinosa: non trova mai tanto che le basti, perchè, in sostanza,
non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva
dato senza ragione”. Vi è l’avvertenza allo stato di universale
insoddisfazione dell’uomo nelle sue condizioni di vita e la ricerca universale
di uno stato migliore: “L’uomo... fin che sta in questo mondo, è un infermo
che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti
ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star
meglio. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo,
comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che
lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo...
si dovrebbe pensare a più a far bene che a star bene: e così si finirebbe
anche a star meglio”. Vi sono, infine, le riflessioni di Renzo e Lucia
sulle cause delle contrarietà nella vita, della distanza, cioè, fra virtù e
premio e fra delitto e castigo, qui in terra. A Renzo, che attribuisce a propri
errori d’imprudenza le vicende avverse occorse negli anni tempestosi che han
preceduto il matrimonio, Lucia ha una insuperabile obiezione da contrapporre :
“A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta,
-e io- disse un giorno al suo moralista, -cosa volete che abbia imparato? Io non
sono andata a cercare i guai; sono loro che osn venuti a cercar me. Quando non
voleste dire, aggiunse soavemente sorridendo,- che il mio sproposito sia stato
quello di volervi bene, e di promettermia voi.- Renzo, alla prima, rimase
impacciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai
vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più
cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per
colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.” UN PO’ TUTTE LE CATEGORIE DEGLI UOMINIDunque, Manzoni è ispirato dall’interesse per tutto l’uomo, anima e corpo. Ma anche, dobbiamo ora aggiungere, per tutte le categorie degli uomini. Ne
La Pentecoste, ultime quattro
strofe, il
Manzoni prega per tutta l’umanità, distinta in classi ora etico-psicologiche
(“Noi T’imploriam! Ne’ languidi| pensier dell’infelice| scendi piacevol
alito, aura consolatrice:| scendi bufera ai tumidi| pensier del violento;|
v’ispira uno sgomento| che insegni la pietà”); ora etico-sociale (“Per te
sollevi il povero| al ciel, ch’è suo, le ciglia,| volga i lamenti in
giubilo,| pensando cui somiglia:| cui fu donato in copia,| doni con volto amico,
|con quel tacer pudico,| che accetto il don ti fa.”); ora in gruppi fondati
sulle diverse età della vita (“Spira de’ nostri bamboli| nell’ineffabil
riso;| spargi la casta porpora| alle donzelle in viso...”; “Tempra de’
baldi giovani| il confidente ingegno;| reggi il viril proposito| ad infallibil
segno;| adorna le canizie| di liete voglie sante;| brilla nel guardo errante| di
chi sperando muor”); ora in distinzioni riferite
ai due stati di vita fondamentali nel cattolicesimo: la verginità ed il
matrimonio (“manda all’ascose vergini| le pure gioie ascose;| consacra delle
spose| il verecondo amor”). Manzoni
affronta, da uomo a uomo, i grandi e dialoga con loro molto più
degnamente che non Machiavelli[101],
perchè solitamente è a loro
superiore d’intelligenza teoretica, se non di genialità operativa. Difatti ne
mette a nudo l’anima, ne scandaglia
le coscienze, ne celebra adeguatamente le glorie, ma ne svela impietosamente, se
occorre, i disegni di superbia e di prepotenza o le insidie e le perfidie e non
tace gli insuccessi ed i fallimenti di personaggi, per quanto titolati. Celebrato per la genialità, soprattutto militare[102],
è Napoleone, ne Il cinque maggio:
“Dall’Alpi alle piramidi,| dal Manzanarre al Reno,| di quel securo il
fulmine| tenea dietro al baleno;|| scoppiò da
Scilla al Tanai,| dall’uno all’altro mar”: ma non senza domande sul
valore finale della sua vita: “Fu vera gloria?” Lo stesso va detto dei re longobardi, di Carlo Magno
(Adelchi) e del governo di Venezia (Il
conte di Carmagnola): la concezione ancora barbara del re conquistatore e,
in opposizione, la utopia di un governo dedito alla pace ed al progresso del
proprio popolo, si dividono inconciliabili nell’opposizione fra Desiderio ed
il figlio Adelchi; e si mescolano inestricabilmente nel personaggio di Carlo e
nella “Realpolitik” del Consiglio dei Dieci. Sorpresa nella sua complessità
è la figura di Carlo. Egli si è impossessato a forza dei domini del fratello
Carlomanno, escludendone i figli dalla successione (771); ha ripudiato
Ermengarda (Adelchi, I, 1 e 2; IV, 1 e coro) e accoglie come “prodi fedeli”
i traditori longobardi, guidati dal perfido Svarto (id. III, 6). Eppure ammira
Anfrido come un vero prode (id. III, 7) ed esaudisce prontamente la preghiera di
Adelchi riguardo al padre Desiderio (ib. V, 9); e combatte per il papa, da cui
si farà incoronare capo del sacro romano impero... La sua ambiguità
è svelata al meglio nelle prime battute, dopo superate le fortificazioni della val di Susa: “A Dio tutto l’onor.
Terra d’Italia, io pianto nel tuo sen questa lancia, e ti conquisto”: Dio è
il vincitore, ma il padrone è Carlo! Della Spagna in Italia egli riconosce la forza
militare, tanto che Bortolo dissuade Renzo dall’arruolarsi coi Veneziani per
una eventuale invasione della Lombardia, dicendogli: “Per me, sono eretico:
costoro abbaiano; ma sì: lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così
facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio; sai che affare è la Spagna?
San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro...” (c. 33).
Ma la impotenza del suo governo politico, che non riesce a tener a freno
i nobili, dispotici quasi come i medioevali feudatari , è
impietosamente messa alla frusta con l’ironia più raffinata. A
cominciare dalla Introduzione: “E veramente, considerando che questi nostri climi
sijno sotto l’amparo del Re cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai
non tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante,
risplende l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e
gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gli altri Spettabili Magistrati
qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare
un nobilissimo Cielo, altra causal trouar non si può del vederlo tramutato in
inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’uomini temerarij si
vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesochè l’humana
malitia per sè sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con
occhij d’Argo e braccj di Briareo si vanno trafficando per li pubblici
emolumenti...”. Ecco, non del tutto giusto è (ben involontariamente)
Manzoni con i governatori spagnoli del secolo XVII in Italia: nel giudizio sulla
loro opera, egli non vede praticamente
nulla di buono, sicchè nella loro presentazione egli riesce supremamente
ironico, a cominciare dalle pompose ed inefficaci “gride” contro i
“bravi”, stralciate con malizia, sia
pure signorilmente umoristica, nel primo capitolo. In questo disprezzo e
condanna del dominio spagnolo in Italia han giocato vari fattori. Anzitutto, la
mentalità razionalistica del Millesettecento, fortemente filofrancese ed
antispagnola: questa sottolineava la maggior uguaglianza di tutti nell’ordine,
la sobrietà nel vestire e nella espressone, il progresso tecnico-igienico
intervenuti dopo l’uscita di scena degli spagnoli.[103]
. Giocava la sua parte anche lo spirito risorgimentale del Manzoni, che
detestava il dominio straniero di un popolo su un altro, fosse
esso austriaco o spagnolo od anche francese.[104]
La vittima più illustre di tali preclusioni emotivo-intellettuali è stato
Gonzalo Fernandez de Cordoba, il giovane, che Fausto Nicolini non
ha avuto difficoltà a riabilitare nel suo libro “Arte e politica nei
P. S.” (Milano, Longanesi, 1958). Il Lamennais (lo dobbiamo aver già detto)
scriveva alla contessa di Sennft, che la situazione non era peggiore di quanto
succedeva nei secoli precedenti. Questo
non toglie verità ed onestà al giudizio non solo severo e rigoroso, ma anche
duro ed implacabile che lo scrittore pronuncia su fatti concreti ed ignobili.
Uno di questi è il processo che instaura non contro la povera “monaca di
Monza”, ma contro il padre-principe che sulla figlia esercita un potere
subdolo con una pervicacia crudele, fino a costringerla a chiudersi contro ogni
manifesta volontà, in convento. Nei cc. 9 e 10 del romanzo non
vi è il minimo spazio per il sorriso umoristico: sono capitoli tutti
intesi alla ricostruzione della trappola disumana di un padre snaturato, il
principe Martino de Leyva, e alla espressione della comprensiva (anche se non
giustificante) pietà per la figlia Maria Anna, spirito debole ed incerto, arresasi al capriccio
paterno, dopo essersi fatta trovare, in certo modo, nella parte della colpevole. Vi è anche la grandezza non solo onesta , ma anche
caritatevole e saggia. E’ quella del cardinale Federigo Borromeo, cugino di
San Carlo, di cui fu il secondo successore dal 1595 al 1631. La sua vita è
riassunta nei due princìpi iniziali dell’elogio nel c. 22: “fu uno degli
uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti
i mezzi di una grad’opulenza, tutti i vantaggi di una condizione privilegiata,
un intento continuo, nella ricerca ed esercizio del meglio.... Persuaso che la
vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni,
ma per tutti un impiego, dal quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua
utile e santa”. Il giudizio, sostanzialmente, è esatto, anche se Manzoni (lo
si è detto) è forse troppo ottimista sul valore dei suoi scritti e
tace sulla sua credenza nelle streghe.[105]
Accanto al Borromeo, sta l’Innominato (in realtà, Francesco Bernardino Visconti, come scrive lo stesso Manzoni a Cesare Cantù; od il fratello di lui, Galeazzo Maria). Benchè inventato in qualche particolare (la conversione ad opera del Borromeo avvenne in realtà al principio del secolo XVII, fuori da ogni rapporto colle vicende fantastiche di Renzo e Lucia, ovviamente), egli risulta una figura davvero gigantesca: Manzoni sa creare dei temperamenti dissimilissimi da lui, con somma perfezione. Ma lo tratta poi con il solo rispetto della verità: attraverso le parole del cardinale, gli rimprovera i suoi delitti, al punto che l’innominato stesso ne resta sorpreso, senza sentirsene però offeso (“Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo”). La statura dell’uomo la si può quasi palpare nell’annuncio della conversione ai dipendenti e nella reazione di questi: “Accennò a quelli che si trovavano sulla porta che gli venissero dietro; entrò per primo nel cortile, andò verso il mezzo e lì, essendo ancora a cavallo, mise un grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti quei suoi che l’avessero udito. In un momento, quelli ch’erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce... Andate ad aspettarmi nella sala grande –disse loro; e dalla sua cavalcatura, gli stava a veder partire... Al suo apaprire, cessò subito un gran bisbiglio che c’era... L’innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata.... Qui finì e tutto rimase in silenzio.... A nessuno di loro passò neppur per la mente che, per essersi lui convertito, si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altro uomo... quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. Vedevano in lui un santo, ma uno di quei santi che si dipingono con la testa alta e con la spada in pugno.... vedevano ora la meraviglia, l’idolo della moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente da prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo...” (c. 24). Nel c. 29 il quadro è così completato: “era quell’uomo che nessuno aveva potutto umiliare e che s’era umiliato da sè.... In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perchè ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo... Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi e piccoli a calpestarlo, messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti e inchinato da molti”.[106] Passando dai
“feudatari” ai “nobili, mediocri, vili, e plebei”[107]
(che studieremo senza rigide distinzioni), troviamo personaggi già citati per
la psicologia acutamente evidenziata: dal principe padre al conte zio. Sul primo
Manzoni pronuncia una sentenza inespiabile: “non ci regge il cuore di dargli in questo momento il
titolo di padre”; e lo smaschera nel suo subdolo lavoro di coercizione
indiretta sulla figlia (avuta dalla prima moglie e invisa, quindi, alla
matrigna!): “Il principe... non rispose direttamente, ma coninciò a parlare a
lungo del fallo di Geltrude[108]: e quelle parole
frizzavano sull’animo della poveretta, come lo scorrere di una mano ruvida sur
una ferita...” (c. 10). Il secondo, Manzoni lo rosola a fuoco lento nei cc. 18
e19, ora rendendolo ridicolo per la pesante contraddizone fra apparenza (di
abilità diplomatica, di saggezza, di potere politico) e realtà (dabbenaggine
credula alle menzogne più marchiane, insignificanza delle prove circa la sua
importanza ed autorità, fatica a
far fronte ad incombenze e pratiche di normale difficoltà),[109]
ora canzonandolo direttamente.
Quando il nipote Attilio,
sornionamente, accenna alle molte “brighe” alle troppe “cose” che ha per
la testa il signor zio, Manzoni assente malignamente con il commento: “questo,
soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica che’era a
farcele stare tutte”. E, vedendosi controllato dalla ragionevolezza
persistente del padre provinciale, cerca di segnare distinzioni a proprio
favore: “-Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie...!
Son cose spinose, affari delicati....- E qui, invece di gonfiar le gote e di
soffiare, strinse le labbra e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar
fuori, soffiando-“. La conclusione è un elogio ironico. “Un grande studio,
una grand’arte, di gran parole metteva quel signore nel maneggio d’un
affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio
che abbiamo riferito, riuscì a far andare fra Cristoforo a piedi da Pescarenico
a Rimini, che è una bella passeggiata”. Dopo lo zio, veniamo ai nipoti. Attilio “lo
spensierato” e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di
soverchieria” è il più disinvolto e spregiudicato: non per nulla vive in
città, a Milano, e del cittadino scettico, cinico e impudente ha tutta
l’aria. Grida quel che pensa in
faccia a chiunque, sicchè rischia di rovinare, con la impulsività e l’impazianza,
l’armonia del pranzo in casa del cugino, battagliando con l’altro ospite
d’importanza, il podestà di Lecco; non solo sfrutta gli altri, ma esprime il
principio che bisogna sfruttarli (anche i frati);chiama galantuomo il nobile,
anche se perverso, mentre è “mascalzone” chi nobile non è e, perciò, è
automaticamente “ignobile”; parteggia per la Spagna, ma nella misura in cui
serve ai suoi comodi, minimamente
preoccupato non dirò di qualche principio di giustizia, ma neppure di alcuna
fedeltà ad una militanza politica, ad una parzialità per la sua nazione.... A
proposito di bastonate, ad un
messaggero che porta una sfida a duello, lo sentiamo gridare: “Ben date, ben
applicate... fu una vera ispirazione ”. Al podestà che lo invita a ragionare
(“Risponda un poco a questo sillogismo”) risponde “Niente, niente,
niente”. Alla strenua difesa che il podestà costruisce intorno alla
inviolabilità di un messaggero (persona sacara), egli ribatte (sempre urlando):
“Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non
conosceva le prime...?”. Solo una certa abilità diplomatica del cugino salva
la pace dei convitati: Rodrigo per ben due volte diverte il discorso,
giunto al calor bianco, nello scontro fra Attilio ed
il podestà, semplicemnte passando la palla ad altri commensali od
ospiti; ed una terza volta, ricorrendo ad un fiasco di vino sopraffine che,
attraverso le parole del dottor Azzeccagarbugli, finirà per deviare la
conversazione-dibattito verso il tema della carestia. Quanto ai princìpi irrinunciabili di convivenza
umana, Attilio ammette solo quelli che danno ogni diritto alla classe nobiliare
e li negano a tutte le altre: “Cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire
uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena; e,
anche per questo, si possono dare certi casi... ma stiamo nella questione.
Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar
quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bello che si dovesse dirgli: -guarda
che ti bastono-: come si direbbe a un galantuomo: -mano alla spada-”.[110] Quanto alla guerra del Monferrato, Attilio non vede
motivi per dispiacersi del vicino accordo in favore della Francia (“Non son
lontano dal credere.... che le cose si possano accomodare. Ho certi
indizi...”): a lui interessa il “gioco delle parti”, disposto –salvi i
suoi capricci- ad applaudire ogni vincitore: “Crede lei che non ci sia altro
che Mantova a questo mondo? Le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio.
Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel
suo principe di Valdistano, o come lo chiamano, e se...” Questo non toglie che l’orgoglio plateale
dell’uomo, non trovi modo di fingere e controllarsi, onde ingannare meglio gli
interlocutori. Anzitutto egli anestetizza il podestà: “Quando si tratta di un
affar serio, vi farò vedere che non sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta
l’animo di far per voi? Son uomo da andare in persona a far visita al signor
podestà. Ah! sarà contento dell’onore? E son uomo da lasciarlo parlare per
mezz’ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli
ragione in tutto, anche quando ne dirà di quelle così massicce...”. Poi, sarà
la volta del conte zio: “caro signor conte sio! Quanto mi diverto ogni volta
che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro!” (c. 11). E
il colloquio (c. 18) dimostra questa sua impudente abilità di raggiro ed
inganno. Meno coerente psicologicamente e meno artisticamente
felice è il cugino Rodrigo. Non che sia personaggio inverosimile, ma è una
personalità che ciurla nel manico, che non ha un temperamento lineare:
forse è un atletico, ma ossuto, scarnito da una componente simpaticoprevalente
che lo smagrisce ed incava fisicamente e, psicologicamente, lo degrada
ad un individuo fra passionato e nervoso; lo rende, cioè, impulsivo e rinunciatario, imprevedibile e vacillante,
velleitario e fallimentare: variabile nei sentimenti come nella felicità
espressiva e nella condotta pratica.
Nessuno si immagina don Rodrigo florido e rubicondo, come invece
facilmente ci si raffigura Attilio. Vediamolo in azione. Il rapimento di Lucia
è legato ad un impulso momentaneo (“Scommettiamo?”: c. 3); l’attesa
del successo nel rapimento è tutt’altro che calma e tranquilla
(“Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata
dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava,
tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno
d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per la incertezza della
riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perchè era la più grossa e la
più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano”: c. 11).
Divenuti praticamente insuperabili gli ostacoli ad un nuovo tentativo coi soli
suoi mezzi, egli sta per rinunciare al proposito (“Un monastero di Monza,
quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i
denti di don Rodrigo... Fu quasi per abbandonar l’impresa; fu per risolversi
d’andare a Milano, allungando anche la strada per non passare neppure da
Monza. Non ha torto Attilio a
rimproverarlo (“Sapete, cugino,.... che comincio a credere che abbiate un
po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà?”c. 11). Ed è qui che
si rivela quanto mai incerto di sè e succube delle compagnie che gli stanno
attorno. Eccolo pronto a raddoppiare la scommessa, dietro le canzonature del
cugino (c. 7); eccolo intestardito a perseverare nel puntiglio di spuntarla ad
ogni costo, per la vergogna degli amici milanesi: “Ma, ma, ma gli amici; piano
un poco con questi amici... Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della
montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa
s’era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire
il vero: ma via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è
di soddisfarli; e come s’usciva da quest’impegno? Dandola vinta a un villano
e a un frate! Uh!....Ce ne’ra più del bisogno, per non alzar mai più il viso
tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani...” (c. 18).
Eppure vi sono mosse e parole di don Rodrigo che rivelano quel “mezzo
gigante” che finì per incarnarsi
in lui, come nel Margutte del Pulci. La sua abilità diplomatica si rivela al
simposio del c. 5: trascina nel dibattito, dapprima, il donabbondiesco dottor
Azzeccagarbugli (che dà ragione a tutti, elogiando
la bravura dialettica di entrambi i
contendenti); poi, chiama in scena il candido padre Cristoforo (che non dà
ragione a nessuno, perchè proclama l’assurdità di sfide, duelli, messaggeri
e bastonate); ancora sposta l’interesse alle questioni politiche (avvisaglie
di conclusione diplomatica per il problema della successione a Mantova ed al
Monferrato); e, infine, affoga il nuovo
scontro fra Attilioed il podestà, di parere opposto anche in politica,
nell’ambrosia di un vino favoloso, fatto portare in tavola al momento
opportuno. (coll’effetto immediato di una panegiroco della bevanda da parte
del dottor Azzeccagarbugli: “Dico, proferisco, e sentenzio che questo è l’Olivares
de’ vini; censui et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova
in tutti i ventidue regni del re nostro signore...”). Quanto alle parole,
Rodrigo supera le obiezioni del Griso, svergognandolo dapprima (“Che
diavolo!...tu mi riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena
d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi indietro se quei
di casa lo spalleggiano, e non si
sente d’allontanarsi!”) e poi, di fronte alla difesa di lui affidata alle
prove di coraggio abitualmente date, mettendolo con le spalle al muro mediante
una sola parola: “Dunque!” (c. XI). E quanto a parole animate da un pizzico
di poesia, sta la esclamazione al banchetto: “No, per bacco, non mi farà
questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa,
senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza aver
assaggiate le legna de’ miei boschi”. E sta la conclusione sul modo con cui
l’avvocato, parassita e servo fedele, dovrà procurare guai giuridici a Renzo:
“Le gride sono tante! e il
dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche
garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli cambio il nome.” Ma, tra i nobili, vi è pur gente di buona lega,
soprattutto l’innominato convertito ed il cardinal Federigo: di loro si è già
parlato. Bisognerebbe aggiungere don Gonzalo de Cordoba ed Ambrogio Spinola, ma
si è già detto che su di essi il Manzoni è troppo severo ed anzi, per quanto
riguarda il Cordoba, persino disinformato e quindi (involontariamente) ingiusto[111].
Ma dove lasciamo Antonio Ferrer, il gran cancelliere di don Gonzalo che corre, a
proprio rischio, a salvare il
vicario di provvisione, Ludovico Melzi d’Eril? (c. 13). Ebbene, anche questi
due valentuomini sono quasi ridotti a macchiette da Manzoni, che agisce da gran
burattinaio ancora una volta e che, come artista romanziere, ne ha tutti i
diritti, anche se la loro figura storica è diversa, sicchè sia il Nicolini sia
Salvatoe Marche ( “Il vicario di provvigione dei Promessi Sposi”, Milano,
1932) ne han potuto rivendicare la onestà e competenza. Se gli effetti furono quelli della sollevazione, repressione,
impiccagione, ciò dipese sostanzialmente da anni di carestia e dallo spreco di
granaglie, comune allora ad ogni guerra, compresa quella per la presa di Casale,
voluta però da Madrid e non da Milano. Anche di don Ferrante e donna Prassede si è detto:
buoni fino al bigottismo, ingenui fino al disorientamento ed
all’autolesionismo (don Ferrante che, credulo nell’astrologia, non prende
precauzioni contro la peste, morendone), capaci di rovinare il bene, che pur
cercavano di operare, con gli errori di
una mente acritica sino all’infantilismo, sono però predicati anche nella
loro carità e buone intenzioni. Comunque, con i
suoi personaggi inventati, deformati o veri, il Manzoni rivela quella
indipendenza e forza di giudizio che lo dimostra imperterrito di fronte ai
grandi e non concessivo di fronte alla plebe scatenata. Il suo giudizio è
basato sui valori morali: come per Napoleone, si domanda dell’opera di ognuno
“fu vera gloria?”. E’ normale, allora, che pronunzi giudizi imparziali e coraggiosi e
che, in particolare, sia severo con i nobili scostumati e tiranni,
non meno che con la plebe imbestialita
o gregaria. Abbiam già visto i
“processi” ai vari Rodrigo ed Attilio, al conte zio ed al principe padre di
Virginia. Aggiungiamo qui la denuncia della massa di gente, povera ma
scriteriata e furiosa, che
si dà al saccheggio dei forni ed all’assalto della casa del vicario di
provvisione (c. 13: “Nei tumulti
popolari”). Dopo aver condannato all’infamia ed al ridicolo la maggioranza
dei componenti il “Tribunale di sanità” che non vuol proibire il commercio
con i “lanzi” tedeschi scesi in Lombardia per occupare Mantova, pur essendo
notissima la presenza della peste tra le loro file, Manzoni si rivolge anche
contro una popolazione che nega la verità conosciuta, col rifiutare di
riconoscere la presenza della peste: follia generale, ma colpevole. Anzitutto
di fronte alla ostinazione del popolo a negare la peste,
si domanda indignato e accusatorio “Era, anche in questo caso, voce di
Dio?”. In secondo luogo ricorda il fatto insensato ed atroce dell’assalto
alla carrozza del grande Ludovico Settàla,[112] il protofisico che,
assieme al figlio Senatore ed al collega Alessandro Tadino, aveva subito parlato
di peste e della necessità di prevenirla, evitando il contagio, a costo di
bruciare biancherie e masserizie toccate dai malati|morti del male. Anzi,
fin dalla prima stesura del romanzo (“Fermo e Lucia”),
per la questione delle unzioni e degli untori Manzoni aveva raccolto
tanto materiale, da stendere una “Appendice” sul processo che ne seguì, in
cui Giangiacomo Mor(r)a, torturato e ucciso per condanna legale quale untore e
propagatore della peste, è
compassionato come vittima innocente di una demenza pubblica, ma è accusato
senza restrizioni per l’insensato e delinquente tentativo suo di salvarsi
denunciando altri innocenti, pure condannati a morte. Ma con lui, ancora una
volta, sono infamate quelle autorità giudiziarie che avevano ubbidito al
rabbioso bisogno di colpevolizzare e di punire, urgente in “quello che i poeti
chiamano volgo profano, e i capocomici rispettabile pubblico”, fino a
trascurare alcuni dettami, che la legge esplicitamente prevedeva
in favore degli accusati, della verità e della giustizia (compresa la
non sufficienza, per una condanna, delle confessioni fatte sotto la tortura, se
non fossero confermate fuori di essa). Manzoni non risparmia nè religiosi nè dotti di fama
internazionale. Tra i primi, troviamo il teologo
gesuita belga Martino Delrio, di Anversa, vissuto fra il 1551 ed il 1608.
E’ citato due volte dallo
scrittore: la prima volta nel c. 27, per deriderlo come “l’uomo della
scienza” magica, tenuto quindi in grande stima da don Ferrante, la cui opera
(“Disquisitionum magicarum libri sex”) è uno dei capisaldi della sua
biblioteca balorda; la seconda volta, nel c. 32, per condannarlo meritamente: “quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a
più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni
magiche, (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi
tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più
irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente a legali,
orribili, non interrotte carneficine”. Tra i dotti
schiaffeggiati senza rispetti umani
dal Manzoni, troviamo gli altri autori di libri “di veleni, di malìe,
d’unti, di polveri”, colleghi del Delrio (c. 32) e persino quel medico
competente e galantuuomo, anzi cristianamente santo, perchè eroico nel servizio della verità e del prossimo, che fu il
protofisco Ludovico Settàla.
Nel capitolo 31,
Manzoni è esplicito nella
denuncia della credenza di lui nelle streghe, denuncia che assume un tono
di requisitoria severissima. Ma questo non nasce da alcun capriccio del sempre
controllatissimo Manzoni, ma solo dal contesto di rimprovero e condanna contro
la storditezza incosciente della plebaglia, che è sorpresa mentre voleva
ammazzarlo (lo abbiamo letto) in cambio del bene che stava facendo durante la
peste: quello stesso popolaccio che
aveva tollerato e forse applaudito “quando, con un suo deplorabile
consulto” aveva cooperato” a far torturare, tanagliare e bruciare come
strega una povera infelice sventurata, perchè il suo padrone pativa dolori
strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato
di lei”. Ma, per questo dotto, c’è spazio agli elogi troppo meritati: “ Il protofisico Ludovico Settàla, allora poco meno che ottuagenario, stato professore di medicina all’Università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certaente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza, s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza per la sua gran carità nel curare e beneficiare i poveri”. E, rimasto a Milano per curare i suoi concittadini, finì per essere coinvolto dal contagio, pagando eroicamente di persona: “Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de’ figliuoli n’uscirono salvi; il resto morì”(c. 31).[113] Borghese (perchè,
con i dotti ed il protofisico Settàla, siamo giunti a tale categoria)
è anche l’avvocato Azzaccagarbugli. “Nomen est omen”: il nome è un
pronostico, anzi un corollario del suo modo di concepire la legge e di
comportarsi in conseguenza. Sentiamolo, involontario reo confesso, quando parla
col povero Renzo, da lui scambiato per
un malfattore venuto a chiedere protezione contro la giustizia:
“All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a
imbrogliarle... perchè, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo
e nessuno è innocente”. Questo al capitolo terzo. Nel quarto, alla tavola di
don Rodrigo, egli si rivela un
imperterrito gregario, da parassita che sa il suo dovere verso chi lo mantiene e
sostiene. Il padron di casa conosce il suo pollo e lo invita così ad entrare
nella acrimoniosa disputa fra il podestà ed il conte Attilio: “Animo,
dottore,...animo a voi, che per dar raguione a tutti, siete un uomo.” Lui si
era già mostrato inossidabile ad ogni presa di posizione fra due contendenti,
quando , provocato da quello “spensierato” del conte Attilio (“E lei,
signor dottore riverito, in vece di farmi de’ sogghigni per farmi capire ch’è
del mio parere, perchè non sostiene le mie ragioni con la sua buona tabella,
per aiutarmi a persuader questo signore?”), risponde angelicamente, seppur
confusetto: “Io... io godo di
questa dotta disputa e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una
guerra d’ingegni così graziosa...”. Solo una volta parla sinceramente:
quando il vino ha preso il sopravvento sulla sua guardinga taciturnità; ma sarà sempre nei limiti della deferenza
verso tutti i suoi padroni. Egli allora esce nell’elogio del liquore
eccezionale, con l’entusiasmo e la retorica già in parte riportata: “Dico,
proferisco e sentenzio che questo è l’Olivares dei vini: censui
et in eam ivi sententiam, che un liquor simile non si trova in tutti i
ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i
pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e
che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede
e regna la splendidezza”.[114] In una classe a
sè stante, forse da collocarsi
a metà strada fra “mediocri e plebei”,
stanno i preti ed i frati. Per i preti, la cosa si può ricavare da una battuta
di don Abbondio, divenuto ciarliero e burlone dopo la certezza della morte di don
Rodrigo. Avendo il papa Urbano VIII, in quell’anno 1630, attribuito ai
cardinali il titolo di “eminenza”, egli insinua che, poco per volta, anche i
vescovi e gli abati ed i canonici se lo sarebbero appropriato, come era accaduto
per i titoli precedenti (“vossignoria illustrissima” e
“monsignore”). La vedova (agiata mercantessa che avrebbe voluto
sotituire la morta donna Prassede nell’ospitare la buona Lucia, se anche
Agnese fosse caduta vittima della pestilenza), aggiunge proditoriamente che
“poi i curati” si sarebbero “succiato volentieri” l’altisonante
riferimento. Ma don Abbondio, reso profeta dal suo scetticismo, ribatte: “No
no...i curati a tirar la carretta: non abbiate paura
che gli avvezzin male, i curati: del reverendo, fino alla fine del
mondo”. Quanto ai frati, Manzoni scrive:
“tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro nè troppo
basso, nè troppo elevato. Servir gl’infimi ed esser servito da’ potenti,
entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e
sicurezza, esser talvolta nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un
personaggio senza del quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per
tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo
un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente abbattersi in un
principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata
di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tra loro, gl’inzaccherassero
la barba di fango. La parola “frate” veniva, in que’ tempi, proferita col
più gran rispetto e col più amaro
disprezzo...”. Molto al
di sopra del deludente don Abbondio, già abbastanza indagato,
possiamo mettere preti di media levatura e spiritualità: il“vicario moniale”,
ad esempio, che non doveva essere un’aquila, se non riuscì a scovare la verità
dal colloquio a tu per tu con Virginia: Manzoni lo definisce “uomo dabbene”,
con un aggettivo, cioè, che ha dato origine al sostantivo
“dabbenaggine”(id.).... E vi è il parroco del paese del sarto, dove è in
corso la visita pastorale, che Manzoni chiama dapprima “il curato
guastamestieri”, perchè vuol impedire a Federigo di andar di persona a far
visita a Lucia (“Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò
subito a chiamarli: è cosa d’un momento”), ma che poi definisce “buon
uomo del resto” in senso sostanzialmente
positivo, ma non senza l’ombra di quel senso diminutivo in agguato, per la
facilità ad unire sostantivo ed aggettivo in un “buonuomo” che, di nuovo,
accenna a debolezza mentale e pratica.[115] Ma, genialmente intelligenti o semplici e impacciati,
i parroci di Mialno danno la prova di una vita morale decisamente superiore,
eroica, durante la peste. Ne muoiono, infatti, una percentuale superiore a
quella della popolazione milanese:
di questa ne restano 64.000 su 200
o 250.000 (ne muoiono, dunque, due terzi o tre quarti); dei parroci ne restano 7
o 8 su neppure settanta (“gli otto noni, all’incirca” muoiono: c. 32).[116]
Uno, Manzoni lo raffigura mentre confessa alla porta di una casa, nel c. 34: sarà
lui ad additare a Renzo la casa di don Ferrante, dove cercare Lucia. Se
tra i sacerdoti non c’è solo don Abbondio, fra i religiosi troviamo un
eroe della carità, padre Cristoforo.
Questi, già intravisto nel suo ritratto fisico e
nella sua psicologia morale, lo dobbiamo ancora vedere nella suo concreto agire,
coerente colla sua personalità e con le circostanze della sua conversione. Ad
esempio, il suo temperamento più caritatevole che prudente, più preoccupato di
fare tutto il proprio dovere che di vederne i risultati, tracima chiaramente
(siamo al c. 5) dalla riflessione che lo occupa, la testa nella palma della
mano, il gomito appoggiato al ginocchio, nella casa di Lucia, dopo sentito il
racconto del rifiuto del matrimonio e dei precedenti paurosi: sta soppesando i
vari mezzi per ottenere il matrimonio dei due promessi, ma finisce per scegliere
quello solitario del confronto a tu per tu: “Ma la più attenta considerazione
non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse
pressante ed intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi.
–Mettere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi
al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E
fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella di una
schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua
autorità? Ci vuol tempo: e intanto? E poi? Quand’anche questa povera
innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a
qual segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi –pensava il
povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano!
Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato.... sarei solo in ballo; mi
buscherei anche dlel’inquieto, dell’imbroglione, dell’attaccabrighe; e,
quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentatuivo fuor di tempo,
peggiorar la condizione di questa poveretta.- Contrappesato il pro e il contro
di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo
stesso, tentar di smoverlo dal suo infame proposito, con le preghiere, coi
terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio si
potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto olui fosse
ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender
consiglio da ciò.” Ma l’iniziativa privata, geniale (e quella volta anche
riuscita) egli l’aveva già avuta appena “compita la cerimonia della
vestizione”, quando “Il novizio si chinò profondamente, e chiese una
grazia. –Permettetemi, padre, -disse- che, prima di partire da questa città,
dove ho versato il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente
offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio
rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa la fratello
dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo.-”.
Ottenuto il permesso e lasciato al superiore il tempo per preparare la cosa,
egli si reca, dunque, nella casa del fratello del “signor Tale”, con la
sincerità del pentimento e l’ardore della carità: “C’è, talvolta, nel
volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe
quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il
giudizio sopra quell’animo sarà uno solo. Il volto e il contegno di fra
Cristoforo disser chiaramente agli astanti, che non s’era fatto frate, nè
veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a
concigliargli tutti. Quando vide l’ffeso, affrettò il passo, gli si pose
inginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa,
disse queste parole: -io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei
restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle
inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio.” Non
gli basta il gesto amico dell’offeso che lo solleva dalla posizione di estrema
umiliazone: “Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: -io posso
dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da
lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa
parola: perdono!” Ed ottenuto l’esplicito perdono ed un abbraccio commosso,
tra gli applausi di tutti i presenti, accetta anche un dono dal fratello
dell’ucciso, che insisteva a render partecipe anche
a lui del sontuoso rinfresco: “queste cose- disse- non fanno più per
me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in
viaggio; si degni di farmi portare un pane, perch’io possa dire d’aver
goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo
perdono.... presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza;
e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi vicini
a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica...”.
Completando la figura religiosa di padre Cristoforo, Manzoni scrive: “diremo
soltanto che, adempiendo, sempre e con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi
che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i
moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri,
che s’era imposti da sè: accomodar differenze, e proteggere oppressi”
(id.). E, di
coerenza in coerenza, possiamo allora risalire al comportamento, disorientato e,
all’occorrenza, anche violento del giovane Ludovico, prima della conversione:
ricco ed educato a vita signorile, era però respinto dai nobili, cui avrebbe
pur voluto aggregarsi, per somiglianza di gusti e di cultura. Allora,
“S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico
... Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli
famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era
dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a
contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e
violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva
orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancora
più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla
giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per
acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva
volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un
soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addoso un’altra;
tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi,
e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non c’è da domandare
se il povero Ludovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra
esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perchè, a
spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto),
doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva
poi apporvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così, per
la sau sicurezza, come per avere un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più
arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co’ birboni per amor della
giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito dopo una trista riuscita,
o inquieto per un pericolo imminente, annoiato dal continuo guardarsi, stomacato
dalla sua compagnia, in pensiero dell’avvenire, per le sostanze che se n’andavan,
di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era
venuta la fantasai di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego
più comune, per uscir d’impicci...”. Segue poi lo scontro con il
“signor Tale”, la morte del servitore fedele Cristoforo e l’uccisione, da
parte di Ludovico, dell’avversario che aveva preteso, perchè era nobile, di
tenere, camminando, la parte aderente al muro, pur essendogli questo a sinistra.
Di qui la decisione di Ludovico, rifugiatosi in un convento di cappuccini,
guardato giorno e notte dai parenti dell’ucciso ben decisi a vendicare
l’offesa, di rendere efficace quella “fantasia”, ma con la pienzza di
adesione che le sue parole al fratello dell’ucciso ci hanno rivelato e tutto
il resto della sua vita confermerà.[117]
Eccolo, infatti (nel c. 5) a condannare, sommesso ma radicale, puntigli
d’onore e duelli, al banchetto di don Rodrigo (“il mio debole parere sarebbe
che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate”); e (nel c. 6) a
prender forza e coraggio, dall’insolenza stessa del padron di casa, per
parlare chiaro e forte, anche se all’inizio “corresse e temperò le
frasi che gli si eran presentate alla mente” per “non guastare i fatti suoi
o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, sicchè “disse con guardinga
umiltà: “vengo a proporle un
atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Certi uomini di mal affare hanno
messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero
curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti.
Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto la sua forza,
e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e
potendolo... la coscienza, l’onore... Per amor del cielo, per quel Dio al cui
cospetto dobbiam tutti comparire... – e, così dicendo, aveva preso tra le
mani e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto
di legno attaccato alla sua corona, -non s’ostini a negare una giustizia così
facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi
sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù.
L’innocenza è potente al suo... M’aascolti, signor don Rodrigo; e voglia il
cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non
voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor don Rodrigo! qual gloria
dinanzi agli uomini| E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù, ma... quel Dio
che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge;
quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno
e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente... -La vostra
protezione!- esclamò, dando indietro due passi, postandosi fieramente sul piede
destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso
verso don Rodrigo, e pintandogli in faccia due occhi infiammati: -la vostra
protezione! E’ meglio che abbaiate parlato così, che abbiate fatta
a me una tale proposta. Avete colmato la misura; e non vi temo più...
Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La
vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di
Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più
bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo
nome con la fronte alta e con gli occhi immobili...Ho compassione di questa
casa: la maledizione di Dio le sta sopra sospesa. State a vedere che la
giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quatro
sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatto questa creatura a sua immagine,
per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe
difenderla! Voi avete disprezzato il suoavviso. Vi siete giudicato. Il cuore di
Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è al
sicuro da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel
ch’io vi prometto. Verrà un giorno...” Il resto della sua vita (dopo la preghiera nella
chiesetta del monastero e le parole di addio ad Agnese, Renzo e Lucia) è
riassunto dal romanziere nel c. 35: “Non s’era mai mosso da Rimini, nè
aveva pensato a muoversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli offrì
occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la sua vita per il
prossimo. Pregò con grand’istanza d’esserci richiamato, per assistere e
servire gli appestati. Il conte zio era morto; e del resto c’era più bisogno
d’infermieri che di politici: sicchè fu esaudito senza difficoltà. Venne
subito a Milano; entrò nel lazzeretto; e c’era da circa tre mesi”.
Incotratovi Renzo che è alla ricerca di Lucia, alla domanda su come stia,
risponde: “meglio di tanti poverini che tu vedi qui”. Il suo fisico è così
ridescritto dal Manzoni: “la sua voce era fioca, cupa, mutata come tutto il
resto. L’occhio soltanto era quello di prima, e un non so che di più vivo e
più splendido; quasi la carità , sublimata nell’estremo dell’opera, ed
esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci rimettesse un fuoco più
ardente e più puro di quello che l’infermità ci andava
a poco a poco spegnendo”. Già si è ricordata la sua battaglia, dura
ma vittoriosa, per sradicare dal
cuore di Renzo l’odio e la sete di vendetta:ora citiamo alcune delle vibranti
parole, che rivolge a Renzo, dopo
le disperate espressioni di lui (“E se lo trovo, se la peste non ha già fatto
giustizia... Non è più il tempo che un poltrone, co’ suoi bravi d’intorno,
possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto il tempo che gli
uomini s’incontrino a viso a viso: e... la farò io la giustizia!”):
“Sciagurato! –gridò il padre Cristoforo con una voce che aveva ripreso
tutta l’antica pienezza e sonorità: -sciagurato!- e la sua testa cadente sul
petto s’era sollevata; le gote si colorivano dell’antica vita; e il fuoco
degli occhi aveva un non so che di terribile. –Guarda, sciagurato! –E mentre
con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra
davanti a sè, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno.
–Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui
che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu
lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene! Io speravo... sì,
ho sperato che, prima della mia morte, Dio m’avrebbe data questa consolazione
di sentir che la mia povera Lucia fosse viva... Va’, tu m’hai levata la mia
speranza.... Va! non ho più tempo di darti retta”.
Sappiamo già della conversione di Renzo e dell’incontro con Lucia,
essa pure guarita. E sarà p. Cristoforo a sciogliere il nodo del voto:
ricordandole, anzitutto, la sua invalidità, per la parte che vi aveva Renzo
di diritto e cui egli non
voleva rinunciare; poi, appellandosi alle facoltà
eccezionali, date dalla Chiesa ai sacerdoti addetti al lazzaretto nella
estrema situazione della pestilenza. Allora, quando li
avrà rimessi entrambi nella via della rettitudine
oggettiva, insegnando a
Lucia a moderare la generosità (anche religiosa) con la prudenza; ed a Renzo a
maturare la sua fede fino alla carità del perdono, allora egli li lascia eredi
del suo possesso più prezioso: “-Figliuoli! voglio che abbiate un ricordo del
povero frate.- E qui levò dalla sporta una scatola d’un legno ordinario, ma
tornita e lustrata con una certa finezza cappuccinesca; e proseguì: -qui dentro
c’è il resto di quel pane... il primo che ho chiesto per carità; quel pane,
di cui avete sentito parlare! lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai
vostri figliuoli. Verranno su in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo
a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto,
tutto! e che preghino, anche loro, per il povero frate” (c. 36). Se padre Cristoforo è un santo inventato dal
romanziere, i cappuccini reali diedero la
misura del loro eroismo, in Milano, al tempo della peste.Tra loro, vi sono
anzitutto i primi due, i padri Felice Casati e Michele Pozzobonelli; ma altri vi
si aggiunsero e, tranne il padre Casati, che prese la peste ma ne guarì, gli
altri “ci...lasciarono la vita e tutti con allegrezza” (c. 31).[118]
A testimoniare il loro eroismo vale l’elogio del Manzoni nello stesso
c. 31; e le parole ultime e i gesti di p. Casati nel saluto ai
guariti dalla peste, che si avviavano alla quarantena di convalescenza, e
che sono storia e non soltanto arte. Ecco, prima,
le parole dello scrittore: “..è un saggio non ignobile della forza e
dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di
cose, il veder quest’uomini sostener un tal carico così bravamente. E fu
bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione, che il non esserci chi
lo volesse, senz’altro fine che di servire, senz’altra speranza in questo
mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello
l’esser loro offerto, solo perchè era difficile e pericoloso, e si supponeva
che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti,
essi lo dovevano avere....”. Ed ecco le
parole ultime di p. Casati, dopo che ha esortato la piccola schiera degli
appestati convalescenti, che stanno
per lasciare il lazzaretto, alla riconoscenza a Dio per la guarigione, al
proposito di vita intemerata per costruire un mondo di rettitudine, al prendersi
cura dei piccoli orfani che escono a salvamento
da parte degli adulti che han perso i figli nel contagio: questa prima
parte del discorso finisce con l’auspicio commovente: “E questa carità,
ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori.” Poi,
la sorpresa finale: “un sordo mormorio di gemiti, un singhiozzìo che
andava crescendo nell’adunanza, fu sospeso a un tratto, nel vedere il
predicatore mettersi una corda al collo, e buttarsi in ginocchio: e si stava in
gran silenzio, asepttando quel che fosse per dire. –Per me... e per tutti i
mei compagni, che senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto
privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non
abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se
l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, meno
pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevole tedio
ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se
qualche volta il miserabil pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati
a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra
fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di
scandalo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi
benedica.- E, fatto sull’udienza un gran segno di croce, s’alzò.” Purtroppo,
non tutti i religiosi (e le religiose) sono come padre Cristoforo o
i padri offertisi volontari per curare gli appestati. Abbiamo,
ad esempio, nel convento di Monza, dove Gertrude è convittrice in attesa (nel
desiderio del padre e dei familiari) di farsi ella stessa religiosa, delle
monache “che avevano preso il triste incarico di far che Gertrude
s’obbligasse per sempre, con la minor cognizione di ciò che faceva” e che
“colsero un de’ momenti che abbiam detto[119],
per farle trascrivere e sottoscrivere una tal supplica” (c. 9). E tra i due
terzi delle suore che votarono in favore della sua accoglienza nel monastero,
quante erano al corrente della realtà? (c.10). Ed eccoci tornati ai cappuccini. A parte
lo scrupoloso sacrestano che, dapprima, è messo a tacere dal latino e,
poi, viene commosso dalla preghiera di padre Cristoforo (c. 8), vi è frate
Galdino che troviamo nel c. 4 alla cerca delle noci e nel c. 18 a colloquio con
Agnese, tornata al paese in cerca dello stesso p. Cristoforo, ormai partito per
Rimini. Illetterato, ma non senza un suo “sciglinguagnolo”, fra Galdino ha
un grande concetto del suo Ordine religioso. Sono famose alcune sue frasi in
proposito: “noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la
torna a distribuire a tutti i fiumi”; e “ noi viviamo della carità di tutto
il mondo ed è giusto che serviamo tutto il mondo”. La prima sentenza è la
concusione del “miracolo delle noci”, in cui un figlio scapestrato, che
rifiuta al convento le noci promesse dal padre devoto (morto, come era morto
l’anziano cappuccino in fama di santità che aveva fatto sospendere
l’abbattimento della pianta ormai sterile, promettendo una raccolta
straordinaria), ritrova al posto della gran quantità di frutti, un cumulo di
foglie secche. Il che testimonia decisamente contro l’affermazione del
giovinastro (“mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci”).
Proprio così: i cappuccini sanno fare e disfare anche le noci!
(c. 4). L’altra solenne affermazione, affine alla preecedente, conclude
la prima parte del colloquio con Agnese,
nel c. 18, dopo che ha esaltato i molti
confratelli come famosi
predicatori: “Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può
prevedere su che ramo potrà andare
a posarsi. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le
quattro parti del mondo. Supponete che a Rimini il padre Cristorofo faccia un
gran fracasso col suo quaresimale... Si sparge la voce, da quelle parti, di
questo gran predicatore; e lo possono cercare da... da che so io? E allora,
bisogna mandarlo; perchè noi viviamo della carità di tutto il mondo”, ecc.
E, ancora come penultima battuta: “il convento è qui che non si move”. L’orgoglietto
è così inconsapevole, che fra Galdino rimane simpatico, nella sua ingenuità,
anche perchè, sia pure un po’aridamente, mantiene il senso profondo della sua
consacrazione religiosa, riguardo, ad esempio, all’obbedienza: “Se i
superiori dovesser rendere conto degli ordini che danno, dove sarebbe
l’ubbidienza, la mia donna?” “Ma, ad Agnese, angosciata per la partenza di
p. Cristoforo, non sa dire che una parola generica: “Allora bisogna aver
pazienza”. E l’ultima frase è ancora più insensibile: ricorda ad Agnese
che ritornerà alla cerca delle noci... Di lui, come di Bortolo, Manzoni ci
direbbe: “Forse voi vorreste un fra
Galdino più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era fatto così”
(c. 33). In realtà Manzoni vuol essere realista e dipingere il mondo con tutta
la verosimiglianza possibile: e il mondo, anche
quello religioso, è fatto di pochi geni
e santi, di pochi
disorientati e cattivi, ma di molti posti nella via media, sia della vita
intellettuale che della generosità morale. Ma
i protagonisti, in questa epopea dei poveri e degli umili, sono le
“genti meccaniche e di piccol affare””. Tra loro troviamo
un’eroina, Lucia Mondella,
la promessa sposa. Se ha dei limiti, è nella sua ingenuità che la porta allo
scrupolo di non vedere, in un caso di tale necessità ed urgenza, la liceità
del matrimonio di sorpresa; e di credere lecito il voto di verginità senza il
consenso del fidanzato, sia pure nella tragedia del rapimento e con la
previsione di un avvenire da disperazione.[120] Ma, pel resto, quanto è
fermamente coerente! La profondità del suo amore
per lo sposo promesso ha un solo concorrente: quello per il Signore, che
lo comanda e lo garantisce. Proprio per questo, il suo pudore è inoppugnabile,
fino ai due casi di scrupolo che si sono detti. Proprio per questo non si
diffonde in parole, se non quando esso entra in pericolo per vicende esteriori
indipendenti da lei. E il primo ostacolo è la scommessa di don Rodrigo:
essa reagisce con la prudenza di manifestarsi solo al confessore padre
Cristoforo, ma anche nella sana sfacciataggine di chiedere a Renzo che si
affretti il matrimonio. (cc. 2 e 3). Il
secondo ostacolo, è Renzo, coi suoi propositi di vendetta e di assassinio.
Anche qui la reazione di Lucia è duplice: al fermo rifiuto di un simile
comportamento nel promesso sposo (“Io mi promessa a un giovine che aveva il
timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse al sicuro d’ogni giustizia e
d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re...”) corrisponde anche
stavolta, una protesta di amore che più intensa di così non si può. Essa,
confessa che per lei perdere Renzo è come perder la vita:
“Ed io che male vi ho fatto, perchè mi facciate morire?” (c. 7). Il
suo pudore è sorpreso dallo scrittore più volte (quell’arrossire abituale
quando si parla con estranei del suo amore, anche davanti alla signora monaca di
Monza), ma il suo arrossire accade proprio
perchè essa ne è così penetrata, che teme di bruciarvisi (“Addio,
casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere
dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso
timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla
sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava
un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio chiesa, dove l’animo
tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso,
preparato un rito; dove il sospiro del cuore doveva essere solennemente
benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo...” (c. 8). Ma la
prova del suo essere creatura completa e fidanzata apapssionata la sua ovvia persuasione che
il dono più grande che offrire alla Madonna, in cambio della sua salvezza era
l’amore per Renzo (“...rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non
esser mai d’altri che vostra”: c. 21). Cosa confermata dagli sforzi (quasi
inutili) per “pensare a dimenticare Renzo”: “...non desiderava più altro,
se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che
pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una
risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni mezzo, per mandarla ad
effetto. Stava assidua al lavoro, cercava di occuparsi tutta in quello; quando
l’immagine di Renzo, le si presentava, e lei a dire o a canatare orazioni a
mente.... Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno,
e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un
certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma
c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle
dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene
spesso...” (c. 27). Ma
l’ostacolo prìncipe è il voto e, quando questo viene in discussione
all’incontro insperato al Lazzaretto, allora Lucia è costretta a difendersene
in modo tale da rivelarne, nello sforzo che deve fare, tutta la forza, diremo
meglio, la potenza del suo amore. Quando
Renzo, ispirato da un affetto che lo rende genialmente subdolo, le chiede:
“Lucia!... ditemi almeno, ditemi: se non fosse per questa ragione... sareste
la stessa per me?”, Lucia raccoglie le ultime forze dell’anima e deve
aggredire per non
venir meno: “Uomo senza cuore!” rispose Lucia... rattenendo a stento
le lacrime: “quando m’aveste fato dir delle parole inutili, delle parole che
sarebbero forse peccato, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di
me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù!...”. Sono le
convinzioni che Lucia ha già espresso alla madre, quando si decide a
rivelarle il voto fatto: “Ora... tocca al Signore a pensarci: al Signore e
alla Madonna. Mi son messa nelle loro mani: non m’hanno abbandonato finora;
non m’abbandoneranno ora che... La grazia che chiedo per me al Signore, la
sola grazia, dopo la salvazion dell’anima, è che mi faccia ritornare con voi:
e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno.... in quella carrozza...
ah, Vergine santissima! quegli uomini!... chi m’avrbbe detto che mi menavano
da colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?”. Eppure,
anche in tale colloquio, essa ha una proposta (dare la metà degli scudi a
Renzo) che il Manzoni giustamente dice testimoniare “che il suo cuore faceva
ancora a mezzo con Renzo” (c. 26).[121] La donna più ammirabile, dopo Lucia, è forse la
madre di Cecilia, che nel c. 34 fa fremere di commozione Renzo, presente alla
consegna della figlioletta morta ai monatti: ne intuiremo la figura moralmente
superiore nell’esame delle tonalità liriche, perchè l’episodio
è fra i più toccanti di tutta l’opera. Torniamo intanto al dialogo al
lazzaretto, che ci dà modo di completare la conoscenza di Renzo
Tramaglino, di cui abbiamo già incontrato il ritratto fisico e quello
intellettuale (la sua maturazione, cioè, verso
una avvedutezza più scaltrita , nelle vicende di Milano).
La sua statura morale ce la riferiscono direttamente Lucia, Agnese, don
Abbondio, con le risposte alla domanda precisa del cardinal Federigo:
Lucia si limita a difenderlo (“facendo il viso rosso”) dicendo “con voce
sicura” “Era un giovine dabbene”; nella stessa circostanza, Agnese lo
elogia, discreta, affermando:
“era un giovine quieto, fin troppo... e questo lo può domandare a chi si sia,
anche al signor curato” (c. 24: era la ripresa della lode fatta alla
fattoressa del convento, che domandava notizie di lui, arrestato prima e, poi,
fuggito dalle mani della giustizia: Agnese l’aveva definito un “giovine
posato”); don Abbondio, messo alle strette dal cardinale, deve riconoscere
“che era un galantuomo, e
che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle
diavolerie che avevano detto” (c. 25). Vedremo che le parole “Giustizia” e
“Provvidenza” sono quelle che gli vengono spontanee nelle occasioni più
solenni della vita. In lui troviamo l’uomo auspicato dal Vangelo: “semplici
come colombe (all’inizio), prudenti
come serpenti (alla fine)” (Mt. 10,
16). Se lo vediamo all’opera, noi ci accorgiamo che è
davvero così, anche se deve imparare molto dalla vita e se rimarrà sempre
lontano dalla perfezione di Lucia: se Lucia fosse un personaggio reale, non
farebbe meraviglia la introduzione di un processo di beatificazione; per Renzo,
la cosa rimane esclusa. Il primato
di Dio, nella sua vita, è presente, ma inespresso ed insicuro. La sua
vita spirituale punta più sulla fiducia (speranza) che sulla
fede: “La c’è la Provvidenza” è la affermazione più forte, tra
le sue, in fatto di religione: la pronuncia nel c. 17, uscendo dall’osteria,
ormai salvo in territorio bergamasco e dando gli ultimi suoi spicccioli
ad un poveretto che cerca l’elemosina; ma l’aveva già detto, nel c.
14, quando aveva scelto di entrare – a guida della Provvidenza- nell’osteria
della Luna piena; e lo ripeterà a Bortolo, quando quello gli offre credenza per
i primi tempi di soggiorno presso di lui (“L’ho detto io della
Provvidenza!”). Insomma, egli crede in Dio, ma Lo vuol vedere all’azione già
qui in terra con premi castighi adeguati: che è la tentazione più facile del
credente superficiale. Una professione di fede, gliela deve strappare p.
Cristoforo, prendendo, però, le mosse dalal speranza (“Vuoi tu confidare in
Dio?”), nel c.4: “Oh sì- rispose Renzo- Quello è il Signore davvero”.
Nella vita pratica, è genericamente
fedele ai Comandamenti di Dio, finchè non si trovi di fronte a situazioni
abnormi, in cui l’adesione a quelli sembra costargli la vita o qualcosa
(l’amore per Lucia) che vale per lui più della vita stessa. Ad esempio,
l’orrore del sangue è in lui spontaneo e risentito: “Oibò! vergogna!
–scappò fuori Renzo, inorridito....- Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere
al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se
facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane!” (c.
13). Ancora, la detestazione del
furto, risulta dalla volontà sincera di pagare anche il pane trovato per terra
in quella giornata, in cui la folla assaltava i forni e sprecava quel ben di
Dio: “L’ho trovato in terra, e se potessi trovare anche il padrone, son
pronto anche a pagarglielo” (c. 14). Che Renzo fosse abitualmente sobrio nel
bere, lo esprime in forma di analisi psicologica generale il Manzoni, quando a
Renzo capita, la prima volta in vita sua, di lasciarsi imbrogliare dal vino:
“Le abitudini temperate e oneste... recano anche questo vantaggio, che, quanto
più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena
se ne allontani, se ne risente subito; dimodochè se ne ricorda per un pezzo; e
anche uno sproposito gli serve di scola” (c.14). La sua complessiva formazione
cristiana è rivelata dal vocabolario che usa con la “sincerità” del troppo
vino bevuto all’osteria della luna piena. Dopo lo stravolgimento subito al
banchetto di don Rodrigo nel c. 5, finalmente i termini di “galantuomini e
furfanti” ritrovano il loro senso ovvio e moralmente connotato; e molte delle
altre parole, frequentoi sulla bocca di Renzo, hanno a che fare con la
“giustizia, bravi| buoni figliuoli, giusto e cristiano, giustizia e onestà”
(ancora nel c. 15: “son furbo ma galantuomo”). Ma c’è un angolo della
coscienza, che era rimasto all’oscuro finchè non intervenne di prepotenza di
Rodrigo a metterlo in crisi: la furia
omicida contro chi gli voleva
rubare Lucia. Ne sa qualcosa don Abbondio che si decide a rivelare la prepotenza
di Rodrigo, solo quando Renzo
“mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva
dal taschino” e, alle esclamazioni e domande con cui il povero curato invocava
misericordia (“Mi volete morto?.... Ma
se parlo son morto. Non m’ha da premere la mia vita?) risponde secco:
“Dunque parli” (c. 2). E gli strappa, con questa minaccia, la verità dalla
bocca. Che non sian solo parole, lo dimostra il fatto che egli va alla ricerca
di amici per organizzare la eliminazione di Rodrigo: “Oh, lei non è come gli
amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan
costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a dare il sangue per me;
m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?...
bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E
ora, se vedesse come si ritirano...”. Solo p. Cristoforo, non senza molta
fatica, riuscirà a
convincerlo a fondo sulla enormità dell’omicidio.
Per il momento, basta un richiamo forte al dovere di tentare tutte le vie
prima di ritenere lecita quella della violenza preventiva, per ricondurlo alla
fiducia nel Signore e solo nel Signore (che sfocia nella protesta di fede, sopra
riportata). Ma sarà solo il colloquio, su questo tema scottante, al lazzaretto,
a convertirlo del tutto. Non facilmente, però: dopo il fallimento delle altre vie,
il cappuccino deve tentare, per scuotere l’impenitente Renzo,
la via della severità ultima, quella di scacciarlo da sè.Ma leggeremo
la scena intera analizzando il lirismo, il tono tono drammatico-tragico del
romanzo. Ecco, Renzo ha bisogno delle direttive della Chiesa,
del richiamo di un “professionista della santità”, per chiarirsi la
coscienza, per mantenerla ferma ai princìpi del Vangelo anche nei casi di
tentazione estrema. E lui è un cristiano che con la Chiesa e le sue opere
salvifiche (i sacramenti) ha confidenza. Eccolo, all’osteria della luna piena,
a confidarsi (aiutato dalla sincerità del buon vino): “Son venuto a Milano
per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per
modo di dire, e non da un oste”. E, poi, ha dalla sua non solo l’umiltà
(vedilo anche in fine romanzo a rimproverarsi le sciocchezze
commesse durante la vicenda tutta), ma anche la liberalità, cioè
l’abitudine a quella elemosina che copre la moltitudine dei peccati. La sua
propensione alla carità, la si vede all’uscita dalla osteria del Bergamasco,
quando, uscendo nella ricordata
espressione “La c’è la Provvidenza”, “cacciata subito la mano in tasca,
la votò di que’ pochi soldi; e li mise nella mano che trovò più vicina”. In
conclusione: tutto sommato, è un buon cristiano, oltre che un giovanottone
dall’intelligenza vivace, dal multiforme ingegno pratico, dai sentimenti forti
e sofferti (ne sanno qualcosa anche i poveri polli destinati al pranzo
matrimoniale e portati da lui, invece, inutili vittime propiziatorie, al dottor
Azzeccagarbugli, strattonati ben violentemente: c. 3). Un giovanotto
sereno dentro di sè e certamente simpatico
in compagnia, nonostante certa permalosità, se
criticavano la sua Lucia (c. 38). Ma questo è un difetto facilmente
perdonabile, perchè è l’esagerazione
di una virtù, quella dell’unicità e potenza dell’amore vero, che anche la
Bibbia definisce “forte come la morte” (Cantico). Al sobrio e pudico saluto
di Lucia, ritrovata al paese nativo dopo la quarantena in Milano e che gli
domanda “Come state?” egli non eista arispondere: “Sto bene quando vi
vedo” (c. 38). Dopo Renzo, mettiamo volentieri il cugino Bortolo
Castagneri. Come si è già lasciato intendere, egli sa armonizzare
saggiamente generosità (a Renzo che gli arriva squattrinato dal paese, dice
senza esitazione: “Non importa... n’ho io: e non ci pensare che, presto
presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te ne avanzerai anche per te”: c. 17) e calcolo (non
appena intervenuto lo stato di belligeranza fra
Spagna e Venezia, non c’era più pericolo di una ricerca di Renzo come
rivoltoso e, perciò, non c’era più bisogno che egli rimanesse in un
paese lontano dal confine, sotto falso nome, per cui “Bortolo s’era dato
premura d’andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sè, e perchè gli
voleva bene, e perchè Renzo, come giovine di talento e abile del mestiere, era,
in fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo
lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano....
Forse voi vorreste un Bortolo più idealista: non so che dire: fabbricatevelo.
Quello era così” (c. 33). Più navigato, cioè di una prudenza che ha ormai
fatto il callo con certi difetti della gente, abbandonando ogni pretesa di
perfezione per gli uomini, egli prepara Renzo a subirsi il titolo di
“baggiano” da parte dei bergamaschi, che così chiamavano gli espatriati dal
milanese, non considerandolo un
insulto, ma una specie di denominazione geografica (c. 17); poi, inventa
allegramente le più fantastiche fandonie per non far rintracciare il cugino
dalle forze dell’ordine, quando
lo ha dovuto portare un po’
lontano in un altro stabilimento, sotto il falso nome di Antonio Rivolta; ancora
ne smonta la voglia di tornare in Lombardia alla ricerca di Lucia, coll’arruolarsi
in qualche reggimento dell’esercito veneziano (c. 33); in quest’ultimo
contesto, esprime la sua visione cinicamente realistica delle vicende belliche:
“ Per me sono eretico; costoro ( i
Veneziani) abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da
ingoiarsi così facilmente. Si tratta della Spagna, figliuol mio: sai che affare
è la Spagna? San Marco è forte a casa sua, ma ci vuol altro...” (id.). Ma è soprattutto un uomo integro nella vita ed un
esperto del suo lavoro: lo riconosce come tale il collega che accetta subito
Renzo come lavorante, proprio perchè “gli era raccomandato come onesto e
abile, da un galantuomo che se ne intendeva”. Tanto che, presentatasi l’ocacsione,
non esiterà a prendersi Renzo come socio alla pari, nel filatoio che la peste
ha reso disponibile, per la morte del titolare e la balordaggine prodiga del
figlio (c. 38). Dopo Lucia, la donna di umile estrazione più vicina alla perfezione evangelica è forse la moglie del sarto, che va al castello dell’innominato a liberarla: le sue parole sono quelle di una cristiana consapevole; il suo silenzio è tale da venir così elogiato dal Manzoni: “Dire che questa buona donna.non provasse molta curiosità di conoscere un po’ più distintamente la grand’avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d’una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell’incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a fare una domanda indiscreta, nè oziosa: tutte le sue parole in quel tragitto, furono di conforto e di premura per la povera giovine” (c. 24). Dopo di lei, viene Agnese che Manzoni descrive
quasi subito così: “con tutti i suoi difettucci, era una gran buona donna,
... che si sarebbe... buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva
riposto tutta la sua compiacenza”(c. 4). Per i difettucci, possiamo mettere al
primo posto un miscuglio di avvedutezza e di imprudenza, proprie di chi impara
la vita ad orecchio, induttivamente,
dalla esperienza occasionale (quasi dalla pratica alla grammatica), anzichè in
modo sistematico, sotto la guida di un maestro, deduttivamente. Eccola a
consigliare il dottor Azzeccagarbugli come il risolutore della loro situazione
imbrogliata, mai più sospettando che è un alleato del loro nemico,
un uomo venduto a don Rodrigo (c. 3). Eccola, viceversa, a intuire che,
nel loro caso di estrema necessità, non era solo valido (secondo la
legislazione canonica durata fino al 1917), ma altresì lecito un matrimonio
“di sorpresa”, che vedesse, cioè,
il parroco testimone involontario e riluttante
delle nozze. Essa non sa fare le distinzioni fra “validità e liceità”,
tanto che ne spiega il concetto con
un paragone popolano che non è adatto al loro caso (e che, quindi, non convince
Lucia): “ E poi quante cose... Ecco, è come lasciar andare un pugno a un
cristiano. Non istà bene; ma dato che gliel’abbiate, nè anche il papa non
glielo può levare”. Eccola, nuova imprudenza, a cacciarsi in un ginepraio di
ragionamenti (e di sgambetti sintattici) quando si precipita a sostituire Lucia
nello spiegare alla “signora” (la monaca di Monza) le ragioni della loro
richiesta di ricovero. Siamo al c. 9: “Illustrissima signora io posso far
testimonianza che questa mia figlia aveva in odio quel cavaliere, come il
diavolo l’acqua santa; voglio dire, il diavolo era lui; ma mi perdonerà se
parlo male, perchè noi siam gente alla buona. Il fatto sta che questa mia
povera ragazza era promessa a un giovine nostro pari, timorato di Dio, e ben
avviato; e se il signor curato fosse stato un po’ più un uomo di quelli che
m’intendo io... so che parlo d’un religioso, ma il padre Cristoforo, amico
qui del padre guardiano, è un religioso al pari di lui, e quello è un uomo
pieno di carità, e, se fosse qui, potrebbe attestare...”. La monaca, seccata,
interrompe la loquacità di Agnese, che stava
intricandosi in troppi particolari secondari: se non fosse per il candore
di Lucia, avrebbero perso il privilegio dell’ospitalità. Ma il
difetto principale è quel residuo orgoglietto, che tracima più e più volte.
E’ gelosa della persona cui Lucia ha rivelato la scommessa di don Rodrigo a
suo riguardo e si acquieta solo di fronte al
nome del confessore della figlia (“Al padre Cristoforo in confessione,
mamma”: c. 2); insiste sulla sapienza acquistata dalla età (c. 3: “Io son
venuta al mondo prima di voi...”; c. 10: “quando avrai conosciuto il mondo
quanto me...”); non vuol riconoscere che il consiglio di affidarsi
all’avvocato Azzeccagarbugli era stato sbagliato e cerca di rovesciare sul
povero Renzo la colpa della cattiva riuscita
del ricorso a lui (c. 3); afferma di voler lasciare i due promessi nei
guai, senza più aiutarli, visto che non si fidano di lei, della sua esperienza
e dei suoi consigli (c. 6). E la sua superbia vien fuori anche a riguardo
della garanzia di p. Cristoforo al successo nell’aiutarle: la promessa
di informarlo dei progetti di rapimento, fatta dal servitore anziano in casa di
don Rodrigo. Alla fiducia di Lucia su quel “filo” che p. Cristoforo pensava
di aver in mano per atraversare i piani delittuosi di Rodrigo, corrisponde la
banalità dei sentimenti della madre: “Se non c’è altro...!... Avrebbe
dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da
una parte, e dirmi cosa sia questo...” (c. 7). E lo stesso risentimento
orgoglioso, che consegue l’umiliazione subìta da parte della signora che
l’aveva tacitata imperiosamente, impedisce ad Agnese di prendere in seria
considerazione le confidenze preoccupate che la figlia le fa circa le domande
indiscrete e, anzi, impudenti, della monaca: “Non te ne far meraviglia
–disse- quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da
farsene meraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un
altro, han tutti un po’ del matto... Hai sentito come m’ha dato sulla voce,
come se avessi detto qualche sproposito? Io non me ne son fatto caso punto. Son
tutti così...” (c.10)[122].
Manzoni, inoltre, la rimprovera (“ ah, Agnese!) non tanto
per la denuncia della trasgressione al proprio ufficio da parte di don
Abbondio (denuncia, che era quasi un dovere fare), ma per il silenzio sul
matrimonio di sorpresa, che Lucia, invece, rivela per scrupolo di sincerità; e
soprattutto perchè “non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui
aveva messo in campo”. Che Agnese abbia la femminilissima tendenza alla
loquacità, Manzoni lo rivela
indirettamente, attraverso i silenzi di Lucia nei suoi confronti: la figlia,
infatti, è più pefetta della madre. Ecco
come lo scrittore riassume le spiegazioni che essa dà circa il segreto,
mantenuto anche con lei, sull’incontro e scommessa di don Rodrigo (“Al nome
di p. Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene- disse-
ma perchè non raccontar tutto anchea tua madre?”): “Lucia aveva avute due
buone ragioni: l’una di non contristare nè spaventare la buona donna, per
cosa alla quale non avrebbe potuto trovar rimedio; l’altra, di non mettere a
rischio di viaggiare per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente
sepolta... di queste ragioni però, non allegò che la prima” (c. 3). Del resto, la religiosità di Agnese viene alla luce
chiaramente, quando anch’essa, non indovinando che il voto di Lucia fosse
invalido, vi aderisce penosamente ma fermamemnte, organizzando tutto il
complicato meccanismo delle lettere fatte scrivere da un “turcimanno”
(“interprete”: erano tutti analfabeti...), per comunicare la cosa a Renzo ed
invitarlo a “mettere il cuore in pace”, salvo a farlo partecipe anche della
metà dei cento scudi regalati loro dall’innominato (c. 27). La coerenza della
sua fede, ingenua ma sincera, sarà proclamata
da Lucia di fronte a Renzo che, venuta a “tentarla” fin dentro il
lazzaretto, si appella al buon
senso di lei (“E vostra amdre,
quella povera Agnese, che m’ha sempre voluto tanto bene, e che si struggeva
tanto di vederci marito e moglie, non ve l’ha detto anche lei che l’è un’idea storta?...” ). Ma la
risposta è così decisa (“Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere
di mancare a un voto? Ma, Renzo, non siete in voi”),
che Renzo deve scartare come incompetente tutto il mondo femminile ed
appellarsi a padre Cristoforo: (“Oh! volete che ve lo dica? voi altri donne
queste cose non le potete sapere. Il padre Cristoforo... (c. 36). La sua carità verso i poveri potrebbe essere messa
in dubbio dalla obiezione alla generosità di Lucia con frate Galdino (generosità
interessata, chè il buon fraticello, carico della grande elemosina, tornerà
subito al convento e non si dimentichrà di comunicare a p. Cristoforo il
bisogno urgente di quei poveri tribulati). Difatti essa non manca di
rimproverare Lucia: “tutte quelle noci!... in quest’anno!”: la figlia deve
spiegarle il motivo della sua apparentemente sconsiderata prodigalità. Ma
lo scrittore, che ne La pentecoste ha esortato “cui fu donato in copia,| doni con volto
amico,| con quel tacer pudico,| che accetto il don ti fa” (vv. 125-8), non
manca di attribuire ai protagonisti, umili ma buoni, del romanzo, tale virtù:
non solo essa aiuta don Abbondio a “rifare a poco a poco usci, mobili,
utensili, con danari prestati da Agnese” (c. 30), ma gli lascia delle
elemosine per i poveri, quando si reca poi da lui a farsi spicciolare uno scudo
per volta, di quelli donati dall’innominato( c. 29). Venendo ad altre persone popolane, troviamo la
“vecchia” nel castello dell’innominato, più probabilmente travolta dalla
malizia altrui che condottavi dalla propria. La sua caratteristica è la rabbia
(c. 21), che si sfoga a borbottare
“ Io son vecchia, son vecchia...Maledette le giovani , che fanno bel vedere a
piangere e a ridere, e hanno sempre ragione”. D’altronde, schiava ai voleri
del padrone, fa quello che può per consolare Lucia: ma, con quei sentimenti,
possiamo indovinare quali siano i risultati. Già
migliore è Perpetua, pur con la cortezza di intelligenza e le nostalgie
matrimoniali, che la rendono curiosa, chiaccherona, ingenua, litigiosa: ma
rimane donna di buona volontà complessiva, decisa e intraprendente, anche se
senza la prudenza di Agnese. La presentazione comico-relaistica della donna,
l’abbiamo letta tra le analisi psicologiche, tratta dal c. I: ora vediamola
all’opera. La curiosità vien fuori fin dal primo entrare in
scena: avendo intuito che “Qualche gran caso è avvenuto” al suo padrone,
vuol saperlo ad ogni costo. Di fronte alla resistenze di don Abbondio, non esita
a ricorrere a ricatti: anzitutto, riempito il bicchiere del vino che rimetteva
lo stomaco a don Abbondio, lo tiene poi in mano “come se non volesse darlo che
in premio della confidenza che si faceva tanto attendere” (c. 1); in secondo
luogo, la domanda-minaccia: “Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua
e là cosa sia accaduto al mio padrone?”. La sua incapacità abituale a mantenere i segreti vien fuori clamorosa dalla poca memoria che essa ha del suo tradirli. Non è frutto di sfacciataggine, ma di sconsideratezza la sua protesta “Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...”. Ma è ben frutto di esperienza la pronta ritorsione di don Abbondio: “Brava! come quando...”, sicchè “Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso...”. Comunque, essa riesce a toglier di bocca il segreto della minaccia di don Rodrigo. Che sia, poi, chiaccherona, lo dimostra dopo neppure dodici ore. Ovviamente, l’amore delle chiacchere, nasce dal sopravvento di una forma emozionale sul controllo razionale della mente: è ad onor suo che l’emozione che la induce a mancar di promessa, sia la compassione verso i due poveri fidanzati. Ma una volta che il cuore ha tolto la guida del discorso alla sua piccola e loquace mente, la ingenuità delle risposte alle domande mirate ed indagatrici di Renzo (“Ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri?”; “Chi è dunque che ci ha colpa?”) si susseguono una più impacciata e traditrice dell’altra: “...io non posso dir niente, perchè... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, nè a voi, nè a nessuno; e lui non ci ha colpa”; “ Quando vi dico che non so niente... Ah! vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perchè... non so niente: quando dico che non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potretse darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt’e due”. Quando essa rientra dall’orto, trovando il padrone nella disperazione per aver dovuto rivelare a Renzo, scatenato, il nome del prepotente che aveva mandato il comando perentorio: “questo matrimonio non s’ha da fare nè domani nè mai” (c. 1), Manzoni la fotografa in atteggiamento adeguato alla sua figura di donna sventata: “La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e una faccia tosta, come se nulla fosse stato...”. Della sua ingenuità è causa
una passioncella meno altruistica, cioè un sentimento non abbastanza
assopitosi in lei: la preoccupazione a salvare almeno l’onore, dopo aver perso
la battaglia per il matrimonio. Ed ecco una “amica” che ne approfitta. E’
Agnese: “E se sapeste... mi sono fermata di più, appunto in grazia vostra...
Perchè.... una donna di quelle che non sanno le cose e voglion parlare....
credereste? s’ostinava a dire che non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia,
nè con Anselmo Lunghigna, perchè non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete
stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro...”.Una volta avviato
il discorso su questo argomento, essa è preda della astuzia di Agnese e si
lascia portare lontano dalla porta di casa, così che Renzo e Lucia vi possano
entrare dietro a Tonio e Gervaso, i due testimoni al matrimonio di sorpresa (c.
8). E mai una volta che si riconosca in colpa: litiga con
don Abbondio sia dopo le “confidenze involontarie” a Renzo che dopo la
mancata sorveglianza della casa, trascinata
lontano dal discorso malizioso di Agnese. Anche il suggerimento di seppellire i soldi sotto il
fico dell’orto, che i lanzichenecchi scoveranno e svaligeranno facilmente, è
una trovata tanto decisa quanto imprudente (“Li dia a me, che anderò a
sotterrarli qui nell’orto di casa, insieme con le posate... Ma, ma; dia qui;
tenga qualche soldo per quel che può occorrerer; e poi lasci fare a me”):
Agnese, avveduta, i soldi, se li
porta nel busto, ben nascosti e protetti (c. 29). Questo non toglie che sia meno
stordita del suo padrone che, all’avvento delle truppe avviate a Mantova,
perde del tutto la testa: “Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si
sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo
avvicinarsi e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento”
(id.). E’ lei che mette assieme la roba da portare con sè al castello
dell’innominato, che Agnese è venuta a proporre come luogo di rifugio; e, una
volta sistematisi lassù, non sta certo con le mani in mano: “Agnese e
Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevano voluto essere impiegati ne’
servizi che richiedeva una così grande ospitalità...” (c. 30). Ma le ultime
sue parole sono di stizza. Dapprima si difende contro le accuse che le vengono
da don Abbondio, per la scomparsa del tesoruccio, nascosto imprudentemente sotto
il fico dell’orto (“Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a
prendersela con Perpetua che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase
zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt’e due col braccio teso, e con
l’indice puntato verso la buca, se ne tornarono insieme,
brontolando”(id.). In ultimo, vi è la diatriba per il temperamento
troppo arrendevole (l’aggettivo “vile” non è insolente, ma realistico)
del suo padrone, che non aveva il coraggio di reclamare i pezzi del suo
arredamento scampato al saccheggio dei Lanzichenecchi, ma non a quello dei ladri
del paese (“Se le dico... che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa.
Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare” (ib.). Che,
nonostante la sua modesta statura morale, meritasse
la canzonatura circa il suo desiderio
di sposarsi, quale fa don Abbondio, sopravvissuto alla pestilenza, non direi. Il
ricordo burlevole che ne fa il curato torna più a disdoro suo che della povera
defunta: “Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; chè questo
era il momento giusto che trovava l’avventore anche lei.” A parte persone di un momento[123],
abbiamo ancora due categorie di “vili et plebei” che occupano spazio ne
romanzo e interesse nel romanziere: i
bravi ed i monatti. Dei bravi, abbiamo già visto la divisa
inconfondibile, tratteggiata nel primo capitolo mentre don Abbondio si avvicina
a loro, sospettoso ed impaurito. Nello stesso capitolo, essi impegnano per più
di una pagina il romanziere, così come avevano
impegnato per più di un secolo i governatori spagnoli di Milano, tanto
appassionatamente quanto vanamente legiferanti contro quello che il conte di Fuentes non esita a
chiamare “seme tanto pernizioso”, perchè (scrive in un’altra grida
Juan Fernandez de Velasco) all’origine delle troppe “ferite appostatamente
date, omicidi e ruberie ed ogni altra qualità di delitti...”. La realtà è
che i governatori di Milano sapevano bene perchè le loro “gride o
leggi” non avevano effetto: riconoscono infatti che ai delitti “si rendono
più facili, confidati essi bravi
d’essere aiutati dai capi e fautori loro”, cioè da nobili, feudatari,
signorotti che li avevano a servizio (id.). Li troviamo di guardia al palazzotto
di don Rodrigo, cordiali con p. Cristoforo (“qui non si fanno aspettare i
cappuccini: noi siamo amici del convento: e io ci son stato in certi momenti che
fuori non era troppo buon’ria per me; e si avessero tenuta la porta chiusa, la
sarebbe andata male”: All’osteria del paese dei “promessi” son di
guardia, giocando alla morra; e sono tentati di “spianar le spalle” al
povero Renzo, rinunciandovi solo per non “guastare il negozio principale”,
ch’era quello di rapire Lucia (c. 7). In quest’opera, essi dimostrano di non
aver molta testa nè coraggio, perchè il suono delle campane li disorienta e li
sbanda: “Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che
fosse ritirata e non fuga. Come il cane che
scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si sbandano....”.
Dopo averli riaggruppati, li rimprovera ed esorta: “Presto, presto! pistole in
mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete
che ci tocchi, se stiam bene insieme, sciocconi? Ma se ci lasciam acchiappare a
uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna!” (c. 8). Il loro ritorno
non è glorioso (“Come un branco di segugi, dopo aver inseguito invano una
lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code
ciondoloni...”: c. 11); e il Griso, “come richiedeva la sua carica, che in
quel momento nessuno gli invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo”.
Dopo la scoperta del luogo di fuga
(grazie al “circolo delle consolazioni”, in cui si lascia irretire il buon
barrocciaio), il Griso deve, a malincorpo, recarsi a Monza a scoprire il luogo
di rifugio per Lucia e, trovatolo, accompagnare il padrone dall’innominato a
chiedere l’aiuto per un nuovo tentativo di rapimento. Siamo al c. 20: “Don
Rodrigo...domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel
caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al
Tiradritto, uno del suo sèguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al
Montanarolo, come per isgravarsi di un peso inutile e salir più lesto; ma in
realtà, perchè sapeva bene, che su quell’erta non era permesso d’andar con
lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso,
dicendogli: -voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po’ allegri
con questa brava gente-. Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in
mano al caporalaccio, assegnadone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi
uomini. Finalmente col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo, cominciò
a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era
il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero con
i tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche,
a giocare, a trincare,e a raccontarsi a vicenda le loro imprese”.
Abbiam voluto citare un brano piuttosto lungo, per mostrare uno squarcio della
vita, ora arrischiata al massimo, ora sprecata nell’ozio e nel gioco, di
questa povera gentaglia. I bravi dell’innominato rapiscono Lucia, ma sono meno
pittoreschi e meno significativi di quelli di don Rodrigo, tranne il loro capo,
il Nibbio: è questi che non è rimasto insensibile al comportamento di Lucia e
fa questo rapporto al padrone: “Tutto
a puntino, ma... dico il vero che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse
stato di darle una schioppetata nella schiena, senza sentirla parlare, senza
vederla in viso.... Voglio dire che tutto quel tempo... M’ha fatto troppa
compassione”. La parola meraviglia l’innominato: “Compassione! Che sai tu
di compassione? Cos’è la compassione?”. Ecco: Lucia, attraverso
l’impressione su quest’anima non volgare, non del tutto imbestialita, apre
la porta alla crisi dello stesso suo signore, che fra poco
partendo dalla compassione, sarà travolto fino alla conversione. E’ un
peccato che il Manzoni, accennado genericamente alle scelte diverse fatte dai
“bravi” dell’innominato dopo il suo discorso da convertito, non accenni
alla fine del Nibbio, come invece si ricorda di raccontare quella del Griso.[124] Siamo al
c. 33, che si apre con i sintomi della peste in don Rodrigo: “Tornava da un
ridotto d’amici, soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di
quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi e ne mancavan de’ vecchi”.
Era “accompagnato dal fedel Griso, l’uno de’ tre o quattro che, di tutta
la famiglia, gli eran rimasti vivi... Quel giorno don Rodrigo era stato uno
de’ più allegri; e tra l’altre cose, aveva fatto rider tanto la compagnia,
con una specie di elogio funebre del conte Attilio, portato via dalla peste, due
giorni prima”. Ma non sta bene e tenta di attribuirne la causa alla troppa
vernaccia bevuta, alla stagione, al sonno pr la veglia prolungata. Ma il Griso
ha osservato “ il viso del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori,
e lustri lustri; e gli stava alla larga, perchè, in quelle circostanze, ognui
mascalzone aveva dovuto acquistar, come si dice, l’occhio medico”. Dopo un
sonno turbato, oltre tutto, dalla visione di p. Cristoforo con la mano alzata
contro di lui, quasi a ripetergli “Verrà giorno!...”, si decide a prender
per sintomi della peste lo stato complessivo della sua salute (è comparso anche
un bubbone tra il cuore e
l’ascella sinistra) e si appella alla riconoscenza (“T’ho sempre fatto del
bene”) fedeltà (“tu sei sempre stato il mio fido... Di te mi posso
fidare”) del Griso. Ma già Socrate insegnava che tra i malvagi non ci può
essere amicizia e, tanto meno, amore: Manzoni vuol incarnare in un esempio di
“ordinaria infedeltà” il
legame di puro interesse egoistico, che può tener uniti, ma solo per qualche
tempo, gli scellerati. Il Griso è,
dunque, mandato a chiamare il “Chiodo chirurgo”. Questi è definito da
Rodrigo colla terminologia addomesticata, anzi stravolta, che scambia l’onestà
con la arrendevolezza ai propri
capricci: “E’ un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli
ammalati”. Ma il Griso va invece a cercare i monatti e stabilisce con loro di
fare a metà col tesoro del padrone; ed ha l’accortezza di allontanare, con
finti ordini di Rodrigo, gli altri bravi. A
questo punto il linguaggio diventa realistico; il valore delle persone e delle
azioni vien definito con le parole
ovvie, comuni, connaturate all’uomo, quelle della morale: non c’è più
posto per il linguaggio cifrato,
dettato dalle menzogne di classe o dalle passioni del singolo. E’ l’uomo
nella sua realtà più essenziale ed elementare, nel giudizio più vero e
radicale che torna a galla : “Ah traditore infame!... Scellerato...Lasciatemi
ammazzare quell’infame...”. Ed eccone la fine: “Il Griso rimase
a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto
un fagotto e se ne andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti,
di non lasciarsi toccare da loro; ma, in quell’ultima furia di frugare, aveva
poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e li aveva scossi, senza
pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il
giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli venenro a un
tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forse, e
cascò. Abbandonato da’ compagni, andò
in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo
buttaron sur un carro, sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto,
dov’era stato portato il suo padrone”. Durante l’anno in cui –dall’autunno 1629 alla
fine di agosto 1630- la peste imperversa in Milano, si può dire che alla
guardinga malizia dei bravi si sostituisce la incoscienza spudorata dei
monatti. Tra le ipotesi
filologiche, circa l’origine del nome, Manzoni propende per la deformazione
dell’aggettivo tedesco “mònatlich” (mensuale), sia “per essere quegli
uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni”; sia per il
fatto che “nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile
che gli accordi non fossero che di mese in mese” (c. 32).[125]
Per le mansioni, egli spiega così: “erano addetti ai servizi più penosi e
pericolosi della pestlenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i
cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al
lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e
sospetta” (id.). Loro, i monatti
stessi, si definiscono, cinicamente, in termini altamente spirituali. Almeno,
Manzoni li fa parlare così, quando debbono difendersi da Rodrigo che, al
vederli, tenta di afferrare la pistola e sparare: “ah birbone! contro i
monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di
misericordia!”(c. 33). Come vanno vestiti? Eccoli fotografati mentre invadono
la stanza dello stesso padrone del Griso: “due logori e sudici vestiti rossi,
due facce scomunicate, due monatti, in una parola” (id.). Come si comportano?
Manzoni non segnala eccezioni al comportamento predatorio e beffardo,
documentato anche nel contatto ravvicinato che Renzo è costretto ad avere con
loro: ma è pur da sperare che vi fosse qualche individuo moralmente più
responsabile e onesto, che davvero vedesse nel mestiere umiliante un servizio
alla società, un’opera evangelica. Eccone uno commuoversi davanti al
comportamento sereno e caritatevole della madre di Cecilia: “Un turpe monatto
andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito
rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza
però mostrare sdegno nè disprezzo, -no!- disse: non me la toccate per ora;
devo metterla io su quel carro: prendete-. Così dicendo, aprì una mano, fece
vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi
continuò:: -promettetemi di non levarle un filo d’intorno, nè di lasciar che
altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così-. Il monatto si mise una
mano al petto; e poi tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo
sentimento da cui era come soggiogato, che per la inaspettata ricompensa,
s’affaccendò a fare un po’ di posto sul carro per la morticina...”. Ma
eccone una squadra intera appaludire a Renzo, saltato sul carro dei morti per
sfuggire alla folla che l’aveva preso per un untore: nè essi erano alieni dal
crederci e lo volevano proteggere come tale. “Bravo! bravo!- esclamarono, a
una voce, i monatti, alcuni de’ quali seguivano il convoglio a piedi, altri
erano seduti sui carri, altri, per dire l’orribil cosa com’era, sui
cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. –Bravo! bel colpo!
Sei venuto a metterti sotto la protezione dei monatti; fa conto d’essere in
chiesa,- gli disse uno de’ due che stavano sul carro dov’era montato”. E
siccome alcuni inseguitori, non del tutto scoraggiati dal corteo di carri con i
morti di peste, tentavano di insistere ancora nel perseguire Renzo, che non si
tratteneva dal rispondere loro con gesti ostili, “Lascia fare a me- gli disse
un monatto; e strappato d’addosso a un cadavere un laido cencio, l’annodò
in fretta e, presolo per una delle cocche, l’alzò come una fionda verso
quegli ostinati, e fece la vista di buttarglielo, gridando: -aspetta, canaglia!-
A quell’atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di
nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i monatti s’alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un
–uh!- prolungato, come per accompagnar quella fuga. –Ah ah! vedi se noi
sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: -val più uno di
noi che cento di quei poltroni.- -Certo, posso dire che vi devo la vita- rispose
Renzo: -e vi ringrazio con tutto il cuore.- -Di che cosa?- disse il monatto: -tu
lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia:
ungili, estirpali costoro, che non valgon qualcosa se non quando son morti; che,
per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che,
finita la moria, ci vogliono far impiccare tutti. Hanno da finire prima loro che
la morìa: e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per
Milano.- -Viva la morìa e muoia la marmaglia! esclamò l’altro; e, con questo
bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca... –Dammelo qui a me- disse uno di
quelli che venivano a piedi accanto al carro –chè ne voglio bere anch’io un
altro sorso, alla slaute del suo padrone, che si trova qui
in quella bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella
carrozzata.- E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti
a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà
ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese:
-si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua
cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l’abbiam messo in
carrozza per condurlo in villeggiatura. E poi, già a lor signori il vino fa sùbito
male: i poveri monatti han lo stomaco buono.-“ Renzo, invece, ha rifiutato con
belle maniere, di bere, sicchè la sua considerazione presso quella sorte di
uomini sta decrescendo: “bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto
sia ben giovine; chè, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un
bell’aiuto”-. Alla fine, quando egli salta giù dal carro, avendo
riconosciuto porta orientale e, quindi, la strada per il lazzeretto, il loro
congedo non è propriamente un
elogio: “Va, va, povero untorello... non sarai tu quello che spianta
Milano”. Intanto, succede una scena maramaldesca tra i monatti che si
disputano quel fiasco di buon vino. E
tra un nuovo scroscio di risa, s’attaccò il fiasco alle labbra. –E noi? e
noi?- gridaron più voci dal carro ch’era avanti. Il birbone, tracannato
quanto ne volle, porse, con tutt’e due le mani, il gran fiasco a quegli altri
suoi simili, i quali se lo passaron dall’uno all’altro, fino a uno che,
votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a
fracassarsi sulle lastre gridando: -viva la morìa!. Dietro a queste parole,
intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s’accompagnaron tutte
l’altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnio de’
campanelli, al cigolio de’ carri, al calpestio de’ cavalli, risonava nel
voto silenzioso delle strade e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il
cuore de’ pochi che ancor le abitavano”. Abbiamo abbondato nelle citazioni, perchè danno
un’idea corposa della vita (e, ahimè!) dell’animo di questa categoria di
persone: colle quali chiudiamo il tentativo di riordinare molti dei perosnaggi
del romanzo, per dimostrare la universalità dell’ispirazione umanistica del
Manzoni, ma anche per sottolineare la potenza del suo realismo nel descrivere
anche il male, fin là dove non sia di scandalo; la forza del suo giudizio, che
“dà a ciascuno il suo”, senza riguardo a persona, storicamente celebre,
socialmente elevata o dottrinalmente esimia. L’uomo lo si dipinge,
dantescamente, in tutti i suoi pregi e limiti, ma lo si giudica definitivamente
nella sua dimensione morale, là dove tutti si è uguali e si sarà chiamati a
render conto alla fine della vita. Accenniamo fin d’ora ad un particolare di
conferma: nel romanzo, nessuno sfugge all’ironia dello scrittore, eccetto
pochissimi personaggi, di una vita spirituale eccezionale: il cardinal Federigo,
padre Cristoforo ed i confratelli del lazzeretto, l’innominato, Lucia e la
madre di Cecilia. Il resto del mondo meriterebbe sdegno e disprezzo, se non ci
fosse il dovere di carità cristiana: il sorriso dell’ironia benevola
(umorismo fraterno) vi si sostituisce, grazie alla fede nella Provvidenza che
rimedia alla fragilità umana e conduce la storia verso il trionfo del vero, del
bello, del bene. LE MOLTITUDINI
DI UOMINI (LE FOLLE) Già nelle tragedie, Manzoni prende in considerazione
le reazioni del popolo nel suo insieme: Lo fa in due cori , quello del Carmagnola
e il primo dell’Adelchi. Nei decasillabi
“S’ode a destra uno squillo di tromba”
egli esamina sostanzialmente tre problemi: la assurdità del mestiere di soldato
(compagnie di ventura: “e venduto ad un duce venduto,| con lui pugna e non
chiede il perchè”); l’ingiustizia di guerre fratricide,
per motivi di conquiste ed ingrandimenti di territori sottomessi (“I
fratelli hanno ucciso i fratelli:| questa orrenda novella vi do”; “Odo
intorno festevoli gridi;| s’orna il tempio e risona del canto;| già s’innalzan
dai cori omicidi| grazie ed inni che abomina il ciel”); la fatalità che lo
straniero domini, poi, un popolo così diviso, che si priva degli uomini più
forti in guerre intestine (“...Siete deboli e pochi?| Ma per questo a sfidarvi
discende;| e voglioso a quei campi v’attende| dove il vostro fratello perì”). Nei doppi
senari dell’Adelchi (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti”)
il tema è unico: il popolo italiano non può attendesi da uno straniero (Carlo
Magno) la libertà ed il ritorno all’antica grandezza: è in se stesso che
deve trovare la forza per rifarsi
nazione libera (“E il premio sperato, promesso a quei forti,| sarebbe, o
delusi, rivolger le sorti,| d’un volgo straniero por fine al dolor?| Tornate
alle vostre superbe ruine,| all’opere imbelli dell’arse officine,| ai solchi
bagnati di servo sudor.|| Il forte si mesce col vinto nemico,| col novo signore
rimane l’antico;| l’un popolo e l’altro sul collo vi sta...”) La folla di Milano, in rivolta nel giorno di San Martino, l’abbiamo già incontrata a proposito delle analisi psicologiche. Ma prima di quella, Manzoni studia con
interesse e compassione la gente del paese di Renzo e Lucia, perchè molti
dei suoi uomini accorrono al suono della campana del sacrista Ambrogio e
manifestano i propri sentimenti e la tempra della loro volontà, nel
decidere l’azione piuttosto che la passività, dopo scoperta la scomparsa di
Agnese Lucia e Renzo dal villaggio. Dapprima si recano in piazza, ma lì lo
scompiglio è cessato con la fuga di sposi e testimoni (e di Agnese con loro) al
rimbombar della campana. Ed eccoli a chiedere il perchè dell’allarme, ad
Ambnrogio prima e a don Abbondio poi. Questi se la cava con parole generiche di
accusa (“Cattiva gente, gente che gira di notte”), di commiato (“ma sono
fuggiti: tornate a casa; non c’è più niente: un’altra volta, figliuoli) e
di riconoscenza (“vi irngrazio
del vostro buon cuore”). Che la gente sia scontenta, è troppo naturale:
“Qui alcuni cominciarono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare;
altri si stringevano nelle spalle, e se ne andavano”. Quando il luogo del
pericolo si sposta sulla casa di Agnese, la gente cerca un capo: il console
della comunità. Questi non si rivela un capo
all’altezza della situazione[126]:
chiede la collaborazione; vuol mandare a Lecco per soccorsi, finendo per essere
superato dalla iniziativa tumultuaria della
folla, per il sopraggiungere di nuovi e più urgenti particolari, da
parte di gente che ha visto i bravi donrodrighiani in ritirata (col Griso
travestito da pellegrino, per confondere le due donne e gli eventuali
testimoni). Ed ecco la reazione: “A quest’avviso, senza aspettar gli ordini
del capitano, si muovono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in
mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta
il passo, si lascia sopravanzare, e si ficca nel corpo della battaglia: gli
ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo
indicato... Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire
i rapitori: che era un’infamità; e che sarebbe una vergogna per il paese, se
ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i
pulcini da un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa; ma uno (e non si
seppe mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e
Lucia s’eran messe in salvo in una casa. La voce corse rapidamente, ottenne
credenza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; e la brigata si
sparpagliò, andandoognuno a casa sua”. ”. Che senso ha un simile racconto?
Ci sembra che esso abbia sullo sfondo due intuizioni psicologiche. La
prima, rilevare la reazione tipica di un popolo impulsivo, diciamo di stampo
latino, italiani compresi. A noi sembra, infatti, che un popolo germanico,
avrebbe reagito con più flemma o più disciplina: non come orda scatenata, ma
come truppa organizzata. Ma, più facilmente, questa distinzione non era nella
mente del romanziere: a lui pareva che tale è sempre la risposta di una folla
senza un capo carismatico che la diriga. La seconda, sototlineare il trionfo
della paura e della viltà nella massa disorganizzata: la discussisone intorno
alla proposta coraggiosa dell’inseguimento indica già una debolezza interiore
che non vuol decidersi ad affrontare pericoli; la credenza, prestata ad una
“voce” senza prove nè autorità, conferma la cosa: la più parte non
desiderava altro che di lavarsene le mani. E’ giusto la stessa mentalità che
genererà l’apparente coraggio di vegliare la casa di Lucia, rientrata al
seguito del cardinal Federigo, quando don Rodrigo se ne sarà fuggito a Milano
e, quindi, di protettori non ce n’è assolutamente bisogno. E’ una
osservazione del c. 25 e ne abbiamo già riportato qualche spunto a proposito
delle analisi psicologiche. Un altro sguardo onnicomprensivo sulla folla, Manzoni
ce lo offre nel c. 28, descrivendo la moltitudine di miserabili, ridotti
all’elemosina dal secondo anno consecutivo di carestia.
Le ultime scorte di grano erano state malauguratamente intaccate, oltre
il normale, dai saccheggi ed
incendi dellla rivolta di San Martino 1628; dalla larghezza nella vendita del
pane a buon mercato, durata per un paio di mesi; dalla guerra del
Monferrato, che, come ogni guerra, sperpera vettovaglie e sottrae i soldi
necessari a procurrarsene in caso di bosogno, come in quegli anni. Fu così che,
tra l’inverno e la primavera del 1629, gli affamati divennero legioni,
in città come nelle campagne. A noi, dell’osservatorio linceo del Manzoni,
accenniamo qui il molteplice punto di vista che ne ricava. Dapprima, si
sofferma sulla contraddizione dei provvedimenti governativi che, da una
parte, mettevano a disposizione il pane a buon mercato e, dall’altra, facevano
ogni sforzo (esclusione della gente del contado dal venire in città a
provvedersene; limitazione anche per i milanesi di comperarne per più del
bisogno di due giorni; ordine di requisire riso per preparare pane di
mistura...) per frenarne
l’acquisto. Il 24 di dicembre, impiccati quattro arrestati per i tumulti
dell’undici novembre, cessa ogni limite al costo del pane, che così assume un
prezzo realistico, di mercato, ma lo
rende inaccessibile a gran parte della popolazione. Subito dopo, egli traccia
una descrizione delle varie facce della miseria soffocante: “A ogni
passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran aprte deserte; le strade, un
indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di
patimenti”. Segue un tentativo di elenco dei vari gruppi di
mendicanti in giro per le vie, in attesa della carità:
“accattoni di mestiere”, “garzoni e giovani licenziati”, padroni
caduti in miseria, “servitori
licenziati da padroni caduti dalla mediocrità nella strettezza”, bambini,
donne, vecchi dipendenti dal lavoro degli uomini che han perso il lavoro, ex
bravi, contadini persino, cui la terra negava il sostentamento o che ne erano
stati scacciati da soldatesche che avevan ferito, mutilato chi aveva tentato una
resistenza qualsiasi. A mali così generalizzati, ecco degli spiragli di
rimedi tanto generosi quanto inadeguati: dalla carità del cardinal
Federigo, che fa distribuire fino a duemila minestre di riso al giorno e che
manda in giro per la città sacerdoti con cibarie e bevande a tentar di
sottrarre alla morte le persone, sfinite sino a non poter più camminare, agli
aiuti stabiliti dai decurioni della città, alla carità privata di gente
benestante e compassionevole. Si ricorda, poi, la massa che non diminuisce
nonostante le morti continue e la fuga di cittadini verso la campagna,
nell’illusione di trovare là qualche cibaria, per l’afflusso di nuove leve
di miserabili da fuori città. Ed ecco entrare in scena il “lazzeretto”,
in cui vengono concetrati tutti gli accattoni, a costo di pagare chi ve li
conducesse per forza, perchè la più parte non voleva adattarsi a perdere la
libertà, sicchè solo una parte vi si era recata volontariamente. Ma la
sproporzione tra il numero degli ospiti e lo spazio a disposizione (“dormivano
ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i
portici, sur un po’ dipaglia putrida e fetente...”. Le morti aumentano,
allora, a segno che le autorità si rassegnano a disfare l’ordine ed
a rilasciare i ricoverati: e ci fu meraviglia nel costatare quanto fosse
diminuito il loro numero, per la mortalità intervenuta in quel ricovero
improvvisato e disproporzionato. A parte il clima di nuovo sfavorevole (piogge
ostinate, caldi insoliti), la stagione della messe
porta fuori città i superstiti di tale tragedia, che è solo
l’avanguardia di quella ben peggiore ma vicinissima della peste, che entrerà
in Milano nell’Ottobre seguente imminente. Di
questa vasta e ordinata relazione, la osservazione più acuta ci pare però
questa: quando la massa si ribella,
vuol dire che non è ancora alla disperazione vera; significa che ha ancora
cibo-energie per sostenere la collera ed il tumulto, la violenza ed il
saccheggio; ma quando è davvero ridotta alla fame, allora “E’ cosa notabile
che in tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di querele, non si vedesse
mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di sommossa... Ma
noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro
i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sopportiamo, non
rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato
insopportabile”. Segue, a distanza
ravvicinata, la descizione del comportamento della
moltitudine durante la peste. Manzoni vi dedica i capitoli trentuno e
trentadue: qui la cosa che più colpisce è la
potenza della paura, quale emozione vincente nella psicologia umana, se non
contrastata dalla ferma
volontà di riconoscere e servire la verità come primo valore della vita[127].
Come per il Manzoni, anche secondo noi vi è una parte di colpa nella
ostinazione del popolino sia nel rifiutare, dapprima, la esistenza della peste;
poi, nel volerne cercare la causa nella malvagità di alcuni uomini (gli
untori), onde dar sfogo a quella collera, che aspira a punire. Ma, anche questa
volta, non è solo la moltitudine ignorante a rifiutare la verità, pur ovvia,
del contagio: molti dei dotti (don Ferrante ne è il portabandiera) si appellano
alla astrologia ed agli influssi malefici delle congiunzioni astrali (Sole-
Giove- Saturno) per spiegarne l’imperversare della pestilenza. Il Manzoni
pessimista sulal massa, non ignora le eccezioni delle persone che non credettero
mai agli untori, persuasi che la diffusione della peste avveniva per via di
contatto: da molti medici (Ludovico Settàla ne è il portavoce più autorevole)
a persone private, testimoni che “il buon senso c’era; ma se ne stava
nascosto, per paura del senso comune” (c. 31). I primi
a non credere alla peste sono i “membri politici” del Tribunale della sanità
i quali, anzitutto, bocciano la
proposta dei due suoi componenti medici (Alessandro Tadino e Senatore Settàla,
figlio del protofisico Ludovico) di proibire il commercio con le truppe di
pasaggio; in secondo luogo, sono quanto mai renitenti a
riconoscere, nelle morti avvenute lungo il percorso dell’esercito, i
segni della peste; infine ritardano di un mese (dal 30 ottobre al 29 novembre
1629) la pubblicazione della “grida”, che proibiva l’entrata in Milano di
gente proveniente dai luoghi dove si era manifestato il contagio.
Convertiti finalmente all’evidenza, aiuteranno i cittadini a prender
coscienza della peste, con provvedimenti drastici (il far portare al cimitero i
corpi nudi di una intera famiglia falciata dalla peste, perchè si vedessero i
bubboni, il marchio della malattia), ma senza il coraggio di impedire la
processione col corpo di san Carlo. Vengono in secondo luogo i mandanti della accidia
colpevole nel tribunale della sanità, cioè i politici in persona: “Due o tre
giorni dopo, il 18 novembre, emanò il governatore uan grida, in cui ordinava
pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo
IV, senza sospettare e senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali
circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato
di nulla” (c. 31).[128] Ed ecco in azione quello “che i poeti chiamano
volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico” (id.). Durante
gli ultimi mesi del 1629 e nei primi del 1630 “Di quando in quando, ora
in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne
moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità,
confemava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non
ci fosse peste, nè ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora,
facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?),
derideva gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi..”
(ib.); “non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro
soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare
i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati” (ib.). Più avanti “I
medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che
avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta
troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quelle di febbri
maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole,
e che pur faceva gran danno, perchè figurando di riconoscere la verità,
riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di
vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto” (ib.). Dopo che la
peste è accertata e riconosciuta, “Coloro, i quali avevano impugnato così
risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicno a loro, tra loro, un germe di
male... non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo
attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un
grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a trovarci qualche
altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia,
ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui
soltanto ma in ogni parte d’Europa: arti venefiche, oprazioni diaboliche,
gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”
(ib.). Ed ecco diffondersi la paura e l’odio per gli untori: “il vocabolo fu
ben presto comune, solenne, tremendo” (c. 32). Segue l’acuta osservazione
psicologica, già riportata, “Con una tal persuasione che ci fossero untori,
se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente...” (id.); e poi la
considerazionepemìnosa (pure riportata nelle analisi psicologiche) circa la
troppa maggior facilità al parlare che al riflettere, che conclude il c. 31. E
anche la fede, non guidata dalla prudenza, può generare illusioni e una
condotta controproducente: la processione con il corpo di san Carlo, per
ottenere il miracolo della scomparsa della peste, non è contestata neppure dal
tribunale della sanità; è soltanto osteggiata, fin che gli è possibile, dal cardinal Federigo; è
richiesta dalle autorità (i decurioni); è seguìta da tutta la
popolazione sana: con l’effetto di moltiplicare all’estremo il contagio (c.
32). Non tutti sono travolti dalla opinion dominante:
Manzoni, mentre attesta lealmente che il cardinal Federigo
non riuscì a scuotere da sè il convincimento che il fatto delle unzioni
fosse vero, pur ritenendo inventata almeno parte della casistica circolante in
proposito afferma anche: “Ci furono però di quelli che pensarono fino alal
fine e fin che vissero, che tutto fossse immaginazione: e lo sappiamo, non da
loro, chè nessuno fu abbastanza ardito per esporre
al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo
sappiamo dagli scrittori che lo deridono e lo riprendono, come un pregiudizio
d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che
pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione” (ib.:
Manzoni cita il Muratori, come teste indiretto, ma affidabile). L’UNIVERSALITA’
DELL’ISPIRAZIONE NELL’
ATTIVIVITA’ UMANA. In un’opera così vasta, vi è posto per quasi tutte le attività umane: il prender cibo o il sonno, la preghiera, l’amore e la carità, il lavoro dei campi, quello dell’artigiano in casa sua e dell’operaio in fabbrica, il commercio di pane, di stoffe e di vino, la vita di studio e quella politica, l’attività del medico, dell’avvocato e degl infermieri, il mestiere infine delle armi. Cominciamo dalla “bucolica” (per usare un termine, tra serio e comico, dello stesso Manzoni).Troviamo, anzitutto, il vino “che rimette lo
stomaco a don Abbondio”.[129]
Segue il pranzo sontuoso nel
palazzotto di don Rodrigo; ma anche qui, non si accenna ad altre portate che al
vino estasiante del famoso fiasco che finisce di
arrubinare il naso del dottor Azzeccagarbugli e dà fiato alla sua
retorica adulatoria (c. 5). Più specificata è la cena di Renzo, Tonio e Gervaso
nel c. 7, qualche momento prima del tentativo fallito di matrimonio a sorpresa.
A parte che lo scrittore cattolico, distratto, fa mangiar di grasso al venerdì
i nostri tre avventori (“Ed ora vi porterò un piatto di polpette, che le
simili non le avete mai mangiate”), resta il fatto che “La cena non fu molto
allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela ocn tutto loro comodo; ma
l’invitante... non vedeva l’ora di andarsene. ... La conversazione fu sempre
più fredda fino alla fine. Renzo, stando indietro mangiare come nel bere,
attese a mescere ai due testimoni, con discrezione, in maniera di dar loro un
po’ di brio, senza farli uscir di cervello”. La colazione all’osteria, quando
arrivano a Monza la mattina dopo la fuga dal lecchese, è quale
“permetteva la penuria de’ tempi”, mentre Renzo, giunto a Milano, comincia
a sgranocchiare uno dei pani che,
in quel giorno di rivolta, trova ai
piedi della croce di San Dionigi. L’ultimo dei tre pani gli serve per
accompagnare lo stufato che l’oste della luna piena gli fa servire a tavola.
Ed è a proposito del pane che Renzo comuncia a parlare con tanto calore quanta
imprudenza: “-Al pane... ci ha pensato la provvidenza. .... A buon mercato?
Gratis et amore...-” Ma, di nuovo, al centro di interesse nella cena si pone
il vino (“Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero... Porta del
medesimo... che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro,
senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e
se ha a stare un pezzo in questa città”), di cui abbiamo già visto
l’effetto sul pur solido
montanaro, non abituato a berne oltre misura (c. 14). Durante la fuga da Milano, due volte si ferma per
riparare le energie della lunga strada: ha pane e stracchino (senza il vino
traditore) nell’osteria dove c’è
solo la vecchia e candida padrona; “un boccone” con una “mezzetta di
vino” a Gorgonzola, dove non si sa che tipo di pietanza gli abbia servito
quell’oste curioso e malizioso (c. 16). Neanche all’osteria del bergamasco, dove si ferma
“ a ristorare lo stomaco” vien detto ciò che gli vien servito da mangiare.
Pur con i pochi danari rimasti, Renzo vuol far colazione, “pensò, da
un’altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al cugino, come
un pitocco e dirgli per primo complimento: dammi da mangiare” (c. 17). Anche la moglie del sarto offre da mangiare a Lucia
ed Agnese e, oltre al buon cuore degli ospitanti, vengon fuori usi e necssità
delle refezioni del tempo. Ecco la premura di rifoccilare subito la povera
Lucia, appena liberata dall’incubo del rapimento, della prigionia al castello e dei timori per l’avvenire :
“Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove nuotava un buon
cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già
guarnita di fette di pane, potè finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la
poverina riaversi ad ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se
stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com’essa diceva, non
c’era il gatto nel fuoco. –Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosinna-
aggiungeva: meno quei poveri che stentano ad aver pane di vecce e polenta di
saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti
qualcosa....”. Ed ecco una curiosità del tempo: anche in case non disagiate,
manca una tavola grande abbastanza per i figli piccoli, anzi mancano anche le
sedie per loro: “Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a discorrere con
grand’enfasi, in mezzo all’interruzione dei ragazzi, che mangiavano ritti
attorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose straordinarie,
per fare alla lunga la sola parte d’ascoltatori...”.
Abbiamo già riportato l’episodio della elemosina a Maria vedova, portata con grazia e discrezione da una figlioletta del sarto
(c. 24). Poi, nel c. 28, si parlerà di fame, molto più che
di cibo: le duemila minestre ed altri aiuti straordinari fatti distribuire dal
cardinale Federigo sono una goccia nel mare di una miseria senza fine: “Aveva
fatto gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della
diocesi, che n’eran più scarsi... Granaglie pure e denari aveva distribuito
ai parrochi della città... nel palazzo arcivescovile, come attesta uno
scrittore contemporaneo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che
avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina
duemila scodelle di minestra di riso”. Di questo tenore è anche la scodella di cibo che p.
Cristoforo sta prendendo lui stesso e che serve a Renzo, nel lazzaretto, quando
si incontrano: “-Tu mi pari ben rifinito: devi aver bisogno di mangiare- E’
vero- disse Renzo – ora che lei mi ci fa pensare, mi ricordo che sono ancora
digiuno-. –Aspetta- disse il frate; e presa un’altra scodella, l’andò a
empire alla caldaia: tornato, la diede, con un cucchiaio, a Renzo; lo fece
sedere sur un saccone che gli serviva da letto; poi andò a una botte ch’era
in un canto, e ne spillò un bicchier di vino, che mise sur un tavolino, davanti
al suo convitato; riprese quindi la sua scodella e si mise a sedere accanto a
lui” (c. 35). Abbiamo, infine, il pranzo che il marchese, erede di don Rodrigo, prepara a Renzo e Lucia, ormai non più “promessi” ma sposati , nel palazzotto. “Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli”. Il commento del Manzoni ofre uno spiraglio sui costumi del tempo ed una acuta osservazione sulla virtù dell’umiltà: “A nessuno verrà, spero , in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavolata sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento di umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro a pari” (c. 38). Quanto al
sonno,
dobbiamo ricordare anzitutto la notte di Renzo nella capanna contadina, vicina
alla sodaglia che precedeva immediatamente il fiume Adda,
alla fine di quel 12 novembre, giornata di fuga, di paure e di fatche
straordinarie. Egli vi entra e, prima di sdraiarsi sulla paglia che vi era,
si pone in ginocchio a pregare, per ringraziare dell’assistenza avuta nella giornata formidabile e per riparare la
dimenticanza della sera precedente, quando era andato a letto ubriaco, “come
un cane e peggio”, sicchè “per questo
gli era toccata, la mattina,
quella bella svegliata” (da parte del notaio criminale e dei birri).
“...raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’intorno, e se l’accomodò
addosso, facendosene alla meglio, una specie di coperta, per temprare il freddo,
che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con
l’intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d’averlo comprato anche più
caro del dovere. Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o
nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un
andare e venire di gente, così affollato, cos’incessante, che addio sonno. Il
mercante, il notaio, i birro, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la
brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi
don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire. Tre sole immagini gli si
presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto,
amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma
strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera ed una barba
bianca... Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e
facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’era costretto ogni tanto
a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con
impazienza il lento scorrer dell’ore. Dico misurava, perchè, ogni mezz’ora,
sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare
i tocchi di un orologio: m’immagino che dovesse esser quello di Trezzo.
E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato,
senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso
misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista,
con una voce sconosciuta. Quando finalmente quel martello ebbe battuto gli
undici tocchi, ch’era l’ora designata da Renzo per levarsi...” (c. 17). Abbiamo
già riportato nelle citazioni di psicologia,
il sonno dell’innominato, dopo la gran giornata della
conversione e liberazione di Lucia. Ma è degna di nota anche la notte che precede quelle
ore diurne, la notte della crisi, della tentazione di suicidio, della decisione di recarsi a trovare e farsi
illuminare dal cardinal Borromeo in visita pastorale nella zona. Abbiamo,
però, già visto la trama fondamentale dei pensieri del grande masnadiero, che
lo conducono al giro di boa nella sua vita. “Ma c’era qualchedun altro in quello stesso
castello”[130] che si addormenterà
solo dopo aver dato esaudimento ad una ispirazione magnanima, anzi eroica. E’
Lucia, che non trova pace dopo il rapimento da parte del Nibbio e degli altri
sgherri dell’Innominato. Avremo modo di riparlare delle ore tormentate di
Lucia, che trova nella intensità della sua fede
la geniale espressione “Dio perdona tante cose per un’opera di
misericordia”, espressione che tanto sorprenderà l’innominato, spinto da
una forza sovrumana a vederla,
nella stanza dove essa non vuole mangiare ciò che Marta porta di buono,
inviatole dal tremendo signore, che sta ammansendosi; si rifiuta assolutamente
di andare a letto; si è accovacciata, in lacrime e angoscia, nell’angolo più
lontano dalla porta. Dopo esser caduta
in uno stato di assopimento,
ritorna alla coscienza, con il terrore di essersi allontanata dallo sato di
guardia che la situazione esigeva da lei: “L’infelice risvegliata riconobbe
la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i
terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa
dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era
lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che
desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almeno pregare,
e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza.
Prese di nuovo la sua corona e ricominciò a dire il rosario: e. di mano in mano
che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una
fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro
pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente
esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si
ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto;
giacchè, in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che
di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò
e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e
tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e
le pupille al cielo, e disse: o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono
raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete
patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli
per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi
tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner
vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri
che vostra. Proferite queste aprole, abbassò la testa, e si mise la corona
intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un
tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui si era ascritta. Rimessasi a
sedere per terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più
larga fiducia. Le venne in mente quel domattina
ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una
promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono apoco
a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno,
col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò
d’un sonno perfetto e continuo”. LA PREGHIERA Quasi tutti gli Inni sacri finiscono con una preghiera. E’ una professione di fede nella divinità del bambino nato a Betlemme (Il Natale). E’ un’invocazione per gli ebrei, nella penultima strofa de La passione (onde si cancelli, con la loro conversione a Cristo, l’invocazione del Suo sangue a maledizione sopra i propri discendenti); e nell’ultima (alla Madonna Addolorata, perchè la sofferenza inevitabile nella vita terrena, “sia pegno d’eterno goder”). E’ canto di celebrazione alla grandezza della stessa Madre di Dio (“Salve, beata!...|| Salve, o degnata del secondo nome,| o Rosa, o Stella ai periglianti scampo,| inclita come il Sol, terribil come| oste schierata in campo” (Il nome di Maria). Delle storfe “oranti” ne La Pentecoste abbiamo già riportate alcune invocazioni.Anche le due tragedie finiscono con una pregheira. Il conte di Carmagnola, che ringrazia il Signore perchè, venuto il momento della sua decapitazione, sia la moglie che la figlia svengono e sono così sottratte alla visione del supplizio (“O Dio pietoso, tu le involi a questo| crudel momento; io ti ringrazio...”). Adelchi, con una preghiera di abbandono supremo a Cristo, di cui sente di condividere alcuni tratti della passione “....O Re de’ re tradito| da un tuo Fedel, dagli altri abbandonato!...|Vengo alla pace tua: l’anima stanca| accogli...”Ne I promessi Sposi, la prima preghiera che incontriamo è quella di padre Cristoforo nella chiesetta del convento: è già stata riportata, dal c. 8. Ed è fra le più commoventi. Ad essa si possono avvicinare solo la preghiera di Lucia nel formulare il voto nella notte del rapimento, al castello dell’innominato (riferita, poco sopra); e quella, parallela, sotto l’incalzare delle proteste d’amore di Renzo al lazzaretto: “o Vergine santissima, aiutatemi Voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo non l’ho mai passato. M’avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!” (c. 36). Anche la meditazione di Lucia nella barca, sul lago di Como la notte della fuga, può essere paragonata , specie nell’ultima parte, a una preghiera: il pensiero “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande” (c. 8) è, in realtà l’espressione di riconoscimento della (e di riconoscenza alla) Provvidenza, cioè un atto di fede e di ringraziamento. Pure circa la preghiera recitata da Renzo la sera, nella capanna, presso la sodaglia che precede il fiume Adda, si è già discorso. La preghiera liturgica è ricordata per elogiare Lucia (“sempre la più composta in chiesa”: è Bortolo che parla, al c. 17); per esprimere un risveglio, anzi un sussulto di devozione in don Abbondio (“Si doveva passare davanti alla chiesa piena di popolo... l’innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula... Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il coro solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime” (c. 23). Egli porterà con sè, al castello del terribile convertito, solo il breviario (“Don Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio...”: c. 29). Preghiere nel tempo della peste aveva raccomandato il cardinal Federigo a tutta al città: “All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto” (c. 34). Preghiera solenne, ma imprudente, è quella di tutta la città di Milano nella processione col corpo di san Carlo, per esorcizzare la pestilenza (c. 32). Preghiere chiede insistentemente, per don Rodrigo e per sè, p. Cristoforo, al momento dell’addio da Renzo e Lucia, al lazzaretto. Uno dei motivi per cui il mirabile frate chiede preghiere per sè, è sorprendente: “E’ già molto tempo... che chiedoal Signore una grazia, e ben grande: di finire i mei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo” (c.36). Quando considereremo la dimensione più genericamente religiosa del romanzo, intuiremo che la parte specifica della preghiera deve avere avuto una parte, nella vita degli attori positivi, molto maggiore di quella esplicitata nella esposizione della trama. L’AMORE
E LA CARITA . Il capitolo primo, nel secondo tomo[131] della prima stesura del romanzo (“Fermo e Lucia”) è preceduto da una “Digressione” che si propone due scopi: da una parte, spiegare perchè l’autore si rifiuti di dar parte nel romanzo alla espressione diretta della passione d’amore[132]; dall’altra, chiedere che gli scrittori esprimano maggiormente sentimenti, che dall’elenco che vedremo, sono collegati con la virtù della carità. Leggiamo le sue parole. Quanto al primo punto, egli si fa dapprima obiettare da un lettore ideale in questi termini: “I protagonisti di questa storia... sono due innamorati; promessi al punto di sposarsi, e quindi separati violentemente dalle circostanze condotte da una volontà perversa. La loro passione è quindi passata per molti stadi, e per quelli principalmente che le danno occasione di manifestarsi e di svolgersi nel modo più interessante. E intanto non si vede nulla di tutto ciò”. Alla obiezione, Manzoni risponde: “perdonatemi: trabocca invece di queste cose, e deggio confessare che sono anzi la parte più elaborata dell’opera[133]: ma nel trascrivere e nel rifare, io salto tutti i passi di questo genere... Perchè io sono del parere di coloro i quali dicono che non si dve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione”. Alla nuova domanda sul perchè di tale sorprendente decisione, Manzoni dà una duplice risposta. Anzitutto, coloro cui la passione è lecita, anzi doverosa (le persone sposate) “troverebbero tutto questo amore molto freddo... perchè quale è lo scritto dove sia trasfuso l’amore quale il cuor dell’uomo può sentirlo?”. In altre parole, simili esternazioni sentimentali sono per loro del tutto inutili ed insipide. Quanto alle altre, tali estrinsecazioni sono pericolose: “Ma ponete il caso, che questa storia venisse alle mani per esempio d’una vergine non più acerba, più saggia che avvenente (non mi direte che non ve n’abbia), e di anguste fortune, la quale perduto già ogni pensiero di nozze, se ne va campucchiando, quietamente, e cerca di tenere occupato il cuor suo coll’idea dei suoi doveri, colle consolazioni della innocenza e della pace, e colle speranze che il mondo non può dare nè torre; ditemi un po’ che bell’acconcio potrebbe fare a questa creatura una storia che venisse a rimescolare in cuore que’ sentimenti, che molto saggiamente ella vi ha sopiti”. Dopo di che il Manzoni non esita a parlare delle crisi che simili libri, amorosamente effusivi. potrebbero suscitare in giovani preti, avendo il coraggio di scrivere “giacchè non vorreste che si pubblicasse un libro che un prete non abbia da leggere”. Quanto alla esigenza circa i sentiment collegati con la carità, ecco quanto scrive: “Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ di più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo”. Egli concluderà, con sentenza che rimane arrischiata,[134] pur nell’ espressione comica con cui è formulata “ma dell’amore, come si diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie...”.[135] Ma il Manzoni, che pregherà ne La Pentecoste “spargi la casta porpora| alle donzelle in viso” e “consacra delle spose| il verecondo amor”, aveva già dimostrato di saper trattare dell’affetto sì sponsale che parentale nelle due tragedie. Nel Carmagnola, tale affetto non raggiunge (a nostro parere) grandi vette poetiche, neppure nella scena finale nel carcere (V, 5). Ivi Manzoni ricorre allo svenimento di moglie (Antonietta) e figlia (Matilde) per evitare un addio commosso con Francesco Bussone, conte di Carmagnola, condannato a morte dal governo di Venezia (ingiustamente, secondo l’autore) per tradimento. A noi sembra che sia ricorso a simile espediente, per la incapacità ad estrarre dall’insieme della vicenda una commozione da trasmettere ai fruitori. Occorreva, crediamo, una componente universale, che sublimasse a martirio per un ideale, la morte ingiusta del protagonista, per eccitare l’estro del poeta al sentimento epico-elegiaco. La cosa gli riesce, invece, nel coro dedicato alla morte di Ermengarda (Adelchi, IV, fine della scena I), perchè Manzoni non vi canta solo la morte di una innocente respinta dall’arbitario marito (Carlo Magno), ma è riuscito ad inserirvi la considerazione sul trionfo apparente (momentaneo) della prepotenza nelle vicende umane e la certezza della vittoria finale, per opera di Dio, della giustizia e della verità.[136] E, considerazioni estetico-critiche a parte, l’amore per Carlo Magno ritorna nei vv. 25-85, come sentimento tenace, che può (più dolorosamente che in Lucia) essere obliato per qualche tempo, ma che riaffiora insopprimibile. D’altronde, la persistenza del legame affettivo è drammaticamente testimoniato da tutta la scena cui il coro fa da conclusione: quando una parola imprudente della sorella Ansberga le fa capire che Carlo non solo l’ha ripudiata, ma si è presa un’altra donna come moglie, la crisi di mente e di cuore della poveretta è tale che ne muore. Ebbene, nel romanzo, il Manzoni è riuscito ad evitare “i fidati colloqui d’amor” od altre espressioni affettive nel capolavoro, ma ha narrato due storie d’amore –quella, complessivamente esemplare, di Renzo e Lucia e quella, scandalosamente peccaminosa, della monaca di Monza, interessanti non solo, ma poeticamente grandi; anzi, per la parte di Lucia, sublimi. La sua discrezione e (abbiamo anche noi il coraggio manzoniano e dantesco di chiamare le cose col loro nome esatto!) il suo pudore finiscono per lasciar intuire un affetto così intenso nei due promessi, che il prudentissimo san Giovanni Bosco, maestro geniale di educazione giovanile e personalità equilibratamente disinibita, psicologicamente sana, , escludeva dalle letture per gli adolescenti, che si affidavano al suo magistero, un libro affascinante proprio nel senso dell’affetto amoroso[137]. L’amore profondo e tenace di Renzo è solo “complessivamente” esemplare e il perchè lo abbiamo già detto: l’affetto per Lucia gli fa perdere il lume degli occhi ed egli è disposto anche all’odio ed all’omicidio per salvaguardarlo o vendicarlo. L’amore forte e puro di Lucia per Renzo si manifesta in atteggiamenti sublimi anche se, a differenza di lui, trova un limite invalicabile nel timore ed amore di Dio. Vediamoli nelle circostanze più significative. Renzo resta sbalordito, perchè Lucia non gli ha accennato nulla della scommessa di don Rodrigo (“non m’avete mai detto niente”: c. 2). La risposta di Lucia sta nell’esclamarne il solo nome (“Ah, Renzo!), che Manzoni spiega così: “Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se non per motivi giusti e puri?” (id.). Dopo il racconto che Lucia fa della scommessa fra Rodrigo ed Attilio, Renzo comincia a dare in escandescenze (“Ah birbone! ah dannato! ah assassino!: c. 3); non è più padrone del suo animo e finisce per preferire, in atto pratico, il possesso di Lucia alla fedeltà alla legge di Dio: “Questa è l’ultima che fa quell’assassino...” (id.). Lucia, pel momento, si limita a supplicarlo di desistere dai suoi propositi (Ah! no, Renzo, per amor del cielo!”: c. 3). Renzo, esasperato per la cinica corruzione scoperta nell’Azzeccagarbugli, ritorna sul suo proposito in nome di una giustizia ingenua e feroce: “Ma se il padre –disse- non ci trova un ripiego, lo troverò io, in un modo o nell’altro... ma, in ogni caso, saprò farmi giustizia, o farmela fare. A questo mondo cè giustizia finalmente... e... se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: -a questo mondo c’è giustizia, finalmente!” (id.)[138]. E Renzo va in cerca degli amici che l’aiutino nell’impresa, cosa dalla quale il loro diniego e le parole severe di p. Cristoforo lo dissuadono un momento (c. 5). Quando anche il tentativo di p. Cristoforo va a vuoto e Lucia, rifiutandosi di partecipare al matrimonio di sorpresa, mettono di nuovo l’animo di Renzo a soqquadro, eccolo ancora alla sua pretesa candida ed inesperta, oltre che moralmente precipitata e sproporzionata. Siamo al c. 7: “La finirò io! Abbia pur cento, mille diavoli nell’anima, finalmente è di carne ed ossa anche lui...”. Lucia, alle esortazioni,unisce stavolta le lacrime: “-No, no, per amor del cielo...!- cominciò Lucia; ma il pianto le troncò la voce”. All’intervento di Agnese (“Non son discorsi da farsi, neppure per burla”) egli si scatena di più: “-Per burla?- gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. –Per burla! vedrete se sarà per burla.” Ma anche la giovane si preoccupa sempre più: “-Oh Renzo!- disse Lucia a stento tra i singhiozzi: -non v’ho mai visto così!-”... Alle nuove osservazioni, dettate dal buon senso e dal senso morale, avanzate da Agnese (“Non vi ricordate quante braccia ha al suo servizio colui? E quand’anche... Dio liberi!... contro i poveri c’è sempre giustizia”), Renzo esplode veramente: “La farò io la giustizia, io! Risoluzione e pazienza.. e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà...! E poi in tre salti...!-” Ed è allora che la coscienza di Lucia le impone la massima severità col suo Renzo, che significherebbe anche la umana infelicità per lei: “L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede la forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta: -non v’importa più d’avermi per moglie...” (la battuta è già stata tutta riportata a proposito di Lucia, nel motivo della universalità delle persone prese in considerazione dal Manzoni). E’ qui che Renzo (in parte anche giocando d’astuzia per spavantare Lucia e indurla –e ci riuscirà- ad aderire all’impresa del matrimonio notturno) giunge a preferire la vendetta contro chi gli impedisce di avere Lucia, alla possibilità di sposarla: “E bene! gridò Renzo con un viso più che mai stravolto: -io non v’avrò; ma non v’avrà nè anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del...” (la frase sarà completata al lazzaretto, dove, nell’ipotesi che Lucia sia morta di peste, griderà a p. Cristoforo: “O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati...”: c. 35). E Lucia: “Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così”- esclamò, piangendo, supplicando, con le mani giunte. Ed ecco Renzo fotografato in un momento di estremo amore, di estremo dolore, di collera estrema: “Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: -questa! sì questa egli vuole. Ha da moirire!”. Lucia, disposta ancha a rinunciare, per forza di volontà e di fede, ad un Renzo abbandontosi al propsoito del delitto, ma ben ferma nella sua affezione, trova uan risposta adeguata: “Ed io che male vi ho fatto, perchè mi facciate morire?”. A questo punto, Renzo alleando intelligenza e cuore, trova il verso di mettere a frutto la sua collera e risponde: “-Voi?- rispose con una voce che esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira tuttavia: -voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, pregata e pregata? E voi: no! no!-”. Non ci deve meravigliare, ora, la pronta adesione al tentativo di matrimonio notturno da parte di Lucia. E’ un mutamento moralmente giustificabilissimo. La sua coscienza non era sicura della disonestà del tentativo notturno, ma ne dubitava solo. Urgendo la necessità di decidere, il solo fatto che la madre fosse favorevole era per lei un motivo serio della liceità morale della cosa. La madre glielo aveva protestato chiaramente: “Che!... ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’ tuoi parenti, per prendere un rompicollo...ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato...”. I moralisti direbbero che Lucia aveva, nella provata onestà cristiana della madre, una solida probabilità di ritenere lecita l’azione[139]; e, quindi, poteva rassicurare la propria coscienza confusa: “Sì, sì, -rispose prontamente Lucia:- verrò dal signor curato, domani, ora se lo volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò”. Come si vede, amore per Renzo e timore di Dio si ordinano ragionevolmente, equilibratamente, anche se talora dolorosamente nell’animo di Lucia, mentre in Renzo il primo ha talvolta il sopravvento. Ancora alcune scintille del fuoco che divampa nei loro cuori si lasciano intravedere durante il tentativo stesso: nel ritorno dalla vicenda, finita infelicemente “Lucia stava stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tal turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto famigliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’essere andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora sè stesso, somigliante alla paura del fanciullo che trema nelle tenebre, senza saper di che” (c. 8). Non che Lucia ignori la distinzione tra affetto e sensualità, quello buono nel fidanzamento, questa solo nel matrimonio; ma essa indovina (inconsapevolmente, dice Manzoni) che il passaggio dall’uno all’altra è così facile e rovinoso, che la prudenza impone di lasciare la maggior distanza possibile fra i due comportamenti, a costo di sembrare talora scrupolosi od ingenui. Che non lo sia, lo dimostra la normalità del suo pensare affettuosamente allo sposo promesso ed ai luoghi dove il suo amore sarebbe stato consacrato. Ce ne accorgiamo da molti particolari.. Anzitutto vi è la finale delle sue riflessioni, sulla barca che li porta lontani dal loro paese: “Addio, casa natìa dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio!”. Ma la testimonianza più alta dell’amore per Renzo sta nel fatto che, volendo offrire alla Madonna il bene più prezioso della sua vita “fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra” (c. 21). Segue, poi, il “tumulto istantaneo” che “si fece nella sua mente” quando, appena liberata dal castello dlel’innominato, nel mettersi in ordine, nella casa del sarto, “le sue dita s’intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti” e “la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi apparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: -oh povera me, cos’ho fatto!- Ma non appena l’ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto...e s’affrettò di rinnegar quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d’adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l’occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo... E... s’andava figurando... che quella Provvidenza medesima, per compir l’opera, saprebbe la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più... Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch’era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s’alzò, se ci si passa quest’espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso” (c. 24). Praticamente, anche Lucia subisce la tentazione suprema per l’amore verso il promesso sposo: rinunciare al primato di Dio, alla donazione totale a Lui (legittimamente decisa, nella coscienza disinformata di Lucia) per tenersi Renzo, l’amore del suo uomo, la speranza di una famiglia e discendenza propria. Ma Renzo si scopre disposto a subordinare l’amore di Dio a quello per Lucia o almeno al triste piacere della vendetta contro chi gliel’ha tolta; Lucia, invece, supera la prova e si conferma donna forte e coerente, perchè cristiana,cioè santa. Ma testimonia anche la tenacità del suo attaccamento all’amore terreno. Eccola, infatti, a suggerire alla madre di donare metà dei cento scudi che l’innominato fa pervenire ad Agnese, per la dote di Lucia, in riparazione dei torti a lei fatti: la proposta, subito accettata da Agnese, fa dire allo scrittore: “il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse” (c. 26). E, poi, c’è la lotta ordinaria e straordinaria per dimenticare Renzo, in casa di donna Prassede: “Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per quale mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una simile risoluzione riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d’occuparsi tutta in quello: quando l’immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Ma quell’immagine...”: il resto lo abbiamo riportato in sede di analisi psicologiche, nella nota antologica a pp.45- 46. Ma ecco intervenire donna Prassede a garantirci di un affetto perseverante al di là di ogni buon volere di Lucia: “Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato di meglio che di parlargliene spesso. –Ebbene?- le diceva: - non pensiamo più a colui?- -Io non penso a nessuno –rispondeva Lucia. Donna Prassede non s’appagava d’una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali, diceva, -quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se ne staccano più. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile.- E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva avre fatte sicuramente, anche al suo paese. Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlare di sè, altro che in bene... Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero e, a dir proprio la parola conla quale spiegava a sè stessa il suo sentimento, come prossimo...” (c. 27). La terza prova del suo amore per Renzo sta nell’eroismo che le costa il ribadire il suo voto alla Madonna, di fronte a lui, venuto a cercarla nella cittadella della peste. Alcune battute di Lucia le abbiamo già lette a proposito della sua personalità di eroina dei poveri e degli umili (p. 69). Le altre le esaminiamo ben presto, ma come risposte alle proteste d’amore di Renzo, il cui amore, meno raffinato, ha però dei solidi fondamenti sia di fede che di morale, fondamenti che lo hanno indirizzato, anzitutto, alla sapienza nella scelta della giovane da sposare; e ne garantiscono ora la fedeltà e l’attaccamento, pur fra le traversie più drammatiche. Eccolo a ribellarsi alle notizie circa il voto di Lucia, che gli vengono fatte scrivere da un interprete (“turcimanno”) e che lui da un interprete doveva farsi leggere, per poi dettargli la risposta. La foga del suo amore era già stata annunciata dallo scrittore fin dal suo primo comparire nel romanzo (“Lorenzo o, come tutti dicevano, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia di un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama”: c. 2). Ma stavolta, la foga è collerica: “Renzo poco mancò che non se la prendesse col lettore-interprete: tremava, inorridiva, , di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto... E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna e rispondesse.... –scrivete- proseguiva dettando- che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo e li tengo in deposito per la dote della giovine; che già la giovine dev’esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c’entra per aiutare i tribolati, e per ottenere grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l’ho sentito mai...” (c. 27). Renzo, pur con una fede meno cordialmente fervente di Lucia, ne aveva però una intuizione razionale più vasta e completa ed ha indovinato subito il punto debole del voto di quella: non è lecito, nel fare una promessa al Signore, violare i diritti di un terzo. Ma ciò che conferma la profondità del suo affetto è la tentazione di voler chiarire il groviglio a rischio di imprudenze rischiosissime: farsi soldato per i Veneziani, ormai in guerra contro la Spagna e rientrare combattendo in Lombardia (“Più d’una volta, e specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelel benedette lettere da parte d’Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato e finirla... tentazione... tanto più forte, che s’era anche parlato d’invadere il milanese...”). E’ il cugino Bortolo che, con scetticismo degno di un politico e saggezza pari a quella di un diplomatico, lo sa “smontare da quella risoluzione” (c. 33). Dopo avergli spiattellato la già ricordata opinione sull’esito di un’eventuale azione contro la Lombardia (“ Per me, sono eretico: costoro abbaiano; ma sì San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro...), aggiunge giudizioso: “Ti par che convenga lasciare di incannar seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta” (id.). Ma quando Renzo è guarito dalla peste, che lo ha raggiunto perchè egli è meno avveduto del cugino Bortolo e di Agnese, che entrambi riescono a scansarla, “col tornar della vita, risorsero più che mai rigogliose nell’animo suo le memorie, i desideri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai a Lucia... a Milano, dicono tutti che l’è una confusione peggio. Se lascio scappare una occasione così bella... non ne torna più una simile” (id.: il commento acuto di Manzoni alla ultima espressione di Renzo lo si è già trascritto, in sede di analisi psicologiche).[140] Renzo, dunque, ritorna per una ricerca pressochè fallita in partenza. Ma l’amore è forte come la morte, dice il Cantico dei cantici; e Renzo vive per Lucia e non ha alcuna stima di una vita senza di lei. Trovatala, ecco quel colloquio in cui la passione d’amore si svela in entrambi al calor bianco: Renzo assaltando la coscienza di Lucia da ogni parte, col ragionamento aperto e con la insinuazione subdola; Lucia che deve rivolgersi apertamente alla Madonna per resistere all’impeto di un amore che, non mai morto in lei, rischia ora di prendere il sopravvento su quello di Dio. Le parole di Lucia le abbiamo già riportate a sua lode; ora dobbiamo sentire quelle di Renzo: a lei, che lo rimanda a p. Cristoforo, sicura che “lui gli farà mettere il cuore in pace” (c. 36), egli replica: “Il cuore in pace! Oh! questo levatevelo dalla testa. Già me l’avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m’ha fatto patire; e ora avete anche il cuore di dirmela. E io invece vi dico chiaro e tondo che il cuore in pace non lo metterò mai. Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio dimenticarmi di voi. E vi prometto, vedete, che, se mi fate perdere il giudizio, non lo riacquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete condannarmi ad essere arrabbiato per tutta la vita; e da arrabbiato viverò...E quel disgraziato! Lo sa il Signore se gli ho perdonato di cuore; ma voi... Volete dunque farmi pensare per tutta la vita che se non era lui...? Lucia! avete detto ch’io vi dimentichi. ch’io vi dimentichi! Come devo fare? A chi credete ch’io pensassi in tutto questo tempo?... E dopo tante cose! dopo tante promesse! Cosa vi ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perchè ho patito, mi trattate così? perchè ho avuto delle disgrazie? perchè la gente del mondo m’ha perseguitato? perchè ho passato tanto tempo fuori di casa, tristo, lontano da voi? perchè, al pirmo momento che ho potuto, son venuto a cercarvi?... Se poi questa fosse una scusa; se è ch’io vi sia venuto in odio... ditemelo... parlate chiaro”. E’, quest’ultima, la ripresa della insinuazione subdola e seducente della domanda che, astutamente innamorato, le aveva già rivolto poco prima: “Lucia!... ditemi almeno, ditemi: se non fosse questa ragione (del voto)... sareste sempre la stessa per me?”. Abbiamo spezzato in due parti (le proposte di Renzo, riportate qui; e le risposte di Lucia anticipate nello studio dei vari tipi sociali di personaggi presenti nel romanzo). Eppure si può intuire anche così la potenza di un amore sconvolgente, che domina mente e cuore, che rischia di travolgere anche i valori più alti della moralità e della fede. Dobbiamo qui dichiarare che ben raramente ci è capitato di leggere pagine di una simile intensità lirica, ispirata all’amore umano: qualche decina di versi nel canto trentesimo del Purgatorio;[141] qualche passo in “Delitto e castigo” di F. Dostoevskij (amore tra Razumichin e Dunja, la sorella del protagonista Raskolnikov); qualche pagina in “Guerra e pace” di L. Tostoj (in Natascia, sposa di Pierre Bezichov); qualche riflessione in “Loro e io” di J. K. Jerome. Manzoni assomiglia non poco a p. Cristoforo, come viene giudicato dal conte Attlio: “con quel suo fare di gatta morta; e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un drittone, e per un impiccione”. Chi non ha la tentazione di giudicarlo uno “sciocco”, leggendo la “Digressione” in Fermo e Lucia, dove sembra esorcizzare la “passione d’amore” fuori dalla narrativa? Eppure si rivela un “drittone”, perchè la desta nel cuore del lettore indirettamente, attraverso l’urto con gli ostacoli. Ed ecco che il pudore, facendo temere anche i lontani riferimenti all’affetto, dona loro il fascino della sua presenza permeante: nel sogguardare la casa del promesso; nel distinguerne con trepidazione (attesa e timore) il passo che lo porta a farle visita in casa della madre; nell’evitarne l’aiuto che egli le offre premurosamente nei passi malagevoli in mezzo ai prati, durante la fuga dal paese. Ed ecco che la condotta sconsiderata di Renzo a Milano (captata anche al convento di Monza e riferita allegramente dalla portinaia: “è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete?”) serve da cartina di tornasole per rivelare il cuore di Lucia (“A Lucia, ch’era seduta,orlando non so cosa, cadde il lavoro; impallidì, si cambiò tutta...”). Ed eccolo, quest’amore inesausto, affiorare proprio in occasione del voto di verginità e nelle sue conseguenze, come il sommovimento del cuore al ritrovamento della corona del rosario, appesa al collo, che glielo ricorda; eccolo infiammato allo scontro con la balorda pedagogia di donna Prassede, che “tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non trovava miglior espediente che di parlargliene spesso”; rieccolo, disperato, all’incontro inatteso al lazzaretto con il promesso cui si sforzava di non pensare più. Parafrasando un’altra espressione di Manzoni[142], potremmo affermare: “Volete far sentire al massimo la potenza dell’amore? Cercate di non parlarne direttamente, ma di lasciarlo trapelare attraverso le sue traversie ed avversità”. Così, fin quando si tratta di sentimento, di sommovimento degli affetti legati all’amore sessuale. Ma quando si tratta di erotismo, del passo ulteriore che appartiene solo la matrimonio ed alla generazione, allora Manzoni diventa severamente reticente, anche se da questo suo silenzio rigoroso riesce a destare effetti artistici inattesi: è il caso di quella vicenda dissennata tra Geltrude ed Egidio, che passerà dal rapporto libertino e sacrilego al pugnalamento delle tre suore converse addette al servizio della “signora” (ed una ne morrà), per aver esse minacciato uno scandalo; che finirà con la punizione tragica (condanna a morte di lui; reclusione a vita per lei). Ebbene, tutta questa relazione è lasciata intuire dal Manzoni, nel c. 10, con una frase degna di Dante[143]: “La sventurata rispose” (alle sollecitazioni di Egidio, cioè, nella storia, di Gian Paolo Osio). Il seguito è accennato dallo scrittore nello sdegno della condanna: “Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può aver inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che il primo passo in una strada di abominazione e di sangue” (c. 20). Per comprendere il legame tra amore (anche sessuale) e carità, dobbiamo tener presente la differenza fra l’amore attivo e quello passivo. Parlando genericamente, diremo che il primo è sperimentato come fatica, sofferenza, sacrificio (per cui “ nessuno ha un amore più grande di colui che dona la vita per la persona amata”: Jo, 15, 13), mentre il secondo è percepito come soddisfazione emotiva o addirittura come piacere fisico (sensualità). Non che, per questo, si debba affermare che solo il primo è lecito e santo, mentre il secondo è peccaminoso ed immorale. No, la distinzione è invece quest’altra: l’amore attivo è segno sicuro di maturità, di crescita e fisica e morale; l’amore passivo è segno sicuro della finitezza dell’uomo e del suo bisogno di altre persone per sopravvivere, crescere, perfezionarsi: si pensi alla condizione estreme di questa necessità di “amore passivo” negli infanti e nel declino senile, sino al morbo di Alzeihmer. E’ un egoismo non necessariamente peccaminoso, ma sempre umiliante: stigma della nostra perenne immaturità o contingenza, relatività o dipendenza metafisica. Ma che cosa è l’amore attivo, che coincide con la carità?[144] E’ una virtù che, essendo superiore persino alla giustizia[145], deve definirsi come “volontà di bene in assoluto, cioè come un fare il bene anche a costo di non avere il contraccambio”. Orbene, se l’amore di amicizia e quello ispirato dalla religione sono, per lo più, puro amore attivo, cioè carità, l’amore sessuale presenta il caso più clamoroso di ambivalenza: è un amore che, perfezionato nel matrimonio e nella paternità|maternità induce abitualmente ad uno scambio disentimento e prestazioni che sono un dare ed un ricevere gratuitamente: ognuno dei due sposi dà per amore-carità e riceve con lo stesso criterio. Questo, se i due sposi sono davvero innamorati: che non significa sentimentalmente commossi, ma volitivamente perseveranti nella scelta di volere il bene l’uno dell’altra, anche a costo di non avere il contraccambio, per sempre (comprendendo anche l’amore per i figli, naturalmente). Ne consegue che nel matrimonio è difficle sapere fin dove regna la giustizia o prevalga l’amore attivo: bisognerebbe (con Alfieri) aprire una “finestrella” e guardare dentro a quel “guazzabuglio” del cuore umano. Questo discorso si è fatto per dire che nel romanzo, l’amore di Renzo e Lucia diventa tanto più affascinante, quanto più testimonia la perseveranza dell’amore in Renzo, quando non ha più il contraccambio di Lucia; e ne fa trasparire il perdurare anche in Lucia, nonostante l’ingenua rinuncia per amore di Dio, attraverso il voto alla Vergine. Insomma è davvero un “volere il bene l’uno dell’altro” (a livello ed emotivo e volitivo, per Renzo; a livello emozionale, anche se non più volitivo, per Lucia), pur non essendoci più probabilità di accettazione|corrispondenza. Cioè, nel nucleo centrale stesso del romanzo amore sessuale e carità si incontrano e vengono a coincidere. La cosa si lascia sospettare anche per la coppia del sarto e di sua moglie: la unanimità di intenti ed affetti si rivela nelle smozzicate battute tra i due, appena lui torna dalla chiesa (“Benone: ti racconterò poi tutto”; “Sì, sì, con comodo”: c. 24). Se la discreta amorevolezza della moglie la si è già esaminata, si può appaiarla qui con la effusiva cordialità del sarto: “ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo su questa casa...”. Tanto che lo scrittore finirà per dire: “...tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand’amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri sono buona gente?” (c. 25). Meno facilmente si può sospettare una simile congiunzione di idee e sentimenti in don Ferrante e donna Prassede: qui è la sola volontà, anzi la nuda fede che tiene uniti due individui, opposti in tutto eccetto che nella scarsezza di senso critico. La madre di Cecilia testimonia ormai di un altro amore: è quello sì materno, ma che trasfigura il suo animo nella luce di Dio, in cui solo ormai vive la sua piccola e dove aspetta anch’essa (e un altro figlioletto?) di essere ricevuta in breve tempo: “poi voltandosi di nuovo al monatto, -voi- disse, -passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola” (c. XXXIV). E la madre di Cecilia ci permette il trapasso alla carità (amore attivo prevalente od assoluto), su cui il romanzo è ordito, senza perdere di fascino artistico, anzi nutrendosene per un’espressione verbale sublime: fino a far sospettare che il vero e il bene sono così affini al bello da costituirne una sorgente privilegiata, molto più connaturale che non il male ed il falso.[146] Non si tratterà ormai che di elenchi, perchè il romanzo è stato già frugato in molti suoi episodi centrali e risvolti marginali. Lucia, fra Cristoforo ed il cardinal Federico Borromeo sono i personaggi più rappresentativi della carità eroica. Lucia, il cui amore religioso raggiunge il suo zenit nel voto di verginità, rivela il posto che la carità occupa nel suo cuore anche con il suggerimento all’innominato: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!” (c. 21). Il cardinal Federigo rivela il predominio della carità nella sua vita, anzitutto attraverso una vocazione al sacerdozio che, manifestatasi fin dalla puerizia, supera la crisi dell’adolescenza con una perseveranza ammirevole e vive al servizio di Dio e del prossimo con una coerenza invidiabile. Le sue opere (c. 22) ne sono testimonianza concreta; i suoi ragionamenti con don Abbondio per sradicarlo dalla sua vile paura, benchè invenzion del Manzoni, ne sono espressioni troppo coerenti. Eccone degli stralci dai cc. 25 e 26: “E quando vi siete presentato alla Chiesa –disse, con accento ancor più grave Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciava il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha detto che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe diaspiacre ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiamo la dottrina e l’esempio, ad imitzion di Cui ci lasciam nominare pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amor della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codese dottrine?” Al tentativo di difesa del povero curato “...E’ un signore quello, con cui non si può nè vincerla nè imapattarla”, il suo arcivescovo risponde: “E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandatao, un gionro, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato nè missione, nè modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoperati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo”. Federigo ha costretto don Abbondio a scovare un ultimo rifugio: “Il coraggio, uno non se lo può dare”. E’ allora che Federigo, mentre rivela l’errore originale di don Abbondio (l’essersi fatto prete per proteggere se stesso anzichè per salvare le anime), raggiunge la genialità delle definizioni sublimi: “E perchè dunque, potrei dirvi, vi siete impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi si siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perchè il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido...”. A proposito della peste, è chiamato in scena anche S. Carlo, che aveva vissuto in maniera così eroica quella del 1576-7, da lasciarle il suo nome. E Manzoni commenta: “Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perchè a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come il sunto di tutti que’ guai, perchè in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria...” Quanto a p. Cristoforo, basterebbe rivedere le frasi sue già da noi riportate, a testimonianza di una carità sempre pronta all’eroismo, desiderato anche come riparazione dell’omicidio e dell’odio che lo ha dettato. Fermiamoci ai due ultimi capitoli in cui compare nel romanzo. E spigoliamo. Renzo lo incontra e comprende che il padre è in piedi per sola forza di volontà, perchè la peste lo attanaglia. Alla domanda di Renzo “Come sta, padre? come sta?” la risposta rivela la preoccupazione per il prossimo, la prospettiva della carità più accessibile a Renzo: “Meglio di tanti poverini che tu vedi qui” (c. 35). Per Lucia, che è religiosamente molto più preparata e sa che la carità verso il prossimo nasce dall’amore verso Dio, la risposta alla stessa domanda, rimanda direttamente al Signore: “Come Dio vuole, e come, per su grazia, voglio anch’io”. E l’addio finale: “e’ già molto tempo che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo”. Accanto a loro, il barcaiolo ed il pesciaiolo del lecchese, il sarto e la sua famigliola, i cappuccini morti in servizio degli appestati e gli ecclesiastici della città di Milano, i molti generosi che donavano i mezzi per aiutare il mantenimento di medici, infermieri, monatti e malati al lazzaretto, tutta la gente che pregava la suono delle campane voluto dall’arcivescovo, convinta che nè il dolore nè la morte sono maledizioni, ma occasione per crescere come esseri spirituali, cioè come uomini e come cristiani. Meno eccezionali, più mediocremente sottomessi all’amore-carità, stanno anche Renzo, la vedova guarita dalla peste, il marchese erede di Rodrigo, donna Prassede e don Ferrante, Bortolo e quelle brave persone che aiutano a salvare il vicario di provvisione.[147] I
PIU’ SVARIATI GENERI DI LAVORO Al lavoro manuale Manzoni dedicò nella sua vita attenzione benevola e anche contributi pratici. Egli tentò di valorizzare il feudo di Brusuglio (Cormano):[148] “ebbe tra i primi l’ortensia...Estese la coltivazione della robinia pseudacacia. Faceva esperimenti sui grani, sulle fecole, tentò la cultura del cotone, dello zafferano, dell’arachide. Principalmente sui vini meditò, e nei suoi poderi piantò magliuoli di Borgogna”.[149] Anche può dirsi benefico per la diffusione in Lombardia di una specie particolare di acacia. Incoraggiò, inoltre, Marco Coen a seguire volentieri la via del commercio, impostagli dal padre, nonostante la sua attrattiva per la letteratura (lettera del 2 giugno 1832). Egli osserva con compassione la vita contadina, amareggiata dalla carestia: “possedeva Renzo un poderetto, che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastr con la fame” (c. 2). La cosa è più manifesta alla presentazione di padre Cristoforo che si avvia alla casetta di Agnese: “Lo spettacolo de’ lavorator sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor sementi, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi rischia cosa che troppo gli preme; altri spingeva la vanga come a stento, e rovesciando svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere” (c. 4). I contadini di don Rodrigo si presentano più come bravacci al servizio di un signore violento, che come semplici coltivatori di terre: “Appiè del poggio, dalla parte che guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccolo regno. Bastava passrvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese. Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da polvere. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo.” (c. 5). A lavorare la terra troviamo anche il console del paese dei “promessi”: “stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangìle...”(c. 8). Dei contadini si parla nel c. 28, in occasione della fame successa ai due anni di carestia: “Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’eran di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e i margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due di cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti, venivano alla città, come a sede antica ed ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza...”. Il viaggio di Renzo dal bergamasco verso Milano contiene due accenni alla vita contadina. Dapprima descrive l’abbondanza della campagna, dopo i due anni di carestia: “A mezzo circa della giornata, si fermò in un boschetto a mangiare un po’ di pane e di companatico che aveva portato con sè. Frutte, n’aveva a sua disposizione, lungo la strada, anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n’avesse volute; bastava ch’entrasse ne’ campi a coglierne , o a raccattarle sotto gli alberi, dove ce n’era come se fosse grandinato; giacchè l’anno[150] era straordinariamente abbondante, di frutte specialmente; e non c’era quasi chi se ne prendesse pensiero: anche l’uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed erano lasciati in balia del primo occupante” (c. 33). Poi viene, alla fine della sua visita al paese nativo, la descrizione della sua vigna (id.), che dà un saggio delle sue notevoli conoscenze botaniche. Un ultimo tocco per l’agricoltura coinvolge anche l’industria, perchè è di carattere economico generale e riguarda i dubbi sul come impiegare i soldi provenienti dalla vendita delle loro possessioni in paese, pagate profumatamente dall’erede di Rodrigo: “A vedere i progetti che passavano per quella mente (di Renzo), le riflessioni, l’immaginazioni; a sentire i pro e i contro, per l’agricoltura e per l’industria, era come se si fossero incontrate due accademie del secolo passato. E per lui l’impiccio era ben più reale; perchè, essendo un uomo solo, non gli si poteva dire: che bisogno c’è di scegliere? l’uno e l’altro, alla buon’ora; chè i mezzi, in sostanza, sono i medesimi; e son due cose come le gambe, che due vanno meglio d’una sola” (c. 38). Veniamo, allora, all’industria. Se ne parla anzitutto a proposito di Renzo: esercitava la professione di filatore di seta, ereditaria, per così dire, nella sua famiglia; professione, negli anni addietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese”. Anche Lucia lavora in filanda: è nel ritorno dal turno di lavoro che incontra Rodrigo ed Attilio, supera il tentativo di Rodrigo di trattenerla “con chiacchere non punto belle” e sente allora la scommessa che Rodrigo fa, punto dai commenti e dal riso di Attilio. Renzo finirà per emigrare anche lui, presso il cugino Bortolo, nel bergamasco, ma costrettovi dagli incidenti infelici della sua partecipazione ai moti di San Martino a Milano. Eccolo approdato: “Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri. –Il signor Bortolo?! eccolo là. -”. Dopo i primi saluti molto amichevoli, ecco Bortolo a descrivere la sua condizione: “il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senzza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotum... Ora ti condurrò al mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà buona accoglienza. Un buon bergamascone all’antica, un uomo di cuor largo. Veramente, ora non t’aspettava; ma quando sentirà la storia... E poi gli operai sa tenerli di conto, perchè la carestia passa, e il negozio dura....” (c. 17). La sorte delle industrie a Milano, durante l’inverno del 1628 e l’inizio primavera del 1629, sono accennate come una delle prime conseguenze della carestia pluriennale che oramai è giunta agli estremi (un’intera regione affamata): “A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte...” (c. 28). Alla fine, Renzo diviene socio di Bortolo come impresario: la peste lascia libero uno stabilimento, perchè il figlio del padrone morto non sa che farsene: coi soldi di Renzo, si raggiunge la cifra dell’acquisto e si ricomincia la vita nel nuovo paese: “Gli affari andavano d’incanto: sul principio ci fu un po’ d’incaglio per la scarsezza dei lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de’ pochi ch’eran rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest’aiuto, le cose si rincamminarono, perchè alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna” (c. 38). Ecco, più invadente, il commercio. Comincia quello delle stoffe, con il padre del futuro Cristoforo, la cui vicenda ci dice molto sui pregiudizi dell’epoca. Ludovico, dunque, “era figlio di un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore. Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto dimenticarlo anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’ombra di banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti.... Così il padre di Ludovico passò gli ultimi anni in agustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella professione l’aveva pur esercitata per tant’anni, in presenza del pubblico, e senza rimorso.” L’altro commerciante di stoffe (all’ingrosso, quello; questi, al minuto) è il mercante di Gorgonzola, tanto pratico e svelto nelle decisioni sugli affari propri, quanto semplicista e sbrigativo nei giudizi sugli affari pubblici. E’ un “filisteo”, cioè un uomo che tutti e tutto giudica dal punto di vista dei propri interessi. Che questi interessi poi siano sostanzialmente economici, lo rivela l’uso “assoluto” dell’aggettivo “puntuale” che dal senso ovvio di “educato e, perciò, fedele all’orario indicato” passa a significare, per il contesto, “pronto nei pagamenti della merce acquistata”. Così egli definisce Ludovico Melzi d’Eril, il vicario di provvisione, un suo cliente fedele (anzi, “puntuale”). Partendo da un simile punto di vista, egli ha della sommossa un’idea unilaterale, da meschino reazionario: da una parte sta tutto il male (diabolico, politicizzato,organizzato...); dall’altra tutto il bene (si ignora l’aumento del pane che riduce alla fame l’uomo della strada e l’arbitrio dell’autorità che arresta non i più colpevoli, ma i più ingenui). La stessa religione è per lui una controassicurazione per la sicurezza dei negozi e la certezza dei profitti. Gli è che, prima della sua ridicola mediocrità morale, vi è in lui una semplicità intellettuale che lo rende, nonostante tutto, simpatico, per la evidente inconsapevolezza del suo egoismo: “Stamattina dunque quei birboni che ieri avevavno fatto quel chiasso orrendo, si trovarono ai posti convenuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose preparate); si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girar di strada in strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con riverenza parlando, la casa; il mucchio del sudiciume ingrossa quanto più va avanti. Quando parve loro d’essere gente abbastanza, s’avviarono verso la casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signore dabbene, puntuale; e io lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree della servitù. S’incamminarono dunque verso quella casa: bisognava vedere che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che... i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da quelle bocche! da turarsene gli orecchi., se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il sacco, ma..- E qui, alzata in aria, e stesa al mano sinistra, si mise la punta del pollice alla punta del naso. –Ma?- dissero forte tutti gli ascoltatori. – Ma- continuò il mercante- trovarono la strada chiusa con travi e con carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparecchio.... Cosa avreste fatto voi altri?- -Tornare indietro.- -Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che, fin da ieri, avevan voluto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bnottega? si distribuiva pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi ce’ra chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu che piglio anch’io: in un batter d’occhi, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra. –E i micheletti?- -I micheletti avevan la casa del vicario da guardare; non si può mica cantare, e portare la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che ce’ra di buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portar il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta vien fuori. –Che cosa?- Di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto...- –Ci han dato fuoco?- -Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un’ispirazione dal cielo. Corse su nelle stanze, cercò un Crocifisso, lo trovò, l’attaccò a un archetto d’una finestra, prese da capo d’un letto due candele benedette, le accese, e le mise sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In un Milano, bisogan dirla, c’è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sè. La più parte, voglio dire. c’er bensì de’ diavoli che, per rubare, avrebbero dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ora chi arrivò all’improvviso. Tutit i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor Mazenta, arciprete cominciò a predicare da una parte, e monsignor Settàla, penitenziere, da un’altra, e gli altri anche loro: ma brava gente! ma cosa volete fare? ma è questo l’esempio che date a’ vostri figliuoli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso sulle cantonate...”. Egli aggiunge, alla fine trionfante: “C’è che, ier sera o stamattina che sia, ne son stati agguantati molti; e subito s’è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d’esser del numero. Milano, quando ne sono uscito, pareva un convento di frati.” Alle due domande dei curiosi ( “Gl’impiccheranno poi davvero?” “E la gente cosa farà?” ) egli risponde imperterrito: “Eccome ! e presto” e “La gente? La gente anderà a vedere. Avevano tanta voglia di veder morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della buona morte; e gente che se l’è meritato. E’ una provvidenza, vedete; era una cosa necessaria. Cominciavano già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano... Pensate se color volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro.” Dal principio del discorso alla fine (tralasceremo la coda riservata alla presunta “lega” o congiura, di cui una prova ed un adepto sarebbe il povero Renzo con il suo “fascuio di lettere”) l’uomo è immutato: non s’accorge che tutto il suo giudizio su uomini ed accadimenti ruota sul suo tornaconto: politica, religione, girisprudenza, tutto è a servizio della sua tranquillità e dei suoi traffici. Non è questione di classe borghese o meno. In ognuno di noi è in agguato non il nobile od il borghese, non il fascista od il rivoluzionario, ma l’egoista che può generare, a secondo degli interessi emergenti o della opinione dominante, il conservatore filisteo o l’anrchico sognatore (il fascista è dentro di noi” direbbe Elsa Morante per la bocca di Davide ne “La Storia”); ciascuno di noi può riuscire tirannico ed omicida, perchè la radice è “quel “benedetto istinto di riferire e di subordinare tutto a noi medesimi! (c. 33). E potremmo finire qui l’elenco dei “commercianti”, perchè l’agiata mercantessa, compagna di Lucia al lazzaretto e, poi, fino al suo matrimonio con Renzo, è una figura che non ha molto rilievo nè come commerciante nè come personaggio del romanzo. E’ poco significativa perchè molto “romanzesca” e poco verosimile: figura non solo non necessaria, ma neppure di qualche utilità alla vicenda. A meno che non servisse a sottolineare la frequenza (e prevalenza, si può sospettare) della gente buona, in ogni strato del secolo diciasettesimo; e la simpatia che Lucia sapeva destare nelle persone dabbene, che avessero l’agio di conoscerla un po’ a fondo. [151] Ma i commercianti, che han più esercitato nel Manzoni la propensione a dipingere la medicocrità umana e la tentazione a divertircisi a fondo, sono gli osti. [152] Si comincia con quello del paese nativo dei due promessi: la sua prosopopea (autopresentazione) è altrettanto cinica, anche se un po’ meno brutale, che quella del dottor Azzeccagarbugli: “-Sapete bene, -rispose colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola- che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandar i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose. Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene; è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta sapere che gli avventori sono galantuomini: chi siano, poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate-“ (c. 7). Se di Renzo, che torna alla carica con una domanda praticamente dilemmatica (“Come potete sapere- riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire,-che siano galantuomini, se non li conoscete?”) si potrebbe dire all’oste, dantescamente: “Tu non pensavi ch’io loico fossi”[153]; dell’oste, si dovrebbe allora pensare che “avea lacciuoli a gran divizia”. L’oste, infatti, snobba la domanda, con una risposta cinicamente professionale e, quindi, logicamente inattaccabile: “ Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su liti con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini...”(id.). Avvenuto il tentativo di rapimento di Lucia, con il fracasso conseguito allo scampanare di Ambrogio, l’oste si conferma proteo inafferrabile: “Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare” (c. 11). Il maestro della categoria è però l’oste milanese della luna piena. E’ più cupo di quello precedente, tanto che neppure le sue battute di cinismo professionale sono allegre, ma risentite, colleriche. Ma ma è anche più diplomatico, più acuto ed avveduto del collega lecchese. Abbiam già visto la sua vittoriosa battaglia con l’altra piccola volp che è il notaio criminale. Ma fin dalla presentazione, le sue virtù specifiche e i suoi difetti di fondo vengono a galla: “l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino (sic), occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò al runore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista che ebbe la guida, -maledetto- disse fra sè: che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!- Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse ancora tra sè: -non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai; quando avrai detto due parole, ti conoscerò.- Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi” (c. 14). Fa i convenevoli ai due avventori; fa servire dello stufato e un fiasco di vino buono a Renzo, cui non manca nè fame nè sete; nega di avere pane, quando le botteghe erano state svaligiate (o, meglio, quando l’averne significava dover rispondere della sua legittima provenienza); e porta il registro per segnarvi i dati dei clienti che desiderano passare la notte alla locanda. Al rifiuto dell’ingenuo avventore di declinare i dati anagrafici, sostenuto dal coro degli altri presenti, esaltati dal successo delle conquiste... proletarie della giornata memorabile, egli si rivolge alla spia: “Cosa devo fare?”- disse l’oste, guardando in faccia quello sconosciuto, che non era tale per lui.” Quando questi suggerisce di lasciar cadere per l’occasione quelle formalità, egli commenta “Ho fatto il mio dovere, -disse l’oste, forte; e poi tra sè: -ora ho le spalle al muro.- E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone... e ritornò a sedere sotto la cappa del camino (esatto, stavolta!). –Altro che lepre!- pensava, istroriando di nuovo la cenere: –e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga, ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie-” (c. 14). Inutile riportare il brano in cui l’oste convince Renzo a muoversi per salire alla camaera a dormire, a pagarlo ed a mettersi a letto: riportiamo soltanto le osservazioni che più rivelano la avvedutezza dell’uomo. Ecco, dapprima, un accorgimento andato a vuoto: “L’oste, che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del soltio a cambiar parere, volle approfittare di quel lucido intervallo, per fare un altro tentativo” per farsi dire nome e cognome dell’avventore, da denunciare, ormai. Ma ecco, in seconda battuta, una operazione legittima ma significativa della capacità a difendere i propri interessi: “Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero?- disse. –Buon figliuolo, galantuomo, -rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potutto levare. –Bene, -replicò l’oste: -saldate dunque quel poco conticino, perchè domani io devo uscire per certi miei affari...- -Quest’è giusto, -disse Renzo- Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari? Andare a cercarli ora!- -Eccoli qui, -disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi”. Si continua con il rimuginare collerico e preoccupato, mentre si accomiata da Renzo addormentato (“ Pezzo d’asino!... sei andato proprio a cercartela. Domani poi, mi saprai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo”). Altra spia acutissima dell’avvedutezza dell’uomo sono (prima di uscire a far la denuncia dell’avventore, renitente a dichiarare le proprie generalità), le raccomandazioni alla moglie, bisbetica non domata, ma tollerata ormai dal marito, che finge di non sentire le sue proteste di posseduta prudenza e, a buon conto, la istruisce ancora una volta (“occhio a tutto, e soprattutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne dicon di tutti i colori... e badar che paghino; e tutti quei discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri di Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perchè, se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più gorsse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, e dire: -vengo-; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte...”). E la espressione di una furbizia, ormai divenuta seconda natura, continua nel breve cammino verso la sede della giustizia, prima di concludersi nelle fiorettature col notaio criminale. E’ un dialogo con l’assente Renzo, quello dell’oste: “Testardo d’un montanaro!... Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir tu sulla fine a gaustarmi l’uova nel paniere. Manca osterie a Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intendere la ragione. Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia di un bargello, per far meglio!- ... A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia disoldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sè: -eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in cantraccambio, c’è mancato poco che non m’hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio; per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome per una mia curiosità! Cosa m’importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolomeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri solo a voler le cose a modo vostro. Lo so acnh’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sai tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernari ed altri, come sopra, di trecento scudi: sì, son lì che covano trecento scudi; e per ispenderli così bene; da essere applicati, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cécino! ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena pecuniaria o corporale, all’arbitrio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie.” La commedia delle due piccole volpi, il notaio criminale nel ruolo dell’accusatore inutilmente sottile e malizioso; e l’oste in quello dell’imputato avveduto, che dal tentativo di incriminazione se ne esce netto e sicuro, ce la siamo già goduta: il notaio criminale subisce la sua prima sconfitta, che potremmo definire tattica, che prelude a quella clamorosa, strategica da parte di Renzo, il giorno dopo. Il terzo oste non regge al confronto. E’ una ostessa (assente il figlio) che offre pane e stracchno a Renzo sul mezzogiorno della fuga; è più candida di Renzo e si lascia sfilare da lui le notizie utili a proseguire il viaggio con più sicurezza, senza sospettare del suo stato di fuggiasco disorientato. Quello di Gorgonzola, invece, è tale da far uscire Renzo nel giudizio iracondo eppur ammirativo: “Maledetti gli osti! Più ne conosco, e peggio li trovo.” Questi ha infatti le orecchie rizzate e non appena Renzo accenna a domandare notizie circa un passaggio dell’Adda diverso da quelli ufficiali, subito si insospettisce. Renzo ha cercato una motivazione che sperava decente e, quindi, lungi dal destare sospetti: il bisogno di arrivare al fiume in fretta, per mezzo di una scorciatoia. Ma ci vuol altro per trarre in inganno gli uomini di quel mestiere: “ -Ce n’è di sicuro,- rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni di una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morire tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate...” (c. 1b). Della trattoria nel Bergamasco, ove si ferma a mangiare prima di incontrare il cugino Bortolo, non ci sono note particolari: Manzoni ha ormai detto tutto quello che aveva in testa sulla gente di quel mestiere. Ha calcato un poco la mano ed ha generalizzato alla grande, per rendere comico un discorso che ha pur rivelato verità ovvie, senza mancare di accennare anche alle troppe ragioni che il mestiere esige per poter semplicemente essere condotto avanti: la furbizia non è solo condizione per prosperare, ma semplicemente per sopravvivere. Gli ultimi grandi artigiani-commercianti ad entrare in scena sono i fornai e più come vittime della folla scatenata l’undici novembre di quel 1628, che come propri attori del loro mestiere. Siamo ai capitoli 11-13 del romanzo. A dir il vero vi è un secondo punto di vista da cui è osservato il loro prodtto, il pane; ma è di carattere generale e teorico: la legge economica della domanda e della offerta, che ne stabilisce inesorabilmente il prezzo. Non è che Manzoni trascuri la terminologia del mestiere. Si comincia con le pale (che i fornai minacciano di gettare nel forno, smettendo il mestiere, se il calmiere sul prezzo non viene abolito dai governanti, visto che essi sono costretti a perderci, mentre il popolo chiede pane in misura sovrabbondante, “sentendo in confuso che l’era una cosa violenta”: c.12). Si prosegue con le gerle dei garzoni (che portano il pane ai clienti che possono farselo servire in casa) e col canovaccio che ve lo copre. E, quando la folla insacca nel “forno delle grucce”,[154] Manzoni chiama per nome molti attrezzi (i sacchi, le madie, il burattello –setaccio-, i cassoni, il frullone, la gramola...[155]), che finiranno poi nel falò di piazza duomo, facendo pensare all’ancor sobrio Renzo “Questa poi non è una bella cosa: se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”. E cita alcune operazioni del lavoro dei fornai: “Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa” (id.). Ma, del resto, li osserva nel vano (e violento) tentativo di difendere il forno degli Scanzi (disselciando un cortile e gettandone le pietre sul popolo che sta sforzando la porta, chiusa in fretta all’arrivo del fiume di folla inferocita (“più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti”); e poi li fotografa mentre “uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti” (ib.) per uscire a salvamento. Negli altri forni, intanto, essendo la gente accorsa in numero trattabile o “i padroni avevan raccolto degli ausiliari, e stavan sulle difese”; oppure, “trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati ad affollare davanti alle botteghe, con questo che se ne andassero” (ib.). Il pane che Renzo compera a Monza, di rientro dal bergamasco per recarsi a Milano in cerca di Lucia (c. 33) non è più il pane della carestia, ma della peste: “davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise in tasca”. Il “pane del perdono” di fra Cristoforo, ottenuto dal fratello dell’ucciso (c. 4) e lasciato in eredità a Lucia (c. 36) non è parte di un “mestiere”, ma di una consacrazione e di una missione. LA CUTURA E LA VITA DI STUDIO. Gli studiosi nel romanzo sono tre o quattro e, se non ci fosse Federigo a salvarli, sarebbero un gruppuscolo di gente ridicola e fastidiosa. E’ impossibile non sospettare che il Manzoni volesse canzonare anche se stesso, sapendosi tanto adatto al pensiero quanto inetto alla prassi. Primo fra tutti, vi è il presunto autore della Introduzione, il quale ha tante cose da insegnarci. A suo tempo abbiamo già accennato alla rivalutazione della gente umile, come concausa nelllo svolgersi della storia umana; a suo luogo si parlerà del problema della lingua, che si impone al momento di decidere quale sostituire al secentismo dell’anonimo. Qui dobbiamo prender atto di un altro messaggio, solo sottinteso: la cultura, intesa nel senso stretto di attività intellettuale pura, non è un assoluto, come il “bene” operato dalla volontà, libera dall’allettamento di istinti-emozioni; diventa un bene, solo se è indirizzata a cercare ed esprimere la verità, ad edificare e diffondere la giustizia, cioè se inquadrata nella legge morale. Altrimenti può avenire come all’anonimo secentista, che usa la cultura come strumento di vanità, risultando“rozzo insieme ed affettato”; e rivelandosi parte di un ambiente “sudicio e sfarzoso”, almeno sul piano sociale. Manzoni, perciò, canzona impietosamente la cultura-sfoggio, la scrittura-meraviglia, la parola-gioco, quel certo modo di pensare, parlare e scrivere che pure aveva avuto un corso trionfale nel secolo 17, almeno in quella parte d’Italia governata od influenzata dagli Spagnoli. E ce ne dà un’idea sintetica nella congerie di immagini sproporzionate, scriteriate, frutto di una “rettorica” grossolana e sbracata; e negli “Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati”. La prima immagine, acuta ma ridicola, verte sul significato della storia (paragonata ad un potere di risurrezione): “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perchè togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia”. La seconda, vuol dirci chi sono gli storici (illustratori delle vicende più clamorose dell’umanità): “ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi e trapontando con l’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose”. Ed ecco la terza immagine: il contesto della sua umile storia, riservata alle “gente meccaniche, e di piccol affare”, è come la scena di un teatro che chiama in causa il mondo intero: “... si vedrà in angusto teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche”. Un bengala di immagini segue per elogiare i potenti del giorno (anche per ottenere il nulla osta alla stampa?), nonostante che i fatti descritti testimonino l’insuccesso del loro governo: “E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re cattolico, nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplisimi Senatori quali stelle fisse..., altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica...”. Quanto alla ortografia, ognuno vede gli strafalcioni dei raddoppi arbitrari di consonante (deffinire, Arringo, Attioni, malvaggità, staggione, diggiuna...); della “Z” scritta come “T” per sfoggiare la conoscenza del latino, dove spesso assume tale forma; della “V” traformata in “U” per la tradizione manoscritta antica (cadaueri); della “H” conservata sempre per imitare la lingua latina (huomini, hauendo) . Per le improprietà linguistiche, vi è “amparo” (protezione) dallo spagnolo, “oricalchi” dalla lingua poetica, “gente” come plurale, “buontà”, nonostante che la “O” breve latina non sia accentata (come in “buono”), ecc. Per i solecismi[156], “solo che le sole”, “sijno”, “se non se” “vederanno”, “abbench蔓imperciocchè”... Alla cultura-vanità e sfoggio dell’anonimo, segue quella “passatempo” di don Abbondio, la cui domanda “Carneade! Chi era costui?” apre in modo indimenticabile l’ottavo capitolo. La domanda tradisce i limiti del povero prete, che difatti leggeva solo per combattere la noia: “Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino al giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani”. Autoironia è sicuramente presente nell’elogio-canzonatura del segretario del cardinal Federigo, sulla cui mula don Abbondio deve ascendere, per accompagnare l’innominato convertito al suo castello. Per tranquillizzare le paure del timido curato, chi gliela elogia come animale tranquillo, gli dà questa stupefacente garanzia: “Si figuri –rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno- è la mula del segretario, che è un letterato” (c. 23). Canzonatura che è da avvicinarsi a quella, più impudente ancora, avanzata dallo scrittore a proposito della battuta di Renzo sui “poeti”, all’osteria della luna piena (“To’ –disse Renzo- è un poeta costui”)[157]: “Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo... poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a fra dir loro le cose pù lontane dal loro legittimo significato!...” (c. 14). D’altronde, a che serve mai la poesia? Ecco la bella riuscita del sonetto famoso di Claudio Achillini “Sudate, o fochi, a prepara metalli”, che il poeta scrisse al re di Francia Luigi XIII, perchè liberasse l’Italia dalla dominazione spagnola e proseguisse poi la spedizione, portandosi a liberare la Terra santa. “Ma è un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima” (c. 28). Una cultura e uno studio fecondi, per la salute del corpo e per la onestà della vita, è certamente quella del protofisico Ludovico Settàla, di cui Manzoni parla come medico praticante, come professore di medicina a Pavia e e come docente di filosofia morale a Milano, celebre fino a venir chiamato ad insegnare in varie università europee (c. 31). E certamente ricco di frutti fu la cultura di Federico Borromeo, che “intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrare gli ufizi divini, stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo” (c. 23). Però, la importanza della cultura di Federigo non sta nella profondità del pensiero, ma nel fatto che essa contribuiva a formare una personalità equilibrata ed armoniosa, paternamente autoritaria, generosamente dedita all’ufficio pastorale affidatogli, così da costituirlo un esemplare vescovo cattolico, anche se non candidato alla canonizzazione, come il cugino Carlo. E’ così che egli fonda la Biblioteca ambrosiana e scrive di suo parecchie opere (“trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arte e d’altro”: c. 22). Ma è lo stesso Manzoni a chiedersi: “Come mai... tante opere sono dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate?...” Pur ritenendo ragionevole la domanda, lo scrittore non dà una risposta, appellandosi alla complessità delle ragioni che rendono famosi od ignorati i libri ed i loro autori. (id.). Ci irmane ancora il re della erudizione inutile[158], perchè uomo non solo mancante di senso pratico (come lo abbiamo già definito), ma privo anche di spirito critico in quella attività che egli si era scelta come sua propria, cioè la lettura e l’acquisto di cognizioni: Difatti, “Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio” (c. 27): ma è fatica buttata al vento, o per la natura stessa delle materie privilegiate (astrologia, magia, stregoneria, scienza cavalleresca), o per la complessiva incapacità di leggere criticamente le sue fonti di informazioni, che accettava supinamente (da Aristotile ad Alberto Magno, da Gerolamo Cardano a Giambattista della Porta) o per la balordaggine nel giudizio sui libri anche contemporanei che leggeva, vuoi di storia, vuoi di scienza politica. Se un guizzo di intelligenza critica c’è nelle sentenze sul valore delle opere di Machiavelli (“mariolo sì, ma profondo”) e del Botero (“galantuomo sì, ma acuto”), questo lo si deve forse più al suo senso morale che alla acutezza intellettuale, tanto che ai due finisce per preferire Valeriano Castiglione, che, con il suo libro“Lo statista regnante”... rimane un illustre ignoto. Contro questa acrisia incorreggibile, Manzoni scaglia le sue frecciatine ironiche. Così, nel campo dell’astrologia, gli attribuisce con la maggior serietà del mondo la conoscenza professionale (“come dalla cattedra”) “delle dodici case del cielo, de’ circoli massimi, de’ gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di transiti e rivoluzioni, de’ princìpi insomma più certi e più reconditi della scienza, per soggiungere “Ed eran forse vent’anni che, in disoute frquenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l’hanno chiara che la vedrebbe ognuno...” (c. 27). Per la filosofia sistematica (teoretica), la sua scelta di campo è quanto mai prammatica, teoreticamente gratuita: “Siccome però que’ sistemi, per quanto sien belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è nè antico nè moderno; è il filosofo”.[159] Non staremo a seguirlo ulteriormente nelle sue pur divertenti sentenze su libri e autori: basti aver avuto un saggio della insignificanza di una cultura che ha perso la bussola del senso critico e, quindi, anche della saggezza esistenziale (della moralità nell’impiego del proprio tempo): è lecito sprecare la vita attorno a letture e questioni del genere? Coerente è la morte per peste di questa macchietta acculturata: “In rerum natura –diceva- non ci sono che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esere nè l’uno nè l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicchè è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perchè, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perchè bagnerebbe e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perchè brucerebbe. Non è terrea; pechè sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perchè a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha mai veduto? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; chè questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidnete non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitare questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, danno in Cariddi: perchè, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci...?- -Tutte corbellerie- scappò fuori una volta un tale. –No, no –rispose don Ferrante: -non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoperare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, foruncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a vedere di dove vengano”. A questo punto, Manzoni inserisce quella nota sulla forza persuasiva dei dotti nei confronti degli ascoltatori, che si è già riportata in sede di studio delel analisi psicologiche. Sentiamo la finale dei suoi ragionamenti “ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione”[160]: “La c’è pur troppo la vera cagione... e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria.. La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino...? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian gli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?... Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedire l’effetto virtuale de’ corpi clesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?. His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto a morire come un eroe del Metastasio, prendendosela con le stelle.” (c. 37).
L’ATTIVITA’
POLITICA Una coscienza così profondamente cristiana, che pensava e scriveva “non ci essere giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio” (c. 22), costituiva un parametro così esigente, da giustificare il rimprovero acerbo anche contro un uomo come Ambrogio Spinola, non solo grande, ma anche degno di rispetto per l’ingiusto trattamento ricevuto in contraccambio dalla Spagna, al cui servizio tante prodezze aveva compiute: “La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balia”. (c. 31). Non ci meraviglieremo, quindi, se la classe politica esca dalle opere del Manzoni piuttosto malconcia. Già nel Carmagnola
l’attività politica è vista come opera soggetta ad errori, sospetti,
eccessi di prudenza, ingiustizie
somme. Il governo della Serenissima
giudica traditore Francesco di Bussone e lo fa decapitare,
per un insieme di fatti[161]
che al Manzoni paiono non probanti, mentre giudica prove d’innocenza altri
particolari, a cominciare dalla totale fiducia con cui il Carmagnola si reca a
Venezia, invitatovi per esser consultato circa la pace. Nell’Adelchi,
Desiderio, re dei Longobardi, è il re che,
per vendicare l’onta del ripudio della figlia Ermengarda da
parte di Carlo Magno, vuol costringere papa Adriano a consacrare re di
Francia i figli orfani di Carlomanno, cui Carlo aveva usurpato la successione al
padre. Al rifiuto di papa Adriano, ne invade alcune terre (oltre quelle già
tenute arbitrariamente), costringendo il papa a rivolgersi alla Francia per
salvarsene: la rivelazione di un passaggio per le Alpi, permette di superare le
fortezze delle Chiuse di Susa, che le prodezze di Adelchi rendevano
imprendibili. L’Italia è occupata e Desiderio fatto prigioniero. Tra questi e
il suo vincitore, chi scegliere? Non sono tutti e due parte di “una rea
progenie| degli oppressor...| cui fu prodezza il numero,| cui fu ragion
l’offesa,| e dritto il sangue, e gloria| il non aver pietà”? Manzoni,
ovviamente contrario alla politica aggressiva di Desiderio, lascia intendere il
suo giudizio non lusinghiero anche sul re dei Franchi, prossimo sacro romano
imperatore: egli si schiera, infatti, per la fedeltà anche in sede politica,
contro il tradimento di Svarto e Guntigi; sta dalla parte di Rutlando, contro
Carlo che chiama “prodi” i pìncipi
longobardi passati al suo servizio (e poi finge di pentirsene: Adelchi, III, 6);
parteggia per Adelchi sconfitto, facendo elevare, dallo scudiero Anfrido,
morente, un elogio commovente “Al ciel diletto| è Adelchi...|| regnante o
caduto, è tale Adelchi,| che chi l’offende, il Dio del cielo offende| nella
più pura immagin sua...” (id, 7). In verità, il fruitore dell’opera che
non conosce i particolari della figura storica del protagonista, resta male
quando l’autore gli rivela, nelle Notizie
storiche premesse alla tragedia: “Il carattere però d’un personaggio,
quale è presentato in questa tragedia, manca affatto di fondamenti storici: i
disegni d’Adelchi, i suoi giudizi sugli avvenimenti, le sue inclinazioni,
tutto il carattere in somma è inventato di pianta, e intruso tra i caratteri
storici, con un’infelicità, che dal più difficile e dal più malevolo
lettore non sarà, certo, così vivamente sentita come lo è dall’autore”. Di Napoleone, Manzoni non esita a riconoscere, ne “Il
Cinque maggio”, le virtù e militari
e politiche, ma si riserva il
giudizio finale, che deve essere fondato sulla moralità della vita e privata e
pubblica: solo il pentimento e la conversione decidono il poeta a chiedere il
rispetto alla figura di chi aveva pur retto, da solo, contro gli eserciti di
tutta Europa e le aveva dettato legge dal 1796 al 1814: “Fu vera
gloria?”||... ||“Tu dalle stanche ceneri| sperdi ogni ria parola:| il Dio
che atterra e suscita,| che affanna e che consola| sulla deserta coltrice|
accanto a lui posò”. In questo, Manzoni si eleva all’altezza di Dante, che
ammira bensì Farinata, Brunetto Latini, il conte Ugolino e
vari altri personaggi per tante doti umane, ma li danna senza esitazione
all’inferno per i loro peccati. Nel romanzo, pochissimi politici si salvano da un
giudizio di condanna: troppa ambizione e soddisfazione del comando, troppo
disinteresse per il bene pubblico, nella più gran parte di essi. Ma (proprio
per questo? Manzoni nè lo dice nè lo lascia intendere) si tratta di politici
fallimentari. E’ nota, in proposito, la tesi del Manzoni sulle cause del
successo o fallimento nelle imprese storiche, difesa fino agli ultimi giorni
della sua vita nella riflessione sulle somiglianze marginali e sulle differenze
sostanziali tra la rivoluzione francese ed il risorgimento italiano. Il
fallimento della prima fu dovuta alla sua immoralità, per l’impiego della
violenza per nulla necessaria ai fini (sostanzialmente giusti) prefissi; la
riuscita del secondo sta proprio
nel fatto che l’impiego della guerra fu
uno strumento inevitabile, data la volontà di ingiusta oppressione, presente
nell’impero asburgico rispetto alle popolazioni italiane. Così la
destituzione di don Gonzalo per l’insuccesso nella guerra contro Casale,
potrebbe essere vista come conseguenza della volontè di conquista e di fama, da
Manzoni creduti presenti nel governatore di Milano. Ecco come parla dapprima
allegramente, della guerra del Monferrato: “Don Gonzalo, ch’era della
casa del gran capitano, e ne portava il nome[162],
e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltre modo di condurne una
in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perchè questa si
dichiarasse;[163]
e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini..., aveva
concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del
Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente
la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole
l’acquisto di Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re
di Spagna.... Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato;
don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci
trovava tutta quella soddisfazione che s’era immaginato: che non crediate che
nella guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a seconda dei suoi
desideri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato
l’aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava
spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna.... L’assedio poi andava male,
in lungo, ogni tanto all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante,
risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche
storico, per i molti spropositi che faceva....”(c. 27).
Ma il discorso si fa drammatico, allorchè Manzoni deve prender atto
della incuria di don Gonzalo verso la salute del suo popolo quando, dal Tribunale di sanità, fu inviato a lui il medico Alessandro
Tadino, per presentargli “lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese se
quella gente vi passava per andare all’assediodi Mantova” (c. 28): “Da
tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran voglia
d’acquistarsi un posto nella storia, la quale infatti non potè non occuparsi
di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare
l’atto più degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella
circostanaza. Rispose che non sapeva cosa farci; che i motivi d’interesse e di
riputazione, per i quali s’era mosso quell’esercito, pesavano più che il
pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio,
e si sperasse nella Provvidenza” (id.). Ed ecco la sua fine, che ne I
Promessi sposi, sembra quella
definitiva[164]: “In quanto a don
Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n’andò da Milano; e la partenza fu
trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi successi
della guerra, della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo
incolpava della fame sofferta sotto il suo governo (quello che aveva fatto per
la peste, o non si sapeva o certo nessuno se n’inquietava...). All’uscir
dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia di
alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili
che gli facevano seguito, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch’eran
radunati sulla piazza del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata
la comitiva nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire,
cominciò a trovarsi in mezzo a una folla di gente che, parte era lì ad
aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di formalità,
non cessaron di sonare, dal palazzo di corte fino alla porta... La moltitudine,
che le guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava,
seguiva le carrozze, gridando: -la va via la carestia, va via il sangue de’
poveri-, e peggio. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar
sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorta, la munizione solita in somma di
quelle spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un’ultima
scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono” (ib.). Il
giudizio sul successore, Ambrogio Spinola, lo si è già letto. Ma il campione di simile viraggio egoistico della
politica è una figura
d’invenzione, il conte zio.
Di lui abbiamo già visto la psicologia, tutta volta a lasciare una impressione
di potere al di là del vero ed a
salire di un ultimo gradino in autorità, come finale piacere di una vita spesa
a servizio del proprio io. Anch’egli, in fondo, è un vinto: sconfitto dalla
malizia del nipote, Attilio, che lo introduce nel romanzo come strumento di
punizione alla “temerarietà” di p. Cristoforo, che aveva osato aggredire il
cugino Rodrigo “con la prosopopea del profeta Nathan” (c. 7): “...lo
servirò io di sicuro quel frate. Ci penserò, e... il signor conte zio del
Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Quanto mi diverto ogni
volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro!” (c.
11). Non è che il conte zio non sospetti colpe nei due nipoti, di cui conosce
la vita di vizi e prepotenze; ma l’attaccamento all’onore della famiglia lo
rende succube delle maliziose risposte del nipote. Così, nel c. 18, di fronte
al preambolo di Attilio (“Credo di fare il mio odvere, senza mancare alla
confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio d’un affare che, se lei non ci
mette una mano, può diventare serio, e portare delle conseguenze...”), egli
mette avanti le mani: “Qualcheduna delle sue, m’immagino...”. Ma Attilio
è un altro “ch’avea lacciuoli a gran divizia”,[165]
sicchè trova subito una risposta, la cui forza probatrice non è
solo la impudente fermezza con cui egli
mente, ma altresì l’attaccamento dello zio all’onore del casato, di
cui si sente il depositario e difensore: “Per giustizia, devo dire che il
torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è
che il signor zio che possa...”. Segue la favola di un p. Cristoforo
donnaiolo, introdotta con il
malizioso pudore di un diplomatico consumato:
“Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per
questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una carità
molto gelosa, sospettosa, permalosa”. Ma la storiella è creduta dal vecchio
che, benchè ormai fuori da simili passioni, si è abituato a giudicare tutti
gli uomini dal punto di vista della propria scapestrataggine giovanile e oltre.
“-Intendo- disse il conte zio: e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli
in viso dalla natura, velato poi e ricoperto a più mani, di politica, balenò
un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere”. Pure, troppo
conoscendo il costume (anzi il malcostume) dei nipoti, ha un nuovo sussulto di
prudente sospetto, di fronte alla rivelazione dell’interesse che per tale
ragazza ha anche Rodrigo. Alla dichiarazione di Attilio: “Ora, da qualche
tempo... s’è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che
disegni per questa...” interviene precipitosamente: “S’è cacciato in
testa, s’è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e
ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie.”
Attilio ammette qualcosa di accidentale, per rendere credibile la testimonianza
di innocenza sostanziale del cugino: “Signore zio, che Rodrigo possa aver
fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei
lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son
bazzecole da non trattenere il signore zio: il serio è che il fretae s’è
messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli
contro tutto il paese...”- . Ed ecco affiorare il tallone d’Achille del
politico, interessato al potere proprio ed alla reputazione della famiglia,
anzichè al bene di chi gli è affidato “in cura, anzi in balia”. “-
M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote- -Se lo sa! Anzi questo è
quel che gli mette più il diavolo addosso.- -Come? come?- -Perchè, e lo va
dicendo lui, ci trova gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perchè questo ha
un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride
de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate
anche le spade, e che...- -Oh frate temerario! Come si chiama costui?- -Fra
Cristoforo da***- disse Attilio.... .è sempre stato di quell’umore, costui:
si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva
competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla vincere con
tutti, ne ammazzò uno: onde, per iscansar la forca, si fece frate.- -Ma bravo!
Ma bene! la vedremo, la vedremo- diceva il conte zio, seguitando a soffiare.” Possiamo fermarci qui: Attilio si trova preparata la
ciliegina, a coronamento del bel pasticcio da lui già cucinato a puntino, dallo
stesso Renzo, che aveva lavorato, il giorno di san Martino, “a servirlo, in
modo certo e più spedito di tutti quelli che il dottore (Azzeccagarbugli)
avrebbe mai saputo trovare”[166]:
il legame tra padre Cristoforo e Lorenzo Tramaglino è, per il conte
“politicone”, la prova definitiva che il frate è il persecutore e il nipote
è il perseguitato. Zio e
nipoti moriranno di peste, come padre Cristoforo, ma in maniera ben diversa. Il
padre rientra liberamente a Milano per servire al lazzaretto, dal momento che
“c’era più bisogno d’infermieri che di politici” (c. 35); e vi trova
quella morte eroica, che ha sempre cercato, come riparazione all’omicidio del
“signor Tale”. Se Rodrigo riprenderà coscienza e morirà riconciliato con
Dio, il romanziere lascia intelligentemente nel dubbio, ma prima che quello si
accorga di avere la peste, dà testimonianza alla verità dell’intuizione di
Socrate-Platone che tra malvagi non può esistere vera amicizia: “Tornava da
un ridotto d’amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di
quel tempo: e ogni volta ce n’eran de’ nuovi, e ne mancava de’ vecchi.
Quel giorno don Rodrigo era stato uno dei più allegri; e tra l’altre cose,
aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie di elogio funebre del conte
Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima” (c. 33). E, oltre alla
tragedia della morte, ha la disperazione di subire, a suo danno, la stessa
cocente verità: il Griso lo tradisce, deruba e, anzichè affidarlo al Chiodo
chirurgo, “che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati”, lo consegna ai
monatti che lo portino al lazaretto, dove gli unici che avranno sentimenti di
carità per lui saranno proprio Cristoforo e, per sua esoratzione, Renzo e
Lucia. LA PROFESSIONE DELL’AVVOCATO[167] E DEL MEDICO.Si tratta, sostanzialmente, del dottor
Azzeccagarbugli, cui abbiamo dedicato finora poco spazio.[168] Nonostante la profonda amicizia col giurista-notaio
Tommaso Grossi, col mondo degli avvocati Manzoni doveva avere pregiudizi
notevolissimi: se Azzeccagarbugli ne è il prototipo, questa risulta la classe
peggio trattata dal Manzoni. In realtà, non sappiamo se la sua figura
rappresenti l’icona che lo scrittore si era fatto di tutta la categoria. Certo
che Azzeccagarbugli è l’incarnazione della legge elevata a pretesto di
ingiustizia e di frode: è la professione esplicitamente definita come
strumentale all’aggiramento, capovolgimento, sfruttamento della legge a
servizio degli interessi meglio paganti. Sentiamolo, mentre spiega a Renzo la
sua funzione, per indurlo a non mentirgli, ma a sputare la verità del suo
delitto, di cui lui, per un malinteso iniziale, lo crede sicuramente colpevole:
“Se non avete fede in me, non facciamo niente. Chi dice le bugie al dottore,
vedete figliuolo, è uno sciocco che
dirà la verità al giudice. All’avvocato
bisogna raccontar le cose chiare: a
noi tocca poi imbrogliarle. Se volete ch’io vi aiuti, bisogna dirmi tutto,
dall’a fino alal zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi
la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di
riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non
gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli
dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato.
E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente.
Capite bene che, salvando sè, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse
tutta vostra, via non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purchè
non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi
d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia
l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore
dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o
trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce
nell’orecchio, perchè, vedete, a saper
ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente...” (c. 3). Crediamo proprio che possa bastare, salvo una parola di ammirazione per lo scrittore che ha costruito la scena del consulto da parte di Renzo, in modo tale da permettere una simile confessione dell’avvocato: il contadino dal cervello vivace non denuncia come prima cosa il fatto avvenuto, ma fa un’inchiesta: “Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perchè non faccia un matrimonio, c’è penale”. La domanda fa cadere il dottore nell’equivoco (“Ho capito –disse tra sè il dottore, che in realtà non aveva capito”) che Renzo sia il malfattore che ha operato una simile prepotenza. Di qui la spiegazione-confessione del dottore di legge: contro un simile avvocato, “Diòs nos valga!” (c. 13). Se teniamo presente che, prima della invenzione degli antibiotici (penicillina: 1928; sulfamidici: 1933), la medicina era poco più di una stregoneria, allora possiamo comprendere il poco posto che hanno i medici pur nella gran calamità della peste.[169] O, meglio, tre medici hanno rilievo, ma più politico che professionale. Il vecchio Ludovico Settàla ed il figlio Senatore, assieme ad Alessandro Tadino, li abbiamo visti all’opera non tanto come curatori, ma come decisi sostenitori della trasmissione della peste mediante il contagio, da combattersi, quindi, attraverso i rigori dell’igiene e dei bruciamenti: non contattare fisicamente i malati ed ardere tutto cò che essi hanno toccato. Di qui, per una popolazione ancora povera e restia a privarsi di mobili e suppellettili sospette di essere mezzi di trasmissioni della malattia, l’odio che loro derivava. Abbiamo già visto il Tadino in ambasciata inutile presso don Gonzalo, per chiedere provvedimenti contro l’esdercito dei lanzichenecchi che, per andare a prendere e saccheggiare Mantova, dovevano passare dalla Valtellina e per buona parte della Lombardia. Li dobbiamo ora seguire quando tentano, sempre invano, di strappare dal Tribunale della sanità la proibizione di aver commercio con le truppe etsesse (c.28); quando spediscono un commissario per una indagine circa gli avvisi che giungono dal Lecchese, per casi di sospetta peste dopo il passaggio delle truppe (c. 31: ma con altrettantro sfortuna: il commissario riferisce di una mortalità non dovuta alla peste!); quando vi spediscono Alessandro Tadino che, medico, riporta la notizia della realtà tragica; quando finalmente riescono a far decretare la chiusura della città di Milano a tutti coloro che fossero sprovveduti di bollette attestanti il loro stato di sanità (ma sarà troppo tardi: la grida in materia, decisa il 30 ottobre, non verrà pubblicata che il 29 Novembre; e “la peste era già entrata in Milano”); quando si recano a Casale al nuovo governatore (Ambrogio Spinola), per avere la tremenda risposta che egli, addolorato per le notizie, non sapeva che farci: le ragioni della guerra erano più forti del male ormai diffuso; quando dovettero assistere impotenti alle feste ordinate in quel terribile mese di Novemnbre 1629, per la nascita dell’erede al trono di Spagna (così come non protesteranno contro la decisione, voluta dal popolo e subìta dal card. Federigo, di far la processione per la città con il coropo di San Carlo, per ottenere il miracolo della scomparsa della pestilenza); quando debbono darsi da fare per lottare in qualche modo contro la peste, entrata in Milano ai primi di Novembre (c. 31). E’ allora che si attirano l’odio della popolazione, al punto che il Manzoni, pur favorevolissimo ai poveri ed agli umili, perde la pazienza ed il rispetto per la folla ignorante e scriteriata e ricorda che sono i capocomici a chiamare “rispettabile pubblico” quello che i poeti insultano come “volgo profano”, mentre mette in dubbio che sempre la sua voce sia voce di Dio (id.). Sfido! Vi è un momento in cui lo stesso Ludovico Settàla rischia il linciaggio: “Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa di amici, che per sorte era vicina” (ib.). Prima di sapere che cure potessero fare i medici, vediamoli ancora a far riaprire il lazzaretto, già riempito a forza con la massa dei miserabili accattoni, nei primi mesi dell’anno precedente, gente che si dovette poi lasciar uscire di nuovo in libertà, per l’aumento spaventoso dei decessi in quel luogo, che avrebbe dovuto essere di ricovero e nutrimento sicuro (cose narrate nel c. 28). Fecero riaprire, dunque, il lazzaretto nei primi mesi del 1629, per affidarlo, l’anno dopo, ai padri cappuccini, dal 30 marzo alla fine della peste (settembre 1630): “ Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi, in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ servienti. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi al cappuccini...” (c. 31.). Ancora: “ Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne potè avere; ma molto men del bisogno” (c. 32). Del lavoro dei medici, così parla Manzoni: “Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevn pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fosser chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.... L’odio principale cadeva sui due medici; il ...Tadino, e Senatore Settàla, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversare le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi” (c. 31). Più avanti Manzoni ricopia da Giuseppe Ripamonti, che erano ritenuti “nemici della patria”. Il rischio di Ludovitco Settàla lo abbiamo già riportato più volte. Ma non si domandi quali fossero le cure positive contro la peste: come si è già detto, fino alla invenzione degli antibiotici, la medicina era poco più di una stregoneria. Manzoni non ne parla; noi siamo stati fortunati di poter approfittare dello studio che citiamo in nota, assieme alle notizie intorno al loro ufficio e lavoro.[170] E, avendo già parlato dei monatti, ricordando che essi
avevano anche funzione di infermieri, possiamo passare all’ultima categoria da noi scovata nel romanzo: i militari. Una descrizione generale dei soldati del tempo la troviamo a proposito dei “vent’otto mila fanti e sette mila cavalli” che, scendendo dalla Valtellina e seguendo l’Adda, dovevano passare otto giornate nel ducato di Milano, prima di avviarsi verso Mantova lungo il Po: “La milizia, a que’ tempi, era ancora composta in gran parte da soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; nè avrebbero potuto accordarsi così facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, nè erano molto raffinati in fatto di disciplina, nè, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; chè soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d’abolir il saccheggio; o per lo meno, l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome i prìncipi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l’imprese, che a proporzionare il numero alle loro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così l e paghe venivan per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de’ paesi a cui la toccava, ne divenivano come un supplemento tacitamente convenuto....”. Ma i soldati, forti della loro armi e della poca disciplina, se saccheggiavano nel senso pieno del termine, il paese nemico, spogliavano poi anche quello in cui erano posti a difesa e protezione. Eccoci posti di fronte a simile razza di uomini, fin dal primo capitolo: “Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago... Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavano di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e allegegrire a’ contadini le fatiche della vendemmia”. Nel c. 13, col nome di “micheletti”, li troviamo impotenti all’estremo margine esterno della folla, che assale la casa del vicario di provvisione: “Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati?...”. Quando Antonio Ferrer, il gran cancelliere “rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione[171], stato causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva... a cercar d’acquietarla, e d’impedire almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata” (id), “vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacchè sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivare della carrozza, fecero ala, e presentarono l’arme, al gran cancelliere; il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’uffiziale che venen più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: -beso a usted las manos-: parole che l’uffiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si restrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perchè l’ufiziale non intendeva il latino” (c. 13). Soldati ne incontra l’oste della luna piena che va dal notaio criminale a fare denuncia del cliente che non ha voluto declinare nome e cognome, pur volendo riposare nella sua locanda: “eccoli i gastigamatti” è il suo commento. Erano esecutori di castighi legali, in tempo di pace; erano soggetti a rischi di morte, in caso di guerra; sempre portatori di devastazione e di pestilenze, come nel caso dei trentacinquemila lanzichenecchi che calarono, attraverso la Valtellina, verso Mantova: “Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavano legna, le case, stalle: senza parlar delle busse[172], delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano, diroccavano; conoscevano facilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto. Finalmente se n’andavano; erano andati; si sentiva da lontano morire il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore di una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto suon di trombe, annunziava un’altra squadra. Questi, non trovando più da far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s’intende, maltrattavano le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: chè in tante squadre era diviso l’esercito.” Un commento a questo tipo di vita, lo dà in sintesi Bortolo, per stornare Renzo dal farsi volontario fra le truppe che Venezia andava raccogliendo, per invadere la Lombardia spagnola in quegli anni: “Credi pure che non è un mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d’incannar seta, per andare ad ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol degli uomini fatti apposta” (c. 33). Fra tutte le professioni, è l’unica che si attira, per se stessa e non solo per il modo eventualmente criminale con cui è esercitata, una frecciata satirica, che parte da lontano, dalla incolumità, cioè, alla peste di quanti ne guarivano: “Quegli altri all’opposto, sicuri a un di presso del fatto loro (giacchè aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri d’un’epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra palafreni accomodati anch’essi, per quanto era fattibile, in quella maniera, andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d’erranti) a zonzo e alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere proprio, da far la prima figura in un trattato d’economia politica” (c. 33).[173] LA FONTE PIU’ INTIMA DELLA ISPIRAZIONE MANZONIANA: IL RAPPORTO FRA LA PROVVIDENZA DI DIO E LA CONDOTTA UMANA, CIOE’ FRA.DIO CHE CHIAMA ALLA GIUSTIZIA E L’UOMO CHE VI CORRISPONDE O CONTRASTA. Ci
domandiamo: tutti questi motivi umanistici sono indipendenti e dispersi o son
connessi e ordinati secondo qualche valore che li trascende e riunisce, come
avviene in Dante? La risposta è espressa, in forma esatta benchè semplificata[174],
dal Manzoni stesso nel “sugo” finale della “storia”: “i guai
vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta
e più innocente non basta a tenerli lontani, e... quando vengono, o per
colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una
vita migliore”. Moralità e religione,
dunque, sono indicati come la sintesi della cantafavola, principio che
garantisce, anche se non necessariamente qui in terra, il rapporto sicuro fra
virtù e premio, fra delitto e castigo.[175] Ma bisogna procedere con attenzione, perchè tale legge potrebbe riguardare soltanto l’esistenza delle singole persone e, quindi, subire modifiche anche radicali a livello dei tempi lunghi della vita associata, cioè della storia dei popoli. In quest’ultima prospettiva, il Manzoni è assegnato, abituialmente, alla categoria degli storiogafi moralisti, in base alla invero semplicistica legge espressa nell’opera ultima cui dedicò la sua riflessione, anche nelle pause di lucidità degli ultimissimi giorni di vita (dopo la caduta sulla scalinata di S. Fedele l’11 maggio 1873, con lo stato di più solita assenza mentale che ne conseguì). Difatti le “osservazioni comparative” tra La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 applicano alla storia profana[176] l’insegnamento costante dell’Antico Testamento per il popolo ebraico: la sorte delle imprese storiche è segnata dalla loro moralità, per cui quelle malvagie, presto o tardi, falliscono, mentre quelle giuste trionfano. Non si può negare che sia, questa, una filosofia della storia riduttiva: ma tale imperfezione, si deve sospettare, fu dovuta sia alla incapacità del pensatore invecchiato a tener presenti un numero sufficiente di dati storici, per ricavarne una legge più verosmile; sia alla parzialità indotta in lui dalla passione patriottica, per cui sembrò a lui che il Risorgimento italiano si fosse svolto secondo diritto e giustizia e fosse degno, quindi, di riuscita. In realtà, il Manzoni, nelle sue opere letterarie, lascia trasparire o dichiara apertamente ipotesi opposte; o dottrine complementari. E ci pare che la causa della difficoltà umana a riconoscere l’opera, qui in terra, sempre misericordiosa della Provvidenza sia da ricercare nella doppia dottrina del peccato originale e della redenzione cruenta, voluta da Dio con la Incarnazione passione morte e risurrezione del Figlio fattosi uomo, dottrine che il poeta dimostra di aver ben presenti sia nella Risurrezione, che nell’apertura del Natale, che nella Passione. Quali novità si introducono nel disegno divino a realizzare in ogni modo la giustizia per gli uomini singoli e per l’umanità nel suo complesso, dopo le due fondamentali e contrastanti vicende nella storia religiosa dell’uomo? Da una parte Dio, sommamente giusto perchè santo, non può lasciare senza premio|punizione qualunque atomo di bene|male che liberamente viene posto in essere dalle persone. Ma per gli uomini che Egli sa approderanno alla salvezza eterna, conquistata per loro dalla morte redentrice di Cristo, l’andamento della esistenza può essere in contrasto con la esigenza della giustizia immediata: non solo i buoni possono soffrire ingiustamente qui in terra, ma possono scegliere loro stessi di offrirsi in sacrificio a Dio, affinchè “completino nella loro carne quello che manca alle sofferenze di Cristo per la salvezza del Suo corpo che è la Chiesa” (Paolo, lettera ai Colossesi, 1, 24). I casi di Ludovico che sceglie la espiazione nella spogliazione della vita francescana (c. 4), di Lucia che fa il voto di verginità (c. 21) e dei cappuccini volontari al lazzaretto non sono che la punta di quell’iceberg che nella Chiesa cattolica si esprime colla rinuncia ai beni terreni nei voti religiosi (povertà, casità, obbedienza), da parte di centinatia di migliaia di uomini e donne. E, in casi particolari, tali sofferenze possono accrescersi in misura sovrumana per la permissione o volontà diretta di Dio, che giunge a chiamare Francesco d’Assisi e Pio da Pietrelcina alla partecipazione fisica della propria passione, attraverso la condivisione delle stigmate. Viceversa, il malvagio che Dio prevede non si salverà, ha lo stretto diritto a vedersi premiare qui sulla terra il bene che compie: ricordiamo, in proposito, che nella dottrina cattolica, solo il demonio è, dopo la superba ribellione iniziale, pura volontà di male, mentre in nessun uomo mancano intenzioni ed opere di bene. Ebbene, proprio per tale giustizia cui Dio non può sottrarsi, si crea quel guazzabuglio di situazioni, per cui i cattivi spesso hanno vita ben più soddisfatta in terra che non i buoni. Il rapporto virtù-premio si realizza necessariamente quaggiù per quelli, mentre è rimandato al premio sproporzionatamente maggiore, ma non visibile sulla terra, per i secondi. L’altro rapporto, poi, quello di delitto-castigo, è rimandato sempre all’altra vita, essendo la volontà di Dio, per la durata della vita terrena, sempre rivolta alla conversione, crescita morale, salvezza eterna (cioè al meglio) dei singoli. Poste questa premesse, giungere ad intuire quale sia la relazione tra vita morale dei singoli (o dei popoli) e la loro fortuna qui sulla terra (benessere, successi, felicità complessiva; e viceversa) diventa un indovinello insolubile per la povera mente umana. E non è neppure facile costruire una trama fantastica che si ispiri a tale problema fondamentale, ma in modo da salvare i buoni, converitre o mostrare puniti i malvagi e resi innocui i deboli e mediocri, mantenendo quella verosimiglianza delle vicende (oltre che dei caratteri) che solo comunica a tale soluzione della peripezia il realismo che esige un tale motivo ispiratore, razionalissimo e concretuissimo. Manzoni non giunge in alcuna sua opera a ordinare in forma riflessa (filosofica o teologica) tale visione del rapporto fra valori morali e andamento della vita. Ma, proprio perchè era un cristiano molto intelligente, in varie opere letterarie (specie nelle tragedie e nel romanzo) ,si lascia sfuggire espressioni che possono costutire le tessere di un mosaico, che il lettore critico deve ricostruirsi da sè (come si è tentato da parte nostra). Ed ecco gli spunti che lo rivelano. La negazione di quella legge “eudemonologica o giustizialista” a livello storico-sociale, di cui si è parlato sopra, è presente nel prevalente pessimismo delle due tragedie[177]. Il conte di Carmagnola ed Adelchi sembran confermare il dominio della ingiustizia nella storia umana, non solo nei fatti della trama (un innocente condannato a morte; un eroe puro e leale, ucciso da nemici invasori e da sudditi ribelli), ma negli stessi princìpi teoretici. E’ quanto Adelchi dichiara al padre Desiderio, in presenza di Carlo Magno: “.... loco a gentile| ad innocente opra non v’è: non resta| che far torto, o patirlo. Una feroce| forza il mondo possiede, e fa nomarsi | dritto; la man degli avi insanguinata| seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno| coltivata col sangue; e ormai la terra| altra messe non dà...” (V, 8). Ma il ribaltamento riguarda soltanto la vita terrena: a dar luce e consolazione alle due opere teatrali sta la presenza di una fede sicura nel ricupero della giustizia, ma soltanto in una Vita ulteriore. Il Carmagnola si avvia alla decapitazione con parole di ringraziamento al Signore: “O Dio pietoso, tu le involi[178] a questo| crudel momento; io ti ringrazio...” (atto 5, sc. 5); Adelchi muore con un grido di protesta, ma pieno di fede: “O Re de’ re tradito| da un tuo Fedel, dagli altri ababndonato!...| Vengo alla pace tua: l’anima stanca| accogli” (V, 8). Anzi, nei cori, il poeta esprime un suo pensiero storiologico più complesso. Da una parte, separa nettamente il giudizio degli uomini, anche ecclesiastici, sulle vicende belliche, da quello di Dio (“s’orna il tempio, e risona del canto: già s’innalzan dai cori omicìdi| grazie ed inni che abbomina il ciel”)[179]; poi, introduce la legge di una Provvidenza che, sulle lunghe distanze, opera una soprannaturale némesi storica, servendosi della crudeltà di un popolo più forte per punire quella del precedente oppressore: “Stolto anch’esso! Beata fu mai| gente alcuna per sangue ed oltraggio?|Solo al vinto non toccano i guai;| torna in pianto dell’empio il gioir.| Ben talor nel superbo viaggio| non l’abbatte l’eterna vendetta;| ma lo segna, ma veglia ed aspetta;| ma lo coglie all’estremo sospir...”; infine, si appella alla Provvidenza come liberatrice da questo groviglio inestricabile di vittorie delittuose e sconfitte giustiziere: “Te dalla rea progenie| degli oppressor discesa,| cui fu prodezza il numero,| cui fu ragion l’offesa,| e dritto il sangue, e gloria| il non aver pietà,|| te collocò la provvida| sventura in fra gli oppressi:| muori compianta e plalcida;| scendi a dormir con essi:| alle incolpate ceneri| nessuno insulterà.”[180] Anzi, Manzoni accenna, nella finale dello stesso coro di Ermengarda, ad un’altra legge che solo la fede gli poteva insegnare: la sofferenza dei buoni è seme di conversione pei malvagi e, quindi, di trasformazione dei costumi bellicosi ed oppressivi nei popoli barbari, in atteggiamenti pacifici e costruttivi di popoli civili. Il pensiero è espresso con una famosa e commovente immagine: “Così|| dalle squarciate nuvole si svolge il sol cadente,| e dietro il monte, imporpora| il trepido occidente:| al pio colono augurio| di più sereno dì” (vv.114-120). Tali pensieri, come si è detto, non si lasciano definire in una chiara filosofia delle vicende umane (“storiologia”) ma, nella loro complessità, lasciano spazio ad un impiego sensato nel capolavoro, così che la vicenda risulti del tutto soddisfacente, al punto di sembrare del tutto verosimile, pur presentando, quanto al rapporto tra virtù e giustizia| delitto e castigo sulla terra, una prospettiva alquanto più ottimistica che non suggerisca la realtà del vissuto concreto. Il rimedio al dislivello tra realtà cruda, statistica e verosimiglianza simpatica, attraente, è affidato al plus-valore lirico, cioè alal carica emotiva della narrazione. La trama riesce, così, affascinante, perchè stabilisce quell’ideale peripezia che il cuore umano sente come l’unica auspicabile (sanche se non sempre realizzata di fatto) nella complicata realtà della esperienza: il successo dei buoni, pur di mezzo a traversie e pericoli anche mortali; e la sconfitta dei malvagi, nonostante la spavalderia supponente e smargiassa, i mezzi sporporzionatamente superiori di lotta e le iniziali, tanto facili quanto effimere, vittorie. Ma gli ostacoli al dipanarsi di tale vicenda, sino al finale risultato consolatorio, sono di tale enormità, che non è poi così lontana dalla verità la d’altronde balorda retorica del presunto autore del “dilavato manoscritto”, quando afferma che nell’opera “si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con internezzi d’Imprese vituose e di buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche”. Occorre ammettere cioè l’intervento di una Intelligenza onnipotente ed amica che guida le fila della storia e che in tanto fa del romanzo l’epopea degli umili e degli innocenti, anche se poveri e (Natalino Sapegno), in quanto è epopea della Provvidenza divina (Attilio Momigliano). I promessi sposi non promettono il paradiso in terra, ma di fatto prospettano una vita in cui l’opera divina nella storia risulta sempre imprevedibile, sempre ingovernabile, ma sempre sommamente affidabile, perchè Porvvidenza paterna. Dio chiama tutti gli uomini alla giustizia per la salvezza, li segue con amore e misericordia che si manifesta in maniera sempre benevola, ma non necessariamente favorevole su questa terra. Così mette alla prova la fedeltà dei buoni con gli incidenti più gravi, quando non li invita a ricercare volontariamente la rinuncia, la mortificazione e l’offerta della vita per il servizio della Chiesa e dei bisognosi di ogni genere; scuote dalla indolenza i mediocri con le contraddizioni della vita ed i richiami dell’autorità; ricupera la ingenuità delle masse analfabete e dei dotti disorientati, giudicando gli uomini non dalla acutezza della loro intelligenza, ma dalla onestà della loro condotta, sicchè la rovina delle loro previsioni fantastiche e giudizi infondati, anzi la stessa insignificanza della loro vita (troppo spesso alla mercè di cataclismi più grandi di loro) può trovare nell’Aldilà un risultato competente; insegue e richiama i malvagi col fallimento delle loro trame inique e con l’esperienza dei mali comuni a deboli e potenti, cioè la malattia e la morte. La “economia” della Provvidenza non è, dunque, quella di chi castiga o premia quaggiù. Tutta la vita terrena è milizia e prova: la fortuna, la ricchezza, la cultura sono anche tentazioni alla libidine, alla presunzione ed alla prepotenza, così come il male più grave è invito od alla conversione (padre Cristoforo di fronte a don Rodrigo raggiunto dalla peste, dice giustamente: “Può esser gastigo; può esser misricordia”) od alla crescita nella pazienza e fiducia in Dio (il “sugo” finale del romanzo). In questa Provvidenza (paterna ma imprevedibile, come si è detto), molti buoni soffrono in maniera umanamente definitiva. Padre Cristoforo è l’icona ideale dei realissimi suoi confratelli volontari al lazzaretto, dei parroci di Milano morti perchè rimasti accanto agli appestati. Sul versante laico, la madre di Cecilia è il simbolo di chissà quante persone oneste e generose, che han saputo soccombere od hanno sfidato la morte per la carità verso parenti o bisognosi colpiti dal flagello, come il protofisico Ludovico Settàla, che si vede morire attorno la moglie e un figlio, mentre lui stesso, afferrato dal contagio, ne esce malconcio, morendo tre anni dopo (1633). Dei malvagi, l’innominato si converte e, quindi, rientra nella categoria dei buoni, penitenti ma non ulteriormente perseguitati dalla sventura. Gli altri persecutori dei due “promessi” finiscono tutti male (non escluso Egidio, condannato a morte; e la monaca di Monza, reclusa per tutta la vita in un carcere monacale), mentre i protagonisti, compresi Agnese, don Abbondio e Bortolo, riottengono, dopo le persecuzioni e la peste, salute e giorni sereni. E’ intuitivo accorgersi che un sentimento così vivo della Provvidenza era la reazione adeguata al deismo illuministico, che proprio nella negazione di un interesse-intervento di Dio nel governare il mondo da Lui creato (e, in particolare, le vicende umane), si caratterizzava come credenza religosa particolare. Manzoni, convertendosi da una tale mentalità sente istintivamente (e, perciò, inconsapevolmente, con tutta probabilità) la religione come presenza paterna e misericordiosa, soccorritrice e confortatrice all’uomo. Ritorna, bensì, al cristianesimo tutto (ben presto, coerentemente cattolico), ma sottolinea senza accorgersi proprio quell’aspetto della fede evangelica che il razionalismo del Millesettecento aveva ripudiato come antiscientifica e sentimentale, cioè la fede-fiducia in un Dio che “non si è dato alla latitanza, dopo aver commesso il misfatto della creazione”(Giacomo Biffi), ma si prende a cuore l’umanità che ha pensata e ed amata da sempre. Si leggano, nel Discorso della montagna, le esortazioni a rimettere ogni fiducia nella Provvidenza di Dio che è “Padre (anzi “Abbà, cioè “papà”) nostro e che nutre gli uccelli del cielo e riveste i gigli del campo (Mt. 6, 9-34). Delineato, nella sua complessità, il piano di amore
universale ma di diversificata salvezza che Manzoni attribuisce all’intervento
divino nelle vicende dei personaggi del suo romanzo, si tratta ora di individuare i punti nodali ove Manzoni od esprime
esplicitamente o lascia comprendere indizialmente tale
azione provvidenziale. [181]
Cerchiamo, anzitutto, le segnalzioni esplicite Nel c. 6, p. Cristoforo trova, proprio al castello di don Rodrigo, il veccchio servitore che lo informerà sui disegni per rapire Lucia. Nella mente del padre (come dello scrittore) sorge allora questo pensiero: “ecco un filo...che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo!”: è la convinzione che, nel capitolo seguente, egli ripeterà a Renzo, Lucia ed Agnese, per inculcar loro la pazienza e la fiducia nell’aiuto di Dio. Nel c. 8 vi è
la singolare coincidenza fra il tentativo clandestino di nozze da parte della
“brigata avventuriera” (c. 7) e la spedizione brigantesca alla casa di Lucia
da parte del Griso e dei suoi bravi: il
primo manda a monte la seconda. Alla
fine di quella “notte degli imbrogli e dei tradimenti”, nella riflessione
silenziosa durante la traversata del lago, Lucia commenterà: “Chi
dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia dei suoi
figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Nel c. 11, a seguito della “bella riuscita”, cioè del fallimento che “fa ridere sotto i baffi” il conte Attilio e dà qualche preoccupazione al cugino Rodrigo “che, credendo di far quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso”, il Manzoni così commenta: “Va a dormire, povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto in quella maniera! ma così pagano spesso gli uomini[182]. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministarcene un’altra prova, e più notabile di questa” (c. 11). La “giustizia” è evidentemente quella stessa “eterna vendetta” che tollera la malvagità di un popolo oppressore per qualche tempo, “ma lo segna, lo veglia ed aspetta:| ma lo coglie all’estremo sospir”, di cui parla il coro del Carmagnola. E’ una “provvidenza” punitrice, in questo caso: Manzoni rivela che altro è il dettato della ragione illuminata dalla fede e che vede, come si è detto, non premi e punizioni ma solo “prove” in questa esistenza; e altro è la suggestione del sentimento, che porta a vedere già sulla terra la attuazione di una giustizia che lo scrittore sa bene (e spesso sottolinea esplicitamente) che si realizza solo nell’Altra Vita. Eccolo infatti a commentare più razionalmente e meno emotivamente il romanzo “Marco Visconti” dell’amico Tommaso Grossi, cui egli, invitato ad una revisione, appose questa finale: “Il voler vedere ognuno appagato in questo mondo comforme pare a noi che il suo merito porti, è impazienza, leggerezza, presunzione e peggio; è un supporre di aver noi più discernimento di chi ce l’ha dato; è un dimenticare che quaggiù le partite si piantano, ma si saldano altrove”.[183] Lucia è lo spechio laico di questa fiducia nella Provvidenza: oltre la citata espressione di “Addio, monti”, sono notevoli queste affermazioni ed atteggiamenti: “Tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà”; “Lasciamo fare a Quello lassù” (c. 6); “Ma il Signore lo sa che ci sono” (c. 21); “I suoi disegni erano ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n’aveva; s’era abbandonata alla Provvidenza.” (c. 25). “Ora tocca al Signore pensarci... Ma il Signore sarà con tutti e due” (cioè con lei e con Renzo: c. 26). Ma anche il miglior Renzo e più solito, quando cioè non è dominato dalla collera e dalla sete di vendetta contro don Rodrigo, si appella istintivamente alla Provvidenza come sfondo di decisioni estemporanee e non altrimenti calcolabili. “Alla provvidenza!” esclama, rifiutandosi di seguire la sconosciuta guida milanese, che lo stava conducendo al carcere come alla locanda più sicura della città, dopo la sua partecipazione alla giornata di San Martino: e, trascinando anche quello spione nell’osteria della Luna piena, si salva dall’arresto e peggio. E, nell’esaltazione dei grandi avvenimenti della giornata, continua sullo stesso filo di pensiero: “Al pane. –disse Renzo. ad alta voce e ridendo, -ci ha pensato la provvidenza.- E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: -ecco il pane della provvidenza!” (c. 14). Trovata una capanna per riposarsi durante la notte, presso la sodaglia a ridosso dell’Adda, “Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s’inginocchiò a ringraziarla di quel benefizio...” (c. 17). Attraversato il fiume, approdato sul territorio della repubblica di Veenzia, nel bergamasco, dato fondo a quasi tutto la sua riserva di danaro mangiando in una locanda, offre gli ultimi soldi a dei poveretti che chiedevano l’elemosina, esclamando: “La c’è la Provvidenza!”, affermazione che viene giustamente interpretata come la sintesi più icastica di tutto il romanzo, più espressiva che non la più complessa precisazione nel già riportato “sugo di tutta la storia”. E Renzo, accolto dal cugino Bortolo a braccia aperte, trasforma in gratitudine la sua fiducia: “L’ho detto io della Provvidenza!”, mentre l’autore interpreta così il suo sentimento: “Certo, dell’essersi spogliato degli ultimi danari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perchè, se a sostenere in quel giorno que’ poveretti che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini di un estarneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un sentimento così vivo di sè stessa, così efficace, così risoluto? Questo era, a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch’io l’abbia saputo esprimere” (id.). La stessa riconoscenza dichiara il giovane quando si salva dalla folla inerocita, saltando sul carro dei monatti: “tutto sottosopra, ringraziava intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’esser uscito d’un tal frangente, senza ricever male nè farne; la pregava che l’aiutasse ora a liberarsi da’ suoi liberatori” (c. 34).[184] Quanto ai passi solo implicitamente ammiccanti alla Provvidenza di Dio, si trovano almeno due casi grandiosi. Si tratta di coppie di fatti, che Manzoni collega fra loro o insinuando nel secondo l’adempimento della profezia annunciata nel primo; o giustapponendoli in modo così suggestivo, da lasciar intendere fra loro un rapporto di causalità voluta dalla Provvidenza appunto, di natura, quindi, soprannaturale. Il primo accostamento è quello tra la minaccia di padre Cristoforo ( c. 6: “Verrà un giorno...”) e la parte finale del sogno tormentoso di don Rodrigo appestato (c. 33: “Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa.... e vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntare su un non so che di convesso, di liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor dal parapetto finoalla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto....”). Il secondo suggerimento è nel c. 21 e sta nella successione immediata fra il voto di Lucia e il precipitare della crisi nell’Innominato, fino a quella conversione che essa aveva già preparato sostituendo il rimprovero e la ribellione, per il rapimento, col richiamo alla bontà di Dio (“Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!”). Ora ecco che, pronunciate le parole del voto di castità, “si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell’animo una certa tranquillità, una più larga fiducia....I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco sulle labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo”. Dopo questa descrizione, subito Manzoni prosegue: “Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non potè mai”. Il dramma notturno dell’Innominato è già stato ricordato: qui basterà mettere in luce che l’accostamento così immediato del voto di Lucia con il precipitare del suo rapitore nello sconvolgimento di coscienza (e con il risolvere la lotta interiore superando la tentazione del suicidio, per affidarsi all’incontro dol cardinal Federigo), è una intuizione psicologica ed una accortezza letteraria davvero sorprendente, ma è soprattutto l’espressione profonda della fede del Manzoni nella Provvidenza. Egli lascia intuire al lettore il nesso causale tra la conversione morale nell’uno e l’eroismo religioso nell’altra; tra la liberazione dal potere del delitto nell’Innominato e la rinuncia ad un amore pur lecito e santo, nell’altra.[185] Altri riferimenti alla Provvidenza li possiamo trovare in altre opere del Manzoni, ma li rimandianmo in nota. [186] Ma l’azione della Provvidenza rimane, poi, sempre imperscrutabile, al punto che anche don Abbondio ha l’impudenza di citarla a proprio favore, quando gli annunciano sicura la morte di don Rodrigo: “Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente... E’stata un gran flagello questa peste; ma è stata anche una scopa...”. Altra, lo ripetiamo, è la intelligenza del Manzoni che vedeva bene la improbabilità che tutti i protagonisti nel bene uscissero dalla peste o immuni o guariti; altro è il suo sentimento, che lo induce a questa eccezionalità di salvezza per una spontanea parzialità in favore dei buoni e per l’esigenza ideale dell’uomo che, almeno nei romanzi, vuole trovare già attuato sulla terra il rapporto naturalmente esigito fra virtù e premio, delitto e castigo.[187] Che poi la sua genialità di scrittore renda quasi insensibile la improbabilità di un simile risultato, questo è ciò che più sorprende e soddisfa: egli riesce a far rientrare nel realismo della verosmiglianza una coincidenza di successi così straordinari che dovrebbero indurre, per sè, il sospetto dell’artificio e della fantasia arbitraria.[188] La vita morale (e, quindi, la pratica delle virtù, la giustizia sino all’eroismo della carità, la rettitudine radicale di vita, l’onestà nel senso completo dei dieci Comandamenti..., a cominciare dalla religione), è la risposta positiva dell’uomo a Dio, la cooperazione con l’opera della Provvidenza a salvare anche gli altri uomini, così che “il mondo vada un po’ più da cristiani” (c. 14). Viceversa, l’immoralità (il peccato, il vizio, il delitto, la disonestà, l’ingiustizia, la perversità, la malizia, la cattiveria, la malvagità...) è il rifiuto di corrispondere a Dio, ne è l’avversione almeno temporanea. Già si sono citati i versi splendidi del carme In morte di Carlo Imbonati, intonati ad un moralismo ancora incompleto (settoriale), ma quanto mai convinto e deciso: nel gruppo di endecasillabi “Sentir –riprese- e meditar”[189] è dipinto l’uomo coerente, stoicamente severo, che agisce secondo una coscienza esigente; che non è ancora nella verità totale, ma che proclama fortemente di voler vivere secondo la sincerità del proprio imperativo categorico. Approdato alla fede, il primato della vita etico-religiosa si impone al Manzoni. Anzi (lo si è ipotizzato) è l’imporsi al pensatore delle verità morali che lo riconduce alla fede cristiana, come l’innominato. Di qui le attestazioni, praticamente in tutte le opere, in versi o in prosa, del poeta convertito[190], in favore di una moralità tanto sicura quanto serena, tanto permeante quanto convincente, tanto equilibrata quanto commovente, tanto radicale quanto persuasiva. Se sulla Provvidenza abbiamo già dovuto accumulare i rimandi e le citazioni, per la parte morale del romanzo dovremmo riportare gran parte delle pagine. E’ nota la sentenza, in proposito, del Manzoni: “Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero” (Materiali estetici, VII). Ci limiteremo ai casi più salienti”. Il Natale si apre con la descrizione della umanità a seguito del peccato originale: impotenza morale a vivere secondo rettitudine integra e necessità della redenzione di Cristo per riportare l’umanità al livello di vita spirituale adeguata, redenzione che anzi innalza l’uomo alla partecipazione alla vita divina. La descrizione è proiettata in una famosa immagine (riportiamo, qui, solo la prima srofa del paragone, che ne occupa tre, per un totale di 21 versi:”Qual masso che dal vertice| di lunga erta montana,| abbandonato all’inmpeto| di rumorosa frana,| per lo scheggiato calle| precipitando a valle,| batte sul fondo e sta...”). La Passione presenta il sacrificio di Cristo in croce come il compimento della liberazione dallo stato di impotenza morale dell’umanità: “Egli è il Giusto: e di tutti il delitto| il Signor sul suo capo versò” (vv. 27-8). La Risurrezione ribadisce tali concetti, anche se con versi meno splendidi (vv. 36-42: “Pria di Lui nel regno eterno| che mortal sarebbe asceso?| A rapirvi al muto inferno,| vecchi padri, Egli è disceso,| il sospir del tempo antico,| il terror dell’inimico,| il promesso Vincitor”). La Pentecoste, dopo aver richiamato il sacrificio di Cristo, la risurrezione e la ascensione al Cielo (vv. 20-24: “...quando, in man recandosi| il prezzo del perdono,| da questa polve al trono| de Genitor salì”), passa ad elencare i benefìci della redenzione anche sul piano sociale (uguaglianza di ogni persona e promessa di un premio eterno anche per gli schiavi; libertà e pace interiore contro ogni insidia e pena fisica), per concludere in una preghiera che abbraccia quasi ogni condizione di vita e invoca lo Spirito santo, il realizzatore della redenzione di Cristo lungo i secoli di storia, perchè conceda a tutti la santità del loro stato vocazionale.[191] Il cinque maggio sorprende Napoleone di fronte alla resposabilità morale al cospetto di Dio: costatata la fama dell’uomo, confermata dall’attonito silenzio del mondo tutto di fronte alla sua morte; rievocata in sintesi intensissima la serie delle imprese militari che di tale fama erano state la sorgente e avevano fatto di lui l’arbitro politico non solo dell’Europa (“Ei si nonò:due secoli|, l’un contro l’altro armato|, sommessi a lui si volsero,| come aspettando il fato; ei fe’ silenzio ed arbitro| s’assise in mezzo a lor” (vv. 49-54), rimane l’interrogativo tormentoso: “Fu vera gloria?”( v. 31). E’ un interrogativo che assilla lo stesso Napoleone in esilio, inducendolo a ripercorrere la sua vita con un severo esame di coscienza. Dapprima egli la trova così esaltante, da voler rifiutare col suicidio quella umiliante dell’esilio a S. Elena; poi, la scopre così colpevole, da chiederne perdono a Dio ed abbassarsi volontariamente al “disonoro del Golgota”. Non degnate di una citazione nè Inghilterra nè Russia, che tanto avevano fatto per contrastarlo fino a riuscire a sconfiggerlo, Napoleone è solo davanti al giudizio di Dio. E se devono tacere esaltazioni e recriminazioni di fronte alla sua salma, è proprio perchè con Dio egli si è alfine riconciliato: “Tu[192] dalle stanche ceneri| sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita,| che affanna e che consola| sulla deserta coltrice| accanto a lui posò”. Nelle due tragedie, la componente morale è essenziale al significato della vicenda, anzi allo stesso suo sviluppo. Ne Il conte di Carmagnola, è la figura del senatore Marco, soprattutto, a portare il peso della responsabilità per la morte dell’amico innocente, visto che egli conosce la sua condanna a morte già decisa ma, per salvare la propria vita, tace al condottiero chiamato a Venezia la sorte che lo aspetta (soliloquio di IV, 2). Ne l’Adelchi, è la figura del protagonista, la cui psicologia il Manzoni ha creato di sana pianta, proprio per introdurre una figura che incarnasse il tormento per le implicazioni morali della vicenda. Da una parte, infatti, sta la non facile conciliazione tra l’esigenza longobarda di riunire in un corpo solo, attraverso la conquista di Roma e dei territori già appartenenti all’esarcato bizantino, tutti i loro territori (Benevento e Spoleto erano staccati dai domini settentrionali e toscano); ed il rispetto per il papato, per le sue esigenze di territori onde difendere la propria libertà da ogni potere politico, anche in base ai patti firmati dai re Astolfo e Desiderio con i Franchi. Dall’altra parte, stanno le ingiustizie di Carlo Magno contro i figli del fratello Carlomanno, che egli aveva escluso dalla successione e che si erano rifugitai presso Desiderio, divenuto così il difensore dei loro diritti; sta l’arbitrario ripudio della legittima moglie Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e sorella di Adelchi. Adelchi è preso, così, fra la politica conquistatrice del padre, cui non vuole negare l’ubbidienza (vedi specialmente I, 2; III, 1 e 2) e il suo sogno di un regno in pace col papa e aperto alla rivendicazione della giustizia contro Carlo. Accanto a lui, disinvoltamente traditori come Svarto (I, 5; IV,4-5) o tormentosamente tali come Guntigi (IV, 2, 3, 4, 5) o disperatamente vili come i difensori ultimi di Verona (V, 1, 2), si agita un mondo di anime o del tutto consacrate al proprio egoistico interesse ed alieni da ogni problema morale (Svarto) o deboli e cedenti nel momento della decisione fra il dovere e l’interesse (Guntigi, Giselberto). Si tratta sempre, per Manzoni, di atteggiamenti che, dovendo misurarsi sulla la natura umana, di cui devono essere la adeguata espressione, sono tutti toccati dalla problematica del bene e del male: si veda, ad esempio, nel soliloquio di Guntigi (IV, 3), come il problema della fedeltà al proprio signore si riduca a una scelta di carattere essenzialmente etico. Pare difficile negare che l’Adelchi sia riuscita meglio al suo autore, proprio perchè egli l’ha impostata, non marginalmente ma sostanzialmente, su delle scelte scopertamente attinenti la coscienza morale dei protagonisti.[193] Ne I promessi Sposi, le peripezie dell’amore fra Renzo e Lucia, delle molteplici trame di Rodrigo per impedirlo e impadronirsi della donna, di tutti i personaggi coinvolti direttamente od indirettamente in difesa od aggressione dei due fidanzati, sono tutte contemplate dallo scrittore in chiave primariamente morale. E’ suo merito e gloria l’aver saputo prospettare tutto l’agire ed agitarsi del romanzo in una luce defintivamente etica e religiosa senza appesantire la narrazione, anzi proprio da tale ispirazione fondamentale ricavando spunti di idillio ed elegia, di dramma ed epopea, di estasi e commozione e di una così frequente comicità che, sempre simpaticissma, spazia dall’umorismo dell’ineffabile don Abbondio al grottesco degli scatenati monatti.[194] Il principio-guida per la condotta umana è espresso dal Manzoni nella esposizione della vita del cardinale Federigo (c. 22): “la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto”. Corollario delicatissmo e sommamente importante[195]
è quello che il sarto ripete dalla predica dello stesso Cardinal Borromeo: “la
disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del
male” (c. 24). Ma che il capolavoro sia impostato sostanzialmente sui valori morali, lo dimostra l’evidente simpatia per gli onesti (non importa se ingenui come il sarto), la chiara condanna dei deboli[196] (non importa se ecclesiastici come don Abbondio) e la imperterrita detestazione dei malvagi (non importa se intelligenti come il conte Attilio). Questo significa, anzitutto, che alla fine della vicenda travagliata, gli innocenti sopravvivono e riescono nei loro intenti, i mediocri vengono spesso ricuperati, dei malvagi qualcuno si converte ma la più parte periscono senza essere riusciti ad attuare i loro pazzi propositi. Anche se la moralità radicale del romanzo non significa che materialmente il suo autore si preoccupi di etichettare come buona, mediocre, cattiva ogni azione dei suoi personaggi, tuttavia o dal giudizio già dato sull’autore di singole loro frasi ed azioni o dal contesto in cui tali operazioini accadono, il lettore non resta mai nell’incertezza sul loro valore etico: la prima coerenza del Manzoni non è quella psicologica, ma quella morale. Egli può anche riuscire discutibile in qualche giudizio su personaggi o comportamenti minori[197], ma non lo si sorprenderà mai nè distratto nè in contraddizione sulla impressione etica di personaggi e comportamenti. A paragone di questo senso generale dello scritto, le espressioni che abbiamo già riportato o che potremo ancora citare, come testimonianza del senso etico-religioso del suo autore, avrebbero meno importanza, se non fosse per il plus-valore estetico di cui Manzoni le sovraccarica: ad essere coerenti sino in fondo, la più parte delle citazioni che ci accingiamo ad addurre, andrebbero in realtà citate come prova della artisticità del lavoro[198], in cui la potenza edificante del moralismo trasparente entra in gara con la bellezza folgorante del lirismo commovente. In secondoluogo, sta il favore evidente di cui i buoni sono circondati nel romanzo e della disistima e della condanna con cui sono riguardati i malvagi. Esplicitamente elogiata è Lucia (sulla bocca del concreto, saggio Bortolo: “...Lucia Mondella! Me ne ricordo. come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua cassuccia... sempre si sentiva quell’aspo che girava, girava, girava”: c. 17). Quasi l’intero capitolo ventidue è dedicato esplicitamente a descrivere le virtù del cardinal Federico Borromeo, cugino di San Carlo. Manzoni non manca di esaltare anche quest’ultimo, un gigante della vita morale, approfittando del fatto che la pestilenza del 1576 “fu chiamata ed è tuttora, la peste di San Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo, perchè a quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti come un sunto di tutti que’ guai, perchè in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far di quest’uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta” (c. 31). Del suo secondo successore, abbiamo già riportati i princìpi di vita, puntigliosamente dimostrati dallo scrittore con episodi degni di una agiografia, tanto che egli può dire che essa “è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnarsi nè intorbidarsi mai, in un lungo corso, per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume” (c. 22). Le parole, poi, che il Manzoni mette in bocca al porporato nel rimproverare don Abbondio (cc. 25 e 26) sono degne di una grande anima, che in tanto trova formule nuove per originari princìpi cristiani di condotta morale (anche eroica), in quanto li sente e vive lui stesso. Di fronte alla prima difesa del parroco timido e vile (“sotto pena della vita m’hanno intimato di non fare quel matrimonio”), egli non esita ad elevarsi alle altezze supreme, richiamando il povero pulcino all’origine della fede cristiana: “Quello da cui abbiamo la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciamo nominare pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita?.... Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine? E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate?...”). Quando giungerà la seconda grottesca difesa (“il coraggio uno non se lo può dare”), il grande Federigo avrà pronta una risposta vincente, perchè suggerita dalla vita vissuta, da un cuore innamorato: “Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido”. Anche nel rimprovero è geniale: “Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva. L’avete ubbidita puntualmente...; vi comandò la trasgressione, e il silenzio: voi avete trasgredito e non parlavate”. Solo dopo aver richiamato il sicuro antidoto alla paura: “Amare, figliuolo; amare e pregare”, si abbassa alla prudenza più ovvia ( “i pareri di Perpetua”, deve riconoscere lo stesso don Abbondio), quella di risolvere la sua paura con il ricorso al vescovo, cioè a lui, Federigo, per far fronte alla prepotenza di don Rodrigo: “...non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di riprendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo di aiutarvi ad adempirlo?”. E quando don Abbondio si appella come a sua ultima difesa (“Gli è che le ho viste io quelle facce... le ho sentite io quelle parole...”), la risposta del cardinale è disarmante: egli riconosce tutta la verità e, quindi, anche quella che l’umiltà gli impone, di non escludere viltà e tradimenti suoi propri. E si abbassa a chiedere al suo parroco, per di più ormai reo confesso, la denuncia di eventuali sue inadempienze: “Pur troppo! –disse Federigo, -tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare.... Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento!... Ebbene, figliuolo e fratello; pichè gli errori di quelli che presiedono, sono noti più spesso agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere... Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perchè sentirete più vivamente che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono”. Anche il suo comportamento durante la carestia (“In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso da una mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo”) e durante la peste (“si cacciò insomma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso”: c. 32). Con la esaltazione della levatura morale dell’arcivescovo, stanno i suoi preti che furono fedeli alle sue esortazioni (“Siate disposti ad abbandonare questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla morte come ad un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo”: c. 32), esercitando il loro ministero che li obbligava a venire a contatto con i malati e moribondi, sicchè la percentuale dei loro decessi fu superiore a quella della popolazione dei fedeli laici (quasi gli otto noni contro i tre quarti all’incirca). Ma i personaggi più ammirati sono ovviamente i cappuccini volontari al lazzaretto a servizio degli appestati e tutti, eccetto il loro preposito p. Felice Casati (“il mirabil frate”: c. 36), raggiunti “da una morte molto più invidiabile che invidiata” (c. 31). Ad essi non sono dedicati molti paragrafi nel romanzo, ma al loro portainsegna, il convertito Ludovico divenuto padre Cristoforo, non solo è dedicata una parte da protagonista, ma sono attribuiti parole e gesti in cui la spiritualità del romanzo tocca il suo apice. Già si sono riportate scene dal c. 4, dove sbalordisce colla intensità del pentimento per l’assassinio commesso (“Io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue...); per l’umiltà che lo fa rimanere a capo chino, finchè non si sente esplicitamente perdonato (“Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!”); per la coerenza della sua scelta di vita penitente che gli fa accettare solo un pane dal fratello dell’ucciso (“il pane del perdono”); per la pienezza di vita apostolica, che lo porta a non lasciarsi mai “sfuggire un’occasione” di “accomodar differenze e proteggere oppressi” (nel c. 5, in risposta alla domanda angosciata di Lucia: “Non ci abbandonerà, padre?” risponde “Abbandonarvi!... E con che faccia potrei io chiedere a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, che Egli mi confida!...”); e che lo conduce infine a chieder di entrare al lazzaretto con questo pensiero: dare la vita in espiazione di quella tolta al “signor Tale” (“E’ già da molto tempo- rispose con tono serio e dolce il vecchio,- che chiedo al Signore una grazia, e ben grande: di finire i miei giorni in servizio del prossimo. Se me la volesse ora concedere, ho bisogno che tutti quelli che hanno carità per me, m’aiutino a ringraziarlo”). L’Innominato (un altro convertito, come lo era Manzoni) rappresenta un po’ la vetta della santità del mondo laicale, cioè coinvolge il coraggio del servo anziano di casa Rodrigo, che rischia la vita per avvisare, attraverso p. Cristoforo, i promessi sposi; la generosità del barrocciaio e del barcaiolo (c. 9), che trafugano dal Lecchese a Monza i nostri fuggiaschi; la cordialità del sarto e della moglie, che con gioia ospitano Lucia, dopo la sua liberazione (c. 24); la carità dei privati che operano in soccorso degli affamati durante il tempo della carestia (c. 28) e della peste (c. 32); la misericordia della buona vedova, compagna di Lucia al lazzaretto (c. 36); la magnanimità del marchese erede di don Rodrigo (c. 38) e l’eroica serenità della madre di Cecilia (c. 34). Dell’Innominato resta impressa la coerenza della vita che trasforma il suo castello in una rocca di santità (“In somma è divenuto quel castello una Tebaide; lei le sa queste cose”: c. 29: la definizione è munificenza della fanatasia colorita e della vanità infantile del sarto, che, avendo letto il Leggendario dei santi, oltre al Guerrin meschino ed ai Reali di Francia, può così dissipare i dubbi e le paure di don Abbondio, che presso l’Innominato si sta recando, per cercar rifugio contro i lanzichenecchi); che occupa gli anni rimasti “a far ciò che s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri”; che “Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse...; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore”. Come la sua sensibilità lo ha portato ad intuire la parte fondamentale che Lucia aveva avuto nel suo ravvedimento (“ Lucia!- esclamò l’innominato voltandosi, con la testa bassa ad Agnese.- Del bene, io! Dio immortale! Voi mi fate del bene, a venir qui... da me... in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione”), così l’equilibrio della sua generosità la rivela nel beneficarne ora la mamma con molto senso pratico: “Il giorno fissato per la partenza, l’innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese”. E tiratala in disparte, le fece accettare anche un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa...” (c. 30). Quanto ai malvagi, in genere Manzoni mette prima avanti chiaramente le mani, definendoli per quello che sono. In seguito, egli si permette anche di divertirsi alle loro spalle, dando un viraggio comico alle loro discussioni che, quando non sono una congiura per azioni criminali, si rivelano ora uno sciocchezzaio di interessi frivoli ma alla moda (banchetto di don Rodrigo: il punto d’onore!); ora una caricatura della vita persa nell’ozio, nel gioco, in scommesse per ingannare il tempo (Attilio e Rodrigo, dal capitolo secondo all’undicesimo); ora un abbaglio mastodontico, per inganni fra parenti ed amici (c. 18: Attilio ed il conte zio); ora una farsa della morte per obliare la tragedia di una vita senza senso e senza dignità (monatti, nel c. 34). Si comincia con gli interventi espliciti contro i “bravi”: dopo aver elencati i loro delitti attraverso le denunce, tanto impazienti quanto impotenti, di una serie di governatori spagnoli nel ducato di Milano, l’autore conclude con il duca di Feria (grida del 13 febbraio 1632) che “le maggiori scelleraggini procedono da quelli che chiamano bravi” (c. 1). Una volta inquadrati nella loro criminalità, il Manzoni può concedersi di dare un tono almeno in parte farsesco al colloquio fra i due inviati da don Rodrigo e don Abbondio, nonostante la somma disonestà del contenuto, che comprende la proibizione prepotente ed oscena di fare il matrimonio fra Renzo e Lucia, le bestemmie che vi mescolano e la minaccia di morte, lasciata intendere pel caso di trasgressione del divieto. Il loro mandante don Rodrigo e il suo luogotenente Griso sono definiti “due fastidiosi ribaldi” (c. 7), i cui particolari nel piano di rapimento vengono denunciati come “bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale” (id.). Quanto al cugino di Rodrigo, il conte Attilio, è introdotto subito come “spensierato” e suo “collega di libertinaggio e soverchieria” (c. 5). Dopo una tale precisazione, i loro colloqui, a tavola ed in privato, possono assumere il gergo, la spavalderia, la disinvoltura che l’artista ritrae realisticamente, in coerenza con la vita di giovinastri ricchi e scapestrati. In particolare nel convito donrodrighesco le parole “mascalzoni” e “galantuomini” assumono valori non tanto paradossali, quanto paranoici: questi secondi sono i nobili e quanti li servono (come il podestà ed il dottor Azzeccagarbugli); i primi sono i plebei ed i borghesi non “allineati”. Il tutto in presenza di padre Cristoforo... Comincia Rodrigo a mettere dalla parte del torto il creditore che osasse richiedere quanto gli spetta: “No, per bacco, non mi farà questo torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via da questa casa, senza aver gustato del mio vino, nè un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna dei miei boschi” (c. 5). Ma è Attilio il più esplicito: il messaggero di sfida al duello, è definito sbrigativamente “asino temerario”; dichiarato come assioma lapalissiano che “il bastone non isporca le mani a nessuno”, si capisce che le bastonate date al messagegro, sono “ben date, ben applicate... Fu una vera ispirazione”; anzi il messaggero è senz’altro un “mascalzone”, delle cui spalle non si riesce a capire perchè ci si debba prendere a cuore le sorti! Difatti “Concedo che generalmente possa chiamarsi atto proditorio” “ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena”, “ma appoggiare quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada”. E, di fronte alla candida proposta del padre “che non vi fossero nè sfide, nè portatori, nè bastonate”, Attilio sbotta: “Ma padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra:. Senza sfide! Senza bastonate! Addio punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni...”. Ripetiamo una ennesima volta con Socrate: tra malvagi non può sorgere amicizia vera. Il modo con cui Attilio inganna il conte zio a servizio del cugino, per far sgombrare padre Cristoforo d’accanto ai due promessi, ne è una prova lampante. Qui (si deve sospettarlo) il divertimento di Manzoni è doppio. Da una aprte, Attilio è una volpe dinoccolata e di lungo corso, che parla “con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo” (c. 18); che ammette dei torti minori nel cugino (“Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo...”); che afferma con un tono sincero che rasenta la solennità di un giuramento (“Credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signor zio di un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventare serio, e portar delle conseguenze...”;“Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino”; “dirò il vero anche in questo...”). Dall’altra, la stolidità intellettuale del conte zio è pari solo alla sua “boria ombrosa” (c. 19): “sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere” (c. 18). Stabilito il giudizio morale sui due interlocutori, l’esito è scontato e Manzoni può sorridere alla spalle di entrambi senza compromettersi con la loro malizia e stupidità. Il principe de Leyva che forza la figlia a farsi monaca, è seguito nelle sue trame con “sospensione penosa” dal Manzoni, che ad un certo punto gli nega il titolo di padre (c. 10).[199] Nei capitoli sulla carestia e sulla peste, i due governatori di Milano, don Gonzalo de Cordoba ed Ambrogio Spinola sono ferocemente rimproverati, per aver abbandonato la popolazione alla fame ed alla mortalità spopolatrice, in favore di una guerra, oltre tutto inutile, come quella del Monferrato. Sullo Spinola, da lui ritenuto il migliore fra i due, così si esprime “La storia ha deplorata (sic) la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa” (c. 31).[200] Vengono infine i monatti e gli apparitori[201] rappresentano l’apice della malvagità scatenatasi durante la pestilenza: “I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusione comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo.... Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubalmenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi... Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote di abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri, che facevano lo stesso, e anche cose peggiori” (c. 32). Non ci si meraviglia che Renzo, costretto a salvarsi su un carro dei monatti avviato al lazzaretto, prega la Provvidenza di liberarlo da tali suoi liberatori! (c. 34). Ma non ci scandalizza neppure che lo scrittore, moralmente impegnato sino allo scrupolo, lasci parlare i monatti a briglia sciolta: il brindisi fatto al padrone del vino che essi tracannano (al suo cadavere, s’intende) è una pagina degna di Rabelais, una scena di farsa in cui si ride sui morti e si esaltano le imprese furfantesche (“si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l’abbiam messo in carrozza per condurlo in villeggiatura. E poi, già a lor signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono”: c. 34). Tra i buoni ed i cattivi, Manzoni non dimentica di interessarsi dei mediocri, di coloro cioè che fanno il male per ignoranza o per debolezza, che non hanno la virtù della fortezza o della prudenza, ma che pur cercano abitualmente di praticare la giustizia e di tener a freno le passioni con la temperanza. Non hanno scelto il male come progetto di vita, anzi non lo amano, ma non sanno preferirgli il bene ad ogni costo, mettendolo come prima opzione di condotta. Vivono abitualmente dall’interno all’esterno, cioè si sforzano di agire secondo i dettami della coscienza, ma talora per imprevidenza, talora per debolezza, finiscono per agire dall’esterno all’interno, cioè di far tacere la coscienza o per la vanità che nasconde loro il vero bene (siamo al caso del sarto, nei cc. 24, 29 e 30; e di donna Prassede, nei cc. 25 e 27) o per la scarsezza del senso critico (“sinderesi”, si dice col gergo della scienza morale) nel distinguere il bene dal male, il che li rende succubi dell’opinione dominante (è il caso di don Ferrante); o per la paura che fa posporre la fuga dal male o la pratica del bene dovuto, alle minacce contro la propria vita od al proprio comodo modo di vivere (è il caso di don Abbondio). La mediocrità del sarto non fa del male che a lui stesso, rivelando una piccola intelligenza a servizio di un grande cuore. Quella di donna Prassede rischia di far del male alla piccola cerchia delle persone (figlie e loro famiglie o monasteri che le hanno accolte, individui cui essa si sforza con molta sincerità soggettiva, ma con poca verità oggettiva, di far del bene). La mediocrità scriteriata del marito don Ferrante ha effetti peggiori, perchè la insufficiente sinderesi si esercita su un corpo sociale più vasto: non solo perchè egli è chiamato a decidere punti d’onore ed a collaborare, quindi, più o meno da vicino, a qualche duello, ma per il solo fatto di confermare la fama di scritti immeritevoli e di fare il vuoto attorno a quelli di valore. La mediocrità di don Abbondio è alla radice: egli non ha avuto dalla natura quella dote minima autorità, necessaria per chiunque assuma un posto di responsabilità: il suo peccato originale sta nella scelta dello stato ecclesiastico, di cui accetta l’impegno alla castità ed alle funzioni liturgiche, ma accantonando gli obblighi di fedeltà ai doveri sociali che l’ordinazione sacerdotale e , in particolare, la carica di parroco esigono sempre e, presto o tardi, anche con gravi incomodi e rischi.[202] Lo studio dei motivi ispiratori ed in particolare delle analisi psicologiche ci han già dato modo di contattare nel vivo, colle espressioni manzoniane, anche molti di questi personaggi che incarnano la mediocrità: altre citazioni ci darà modi di fare l’indagine sui toni lirici e sulla tecnica stilistica. Pel momento abbiamo ancora il debito di riportare le sentenze di positivo impegno morale del Manzoni nelle pagine del romanzo: siamo già persuasi che non riusciremo ad esaurire l’elenco. “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi” (c. 2: a proposito degli... spropositi di assassinio che Renzo va almanaccando contro don Rodrigo).[203] “A questo mondo c’è giustizia finalmente! Tantè vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica” (c. 3: idem). “Le abitudini temperate ed oneste... recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se ne allontani, se ne risente subito; dimodochè se ne ricorda poi per un pezzo e anche uno sproposito gli serve di scola” (c. 14: a proposito di Renzo all’osteria della luna piena, che si ubriaca con poco vino in più della misura ragionevole). “La strada dell’iniquità... è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benchè vada all’ingiù” (a proposito di don Rodrigo, che trova ormai impossibile alle sole sue risorse impadronirsi di Lucia e sta pensando a chiedere la pericolosa collaborazione dell’innominato). “Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente” (c. 20, a proposito di Geltrude che sente forti resistenze della coscienza contro l’ordine di Egidio a sacrificare Lucia). “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia! (c. 21: Lucia all’innominato). “La vita non è già destinata ad essere un peso per molti ed una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto” (c. 22). “La disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male” (c. 24: pensiero della predica del cardinal Federigo, riportato dal sarto in famiglia). “Fate del bene a quanti più potete... e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar dei visi che vi mettano allegria” (c. 29: a proposito dell’incontro tra Agnese e la famiglia del sarto, mentre era in viaggio con don Abbondio e Perpetua verso il castello dell’innominato). “Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura in un trattato d’economia politica” (c. 33): a proposito dei cavalieri medioevali “erranti” e dei guariti dalla peste, che potevano viaggiare sicuri tra i pericoli, ma contro la pretesa (probabilmente di Melchiorre Gioia, nel suo “Nuovo prospetto delle scienze economiche”, del 1815) di fare della guerra il punto nodale dell’economia politica, cioè il fine del rafforzamento delle finanze di uno stato che, consumate in guerra, verrebbero poi compensato dalle estorsioni al nemico vinto). “Son que’ benedetti affari che imbroglian gli affetti” (c. 38: a proposito dell’amore “condizionato solo dalla paura” di don Abbondio verso Renzo e Lucia). “Si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio” (id.: a proposito della impossibilità di trovare la perfetta soddisfazione a questo mondo): “... conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore” (ib.: conclusione del romanzo o “sugo” della storia). Ci pare allora dimostrato che è nella continua tensione fra il polo religioso (Dio tende sempre la mano all’uomo, per preservarlo dal male, per richiamarlo e perdonarlo dopo le sue cadute, per convertirlo dal bene al meglio...) e quello morale (l’uomo risponde all’opera di Dio, con l’accettazione della vita come suo dono e vocazione al bene, fino al sacrificio di se stesso; o con la ribellione a tale impostazione religiosa, sino al rifiuto di Dio, in una vita facilmente dedita a vizi e turpitudini) che scocca l’ispirazione più alta e più continua nel Manzoni. Se la ispirazione morale precede la rinascita cattolica del Manzoni, la sua concezione religiosa della vita nasce proprio da tale ritorno alle origini cristiane della sua educazione. Ma non senza il segno della crisi ed abbandono che aveva segnato la sua giovinezza, al seguito delle dottrine illuministiche dominanti. Difatti, al deismo che nega l’intervento di Dio nella evoluzione del mondo e nella storia degli uomini, Manzoni risponde facendo della Provvidenza di Dio il punto focale della sua fede e della sua ispirazione poetica. E’ tipico della reazione di un convertito fare della antica eresia, quasi un bersaglio polemico, che sa ribaltarsi poi in una verità a sua volta riassuntiva della propria religiosità. E credere nella Provvidenza ha un effetto equilibratore e sublimatore non soltanto nel pensiero, ma anche nella poesia. Infatti, in questa concezione della vita terrena, l’iniziativa di Dio e la cooperazione dell’uomo si rivelano entrambe necessarie alla salvezza, in una visione armoniosa, tipicamente cattolica, lontana da ogni giansenistico, arbitrario monopolio di Dio nel determinare la volontà umana al bene piuttosto che al male. Inoltre, aprirsi al problema dei rapporti fra onnipotenza di Dio e libero arbitrio umano significava mettersi in sintonia con i più grandi capolavori dell’umanità letteraria. Se, in Omero, la concezione disorientata della divinità rende poco evidente il rapporto fra Provvidenza divina e giustizia umana (gli dei sono divisi e in lotta fra loro, mentre la vittoria stentata dei Greci, appare frutto più dell’astuzia di Ulisse che del volere di Giove), in Virgilio il “fato” di Giove è decisivo ed è finalizzato ad un’impresa (la fondazione dell’impero romano) che può apparire anche buona per gli aspetti di progresso tecnico e culturale, oltre che di unificazione socio-politica, che ne furono il frutto indubbio. E Virgilio non fa che raccogliere la convinzione di Eschilo, per il quale giustizia (“dìche” ) e vittoria (“nìche”) sono in rapporto obbligato, proprio grazie alla provvidenza divina, che non può non favorire i combattenti per una causa giusta. Sofocle ed Euripide, anch’essi, sebbene in maniera meno candida e più complicata, mettono al centro della loro opera tragica il problema del rapporto fra virtù e premio, delitto e castigo, cioè il senso della giustizia divina nel mondo. Anche Shakespeare, in Macbeth ed in re Lear, si pone un simile problema e conduce alla perdizione i malvagi, da principio più forti, sia pure attraverso il sacrificio di molti innocenti, ad un rappresentante dei quali alla fine rimane la vittoria. Prima del bardo inglese, il Tasso aveva già composto la sua Gerusalemme su tale leit-motiv; la Spagna darà in seguito “Il convitato di pietra” mentre nel Milleottocento russo Fiodor Dostoievski e Leone Tolstoi lavoreranno sulla stessa ispirazione nei loro capolavori: addirittura Dostoievski conierà, nel titolo del suo capolavoro (“Delitto e castigo”), la prima parte del binomio che ci auguriamo diventi l’icona della tematica morale in rapoporto alla Provvidenza. Manzoni, cioè, senza saperlo si è posto nella propsettiva del motivo poeticamente più fecondo (perchè il più radicale ed il più elevato) della civiltà occidentale. E, in questa prospettiva completa e sublime, Manzoni si apre a tutte le vibrazioni del cuore umano, non limitandosi a quelle tonalità che i versi per Carlo Imbonati gli avevano ispirate: l’epopea del sentirsi giusto e incorruttibile e il dramma della preoccupazione a continuare su tale via di rigore, con la condanan di chi ad essa non si attiene, senza misericordia per i deboli ed i mediocri, nell’orgoglio del proprio pensare e sentire, che fa della coscienza propria la legge morale ultima e sola. Si deve almeno sospettare che la fede ha dato al Manzoni non solo una visione più completa della legge morale, ma anche una concezione più esauriente dell’uomo e della società, proprio perchè il Vangelo gli ha insegnato a credere in una morale oggttiva, di valore universale, che supera il soggettvismo relativistico della coscienza del singolo o dell’opinione dominante in una certa epoca e società. Senza dire della esigenza di scrutarsi a fondo, per scoprire limiti e colpe in se stesso, prima di rimproverare acerbamente quelle altrui; della valorizzazione degli umili della carità verso i poveri, della compassione per i peccatori... Si tratta di una mentalità che educa all’umiltà e ad un concetto di onestà valido per tutti i luoghi e le epoche. Il corollario emotivo sarà l’aprirsi ad una gamma più vasta di sentimenti, da tradurre eventualmente in poesia di versi o di prosa, in una complessità di registri lirici (tenerezza, commozione, comicità, oltre all’elegia ed idillio, epopea e dramma), che fanno il poeta completo, l’artista universale. In particolare, è molto verosimile che la comicità, in tanto può dilagare nel romanzo in ogni sua sfumatura, ma specialmente nella forma dell’umorismo fraterno e compassionevole, in quanto Manzoni ha fiducia nella Provvidenza. Essa finirà per premiare i buoni nell’altra vita, sicchè si potrà godere la gioia del sorriso, nonostante il loro stato di agonia qui in terra. Essa riuscirà a riscattare i mediocri, impedendo che la loro imprudenza o viltà causi danni definitivi, sicchè si potrà fare della ironia benevola sulle loro debolezze, sicuri che il piano di Dio si realizza, nonostante le loro incertezze nel bene o cedimenti al male, o proprio anche attraverso questi stessi passi falsi. Vi è cioè una “ironia della storia” (eironèia tès istorìas), per cui la Provvidenza sa ricavare il bene anche dal male, praticando quella “eterogenesi dei fini”, per cui dai princìpi più inadeguati o sproporzionati, fa risultare i fini voluti fin dall’eternità; e dalle malizie umane fa sbocciare il trionfo della virtù e l’imporsi della giustizia. E’ in questa prospettiva che le astuzie degli operatori di iniquità si rivelano povere alzate d’ingegno di capiscarichi come il conte Attilio o inutili imbrogli alla Azzeccagarbugli o tradimenti falliti di birboni delusi, come il Griso e gli altri bravi di don Rodrigo. In tale orizzone c’è posto per il sorriso umoristico, per il riso ironico, per la risata farsesca, persino per il grottesco, che ride sul dolore, perchè Dio riscatterà convertendo o condannando: Dio è un benefico sornione, che gioca sulla sfera della terra (Proverbi, 8, 31). Non è vero che la vita “è uno scherzo, uno scherzo, è tutto uno scherzo”, ma è invece vero che nella vita “tutto è scherzo d’amore”[204]. La sorgente della comicità manzoniana è radicata nella fede religiosa, dunque: senza di essa, egli si sdegnerebbe del male senza la speranza di vederlo ricuperato; conoscerebbe nei suoi confronti solo la frusta del dramma impietoso, non la gomitata compassionevole della canzonatura benevola. Egli la usa anche con un cafone innocuo come il conte zio, colui che è riuscito soltanto, con tutta la sua arte politica, “a far andare padre Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata” (c. 19). Anzi, siccome il piano provvidenziale di salvezza per i giusti si realizza nonostante la più profonda malvagità di certi malvagi, così talora capita al Manzoni di ridere farsescamente, di abbassarsi al grottesco, quando la vita di un uomo non ha più nulla di umano: è il caso dei monatti nel c. 34. Solitamente, però, lo scrittore non si permette di ridere nè di fronte al bene coerente (Cristoforo, Lucia, Federigo, l’innominato dopo la conversione) nè di fronte al male più subdolo (il principe de Leyva) o più scatenato (la monaca sua figlia, don Rodrigo, l’innominato prima della conversione). [205] Manzoni ride finchè vede spiragli di salvezza o per gli stessi personaggi o per le persone da loro prese a perseguitare. Possiamo ora introdurci alla visione della dimensione propriamente estetica della scrittura manzoniana: l’indagine sulle tonalità liriche, cioè sulla qualità delle emozioni espresse.
LE TONALITA’ LIRICHE CARATTERI
GENERALI
UNIVERSALITA’. Manzoni è aperto a tutta la gamma della umana emotività. Non è monomelodico, come l’Ariosto, (idillio) o specializzato in una sola delle coppie opposte di “contemplazione” (idillio, elegia: Petrarca, Pascoli) o “dramma” (epopea, tragedia: Alfieri, Parini). Capace, dunque, di far risuonare nella parola sia l’idillio che l’elegia, sia il dramma-tragedia che l’epopea egli, facendo aggio sullo stesso Dante, è aperto anche a quelle simbiosi di stati d’animo, che differenziano il poeta romantico (a prevalente potere emotivo) rispetto a quello classico (a prevalente razionalità). Difatti egli sa esprimere anche la tenerezza e la commozione, l’estasi e la comicità. Rimane fermo, però, che altra è la questione della intensità dei sentimenti espressi, per cui Dante e forse lo stesso Shakespeare sono superiori al Manzoni: è nella vastità della gamma delle emozioni (dei registri dei toni lirici) che Manzoni e Foscolo sono privilegiati. Come era da aspettarsi, alla piena maturità dei motivi ispiratori, che abbracciano tutte le componenti dell’essere, sino alla problematica suprema, quella etico-religiosa, corrisponde simmetricamente la universalità dei registri lirici, delle tonalità emotive.
L’AUTOCOSCIENZA DEI PROPRI SENTIMENTI Come molti altri grandi scrittori, Manzoni si lascia sfuggire, in moltissimi brani di risonanza artistica, il tipo della emozione espressa, attraverso un sostantivo o verbo, un aggettivo od avverbio, rivelando così di essere cosciente della sensibilità che accompagna (o detta) la sua scrittura. La cosa è indice di intelligenza psicologica eccezionale, di autocoscienza superiore. Dovremmo riferirci qui a moltissimi passi delle opere. Citiamo un caso dalle liriche, un paio dalle tragedie, due o tre dal romanzo. Il Natale, v. 67 (soavemente): avverbio che rivela l’idillio dei versi. Adelchi: primo coro, vv. 7-24: “guardi dubbiosi| pavidi volti| confuso e incerto| misero orgoglio| tremante| fra tema e desire...”: sono aggettivi che rappresentano dei giudizi critici sulla propria poesia, in quanto ne definiscono da vicino gli stati d’animo, alternanti fra elegia e dramma. Adelchi, secondo coro, vv.85-120: “gentil, ansia (ansiosa) mente, compianta e placida, in pace, sereno”: in questi attributi, Manzoni suggerisce l’emozione varia (elegia, lieve dramma residuo, idillio finale) che accompagna la fine di Ermengarda (sognata, nel suo cuore di poeta, affine alla figura ideale e limpida del fratello Adelchi), rivelando la coscienza della categoria psicologica cui apaprtengono. I promessi sposi: c. 1: “bel bello”: la figura idillica e ridicola di don Abbondio c. 8 “quanto è triste il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!”: elegia segnalata dall’aggettivo “triste”. c. 14: “accoramento svenevole”: termine preciso per lo stato d’animo di Renzo, in cui il ricordo di Lucia e delle recenti disavventure ridesta la gioia svanita e la fonde con un senso infantile (causato dal vino: voglia di piangere) della tristezza presente.[206] c. 34: Renzo “riavuto da quella “commozione straordinaria” (la vista della madre di Cecilia): è il termine preciso dell’affetto espresso, simbiosi di epopea ed elegia. ECCEZIONALE
INTENSITA’ DEL LIRISMO Quando A. Momigliano (A.M., Milano-Messina, Principato, 1952) parla del Manzoni come di una “forza di natura”, intende accennare, pensiamo, a due dimensioni del genio manzoniano: da una parte, la connaturalita’ sostanziale della sua potenza estetica, che non trova nell’ambiente o nella cultura, che l’ha pur condizionato in qualche misura, una spiegazione se non marginalissima; dall’altra, la straordinaria altezza del suo volo poetico. Egli fu, dunque, nel pensiero del psicologicamente acuto Momigliano, da una parte, quasi un vulcano o terremoto, quasi un evento fatale, voluto dal destino, inarrestabile;[207] dall’altra, la catastrofe in positivo della sua opera è da paragonarsi a quei rari eventi che si chiamano Omero e Viriglio, Dante e Shakespeare, Foscolo e Goethe. I
SINGOLI TONI LIRICI
L’IDILLIO Il Natale: discreto l’idillio dei vv. 64-70; minato da tentazioni epicizzanti è quello dei vv. 85-91. Altri versi singoli (vv. 99-100: Dormi, o Fanciul, non piangere;| dormi o Fanciul celeste”). La Pentecoste: immagini della luce (vv. 41-4) e del fiore (vv.101-111).[208] Il conte di Carmagnola, coro: i vv.37-48 e 65-8 sono idillici, nonostante il verso epicizzante del decasillabo. Proprio per questo li citiamo in nota, perchè fenomeno che dimostra come il valore logico della parola prevalga, anche in poesia, sul suo valore musicale nell’esprimere le emozioni.[209] Adelchi: descrizione del viaggio fatta dal diacono Martino (II, 3, vv.167-256: ma sono intinti di velature drammatiche all’inizio ed epicizzanti alla fine); IV, 1: coro di Ermengarda, vv. 61-72 (immagine della rugiada che ridà vita all’erba già avvizzita dal troppo sole).[210] I promessi sposi: mediocre la descrizione del paessaggio lecchese che apre il romanzo (“Quel ramo del lago di Como... dell’altre vedute”); seducente l’introduzione al brano elegiaco “Addio monti” (c. 8);[211] discreto il cielo del mattino in cui Renzo attraversa l’Adda (c. 17: “Il cielo prometteva una bella giornata.... quel bel ciel di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”); toccanti il calar della sera sul villaggio di Renzo e Lucia ( c. 7) e l’oasi dei neonati al Lazzaretto (c. 35). Riportiamo in nota gli ultimi due.[212]
LA ELEGIA Il conte di Carmagnola: V,5 (le parole estreme del conte).[213] Adelchi: IV, 1: coro di Ermengarda. Sono elegiaci i primi 24 versi e i vv. 90-96[214] I promessi sposi: c. 8, brano centrale di ”Addio, monti” da “Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!” fino a “non può con l’immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno!” (che non riportiamo, perchè non è la parte migliore del brano, altrimenti sublime nella tenerezza); c. 17: l’entrata di Renzo nella “sodaglia sparsa di felci e di scope” (che riportiamo, anche se mediocre, perchè breve e solitamente inosservato).[215]
LA TENEREZZA E’ noto che chiamiamo così il sinergismo dei due stati d’animo (emozioni) dell’idillio e della elegia. Caso supremo, nella nostra letteratura, “A Silvia”, di Leopardi. Adelchi, coro di Ermengarda, vv. 105-120: “Te collocò la provvida| sventura infra gli oppressi:) muori compianta e palcida;| scendi a dormir con essi:| alle incolpate ceneri| nessuno insulterà.| Muori; e la faccia esanime| si ricomponga in pace;| com’era allor che improvida| d’un avvenir fallace,| lievi pensier virginei| solo pingea. Così|| dalle squarciate nuvole| si svolge il sol cadente,| e dietro il monte, imporpora| il trepido occidente:| al pio colono augurio| di più sereno dì”. I promessi sposi, c. 8, parti iniziale e finale del brano famoso: “Addio monti, sorgenti dall’acque ed elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella mente non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio. Quanto è triste il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!....Addio, casa natia, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov’era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l’amore venir comandato e chiamarsi santo; addio! Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.
L’EPOPEA E’ frequente, sia nelle liriche che nei cori delle tragedie; e non manca nel romanzo. Il Natale: vv.29-63 (“Ecco ci è nato un pargolo...|| O Figlio, o Tu cui genera| l’Eterno, eterno seco;| qual ti può dir de’ secoli:| tu cominciasti meco?| tu sei: del vasto empiro| non ti comprende il giro:| la Tua parola il fe’”); vv. 71-112 (“L’angel del cielo, agli uomini| nunzio di tanta sorte...subito in luce appar.|| E intorno a lui per l’ampia| notte calati a stuolo,| mille celsti stirnsero| il fiammeggiante volo;| e accesi in dolce zelo,| come si canta in cielo,| a Dio gloria cantar.||.... Dormi, fanciul, non piangere;| dormi fanciul celeste:| sopra il tuo capo stridere| non osin le tempeste,| use sull’empia terra,| come cavalli in guerra,| correr davanti a Te.|| Dormi, o Celeste: i popoli| chi nato sia non sanno;| ma il dì verrà che nobile| retaggio tuo saranno;| che nell’umìl riposo,| che nella polve ascoso,| conosceranno il re”. La Risurrezione: tutta impostata festosamente, epicamente. E tutta è discretamente riuscita, ma nessuna strofa ci pare priva di esagerazioni e cadenze sentimentali, non decantate completamente da una certa retorica religiosa, da fervore soggettivo. La Pentecoste: E’ tutta in tono esultante, eccetto le pause idilliche delle due immagini già riportate; ed è tutta sublime (tranne forse le primissime strofe, che sono grandi, ma mantengono il sapore dello sforzo, che ha prolungato la stesura dell’inno sacro dal 1817 al 1822. Ci limitiamo a riportare in nota le ultime quattro strofe (vv. 113-144), unicamente per motivo si spazio. Anche altre volte i brani più belli li dovremo tralasciare per lo stesso motivo tiranno.[216] Il nome di Maria: sono sempre versi di Manzoni, e versi epicizzanti, ma direi solo sufficienti; lo sforzo residuo nel trasformare il sentimento personale, la devozione soggettiva in emotività universale è ancora sensibile nel vocabolario talora forzato (scola, nutrìca, lande, die, parte=divide...) e soprattutto nel susseguirsi di esclamazioni e domande retoriche. C’è da domandarsi come abbia fatto a rendere la poesia leggibile anche più di una volta, con simile costruzione classicistica che, pure, deve esprimere sentimenti popolarissimi, romantici. Il Cinque maggio: è tutta in tono solenne; è pura epopea, se si eccettuano le cadute drammatiche dei vv. 55-90 (“E sparve, e i dì nell’ozio...||... stette e dei dì che furono| l’assalse il sovvenir!) e dei vv.. 85-90 (“Ahi! forse a tanto strazio| cadde lo spirto anélo...”); e quella meditativa, fra epopea ed elegia, cioè avviata alla commozione, dell’ultima strofa: “Tu dalle stanche ceneri...”). Riportiamo in nota le strofe epiche più travolgfenti.[217] Marzo 1821: tutta la prima parte (strofe 1-8: si tratta di quarantotto decasillabi) è altamente epica, sebbene vi si senta qualche residuo di sentimento pratico-operativo, cioè di passionalità soggettiva non sublimata in pura arte. Nel resto prevale il dramma. Riportiamo in nota i versi per noi migliori.[218] Il conte di Carmagnola, coro: il verso (decasillabi schierati in ottave) è quello tirtaico, metricamente epicizzante per natura, con la sua struttura di accentuazione ascendente (due sillabe non accentate che si rovesciano sulla terza ictata, come nell’anapesto greco-latino). Ma siccome la parola-pensiero prevale sul vocabolo-musica, non ci meraviglieremo se alcune strofe assumono valore ora più drammatico, ora addirittura idillico: ne abbiamo sopra riportati i versi sorprendenti; ora ne citeremo in nota quelli che ci sembrano i migliori tra quelli epici ( ma la più parte sono tragici; e li vedremo a suo luogo).[219] Adelchi, coro dell’atto III, sc. 9: è diviso fra dramma sommesso o tragedia spiegata; ed epopea, segnata ancora da striature drammatiche: riportiamo in nota queste seconde incerte fra l’euforia dell’aggressione e le fatiche, i pericoli della guerra.[220] I promessi sposi. Non molti sono i brani connotati epicamente: direi per il fatto che la vicenda ben poco vi si presta, piuttosto che (alla Luigi Russo) per una volontà cosciente di evitare i toni troppo spiegati e forti. Il c. 22, dedicato soprattutto alla vita del cardinal Federigo, è in tono lievemente ma costantemente celebrativo: è in una tonalità complessivamente epica, anche se minore. Riportiamo in nota qualche espressione.[221] Più convincente e avvincente è la figura dell’innominato che ritorna al castello convertito, ma immutato nella sua personalità tetragona, imponente, volitiva. Ecco la condotta e le parole nel c. 24, dopo che dal c. 20 si è già riferito la descrizione, pure epicizzante, della figura fisica (“Era grande, bruno, calvo...”): “Ai primi bravi, o servitori (era tutt’uno) che vide, accennò che lo seguissero; e così di mano in mano. Tutti venivano dietro, con una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finchè, con un seguito sempre crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavano sulla porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti que’ suoi che l’avessero sentito. In un momento, quelli ch’erano sparsi per il castello vennero dietro alla voce, e s’univano ai già radunati, guardando tutti il padrone. –Andate tutti ad aspettarmi nella sala grande-disse loro; e dall’alto della sua cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla stalla, e andò dov’era aspettato. Al suo apaprire cessò subito un gran bisbiglio che c’era; tutti si restrinsero da una parte, lasciando vuoto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina. L’innominato alzò la mano, come per mantenere quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: -ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato...”. Alla fine del discorso, breve, pieno di cose, senza sbavature, ma chiaro e fermo, ecco l’effetto: “Qui finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que’ cervelli, non ne apaprve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione di una volontà con la quale non c’era a ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita.... S’aggiunga a tutto ciò, che quelli tra loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per primi la gran nuova, avevano insieme riferito la gioia, la baldanza della popolazione, l’amore e la venerazione per l’innominato, ch’erano entrati in luogo dell’antico odio e dell’antico terrore. Di maniera che, nell’uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, vedevan ora la meraviglia, l’idolo della moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo... E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano” imperiosa per accennar che se ne andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Subito poi andò a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrate, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire”. Un altro pezzo intonato alla epicità riguarda la guerra del Monferrato. Nel c. 30, troviamo un brano epico suggestivo sul procedere delle venti squadre verso Mantova: “passano i cavalli di Wallentsein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Coloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo”. E infine, l’esultanza di Renzo sotto l’acqua scrosciante, che porterà via la pestilenza, come il suo viaggio al lazzaretto ha risolto tutti i suoi problemi: “...la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi respironi largi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino”. Il brano continua su questo tono fervido, lieto, talora allegro e popolareggiante, ma sempre sostenuto e vivace: una epopea ispirata dalla individualità di Renzo, presente in tutte le sue componenti, di robustezza e onestà, ma anche di semplicità e rusticità; di forza e perseveranza, ma anche di impulsività e spavalderia. Manzoni sapeva immedesimarsi perfettamente (coerentemente) nei personaggi che inventava.
LA COMMOZIONE Risulta dalla confluenza di epopea (ammirazione per la grandezza di un gesto singolo, di un personaggio tutto) e di elegia (per la sofferenza o addirittura la morte che tale gesto comporta o cui tale personaggio è destinato). L’epopea sostituisce l’idillio nella commozione e la distingue dalla tenerezza; l’eroismo subentra alla semplice innocenza ed innalza l’emotività alla tonalità maggiore. Ci pare ritrovarla unicamente nel romanzo e, precisamente, in questi cinque passi: il perdono di padre Cristoforo (c. 4), il voto di Lucia (c. 21), la madre di Cecilia (c. 34), il discorso di p. Felice Casati ai convalescenti dalal peste (c. 36) e l’incontro d’amore e di lacrime fra Renzo e Lucia al lazzaretto (c. 36). Alcune di queste scene le conosciamo già dallo studio della vita morale nel romanzo. Il pane del perdono di p. Cristoforo: lo abbiamo letto antologicamente a pp. 129-130. Il voto di Lucia: l’eroismo della descrizione genera l’ammirazione epica; il dolore che la spinge ad un simile “oltraggio”[222] genera la elegia: “Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacchè in quel momento, l’animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, nè concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò e risolvette subito di farne un sacrifizio. S’alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: -o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner sempre vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra. Proferite queste aprole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era iscritta...”. La madre di Cecilia: qui il sinergismo è fra la elegia nel cuore di una madre che sta accompagnando ad “indegne esequie” (il carro dei monatti) la più grandicella delle sue creature, sentendo in sè lo sfinimento che precede la propria morte e vedendo i segni della fine anche per l’ultima bambina; e la fortezza di una donna cristiana che non ha una parola di lamento, ma solo parole di serena certezza nella fede e di somma dignità nella condotta, cioè l’attitudine di una grande signora cristiana. La lunghezza dell’episodio cui assiste, commosso, Renzo, ci costringe a relegarlo in nota.[223] Il discorso di padre Felice Casati ai convalescenti, che si avviano alla quarantena, fuori del lazzaretto, è già stato riportato nella sua parte più sublime (la finale richiesta di perdono per eventuali mancanza di carità verso i malati, che essi servivano a costo della vita), a p. 57, nell’esame del comportamento di preti e frati, nella grande galassia dell’umanità presa in esame dal Manzoni. Il colloquio tempestoso d’amore fra Renzo e Lucia: la commozione nasce soprattutto dall’incontro tra la fortezza di Lucia, fedele al voto di verginità, e l’imporsi prepotente della tenacità di un amore, che in essa persiste forte più della morte. Ma anche la costanza dell’affetto di Renzo e la delicatezza del suo argomentare, ragionevole fino alla verità, contribuiscono non poco all’insorgere del tumulto di passioni, da cui si costruisce la complessa tonalità lirica della commozione. Riportiamo tutto il colloquio in nota, pur avendone già anticipate qua e là nel testo alcune battute.[224] FRA DRAMMA E TRAGEDIA Teoricamente il “genere” “dramma” si riferisce agli stati d’animo mossi e vivaci, sia nel campo della gioia (epopea) sia in quello della tristezza (tragedia). Ma, di fatto, il senso specifico prevale e “drammatico” è sinonimo di “tragico” oppure significa una sua manifestazione minore. Siamo cioè sempre, in gradi diversi, nel campo delle emozioni forti e tetre, risentite e dolenti. Ebbene, esse occupano in quasi tutti gli autori la più parte delle loro espressioni: il tono drammatico è come il comun denominatore di scrittori in versi e prosa, seppur in intensità mediocre: è per lo più il registro in cui cadono nei momenti di minor ispirazione ( Petrarca non escluso!), anche se si ritrovano, poi, in essi delle espressioni in cui la drammaticità raggiunge gradi di intensità notevole o sublime. E’ ciò che accade anche in Manzoni, persino in una lirica che dovrebbe essere tutta serena e lieta come Il Natale (od anche Il nome di Maria). Ma se ivi i brani drammatici non superano il valore estetico della discretezza, altrove, nelle tragedie e nel romanzo, raggiungono un diapason vibratissimo, una intensità geniale. Proprio perchè numerosissimi i brani così connotati, dovremo usare la forbice nelle citazioni e limitarci talora a dei rimandi. Il Natale, che abbiam visto alternare, nel corpo e nella finale, brani idillici ed epicizzanti, si apre proprio con una immagine drammatica, quella che deve illustrare la caduta dell’uomo nella miseria delle conseguenze al peccato originale: la riportiamo in nota.[225] La Passione, nella sua modestia poetica, è tutta giocata su un sottofondo drammatico, come richiede il motivo ispiratore. Noi vogliamo riportare in nota le tre strofe che più han trovato risonanza nella nostra sensibilità, facendo presente che la terza strofa viene citata sottintendendo le strofe finali dell’Inno, strofe’che allontanano ogni sospetto di antisemitismo, proprio perchè implorano che il sangue di Cristo scenda sul capo del popolo ebraico, ma come lavacro di purificazione e non come incessante castigo.[226] Il Nome di Maria, i vv. 45-60 (“Nelle paure della veglia bruna.... e tanto| secol vi corse sopra”) costituiscono una parentesi drammatica nel contesto sostanzialmente celebrativo e, quindi, epicizzante, dell’inno. Il cinque maggio, ode eminentemente epica, ha però i suoi ripensamenti doloranti: “ E sparve e i dì nell’ozio| chiuse in sì breve sponda,| segno d’immensa invidia e di pietà profonda,| d’inestinguibil odio| e d’indomato amor.|| Come sul capo al naufrago| l’onda s’avvolve e pesa,| l’onda su cui del misero| alta pur dianzi e tesa,| scorrea la vista a scernere| prode remote invan,|| tal su quell’alma il cumulo| delle memorie scese!| Oh quante volte ai posteri| narrar se stesso imprese,| e sull’eterne pagine| cadde la stanca man!|| Oh quante vole, al tacito| morir d’un giorno inerte,| chinati i rai fulminei,| le braccia la sen conserte,| stette, e dei dì che furono| l’assalse il sovvenir!|| E ripensò le mobili| tende, e i percossi valli,| e il lampo de’ manipoli,| e l’onda dei cavalli,| e il concitato imperio,| e il celere obbedir.|| Ahi! forse a tanto strazio| cadde lo spirto anélo| e disperò...”. Marzo 1821 ha un sottofondo drammatico, su cui si innesta e prevale la gioia grandiosa di una sperata liberazione d’Italia dal giogo straniero: in questo miscuglio fra dramma ed epopea sta il valore ed il limite dell’ode, tutta grande, mai sublime. Il conte di Carmagnola, opera drammatica per definizione, che tutta si sostiene alla lettura anche se non invita facilmente alla rilettura, ha, nel coro dell’atto secondo, momenti di drammaticità suggestiva (vanno eccettuate le prime strofe, epiche; e le due di immagini georgiche, idilliche). Ci dobbiamo limitare, per discrezione, a riportare in nota solo i versi più significativi.[227] Giustamente viene ricordato inoltre, come passo eminentemente drammatico, il soliloquio del senatore Marco, straziato fra il dovere della fedeltà all’amico Francesco Bussone e la paura (che vincerà) della vendetta del proprio governo, se egli rivelasse al conte, chiamato in Venezia sotto pretesto di una semplice consultazione, la fine che lo attende (IV, 2). In Adelchi, ancor più viva è la tensione nell’animo del protagonista che paga gli errori, le colpe altrui: l’imprudenza e tracotanza del padre che vuol aggredire Roma e sottrarla al papa; il tradimento di molti compatrioti che stanno col nemico per invidia contro Desiderio (re da loro non votato) o per interesse, per paura: forti coi deboli, vili coi forti. Forse, cori a parte, gli squarci più poetici sono i soliloqui: quello di Svarto (I, 7, con la finale superba eppur sapiente: “D’oro appagarmi| credete voi. L’oro! gittarlo al piede| del suo minor, quello è destin...”) e di Guntigi (IV, 3: disperato tentativo del traditore di giustificarsi, a costo di rifiutare una giustizia oltre la morte: meriterebbe l’intera citazione; eccone almeno l’inizio tormentoso: “... Fedeltà? -Che il tristo amico| di caduto signor, quei che, ostinato| nella speranza, o irresoluto, stette| con lui fino all’estremo, e con lui cadde,| fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa| si consoli, sta ben. Ciò che consola,| creder si vuol senza esitar...”); e quello di Adelchi, costretto alla resa in Verona e tentato di suicidio: un altro buon brano poetico che meriterebbe l’intera citazione). Vi sono, poi, numerosi colloqui: quello fra Desiderio ed Adelchi (I, 2, con le parole indimenticabili: “...incresce l’asta e pesa| alla mia man, se nel pugnar, guardarmi| deggio dall’uom che mi combatte al fianco”); fra Adelchi e lo scudiero Anfrido (III, 1) con altre memorabili riflessioni di Adelchi sul progetto paterno di assalire Roma: “... noi guiderem sul Tebro| tutta Langobardia, pronta, concorde| contro gl’inermi. Ancor ruine| sopra ruine ammucchierem: l’antica| nonstr’arte è questa: ne’ palagi il foco| porremo e ne’ tuguri: uccisi i primi,| i signori del suolo, e quanti a caso| nell’aste nostre ad inciampar verranno,| fia servo il resto, e tra noi diviso;| e ai più sleal e più temuti, il meglio| toccherà della preda...”. Ma anche III, scena terza (inattesa incursione dei Franchi, che hanno aggirato le Chiuse), settima (Anfrido morente e la sua testimonianza in favore di Adelchi: “Io vivere tuo guerrier, quand’io potea| morir quello d’Adelchi? Al ciel diletto| è Adelchi, o re. Da questo giorno infame trarrarlo il ciel, lo spero, e ad un migliore| vorrà serbarlo: ma, se mai... rammenta| che, regnante o caduto, è tale Adelchi,| che chi l’offende, il Dio del cielo offende| nella più pura immagine sua. Lo vinci| tu di fortuna e di potere, ma d’alma| nessun mortale: un che si muor tel dice.”); e nona (Adelchi organizza la ritirata e la difesa di Pavia, Brescia e Verona, ma riceve la notizia della morte di Anfrido, cui reagisce così: “Giorno d’infamia e d’ira,| tu se’ compiuto! O mio fratel, tu sei| morto per me! tu combattesti!... ed io...| crudel! perchè volesti ad un periglio| solo andar senza me? Non eran questi| i nostri patti. Oh Dio!... Dio che mi serbi| in vita ancor, che un gran dover mi lasci,| dammi la forza per compirlo....”) sono scene grandiose. Il colloquio fra Svarto e Guntigi (il patto di contrassicurazione fra due traditori, anche contro il nuovo padrone, Carlo: “Il dì che Carlo| senza sospetto regnerà, che un brando| non resterà che non gli sia devoto...| Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge un nemico e respira, e questo novo| regno minaccia, non temer che sia| posto in non cal chi glielo diede in mano”) affascina per la penetrazione psicologica non meno che per la forza espressiva. E la finale, la pessimistica interpretazione della storia che Adelchi morente proclama al padre, in presenza di Carlo, è fascinosa, anche se discutibile: “Una feroce| forza il mondo possiede, e fa nomarsi| dritto: la man degli avi insanguinata| seminò l’ingiustizia: i padri l’hanno coltivata col sangue; e omai la terra| altra messe non dà. Reggere iniqui| dolce non è; tu l’hai provato: e fosse,| non dee finir così? Questo felice, cui la mia morte fa più fermo il soglio,| cui tutto arride, tutto plaude e serve,| questo è un uom che morrà” (V, 8). Incontrandoci coi due cori dell’Adelchi, siamo messi di fronte a due casi di altissima poesia (tutta drammatica quella del primo, che chiude l’atto terzo come meditazione sull’effetto del cambio di padroni –dai Longobardi ai Franchi- per il popolo latino in Italia, nel 774; in buona parte tale anche il secondo, che riflette sula morte di Ermengarda, spezzando a metà il quarto atto), che non possiamo permetterci la indiscrezione di citare come meriterebbero. E’ una rinuncia cui oramai dovremo rassegnarci, quando nel romanzo troveremo troppe pagine consecutive impostate felicemente ora alla tonalità drammatica, ora a quella comica. E’ per questo che le sestine di dodecasillabi “Dagli atri muscosi, dai fori cadenti”, contando anche sulla loro notorietà, le tralasciamo completamente, limitandoci a riportare in nota alcune delle strofe più drammaticamente significative dell’altro coro.[228] I promessi sposi. L’ordito complessivo del romanzo oscilla fra il drammatico e l’umoristico, ma la parte drammatica ancor più frequente che non quella comica, pur frequentissima. Ad esempio, la già denunciata mediocrità lirica dell’apertura dei “Promessi” (da “Quel ramo del lago di Como” a “l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute”) è dovuta ad una specie di dissolvenza incrociata, che non annulla, ma attenua i due lirismi espressi. l’idillio e il dramma. Manzoni non ha saputo decidersi fra i due stati d’animo ed ha scritto sotto la suggestione alternante di entrambi, ora sottolineando la bellezza del paesaggio idillico, ora la sua solidità montana e talora persino selvaggia.[229] Intonata drammaticamente, ed in tono alto, è tutta la scena dell’incontro fra i bravi e don Abbondio, dello stesso capitolo iniziale. Eccoci, allora, ridotti ai casi più sublimi di dramma, che per di più ci limiteremo a segnalare senza riportare se non in qualche battuta eminente. Capitolo 2: il secondo colloquio tra Renzo e don Abbondio (anche il primo ha monmenti dramamtici ma, pilotato dal parroco infurbito per paura, è meno esplosivo): qui si sfiora la tragedia, quando Renzo, appoggiata d’istinto la mano sul manico del coltello, che teneva nella tasca dei pantaloni, risponde alla implorazione del povero curato “Ma se parlo son morto. Non m’ha da premere la mia vita?” con un perentorio e minaccioso: “Dunque parli!” Capitolo 6: la finale tempestosa del colloquio fra padre Cristoforo e don Rodrigo: “Voi avete creduto che Dio abbia fatto una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore del faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io, povero frate; e in quanto a voi,sentite bene quel ch’io vi prometto: -Verrà un giorno... Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce, per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: -escimi di tra’ piedi, villano temerario, poltrone incappucciato”. Capitolo 7: il dialogo collerico (da parte di Renzo), fermo e sofferto (da parte di Lucia) per indurre quest’ultima al tentativo del matrimonio di sorpresa: “-La farò io, la giustizia, io. E’ ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch’io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza... e il momento ariva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...!- L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospsese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a Renzo, con voce accorata, ma risoluta- non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse anche al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re...- -E bene!- gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto:- io non vi avrò, ma non v’avrà ne anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del...- -Ah! no, per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così, -esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte....Stette egli immobile e pensieroso, qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt’a un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di essa, e gridò: -questa! sì questa egli vuole. Ha da morire!- -E io che male v’ho fattio, perchè mi facciate morire?- disse Lucia, buttandosegli inginocchioni davanti. –Voi! –rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira[230]: tuttavia- voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no!- -Sì, sì –rispose precipitosamente Lucia: -verrò dal curato, domani, ora se volete; verrò. Tornate quello di prima, verrò.” Alla fine del capitolo, vi è un richiamo di Manzoni a Shakespeare (indicato indirettamente, in modo da fustigare anche il suo giudice sconsiderato, cioè Voltaire), per esprimere tutto il turbamento di Lucia al momento del grande passo verso il matrimonio clandestino: “Tra il primo pensiero di un’impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce di un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava soprapensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi, al momento cioè di dar principio all’opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore ed al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione:ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto; talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s’era appena badato: l’immaginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbdire; e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piuttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: -son qui, andiamo-; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile, Lucia non ebbe tempo nè forza di far difficoltà. e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio dello sposo, e si mosse con la brigata avventuriera”. Capitolo 12: i tumulti a Milano sono indagati dallo scrittore nelle radici prossime del rincaro del pane; in quelle intermedie della carestia e dello sciupio per la guerra del Monferrato; in quelle ultime della ignoranza nel popolo circa le leggi del mercato che comandano i prezzi delle merci tutte, derrate non escluse; e della incoscienza dei governanti, che non provvedono alla fame del loro popolo con la importazione di grano estero. Sono tutti atteggiamenti che implicano una tensione interiore che si manifesta come dramma. Ed anche la narrazione dei singoli avvenimenti è condotta colla intensità del pensatore profondo ed equilibrato, che giudica equanime il comportamento della folla; del cristiano di cuore, partecipe delle sofferenze dei poveri e delle preoccupazioni dell’amministrazione locale, che cerca di comprendere errori e ribellioni; dell’artista onesto ma anche sereno che, da quando è assicurata la salvezza del vicario di provvisione con l’arrivo della carrozza di Ferrer, si diverte ormai ad anatomizzare l’anima della folla ed a segnalare gli aspetti comici del comportamento di personaggi illustri (vicario e Ferrer, appunto) e del popolino, credulo e variabile ma, nella grande maggioranza almeno, alieno dagli eccessi sanguinari. Così il capitolo termina quasi nella farsa del colloquio in spagnolo fra le due autorità in fuga verso la salvezza, dopo un andamento risentito e drammatico. Il brano più forte pare questo: “Spiccava tra questi, ed era lui stesso spettacolo, un vecchio mal vissuto, che spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse” (c. 13).[231] Capitolo 21: la crisi dell’innominato si esprime veramente come una “metànoia”, un capovolgimento di mentalità ed avviene nelle torture di una notte, che avrebbe potuto finire in disperazione e suicidio, in una tragedia infernale. Il sacrificio estremo di Lucia lo salva, ma il suo cammino di conversione è davvero un calvario. Noi lo abbiamo, per altro, già seguito minutamente sia attraverso qualche frase estratta dalle numerose pagine del capitolo, sia con riflessioni sulla potenza di penetrazione psicologica dello scrittore (Motivi ispiratori, analisi psicologiche, pp. 48-9). Capitolo 35: l’urto fra la sete di vendetta in Renzo e la esigenza della carità fino al perdono nel Vangelo ed in padre Cristoforo. Al lazzaretto, messo di fronte alla ipotesi di gran lunga più probabile di non trovare più viva Lucia, esplode: “se non la trovo, vedrò di trovare qualchedun altro. O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati; quel birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme. Se c’è ancora colui, lo troverò...- –Renzo!- disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancora più severamente. –E se lo trovo –continuò Renzo cieco affatto dalla collera- - se la peste non ha già fatto giustizia... Non è più il tempo che un poltrone, co’ suoi bravi d’intorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è venuto un tempo che gli uomini s’incontrino a viso a viso: e... la farò io la giustizia!- -Sciagurato!- gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripreso tutta l’antica pienezza e sonorità: -sciagurato!- e la sua mano cadente sul petto s’era sollevata; le gote si colorivano dell’antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile.- Guarda, sciagurato!- E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra davanti a sè, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno. –Guarda chi è Colui che gastiga. Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene! Io, speravo... sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m’avrebbe dato questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov’io sarò. Va, tu m’hai levata la mia speranza. Dio non l’ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l’ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perchè lei è una di quelle anime a cui con riservate le consolazioni eterne. Va! non ho più tempo di darti retta.- E così dicendo, rigettò da sè il braccio di Renzo, e si mosse verso una capanna d’infermi. –Ah padre!- disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: -mi vuol mandar via in questa maniera?- -Come!- riprese con voce meno severa, il cappuccino. Ardiresti tu di pretendere ch’io rubassi il tempo a questi aflflitti, i quali aspettano ch’io parli loro del perdono di Dio, per ascoltare le tue voci di rabbia, i tuoi propositi di vendetta? T’ho ascoltato quando tu chiedevi consolazione e aiuto; ho lasciato la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore: che vuoi da me? vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano; degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all’offeso: ho pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?- -Ah gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre!- esclamò il giovine. –Renzo- disse con una serietà più tranquilla il frate: -pensaci; e dimmi un poco quante volte gli hai perdonato- .... Tu lo sai, tu l’hai detto tante volte, ch’Egli può fermar la mano d’un prepotente; ma sappi che può anche fermar quella d’un vendicativo. E perchè sei povero, perchè sei offeso, credi tu ch’Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato a sua immagine?credi tu ch’Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No! Ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti, puoi, con un tuo sentimento allontanar da te ogni benedizione. Perchè, in qualunque maniera t’andassero le cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo, finchè tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli perdono.- -Sì, sì- disse Renzo, tutto commosso e tutto confuso-: capisco che non gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da cristiano: e ora con la grazia del Signore, sì. gli pedpno proprio di cuore.- -E se tu lo vedessi?- -Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui.- -Ti ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare ai nostri nemici, ci ha detto di amarli? Ti ricorderesti ch’egli lo ha amato a segno di morire in croce per lui?- -Sì, col suo aiuto-.”[232] Capitolo 35, don Rodrigo moribondo: “Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte e sulle punta nere”. Il brano dell’avvicinarsi del temporale che porterà via la peste, lo leggeremo in sede di analisi stilistica.
LA COMICITA’ (L’UMORISMO). L’origine della comicità benevola del Manzoni. Abbiamo già escluso, per la realtà dei fatti, l’insinuazione di Gramsci, pel quale Manzoni rivolgerebbe la sua canzonatura contro i poveri e gli umili, risparmiando i ricchi e potenti. Ma, negando il motivo sociale, quale sorgente additiamo alla comicità pervasiva del romanzo? Lo abbiamo già proclamato, trattando del binomio Provvidenza di Dio-moralità dell’uomo, come sorgente più profonda della ispirazioen manzoniana. Pur concedendo che più di un fattore stimoli la vena canzonatoria o comunque allegra del Manzoni, riteniamo tuttavia che la sua fonte prima sta nella combinata etico-religiosa che si è detto. In altre parole, da una parte sull’estro dello scrittore gioca il peso morale, la caratura etica dei vari personaggi; dall’altra (e in sintonia col primo fattore), apre o impedisce l’ilarità la parte che la Provvidenza gioca nella vicenda, non senza la coopoerazione o la contraddizione dei personaggi stessi.. Sulla scia dell’insegnamento di San Paolo[233], infatti, noi sappiamo che Dio vuole aver bisogno degli uomini per realizzare i suoi progetti di misericordia per i peccatori, di salvezza per i buoni, di elevazione spirituale per i migliori. Cominciando ad osservare i personaggi, ci accorgiamo che sono risparmiati dalla comicità manzoniana gli eroi della santità: il padre Cristoforo e i cappuccini al lazzaretto, Lucia e la madre di Cecilia, il cardinal Federigo e l’innominato dopo la conversione. Il rispetto e la stima per la loro azione moralmente sublime li mette al sicuro da ogni atteggiamento di scherzo od ironia: per loro, l’autore sente solo emozioni epiche o commosse. Tanto più che essi divengono sempre collaboranti della Provvidenza, pagando di persona per la redenzione del mondo: Cristoforo per il fratello del signor Tale, da lui ucciso (c. 4); Lucia ed il cardinale per l’innominato (cc. 21 e 23); ecc. Per il motivo esattamente opposto, non vengono toccati dal sorriso manzoniano i personaggi tragici, legati al male ostinatamente e sistematicamente: don Rodrigo e il principe Martino de Leyva, padre di Mari Anna (suor Virginia nella storia; suor Gertrude nel romanzo) e l’innominato prima della conversione. Questi sono fuori della onestà e fuori anche dalla probabilità (umanamente prevedibile)[234] di divenire collaboratori della Provvidenza divina per la realizzazione dei suoi disegni di salvezza a favore dell’umanità. Per costoro vi è l’atmosfera cupa del dramma e della tragedia.[235] Un ancor più chiaro indizio della radice provvidenzialistica del riso manzoniano sta nella mediocrità, sia nel bene che nel male, di gran parte delle sue vittime. A far comprendere a fondo il grigiore morale della maggior parte degli uomini, la loro sminuita capacità ad intendere e volere e la facilità conseguente a cadere in colpe di imprudenza o di debolezza, pur nella generale volontà a conoscere e praticare il bene, stava la esperienza quotidiana di uno scrittore esperto in umanità come era genialmente il Manzoni; e stava la dottrina del peccato originale, in un’anima di “cristiano rigenerato” attraverso una catechesi giansenistica (quella dell’abate Degola ad Enrichetta, da lui seguita scrupolosamente) che certamente accentuò in lui il senso delle conseguenze al disordine morale nei progenitori. Che se, poi, il Manzoni si liberò dagli estremi di tale eresia (incapacità totale dell’uomo decaduto ad operare rettamente nel pensiero e nell’agire), questo non toglie che essa aveva accentuato la sensibilità verso il dogma della colpa originale, presente ovviamente nel patrimonio di fede cattolica. In tale sensibilità, vi è spazio per masse di uomini, che non hanno senso critico intellettivo o che l’hanno sepolto per i propri comodi (la ostinazione a non ammettere la presenza della peste a Milano: c. 31).[236] Vi è posto per altri uomini, che sono psicologicamente deboli per costituzione (don Abbondio, in ogni dove del romanzo) o si sono lasciati far servi del più forte per i loro interessi. Si va dalla omertà coi clienti aggressivi nell’oste del paese di Renzo, a quella servile condiscendenza, propria dei convitati sia al banchetto di don Rodrigo (“non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse”: c. 5), che a quello del conte zio (“alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita;... cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no”: c. 19). Purtroppo tali schiavi del trionfatore del momento, del padrone di turno, degli “idòla tribus, fori et theatri”[237], esistono a torme. La scrittrice Simona Weil ha letto a fondo nell’animo umano, quando ha sentenziato che “la verità fugge nel campo del vincitore” (non soltanto militare, ma anche culturale, che forgia la opinione pubblica). Leonardo Sciascia stabilisce una scala che vede pochi “uomini interi”, molto più “mezzi uomini” e una marea di “ominicchi”, “ruffiani” e “quacquaracquà” (“Il giorno della civetta”). Ma già Socrate nel Critone, chiamandoli “oi pollòi”, cioè “i più, la massa”, li definisce come coloro che sono portati, un giorno, ad uccidere un individuo ed il giorno dopo, se lo potessero, a risuscitarlo perchè, irriflessivi ed impulsivi, sono più facilmente furbi che intelligenti. Manzoni descrive questa “palude” ora più minutamente, come fatta di uomini: “un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro...” (c. 13); ora più sbrigativamente, come “quello che i poeti chiamavan volgo profano; e i capocomici, rispettabile pubblico” (c. 31). Tale umanità media, statisticamente predominante, oscilla nella propria condotta fra il bene, idoleggiato sempre e spesso anche praticato; ed il male, cui le circostanze la rendono altre volte prona e quasi schiava. Orbene, i corollari emotivi di tale avvertenza privilegiata alla fragilità morale dell’uomo sono diversi in un ateo ed in un cristiano. Il giovane razionalista, nipote del Beccaria, aveva pur sentito tale corruzione diffusa, ma vi aveva reagito con superbia ed ira, cioè traducendo nei versi dei quattro Sermoni un pensiero inquinato da due dei vizi capitali: lo sdegno orgoglioso di un letterato che “alto disdegna il vile | volgo maligno.”[238] La reazione di un cristiano consapevole delle implicazioni della sua fede nel peccato originale è, invece, quella della compassione elegiaca o del dolore drammatico per la sconcertante condizione dell’uomo, “fatto di poco inferiore agli angeli” (Salmo 8, 6), ma vivente poco sopra l’incoscienza animale. Ma la pienezza della fede cattolica faceva prevalere, sul pessimismo lamentevole o spaventato per la stoltezza e fragilità dell’uomo medio, la fiducia nella redenzione di Cristo e, quindi, nella possibilità di riscattare le colpe da parte di una paternità misericordiosa di Dio, in vista appunto dei meriti di Cristo. La fiducia nell’azione della Provvidenza testimonia bensì il superamento della posizione religiosa illuministica (deismo che nega la Provvidenza), ma è corollario ovvio della prospettiva cattolica sulla storia dei singoli uomini e della umanità intera. Il frutto ne è il sereno pessimismo (ci sia permesso l’ossimoro) del Manzoni di fronte alla mediocrità morale umana. La miseria spirituale dell’uomo, la sua debolezza ed inaffidabilità morale non genera, allora, nè la disperazione ortisiana del Foscolo per la sfiducia in ogni possibile miglioramento dell’uomo; nè l’ironia pariniana del precettor d’amabil rito, per la compiacenza della propria perfezione a paragone di tale miseria e demenza; nè i piagnistei metastasiani, per la insolubile equivocità dell’animo umano. No, Manzoni ha compassione di tali peccatori, che fanno ma non amano il male, che sono deboli ma non maliziosi; e considera la Provvidenza come la compensatrice delle mancanze da loro introdotte nella storia umana, come la risolutrice dei guai creati da loro, guastafeste colposi più che malfattori dolosi. Se, da una parte, sta la costatazione che “Così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano” (c. 10),[239] dall’altra, sta Dio Padre che sorride della loro pochezza, compatisce e interviene a rimediare i difetti, le colpe, i torti, i danni, conducendo, nonostante loro, l’innocenza al successo, la malizia al fallimento, la mediocrità alla conversione ed alla salvezza. Essi, nelle mani dell’onnipotente carità di Dio, diventano delle pedine e finiscono per contribuire al meglio, operando malvolentieri a servizio del male o lavorando maldestramente al successo del bene. Per questo anche lo scrittore può amabilmente prendersi gioco della loro psicologia sfuggente, malferma, inaffidabile e del loro comportamento incoerente, cedevole, oscillante: sa che, alla fin fine, non impediranno i piani di Dio, la vittoria ultima della giustizia e della verità. E’ particolarmente a proposito della comicità manzoniana circa questi personaggi, rappresentanti della media statistica della umanità, che si può intuire la funzione rasserenatrice della fiducia nella Provvidenza, nella vicenda pensata come da Lei diretta. Perciò, in tanto lo scrittore cattolico si permette di cavalcare l’ilarità alle spalle dei personaggi messi in burletta , in quanto essi non riusciranno ad intralciare definitivamente i piani della Provvidenza. E difatti, la più parte dei canzonati dal Manzoni sono mezze figure, deboli nel bene come nel male .[240] Guardiamoli in faccia. Il re dell’umorismo manzoniano è certo don Abbondio: quando il curato dei “promessi” compare in scena, si può essere certi che verrà a galla qualche nuovo aspetto ridicolo della sua individualità, che, maliziosamente[241] adoperato dal Manzoni, ci indurrà a sorridere divertiti e compassionevoli. Chi gli facciamo seguire, così che sia “secondo”, cioè appunto “seguace”? Ci metterei (cc. 27 e 38) don Ferrante con la sua libreria e le sue competenze inutili (cavalleria e arti magiche) ed acrisie clamorose (giudizi sugli scrittori di filosofia, politica, storiografia). Come immediati iinseguitori, si contendono la palma il mercante di Gorgonzola (c. 16), donna Prassede (c. 27), l’insieme dei governatori di Milano, con le loro gride altisonanti ed inconcludenti (c. 1): tutti personaggi (od iniziative: le gride) che non scherzano quanto a dabbenaggine e che, perciò, risultano ottimi stimolatori della ironia manzoniana. Aggiungiamo Renzo ubriaco, con la sua sete di giustizia ed inesperienza di uomini (cc. 14 e 15); il sarto dei cc. 24, 29 e 30, con la sua vanità di uomo, fantasticaggine di proposte e lentezza di reazioni; Menico con la sua impazienza ad avere le parpagliole di Agnese e la sua passione al gioco del “rimbalzello” (c. 7); l’oste nel paese dei “promessi”, con i suoi “originalissimi, singolarissimi, imparzialissimi” criteri nel giudicare le persone (id.); Ambrogio sacrista, con l’arnese di gala sotto il braccio (c. 8) e la povera umanità in genere, pizzicata qua e là per i suoi giudizi erronei (“Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo”: c. 8) o per i suoi comportamenti incongruenti (c. 24: “Volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno”).[242] Dobbiamo riconoscere che si tratta di personaggi in sè di una mediocrità disarmante e, nel complesso della storia, ora poveri collaboratori dei buoni, come donna Prassede, don Ferrante e il sarto; ora poveri complici dei malvagi, come don Abbondio e Renzo stesso, di cui al c. 11 l’autore è costretto a dire: “Ma... intanto che colui ((don Rodrigo)) pensava al dottore ((Azzeccagarbugli)), come all’uomo più abile a servirlo in questo, un altr’uomo, l’uomo che nessuno s’immaginerebbe, Renzo medesimo, per dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare”. Si tratta, cioè, di personaggi che non decidono degli avvenimenti storici, ma li subiscono; che, quindi, non sono strumenti fondamentali della Provvidenza, ma neppure suoi avversari decisivi: anche Renzo, in quanto impulsivo nei tumulti di Milano (“Il vortice attrasse lo spettatore”: c. 11) e, poi, bevitore indiscreto all’osteria della Luna piena, appartiene a quei “fuscelli nascosti tra l’erba” che il vento burrascoso delle grandi vicende umane “porta in giro involte nella sua rapina” (c. 27). Pare lecito, allora, concludere che, nella misura in cui si accetta il romanzo come l’epopea della Provvidenza (e come si potrebbe negarlo?), si dovrà ammettere che proprio la loro secondarietà rispetto alla Sua opera permette di sorridere dei loro limiti, mediocrità e debolezze, in quanto non solo non impediranno il progetto divino, ma o lo aiuteranno con le loro umili virtù o ne trarranno motivo per convertirsi essi stessi e favorire la soluzione anche terrestremente migliore. Una conferma potrebbe venire da quei pochi personaggi che riescono, colla loro pervicacia, a sottrarsi all’opera della Provvidenza, finendo (per quanto umanamente prevedibile) nel commettere quei peccati contro lo Spirito Santo (“negare la verità conosciuta” per il principe de Leyva; “ostinazione nei peccati” per don Rodrigo) che, secondo il Vangelo, non hanno remissione (Mt, 12, 31: “la bestemmia contro lo Spirito non verrà rimessa”). Difatti la figura di entrambi è avvolta nella severità del dramma o della tragedia.[243] Ma non bisogna ad ogni costo spiegare con un unico fattore il complesso fenomeno della presenza od assenza della comicità nel romanzo. Non ci sembra avere un riferimento etico-religioso[244] la esclusione dei sofferenti di ogni genere dal sorriso del Manzoni. Suor Virginia si converte, ma per continuare a soffrire, condannata alla reclusione perpetua: come poter fare dell’ironia sia pure fraterna su di lei? Lo stesso si deve dire delle masse di sfiniti e moribondi per la carestia (c. 28) e dei contagiati dalla peste (cc. 31-36). Quale mostro potrebbe ridere su casi del genere? Forse Rabelais: il grottesco, che ne risulterebbe, può ben divertire un momento, ma sarebbe in sè una sconfitta per la umanità e un fatto diseducativo nelle sue conseguenze sui lettori: il momento di divertimento verrebbe pagato a troppo caro prezzo. Vi sono, inoltre, alcuni casi di ridicolo morale, tradotto dal Manzoni in comicità felicissima, che non si riesce di far quadrare in riferimento alla Provvidenza. Difatti si tratta ancora di personaggi prevedibilmente irricuperati dalla Provvidenza, che pure Manzoni o avvolge della solita ironia lievemente ma insistentemente canzonatoria (Attilio ed il conte zio: cc. 5, 18 e 19) o addirittura sprofonda nella farsa: il dottor Azzeccagarbugli (cc. 4 e 5), il monatto del c. 34 (quello del discorso cinico rivolto all’ormai morto padrone del vino che egli sta trincando). Come mai il principe-padre e don Rodrigo, che sono pur essi prevedibilmente fuori della salvezza o che comunque il romanzo non mostra ricuperati al rimorso e conversione, sono figure tetre e tormentate, mentre quelle altre, moralmente affini, sono avvolte dal sorriso umoristico o dalla risata farsesca del Manzoni?. Ebbene, la risposta ci sembra semplice: è la psicologia imposta dall’autore ai personaggi, che rende gli uni attori da coturno (tragedia); gli altri, da socco (commedia). Tanto è vero che, concessa la ideazione comica dei personaggi, anche il signor Attilio, un “vitellone” degno dei personaggi assurdi di Fellini, e lo zio del consiglio segreto, che non brilla certo per grande intelligenza,[245] e lo stesso saccente podestà (al c. 5, banchetto di don Rodrigo) meriterebbero di diventare personaggi da commedia dell’arte, come lo sono in realtà Azzeccagarbugli ed il monatto. Non è personaggio da commedia dell’arte l’avvocato, che indossa la palandrana del dottor Balanzone, quando sproloquia sulla propria capacità di abusare delle leggi per tramutare colpevoli in innocenti e viceversa (siamo, a un di presso, nel cerchio ottavo dell’Inferno, tra i fraudolenti della settima bolgia, con le trasformazione reciproca fra ladri e serpenti)? Non lo è più ancora, col naso rubicondo che sostituisce la maschera, alla tavola di don Rodrigo, quando “tirato fuori dal bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello” pronuncia l’elogio sgangherato al vino ed ai conviti dell’ospite-padrone?. Non è attore della “commedia improvvisa” anche il cinico monatto, che “con un suo atroce e maledetto ghigno” e “con un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco” chiede irridente il permesso al cadavere di tracannare dal fiasco? Come mai, invece, Manzoni mantiene ad un gradino superiore il conte zio, il podestà ed il nipote Attilio, avvolgendoli nella più raffinata aura di comicità garbata, civile, cioè nell’umorismo lieve e signorile? A noi pare proprio che, in casi come questi, solo la ideazione della psicologia del personaggio ha suggerito una coerente atmosfera lirica, non solo nella generica comicità, ma nella specifica categoria di ilarità. Un identico grado di corruzione morale, ma immaginata come sostenuta da una diversa disinvoltura intellettiva e da un diverso allenamento sociale, obbligano, poi, lo scrittore a tradurre la ridicolaggine comune in diversi livelli di caratura comica. La psicologia e l’ambiente, più che la vita morale od il rapporto con la Provvidenza, dettano la proiezione di questi personaggi nella sfera della comicità e, anzi, di una comicità differenziata. Casi notevoli
(personaggi e situazioni particolari) del lirismo comico nel romanzo. Inutile pretendere di ricopiare le pagine troppo numerose di superiore umorismo o di pesante comicità manzoniana: dovremmo ricopiare forse un quinto delle pagine del romanzo. Ci limiteremo a qualche segnalzione e commento, salvo a riportare battute non ancora evidenziate nelle pagine precedenti o da segnalare più avanti, in sede di analisi della tecnica stilistica. Anzitutto la Introduzione è divisibile in due parti ben distinte (anche tipograficamente): e si tratta di un terzo circa di spropositi comici dell’anonimo secentista, contro due terzi di ragionamenti seri, polemici anzi, del Manzoni, a commento di quello stile “rozzo insieme ed affettato”: Ma anche la conclusione delle riflessioni manzoniane (riscrivere la storia troppo bella, ma mutandone radicalmente la forma espressiva) è un calembour (“di libri basta uno per volta, quando non è di troppo”). Il primo capitolo è pure esemplare: dopo la descrizione del panorama (fra l’idillio e la epopea) nelle prime due pagine, dopo altre due paginette drammatiche concesse alla descrizione dei bravi che aspettano don Abbondio, ecco l’analisi documentario-canzonatoria delle gride contro i bravi che, in cinque buone pagine, mette alla griglia governatori e leggi spagnole, esaltandone (colle loro stesse parole) la formidabile severità e rivelandone (sempre per la loro testimonianza) la impotenza miserabile. Ed anche il colloquio tra lo spaurito curato ed i due bravacci oscilla fra dramma (impudenza e cinismo di quelli) e comicità (paura e servilismo di don Abbondio): e sono altre quattro pagine. Vi si debbono aggiungere le tre pagine finali dell’arrivo in casa, della rinuncia alla cena, della sfacciata curiosità di Perpetua, dell’incapacità di tacere del curato, che si sfoga con una persona, la sua domestica, che sa incapace di mantenere i segreti. In conclusione, una dozzina di pagine comiche almeno, contro le poco più numerose in altra tonalità. Ma è notevole anche la presentazione della domestica di don Abbondio: “Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva obbedire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli tollerare a tempo le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe[246], per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevano le amiche”. Brano di comicità notevole, si diceva: è l’unico caso di sarcasmo, cioè di una comicità irrispettosa e mortificante. Che lei non sappia mantenere i segreti e giunga a parlare con volgarità, lo vedremo subito. Ma essa ha anche un parere davvero “buono” da dare al padrone (“siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può far stare a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...”), tanto buono che a don Abbondio tornerà in mente quando l’arcivescovo stesso gli ricorderà una tale via per far fronte alla prepotenza di don Rodrigo (c. 26: “ I pareri di Perpetua!- pensava stizzosamente don Abbondio...”). Si deve, allora, dire che Manzoni, in questo caso, si abbassi al livelo del povero curato, che commenterà altrettanto sarcasticamente la morte della domestica per peste: “Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; chè questo era il momento che trovava l’avventore anche lei” (c. 38)?. No: Manzoni si nasconde furbescamente dietro le male lingue delle “amiche” di Perpetua e, in qualche modo, si slava (“in qualche modo” soltanto, chè quelle “amiche” e le loro malignità le ha poi inventate, di sana pianta, appunto il Manzoni...). D’accordo, il capitolo secondo è tutto in tono drammatico-tragico, ma col terzo siamo alla “condivisione” fra il dramma della trama che va incupendosi e la sguaiata corruzione dell’Azzeccagarbugli, che si confessa spudoratamente, credendo si essere in presenza di un criminale, mentre sta parlando con l’innocentissimo Renzo: sei pagine di comicità subfarsesca contro le 17 serie. Ritornati quasi del tutto sui registri del dramma e della
commozione col capitolo 4, ci
imbattiamo nel capolavoro di comicità ambientale, al capitolo quinto, col
pranzo in casa di don Rodrigo: come
don Abbondio è il re dlel’umorismo manzoniano, così il capitolo quinto ne è
la corona. Tremenda la prima parte del capitolo 6 (scontro fra p. Cristoforo e don Rodrigo), ma con qualche spiraglio umorale per la comparsa, nell’ultima parte, di quel burlone di Tonio (“Di bugie sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metetrle il cuore in pace”). Il capitolo 7, con la prima parte esasperata dal travagliatissimo sforzo di convincere Lucia a partecipare al tentativo del matrimonio di sorpresa e con la parte centrale occupata dal convegno dei due “fastidiosi ribaldi” (don Rodrigo ed il Griso) per definire i particolari dell’impresa notturna, si apre, però, a squarci di comicità breve ma saporitissima. Dapprima s’incontra Menico, un monello simpatico, ma da tenere in riga, tanto che la “zia” Agnese (che per conoscere il carattere delle persone è lincea), pensa bene di ammonirlo a non allontanarsi dal convento di Pescarenico, ma di attendervi pazientemente il messaggio di padre Cristoforo e portarlo a destinazione, se vuol guadagnare le monetine d’argento che gli mostra luccicanti (le due parpagliole). E lui, eccolo a tentare il colpo magistrale: “Dammele ora, ch’è lo stesso ”. Ma la partita con lui la vince Agnese: anzitutto colla preveggenza del suo intento birbante (“No, no, tu le giocheresti); poi con la promessa di un premio maggiore (“Va e portati bene; che ne avrai anche di più”); e, infine con lo stuzzicarne la vanità, ricordandogli la abilità “a far quell’altro giochetto solito...”. E qui Manzoni, spiegando, non sa trattenersi da una stoccata alla vanità umana in genere: “Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciamo volentieri le cose alle quali abbiamo abilità; non dico solo quelle...”. Prima dell’abboccamento (drammatico) fra don Rodrigo ed il capo dei suoi bravi, vi è il colloquio di Attilio, che vorrebbe sapere qualcosa sul messaggio portato da padre Cristoforo, col cugino. Di fronte alle reticenze di questi, egli gioca la carta più consona colla sua natura, l’arguzia; e improvvisa una versione edificante del risultato di quel colloquio, per spingere don Rodrigo a fornirgli la versione esatta: “Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son pesci che si piglino tutti i giorni, nè con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo. – E qui, parlando col naso, e accompagando le parole con gesti caricati, continuò in tono di predica: -in una parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non nomino viveva, uditori carissimi, e vive tuttora, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmine, che degli uomini dabbene, il quale avvezzo a far d’ogni erba un fascio, aveva messo gli occhi...”- Basta, basta, -interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. -Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch’io.- -Diavolo! che aveste voi convertito il padre!”. E non siamo alla fine: vi è il ritorno di Renzo e Tonio (stavolta “con lo scempiato di Gervaso”, il fratello di Tonio, “che non sapeva far nulla da sè, e senza del quale non si poteva far nulla”) all’osteria del villaggio e la scoperta della furbizia degli osti, furbizia allegra, disinvolta, servile fin che necessita (coi birbanti) e sfacciata, quando non v’è nula da perdere (coi galantuomini) (“Sapete bene, -rispose ancora colui, stirando, con tutt’e due le mani, la tovaglia sulla tavola,- che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non sono curiose....: brano già riportato). Furbizia che rasenta l’astuzia cinica dell’Azzeccagarbugli (c. 3). Capitolo 8: il capitolo, sostanzialmente drammaticissimo e che si chiude su un brano dalle sfumature liriche varie, ma tutte di altezza sublime (“Non tirava un alito di vento...”), ha varie oasi di comicità: dalla tranquillità curiosa ed imprudente di don Abbondio (“Carneade! Chi era costui?”), alle frottole di Agnese per intrappolare Perpetua con i dettagli dei mancati matrimoni (e quanto ironicamente significativi i cognomi dei due vantati pretendenti: Beppe Solavecchia ed Anselmo Lunghigna!); dalla condotta di Tonio, assolutamente concentrato (come l’oste, nè più nè meno) sui suoi interessi, tanto che con tutto il trambusto messo in atto da don Abbondio per impedire il matrimonio, egli ha un’unica preoccupazione: “Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta”; al comportamento di Gervaso che “spiritato, gridava e saltellava, cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento”. E c’è la ciliegina sullo spartito “allegro ma non troppo” del capitolo: la figura del sacrista Ambrogio, che, svegliato dalle grida indiscrete del curato, “dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio come un cappello di gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno: corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello”. I capitoli 9 e 10, dedicati per lo più alla monaca di Monza, sono tetri e drammatici. Lasciano solo un paio di spiragli alla ilarità: il padre guardiano del convento di Monza, per evitare lo scandalo di camminare per strada assieme alla avvenente Lucia, sia pur in compagnia della madre, cade nel ridicolo di raccomandar loro di seguirlo un po’ arretrate, per non suscitar le ciarle della gente; Agnese inizia bene la presentazione di Lucia e di Renzo alla monaca di Monza, ma poi si lascia fuorviare dall’animosità contro don Abbondio e perde la bussola della sintassi e della logica del discorso, facendosi rimproverare dalla altèra suor Geltrude. Il capitolo 11, pur essendo occupato dalle conseguenze del fallito tentato di rapimento, su al castello di don Rodrigo, concede spazio alla canzonatura, amichevole e compassionata ma non meno pungente, sulla povera umanità che non sa tenere i segreti: è il brano sul “circolo delle consolazioni”, già riportato a p. 40, nella documentazione sulle analisi psicologiche. Il capitolo 12 è pure sostanzialmente drammatico, ma contiene due perle comiche. La prima riguarda il capitano di giustizia, non meno che le elucubrazioni medico-filosofiche del frenologo tedesco F. G. Fall, che aveva avanzato ipotesi cervellotiche sul rapporto tra conformazione del cranio e le facoltà “metafisiche” dell’uomo. Il capitano, dapprima, tenta di salvare il “forno delle grucce”[247] dall’assalto della folla esasperata, appellandosi ai buoni sentimenti dei milanesi, ma poi deve mutare registro: “Voi altri milanesi che, per bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati dei buoni fi... -Ah canaglia!- Questo rapido mutamento di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a battere nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica-” La seconda parentesi umoristica nasce dalla considerazione delle vicende più impensate, cui vanno soggetti anche i capolavori artistici, assecondando gli umori delle autorità politiche o delle masse in ebollizione. Si tratta della statua di Filippo II “serio, burbero, accipigliato, e non dico abbastanza”, visibile allora nella nicchia del collegio de’ dottori, in Mercato vecchio: “che, anche dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, pareva fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia”. Ebbene, “Quella statua non c’è più, per un caso singolare. Circa cento settant’anni dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dovevano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla statua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascinarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furono stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l’avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva!” Il capitolo 13 l’abbiamo già designato come indizio della sorgente moralistica dell’umorismo manzoniano: finchè il vicario di provvisione è a rischio della vita, la musa comica tace quasi[248] del tutto; quando l’arrivo di Ferrer ne garantisce la salvezza, tutta la narrazione cade sotto il dominio di Talia, proprio attraverso la doppia parte che vi tiene il gran cancelliere, di imbonitore della folla (“Por ablandarlos”: per blandire la gente e calmarla) e di salvatore del suo collaboratore (“Animo; estàmos ya quasi fuera”: Coraggio, siamo ormai quasi in salvo). I capitoli 14 e 15 sono quelli di Renzo ubriaco all’osteria della Luna piena: qualcosa si è già spigolato, ma bisognerebbe riportare tutti i discorsi di Renzo, anche quello fatto in piazza del Duomo, entusiasta della riuscita cui aveva contribuito e, quindi, già avviato ad un’oratoria idealistica e avvincente, ma imprudente perchè fuori controllo. Per il resto, domina il dramma dello scontro fra l’oste (presentatosi per la denuncia) e il notaio criminale e del tormento di quest’ultimo nell’arrestare Renzo. I tre personaggi rivelano il loro temperamento: l’oste è un collerico represso, che ha imparato a tacere e vince, perciò, tutte le battaglie del suo piccolo mondo (il “collerico” è un vincitore a livello tattico); il notaio criminale si rivela un temperamento “nervoso”, tormentato, impacciato e destinato a perdere, come difatti esce sconfitto sia dal tentativo di coinvolgere l’oste come colpevole per i detti ed i fatti della sua osteria, sia dal tentativo di arrestare Renzo; quest’ultimo, è un atletico-passionato, benchè senza esperienza sociale: strapapto alla campagna ed immesso tumultuosamente nella vita cittadina, dapprima si ritrova autolesionista e turlupinato, ma alla fine esce salvo e vittorioso Il capitolo 16 è quello dell’impagabile mercante di Milano, sbarcato all’osteria di Gorgonzola, dove Renzo sta consumando una cena combattuto fra l’appetito destato dal lungo viaggio del giorno e la malavoglia causata dalla preoccupazione per i pericoli connessi alla conclusione, imminente e rischiosa, del suo cammino, al di là dell’Adda. Lo abbiamo già analizzato in sede di psicologia (pp. 44 e 45). Nel capitolo 17 solo la finale è sollevata dall’ilarità: gran parte è drammaticamente ispirata alla notte gelida e ansiosa di Renzo prima del passaggio dell’Adda. E la cuasa del sorriso è la inesperienza di Renzo, che è fermo ai parametri culturali del suo mondo provinciale: deve ancora farne di strada, prima di diventare attore di un mondo più vasto, dove la Provvidenza divina, servendosi della malizia degli uomini, lo vuole collocare con la sua famiglia. Si tratta di superare la insolenza del soprannome con cui i bergamaschi chiamano i milanesi immigrati: “baggiani”. Renzo protesta e dapprima non vuol saperne di stare al gioco. Sembra di udire il conte zio che, al sentire di padre Cristoforo che perseguita don Rodrigo, chiede irritato ad Attilio: “M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote”. Ecco difatti Renzo obiettare, imbronciato, a Bortolo: “Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire”. Di fronte all’ammonimento del cugino che non c’è speranza di salvarsene con la rabbia e la violenza, Renzo rimedia una sua sortita ingenua: “E un milanese che abbia un po’ di... – e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena.- Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere?”. Ma Bortolo deve essre un temperamento flemmatico, giusto il tipo che trova gli argomenti per placare e rappacificare gli animi “Era ben altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevano fare i nostri cari compatrioti”. La scenetta che viveva tra il ridicolo ed il rabbioso, si chiude in serenità, con un Renzo più aperto intellettualmente e più paziente moralmente. Il capitolo 18 è quello della commedia degli equivoci tra il conte del Consiglio segreto, predisposto a lasciarsi ingannare dalla boria di famiglia e dal puntiglio di spuntarla,sempre nel difenderne l’onore; ed il nipote Attilio, che conosce la debolezza dello zio e ne approfitta per fargli ingoiare una bufala di primo ordine: don Rodrigo, perseguitato da padre Cristoforo e deciso a farsi giustizia sbrigativa, a costo di inguaiare tutto il parentado! Come preparazione a questa portata succulenta, l’antipasto ci viene ammannito dalla malizia della fattoressa del convento di Monza che, dando notizie su Renzo Tramaglino sfuggito alle mani della giustizia, commenta con amabile crudeltà: “Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa: può essere che l’acchiappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna stotto l’unghie, il vostro giovine posato...”; e, poi, dalla semplicità di frate Galdino (semplicità inconsciamente orgogliosetta anche la sua: gli è che ingenuità e superbia stanno volentieri assieme; sono almeno affini, se non proprio consanguinei!). Questi (lo dobbiamo aver già detto) non sa trattenersi dal fare l’elogio dei confratelli, ognuno specializzato in una sua dote spirituale e ministeriale, così come, alla fine della leggenda del noce reso fruttifero da padre Macario, non si era trattenuto dal ricordare che “noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e le torna a distribuire a tutti i fiumi” (c. 3) Il capitolo 19 è per tre quarti ingombrato dalla preparazione ed attuazione, da parte del conte zio, del colloquio col padre provinciale dei cappuccini. Ora tutto l’armeggiare della povera mente del conte, per raggiungere lo scopo di rimuovere da Pescarenico l’incriminato padre Cristoforo, ha una sottile coloritura di comicità, per il continuo affiorare della sproporzione fra la scontata facilità di vincere la partita (da parte di un potentato politico contro un religioso disarmato) e la messa in opera di tutta una strumentazione scenografica (la vedremo subito) e di una sottilissima dialettica parolaia (“vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l’abito non fa il monaco. Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta, a un altro che gli era venuto sula punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio”), quasi si trattasse di un approccio diplomatico di gravissima difficoltà. Davvero ha ragione Attilio: “Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro!” (c. 11). Si incomincia dalla idea di togliere l’ostacolo principale ai capricci del cugino, col far uscir di scena padre Cristoforo: ma era la ripresa di un suggerimento venuto dal nipote Attilio (“ Ho detto tra me: il signor conte zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandalo.... e se il signor zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole...”: c. 18): e Manzoni si diverte a paragonare quella “folgorante” intuizione alla erbaccia cresciuta non si sa come (ma non è escluso che il seme sia stato lasciato cadere da un uccello...) in un campo “mal coltivato” . C’è, poi, la scelta dei convitati, che devono impressionare il padre provinciale (“in arbitrio del quale era l’andare e lo stare” dei religiosi della sua provincia). Egli “gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino: qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta,a imrpimere, a rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza...” (seguono, ora, quei già visitati commensali, il cui comportamento servile doveva sollecitare il “padre molto reverendo” ad assentire immediatamente ai desideri del “magnifico signore”). Coi discorsi a tavola, siamo alle stesse finalità, agli stessi mezzi, che vorrebbero essere grandiosi e si rivelano machiavellismi da quattro soldi: viaggio a Madrid, visita all’Escurial, confidenze al conte da parte di “don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar ” (c. 5). Ma si tratterà, poi, di confidenze del tipo citato al c. 18, cioè la domanda fattagli dal conte duca “come gli piacesse Madrid”; e nella ammissione, sempre da parte del “gran privato del grande Filippo II nostro signore”, che “il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re” (c. 18). Il provinciale, che ha capito il gioco, trova il modo di fargli sapere che lui, alle spalle, ha il cardinale Barberini, cappuccino e fratello del papa regnante Urbano VIII.... Si è già riportato la sostanza del colloquio e come il provinciale difenda fin che può il suo magnifico confratello Cristoforo, costringendo il membro del consiglio segreto a sputare il motivo vero per la richiesta di allontanamento di padre Cristoforo, il contrasto, cioè, con don Rodrigo: con non poco imbarazzo, tanto che “in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando”. A questo punto le sue velate accuse (“E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagi che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti quei riguardi... Allontanare il fuoco dalla paglia...”), le sue denunce più insidiose (la protezione a Lorenzo Tramaglino, uno dei capi nella insurrezione di san Martino) e le massime politiche (“sopire e troncare, padre molto reverendo, troncare e sopire”) sono superflue: il padre deve arrendersi per il motivo sùbito sospettato ( “Ho inteso: è un impegno... Eh già! - –pensava tra sè: -vedo bene dove vuoi andare a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voialrti, o da uno di voialtri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgombrare) . Il risultato, che rischierà di essere tragico per Lucia e Renzo, sarà rimediato al meglio dalla Provvidenza, sicchè Manzoni può commentare il risultato del colloquio con una battuta di spirito: “Un grande studio, una grand’arte, di grandi parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche efettti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiamo riferito, riuscì a far andare fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata”. I capitoli 20, 21, 22 sono dedicati al rapimento di Lucia, alla crisi dell’innominato, alla vita del cardinal Federigo: per la comicità non vi è proprio posto. Ed anche il capitolo 23, con il colloquio tra l’innominato ed il cardinale, la conversione di quello e la liberazione di Lucia, lascia spazio ad una sola battuta umoristica, causata dalla comparsa di don Abbondio, che deve accompagnare l’innominato al castello per confortare la sua parrocchiana ed ha paura anche della mula, sicchè implora: “mi dia almeno una bestia quieta; perchè, dico la verità, sono un povero cavalcatore”: “Si figuri, -rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno:- è la mula del segretario, che è un letterato”. Col capitolo 24, ritorniamo agli squarci di ilarità benevola: chi ne fa le spese è l’ospitante di Lucia, liberata dal castello dell’innominato: “Era, se non l’abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza; lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant’altri!.... Con questo, la miglior pasta del mondo...”. Così introdotto, non siamo più meravigliati delle sue gaffes magistrali, frutto di candore eccessivo e del residuo orgoglietto, che vi è, troppo logicamente, annesso: il “lasciate passare chi ha da passare”, quando (finalmente!) s’accorge che il cardinale ed il parroco sono avviati ad entrare a casa sua, per “render onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità”; e il “si figuri!”, come risposta alla richiesta del cardinale “se sarebbero stati contenti di ricoverare, per quei pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate”. Col capitolo 25 entra in scena la “coppia d’alto affare”, donn Ferrante e donna Prassede: di questa abbiamo già riferito la psicologia che ne traccia lo scrittore (pp. 51): alle spalle di don Ferrante ci divertiremo fra poco, col sorriso fraterno di Manzoni che, con ogni probabilità, ha voluto caricaturare l’intellettuale puro (compreso se stesso) nella figura astratta e distratta dell’inetto don Ferrante. Per ora dobbiamo accontentarci di leggere che donna Prassede, ottenuto l’assenso da Agnese e Lucia, per ospirate quest’ultima a Milano, nella loro casa, presentò domanda scritta a monsignor arcivescovo, cioè al cardinal Federigo ancora presente nella parrocchia dei promessi sposi. Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario nel’occasioni d’importanza. Trattandosi d’una di questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia; ch’era una delle molte cose che aveva studiato, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa.” Il capitolo 26 è per lo più occupato dalla seconda parte del dialogo fra il cardinale e don Abbondio, pacato nel tono ma severo nel contenuto. Solo alla fine ritorna in auge l’umorismo, con don Gonzalo che fa fuoco e fiamme presso il governo veneziano, perchè questo ricetta nelle sue terre “un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d’omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare”; con Bortolo che, messo al sicuro il cugino presso un’altra manifattura con nome mutato in quello di Antonio Rivolta, sparge le più ardite menzogne sulla destinazione dello scomparso lavoratore di seta; e con Renzo stesso che, sul nuovo posto di lavoro dava l’impressione di “essere un po’ stordito, perchè, quando si chiamava –Antonio!- le più volte non rispondeva”. Il ventisettesimo può essere intitolato il capitolo dei malintesi. Anzitutto vi è quello tra i vari pretendenti alla successione ai Gonzaga di Mantova- Monferrato, un malinteso tragico perchè sfocia in una guerra che porterà la peste in Italia (con più di un milione di morti) e condurrà al sacco di Mantova, segnando la fine del suo splendore ed economico ed artistico. Poi vi è quello fra Agnese-Lucia (da una parte) e Renzo (dall’altra), col “turcimanno” di mezzo che mette in carta le idee spiegate dagli analfabeti corrispondenti: l’effetto è che “le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto”.[249] Seguono i malintesi nel cuore di Lucia, che “si sforzava inutilmente di togliersi dal cuore il pensiero di Renzo e, volendo che anche lui non si interessi più a lei, “pensasse a dimenticarla”. Si aggiunga, equivoco nell’equivoco, quello tra Lucia e donna Prassede: costei non s’accontenta delle assicurazioni che Lucia non pensava ormai più a nessun giovane, neppure a Renzo: volendo essere ben certa della purificazione del cuore di lei, “non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso”. Ma il re della commedia nel capitolo è don Ferrante, che vi occupa uan diecina di pagine, le ultime: “Uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè d’ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un’occorrenza l’ufficio della penna, era perchè ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. –La s’ingegni,- diceva in que’ casi; -faccia da sè, giacchè la cosa le par tanto chiara. –Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c’entrava anche un po’ di compiacenza”. A questo punto, ci imbattiamo di nuovo in una serie di pagine intere, tutte degne di essere riportate come esemplarmente umoristiche: dell’astrolgia, cnonosceva i principi “più certi e più reconditi” , cioè più sicuri... perchè più oscuri; della filosofia aristotelica, “quantunque, nel giudizio dei dotti, passasse per un peripatetico consumato”, metteva in dubbio la chiarezza dei concetti fondamentali della stessa dottrina “l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose”; della scienza naturale, non disponendo che di vecchie informazioni, accettava le sciocchezze più madornali, quali la capacità della remora a fermare i più pesanti navigli nel mare, la facoltà del camaleonte a non bruciare nel fuoco ed la genesi del cristallo dal ghiaccio ultraraffreddato e, perciò, ultraindurito “ed altri de’ più meravigliosi segreti della natura”. Non che l’uomo manchi del tutto di intuito critico, ma o lo sciupa con immagini pedestri (“Ma cos’è mai la storia.... senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida”); o lo esercita in maniera così stranamente azzeccata (“due però i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che fino a un certo tempo, fu solito chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva..., ma profondo; l’altro la Ragion di stato del non men celebre Giovanni Botero, galantuomo sì, diceva pure, ma acuto”), che il lettore pensa immediatamente al Manzoni e non a don Ferrante, come a loro autore... Dopo il drammatico capitolo 28 sugli affamati in Milano, morenti lungo le strade, ritorna l’aura comica nel c. 29, perchè tra i fuggiaschi dal lecchese, dove transita l’esercito avviato alla conquista di Mantova, troviamo il paurosissimo don Abbondio: “Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie sulla calata dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquanta mila; son diavoli, son ariani, sono anticristi; hanno saccheggiatio Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna; devastano Introbbio, Pasturo, Barzio; sono arrivati a Ballabio; domani son qui...” Questa è l’ouverture, in realtà il pezzo più riuscito; ma strisciate di violino ammiccante o colpi di tromba sghignazzante risuoneranno sia nel viaggio di andata che nei giorni di permanenza, che nel ritorno. Ci si mette di mezzo, poi, anche la ingenuità saputa del sarto, presso cui si fermano a consumare le provviste portate con sè: “Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro... “. Quanto al luogo dove sono indirizzati, di cui don Abbondio teme la fama e i bravi (della perseveranza del padrone nella conversione si è già fatto assicurare), egli sentenzia: “Sfrattati la più parte... e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma, è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa queste cose!” C’è, poi, la stampa del cardinale Federigo, attaccata a un battente dell’uscio: lui se l’è procurata “in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacchè lui aveva potuto esaminar da vicino il cardinale in persona, in quella medesima stanza”. E arriva l’ultima trovata: “signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla; chè anch’io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare, ma però...”. Grazie, sarto manzoniano, anima buona, semplice e trasparente: tu apri uno spiraglio di fiducia nell’umanità e doni un’occasione di riposante sorriso anche coi tuoi difetti. Anche nel capitolo 30, gli attori comici saranno don Abbondio (“Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli teneva compagnia”) ed il sarto (“Ah signor curato! –disse il sarto, dandogli il braccio a rimontar in carrozza: -s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte”): come il povero curato vive di paura e di ricerca suprema di sicurezza, pace e comodità, così il sarto vive di filo da cucito e di carta stampata e di vanità da cabotaggio. Ma don Abbondio e Perpetua, giunti in parrocchia e trovato il disastro del bivacco e del saccheggio di tanti soldati, non han più voglia di ridere: Agnese deve intervenire con prestiti, perchè i risparmi di don Abbondio sono stati dissotterrati dai lanzichencchi: La scena della dramamtica scoperta è grottesca, perchè curato e domestica diventano ridicoli nell’accusarsi a vicenda per la ingenuità del sotterramento del gruzzolo nell’orto, ove era stato facilmente scoperto dai soldatacci. I protagonisti si adirano e soffrono; il lettore ha una gran voglia di ridere: la scena del rientro in casa e della ricerca nell’orto è, dunque, un caso di riso grottesco, di comicità amara: “Ah porci! –esclamò Perpetua-. –Ah baroni!! esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati trovarono effettivamente, invece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non aveva nascosto bene: pensate se questa rimase zitta...”. I capitoli 31-36 non hanno quasi spazio per la comicità: quando il dolore non riguarda il superfluo della vita (il danaro di don Abbondio), ma la vita stessa, allora i sofferenti di ogni categoria sociale sono al sicuro dalla ironia del cristiano Manzoni, che rivive la passione dei suoi personaggi con cuore fraternamente commosso per coerenza di fede (la madre di Cecilia) e sublimità di servizio (i cappuccini al lazzaretto). E, ancor prima, la sua mente si apre alla vena drammatica, non risparmiando rimproveri e lacrime per la povera umanità che non vuol credere al pericolo della peste e, così, se ne ammala e la diffonde ai propri cari; che, accettata alfine la coscienza del morbo mortale, si rifugia nella collera “che aspira a punire” (c. 32) e si crea il mito degli untori, per evitare di “confessare ad un tempo un grand’inganno e una gran colpa” (c. 31); che, eventualmente, attribuisce alle congiunzioni degli astri il contagio e le sue conseguenze nefaste, mentre le autorità (don Gonzalo ed Ambrogio Spinola) sono tragicamente latitanti (cc. 28 e 31 e 32: “belli graviores esse curas”: le esigenze della guerra erano più urgenti). Anche don Abbondio, incontrato da Renzo nel c. 31, non fa più ridere: la sua paura di venir esposto alla richiesta di matrimonio da parte di Renzo redivivo (come lui, pure guarito dalla pestilenza), senza la certezza della morte di don Rodrigo, lo mostra un povero diavolo, più preoccupato dela propria vita terrena che della morte di tanti parrocchiani (a cominciare da Perpetua); ancora ossessionato dalla paura di morire. E lo stesso si dica dell’allegro Tonio, che la peste deforma, sviluppandogli anche nel viso il segno della menomazione mentale, proprio come nel fratello Gervaso. L’unica parentesi comica è quella specie di elogio funebre che il monatto fa rivolto al cadavere del padrone del vino che beve a garganella) è quella del c. 35, con Renzo sul carro dei monatti: ma il rabelaisiano discorso del monatto, che tracanna dal fiasco, non è un riso che faccia buon sangue: è, di nuovo, comicità grottesca, tanto è vero che Renzo non ride e soffre, anzi della situazione selvaggia e disumana. Col capitolo 37, Manzoni riprende serenità assieme al suo Renzo e assomiglia un poco a Ferrer che può annunciare al vicario di provvisione liberato dal palazzo e dalla folla: “Animo; estàmos ya quasi fuera” (c. 13). E a dar spattacolo di comicità umoristica (benevola e amichevole fin che si vuole, ma ugualmente demolitrice) è don Ferrante, con la sua etiologia astrologica della pestilenza.L’abbiamo vista, per esemplificare la attività culturale, nello studio dell’umanesimo universale manzoniano. Il capitolo finale non brilla per una comicità irresistibile: don Abbondio, liberato dallo spauracchio di don Rodrigo, è allegro, ma la sua letizia non è illuminata da grandi motivazioni: “ Quella notizia gli aveva dato una disinvoltura, una parlantina, insolita da gran tempo; e saremmo ancor ben lontano dalla fine, se volessimo riferir tutto il rimanente di que’ discorsi, che lui tirò in lungo, ritenendo più di una volta la compagnia che voleva andarsene, e fermandola poi ancora un pochino sull’uscio di strada, sempre a parlar di bubbole”. Le allusioni ad occasioni matrimoniali per Agnese e la vedova, compagna di Lucia al lazzaretto, sono in sintonia con la ripresa della vita e il numero delll richieste di pubblicazioni per sposalizi , ora che la peste è cessata, ma fan parte di quei discorsi portati avanti per ingannare il tempo; che non colpiscono alcuna attitudine umana generale e, quindi, generano una comicità di conio mediocre. Così si dica per la immagine della Provvidenza, quasi scopa che spazza via i colpevoli e salva gli innocenti (come lui! E scusiamo la sua modestia!); o per gli allegri rimproveri a Renzo, che (nel suo giudizio) lo ha aggredito e minacciato come un don Rodrigo quasiasi, per strappargli il segreto del vero impedimento al matrimonio; o per la meraviglia che Lucia, una ragazza devota come “una madonnina infilzata”, abbia accettato di partecipare al matrimonio di sorpresa... Manzoni è grande anche perchè ha raccolto in un’opera sola quanto aveva da dire, di sapienza morale, di introspezione psicologica, di erudizione storiografica, di estro lirico. Ora dispone solo di briciole, che rendono sempre interessanti le conversazioni (come quella reale con gli amici, in via del Morone, nei pomeriggi milanesi degli anni avanzati), ma non hanno più nè la profondità di pensiero nè la intensità di emozioni che hanno reso irresistibile il romanzo. LA TECNICA STILISTICA LA
TRACCIA DI STUDIO Diamo lo schema della non breve analisi, per avere la possibilità di un quadro generale, di uno sguardo sintetico in ogni momento. I) La spontaneità e il rifiuto della retorica classicistica II) Lo stile delle LIRICHE III) LE TRAGEDIE: no alle unità di tempo e di luogo, ma residui di classicismo; la prevalenza del lirismno sull’azione; la funzione dei cori intercalati. IV) IL ROMANZO 1) Il carattere storico o, meglio, realista 2) Il giudizio sul Milleseicento lombardo, come residuo della cultura giovanile illuministica. 3)le analisi psicologiche implicite od inconsce; 4) La sentenziosità morale 5) Il procedimento ternario, ossia la ragionevolezza umana e cristiana vittoriosa sul razionalismo illuministico 6) La visività e la cinestesia 7) La musicalità 8) Versi spontanei, inconsapevoli 9) Particolarità romantiche: la finzione del manoscritto e il colloquio coi venticinque lettori. 10) La lingua toscana, anzi fiorentina; e no; 11) Manzoni superato marginalmente dall’uso. 12) La punteggiatura incerta I)
SPONTANEITA’ E
RIFIUTO DELLA RETORICA CLASSICISTICA. Conosciamo la scontentezza del Manzoni sui versi di Urania, espressa all’amico Claudio Fauriel, col proposito di scrivere piuttosto versi peggiori che uguali a quelli. Quella lettera del 6 settembre 1809 rappresenta un vero ripudio del classicismo, con la sua mancanza di “interesse” per la irrilevanza o fatuità dei motivi ispiratori, rimediata illusoriamente dalla levigatezza, altisonanza e retorica della versificazione. Cessava formalmente, con quella autocritica, anche il discepolato a Vincenzo Monti. Che cosa vi sostituirà il giovane poeta rampante? Quello che ha già delineato nell’ode In Morte di Carlo Imbonati: “Sentir... e meditar” cioè quanto egli dichiarerà essere il semplice segreto del capolavoro: “Basta pensarci su”. Più azzeccata ancora è la formulazione degli stessi criteri di poesia ne L’ira di Apollo: “...tutto ei deggia dall’intimo| suo petto trarre e dal pensier profondo”. Ecco il grimaldello della nuova poesia: la spontaneità degli affetti e la profondità della riflessione. Che, poi, il verso risulti anche sciatto, importa di meno: l’essenziale è che dica cose importanti (pensieri profondi) e sentite (affettivamente partecipate); che esprima un pensiero così entusiasmante o sofferto da coinvolgere anche la sfera emotiva e, divenuto sentimento, proponga alla intelligenza il materiale primo per estrarne le emozioni, purificandol i sentimenti da ogni componente erotica e liberandoli da ogni interesse pratico. E vi sarà fedele fino alla rinuncia a scrivere versi, quando dovrà accorgersui che non è ormai più la musa a cercare lui, ma lui a rincorrere la musa, nel tentativo di forzarla ad ispirarlo. Nonostante le rimostranze della poetessa e grande ammiratrice Diodata Saluzzo di Roero, egli abbandonerà il plettro dopo il 1822 (finisce la Pentecoste in quell’anno) e si dedicherà praticamente solo alla prosa, avviandosi a diventare discepolo di Platone e Rosmini, dopo essere stato allievo privilegiato di Apollo e delle “nove suore”.[250]
II)LE
LIRICHE (dopo la conversione): Inni sacri, Odi civili, Cori delle tragedie. Caratteri
generali: oggettività (non soggettivismo) dei motivi ispiratori; universalità
(epicità e non idillio od elegia ) dei registri lirici. 1) Oggettività. Staccandosi dalla tradizione petrarchesca, Manzoni non prende più, a motivo ispiratore delle poesie liriche, la propria autobiografia affettiva, la cronaca dei propri stati d’animo, la propria storia psicologico-sentimentale. Egli, invece, canta fatti della storia religiosa e civile: le vicende della redenzione cristiana (Inni sacri) e il significato di istituti (eserciti di ventura), avvenimenti (sostituirsi della dominazione franca a quella longobardica in Italia; il riscatto delle persone innocenti ed umiliate, nel groviglio di imprese di conquista e distruzione) e personalità (Napoleone) della vita politica e militare. 2)
Universalità. La
emozione, suscitata da un pensiero che si dilata alle vicende supreme della
vita, della salvezza oltre la morte, di imprese grandiose di uomini eccezionali
o di scontri fra popoli, tende a privilegiare i toni alti, i registri
epicizzanti. La tenuità idillico-elegiaca della tradizione petracheggiante o
comunque adolescenziale è superata d’un balzo. 3)
Secondarietà del musicalismo
e forte prevalenza della parola-idea nella poesia del Manzoni. Il
musicalismo tende a dare una certa prevalenza alle vocali larghe, ma in compenso
le orchestra con un consonantismo in cui liquide e nasali hanno
solo un marginale (non decisivo,
quindi) predominio. Che se si volessero citare le molte “i” in sillabe
tronche, tendenti a creare atmosfera drammatica piuttosto che idillica, si deve
allora segnalare anche la frequenza delle parole sdrucciole, nei settenari delle
sue liriche. Una volta avvertita la
presenza di questi fattori di armonizzazione, ci si accorge che le restanti
componenti non modificano il sostanziale equilibrio, anche se è ovvio che Il cinque maggio avrà una maggior caratura
in vocali larghe ed in consonanti dure, se confrontato con la La
Pentecoste, che impasta una lega più dolce (ad esempio, mediante il
prevalere della larga “o” rispetto alla “a” ) per giungere ad una epicità
più cordiale e gioiosa. Ne risulta che il predominio della dimensione ideale, filosofica della parola rispetto a quella musicale, pur sempre presente in sede letteraria, assume un peso molto accentuato, avvicinando la poesia del Manzoni a quella di Dante e di Foscolo. Una conferma può essere vista nel fenomeno già notato: Manzoni usa, ne La Passione, il decasillabo anche per esprimere toni a sostanziale compartecipazione elegiaca (anche se interferita da un’emotività moderatamente drammatica). E’ per questo che non daremo molto spazio allo studio del musicalismo nel Manzoni. Gli Inni sacri: 1) Constano in genere di tre parti: descrizione del mistero cristiano preso a motivo ispiratore; meditazione sul suo significato nei confronti della umanità (salvezza dal peccato, illuminazione sul senso e fine della vita, progresso anche sociale e civile dell’uomo); invocazione perchè si realizzino in forma sempre più profonda gli effetti del mistero stesso.
2) Il tema non è
nuovo nella storia poetica dell’Italia: Agostino Paradisi (1736-1785), in
particolare, aveva già lavorato in tal senso, componendo “La parola di Dio”
(che corrisponde alla Pentecoste) e
“Per la concezione di Maria” (che ha suggerito idee per Il
Nome di Maria).
3) Manzoni intendeva
comporre dodici inni sacri,, seguendo le festività dell’anno liturgico; oltre
ai cinque finiti, vi è il tentativo di rifacimento de Il
Natale e alcune strofe per un inno nuovo: Ognissanti 4)La metrica degli Inni sacri è presa dagli schemi della poesia profana del Millesettecento: La resurrezione adotta gli ottonari (16 strofe, di sette ottonari ciascuna: di essi, sei sono piani, con rime ababcc; l’ultimo è tronco e rima con il settimo verso della strofa sucecssiva); Il nome di Maria, gli endecasillabi (21 strofe di quattro versi, di cui i primi tre sono endecasillabi; il quarto, un settenario a rime ABAc); Il Natale e la Pentecoste, i settenari (cfr. commento in nota); La Passione, i decasillabi (12 strofe di otto decasillabi ognuna, col seguente schema metrico: ABACBDDC (tutti piani, eccetto l’ultimo che è tronco). 5) Il vocabolario dei primi quattro inni è fortemente influenzato dalla Sacra Scrittura: immagini e parole sono prese dal Vangelo, dai profeti, dal Vecchio testamento. Il vocabolario de La Pentecoste è molto più umanistico (psicologico, sociale; con immagini tratte dalla natura: la luce, il fiore).[251] Odi civili: Il cinque maggio: è l’ode scritta all’arrivo della notizia dela morte di Napoleone a Sant’Elena. Fu composta di getto e finita in pochi giorni (17-19 luglio 1821), mentre la moglie Enricheta suonava al pianoforte musiche di tonalità maggiore, epicizzanti. Trama e motivi: a) l’ode è una carrellata folgorante, di una celerità e potenza avvincenti, sulla vita del genio militare e politico, ma coll’intento di ricavarne un giudizio di valore secondo i criteri di Dio, a fronte della Sua giustizia; è, cioè, il tentativo di rispondere alla domanda “Fu vera gloria?” (v. 31), alla luce della verità morale e religiosa dell’uomo. L’ode diventa, così, l’incontro fra il tempo e la eternità, fra i successi applauditi dagli uomini e i risultati giudicati da Dio; fra la “provvida man” che viene dal Cielo e la risposta dell’uomo, che questa volta è positiva e conduce alla conversione. Il motivo ispiratore preannuncia quindi quello stesso del romanzo, che era già stato avviato il 24 aprile dello stesso 1821.[252] Gli attori dell’ode sono infatti soltanto due: Napoleone e Dio, essendo passati sotto silenzio Inghilterra, Russia, il duca di Wellington... b) Nelle strofe 1-4 è espresso lo stupore del mondo intero alla notizia della morte di un tal Uomo, mentre la musa del poeta, silenziosa durante le contradditorie vicende terrene, ora si sente chiamata a celebrarne la memoria nel modo più radicale, interrogandosi, cioè, sul valore di una simile straordinaria esistenza. Due gli aspetti che subito sorprendono: da una parte, le vittorie superbe e continue, quasi incredibili (str. 5-9); dall’altra, la sconfitta finale e la fine ingloriosa in un’isoletta sperduta nelle acque dell’oceano Atlantico (str. 10-14). c) Ma che significato ha infine una tale vita? Manzoni rifiuta di pronunciare un giudizio sulla carriera politico-militare dell’uomo (str. 6); il poeta si sente autorizzato, invece, a dare un giudizio sul valore psicologico, morale e religioso di Napoleone. Certamente positivo è la valutazione psicologica (“nui| chiniam a fronte al Massimo| Fattor che volle in lui| del creator suo spirito| più vasta orma stampar”: vv. 31b- 36; “chè più superba altezza| al disonor del Golgota| già mai non si chinò”: vv.. 100-102); è, almeno implictamente, negativo il giudizio morale, proprio perchè è occorsa la conversione per riappropriarsi l’amicizia di Dio (vv. 85-96); un’amicizia che, però, basta a ridar splendore ad ogni vicenda umana, a darle un viraggio finale sicuramente positivo (vv. 103- 8). Tonalità emotive. L’ode è un canto solenne, di registro potentemente epico; presenta solo due oasi elegiache nei vv. 55- 72 (“E sparve e i dì nell’ozio| chiuse in sì breve sponda,| segno d’immensa invidia| e di pietà profonda,| d’inestinguibil odio| e d’indomato amor.|| Come sul capo al naufrago| l’onda s’avvolge e pesa,| l’onda su cui del misero,| alta pur dianzi e tesa,| scorrea la vista a scernere| sponde remote invan;|| tal su quell’alma il cumulo| delle memorie scese!| Oh quante volte ai posteri| narrar se stesso imprese,| e sull’eterne pagine| cadde la stanca man!”; e 103-8: “Tu[253] dalle stanche ceneri| sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita,| che affanna e che consola| sulla deserta coltrice| accanto a lui posò”). Ci si accorge facilmente che queste due pause elegiache sono striate da qualche nota drammatica: il tono elevato tracima anche nelle pause meditative. Note stilistiche. a) Motivo oggettivo, storico, di interesse anzi universale, perchè attinente il senso della vita di ogni uomo: abbandono del soggettivismo psicologico petrarchesco. b) Metrica: si tratta di una ode, cioè di una poesia di particolare solennità, di argomento grandioso e di intonazione epica; essa consta di 18 strofe, di sei versi settenari ciascuna: i versi primo, terzo e quinto sono sdruccioli senza rima; il secondo ed il quarto sono piani e rimano fra loro; l’ultimo è tronco e rima coll’ultimo della strofa seguente; c) il musicalismo contribuisce certo a dare quell’ “Auftakt” o sollevamento di tono che si addice alla epopea. Ma non eccessivamente. D’accordo: delle diciotto strofe, ben sedici terminano con la “a” o la “o” come sillaba finale tronca (solo le strofe 13 e 14 terminano con la “i” di sovvenir| ubbidir); delle 54 parole sdrucciole, finali di verso, anche più della metà hanno una delle due vocali larghe ictata (28, se non andiamo errati: più numerose le “o” che le “a”); e, nel corpo dei versi, le sillabe ictate vedono prevalere di nuovo le sillabe larghe (in complessivo equilibrio tra “a” ed “o”). Però i versi sdruccioli costituiscono la metà esatta dei versi nell’ode e si sa che essi danno bensì velocità all’azione espressa, ma le tolgono di forza; le vocali, poi, ictate che rimano nei versi 2 e 4 vedono prevalere la “e” (una volta la “u”; due volte la “i”, tre volte la “o”[254], sei volte la “a” e ben sette volte la “e”). Ma se l’ordito vocalico propende per la solennità epica, la trama consonantica è quanto mai cauta ed equilibrata: le consonanti dolci (nasali: equilibrio fra “m” ed “n”; liquide: favorita la “r”) sono abbastanza numerose[255] (fu| immobile| immemore) da attutire la pur prevalente presenza di consoanti forti. (“siccome| dato| stette| tanto| sta”). Questa sommaria considerazione delle componenti sonore de Il cinque maggio dimostra che la responsabilità prima della grandezza epica dell’ode sta nelle idee, cioè nell’aver presentato, con sintesi travolgente di vittorie e disfatte, gloria ed umiliazioni, vita imperiale e miseria d’esilio, il problema di fondo dell’esistenza, che vale non solo per Napoleone ma per ogni persona, anche per le genti meccaniche e di piccol affare (dove sta il valore della vita umana?), con l’unica soluzione psicologicamente esauriente (il ritorno a Dio, giudice ultimo ed inappellabile). Che Manzoni, nonostante il netto appoggio alla scuola romantica, sia rimasto sempre un autore classico lo dimostra anche questo dato già annunciato come premessa generale: la parola conta in lui più come idea che come musicalità. Invece, è significativo un altro fattore e, questo, nettamente epicogentico: la costruzione catafratta di strofe e versi, per cui periodo logico e periodo lirico tendono a coincidere. Neppure La Pentecoste ha tale costruzione rigidamente bloccata, salvo che nelle strofe finali della preghiera, le strofe,appunto, più epicizzanti, in una composzione che ha però tanto cuore e consolazione da esigere e creare un andamento meno legionario e spartano. Ma tale costruzione strofica non fa parte del musicalismo, bensì della sintassi, cioè del modo di pensare: ritroveremo una simile scansione militare nel Marzo 1821, nel coro del Carmagnola e nel primo dell’Adelchi. Marzo 1821: ode[256] composta da tredici strofe di otto decasillabi, di andatura davvero militare, incalzante. Lo schema metrico è ABBCDEEC: non rimano il primo ed il quinto verso; il quarto e l’ottavo sono tronchi, mentre gli altri sono tutti decasillabi piani. Premettiamo ancora che le idee magnanime ed il ragionamento coerente danno il volo primo alla forza lirica della composizone: la popolazione italiana, “una d’arme , di lingua, d’altare,| di memorie, di sangue e di cor” (vv. 31-2) è naturale che formi un’unico stato come è un’unica nazione. Ma notiamo che, pur tra bilanciamenti armonizzanti, costituiti da termini sdruccioli e dal consonantismo che equilibra liquide-nasali con stridenti (“Soffermati, contrade, questa, straniere” sono controbilanciate –nella prima strofa- da parole come “arida, novo, cor, onda, rive, mai”, mentre molti altri temini mescolano i due gruppi sonori: “sponda, guardi, certi, virtù, fia, scorra, sorgan, Italia”), tuttavia il peso dei tre accenti anapestici od antidattilici (terza- sesta- nona) e le due tronche dei versi 4 e 8 si fan sentire in senso drammatico-epicizzante. Tanto più che al centro di moltissimi versi si pone una parola ictata su vocale forte, preferibilmente una “a” (sempre nella prima strofa: arida| guardi, varcato| assorti| cor|| giurato|| loco| Italia”). I versi più famosi sul tema dell’unità italiana (“una d’arme...”) confermano la discreta prevalenza di musicalità forte che contribuisce alla potenza delle idee. La conclusione, ci sembra, che vale per questa ode, è che davvero motivi ispratori elevati e musicalismo adeguato concorrono equamente a determinare la sua forza epico-drammatica. D’altronde, l’incertezza fra polemica antiaustrica ed esaltazione del gesto dei moti piemontesi del 1821, sminuisce la forza di entrambe le emozioni (dramma polemico; epopea esaltatrice), inducendo qualche ricorso alla retorica delel esclamative (“Cara Italia!”: v.73; “Oh giornate del nostro riscatto”: v.97-104). E si deve anche dire che, attorno alla motivazione fondamentale, vengono accunulate motivazioni ora religiose (Sì, quel Dio...”: vv.65-73) ora etiche (“O stranieri! sui vostri stendardi| sta l’obbrobrio d’un giuro tradito...”: vv. 49-64), ora storiche (“Quante volte sull’Alpe spiasti...”: vv.81-88), ora cronachistiche (“Soffermati...||Ecco alfin dal tuo seno sbocciati...): il risultato è quello di una composizione raccolta a raggiera attorno al tema centrale, non dipanata in uno sviluppo logico e risultante invece da idee certamente affini, ma affiancate per impressioni distinte.
I cori delle tragedie. I cori nelle tragedie del Manzoni non hanno la funzione, come
in quelle greche, di esporre le reazioni dello spettatore medio alla vicenda che
si sta svolgendo in scena, ma di esprimere i sentimenti ed il giudizio
dell’autore stesso. Per questo i cori rientrano nella lirica: è un po’ come
se il poeta parlasse proprio in prima persona. Da Il conte di Carmagnola, atto II (La battaglia di Maclodio). il coro consta di 128 versi, distribuiti in 16 ottave di decasillabi, con lo schema di rime ABACBDDC: il quarto ed ottavo verso sono tronchi; gli altri, piani. Narra, con sintesi potente, lo scontro dei due eserciti (vv. 1-12; 57-76) ed il partire del messaggero che porta l’annunzio di vittoria (vv.76-88), con i risvolti di feste ed inni di ringraziamento (89-92). Ma sopra questi fatti militari, politici, religiosi sorge la meditazione del poeta patriota. Essa prende le mosse dal fatto che gli eserciti di ventura che si erano combattuti si componevano entrambi da italiani (“I fratelli hanno ucciso i fratelli:| questa orrenda novella vi do”: vv. 87-8), per sottolineare la conseguenza della dominazione straniera, facilitata dalla divisione e dal dissanguamento dei connazionali italici fra loro e concludere alla deprecazione di ogni dominio di popolo su popolo, come offesa contro la natura, contro la legge di Dio, offesa che si espia di epoca in epoca con il turno tra vincitori e vinti (“Stolto anch’esso! Beata fu mai| gente alcuna per sangue ed oltraggio?| Solo al vinto non toccano i guai; torna in pianto dell’empio il gioir.| Ben talor nel superbo viaggio| non l’abbatte l’eterna vendetta;| ma lo segna, ma veglia ed aspetta;| ma lo coglie all’estremo sospir”), sicchè è necessario che si riconosca la nostra fratellanza che discende dall’essere opera dell’unico Dio e “figli tutti d’un solo Riscatto” (“siam fratelli; siam stretti ad un patto:| maledetto colui che l’infrange,| che s’innalza sul fiacco che piange,| che contrista uno spirto immortal!”). La narrazione e riflessione sono condotte avanti con piena logicità e conseguenza, sicchè il coro (a differenza dell’ode Marzo 1821) è pefettamente unitaria e le due immagini (vv.41-48 e 65- 8) non distraggono ma concentrano ancor più sugli avvenimenti e sul giudizio. Le strofe sono organizzate a falange tassesca, suddivise in pensieri che abbracciano un paio di versi ciascuno, con coincidenza di periodo logico e periodo ritmico come regola, mentre gli “enjambement” sono rari. Anche il musicalismo privilegia le vocali larghe, in posizione ictata; ed il consonantismo, pur risultando meno sbilanciato, più armonioso, lascia sentire una leggera prevaelnza delle consonanti forti su quelle dolci. Da Adelchi, coro dell’atto III (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti”). E’ una meditazione delusa sulle vicende del popolo italico (latino) nel passagio dal dominio longobardo a quello franco: a) speranze del popolo latino: liberazione?; b) terrore e fuga dei Longobardi; c) rievocazione della campagna militare dei Franchi d) Conclusione: vanità delle speranze dell’imbelle popolazione italica. Il pessimismo, così vicino a quello del coro del Carmagnola, può esser stato accentuato dal fallimento dei moti insurrezionali del 1821. e) Il metro è fuori dai soliti schemi, almeno in apparenza: strofe di sei dodecasillabi, a rima AABCCB (il 3° e 6° verso sono tronchi; piani, gli altri): in realtà si tratta di doppo senari, perchè non vi è mai elisione fra la sesta e settima sillaba, la quale comincia sempre in consonante. f) Il musicalismo dà quella ragionevole prevalenza alle vocali larghe ed alle consonanti dentali, labiali, gutturali, che non toglie il primato delle idee nel risultato lirico della tragica narrazione e nella severità della meditazione sul destino d’Italia. I versi più belli sono, ci sembra, quelli cupamente epici (tragici) delle strofe 6-9 (“Udite! quei forti che tennero il campo||... udiron le frecec fischiando volar”) col gioiello del v. 42 “volaron sul ponte che cupo sonò”. Ancòra da Adelchi, coro dell’atto IV (La morte di Ermengarda: “Sparsa le trecce morbide”). E’ la meditazione sul destino doloroso della vita di questa donna, che muore ripudiata da Carlo Magno (str. 1-2), dopo aver gustato onori e soddisfazioni tali, da renderle ancora più amara la morte, nel mezzo del fallimento proprio e di quello del suo popolo (str. 5-14). Essa era pur buona e sinceramente innamorata: se “tal della mesta immobile| era quaggiuso il fato” (vv. 19-20) è perchè essa è segno della impossibilità a trovare e costruire la giustizia sulla terra, fallimento che è però compensato da una Provvidenza che espia nei discendenti le colpe dei padri (cfr. Marzo 1821) e ricupera nella vita eterna, con un premio che non ha paragone, le sofferenze di quaggiù. La metrica: il coro consta di 18 strofe di otto settenari ciascuna a rime abcbdeef: sdruccioli senza rima quelli dispari; piani e rimanti il 2 e 4; tronco il sesto, che rima con il sesto della strofa seguente. Il musicalismo varia seguendo il plurimo lirismo del coro. Le tre strofe elegiache iniziali hanno una frequente presenza della vocale media “e”, spesso ictata, mentre non mancano le “i” (un paio di ictazioni), e le “u”, (mai ictate): ma le “a” ictate sono ancor più frequenti, sicchè l’elegia è insinuata maggiormente dal gran numero delle parole sdrucciole. Più sentite le vocali larghe e le consonanti forti (o le coppie e triplette di consonati stridenti) nelle strofe dedicate alla rievocazione dei tempi felici di Aquisgrana, accanto al consorte, cacciatore oltre che re e condottiero (str.7-10): ma si tratta di prevalenza discreta, non ossessiva. L’armonia signoreggia la fantasia poetica del Manzoni: più che nella sonorità, è nella chiarezza e sublimità delle idee che trova la via per esprimere il sentimento da cui è animata. Si esamini il musicalismo delle ultime due strofe: al tono tenero-commosso corrisponde la simbiosi di una musicalità complessa, tra la forza delle vocali e la dolcezza delle consonanti liquide-nasali (oltre che delle parole sdrucciole). III)
LE TRAGEDIE.
Caratteri
generali 1)
Contro le unità classicistiche: Prefazione a Il Conte di Carmagnola e Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la
tragédie (1823). Sono esposte nello studio sul pensiero del Manzoni (Estetica e poetica).[257] 2) La scrittura delle tragedie segna indubbiamento una crescita nella espressione poetica del Manzoni: o, meglio, egli dimostra in esse la vastità della sua potenza artistico-letteraria, che, con l’esercizio, si attua e perfeziona. Il drammaturgo, infatti, passa dalla espressione di sentimenti cantati come suoi (sia pure, nel Manzoni, in reazione a vicende divine ed umane oggettive, cioè a lui esterne) alla espressione di stati d’animo consoni con personaggi i più diversi ed opposti fra loro e i più differenti e contrari, eventualmente, al modo di sentire esistenziale, accettato e coltivato dal poeta. Il dialogo “io-tu”, che caratterizza l’azione scenica, rivela una disponibilità del genio poetico ad entrare in risonanza con psicologie, personalità e caratteri, temperamenti ed individui i più vari, di cui bisogna indovinare le idee, le motivazioni, il comportamento in modo coerente; ed epsrimerlo in maniera efficace, credibile e affascinante, pur esulando esso di frequente (lo ripetiamo) dal mondo interiore, cui il lo scrittore aderisce con la mente, la volontà, la vita pratica. Se già la lirica oggettiva proiettava i motivi ispiratori del Manzoni ben al di là del suo mondo interiore, ora però essi abbracciano popoli interi e problemi politico-sociali aggrovigliati e gravi; per di più, la loro espressione avviene in scontri di personaggi, che dialogano e disputano fra loro, presentando i diversi volti di una situazione, in cui utilità e giustizia non sempre si accordano, spesso si oppongono, ma talora si equilibrano in misura tale, che non è facile stabilire dove finisca l’una e cominci l’altra, ove le due si accordino oppure contrastino. Ovviamente, tale ampliarsi di orizzonti predispone alla apertura universale del romanzo, ove, lo si è visto, un po’ tutta l’umanità è chiamata ad agire, a rivelarsi, ad essere giudicata. 3) Minor perfezione della genialità drammaturgica del Manzoni, rispetto alla sublimità della sua lirica e dell’epopea in prosa, cioè del romanzo. Quanto detto sopra non significa che il grande lombardo sia altrettanto felice nei suoi drammi, come nelle altre due forme di espressione letteraria. Prevalentemente introverso e portato più alla contemplazione che all’azione, finisce per scrivere tragedie in cui, più che lo scontro fra popoli e personalità storiche, sono portate in scena tensioni all’interno di singoli personaggi, crisi psicologiche, lotte di coscienze. Si tratta di uomini alle prese, talora, con scelte che hanno (o sembrano avere) una uguale urgenza morale (Adelchi: fedeltà al padre ed al popolo per guerre di dominio e distruzione; o sequela della pace e del rispetto per la Chiesa di cui spiritualmente è figlio?); oppure di persone sorprese, dalle vicende tempestose, ad un giro di boa nella loro vita (il tormentato passaggio dalla fedeltà al tradimento: nel senatore di Venezia, Marco; nel duca di Pavia, Guntigi); oppure ancora di anime che, nelle ore più travagliate della esistenza optano per la conversione e l’affidamento a Dio (il conte di Carmagnola, che previene “il conte del Sagrato” come l’innominato aveva nome in “Fermo e Lucia”). E’ per questo che tra le scene più belle di entrambi i lavori stanno i monologhi (Carmagnola: 4, 2: Marco senatore; 5, 4: il conte, solo; Adelchi: Svarto, 1, 7; Martino diacono: 2, 3; Guntigi: 4, 3; Adelchi: 5, 2). Qualcuno ha detto che le due tragedie sono più fatte per la lettura che per la recitazione. Ci sembra troppo: almeno l’Adelchi tien botta sul palcoscenico, se recitato da attori appena appena dotati. 4) Entrambe le tragedie sono scritte in endecasillabi sciolti, eccetto i cori, di cui abbiam già dato la metrica. Il conte di Carmagnola consta di 1865 versi sciolti (441, 316, 322, 437, 349), più i 128 del coro alla fine dell’atto secondo. L’Adelchi risulta di 2039 endecasillabi (429, 373, 404, 428, 405), più i 186 (66 doppi senari+ 120 settenari) dei due cori. 5) Entrambe le tragedie sono precedute da “Notizie storiche”, esposizione succinta ma esauriente dei fatti e delle condizioni socio-politiche, che introducono alla comprensione della vicenda sceneggiata. Anche per la progettata tragedia “Spartaco”, egli raccolse un materiale storico di prima mano, distribuendolo in epoche ed in atti, ma senza lasciarci nulla di versificato.[258] Della “Prefazione” che introduce Il conte di Carmagnola si è detto, parlando in nota della demolizione del mito delle unità del teatro classicistico. Questo interesse per la
storia, innato nel Manzoni, rafforzato dalla tradizione muratoriana e vichiana e
consonante col programma romantico, sono un segno e del suo forte amore per la
verità e del carattere realistico della sua arte. Manzoni, in verità, non è nè
classicista nè romantico, ma un vero “classico”, proprio grazie al suo
equilibrio fra idealità etico-religiosa e realismo storico-psicologico. Infatti
il realismo letterario non si
manifesta tanto nella fedeltà ai dati storiografici, quanto nella
verosimiglianza di tutte le vicende
che compongono la trama dell’opera. La classicità dell’opera d’arte cosiste
anzitutto nella verità equilibrata sull’uomo, sul suo animo, sulla sua vita
interiore, indagata in occasione di eventi
della storia passata o della cronaca recente od anche da eventi in cui il
mito e la fantasia prevalgono (Iliade, Odissea, Eneide, tragedie greche...),
purchè mantengano un riferimento sicuro alla vita culturale e morale
dell’uomo. 6) Parziali residui di linguaggio classicistico. Non si può pretendere che Manzoni si sottraesse radicalmente ed improvvisamente dal linguaggio cui era stato educato per le opere teatrali, tanto più che si tratta bensì di vicende medioevali, ma sempre attinenti personaggi regali (Carlo Magno, ed i re Desiderio ed Adelchi, associato al trono nel 758-9) o, comunque, altolocati (conte di Carmagnola). Sarebbe stato interessante leggere il linguaggio scelto Manzoni per una tragedia, popolare al massimo, come “Spartaco”. In concreto, le due tragedie non possono definirsi classicistiche, visto che manca ogni riferimento mitologico, anche se il loro linguaggio mantiene un certo distacco da quello parlato. Tale differenza tra lingua scritta e parlata è, infatti, esigita da almeno due ragioni, che nulla hanno a che fare colla opposizione classicism-romanticismo.. Da una parte vi è il bisogno innato in ogni poeta di privilegiare la parola musicalmente più adeguata allo stato d’animo da esprimere, onde una ricerca del termine ora più elegante e nobile; ora, viceversa, più forte e addirittura violento, a secondo delle esigenze estetiche. Dall’altra parte, la metrica, col suo apporto musicale validissimo alla poeticità del testo, ha i suoi svantaggi: costringe alla fedeltà ad un determinato numero di sillabe ed accenti, che impongono talora scelte diverse dal parlato, col ricorso a parole latineggianti, grecizzanti, arcaiche, contratte o dilatate o rare. La cosa è comune anche alla Commedia di Dante. Anche le inversioni alla latina nella disposizione dei vari elementi della proposizione è imposta solitamento dalle regole metriche. Una volta scoperto che non si tratta tanto di classicismo, ma di una distanza dal linguaggio parlato, allora non vi è più contraddizione fra il “romantivcismo” della scrupolosità storiografica e la mobilitazione di termini non più in uso, richieste dalla prassi versificatoria. 7) Il conte di Carmagnola è dedicato al signor Carlo Claudio Fauriel; Adelchi, “alla diletta e venerata sua moglie Enrichetta Luigia Blondel”. Il conte di Carmagnola Composta fra il 1816 ed il 1820, manca di una struttura unitaria sicura. Non si capisce bene, cioè, se la tragedia sia quella del conte di Carmagnola (Francesco Bussone), comandante delle truppe veneziane nella guerra contro Filippo Visconti, duca di Milano, fra il 1426 ed il 1432 (anno in cui fu decapitato il 5 maggio, accusato di tradimento a favore dei Visconti); o sia quella del popolo italiano (coro dell’atto II: battaglia di Maclodio); oppure quella del senatore Marco, amico del conte, che si strugge sapendolo innocente, ma non osa avvisarlo del destino che l’attende a Venezia, (dove è chiamato col pretesto di consultazioni dal doge Francesco Foscari), per timore delle conseguenze mortali cui andrebbe incontro. Le parti migliori della tragedia sono, oltre il coro, gli atti quarto e quinto, quando l’eroe, all’appressarsi della morte, passa dagli interessi di guerra a quelli religiosi e morali. Tra le scene citate come particolarmente sentite sono il monologo di Marco (4, 2), il monologo del conte prigioniero (5, 4) e il colloquio di addio alla moglie ed alla figlia (5, 5).
Adelchi Composta fra il 1820 ed il 1822, cioè nel periodo più
felice della musa manzoniana. La trama: Carlo Magno ripudia Ermengarda, figlia di Desiderio e sorella di Adelchi, re dei Longobardi. Per di più, manda loro messi per intimare che sgombrino le terre che formano il “patrimonio di S. Pietro” e depongano ogni pensiero di occupare Roma. La risposta è negativa e si giunge alla guerra. Intanto, però, alcuni nobili longobardi, ostili a Desiderio e ad Adelchi, tramano in favore di Carlo.e spediscono Svarto al campo frnco per promettere e chiedere appoggio (atto primo). Dopo aver tentato inutilmente di forzare le “Chiuse” di val di Susa, Carlo è sul punto di desistere dal tentativo di penetrare in Italia, quand’ecco giunge al campo il diacono Martino, inviato dal vescovo di Ravenna, che ha trovato una via diversa, attraverso i monti, per prendere alle spalle i Longobardi (atto secondo). Aggirati dalle truppe franche, i Longobardi si disperdono quasi senza combattere: cade però Anfrido, lo scudiero fidato di Adelchi, che, sul giaciglio di morte, fa a Carlo Magno e Rutlando (Orlando) un elogio altissimo del proprio signore. Svarto presenta al re Carlo i Longobardi traditori ed è eletto conte di Susa. Adelchi organizza la ritirata: il duca d’Ivrea, Guntigi, prenderà il comando di Pavia, ove si rinchiude Desiderio; Adelchi andrà a Verona con il duca Gisilberto, mentre Baudo difenderà Brescia, ove, in convento, si è chiusa Ermengarda. L’atto terzo si chiude col primo coro (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti”), ancora sulla miseria del popolo italico (latino), che aspetta da altri la liberazione, mentre i Franchi si divideranno la preda coi Longobardi e graveranno entrambi sul collo dei soggetti imbelli. Ermengarda muore a Brescia, assistita dalla sorella Ansberga, abbadessa nel convento di San Salvatore: si era illusa che Carlo non sposasse un’altra donna; quando viene a conoscere che egli ha sposato Ildegarda, dapprima vaneggia e poi cade in agonia. Si inserisce, su di lei morente, il secondo coro (“Sparsa le trecce morbide”). L’atto quarto prosegue col tradimento di Guntigi, che riceve Svarto e progetta come consegnare Desiderio e la città di Pavia, di cui Carlo lo ha fatto conte. E’ in quest’atto il soliloquio drammatico di Guntigi, che cerca di giustificare la propria infedeltà. (sc. 3). Nell’atto quinto, Adelchi, abbandonato dalla maggior parte dei suoi, che vogliono arrendersi a Carlo che assedia la città e manda un ultimatum, rifiuta la tentazione di suicidio (soliloquio della sc. 2) e sceglie di rifugiarsi presso l’imperatore di Bisanzio: se nella storia questo disegno ha effetto, nella tragedia, esso è impedito dalla guardia strenua dei Franchi, che inseguono Adelchi e, nello scontro cruento, feriscono a morte il protagonista. Portato nella tenda dove è prigioniero il padre Desiderio (che ha tentato inutilmente di ottenere la libertà per il figlio, in nome della opposizione tenace di lui ai propri disegni di guerra), egli impetra da Carlo che sia garantita al padre una prigionia rispettata e non gravosa; al padre rivolge una esortazione alla speranza nel solo Iddio, perchè (e queste espressioni sono già state riferite) nulla c’è da attendersi di buono quaggiù: “Godi che re non sei, godi che chiusa| all’oprar t’è ogni via: loco a gentile| ad innocente opra non v’è: non resta| che fare il male o patirlo. Una feroce | forza il mondo possiede e fa nomarsi| dritto...”. E muore affidandosi al Signore: “O Re de’ re tradito| da un tuo fedel, dagli altri abbandonato!| Vengo alla pace tua: l’anima stanca| accogli”. Francesco Flora ha definito Adelchi “un dramma di anime in una lotta di stati”: le vicende militari e politiche sono sofferte dai protagonisti in una prospettiva morale e religiosa, sono raffrontate con l’ideale di giusitizia e con la fede nella Provvidenza. I PROMESSI SPOSI. Se per stile si intendono tutte le dimensioni della parola, espressiva delle emozioni dell’artista, di nessuno si potrebbe dare una analisi esaustiva: i fattori inconsapevoli sono ben lungi dall’essere stati tutti svelati, sicchè rimane spazio per la critica di molti secoli. Trattamdosi, per di più, di un’opera grandiosa, si dovrebbe dedicarvi libri interi di commento. Dobbiamo limitarci a qualche notazione generale. Il carattere storico-realista. Il primo sostantivo che si incontra leggendo anche la “Introduzione” è proprio “L’Historia” (si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo...”): senza saperlo, l’autore ha indicato subito una delle linee portanti della sua opera: essere fedele il più possibile al fatto storico, lasciando sempre comprendere là dove il dato documentabile finisce e inizia il libero lavoro della fantasia. Che I promessi sposi si possano definire, dunque, romanzo storico è fuori questione, nonostante la protesta del Manzoni che nel saggio del 1845 ( Del romanzo storico) rifiuti la riunione dei due termini, come contradditori fra loro.[259] L’epistolario manzoniano testimonia della scrupolosità documentativa del Manzoni a proposito di fatti storici connessi col romanzo: i volumi che l’amico Gaetano Cattaneo gli forniva dalla biblioteca civica (anche i “gridari” o collezioni delle “gride” cinque-secentesche, che non si sarebbero potuti asportare dalla sede...) non sono che una parte delle opere consultate dal Manzoni. Infatti, negli anni della prima stesura, egli teneva a disposizione, portandole da Milano a Brusuglio, sia la “Storia patria”[260] di Giuseppe Ripamonti che il “Nuovo prospetto delle scienze economiche” (1815-17)[261] di Melchiorre Gioia. Nelle introduzioni alle tragedie e in alcune note del romanzo (specie per la storia della peste: cc. 28 e 31-2), Manzoni rimanda ad altre fonti delle sue notizie (specie Alessandro Tadino, col suo “Ragguaglio dell’origine...della gran peste”, del 1648). E’ noto inoltre, che egli ottenne dalla curia milanese il carteggio originario del processo a suor Virginia de Leyva, da consultare a casa. I brani del romanzo storicamente più impegnativi sono l’elenco delle gride nei capitoli 1 (quelle maliziosamente commentate dal Manzoni) e 3 (quelle citate dal dottor Azzeccagarbugli); la vita di Maria Anna de Leyva, divenuta suor Virginia e chiamata dal romanziere suor Geltrude, nei cc. 9 e 10; i tumulti a Milano il giorno di san Martino 1628 (cc. 12 e 13); la vita del cardinal Federico Borromeo (c. 22); le circostanze che causarono e accompagnarono la guerra per la sucecssione nel Monferrato (c. 27); i provvedimenti dell’autorità milanese conseguenti e la condizione della città e del contado dopo il secondo anno di carestia (c. 28); la calata dei lanzichenecchi diretti alla conquista di Mantova (id. e cc. 29-30); la peste in Milano (cc. 31-2). La stessa origine della prima idea del romanzo venne dalla lettura di studi storici, che riportavano la grida di don Gonzalo Fernandez de Cordoba del 15 ottobre 1627, ove si cita il delitto di ostacolo a matrimoni: è la grida che il dottor Azzeccagarbugli mostra a Renzo nel terzo capitolo.[262] Fra le “verità” che Manzoni svela al lettore comune, vi è la tendenza all’aggregazione in classi, leghe, corporazioni, maestranze, confraternite, onde difendersi dallo strapotere e dalle prepotenze della nobiltà (cc. 1, 5, 6, 18, 19); il puntiglio d’onore e i duelli conseguenti (c. 4 e 5); l’esistenza ed attività brigantesca, di eccezionale gravità ed efficacia, di Francesco Bernardino Visconti (o del fratello Galeazzo Maria?), convertitosi ad opera del cardinal Federigo, al principio del Milleseicento; il mutamento del titolo dovuto ai cardinali (da “monsignore o vossignoria illustrissima” ad “eminenza”) voluto da papa Urbano VIII nel 1630.[263] A definire “realista” il romanzo fa ostacolo un “uso” del termine che si riferisce ad un fenomeno storico, l’insorgere cioè di una corrente letteraria chiamata appunto “realismo o naturalismo o verismo” che, seguìta al romanticismo ed in polemica con alcuni suoi princìpi, esige che, per realizzare a pieno il concetto di opera realista, l’autore rinunci ad intervenire con personalismi (il colloquio di Manzoni coi suoi “venticinque lettori”, il riferisi malizioso al finto manoscritto, le analisi psicologiche esplicite); e che siano conservati i dialetti, se la popolazione, analfabeta, parla quei linguaggi, ecc. Ma, salvo queste leggi un po’ arbitrarie (come le “unità classicistiche!), la sostanza del “realismo” nei “Promessi” c’è tutta. E si tratta dell’amore alla verità di cui si è già parlato: verità storica, fin dove i fatti documentati servono alla trama fantastica; verità psicologica della verosimiglianza, là dove il campo è libero per la invenzione fantastica. “E poi, e poi, e poi” (c. 2: parla don Abbondio): non mancano nel romanzo nè personaggi la cui psicologia è tutta lasciata alla ricostruzione, in base alle loro parole ed azioni, dei lettori: si pensi a Renzo e Lucia, Agnese e don Rodrigo, Azzeccagarbugli e il conte zio, il principe padre e la figlia (la monaca di Monza), l’oste della Luna piena e il notaio criminale, il mercante di Gorgonzola e la buona vedova, compagna di Lucia al lazzaretto... Non mancano, quando sono coerenti col personaggio e la situazione, svarioni e solecismi sintattici (si rilegga il già riportato tentativo di discorso, ingarbugliato dopo le prime battute, di Agnese a suor Geltrude: c. 9) nè il parlare sconnesso ed insensato dell’ubriaco (è Renzo all’osteria della Luna piena, ovviamente: cc. 14 e 15) o del mentecatto (Tonio, minorato dalla peste: c. 33). E le espressioni in spagnolo di Ferrer? (c.13). Ma anche nella scelta dei vocaboli, lo scrittore sa inserire qualche termine realistico, meno nobilitante per situazioni e personaggi popolareschi: nel solo c. 12 (la folla nei tumulti dell’undici novembre 1628) incontriamo: “me n’impipo, (me n’infischio), insaccò, accipigliato, marmaglia, stracchi, fustagni...”.
Analisi psicologiche implicite,
cioè non dichiarate dall’autore Nell’elencare, a suo luogo, le analisi psicologiche esplicite, da considerarsi come motivi ispiratori e che costituitiscono la grande maggioranza dei casi, ci siamo lasciati indurre in tentazione di ricostruire noi l’animo di qualcuno dei personaggi, presentati solo in azione. Elencando, poi, i personaggi delle diverse categorie di uomini coinvolti nel romanzo dal Manzoni, abbiamo cercato di eseguire altre elaborazioni dei dati manzoniani, per giungere a delineare la psicologia di alcuni dei personaggi, non definita esplicitamente dal Manzoni.[264] In conclusione, non ci sembra che abbiamo ancora da riportare testimonianze della psicologia implicita, appartenente specificamente allo stile e non ai motivi ispiratori del romanzo. Abbiam pensato di sostituire simile collezione con la citazione (o ricitazione, in qualche caso) di brevi sentenze generali, che aiutano a conoscere gli uomini, la società e la storia: ed eventualmente impartiscono qualche insegnamento morale per la vita. Sono solo alcune delle tante. Ma non si creda di esaurirle facilmente: I promessi sposi sono un po’ come la Divina Commedia, che non la si è mai scavata abbastanza e che sorprende con nuove rivelazioni ad ogni rilettura. “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi” (c. 2) “-A questo mondo c’è giustizia, finalmente!- Tanto è vero che uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica” (c. 3) “Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce dalle azioni” (c. 7) è un pensiero rubato al Vangelo (“dai loro frutti li riconoscerete”), ridotto ad assioma dalla forma immaginifica -quasi di parabola- di Matteo, 7, 16-20. Come lo interpreti l’oste, lo si è già letto a suo luogo, ma lo si può immaginare anche solo sentendo descrivere la condotta sua: “...faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico,usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh?”. “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per preparane loro una più certa e più grande” (c. 8).[265] Capitolo 11: “Il vortice attrasse lo spettatore”: il caso singolo di Renzo è espresso con una legge psicologica universale: una massa in movimento risucchia facilmente l’estraneo dominato dalla curiosità. Capitoli 12, 13 e 28: Gli uomini si ribellano anche con violenza ai mali mediocri; si rassegnano a quelli estremi (confronto fra i tumulti della folla malnutrita a S. Martino del 1628; e la sua apatia e soggezione nei mesi seguenti, quando era affamata fino all’inedia). Il brano del c. 13 “Nei tumulti popolari” ha un precedente nel “Critone” di Socrate-Platone, come si è detto a p. 153. Aggiungiamo: la lettura dell’animo di masse popolari scatenate ha una triste applicazione nella richiesta di condanna a morte per Gesù, gridata da una certa folla il venerdì santo dell’anno 29| 30 d. C., nonostante che una (del tutto diversa?) folla lo avesse osannato la domenica delle palme, cioè quattro o cinque giorni prima A proposito della folla senza criteri ragionevoli di giudizio, si legga anche, nel c. 31:“Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento”. Nel c. 15 vi è una notazione psicologica di applicazione vastissima, nella vita quotidiana, nella vita politica, nella vita sociale anche della Chiesa: “quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà”. E’ una osservazione che va avvicinata a quella del c. 25: “Gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno o tengono affatto in sè quella che sentono, ma ne sentono meno in effetto” . Già citata la traduzione più sintetica ed efficace di Simona Weil: “la verità fugge nel campo del vincitore”. “Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente” (c. 20). “La vita è il paragone delle parole” (c. 22: a proposito della sincera umiltà di Federico Borromeo). “Volete aver molti in aiuto? Cercate di non averne bisogno” (c. 25).[266] “Con le idee donna Prassede si regolava come dicono si dve fare con gli amici: n’aveva poche; e a quelle poche era molto affezionata”: Manzoni avrebbe potutto ripetere qui la domanda maliziosa che fa a proposito dell’oste nel paese dei “promessi”: “Che carattere singolare! eh?” Carità ed orgoglio in donna Prassede: essa si permette di intromettersi negli affari altrui e di infastidire i suoi beneficati, anche “per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa fare più di quel che avrebbe diritto” (c. 25). “La collera aspira a punire” (c. 32): “le piace di più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non c’è altro da fare che rassegnarsi” (id.).[267] “La vita non è già un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impegno di cui ognuno renderà conto” (c. 22). “Son quei benedetti affari che imbroglian gli affetti” (c. 38): è sentenza degna di Rousseau: i sentimenti sarebbero innocenti e inclini alla benevolenza (anche in don Abbondio, nel caso); la ragione, calcolando vantaggi e svantaggi, ne rovinerebbe la purezza e magnanimità, inclinando all’egoismo (che Manzoni chiama, poco perspicuamente, “affari”). Non siamo molto d’accordo con questa sentenza, degna del nonno sentimentale Cesare, ma non del nipote raziocinante Alessandro”. “Si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio” (c. 38): assioma troppo esatto, ma più ammirabile che ammirato, più celebrabile che celebrato, “più invidiabile che invidiato” (cfr. c. 33, a proposito della morte dei cappuccini, volontari al lazzaretto per assistere gli ammalati di peste).
Distinzioni ternarie nella
espressione della psicologia, dei rapporti sociali, dell’attvismo umano in
genere Sulle orme di Domenico Petrini, vogliamo sottolineare il sistema “ternario”, privilegiato dalle descrizioni manzoniane. Il critico, morto molto giovane (1902-31) nei suoi studi in proposito, si è soffermato sulla descrizione di persone, sull’accumulo di aggettivi (“disanimata, pacifica, umile”), di sostantivi (“uomini, donne, fanciulli”: c. 21), di forme avverbiali (“a brigate, a coppie, soli”: id.). Noi vorremmo aggiungere qualcosa sull’origine e l’impiego di tale tecnica descrittiva. Già abbiamo detto che la distinzione binaria è tipicamente razionalistica e che sa di manicheismo. Non prendendo in considerazione il peccato originale, nella concezione dell’uomo storicamente condizionato,come finisce per distinguere gli uomini solo in buoni e cattivi, dimenticando i mediocri ed i deboli; come classifica le epoche della storia in “illuminate” ed “oscurantiste”, ignorando le zone d’ombra e di luce che sono in ogni generazione, così tende a guardare la realtà tutta sotto la semplicistica divisione in bianco e nero, in “sì” e “no”, non giungendo a vedere le zone grige, lo spazio del dubbio ed incertezza. Così è organizzata l’operetta “Dei delitti e delle pene” del nonno Cesare Beccaria. La conversione porta il nipote, ormai cristiano, ad una visione più completa dell’umanità, che tien conto anche delle situazioni di penombra e di tepore, di aurore|tramonti, oltre che di oscurità|luce, notte|giorno: son quelle posizioni medie, di imperfezione nel bene e di indecisione nel male, che sfumano l’animo ed il comportamento umano, dei singoli come della società tutta. Nel c. 12, una tripletta raddoppiata: “fanciulli, donne, uomini, vecchi,operai, poveri”; “danno colle schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi”; “chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva”. Ed ecco, allora, la più volte citata divisione della folla nelle sue tre anime, quale è descritta magistralmente nel brano del c. 13 che inizia “Nei tumulti popolari”: rileggila nella nota (85), a pp. 41-2, a proposito della psicologia nel capitolo decimoterzo. Qui, le triplette si moltiplicano: “facevan ritirar le persone, con buone parole, con un metter le mani sui petti, con certe spinte soavi”; “e franco, diritto, togato scese a terra”; “di spalle, di braccia e di grida”; “rannicchiato, attaccato, incollato”; “la moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò”... Anche la concezione della vita, nella coscienza di Federigo giovinetto, è espressa secondo tre situazioni, affidate a tre pronomi :“ Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti ed una festa per alcuni, ma per tutti un impegno, del quale ognuno renderà conto...” (c. 22). Sempre a tre pronomi diversi è affidato lo stato dei rapporti sociali di Attilio a Milano, dove non osa tornare finchè i tumulti di san Martino non sono sedati del tutto: “Tanto più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragione per temere che alcuno dei tanti, che solo per impoptenza stavan cheti, non prendesse animo dalle circostanze e giudicasse il momento buono per far le vendette di tutti” (c. 18).[268] c. 27: “tremava, inorridiva, s’infuriava”; c. 28: “scompagnati, a coppie, a famiglie intere” Non si deve, per altro, credere che Manzoni abbia cancellato dalla mente le contrapposizioni binarie o non faccia uso di espressioni affidate a distinzioni quaternarie, ecc. La distinzione ternaria è prvilegiata, non unica: la vita umana è così complessa, che offre situazioni dalle facce ora decisamente contrapposte, ora sucettibili di suddivisioni al di là delle tre ipotesi più solite. Così la descrizione della madre di Cecilia al c. 34 è affidata a distinzioni per lo più binarie: “Scendeva... e veniva; una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; una bellezza velata, ma non guasta; una gran passione e un languor mortale; bellezza molle a un tempo e maestosa; andatura affaticata, ma non cascante; gli occhi davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante...”.[269]
Visività e cinestesia E’ un riconoscimento comune della critica: Manzoni sa disegnare figure di cose e persone con una chiarezza incisiva; ed altrettanto icastica è la potenza con cui rappresena i gesti, il movimento. Noi abbiamo già riportato i ritratti fisici di alcuni personaggi, parlando dell’interesse dello scrittore per tutto l’uomo, non eslcusa la dimensione corporea: i bravi (c. 1), Renzo e Lucia (c. 2), p. Cristoforo (c. 4), don Abbondio (c. 8), la monaca di Monza (c. 9), l’oste della Luna piena (c. 14), l’innominato (c. 20), il cardinal Federigo (c. 23), gli accattoni durante la carestia (c. 28), i cadaveri degli appestati (c. 34), Renzo che spicca il salto sul carro dei monatti (c. 34), don Rodrigo moribondo (c. 35).Dobbiamo ora aggiungere la evidente descrizione delle manette (anzi, di quegli “ordigni, per quell’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini”) con cui viene arrestato Renzo, nel c. 15: “Consistevano questi... in una cordicella lunga un po’ più che il giro di un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente; i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi nel pugno, di modo che, girandoli, restringeva la legatura, a volontà; e con ciò aveva mezzo non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un recalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi”.[270]
Musicalismo Manzoni ha una sua musicalità privilegiata anche in prosa: è sull’onda della tonalità maggiore, cioè di un registro epicizzante, anche se ospita spesso incrinature di drammaticità. Il registro muta (in parte,almeno: mai del tutto) quando si passa alle tonalità contemplative dell’idillio, elegia e tenerezza: forza e stridore del dettato si attenuano in formule più dolci, sia nelle vocali che soprattutto nelle consonanti. La spia più clamorosa del mutamento di stile, per accondiscendere a toni blandi e commossi, è il cambio di predominio dalla “R” alla “L”; viceversa, l’inserirsi della “S” in coppia o in congiunzione con altre consonanti e l’infittirsi della vocale “A” rispetto alla meno larga e più cordiale “O”sono sintomo del pedominmio di lirismo drammatico-epicizzante. Fra le consonati dure, la “CH” e la “Q” prevalgono sulla “GH”, mentre fra le palatali od esplosive, la “P” risulta privilegiata. Si rilegga lo squarcio più volutamente epico sul passaggio dei vari reparti dell’esercito lanzichenecco verso Mantova (c.30). Ma si rilegga anche la apertura del romanzo “Quel ramo del lago di Como”: a parte che si tratta di un novenario regolare (accenti su 2^, 5^ e 8^), le travi portanti della solennità si sentono chiaramente poggiare sulle “A|O” dei tre sostantivi del dettato. Per i brani idillici, riprendiamo la sera al paese dei “promessi” (c. 7): le consonanti larghe dominano ancora, ma, accanto alle “E”, spuntano un cumulo di “I” accentuate, mentre l’accompagnamento consonantico inclina alla dolcezza, con palatali dolci (“usci| cene”; la “G” raddoppiata in villaggio, dove si ritrovano una “V” e due “L”; la “C” in “accesi”), una nube ovattante di nasali, di liquide, di fruscianti (molte le “S”; la “V” raddoppiata nei due “venivan” ed in “vedevan”; e presente nelle altre voci di tempo imperfetto “facevan|sentiva| sentivano| annunziava”, oltre che in “vanga”: ad essa si avvicina la “U” in “usci”), oltre i vocaboli sdruccioli (“venivano| uomini| povere”)... Naturalmente, visto l’equilibrio della musicalità, rimane prevalente la funzione delle idee e delle loro sfumature nel generare l’idillio: i termini familiari di “villaggio” (non “paese, comune”), “divozioni” (non “preghiere”), “usci” (non “porte”), “portandosi in collo” (non “in braccio”), “quiete solenne della notte”, i “fuochi accesi” (non “stufe|camini”), le “povere cene”, “barattare i saluti” (non “scambiare”), la “scarsità della raccolta”, la “miseria dell’annata”, “i tocchi misurati e sonori della campana” “il finire del giorno”... Ci avviciniamo a certo vocabolario leopardiano. Per i brani elegiaci, dal c. 8 rileggiamo solo le prime righe del brano “Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglio dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di quei due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti e vi si rituffavano”. Ci sembra di notare il solito prevalere delle vocali larghe, per cui il senso della tristezza lieve è opera delle idee, anzitutto (si pensi alle molte “O” con accento e no, nella espressione “soltanto il fiotto morto e lento”: qui, essa favorisce l’elegia e non l’epopea!) e, quanto alla sonorità, è frutto del corteggio consonantico che privilegia le solite liquide, nasali, fruscianti (“F”|V: “fiotto|rituffavano), palatali anche doppie (“leggero”) o unite ad altra consonante in un impasto dolcissimo (“SC” in “uscivano”| “GL” in “tagliavano”); ed agli sdruccioli (“alito| liscio|immobile|frangersi| tagliavano| uscivano| si rituffavano”). Fra i brani drammatici, leggiamo quello “afoso” del cielo che preannuncia la pioggia liberatrice, nel c.35: “L’aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo, l’orrore di quelle viste. La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano l’idea di un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la spera del sole, pallida, che spargeva intorno a sè un barlume fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante. Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; nè, tendendo l’orecchio, avreste saputo distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr lontano di carri, che si fermasse improvvisamente. Non si vedeva, nelle campagne d’intorno, moversi un ramo d’albero, nè un uccello andarvisi a posare, o staccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente di sopra il tetto del recinto, sdrucciolava in giù con l’ali tese, come per rasentare il terreno del campo; ma sbigottita da quel brulichio, risaliva rapidamente, e fuggiva. Era uno di que’ tempi, in cui, tra una compagnia di viandanti non c’è nessuno che rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensieroso, con lo sguardo a terra; e la villana, zappando nel campo, smette di cantare, senza avvedersene; di que’ tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so che di gravezza a ogni operazione, all’ozio, all’esisetnza stessa. Ma in quel luogo destinato per sè al patire e al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffogati; nè forse su quel luogo di miserie era ancor passata un’ora crudele al par di questa”. I concetti|descrizioni|immagini della oppressione, dello smarrimento, del soffocamento, della paura, dell’orrore, rimangono strumento preminente di espressione. Ecco, infatti, l’impressione della vista (oscuramento del cielo) e dell’udito (risuonare di tuoni senza lampi o fulmini); le ripercussioni di tali fenomeni su alcune categorie più significative di spettatori: il cessare del volo degli uccelli, il vuoto conseguente del cielo; il comportamento agitato, disorientato e contadditorio della rondine, tipico prodromo del temporale; il camminare curvo e pensieroso del cacciatore e il tacere del canto della contadina; il precipitare verso la morte degli affetti dalla pestilenza. Ma, all’orecchio, salta subito un muscalismo che aiuta, potenzia in maniera eccezionale la componente eidetica della parola. Due i periodi più concorrenti colla loro sonorità stravolta all’effetto drammatico della scena: il primo inizia “La nebbia s’era a poco a poco addensata...”; il secondo è il periodo che segue subito: “Ogni tanto tra mezzo al ronzio...”. Il primo periodo è caratterizzato (se non andiamo errati) dalle consonanti labiali “P|B”, dalla dentale “T” (raddoppiata o unita ad “R”), dalla sibilante aspra “S” (in congiunzione con altre consonanti dure, cui si possono ricondurre le due “Z” di “mezzo”, che risultano da “T+S”); dalla frequenza della vocale “U (“rabbuiandosi, più, cupo, barlume”) col susseguirsi ravvicinato della “O” (“fioco, pioveva, calore, morto); dalla asprezza che assumono le altre vocali (“A|E|I”) per il contesto delle consonanti accennate sopra. Il secondo periodo è più consolidato nelle preferenze sonore: la “O” come vocale e la “R” come consonante (borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto, o avreste potuto crederlo un correr lontano di carri, che si fermassero improvvisamente). Un altro brano significativo per la orchestrazione non clamorosa ma coerentemente drammatica è quello del c. 17, che inizia “Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di scope e di felci...” e termina “ Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acute nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto quel’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse.” Riassumiamo le nostre impressioni musicali: “I|E|U” accentuate (suoni acuminati, trafiggenti), come vocali caratterizzatrici; dentali semplici e doppie, doppie “R” o “R+ dentale”, doppie “S” o “S impura”, gutturale “CH|Q”, labiale “P”.. come consonanti che potenziano il senso di trafitture e torchiatura dello spirito.
Versi nella prosa Paolo Bellezza in “Curiosità manzoniane” (Milano, Antonio Vallardi editore, 1951, pp 121-8) informa: “ Più di quattromila (versi).. enumerò il professor Cerquetti, tra i quali 577 endecasillabi e 383 decasillabi.[271] Con maggior intelligenza critica, P. Bellezza tien conto solamente dei versi che si dispongano almeno a coppie: il verso isolato non fa documento, perchè il nostro orecchio esige almeno un paio di cadenze metriche, uguali e immediatamente successive, per gustare appieno il gioco musicale che si sta esprimendo. L’elenco ocmincia con gli endecasillabi: “Secondo l’ossatura de’ due monti| e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo,| tagliato dalle foci de’ torrenti,| è quasi tutto ghiaia e ciottoloni” (c. 1);”bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento (id.); “il quale era venuto da Milano|a villeggiare per alcuni giorni” (c. 5); “il servitore gli additò un’uscita;| e il frate, senza dir altro, partì” (c. 6.); “come abbiam detto, misurava innanzi| e indietro, a passi lunghi, quella sala” (c.7); “e non sentendo un alito all’intorno,| rallentarono il passo; e fu la prima| Agnese, che, ripreso fiato, ruppe” (id.); “ci par meglio lasciarlo nella penna,| per non metterci al rischio di far torto| neppure ai morti, e per lasciare ai dotti” (c. 9); un’altra benda a pieghe circondava| il viso, e terminava sotto il mento" ” (id.); “si diffuse a spiegar ciò che farebbe| per render lieta e splendida la sorte” (c. 10); Geltrude entrò in carrozza con la madre,| e con due zii ch’eran stati al prazno” (c. 10); Geltrude contristata, indispettita,| e nello stesso tempo, un po’ gonfiata” (id.); “andò quasi di corsa da Geltrude,| la ricolmò di lodi, di carezze”(ib.); “l’è dura di ricever de’ rimproveri| dopo aver lavorato fedelmente” (c. 11); “ma vedendo un’immagine sul muro,| si levava il cappello, e si fermava” (id.); “molti poderi più dell’ordinario| rimanevano incolti e abbandonati” (c. 12); “ cosa volete che vi dica? intanto| vi do la buona notte, e me ne vado” (c. 14); “voglio farvi vedere che mi fido| di voi; tenete, e fate presto, disse| il notaio, levandosi di dosso” (c. 15); “il nostro fuggitivo aveva fatto| forse dodici miglia, che non era| distante da Milano più di sei” (c. 16); “e di tra i rami, vide una barchetta| di pescatore, che veniva adagio” (c. 17); “non però senza molta commozione,| gli raccontò la dolorosa storia” (id.); “Attilio fece ancora qualche scusa,| qualche promessa, qualche complimento” (c. 18); “si spiegava, davanti a chi guardasse| di lassù, come un nastro serpeggiante;| dalle finestre, dalle feritoie” (c. 20); “e neppur di passaggio, non ardiva| metter piede nessuno che non fosse| ben visto dal padrone del castello” (id.); “una tal ritrosia nella persona| di cui credevano poter far più conto” (ib.); “furtivamente e come per sorpresa| cercavano di mettergli davanti,| addosso, intorno, qualche suppellettile” (c. 22); “ voi stesso sorgerete a condannare| la vostra vita, ad accusare voi stesso” (c. 23); “ordinò che facesse preparare| subito la lettiga e i lettighieri” (id.); “tutte le sue parole, in quel tragitto,| furono di conforto e di premura” (c. 24); “di tutta quella storia non sapeva| se non quel che gli aveva detto Attilio” (c. 25); “con queste ed altre simili e più volte| ripetute parole di lamento” (c. 26); “ma i danari nascosti, specialmente| chi non è avvezzo a maneggiarne molti,| tengono il possessore in un sospetto” (c. 29); “un tal ordin di cose camminò| e fece effetto, fino a un certo tempo” (c. 32); “tu! tu! mugghiava don Rodrigo verso| il Griso, che vedeva affaccendarsi| a spezzare, a cavar fuori danaro” (c. 33); “possibile che abbiate ancora addosso| tutto quel fuoco, dopo tante cose” (id.); “fuggiron tutti inorriditi; e Renzo| non vide più che schiene di nemici”(c. 34); “se non che, verso il mezzo di quel cielo| cupo e abbassato, traspariva, come| da un fitto velo, la spera del sole” (c. 35); “Il Signore non vuole che facciamo| del male, per far Lui misericordia” (c. 36); “guardando per la strada, raccattava,| per dir così, i pensieri, che ci aveva| lasciati la mattina e il giorno avanti” (c. 37). “Il cap. 11 si apre con quattro quinari: “L’urtar che fece| la barca contro| la proda, scosse| Lucia, la quale”, e con sei il c. 13: “Lo sventurato| vicario, stava,| in quel momento| facendo un chilo| agro e stentato| d’un desinare"” Altri incominciano con novenari, ottonari o settenari: (Novenari): “Quel ramo del lago di Como” (1); “Vi son de’ momenti in cui l’animo” (10); “La vecchia era corsa ad obbedire” (c. 21); “Già più d’una volta c’era occorso” (c. 27); “Quantunque il concorso maggiore” (c. 30). (Ottonari): “Come un branco di segugi” (11); “Era quello il second’anno” (12); “Scappa, scappa, galantuomo” (16); “Lucia s’era risentita” (24); “ Dopo quella sedizione” (c. 28); “ Una sera Agnese sente” (38). (Settenari): “In che psso obbedirla?” (6); “Basta spesso una voglia” (18); “Chi vedendo in un campo” (19); “In quanto alla maniera” (24); “S’immagini il lettore” (35). Qua e là gruppetti di senari, settenari, ottonari, come questi: “escimi di tra’ piedi,| villano temerario,| poltrone incappucciato” (c. VI); “ per isceglier la persona| a cui far la sua domanda,| una faccia che ispirasse” (c. XVI); “viva san Marco!| esclamò Renzo.| Il pescatore| non disse nulla” (c. XVII); “per don Abbondio| questo ritorno| non era stato| così angoscioso| come l’andata| di poco prima” (XXIV); “non voglio mangiare,| non voglio dormire,| lasciatemi stare” (XXI); “Quella signora!| quella signora!| una parola,| per carità” (XXXIV); Come finiscono| queste faccende?| i colpi cascano| sempre all’ingiù” (XXIV).[272] A nostro rischio e pericolo, vorremmo aggiungere una proposta. Partiamo dal fatto che Manzoni, d’istinto, nelle parole di don Rodrigo al c. 6, ha usato lui una forma prepositiva (“di tra i”, invece del semplice “dai” (piedi) a stento tollerata dalla lingua italiana, che evita più che può il susseguirsi di due preposizioni semplici: aveva bisogno di una sillaba in più per accontentare la sua fantasia, alla ricerca di un altro settenario! Dunque, Manzoni adatta la sua espressione, forzandola un poco, al bisogno di musicalismo metrico, di armonia accentuativa. Ma se l’operazione la proseguissimo noi, si potrebbe imbattersi in casi di quasi-versificazione, evitati bensì dallo scrittore, ma che vengono d’istinto sulla bocca del fruitore, quando questi crede di citare a memoria e modifica il testo senza accorgersi, per il semplice fatto che la metrica aiuta molto la memoria, la quale adatta le espressioni, così da ricordarla più facilmente e sicuramente, a costo di mancarle di fedeltà. Riprendendo, dunque, la segnalzione di P: Bellezza, completeremo lo scavo nelle parole di don Rodrigo alla ricerca di settenari e segneremo in grassetto la vocale di troppo (messa anche tra parentesi) ed i versi non settenari che vi si rovano: “ escimi di tra’ piedi,| villano tenmerario,| poltrone incappucciato...| Villan(o) incivilito!| -proseguì don Rodrigo:-| tu tratti da par tuo.| (Ma ringrazia il saio)[273]| che ti copre codeste| spalle di mascalzone,| (e ti salva dalle carezze)| che si fanno a’ tuoi pari,| (per insegnar loro a parlare.)| Esci con le tue gambe,| (per questa volta);| (e la vedremo)”. Proseguendo con questo criterio, eccoci ad una breve descirzione nel c. 17, in cui il secondo comma è un ottonario, mentre il primo e terzo si possono ridurre ad ottonari solo con modifiche che segnaliamo,aggiunte o sottrazioni, col grassetto: “Quel bel ciel(o) di Lombardia,| così bello quand’è bello,| così azzurro, così in pace.”[274] Continuando in questo divertimento, abbiamo ridotto tutto il periodo (nove righe a stampa) che precede questa espressione a versi, di cui un distico di settenari, una tripletta di novenari e una di ottonari; sparsi frammezzo, gli altri schemi metrici, che indichiamo con il numero riferito al loro nome: 7 “Il cielo prometteva| una bella giornata: 6 la luna, in un canto, 7 pallida e senza raggio, 8 pure spiccava nel campo 9 immenso d’un bigio ceruleo, 7 che, giù giù, verso (l’) oriente, 6 s’andava sfumando 10 leggermente in un giallo rosato (roseo) 6 Più giù, all’orizzonte, 7 si stendevano, a lunghe 5 falde ineguali, 11 poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, 9 le più basse orlate al di sotto 9 d’una striscia quasi di fuoco, 9 che di mano in man(o) si faceva 6 più viva e tagliente: 8 da mezzogiorno, altre nuvole 5 ravvolte insieme, 5 leggiere e soffici, 11 per dir così, s’andavan lumeggiando 11 di innumeri (mille) colori senza nome: 8 quel (bel) ciel(o) di Lomardia, così bello quando è bello,| così azzurro (splendido), così inpace”. Credianmo che la stessa cosa si possa riscoprire in altri passi; e non solo per brani quali “Non tirava un alito di vento” e “Scendeva dalla soglia”. Particolarità
romantiche: la finzione del manoscritto e il colloquio coi venticinque lettori Che la finzione del manoscritto sia un elemento romantico lo si può rconoscere dal fatto che un simile espediente manca nella letteratura classica, mentre serve a dare una specie di garanzia storica alla invenzione.[275] Ma la “introduzione”, fin dalla prima redazione (scritta dopo finito il secondo capitolo di “Fermo e Lucia”), denuncia il suo carattere romantico anche nel suo fine primario: introdurre e far accettare la centralità di quelle “gente meccaniche e di piccol affare” che la classicità disprezzava e il romanticismo, invece, amava e voleva far amare; e che Manzoni personalmente aveva imparato a stimare ed apprezzare, attraverso le già esposte idee del Thierry, nel recente secondo soggiorno parigino (1819-20). Non rimase, però, l’unico scopo: già nella seconda redazione, scritta alla fine della stesura di “Fermo e Lucia” (17 settembre 1823), viene espressa la problematica della lingua, questione che tormenterà lo scrittore al punto da indurlo a studi e riflessioni che avrebbero dovuto uscire a stampa col titolo “Della lingua itailana” oppure (in sintesi) “Sentir Messa”; da farlo soggiornare a Firenze per “risciacquare i suoi panni in Arno” e da fargli dedicare ancora una dozzina di anni ad una scrupolosa revisione secondo il parlare toscano, tra la edizione prima (la ventisettana: 1827) e quella definitiva (a dispense: 1840-2). E, in mano ad un genio letterario e filosofico quale era il Manzoni, la “Introduzione” potè servire a molte altre funzioni: ad esempio, quella di rendere più accetta le sua sentenziosità morale, presentandola, quasi in forma di litote, come giudizio dell’autore sconosciuto; e, ancora, quella di moltiplicare le occasioni per il proprio umorismo e renderlo più malizioso, pressappoco come l’Ariosto fa con l’attribuire all’arcivescovo Turpino le vicende meno credibili del poema (nel nostro caso, le reticenze circa nomi di personaggi e località). [276] Finchè la introduzione, redatta in stile secentesco esemplare, non divenne essa stessa un piccolo capolavoro di comicità benevola, comicità che rischia di assorbire tutta la attenzione del lettore e nascondere gli scopi per cui la “Introduzione” ebbe origine. Più facile ad intuirsi come elemento romantico la “confidenzialità” del colloquio coi “venticinque lettori”, che inizia subito al c. primo, quando si tratta di far indovinare lo stato d’animo di don Abbondio, dopo aver delineato il suo temperamento, il programma coerente di tutta la sua vita ed il ricatto appena subìto con la proibizione a celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia (“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto quello che s’è raccontato”). Si tratta di una condisecendenza a livello dei fruitori dell’opera: non il rapporto fra maestro e discepoli, ma quello di amico fra amici, di fratello tra fratelli. Non si tratta “ di un sacro ingegno, un abitatore del Pindo, un allievo delle Muse” (c. 14), che si impone da una cattedra sublime, ma di un compagno di strada che vuole scambiare quattro chiacchere con i viandanti che incontra. Popolarità dell’atteggiamento, che si adegua alla popolanità dei protagonisti, della gran parte degli attori. Tale abbassamento al livello della gente comune, della massa della gente semplice, ha un’origine ovviamente cristiana, come cristiano era per il Manzoni il nocciolo valido del gran sommovimento avvenuto in Francia a cavallo fra i due secoli XVIII e XIX: il trinomio di “libertà, uguaglianza, fraternità” era di origine evangelica, anche se poi era debordato in assurde ribellioni e macabre ingiustizie. La “condiscendenza” del Manzoni era sulla linea di quella di Dio verso l’umanità, nell’evento della Incarnazione; era il rispecchiarsi di quella umiltà evangelica che Cristo aveva isnegnato con tutta la Sua vita (fino alla lavanda dei piedi ai discepoli, fino a morire come uno schiavo in croce), prima che colle parole (Mt. 11, 29: “Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore”; Lc. 18, 9-14: il fariseo ed il pubblicano al tempio). Era la continuazione di quel rifiuto a reiscriversi nell’albo della nobiltà, non solo per non dare un segno di accettazione e di collaborazione morale alla dominazione austriaca, ma anzitutto per sottolineare la preminenza della uguaglianza sostanziale fra gli uomini sulle loro disuguaglianze socio-economiche: “ Coloro che mi chiamano conte mostrano di non aver letto tutte le mie opere, che è uno di quei peccati che un autore, per quanto poco amor proprio si abbia, non perdona mai. Io non sono conte e nemmeno nobile. Sono Alessandro Manzoni e nient’altro...”.[277] Ma egli non era, poi, solo un romantico ed un cristiano; era anche un poeta ed un artista. E difatti l’aver scelto un numero così lillipuziano di presunti lettori (venticinque!) è motivato con parole tali da rivelare l’ironia, per un eccesso di autolesionismo: all’inizio del c. 27, infatti, afferma con tutta ...ingenuità: “per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiamo supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti”. Pochi ed indotti: è decisamente troppo. No, neppure l’umilissimo Manzoni scriveva seriamente simili espressioni: lo faceva per divertirsi e divertire. La lingua del romanzo: la teoria astratta. Ci siamo già occupati del linguaggio fino all’Urania e, poi, negli Inni sacri e nelle tragedie: vocabolario classicistico dapprima; linguaggio spontaneo e, anzi, popolare, talora anche grezzo, poi; ripresa in parte dell’uso classicistico nelle due opere drammatiche. Già nel 1809 (lettera del primo marzo al Fauriel), egli si era posto il problema della lingua, ma solo per riguardo alla poesia; e l’aveva risolto tenendo presente la parte di inventività e di libertà che ai poeti è stata sempre riconosciuta: egli andrà avanti con un principio che Mario Martelli riassume nella formula: “cauto sperimentalismo e moderato eclettismo”[278]. La dottrina parve funzionare anche per la prosa, se egli potè scrivere le Osservazioni sulla morale cattolica, senza patemi d’animo linguistici. Questa tranquillità d’animo dura ancora nella prima fase della stesura del romanzo (24 aprile- fine maggio 1821), perchè il primo abbozzo dell’“Introduzione”, scritta in quella circostanza, quando Manzoni interruppe “Fermo e Lucia” per portare a termine l’Adelchi,[279] non contiene accenni a tale problematica, ma si aggira su questioni connesse colla storicità del romanzo, cioè specificare nomi di persone e località; fornire eventualmente al lettore le fonti consultate; sostenere l’utilità del suo romanzo, consistente in due valori: offrire notizie sugli avvenimenti accaduti in Italia fra il 1628 ed il 1630 (carestia, fame, guerre, pestilenza...), ma soprattutto destare sentimenti di orrore per il male e di simpatia per il bene, adeguati ai casi descritti, cosa quest’ultima che giustifica anche le parti inventive, così come si giustitifcavano nel poema in versi, che del romanzo risulta così l’antenato...). Quando, invece, finita la stesura del “Fermo e Lucia” (17 settembre 1823), scrive la seconda redazione dell’ “Introduzione”, praticamente l’unico scopo che viene sottolineato è quello di veicolare il problema della lingua, che era sorto proprio dai dubbi scaturiti durante la scrittura del romanzo. Che lingua adoperare, visto che lui ha l’impudenza di scrivere, sul finire di questa “Introduzione seconda” “Io per me, ne conosco una, nella quale ardirei promettermi di parlare, negli argomenti ai quali essa arriva, tanto da stancare il più paziente uditore, senza proferire un barbarismo; e di avvertire immediatamente qualunque barbarismo che scappasse altrui: e questa lingua, senza vantarmi, è la milanese”? Durante la revisione che trasformerà “Fermo e Lucia” nei Promessi sposi della edizione 1827, nasce il progetto di scrivere un libro da intitolarsi “Della lingua italiana”. Esso doveva venir sintetizzato, negli anni 1835-7, in un lavoro più modesto dal titolo, “Sentir Messa”;[280] e si distenderà, poi, in quelle ricerche e lettere e relazioni che, se non faranno mai il libro agognato, diranno però chiaramente la soluzione auspicata dal Manzoni: la lingua di una nazione è quella imposta dall’uso (e non da decisioni politiche o cattedratiche o libresche); la lingua scritta deve coincidere con il parlato (attuale); la lingua italiana è il fiorentino parlato dalle persone colte. Più distesamente, potremmo prospettare in questi punti la dottrina sulla lingua del Manzoni. 1) Una lingua è un mezzo per intendersi di uomini con uomini; in una nazione, essa è il mezzo di intendersi fra loro di tutti gli uomini che vi appartengono. 2) La lingua è –come dice lo stesso vocabolo- anzitutto una espressione umana “parlata”, non una scrittura. Ciò è testimoniato da vari fatti. Sono esistite lingue solo parlate e andate perse prima di trovare un veicolo scritto di fissazione; alcune trovarono molto tardi una scrittura, come la lingua slava, che ricevette un alfabeto solo nel sec. IX dell’era cristiana. Ancor oggi, generalmente, il vocabolo è prima detto che scritto. Una lingua puramente scritta sarebbe una lingua morta, artificiale, da apprendersi non per trasmissione materna, ma sui banchi di scuola, come il latino, che resta per forza di cose una lingua incompleta ed arretrata rispetto ad usi e invenzioni recenti. 3)Una lingua non è lingua di un popolo, se non è completa dei termini necessari alla comunicazione di tutte le nozioni in uso in un dato tempo. 4) Questa lingua completa è quella stabilita dall’uso del popolo, non quello degli scritti più o meno antichi o recenti, ma dalla “parlata” attuale del popolo stesso. L’uso è l’arbitro della lingua.[281] 5)Siccome non tutti i membri di un popolo riescono a padroneggiare tutto il vocabolario in uso in una certa epoca, occorre che esistano punti di riferimento sicuri, ove i meno dotti possano attingere le parole che ignorano per esprimere le loro cognizioni; e dove gli stranieri possano apprendere la lingua stessa, anche iniziando dalla ignoranza più completa. Questo principio è tanto più ovvio e necessario, là dove esistano (caso estremo, l’Italia) molti dialetti, che siano propri di una “regione” o parte della popolazione. Questi punti di riferimento finiscono per essere anche zone geografiche, oltre che gruppi di uomini specialisti nella lingua. 6)L’uso può essersi originato per motivi politici: così, il francese è la lingua dell’ Ile de France e, in pratica, della capitale, Parigi, sicchè dire francese e dire linguaggio parigino è la stessa cosa; ed identico è il processo e il risultato per il “castigliano”, divenuto lingua spagnola. Ma l’uso può essersi imposto anche per motivi extrapolitici, come in Italia, dove la lingua di Firenze si è diffusa ed è stata accettata come parlata nazionale per motivi artistici ed economici. Le opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, da una parte, ed i banchieri fiorentini, dall’altra, hanno imposto l’uso del toscano in genere e, più precisamente, del fiorentino come lingua nazionale del popolo italiano. 7)Una volta scoperta la struttura portante dell’uso (il gruppo di uomini o la regione o la città che lo incarnano), occorre essere coerenti nel mantenersi fedeli a tale punto di riferimento, così che da convenzione naturale ed inconscia si trasformi in un patto sociale e contratto consapevole. Visto che la lingua italiana di fatto è l’uso vivo di Firenze, occorre che –attraverso vocabolari ed insegnamento scolastico (oggi diremmo: attraverso tutti i mezzi di comunicazione sociale)- si diffonda e rafforzi tale uso, a scapito di dialettismi, particolarità locali o forestierismi.[282] 8)L’unità della lingua e la sua conoscenza ormai accertata esigono che vengano abbandonati alcuni pregiudizi molto diffusi, che hanno disorientato per secoli la soluzione del problema in Italia. La legge dell’analogia, ad esempio, va tenuta presente bensì, ma subordinatamente all’uso. Questa legge vorrebbe razionalizzare la lingua, trasformando in norma universale quello che è solamente la convergenza di un certo numero di fatti, simili bensì, ma accettati solamente in dipendenza dall’uso; ne consegue che essa ammette eccezioni non riducibili alla legge razionale della affinità. Manzoni cita i composti con la voce “para” che vuol dire difendere: ma mentre talora è la realtà offensibile ad essere posta dopo la voce “para” (come in “paracarro e parafalde”), spesso (“parafuoco, parafango”) è l’offensore ad essere posto dopo “para”, cioè ad essere “difeso”! Altra legge da riportare alla dittaura dell’uso è quella della “derivazione”. Manzoni cita il caso di “signorino”, che vuol dire “giovane” (padroncino), mentre nella logica della derivazione dal latino dovrbbe significare “vecchierello” (diminutivo di “senior”). Un altro pregiudizio è la pretesa di altre città toscane ad affiancarsi al fiorentino come uso nazionale equivalente.[283] Occorre attenersi al solo fiorentino, come i francesi si attengono al solo parigino.[284] Soprattutto deve cadere il pregiudizio delle “auctoritates”, cioè degli esempi scritti appartenenti a scrittori autorevoli e solenni, come quelli del Milletrecento o del Millecinqucento: l’uso contemporaneo parlato deve, viceversa, dettare la lingua scritta. Il vocabolario della Crusca, che era basato proprio su tale principio non ha più alcuna ragion d’essere e si riduce ad un “vocabolario storico”, memoria o testimone della lingua italiana parlata in altre generazioni. [285] Con questa dottrina del Manzoni, cadeva rovinosamente il “bembismo”, cioè quel groviglio di tradizionalismo, di classicismo, di purismo che erano stati i pilastri della dottrina linguistica vittoriosa nel Millecinquecento e nelle edizioni del vocabolario della Crusca. In realtà, il Manzoni proponeva una dottrina davvero “linguistica”, riguardante cioè la definizione della lingua da usarsi nel parlare (e, di conseguenza, nello scrivere) per farsi intendere da tutte le persone della nazione italiana. Il Bembo, invece, proponeva, senza accorgersi, una lingua “poetica”, cioè scambiava la ricerca linguistica (quale deve essere lo strumento di comunicazione sociale, comune a tutti i membri di una società?) con quella “estetica” (quale deve essere la lingua dei poeti e del bel parlare in Italia?).[286] L’errore era stato di Dante nel “De vulgari eloquio”, prima che del Bembo e dei compilatori del vocabolario della Crusca; continuerà col Monti ed il Perticari (per tacere dei minori come il Cesari ed il Puoti). Tenterà di ritornare col Carducci, ma senza riuscirci: Manzoni aveva fatto un buon lavoro, anche se non pefetto perchè non coerente sino in fondo. Difatti, lo ripetiamo, vi è una contraddizione fra la regola dell’uso e quella del “fiorentino parlato dalla classe colta”. Talora lo stesso Manzoni aveva la intuizione che il “fiorentino” dovesse rimanere strumento e non fine dell’unità della lingua, che cioè la norma del “fiorentino” fosse subordinata e non coincidente con il principio dell’uso. Ecco che cosa scrive infatti nella lettera al Casanova: l’idioma fiorentino “per un complesso unico di circostanze, è, al mio credere, l’unico mezzo che l’Italia abbia, se non per arrivare, almeno per accostarsi il più che sia possibile all’importantissimo e desideratissimo scopo dell’unità delal lingua”. Ma solitamente riteneva la falsa credenza che l’idioma fiorentino avesse costituito il segreto del valore della “cantafavola” (così chiama più volte il romanzo nella lettera al Casanova), tanto da uscire in queste espressioni (causate anche da un eccesso di umiltà, che qui diventa autolesionismo): “Ed ora che mi son dovuto levare, da me, le penne del pavone, rompendo un silenzio che, dopo il merito attribuitomi da Lei e dal suo bravo amico,[287] sarebbe diventato bugiardo, credo che troveranno il fatto più naturale, e non si maraviglieranno di veder sostituito lo spigliato allo stentato, lo scorrevole allo strascicato, l’agile al pesante, il per l’appunto all’astratto, venendo a sapere che ciò non è dovuto a delle mie alzate d’ingegno, ma ai mezzi che somministra il vocabolario d’un popolo; cioè d’una società che, in fatto di lingua, ha soprattutto il fine d’intendersi tra di sè speditamente, senza sforzo, e con la maggior certezza possibile, sopra i più diversi argomenti che possano venire in taglio, secondo le condizioni de’ tempi e i gradi della civiltà. Il come, poi, questo fine l’ottenga, non occorre qui di cercarlo, poichè vediamo che la cosa cammina. A me, per sostituire tali proprietà d’ogni genere a’ miei infelici ritrovati, non è costata altra fatica, che di mettere in carta, di mano in mano che mi venivano suggerite; e a’ miei suggeritori stessi è ben potuta costare di molta pazienza, ma fatica nessuna, giacchè non avevano a far altro, che leggere nella loro memoria. Tanto è vero, che, per arrivar presto e bene, non c’è niente come esser nella bona (sic!) strada.” E’ troppo davvero. Ci si domanda come mai il romanzo lo abbia scritto Manzoni e non Giovanni Battista Niccolini, Gaetano Cioni, Guglielmo Libri o... Emilia Luti e sua madre (le popolane fiorentine che gli servìrono da cosulenti esperte, pur non essendo della classe colta)![288] In verità, quelli gli suggerivano vocaboli logicamente più significativi e musicalmente più armoniosi, ma il contesto per cui tali termini erano i più adatti era stato inventato dal Manzoni. Di più: la scelta ultima per un vocabolo od una intera espressione era decisa dallo scrittore, a cominciare dalla rinuncia a quell’uso della “O” di “bono, novo, core, ecc.” che pure il mito della parlata fiorentina finirà per imporgli nella prosa susseguente il capolavoro, quando il suo senso artistico era stato accantonato in favore di regole “puriste” che egli si era imposto! Come se il fiorentino sia lingua in sè più poetica di altri dialetti! No, sono i cervelli fiorentini, che sono più facilmente sviluppati che altrove, in Italia (eredità etrusca?) e, perciò, riescono più geniali, eccedenti ed eventualmente eccessivi, nel bene come nel male, nel bello come nel brutto. Anch’essi (come gli Ateniesi dell’antica Grecia ed i tedeschi oggigiorno) tendono allo straordinario, cioè all’eccezionale|anormale, all’arte od alla sregolatezza. Vogliamo dire: se Manzoni avesse scritto il romanzo in dialetto milanese, dedicandovi la stessa serietà, impegno e tempo dell’opera affidata al dialetto toscano, avrebbe raggiunto la stessa intensità lirica, ci avrebbe donato un capolavoro equivalente. Certo che, impostato il lavoro nella lingua fiorentina, la coerenza con essa di tutti i vocaboli ed espressioni ha avuto bisogno di tecnici , di competenti, di professionisti per essere raggiunta: ma sempre professionisti della lingua, non dell’arte espressa attraverso di essa.[289] La lingua del romanzo: la prassi concreta. His fretus, cioè basandosi sulla sua dottrina del “fiorentino parlato” quale modello obbligatorio per la scrittura e prosastica e poetica, il Manzoni scrisse come gli dettava il suo genio, usando delle risorse di quella lingua con risultati sublimi; evitando errori di “purismo fiorentino” per sensibilità artistica; ma cadendo in arbitri tutti suoi, suggeriti dalla stessa sensibilità non frenata adeguataamente dalla intelligenza. Spieghiamoci. Circa l’apporto del fiorentino a precisare i concetti e ad armonizzare musicalmente la loro espressione, basta confrontare la edizione ventisettana con quella definitiva. La cosa fu fatta da Giuseppe Giusti, che dovette ricredersi da un suo giudizio avventato. Ma sentiamone il racconto dallo stesso Manzoni, nella lettera al Casanova. “Il Giusti, dunque, in uno de’ nostri colloqui famigliari, che sono per me un caro ricordo e un mesto desiderio, mi disse: Che estro t’è venuto di far tanti cambiamenti al tuo romanzo? Per me stava meglio prima. – Questa volta, dissi tra di me, per Giusti che tu sia, e in casa tua, hai parlato in aria; ma se mi riesce di tirarti dove voglio, t’accomodo io.- E a lui risposi: A dirti i perchè che mi domandi, ci sarebbe da stancare i miei polmoni, non che i tuoi orecchi. Ma, se ti dura codesta povera curiosità, credo che, con un breve esperimento, qui tra di noi tre (c’era presente il mio genero, Bista Giorgini), si potrà venirne in chiaro. Prendiamo le due edizioni; se ne apra una a caso, si cerchi nell’altra il luogo corrispondente; si leggano da voi altri, a vicenda, alcuni brani; e dove s’incontreranno delle differenze, giudicherai tu. Detto fatto: il Giusti prese per sè la sua protetta; e mentre leggeva, era facile l’accorgersi che biascicava certi vocaboli e certe frasi, come uno che assaggi una vivanda, dove trovi un sapore strano. Al sentire poi le varianti, fava certi atti involontari del viso, che volevano dire: Oh così sì; e qualche volta, lasciava anche sfuggire a mezza bocca, un : Sta bene. Ma ecco che, dopo pochi periodi, s’imbatte in uno lungo, avviluppato, bistorto, Nexantem nodis, seque in sua membra plicantem, come la serpe della magnifica, al solito, similitudine di Virgilio; e finitolo, con una repugnanza crescente, gli scappò detto, a voce spiegata: Oh che porcheria! E rimase lì con la bocca aperta, non so se perchè mortificato d’avermi dato troppa ragione, o per che altro; ma sentendo subito una mia gran risata, e leggendomi in viso un’aria di gran soddisfazione, uscì d’impiccio, e stendendo il dito verso di me, disse, ridendo anche lui: Vedi com’è contento!- Che ti par poco, risposi, l’averti ridotto a disdirti in una forma tanto solenne?”. Quanto all’evitare fiorentinismi di troppo, non accolti dalla lingua italiana, si è già ricordato più di una volta la questione della dittongazione della “O” breve latina, che Firenze rifiuta tenacemente (bono, core, novo, nora, rota, scola, socera, voto=vuoto...) e Manzoni, dopo esitazioni non poche, si decise a scrivere, nel romanzo, come gli dettava l’orecchio e come pronunciava l’Italia tutta, fuori di Toscana. Le eccezioni sono rare (percotere: c. 5; scola: c. 14; rote: c.34...). Ma la cosa che qui più ci interessa è l’esito di alcune scelte manzoniane (non tutte dovute al paradigma della parlata fiorentina, a dir il vero) che l’uso della lingua non ha confermato. Premettiamo, per altro, doverosamente, il riconoscimento che l’italiano che parliamo e scriviamo oggi è sostanzialmente la lingua de I Promessi sposi, lingua di cui, prima del Manzoni, solo le “Lettere” del Baretti e la “Vita” dell’Alfieri davano un esempio se non altrettanto perfetto, però poco discosto[290]: e si trattava di due piemontesi, che avevano imparato l’italiano a scuola, dunque, ma erano abbastanza geniali da trascurare il fiorentino di piazza mercato (i riboboli o le espressioni troppo vive e particolari, di cui aveva dato esempio inutile il Buonarroti giovane nelle sue commedie) e da selezionare il fiorentino colto non secondo il “buratto o frullone” della Crusca, ma secondo il setaccio o vaglio di una fantasia artistica. Riconosciuto questo, però, dobbiamo anche costatare quanto si poteva già presumere una volta rilevato che il proclamare l’uso come principio definitivo della lingua e, poi, pretendere di fissarlo nel fiorentino parlato era almeno marginalmente contradditorio. Manzoni, da una parte, assunse vocaboli non generalizzatisi fuori di Firenze; dall’altra, adottò forme di scrittura fiorentina di vocaboli accettati dall’uso in tutta Italia, ma con grafia più o meno diversa. Ecco degli elenchi, sia pure incompleti. L’elenco non è pignoleria: nasce dall’amore verso un capolavoro che si vorrebbe vedere assoluto, ma che, come ogni cosa umana, tale non può essere. E, pur coscienti di non aver provveduto a segnalare tutte le imperfezioni linguistiche, tuttavia ci pare di averne sorprese la gran parte: ci si accorgerà, così, ancora una volta, quanto poche esse siano e in assoluto e in rapporto alla mole dell’opera. Abituale troncamento della “i” finale nelle preposizioni articolate “de’, ne’, co’, que’, tra’...” “Introduzione”: rettorica c. 1: celibe (detto di Perpetua, occorreva “ nubile”); “per aver rifiutati tutti i partiti” (frequente la concordanza del participio passato, retto dal verbo avere, con il complemento oggetto, cosa oggi non più tollerata: cfr. c. 27: “dopo aver presa la sua porzione”; c. 31, a proposito di Ambrogio Spinola: “La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza...”) c. 4: caso intrigato; “ultim’anni” (apostrofo anche davanti a sostantivo di numero plurale, che inizia con vocale diversa dall’ultima dell’articolo o preposizione articolata che lo precede). c. 5: “smoverlo” (uno dei non molti casi di rifiuto a dittongare la “O” breve del latino; cfr. “scola”, nel c. 14; “sulle rote”, “voto=vuoto”: c. 34); “messaggieri; “senza aver assaggiate le legna dei miei boschi”; c. 6: suggezione (anche al c. 24); in iscritto (“i” premesso ad “s impura”, dopo preposizione con “n” finale, è frequente: cfr. “in ispavento” al c. 31; e passim); c. 7: le divozioni c. 8: aringa (non si trata del pesce, ma dell’ “arringa” del Griso ai bravi, spaventati dal suono delle campane a martello); “vanguardia” c. 13: “con un’aria del me n’impipo” (me n’infischio); soffogarlo; maraviglia; sarà gastigato c. 14: “votò” (il fiasco: vuotò); “scola”; “cammino” (il vano nel muro ove è acceso il fuoco: due volte; la terza volta, regolarmente “camino”). c. 15: “impiparsi” (delle gride: “ infischiarsi”); “gastigamatti” (ma alcune edizioni hanno regolarmente “castigamatti”). c. 16: “quel bel cecino” (introvabile sui normali vocabolari odierni: bellimbusto, bel tipo o soggetto, ecc.); “archibusi” (archibugi); “in un Milano” (maschile!); (c. 17): cert’uni; “facendosegli” (“i” e non”e”: ma lo stesso gerundio, complicato da due particelle pronominali, sta cadendo in disuso); c. 18: giovine (sempre, eccetto che in La Pentecoste, “giovani”, v. 137); c. 21 “avete fatti tanti miracoli”; c. 23: istava (insisteva); ufizi divini (“f” scempia e “z” alposto di “c”) c. 24: soffogato; (cfr. c. 26: “soffogavano”); contorni (= dintorni); in vece (staccato); (c. 25) indegnazione; c. 27: nell’occasioni (abitualmente, Manzoni si permette, contro l’uso poi invalso, l’apostrofo dell’articolo o preposizione articolata davanti a sostantivo plurale, anche quando il nome non inizia con la stessa vocale con cui finisce l’articolo: cfr. Pentecoste: “all’ascose vergini”; romanzo, c. 11: “dell’imposte tarlate”; c. 31: “quest’uomini”c. 32: l’idee, l’imprese, ecc.); ufizio (ufficio) c. 28: edifizio; lazzeretto (sempre); “con isguardi fissi”; “non iscappasse”; “dugento ottantotto”; “le margini delle ferite” (i labbri, i margini); c. 31: bullette; in ispavento; c. 32: parrochi c. 33: un mal essere (staccato) c. 35: gastigo; “quarantina” (quarantena, in convalescenza dopo la peste); “spedale” (ospedale); pur troppo; “sulle punta” (o sulla punta o sulle punte) c. 37: angioli (già in c. 14. “angiolo”); c. 38: fidecommisso [291]
La punteggiatura incerta Sebbene la potenza intellettuale di Manzoni fosse così eccezionale da non lasciar sospettare un mente filosofica pari alla sua se non in Tommaso e Dante, tuttavia uno dei sintomi che la sua emotività prevalesse ancora sulla razionalità è dato dalla incertezza e dal disordine della punteggiatura, nei suoi scritti, compreso il romanzo. Semplicemente, Manzoni non aveva una teoria precisa, defintiva, razionale, sulla funzione dei singoli segni di punteggiatura e li usava ad orecchio, cioè secondo un intuito emozionale che si basava più sulle pause della lettura che egli si immaginava componendo, che non su precise leggi razionali che egli conoscesse ed applicasse. Il che significa che, in fatto di interpunzione, Manzoni non aveva bussola, era uno scrittore disorientato che viaggiava a vista, a lume di stelle e di costellazioni. La cosa che più salta all’occhio ed infastidisce è l’uso abituale della virgola prima delle congiunzione “E”, cosa facilmente intuibile come inutile, perchè la “E” coordina e, quindi, lo stacco della virgola vien quasi a contraddire alla funzione unitiva della congiunzione stessa. Ma, nei periodi descrittivi, non rararemte lunghetti, del Manzoni, la voce del lettore ha bisogno di pause e lo scrittore crede di provevdere ragionevolmente con la virgola! In un nostro scritto (“Alessandro Manzoni alla griglia”) su un rivista quadimestrale del Canton Ticino (“Il Cantonetto”,) abbiamo già esaminato il problema, ma gli esempi addotti dal romanzo sono stati davvero pochi, nè qui possiamo sottoporre a revisione critica l’opera intera, “per due ragioni che il lettore troverà certamente buone”: anzitutto, lo spazio necessario sarebbe grande quasi quanto le pagine del romanzo, tanto gli sfagli dalla regolarità razionale sono numerosi; inoltre, un esame del genere risulterebbe certamente noiosissimo e potrebbe sembrare pedante e meschino, come il cercare le farfalle sotto l’arco di Tito. Il che non è del tutto vero. Infatti la messa a norma della punteggiatura esige, bensì, un impegno di riflessione faticoso, ma costituisce un esercizio davvero edificante in funzione della correttezza e consequenzialità del ragionamento: punteggiatura esatta significa espressione sintatticamente esauriente, cioè capacità di connettere le idee secondo tutta l’esigenza della coerenza logica. Noi, rimandando in nota un minimo di regole per una punteggiatura razionale, addurremo sia frasi espressioni riferite al romanzo, ma non del romanzo; sia frasi vere del Manzoni, prese dai primi capitoli, lasciando al lettore di procedere in un simile esercizio, se vuole raffinare la sua destrezza intellettuale.[292] Ma non vogliamo concludere con delle note negative il nostro commento all’operosità artistica del manzoni. Uno dei motivi per cui viene oggi disdegnato (a parte eventuali pregiudizi religiosi od etico- politici)[293] è quello stesso per cui vengono facilmente emarginati sia Foscolo che Carducci (non si osa ancora rifiutare Dante ma, se non si correggerà l’andazzo dei programmi televisivi, si giungerà anche a quello, cioè alla incultura dell’età barocca in Iitalia). Tale motivo è la densità di pensiero e, quindi, la difficoltà ad insegnare ed apprendere il contenuto di una simile prosa o di simili versi. Dante e Manzoni, Foscolo e (in misura minore) Carducci sono scrittori che “misurano l’uomo dalla radice del naso in su”; che , da soli, costituiscono un sicuro esame dell’ IQ, del quozeinte di intelligenza filosofico-umanistica del lettore. Leggere e imparare a gustare I promessi sposi e le opere poetiche tutte (liriche e drammatiche) del Manzoni, significa crescere intellettualmente, abituarsi a ragionare alla grande, esercitarsi a guardare “dietro l’angolo” delle apparenze, organizzare i particolari tutti in un orizzonte ideologico complesso e coerente, logico ed esauriente. Significa diventare più riflessivi, tradurre in atto tutte le potenze della propria intelligenza, maturare come uomini e crescere spiritualmente. E’ immunizzarsi contro la tentazione del facile Kitsch in arte, del sofistico irragionevole in filosofia, del seducente ma corruttore in morale. Il cristiano Manzoni rende coi suoi libri la mente più ragionatrice, la sensibilità più critica, la volontà più temprata, l’uomo più uomo, perchè allena a scoprire il vero, il bello, il buono e ad esorcizzare gli errori nel pensiero, le colpe nella condotta, il brutto nell’espressione. Gli scritti di Manzoni aiutano a costruire la civiltà della verità, dell’amore, della gioia, contro troppa stampa di libri e giornali che screditano la ragione, riducendola all’opinione dominante; che negano la libertà interiore che distingue l’uomo dall’animale, esaltando la libertà esteriore che lo limita al livello dei bruti e può ridurlo a quello del cane randagio; che celebrano la spazzatura dell’arte informale, della musica improvvisata e della poesia ermetica, per nascondere la propria impotenza a creare capolavori visivi, musicali, letterari. Lo splendore dell’arte di Dante e Manzoni genera un provvidenziale rimorso di coscienza costituisce un pungolo di creatività per il mondo contemporaneo, senza razionalità se non nel campo dei numeri, senza volontà se non nel campo dell’egoistico successo, senza emotività se non al livello praticistico dell’erotismo, del divertimeno e del guadagno. In particolare, Dante e Manzoni, con Foscolo e Leopardi, con Carducci e Pascoli rimangono un rimprovero ed una sfida: ci costringono all’umiltà di riconoscere la povertà della produzione letteraria del secolo ventesimo. Ci impegnano alla gara di seguirne le orme, ricordandoci che anch’essi hanno iniziato flebilmente e solo con il superamento di tentativi abortiti e l’insistenza di ardui esercizi sono giunti alla meta non della facile fama o del benessere per vendite inversamente proporzionali al valore delle loro opere, ma al risultato della espressione lirica sublime, che eleva il sentimento ad emozione pura, libera da ogni residuo erotico e da ogni interesse pratico. Essi cib esortano a puntare su quei traguardi estetici, che travolgono ogni obiezione, spengono la voce di ogni critica malevola, si fanno leggere anche da fruitori ideologicamente collocati all’estremo loro opposto, si fanno rileggere mille volte senza annoiare mai, anzi eccitando sempre più l’estasi della contemplazione artistica, trascinando nella gioia del candido idillio, nella tristezza della mite elegia, nel turbamento del dramma concitato, nell’esaltazione della epopea travolgente, nella disperazione della tragedia straziante; oppure strappando lacrime di dolce tenerezza o di sublime commozione, salvo a trascinarci nella comicità più diversa, umoristica od ironica, satirica o sarcastica, farsesca o grottesca. L’arte non è quella faticosa da capire, difficile da interpretare per i molti significati, la ricchezza di simbolismo, la complessità delle allegorie o l’arditezza delle (ermetismo o barocco acculturato di gran parte dei versi scritti nel secolo ventesimo), ma quella che coinvolge nella potenza emotiva, che riscalda i sentimenti, che esalta gli stati d’animo: non è un enigma per la mente, ma una consolazione per il cuore.
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[1] Giulia Beccaria era figlia di Cesare, l’autore “Dei delitti e delle pene”. Il marito l’aveva sposata in seconde nozze,a 46 anni, quando Giulia ne aveva venti. La estrema differenza di età e di temperamento rende ben presto impossibile accordare le esigenze di tranquillità e vita reclusa di Pietro con quelle di movimento e contatti sociali di Giulia. Questa ha uan relazione con Giovanni Verri, il minore dei quattro figli di Gabriele, che conduceva vita libertina. Nel 1792, poi, i coniugi Manzoni si separano. Nasce allora il sospetto che Alessandro sia figlio del Verri, cui sarebbe stato dato il nome di Alessandro, per il fratello secondogenito, autore delle “Notti romane al sepolcro degli Scipioni.” Il sospetto non può essere definito una calunnia, perchè ha dalla sua parte degli indizi non trascurabili. Ancora oggi a Cormano-Brusuglio (nella villa già Imbonati-Manzoni) vi è il ritratto del piccolo Alessandro, attribuito ad Andrea Appiani. Tale ritratto era stato regalato da Giulia all’amante Giovanni Verri, al tempo della loro relazione; e le fu restituito dal Verri alla propria mortre, attraverso un comune amico, Pietro Taglioretti (assieme a 5 volumi di lettere scritte da donna Giulia a Giovanni). La voce della paternità adulterina circolava già vivente il Manzoni: quando egli si sposa con Enrichetta Blondel, Giuseppe Gorani ne scrive a Giovanni Verri il 16 gennaio 1808 in questi termini: “Donna Giulia Manzoni colloca il di lei figlio e... gli dà in moglie una figlia del Blondel...”. I tre puntini starebbero al posto delle tre lettere dell’aggettivo possessivo “tuo”, anche se il testo esigerebbe poi una seconda “e” per camminare ragionevolmente. Naturalmente, i cinque volumi delel lettere di Giulia all’amante vennero distrutti, sicchè mancano prove definitive; quelle citate sono solo prove indiziarie, che però sono gravi e seducenti. Una prova indiretta consisterebbe nel temperamento fortemente nevrosico del Manzoni e nella morte precoce di vari suoi figli, da attribuirsi alla sifilide di cui avrebbe sofferto Giovanni. Ma a spiegare i disturbi neurovegetativi dello scrittore, basta la conoscenza del nonno Cesare e della madre Giulia; quanto alle morti precoci, basta a giustificarle la etisia della mamma, che trascinerà Enrichetta a morire nel 1833, a soli 41 anni. Di questa passo, tanto varrebbe dedurre dalla costituzione esile di donna Giulia e dall’età avanzata del conte Pietro la fragilità del sistema neurovegetativo del figlio; e dalla nullità intellettuale di quest’ultimo, la impronta univocamente “beccariana” della intelligenza del nipote di Cesare, che non rivelerebbe invece alcun carattere della intelligenza più concreta e meno idealistica del figlio di Gabriele Verri. La profondità della penetrazione psicologica e l’onda musicalae che segna gli scritti di Alessandro è riconducibile tutta e solo alla forma mentale dell’autore “Dei delitti e delle pene”. Non è facilmente spiegabile un silenzio totale dei “cromosomi” vitali ed emergenti dei Verri, se si fossero trovati in simbiosi-competizione con quelli dei Beccaria. D’altronde, la lettera allo zio Giulio Beccaria (fratellestro della madre) del 2 giugno 1820 può ben essere un’altra prova della origine e natura tutta materna (e, dunque, beccariana) della nevrosi di Alessandro; lo zio ha convulsioni, cioè disturbi neurovegetativi, del tutto identici a quelli del nipote. [2] La lettera all’abate Degola del 7 Novembre 1811 afferma di se stesso: “chi non solo dimenticò Dio, ma ebbe la disgrazia e l’ardire di negarLo” (A. M. Lettere, a cura di Cesare Arieti, Milano, Mondadori, 1970, I, n. 85: pp. 122-3). Si veda anche quella a Diodata Saluzzo Roero dell’undici Gennaio 1828; e quella a p. A. Cesari del 4 Febbraio 1828. Per la questione della perdita della fede del giovane Manzoni, si veda la nota alle pagine 14-15 nel vol. II delle Osservazioni sulla morale cattolica, edite da Ricciardi, Milano- Napoli, 1966, a cura di di Romano Amerio. [3] Manzoni venne a contatto col Monti, quando questi fece visita al collegio Longone (riportato ormai a Milano, essendosi messe un po’ meglio le cose). Le cronache assicurano che Alessandro fu tra i più entusiasti nell’applaudire, finoa farsi richiamare per la indiscrezione delle manifestazioni. Imitato nelle poesie giovanili, a Lui il Manzoni invia a Milano l’idillio Adda, scritto nella villa paterna del Caleotto, nel Lecchese, l’estate del 1803, con una lettera del 15 Settembre che inizia: “Voi mi avete ripreso di poltrone e lodato di buon poeta. Per farvi vedere che non sono nè l’uno nè l’altro, vi mando questi versi”. Poi, l’entusiasmo sbollirà ed i due militeranno in scuole poetiche opposte. Alla fine della vita del Monti, Manzoni gli farà visita e l’antico maestro si ritrova nella fede col nuovo astro delle lettere italiane. [4] Ma, nel corteggiare le ragazze, Manzoni era poi così impacciato, da riderne lui stesso quando, anziano, accennava a quegli anni. Era, questa, una estensione specifica della generale condizione di “maldestro” nella vita pratica, che egli conosceva fin troppo bene e di cui avremo modo di parlare nello studio del temperamento. [5] C. Imbonati, già cantato dal Parini per la guarigione (Odi, IV: L’educazione: “Torna fiorir la rosa che pur dianzi languia”), era ritenuto un grande uomo, pur vivendo in adulterio con Giulia Beccaria- Manzoni; pur rifiutando di avere figli da lei; pur negando alle sorelle di aver parte nella eredità (il testamento lasciava loro soltanto dei legati, che Giulia si affrettò ad eseguire: si trattava però di briciole, tanto che esse furono costrette in un pubblico ricovero per persone della nobiltà decaduta, a spese del governo austriaco). Non gli mancavano delle virtù, che avevano permesso al Monti di descriverlo positivamente ad Alessandro, che si apprestava a raggiungerlo in Parigi. In realtà, era seguace dello stoicismo e, come tale, rifuggiva dai vizi più nefasti, come il libero amore o la intemperanza: era fedele alla donna scelta e moderato in ogni espressione di vita. Di qui l’entusiasmo del giovane Manzoni che, oltre tutto, era probabilmente alla ricerca di una figura paterna congeniale, vissuto come era fuori casa od accanto ad un padre anziano e incapace di guidarlo e farsi seguire. Tanto più Alessandro doveva sentirlo isntintivamente alieno e lontano, se Pietro Manzoni era solo il padre putativo e se, quindi, il richiamo cromosomico fra i due era assente. [6] Claude Fauriel era nato nel 1772 e morirà nel 1844: filologo, storiografo e letterato, tradusse le tragedie del Manzoni in francese; scrisse una “Histoire de la poésie provinçale (edita solo nel 1846) e un “Dante et les origines de la langue e de la littérature italienne” (anch’esso postumo: 1854). Il perdurare della amicizia anche dopo la separazione netta nel pensiero, è un caso saliente della complicatezza della psicologia umana, della misteriosa incoerenza fra mente e cuore e della acutezza della mente umana a distinguere tra convinzioni ed affetti. Accanto al Fauriel stavano Pierre Jean Georges Cabanis, che ne era il capo riconosciuto (alla sua morte, ne prese il posto il conte Claude Destutt de Tracy , cui appartiene la frase citata nel testo) e Jens Baggesen. Con una figlia del Destutt de Tracy ci fu il secondo tentativo di matrimonio (dopo che si era saputo che la Luigina era già sposata) da parte dei Manzoni: andò a vuoto anche questo e si trovò invece adatto il partito di Enrichetta Blondel [7] Questo non significa che Manzoni saprà sempre evitare l’opposta attitudine critico-negativa nei suoi studi storici: il Seicento spagnolo ed in particolare don Gonzalo de Còrdoba sono stati bistrattati da lui nel romanzo, come ha dimostrato Fausto Nicolini nel suo libro “Arte e storia nei Promessi Sposi”, Milano, Longanesi, 1958. Era questo un residuo inconscio dello spirito critico-negativo verso il dominio spagnolo in Italia, ereditato dall’illuminismo. Pure è molto più usuale in lui l’atteggiamento di stima e rispetto per ogni età, da quella longobardica (“Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia”) a quella risorgimentale (“La rivoluzione francese del 1789 e quella italiana del 1859”). [8] Durante le indagini per la Luigina, giunse ad Alessandro una petizione del padre che lo desiderava al capezzale, trovandosi improvvisamente in punto di morte. Egli vi si recò precipitosamente (17 marzo 1807), ma non arrivò in tempo a vederlo vivo e ritornò allora dalla madre, che già era giunta a Torino. [9] Enrichetta era nata l’undici luglio 1891. [10] Il conte Somis era ministro del Piemonte presso Napoleone; pur appartenendo alla Massoneria, era credente e praticante. La sua dichiarazione punse anche gli “ideologi”, che lo dovevano stimare molto: si proposero, infatti, di discutere di religione, nei loro incontri, una volta la settimana. [11] A sua volta il Somis si era rivolto a Pierre Jean Agier, presidente di corte di appello e giansenista (1748-1823): fu lui a far da tramite con l’abate Degola. Sarà poi uno dei testimoni all’abiura di Enrichetta. [12] Più avanti daremo uno sguardo alle dottrine gianseniste. Dobbiasmo dire subito, però, che nelle lezioni ad Enrichetta fu esplicitamente esclusa la infallibilità del papa. Delle lezioni si conservano a Cormano-Brusuglio gli appunti presi da Enrichetta, rivisti e corretti, di propria mano, da Alessandro. [13] A questo punto si pone la questione dei motivi che indussero Alessandro al ritorno alla fede. Col genero Giovan Battista Giorgini (sposo di Vittoria), riteniamo che “Egli arrivò alla fede per una via che potrebbe sembrare poco adatta, trattandosi di fede: per via di logica”. Questo significa, anzitutto, escludere la pur diffusa leggenda del “miracolo” nella chiesa di S. Rocco a Parigi, il 2 aprile 1810, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria. In proposito, il Fabris dice solo che la ressa di quel giorno rischiò di soffocare Enrichetta e che Alessandro, stringendola fra le braccia pel timore di perderla, ebbe la prima manifestazione di quella forma di nevrosi (convulsioni), che doveva ripresentarsi alla notizia (per lui deprimente) della sconfitta a Waterloo e perseguitarlo, in seguito, frequentemente. Il fatto è questo solo, ma ben presto si è complicato sino ad indurre a mettere una lapide nella chiesa di S. Rocco, a ricordare la presunta conversione del Manzoni. La quale sarebbe avvenuta in questi termini: lo svenimento di Enrichetta si trasforma in un distanziamento dal marito, che temette così di perderla per sempre, travolta dalla folla. Alessandro, allora, si sarebbe rifugiato nella chiesa, pregando pressappoco con queste parole: “O Dio, se tu esisti, fammi ritrovare Enrichetta” sicchè, esaudito, sarebbe ritornato alla fede. Non si deve dara alle apparenti prove di questa versione. Si tratta di questo: nella risposta di ringraziamento all’ebreo convertito Davide Norsa che, nel 1850, gli aveva inviato il suo libro “Pensieri di un cattolico” dove era narrata la versione “sanrocchina” dell’incidente, Manzoni non la corregge nè la contesta (si tratta della lettera del 4 agosto 1850, numero 949 nell’edizione mondadoriana a cura di C. Arieti ). Ma la prova non ha molto valore per due motivi. In quella prima edizione il Norsa non metteva il nome del protagonista del presunto avvenimento, sicchè Manzoni poteva anche non riconoscersi in esso: il nome verrà specificato soltanto nella edizione del 1874, morto il Manzoni. In secondo luogo, era abitudine del Manzoni, che di libri in omaggio doveva riceverne molti, di rispondere al più presto ringraziando, sia per non essere obbligato a leggere quelli che gli inviavano; sia per non trovarsi nella situazione di dare giudizi eventualmente negativi sulle opere ricevute. Il silenzio del Manzoni, dunque, non dice nulla: neppure che egli abbia letto il libro. Ma quale sarà stata la via logica o razionale percorsa dal Manzoni nel ritrovare la fede? Egli non l’ha detta esplicitamente, ma ne ha lasciato trasparire indizi suggestivi. Cominciamo a riportare le risposte a due domande precise in proposito. Alla figlia Vittoria, si limitò a dire “Figliuola mia, ringrazia Dio che ebbe pietà di me: quel Dio che si rivelò a S. Paolo sulla via di Damasco”. A Stefano Stampa, figlio della second amoglie (Teresa Borri Stampa), rispose: “E’ stata la Grazia di Dio, mio caro, è stata la Grazia di Dio”. Però egli, sia nelle Osservazioni sulal morale cattolica, sia nel romanzo, lascia tracce del sentiero psicologico seguito. A parte il forte sapore cristiano delle raccomandazioni messe in bocca, quale decalogo stoico, all’Imbonati, immaginato come apparso in sogno (“Sentir –riprese- e meditar; di poco| esser contento: da la meta mai| non torcer gli occhi; conservar la mano| pura e la mente: de l’umane cose| tanto sperimentar quanto ti basti| per non curarle: non ti far mai servo;| non far tregua coi vili;| il santo vero mai non tradir; nè profferir mai verbo| che plauda al vizio o la virtù derida”), è tutto il ragionamento che egli svolge nel c. III delle “Osservazioni” ( “Sulla distinzione di filosofia morale e teologia”) che svela come la fede in lui sia un corollario della perfezione morale offerta dalla Chiesa in proposito. Egli, infatti, lascia intendere che la verità della religione cristiano-cattolica si impone perchè 1) offre la completezza ed organicità razionale dei precetti e della dottrina morale; 2) offre motivi (fede nella immortalità dell’anima; Cristo come modello concreto della moralità più sublime; la promessa della resurrezione finale dei corpi) per cui la condotta morale possa essere attauta, nonostante i sacrifici che essa indubbiamente costa; 3) offre la spiegazione per cui il male è irragionevolmente più facile e seducente del bene (peccato originale); e quell’aiuto straordinario di Dio (la “Grazia”, specie attraverso i Sacramenti), quel supplemento di energie morali a noi meritato da Cristo, per cui il cristiano può passare dalla convinzione della coscienza alla esecuzione delle opere, fino all’eroismo della carità (nei Promessi Sposi, i cappuccini al Lazzaretto ne saranno l’esempio più commovente). Tali ragionamenti si ritrovano impliciti nel romanzo. Quando Renzo, tornato deluso e gabbato dal dottor Azzeccagarbugli, va “ripetendo... quelle strane parole: -a questo mondo c’è giustizia, finalmente!-”, lo scrittore commenta: “Tant’è vero che un uomo, sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica” (c. IV). Il c. III delle “Osservazioni” completerà il ragionamento: dal momento che la giustizia è una esigenza così radicale nell’uomo, che senza di essa l’umanità non potrebbe vivere (si pensi ad uomini integralmente onesti, che non trovino premio presso Dio: son come degli innocenti condannati a morte, quale risultato del loro retto operare!), allora essa deve esistere: ma solo oltre la tomba, nella vita eterna, per opera di Dio. Anche Virginia di Leyva (Gertrude, nel romanzo), che ha pronunciato i voti monastici contro la propria volontà ed è chiusa a forza in convento, diventa occasione perchè il Manzoni esponga la sua convinzione in proposito: “E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò che si è intrapreso con leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione ciò che è stato imposto dalla prepotenza e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile, tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. E’ una strada così fatta che da qualunque labirinto, da qualunque precipizio l’uomo capiti ad essa e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia e arrivar lietamente ad un lieto fine. Con questo mezzo Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta” .(c. 10) Ma l’episodio dell’Innominato offre i maggiori suggerimenti sulle motivazioni di ordine “morale” alla conversione del Manzoni: l’Innominato potrebbe essere considerato, nella conversione, un po’ la controfigura dello scrittore. Ci pare di poter distinguere tre momenti nel cammino di conversione. Anzitutto vi è il coraggio di guardare in faccia con realismo alla propria condizione morale, per giungere a dire: -basta con le menzogne e le alienazioni; sono un peccatore e, quindi, un uomo fallito-. Ed ecco il secondo stadio: incertezza, stato di dubbio, di crisi. Però, dopo qel primo passo, è cessata almeno la risata cinica e la baldanza prepotente della condotta razionalista. Non è detto, però, che debba nascere necessariamente la fede. Un esito potrebbe essere, difatti, la disperazione, che l’Innominato supera con il dubbio della esistenza di una giustizia e misericordia ultraterrene: “Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è un’invenzione dei preti, che fo io? perchè morire? cosa m’importa quello che ho fatto?.... E se c’è quell’altra vita?...”. Ma come passare dal dubbio alla certezza, alla convinzione positiva finale? E’ il terzo momento, quello del superamento del dubbio e della conquista della fede convinta. Nel caso dell’innominato, si perviene alla soluzione positiva per due fattori. Da una parte sta il sacrificio di Lucia, il suo voto di verginità e la sua ispirata espressione: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”: questo fattore manca nella vita del Manzoni. Vi ebbe invece luogo il ragionamento messo in bocca al cardinale Federigo, come risposta alla domanda angosciata dell’Innominato: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”. “Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?” (c. 23). Questa ci pare la strada verso la fede, in Manzoni. Essa parte dalle esigenze più profonde del cuore (la giustizia e la necessità che venga premiata, ciò che sulla terra non accade; il rimorso di coscienza di fronte al peccato-delitto; la pace della mente che trova nella fede tutte le risposte ai suoi più urgenti problemi; la consolazione del cuore, che trova in Dio la gioia per l’armonia fra virtù e premio, delitto e castigo. Tale ragionevolezza di rapporti è garantita dalla Provvidenza, che sarà al centro del romanzo, forse proprio perchè frutto primo della conversione dal deismo illuministache in tanto irride sulla insensatezza della vita, in quanto rifiuta di credere alla giustizia che la onnipotenza-sapienza-paternità di Dio operano al di là delle apparenze terrene. [14] Oltre ai citati Massillon, Bourdalou e Nicole, si devono ricordare Bergier (Certitudes des preuves du Christianisme), Littleton (Preuves de la mission divine de Saint Paul), Abbadie (Apologie de la religion chrétienne), De Luc (Lettres physiques et morales sur l’histoire de la terre et de l’homme), autori e libri che egli chiedeva di procurargli in lettera del 17 giugno 1817 (vedi la nota a p. XIII della introduzione di R. Amerio alla delle Osservazioni sulla morale cattolica, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966). Aggiungerà, all’epoca della stesura delle stesse Osservazioni, la lettura di padre Paolo Segneri (Il cristiano istruito nella sua legge), di Benigne Bossuet (Esposition de la doctrine catholique), di Aymé (Catechisme raisonné sur les fondaments de la foi), forse il giansenista Fr. Fil. Mésenguy (Exposition de la doctrine chrétienne). Vedi sempre l’opera edita da Amerio, I, CXIII. [15] Il carme fu un atto di stima ed ammirazione per la figura “morale” dell’Imbonati, quale egli se lo era immaginato dai ragguagli del Monti a Milano e di Giulia a Parigi. Edito nel 1806 in cento esemplari presso Didot; riedito in Italia tre volte nello stesso anno, ma sempre in tirature lillipuziane, meritò comunque al Manzoni la stima del Foscolo che, nella prima edizione de “I Sepolcri” (1807), in una nota, ne fece gli elogi. Non era, d’altronde, la prima volta che altri letterati si interessavano al giovane Alessandro: Francesco Lomonaco pubblicò del Manzoni un sonetto (per la vita di Dante) commissionatogli per il primo volume delle “Vite degli eccellenti italiani”: siamo nel 1802 e Manzoni ha 17 anni! [16] Per la scoperta ed altri particolari, cfr. R. Amerio, Brusglio, Milano, Centro nazionale di studi manzoniani, s. d. [17] La vendita della villa di don Pietro Manzoni (il “Caleotto”) avvenne l’undici novembre 1818. Alessandro volle cancellare i debiti di tutti i fittavoli, congedandosi per sempre da quei posti, ove aveva passato le estati della sua infanzia e puerizia, ricavandone ricordi che sarebbero stati indelebili ed avrebbero costituito l’ambiente del capolavoro. Al Caleotto rimase la salma di don Pietro Manzoni, il conte padre (almeno legale) di Alessandro. Ma sulla tenuta gravavano ipoteche e solo annose trattative con l’acquirente (un certo Scola) permisero, nel 1829, una soluzione definitiva della vendita! [18] Giulio era figlio di Cesare Beccaria e della sua seconda moglie, Anna Barbò, sposata dopo la morte della madre di Giulia, donna Teresa Blasco, nel 1774, con appena tredici anni di matrimonio. [19] Fallito il moto rivoluzionario in Piemonte del 1821, Manzoni affidò alla sola memoria il componimento, che fu pubblicato nel 1848, assieme al frammento “Il proclama di Rimini” che volebva celebrare il tentativo di Gioachino Murat a mettersi a capo di uno Stato italiano (1815). Ma c’è che sospetta che l’ode sia stata non solo rifinita, ma composta sostanzialmente tutta nel 1848. [20] Pier Luigi divenne una specie di segretario del padre, soprattutto nell’amministrazione della casa e dei due “feudi”; e nell’ordinargli la corrispondenza, che veniva riposta a Brusuglio. Enrico è il figlio citato nel c. 11 dei “Promessi” (“Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali mostra di voler iruscire un galantuomo...”)..Per la prima Comunione di lui, tredicenne, Manzoni compose le strofette discrete “Sì, Tu scendi ancor dal cielo;| sì, Tu vivi ancor fra noi...|| Chi dell’erbe lo stelo compose?| Chi ne trasse la spiga fiorita?...). Della condotta dei suoi figli, il Manzoni scriveva tra disperato e divertito: “Non è ver che sia Pierino| il peggior dei miei ragazzi:| tutti e sette sono pazzi, dalla Giulia al Filippino” (1826-30). Filippo è “il figlio giovinetto| d’un di quei capi un po’ pericolosi” che accompagnerà Giuseppe Giusti nella chiesa di S. Ambrogio, occasionando il componimento più famoso del poeta toscano, intitolato appunto “Sant’Ambrogio”. Sui discendenti di Manzoni, Natalia Ginzburg ha scritto il volume ben informato “La famiglia Manzoni” (Torino, Einaudi, 1983): è un peccato che sia incline a vedere fin troppo gli aspetti negativi (indubbiamente presenti sia per il maggiore Pier Luigi, morto per il troppo vino; sia per Enrico e Filippo, vissuti davvero in modo indegno di genitori così sapienti ed onesti e finiti nella miseria) e poco quelli positivi dei figli e del comportamento del padre nei loro confronti che, se fu meno generoso dell’auspicabile, lo fu per le strettezze economiche di cui venne a soffrire dopo la perdita enorme che gli costò l’essersi fatto editore in proprio della stesura definitiva del romanzo (1840-2). Essa ignora anche i libri fondamentali di R. Amerio sulla vita ed il pensiero dello scrittore (“Brusuglio”; vol. III delle “Osservazioni”). [21] Cristina, morirà nel 1841, sposa a Cristoforo Barozzi e madre di una bimba. Nello stesso anno morirà anche la madre di Alessandro, Giulia Beccaria. Sofia, sposata Trotti, muore nel 1845; Matilde si spegnerà di etisia nel 1856, ospite di Vittoria, sposatasi in Toscana in casa Giorgini, che (assieme ad Enrico, morto nel 1881’’) sopravvivrà al padre, morendo nel 1892. Filippo, combattente sulle barricate nel 1848, fatto prigioniero dagli Austriaci e condotto come ostaggio in Austria, vi rimarrà abbastanza a lungo (come residente obbligato a Vienna) per darsi al vizio del gioco, divenendo per casa Manzoni motivo di depauperamento e di vergogna: premorrà al padre nel 1868. Anche il figlio maggiore darà al padre un grosso dispiacere, sposando Giovannina Visconti, pirma ballerina della Scala, che per altro si rivelò buona moglie e madre, nonchè rispettosa nuora. Morirà il 28 aprile 1873, neanche un mese prima del padre. Alesandro, battè la testa scivolando sui gradini della chiesa di S. Fedele l’undici maggio; visse gli ultimi giorni tra periodi di assenza mentale e di lucida conoscenza; fu avvertito della morte di Pier Luigi ed esclamò: “Oggi mi è rinvenuto il senno, ma mi è venuto un grande dolore”. Morirà il 22 maggio, alle ore 18.15. Tra gli amici, nuovi e vecchi, il Manzoni perderà C. Porta il 5 gennaio 1821, C. Fauriel nel 1844, mons. L. Tosi nel 1845, Tommaso Grossi il 10 dicembre 1853, Antonio Rosmini (conosciuto attraverso il Tommaseo nel 1826) nel 1855. [22] Giovan Pietro Vieusseux (nato ad Oneglia, ma di radici svizzere: 1779-1863) fu un letterato che a Firenze fondò, nel 1812, un “gabinietto scientifico letterario” che sussiste tuttora; e diede vita a due riviste prestigiose: la “Antologia” (fondata assieme a Gino Capponi, nel 1821) e l’“Archivio storico italiano” (1841). [23] Fra i più abili stampatori senza licenza dell’autore, ci fu il napoletano Gaetano Nobile: per poterne fermare l’opera Manzoni dovette abbassarsi a ricorrere alla invisa autorità borbonica (il ministro dell’interno, capo della polizia!). Per Parigi, dopo un tentativo di fermare l’editore Ludovico Baudry con il far stampare una dispensa in Francia (che il Baudry non potè riprodurre), dovette giungere ad un compromesso non rimunerativo: il Baudry , che aveva già acquistato da smerciare 104 copie dell’edizione milanese illustrata, accettò di comprarne altre duecento e di impedire la diffusione della propria edizione non illustrata (ed a basso prezzo) in Italia. Nel 1845 anche Felice Le Monnier a Firenze inserì nella sua fortunatissima Biblioteca nazionale (iniziata due anni prioma) il romanzo manzoniano: la causa giudiziaria che ne seguì fu bensì vinta dal Manzoni, con un indennizzo, ma quasi vent’anni dopo! [24] Stefano Stampa ci ha lasciato sul patrigno preziosi ricordi, degni di fede. Da Teresa, Manzoni ebbe due gemelline, nate prematuramente ed anzi uccise per errore dal medico nel seno materno, somministrando medicinali (al mercurio!) per la creduta presenza di un tumore! Dopo quella gravidanza infelice, la salute di Teresa declinò inesorabilmente. [25] Ruggero Bonghi, napoletano (1826-1895), fu uomo politico, storiografo e letterato. Presentò la parlamento la legge delle “Guarentigie” nel 1871 (che garantiva al papa protezione e stipendio, ma non indipendenza e sovranità); fu poi ministro dell’istruzione, publicista e cattedratico attivissimo: il Carducci lo canzonerà da pari suo per la povertà di pensiero, inversamente proporzionale alla quantità di pubblicazioni. [26] Altro segno filorisorgimentale può essere visto nella amicizia con Giuseppe Giusti. Iniziò nel 1843 con l’omaggio de “Il re Travicello”, lodato dal Manzoni; proseguì con il monito a non attaccare la religione, a non satireggiare persone singole viventi (consiglio che fu accolto dal poeta toscano) ed a spostarsi nel campo moderato in politica (Giusti era di idee repubblicane): l’amicizia giunse sino a portare il poeta di Monsummano ad essere ospite in via del Morone per un mese (1845). [27] Col Verdi, i rapporti erano cordiali da tempo: già prima dell’incontro in casa Manzoni nel 1868, i due si erano scambiate fotografie. Anche Garibaldi era stato ricevuto dallo scrittore fin dal 1862, ma il colloquio era stato faticoso. [28] 1801: Autoritratto (ispirato ai precedenti di Alfieri e Foscolo, ma di minor rilievo: pacato, contemplativo, rispetto alla drammaticità di quelli) 1801-5: Del trionfo della libertà (poemetto in 4 canti di terzine dantesche) 1803: Adda (idillio in endecasillabi sciolti) 1803-4: Sermoni (sono quattro, in endecasillabi sciolti, dedicati all’amico di giovinezza Giovan Battista Pagani: satira dei costumi, con i sottotitoli: “Amore a Delia| Panegirico a Trimalcione| A G. B. Pagani| Contro i poetastri) 1805-6: In morte di Carlo Imbonati (endec. sciolti) 1806-9: Urania (poemetto in endec. sciolti: il 6 settembre 1809 egli ne scriveva al Fauriel: “je suis mécontent de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’interèt; ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-ètre de pires, mais je n’en ferai plus comme cela”) 1807-10: A Parteneide 1817 (1816-18?): L’ira di Apollo 1817: “Il canto XVI del Tasso (in collaborazione con Ermes Visconti) 1822-1833: Strofe per la prima comunione. Composte in due tempi, nei due anni segnalati, sono 66 versi di vari metri: settenari, ottonari, decasillabi) 1833-35: Natale 1833 (in occasione della morte di Enrichetta) 1847: Ognissanti (14 strofe) 1868: Volucres (distici latini, detti nel giardino zoologico, improvvisando)
[29] Di una terza tragedia, “Spartaco” è rimasto solo il vasto materiale preparatorio e un abbozzo di distribuzione in atti. [30] Come si legge nella avvertenza “Al lettore”, l’opera è “uno scritto... destinato a difendere la morale della Chiesa cattolica dalle accuse formulate nel c. CXXVII della Storia delle Repubbliche Italiane nel Medio Evo. In un luogo di quel capitolo s’intende di provare che questa morale è una cagione di corruttela per l’Italia. Io sono convinto che essa è la sola moralae sana e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene anzi dal trasgredirla, dal non conoscerla o dall’interpretarla alla rovescia...”. Le accuse in questione apparvero nel 1818, nel volume XVI ( e ultimo) della molto ben documentata e fortunatissima “Histoire des républiques italiennes du Moyen-Age”, scritta da Jean-Charles-Léonard Sismond de Sismondi (1775-1842), storico ed economista nativo di Ginevra (e, perciò, calvinista), ma vissuto lunghi anni a Pescia, in Toscana (Val di Cisa), poichè la famiglia aveva ascendenze pisane. L’opera suggerì al Manzoni anche la materia del Carmagnola (lettera al Fauriel, 25 marzo 1816). L’opera apologetica, che ebbe il titolo di Osservazioni sulla morale cattolica, nacque per iniziativa di mons. L. Tosi, come è dimostrato dalle sue lettere al Lamennais del 13 agosto (“Il a entrepris ce travail à mon instance por arrèter le mal que peut faire et que fait réellement chez nous cet ouvrage” ); e del 27 settembre 1819 ( “L’opera del mio figlio spirituale in confutazione del maligno e pessimo capo 127 della “Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo”). La cosa è confermata dalla dedica del Manzoni ad una copia delle edizione 1840 (Firenze), in cui si dice testualmente: “Alla veneranda memoria del reverendissimo Luigi Tosi oso consacrare questo lavoro intrapreso e condotto col suo paterno consiglio”, ora che non mi può esser vietato dalla sua severa umiltà” (Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi 1983, p. 215). Ancora: le correzioni di mano del Tosi sono documentate sul manoscritto autografo dell’opera (Brusuglio). Tutto ciò non toglie che autore reale dell’opera sia il Manzoni. Difatti, simili interessi apologetici gli erano congeniali, anche prima del 1818, quando uscì il volume incriminato: egli aveva acquistato e letto a Parigi, nei mesi della sua conversione, i più noti autori farncesi di libri apologetici; se egli giunse ad interrompere la stesura del Carmagnola, per scrivere la nuova opera, è perchè gli stava a cuore. Anche Michelangelo dipinse la Sistina per volere di Paolo III, mentre lui si riteneva scultore e non pittore; perciò, lo fece obtorto collo, costretto cioè, per usare le sue parole “ a dipingere malcontento e di far cose malcontente”: eppure nessuno si sogna di attribuire il merito delle pitture della cappella al papa suggeritore ed anzi ordinatore; allo stesso modo la genialità delle “osservazioni” manzoniane sono ben sue, non del Tosi. Anche a questo proposito si vedano le pagine introduttive alla edizione delle “Osservazioni” a cura di R. Amerio, per la editrice Ricciardi, Milano-Napoli, 1966. Va rilevato, infine, che il Manzoni intendeva continuare in una seconda parte il volume del 1819, presentando i valori positivi del Cristianesimo in una forma più organica (la forma di “risposta” alle dichiarazioni del Sismondi rende dispersive le note del Manzoni nell’opera). Essa era annunciata implicitamente nell’aggiunta “Parte prima” sotto il titolo nell’edizione 1819; il lavoro era già stato impostato in otto capitoletti, sotto i quali egli era andato raccogliendo pensieri e dati da sistemare poi definitivamente assieme a delle note sparse. Da questi appunti appaiono alcuni capisaldi: tutte le verità che affiorano fra molti errori nelle varie epoche della storia umana sono già presenti senza errori nel Vangelo; occorre combattere gli errori, ma saper mostrare contemporaneamente la parte di verità che sono man mano sottolineate in ogni generazione, in modo da non cadere nelle stesse ingiustizie dei nemici della religione, che condannano in blocco comportamenti che non nascono dalla dottrina del Vangelo, ma dal travisamento delle passioni. Secondo R. Amerio, proprio la tendenza del Manzoni a trovare nello “spirito del secolo” più verità che errori (specie nella questione dei rapporti fra Stato e Chiesa) è da ricercarela causa profonda della rinuncia a completare la seconda parte: sapeva che il magistero ecclesiastico era di parere diverso. Manzoni non sapeva mentire, ma non voleva suscitare diatribe all’interno della Chiesa. Per la edizione riveduta del 1855, Manzoni compose ex novo un’appendice al c. III, per combattere l’utilitarismo, che stava facendosi avanti come principio di moralità (e di cui il machiavellismo ed il malthusianesimo non erano che corollari). Tale appendice è una delle parti più concise e sistematiche non solo del libro, ma dell’intera dottrina filosofica manzoniana. E, da sola, può dimostrare la acutezza della mente manzoniana nella scoperta di singole, azzeccatissime osservazioni e la profondità del suo faticato ma sicuro potere di sintesi. Nella collezione di pensieri vari, segnati per la seconda parte delle “Osservazioni”, si trovano, manoscritte, alcune idee che suonano giansenistiche: Manzoni è cresciuto dalla scuola del Degola alla purezza della dottrina cattolica attraverso riflessione, ma non senza la necessità di tempo e di esperienza. Difatti nelle cose a stampa, nessuna sua espressione può essere intesa come giansenistica, anzi ve ne sono di stampate che esplicitamente od implicitamente contraddicono a tale errore. Ne riparleremo. Non esaminiamo dal punto di vista estetico l’opera, perchè il suo carattere è essenzialmente filosofico-teologico. E’ doveroso, però, ricordare che il lavoro è, in tali campi, validissimo e, oltre tutto, brioso: Manzoni vi si rivela una mente filosofica genialmente inventiva nelle prove e fortemente coerente nel processo della loro sistemazione in ragionamento. Queste doti rendono sorprendenti le sue argomentazioni, irrefutabili le sue obiezioni, sapientissime le sue introspezioni psicologiche. Certo, la prova più decisiva di tali doti rimane l’appendice al c. III, che demolisce l’utilitarismo come principio di moralità, perchè questa esige regole precise e sicure prima dell’agire, mentre quello offre solo previsioni aleatorie sugli effetti (benefici?) di una singola azione o di una intera condotta di vita. Ma si leggano anche il corpo del c. III (Sulla distinzione di filosofia morale e teologia), il c. XIV (Della maldicenza) ed il XVII (Della umiltà). Nel c. III vi è il ragionamento che fonda la immortalità dell’anima sulla esigenza ineliminabile della giustizia, giustizia che sarebbe negata radicalmente se un uomo dovesse finire senza premio un’esistenza incontaminatamente giusta (il rapporto, infatti, tra virtù e premio, delitto e castigo è l’esigenza essenziale della giustizia). Alle confutazioni del Manzoni, il Sismondi rispose con una affermazione, la cui irragionevolezza è nascosta da una bella imamgine (“Il signor Manzoni descrive la morale cattolica quale deve essere; ed io ho scritto l’abuso che se ne fa”: siamo come due spadaccini che combattono nel buio): non è logico condannare una dottrina retta a causa degli abusi pratici! [31] Manzoni nel 1845 iniziava l’edizione delle “Opere varie”, pubblicate presso l’editore Redaelli Giuseppe, a dispense mensili di lire £. 3.50 ognuna. Ma la pubblicazione fu bensì fedele nel costo, non nella periodicità. Ci vollero dieci anni per completare l’edizione, chè Manzoni era incontentabile correttore di se stesso, come si addice ad un temperamento nervoso (lo vedremo). Ne fu, poi, fatta uan seconda edizione, in cui per errore fu stampata due volte la lettera al Broccardo sulla lingua. Per sostituirla, il Manzoni riprese in mano, precisò e pubblicò la Lettera al marchese Cesare d’Azeglio sul Romanticismo (1870). [32] Il Manzoni nega la possibilità di scrivere una narrazione contemporaneamente storica e fantastica: i due termini (“romanzo” e “storia, storico”) sono incongruenti ed incompossibili. Si è voluto vedere in questo scritto quasi un “suicidio estetico o letterario”, che rinnega in teoria quanto gli è riuscito così bene nella pratica de I Promessi Sposi. In realtà egli non cita mai nè il suo romanzo nè quelli dello Scott, ma vuole semplicemente negare la legittimità di chiamare e quello e questi col nome (a rigor di termini, assurdo) di “romanzi storici”. Il rimprovero che gli si deve fare, allora, è quello di “sfondare usci aperti”: è infatti chiaro a tutti che là, dove lo scrittore inventa, non fa storia; e là, dove documenta storicamente, non fa romanzo. Valeva la pena di scrivere uno studio per una cosa così evidente? Tanto più che l’espressione incriminata di “romanzo storico” è rimasta, dimostrando che l’uso vince la razionalità nel coniare non solo parole singole (e questo ce lo ha insegnato proprio lui!), ma anche dizioni più vaste: si lascia poi al buon senso (od intelligenza) del lettore di interpretare la dizione “cum grano salis”, cioè in senso non letterale ma traslato. [33] Il titolo non preannuncia, dunque, un libro di devozione religiosa, ma di critica linguistica. Manzoni parte dalla domanda: -è più adeguato dire “udir Messa?” o “sentir Messa?”- ed opta naturalmente per il secondo espressione (che oggi noi preciseremmo “patrtecipare alla Messa”), per iniziare un discorso sulla terminologia esatta nel parlare in generale e per concludere che tale precisione del dire la si trova nell’uso delle persone colte di Firenze. [34] Vedremo più vanti le idee del Maznoni sulla lingua. Qui richiamiamo altre opere minori delle varie discipline (teologia, filosofia, psicologia, storiografia, estetica, linguistica), già segnalate per gli scritti più importanti. Del piacere (1851: abbozzo); Pensieri religiosi vari (manoscritti); Dell’indipendenza d’Italia (1873); Lettera a Victor Cousin (del 1831: non finita, ma molto elaborata e significativa: vi smantella Cartesio, Kant, Condillac in modo acuto e geniale; vi critica l’Illuminismo; vi è anche un’appendice ed appunti per completare quella che doveva essere una lettera, seguìta alle discussioni avute col Cousin in visita a Milano); Lettera al Fauriel del 20 aprile 1812 (tratta di estetica); Materiali estetici (a iniziare dal 1816); Della moralità delle opere tragiche (la difende contro il Bossuet, motivandola a lungo: sempre attorno al 1816-7); Prefazione al Carmagnola (1820); Lettera attorno al De vulgari eloquio di Dante Alighieri (1868: a Ruggero Bonghi); Lettera al marchese Alfonso della Valle Casanova ( (1871). [35] Dal come il Manzoni stesso descrive i suoi disturbi in lettere, come quella allo zio Giulio Beccaria del 2 giugno 1820 e quelle al Fauriel del 21 febbraio e del maggio 1821, ci pare trattarsi di nevrosi con ripercussioni sullo stomaco e facilità ad indigestioni specifiche, con conseguente insufficienza di irrorazione di sangue al cervello e malessere generale, con impossibilità al lavoro specialmente creativo (l’uso abbondante dell’uva, in autunno, gli causava facilmente simili disturbi). Per altre manifestazioni di tali disturbi neurovegetativi (fobia del vuoto, impaccio nel parlare in pubblico fino alla balbuzie...), si possono vedere Paolo Bellezza, “Curiosità manzoniane”, Milano, Antonio Vallardi, 1951”; Guido Bezzola “Psicologia e patologia familiare”; N. Ginzburg “La famiglia Manzoni”, Torino, Einaudi, 1983. [36] La “non-attività” giungeva alla inabilità ad una vita di lavori manuali e lo rendeva incapace a “far agire con sè e sotto di sè” gli altri, non eslcusa la cerchia dei figli maschi. Le imprese che tentò (in agricoltura, perchè aveva una certa congenialità con la botanica; e nell’editoria, dove volle pubblicare, a sue spese, il romanzo) riuscirono fallimentari. L’impegno a far rendere la campagna, con nuovi vitigni od altre piantagioni, non giunse mai a rendere fruttifere le due tenute ricevute in eredità dai Manzoni e dagli Imbonati; e l’impresa tipografica finì addirittura con una perdita irricuperata di decine di migliaia di lire. [37] Ecco i brani più interessanti della lettera del 7 ottobre 1848 a Giorgio Briano, in risposta all’invito di candidarsi per il parlamento subalpino: “Per quanto io veda come possa essere strano, in questa urgenza e gravità di cose, il parlare di un uomo inconcludente, e il parlarne lui medesimo, e a persona sicuramente occupatissima, bisogna ch’io mi giustifichi con Lei, e la convinca che quell’inetto contro il quale ella insorse tanto cortesemente, fu scritto non solo con verità, ma con proprietà rigorosa, relativamente (veda che la mia modestia non è senza limiti) alle qualità che si richiedono in un uomo pubblico. Per non toccarne che una, ma essenzialissima, quel senso pratico dell’opportunità, quel saper discernere il punto o un punto dove il desiderabile s’incontri col riuscibile, e attenercisi, sacrificando il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario (salvo il diritto, s’intende), è un dono che mi manca, a un segno singolare. E per una singolarità opposta, ma che non è nemmeno un rimedio, perchè riesce, non a temperare, ma a impedire, ciò che mi pare desiderabile, mi guarderei bene dal proporlo non che dal sostenerlo. Ardito fin che si tratta di chiaccherare tra amici, nel mettere in campo proposizioni che paiono, e saranno paradossi, e tenace non meno nel difenderle, tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato, quando le parole possono condurre a una deliberazione. Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili per lo meno in una riunione dove si parli per concludere; io sarei l’uno e l’altro nello stesso tempo... Di modo che, in molti casi, e singolarmente ne’ più importanti, il costrutto del mio parlare sarebbe questo: nego tuitto e non propongo nulla.... C’è dell’altro. Il parlare stesso è per me una difficoltà insuperabile. L’uomo di cui ella ha voluto fare un deputato, balbetta, non solo con la mente in senso traslato, ma nel senso proprio e fisico, a segno che non potrebbe tentar di parlare senza mettere a cimento la gravità di qualunque adunanza...” [38] “Per evitare la seduta pubblica, se non basta la fede di convulsionario, mi farò fare quella di balbettone. Ad ogni modo non ci vo, dovessi inchiodarmi a letto.” “Convulsionario”, soggetto cioè a contrazione violenta ed involontaria delal muscolatura, è una forma grave di nevrosi. Questa presentava anche manifestazioni fobiche (impressione di cadere e bisogno di qualcuno che lo accompagansse in pubblico; o di un commensale od almeno di una sedia a fianco, stando a tavola). [39] Si potrebbe ricordare anche la tormentatissima stesura de La pentecoste, che ha riempito quaderni di correzioni, dall’ideazione nel 1817 alla stesura definitiva nel 1822. Si è potuto ricavare un libro degno di essere edito, mettedno a stampa tutti il guazzabuglio di prove, cancellazioni, emendamenti ecc. che, oltre tutto, han trasformato un componimento di stampo primariamente sociale, in un inno pienamente religioso. [40] Alessandro Manzoni, Osserazioni sulla morale cattolica, a cura di Romano Amerio, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1966, vol. I, Introduzione p. CXV. Difatti, egli riuscì a condurre a termine solo studi di non grande estensione, fra cui molte “lettere” (la lettera al marchese C. d’Azeglio Sul romanticismo, quella a M. Chauvet sulla unità di tempo e di luogo nella tragedia, quella a Giacinto Carena Sulla lingua italiana, la Lettera intorno al libro “De vulgari eloquio” di Dante Alighieri, la Lettera intorno al vocabolario, quella al marchese Alfonso della Valle Casanova) e il dialogo Dell’invenzione, il saggio “Del romanzo storico” e la relazione Della unità della lingua e dei mezzi per diffonderla. Quanto alle Osservazioni sulla morale cattolica, essa è tipica opera analitica e poco unitaria: ogni singola questione potrebbe formare una “lettera” o un piccolo saggio; anche l’Appendice al c. III, non è più che un trattatello di circa 85 pagine (il titolo completo è “Del sistema che fonda la morale sull’utilità”). [41] Ancora due vie per penetrare nella psicologia del Manzoni. Ecco la prima: notare le persone che egli più ammira, cui tributa uno stupore di elogi, perchè intuisce che posseggono quelle doti che a lui fanno difetto (la tranquillità intellettuale del giudizio, la calma emotiva nell’operare ed eventualmente anche delle competenze tecniche, da cui discendono la ovvia naturalezza del comando e la quasi congenita fortuna nelle imprese). Ebbene, il Manzoni incontrò nella sua vita un uomo, in particolare, con tali doti: Nicolao Giorgini, il nonno di “Bista” o Giovanni Battista, suo genero, perchè sposo di Vittoria. Dalle lettere del Manzoni su di lui, attingiamo l’impressione di un gigante dal cuore di fanciullo, senza tormenti nè complessi, senza complicazioni nè resistenze: è un patriarca candido della prima epoca vichiana, osservato da un filosofo sofistico dell’era postilluminsta. Ed ecco la seconda: la lettera del 12 luglio 1855 al Bonghi, che riguarda lo scioglimento di un dilemma: “fare o non fare il processo ai detratori del Rosmini?”, si esprime così: “Un parere di chi ne è così povero non solo per gli altri, ma per sè! La sola cosa che vi posso dare sono delle domande”. Questo conferma che i versi metastasiani. “Tu vuoi saper s’io vado| tu vuoi saper s’io resto:| sappi, mio ben, che questo| non lo saprai da me.|| Non che il pudor nativo| metta alla lingua il morso,| o che impedisca il corso| quel certo non so che.| Vuoi ch’io dica perchè non lo dico?| Non lo dico, oh destino inimico!| Non lo dico, oh terribile intrico!| Non lo dico, perchè non lo so.|| Lo chieggo alla madre| con pianti ed omei;| risponde: vorrei| saperlo da te.|| Se il chieggo alla sposa:| decidi a tuo senno,| risponde; un tuo cenno| è legge per me.|| Se il chieggo a mes stesso...” (non finita: 1817?). Questo non toglie che quando si tratta di dare consigli teoretici, Manzoni sia acuto, sorprendente (Lettera a don Francesco Paoli il 12 agosto 1855); come è deciso e forte nella condanna di errori evidenti contro la prudenza morale (si vedano le Osservazioni sulla morale cattolica e la condanna del libro del conte Tullio Dandolo sulla monaca di Monza e le streghe in Tirolo del giugno-luglio 1855). [42] La centralina organizzativa delle risposte emozionali del sistema neurovegetativo è l’ipotalamo, nel diencefalo, posto alla base del cervello. L’ipotalamo ha due nuclei discretamente distinti, di cui uno presiede all’attività ortosimpa(te)tica (o,semplicemente, simpa(te)tica: esprime il neurotrasmettitore “noradrenalina” ed affini); e l’altro, a quella parasimpa(te)tica (o vagale: produce il messaggero biochimico “serotonina” ed affini). Il sistema del “simpatico” presiede alle attività più elementari della sopravvivenza: veglia, allarme, tensione difensiva contro il dolore o chi ce lo minaccia od inducee, collera aggressiva, violenza...); quello del “vago” presiede alla attività di espansione della vita: distensione, sonno, digestione, piacere in genere, vita sessuale in specie e gestazione per la maternità...). Solitamente la prevalenza di un tono è tale, da segnalare automaticamente la povertà dell’opposto, ma in qualche individualità vi è una distonia non accentuata, sicchè vi è posto per la espressione di entrambe le facce della scala emotiva, sia quella drammatica che quella contemplativa. Abbiamo così dei poeti prevalentemente idillico-elegiaci (Petrarca, Ariosto, Leoaprdi, Pascoli...) ed altri specializzati nelle tonalità drammatiche (Alfieri, Parini...). Pochi sono quelli ambidestri, cioè ugualmente signori nella espressione sia delle tonalità legate al sistema vagale sia in quelle favorite dal predominio di quello simpatetico (Dante, Shakespeare, Tasso, Foscolo, Manzoni, Goethe, ...). Della universalità del “lirismo” manzoniano tratteremo a suo luogo. [43] Fu a Lugano, alla scuola del pur stimato ed amato padre Francesco Soave (della congregazione dei Somaschi, fandati da S. Girolamo Emiliani nel sec. XVI). Come si legge anche in “Immagini della vita e dei tempi di A. M.” (a cura di Marino Parenti, Firenze, Sansoni, 1973, p. 34): “Il primo contatto non fu dei più tranquilli, perchè il giovinetto si ribellava, più o meno apertamente e all’aritmetica, che non poteva soffrire, e a quella ch’egli riteneva ingiusta imposizione di scrivere imperatore e papa, con la lettera maiuscola. Uno dei primi giorni, il Soave, dopo aver assegnato un tema agli scolari, annunciò che, finito questo, avrebbero fatto un po’ d’aritmetica. Il piccolo Alessandro non seppe frenarsi in tempo e il pensiero gli corse alle labbra, lasciandogli sfuggire un : - ne faremo anche a meno-...” [44] Si potrebbe osservare che all’interno del quindicennio di più alte realizzazioni, 1812-1827, stanno gli anni decisivi 1821-23 che videreo Adelchi, Fermo e Lucia, Marzo 1821, Il cinque maggio, La Pentecoste. Manzoni aveva raggiunto e superato quel “mezzo del cammin di nostra vita” che, al dire di Goethe, sarebbe già età di stanchezza poetica (gli si attribuisce la sentenza: “Un poeta dovrebbe morire a trent’anni”). Non deve meravigliare che Manzoni sia “maturato” sommo poeta piuttosto tardi, attorno ai 36-38 anni: la sua spazzante potenza di analisi attendeva la maturazione di un equivalente potere di sintesi, perchè il numero delle impressioni, idee, aspetti di una questione ecc., che la sua sensibilità suggeriva alla intelligenza era tale, da richiedere davvero una forza di memoria ed una elasticità di fantasia mostruose per organizzarne i dati; da costituire una sfida pressochè invincibile, una meta pressochè inattingibile. Occorreva che la piena maturità dlel’uomo apportasse una luce abbagliante, che raccogliesse in sintesi ordinata tutte le tessere dell’analisi sovrabbondante. [45] Sono i tre temi che il “De vulgari eloquio” di Dante assegna alla struttura più alta della espressione poetica, cioè la “canzone”: la sorgente della vita, cioè Dio e la religione| la sua conservazione, ossia i fatti di guerra e di eroismo per la difesa dei popoli| la sua propagazione, attraverso l’amore subordinato alle leggi morali. [46] Sono i titoli dei capitoli nello “Studio delle dottrine”, della già citata edizione integralmente commentata delle “Osservazioni” sulla morale cattolica”, a cura di Romano Amerio, Milano-Napoli, R. Ricciardi, 1965. Tale studio dimostra che il dettato di B. Croce, secondo cui il Manzoni non avrebbe avuto mente filosofica e non meriti il titolo di filosofo, è un preconcetto (cfr. B. C., A. M., Bari; Laterza, 1946, pp. 57-70; e la controdimostrazione dell’Amerio, nel terzo volume dell’opera citata, pp. 49-51). [47] Si ricordi la sua battuta ironica sulla “entelechia” degli scolastici, nel c. 27 dei “Promessi”, sulla definizione della quale (sostanza nella sua perfezione od atto che la rende perfetta?) i seguaci della dottrina aristotelico-tomistica non riuscivano ad intendersi neppure dopo ore di duscussione. E’ come rifiutare i concetti di “sostanza ed accidente” e, quindi, uno dei capisaldi della metafisica o scienza dell’essere in generale (detta anche “ontologia”). [48] L’ambiente politico-militare e socio-economico sono gli stessi delineati per Foscolo e Monti, a cavallo tra i due secoli. Gli sviluppi in tali campi, lungo il Milleottocento lasciarono, Manzoni sulle sue posizioni di cattolico liberale politicamente; e, quanto alla posizione economica, di signore terriero (teoricamente, cioè fiscalmente, “redditiere”; di fatto, indebitato fin sopra i capelli). L’essere stato eletto senatore a vita non ha modificato nè la sua posizione politica nè quella economica. Gli unici fatti che influirono davvero sulla sua vita intellettuale furono quelli ecclesiastici. Ad esempio, l’aver tralasciato di scrivere il secondo volume delle “Osservazioni”, R. Amerio, sarebbe dovuto alla non coincidenza del sua opinione sui recenti avvenimentio storici (egli, pur opposto allo “spirito del secolo” ed in particolare al “modo violento” con cui fu realizzata la rivoluzione francese, riteneva che la apologetica migliore era quella di dimostrare come tutto quanto di positivo era presente nelle scoperte od innovazioni, via via intervenute nella storia, risalgono ai princìpi del Vangelo), rispetto a quella del magistero ecclesiastico, che condannava globalmente le innovazioni politico-culturali legati alla rivoluzione. Così pure la sua esultanza per la unità d’Italia, realizzata con la occupazione di Roma, fu moderata per le scomuniche intervenute contro chi l’aveva fatta ed approvava la occupazione delle terre pontificie. [49] Solo per il pensiero politico, per cui Manzoni fu e rimase, come già detto, un cattolico liberale, condividendo così almeno alcune delle posizioni che il Giansenismo aveva in comune col giurisdizionalismo settecentesco. [50] “Fe’” in senso forte, factitivo, significa “ fece fare, impose” silenzio. [51] Si legga, in proposito, l’Amerio nel primo volume della citata sua edizione delle Osservazioni: “Introduzione”, pp.XXXVIII-XXXIX; e III, pp.368-70. [52] Henri Grégoire (1750-1831), “deputato del clero agli Stati generali del 1789, fautore ardente della Costituzione civile del clero, apologista del cristianesimo, vescovo costituzionale, morì senza rinunziare ai suoi princìpi scismatici”. Egli, “gli ordini sociali caldeggiati dalla rivoluzione stimava richiesti dai principii evangelici e viceversa assolutamente incompatibili con essi la solidità della religione colla forza politica”. Cito dalla stessa “Introduzione” alle citate Osservazioni, pp.CIX-CX, compresa la nota 4. Manzoni non condivideva la necessità o la grande importanza data ad un ordine politico dai gruppi antagonisti (e l’ostilità all’opposto: il Grégoire giungeva ad affermare “Les rois sont dans l’ordre morale ce que les monstres sont dans l’ordre physique”), ma ammirava, del vescovo Grégoire, la statura morale, perchè durante la rivoluzione aveva difeso sempre il diritto della libertà per qualsiasi religione, anche per quella cristiano-cattolica, sicchè si meravigliò egli stesso di essere uscito salvo dall’epoca del terrore, quando la proclamazione della libertà religiosa era un motivo sufifciente per essere ghigliottinato come nemico della rivoluzione. Per questo, nel soggiorno del 1819-20 a Parigi, egli tentò di fargli visita di ossequio, senza però riuscirvi. Nel 1827 gli fu inviata in omaggio una copia de I promessi sposi, dalla contessa di Sennft. [53] L’opera uscì fra il 1817 ed il 1823 e fu tradotta in italiano: l’avviso pubblicitario per l’edizione italiana fu opera quasi certamente del Manzoni e l’elenco delle virtù del “Saggio” del Lamennais si possono leggere come quelle che pensava caratterizzassero le proprie Osservazioni sulla morale cattolica, uscite nel 1819. Il Lamennais era, in quest’opera, ancora cattolico; si staccò dalla Chiesa nel 1832, propugnando gli aspetti umanitari del Cristianesimo, e impegnandosi nella vita politica. [54] Osservzioni, a cura R. Amerio, cit., III, pp. 332-343. La eccessiva diffidenza del Manzoni sulla estensione della collaborazione fra Chiesa e Stato nasceva dalla inavvertenza della facilità di fatto con cui loStato corrompe la propria concezione morale, senza l’aiuto della Chiesa. Praticamente, lo Stato liberale ripiega sulla coscienza della maggioranza parlamentare come criterio di distinzione fra bene e male e come fondamento, quindi, della propria legislazione. Con quali conseguenze devastanti per la vita morale delle nazioni si è andato manifestando sempre più tragicamente negli ultimi due secoli. A sua volta, la confusione del male col bene, mette la Chiesa in una situazione di difficoltà a farsi accettare dagli stessi suoi fedeli: il male è troppo più facile del bene e, conquistando l’adesione delle masse, se appoggiato dalla legge, trascina la opinione pubblica lontana dalle verità morali e dalla stessa fede della Chiesa, che continua a predicarle. [55] Ci si può domandare che significato avesse la “coerenza” in un non credente come Alessandro. Anzitutto c’era la “coerenza” della madre Giulia, che non è detto avesse perso la fede a causa della vita libertina. In secondo luogo, anche in Alessandro la insofferenza per le dottrine protestantiche poteva ben essere superiore a quella per la fede cattolica, il che bastava a spiegare la preferenza anche nel figlio per un matrimonio cattolico. [56] Lettere, a cura di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970, lettere n. 77 (dicembre 1810), n. 183 (aprile 1823) e 526 (19 luglio 1839: non si sa il perchè venga ripetuta la domanda, benchè il permesso del 1823 fosse vita natural durante). [57] Vedili citati nel testo a p. 3 e nella nota 14 a p. 6. [58] Per tali questioni, vedi R. Amerio, Introduzione alle citate Osservazioni, I, pp. XLII-XLVII (§§ 13-14). [59] Id., p. CXIII: “Il Manzoni conobbe direttamente Platone, Locke, Condillac, Kant. Conobbe e criticò Cartesio.... Conobbe direttamente molti dei filosofi contemporanei, dal Galluppi al Cousin, dal Gioia al Romagnosi, dal Genovesi a Maine de Biran. Attraverso il Rosmini poi, massime nelle grandi sezioni storiche del Nuovo saggio e della Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale, ebbe cognizione di tutto il pensiero filosofico.” [60] Lo avrà presente Riccardo Bacchelli che ne “Il mulino del Po” presenta il principe Machiavelli ???????come credente sul fondamento dell’esempio del Manzoni, la cui sublime intelligenza gli è di garanzia alla verità della fede. D’altronde, Wolfgang Goethe, con la sua ammirazione già per la tragedia del Carmagnola, da lui recensita nella rivista “Ueber Kunst und Altertum”; con la edizione, poi, delle poesie del Manzoni in Germania nel 1827, è una prova dell’influsso esercitato dal Manzoni sulla opinione pubblica, anche nelle sfere più elevate della cultura. [61] Dante Isella, L’idillio di Meulan, in “Dante europeo, Milano, Cariplo, 1985, pp. 137-67. [62] “...sono malcontento di questi versi, soprattutto per la loro totale mancanza d’interesse; non è così che bisogna farne; ne farò forse di peggiori, ma, come questi, non ne farò mai più”. Questo non toglie che erano quelli i tempi in cui avveniva il battesimo di Giulietta (23 agosto 1809), il matrimonio cattolico dei coniugi Manzoni (15 febbraio 1810), le conferenze di Degola ad Enrichetta, l’abiura di Enrichetta al calvinismo (22 maggio 1810) e la conversione di Alessandro. Ma è prpoprio il caso di dire “cum hoc non est propter hoc” (il rapporto di contemporaneità non è necessariamente quello di causalità): il romanticismo non nasce dalla conversione, anche se le due cose sono pressochè contemporanee. Approfittiamo di questo contesto, per rifiutare la tesi di Attilio Momigliano, che nella sua pur ammirevole monografia su “Alessandro Manzoni” (Milano, Principato, 1948) afferma aver ricondotto il Manzoni all’unità della fede religiosa tutte le tessere della sua cultura, compresa la estetica. Manzoni era tropo “loico” per cadere in un simile errore. Una prova? Egli avrà sorriso sul puritanesimo linguistico di padre Antonio Cesari, ma non ne ha mai messo in dubbio, per tale posizione fanaticamente classicistica, la fede cristiana. Quello che è vero, invece, è che il Manzoni faceva dipendere la grandezza di un’opera d’arte non dalla fede religiosa, ma dalla caratura morale. Dice infatti nei al n. 7 dei “Materiali etstetici”: “Toccare questo punto che la perfezione morale è la perfezione dell’arte e che perciò Shakespeare sovrasta agli altri, perchè è più morale. Più si va in fondo del cuore, più si trovano i princìpi eterni della virtù, i quali l’uomo dimentica nelle circostanze comuni e nelle passioni più attive che profonde e nelle quali hanno gran parte i sensi”. [63] Non che in Francia mancassero spinte in diversa direzione da quella classicistica dominante. A parte lo stile focoso dello Chateaubriand, basta pensare alla famosa “Querelle des anciens et des modernes”, venuta a galla nel 1657 fra i sostenitori del primato (ed obbligo di imitazione) dei poeti greco-latini ed i sostenitori del primato ed indipendenza della letteratura del “grand siècle” francese. Tra i “modernizzanti” vi era stato l’iniziatore della “querelle”, Desmarets de Saint-Sorin (“Clovis ou la France chrestienne”), Charpentier (“De l’excellence de la langue française”), Charles Perrault (“Le siècle di Louis le grand”; “Parallèles des Anciens et de Modernes”; “Les hommes illustres qui ont paru en France”), Bernard Le Bouvier de Fontenelle (“Digression sur les Anciens et les Modernes). Tra gli “arcaizzanti”, troviamo Nicolas Boileau-Despréaux (“Réflexions sur Longin”) e Jean de la Fontaine ( “Epitre à Huet”). La diatriba (disputa) si riaccese nel 1714 fra Madame Dacier (Omero è il poeta più grande di ogni tempo, passato e futuro) e Houdar de La Motte (“Réflections sur la critique”): vi intervenne allora anche François de Salignac de la Mothe Fénelon (“Lettre sur les occupations de l’Académie”) che appianò le divergenze con un compromesso accettato: innovabilità delle tematiche e del vocabolario; stabilità delle regole imposte dai modelli antichi nella metrica e nella stilistica. Siamo nel 1716 ed il classicismo continuerà, perciò, a trionfare sostanzialmente in Francia: fino al 1827 (Prefazione al “Cromwell” di Victor Hugo) non si può parlare di produzione romantica importante in Francia, nonostante si tenda a far iniziare il movimento dal 1810 con il trattato “De l’Allenagne” della Stael ed il cenacolo di Charles Nodier del 1823, che dibattè idee e formulò programmi, ma non diede frutti di grandi opere. [64] B. Croce, Alessandro Manzoni, Bari Laterza, 1946; e “Lo spettatore italiano”, marzo 1952. [65] Quanto agli psicologi francesi, visto che il migliore è François VI duc de La Rochefoucauld, si notino i limiti del suo sentenziare. Spesso è l’eccesso di pessimismo che lo rende discutibile. Qualche esempio a caso: “Le mal que nous faisons ne nous attire pas tant de persécution et de haine que nos bonnes qualités” (28)|: “ La plupart des amis dégoutent de l’amitié, e la plupart des dévots dégoutent de la dévotion” (378)|: “Nous ne désirerions guére de choses avec ardeur si nous connaissions parfaitement ce que nous désirons” (368). Talvolta è la generalizzazione eccessiva: “Nos ennemis approchent plus de la vérité dans les jugements qu’ils font de nous que nous n’en approchons nous memes” (406). Questo non toglie che talora La Rochefoucauld si trovi d’accordo col Manzoni, ma risultando meno profondo. Si prenda la sentenza “Les querelles ne dureraint pas longtemps si le tort n’était que d’un coté” (437) che Manzoni, nel primo capitolo del romanzo generalizza così: “ la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. [66] Vi è testimonianza che anche negli ultimi anni egli non mutò parere: “Coloro che mi chiamano Conte, mostrano di non aver lette tutte le mie opere, che è uno di quei peccati che un autore, per quanto poco amor proprio si abbia, non perdona mai. Io non sono conte e nemmeno nobile. Sono Alessandro Manzoni e nient’altro...”. [67] Giulio Natali, Il Settecento, Milano, Vallardi, p. 1099. [68] In proposito è interessante, ma non decisiva, quanto il Manzoni scrive allo stesso Grossi in una lettera del giugno 1822: “Il mio romanzo tien dietro al tuo poema stancamente, ed ansando, come un vecchio servitore posto per guardia e per corteggio ad un ardente cavalierino”. Solo se non si conoscesse l’eccesso di umiltà nel Manzoni, che giungeva all’autolesionismo, potremmo prendere l’affermazione come segno di dipendenza nell’iniziativa. Tanto più che la espressione può riferisi semplicemnte al duplice fatto della celerità del Grossi a comporre i versi (fino a quattro ottave al giorno!) e della ovvia lentezza del Manzoni nel documentarsi con lettura storiografiche per far camminare la sua “cantafavola” che voleva e doveva pur essere fedele a molti dati storici. [69] Per il corpo, vedremo alcune descrizioni di personaggi (dai bravi nel c. 1, a p. Felice che guida la processione dei convalescenti al lazzaretto, al c. 36). Per la salute, si veda il ritratto di Renzo che si reca baldanzoso da don Abbondio, per confermargli il prossimo arrivo del corteo nuziale: “con la lieta furia d’un uomo di vent’anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama” (c. 2). Per la malattia, si leggano i capitoli sulla peste (dal 31 al 36). Per l’anima, si possono leggere i due brani in cui Lucia si dichiara disposta a rinunciare a Renzo, per l’orrore del delitto (al c.7: “ non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’ero promessa a un giovane che aveva il timore di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’anche il figlio del re...); o per la fedeltà al voto di verginità emesso al castello dell’Innominato (“Ma Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna.!... Un voto!); ma soprattutto si dovrà riflettere sul senso di tutto il romanzo “La c’è la Provvidenza! (c. 17). Per la psicologia, rimandiamo ancora all’esame del tricipite animo della folla nel c. 1: avremo modo a suo luogo di additare almeno i casi più sorprendenti di tali analisi, in cui il Manzoni non ha ancora trovato chi gli possa stare alla pari. Per l’attività religiosa, si pensi alle vocazioni così opposte di don Abbondio (c.1) e di padre Cristoforo (c. 4), alla vita del cardinal Federigo Borromeo (c: 22), ai Cappuccini al Lazzaretto durante la peste del 1630: cc. 31-36). Per quella politica, basterà la caricatura del conte zio nei cc. 18 e 19; e la vicenda drammatica della guerra per la successione al ducato di Mantova, spiegata nel c. 27. La vita contadina è accennata in Adelchi nei “solchi bagnati di servo sudor” (I coro); nella finale del secondo coro, quando ricorda il sole cadente che “dietro il monte imporpora| il trepido occidente| al pio colono augurio| di più sereno dì”; nel romanzo, al c. 27 (il contadino analfabeta è compianto perchè si trova alla mercè della persona istruita); al c. 28 (i più compassionevoli tra i poveri, vittime della carestia e della guerra del Monferrato); l’agricoltura è tra i lavori cui Renzo si dedicava (c. 1), salvo a trovare la propria vigna ridotta ad un prunaio (c. 33). Quanto all’industria, vi è quella tessile, declinante in Lombardia e fiorente nei territori soggetti a Venezia, come il bergamasco: si leggano il c. 1, il 17 ( “Arriva al paese del cugino; nell’enmtrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio... Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni...”) e 38 (Renzo nasce contadino, diventa operaio e finisce padrone di industria!). L’intelligenza intraprendente è quella di Tonio (c. 6: a Renzo, a proposito del fratello Gervaso, afferma: “Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuto anche la sua parte di cervello”); di Renzo (all’osteria della Luna piena, quando studia il comportamento del notaio criminale e prepara il piano di fuga: c. 15), del conte Attilio, che si prepara ad ingannare il conte zio (c. 11: “Caro signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro!”) e di Bortolo (che vende frottole a chi lo interroga intorno a Renzo, rifugiatosi sotto falso nome in altro paese del bergamasco, per sfuggire alle indagini di don Gonzalo: c. 26). Quanto alla follia, c’è quella fisiologica di Tonio, ridotto peggio del fratello Gervaso in seguito alla peste (c.33) e di tanti appestati (finale c. 34); ma c’è anche quella soltanto psicologica, con responsabilità morali (c.32: “Del pari con la perversità crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti”). Per la onestà sino all’eroismo della carità, basterà accennare a p. Cristoforo (c.4,35 e 36), al cardinal Federigo (c. 22, 25 e 26), a Lucia, per il voto (c. 21) e la persevernza in esso (c. 36). Per il suo rovescio, ricordiamo la viltà di don Abbondio, la incoscienza dei cugini Rodrigo ed Attilio, la carriera delittuosa dell’Innominato (cc. 19 e 20), il cinismo dei bravi e dei monatti (c. 34). Per la cronaca usuale della povera gente, già nel secondo inno sacro, Il nome di Maria, egli ricorda “La femminetta nel tuo sen regale| la sua spregiata lacrima depone,| e a Te beata, della sua immortale| alma gli affanni espone;|| a Te che i preghi ascolti e le querele,| non come suole il mondo, nè degli imi| e de’ grandi il dolor col suo crudele| discernimento estimi”; la parte, poi, che occupa la “gente meccanica e di piccol affare” nel romanzo è tale, da aver indotto il Sapegno a definirlo una “epopea degli umili”, mentre nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia è espressa la viva preoccupazione dello scrittore sulla emarginazione totale dei “latini” dalla memoria storica, al punto che di essi non si riesce a capire lo stato giuridico sotto i Longobardi (c. IV)..Per i grandi fatti storici, ricordiamo la figura di Carlo Magno e di Desiderio nell’Adelchi, quella delle guerre fra Milano e Venezia ne Il conte di Carmagnola e, nel romanzo, l’opera di don Gonzalo de Cordoba, la guerra per il ducato di Mantova ed il Monferrato, la discesa dei Lanzichenecchi e la peste di dimensioni europee. Fra le altre condizioni citate, l’esultanza dei Franchi vincitori e la disperazione dei Longobardi sconfitti nell’Adelchi, ed il coro del Carmagnola, ove la battaglia di Maclodio è considerata da entrambi i punti di vista, quello del vincitore e quello del vinto. Siccome al lavoro si è già accennato, ricordiamo il cardinal Federigo e la Biblioteca ambrosiana (ma anche don Ferrante) per lo studio; per la preghiera, la finale mirabile della Pentecoste, le ultime parole del Carmagnola che si avvia al patibolo e quelle di Adelchi morente, di padre Cristoforo nel convento di Pescarenico (c. 8), di padre Felice agli appestati convalescenti al Lazzaretto (c. 36). Quanto all’ozio dei benestanti, c’è il caso classico di Ludovico e del padre negli anni della prosperità, quando il solo ricordo del lavoro trascorso è motivo di vergogna (c.4); c’è la vita scioperata dei bravi, che nel gioco (a morra od a carte, ma sempre a danaro) passano le ore di ozio (c. 7 e 20); quella di Attilio e Rodrigo, che neppur il conte zio si sente di difendere (cc. 5, 6 e 18); vi è la professione di fuorilegge e di bandito dell’Innominato (cc. 19,20 e 21): contro di essi sta la coscienza e condotta opposta di Federigo: “persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti un impegno, del quale ognuno renderà conto” (c. 22). Per la vita pacifica dell’uomo della strada e per quella impazzita dello stesso durante il tempo della carestia, si ricordino i capitoli del romanzo sulla rivolta di San Martino a Milano, 1628 (cc.12 e 13). [70] Si potrebbero muovere obiezioni alla universalità dell’umanesimo manzoniano, ci sembra, partendo da due osservazioni non tanto distanti fra loro, ma inconsistenti entrambe. L’una è il rifiuto dello scrittore a parlare troppo apertamente e lungamente dell’amore, pur in un’opera che tratta di fidanzati avviati al matrimonio. In proposito vi è la “Digressione” che apre il primo capitolo del secondo tomo in “Fermo e Lucia”: il motivo a ddotto dal Manzoni è quello di non aggiungere legna ad un fuoco che divampa già eccessivamente (“dell’amore... ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie”). La risposta ci sembra questa: non dilungandosi in descrizioni e considerazioni sull’amore sessuale, il Manzoni ha creato alcuni dei brani più avvincenti e commoventi in tale materia. Si pensi al dialogo tra i due al capitolo 36, quando Renzo esprime il suo persistente attaccamento a Lucia e questa soffre le pene più strazianti nel dovergli rifiutare il suo affetto, in nome di una, sia pur errata, persuasione di coscienza. Ma già nella finale del c. 2, il breve colloquio tra i due fidanzati è struggente. Ripensando alla letteratura occidentale, una simile atmosfera affettiva la ritroverei solo in altre tre opere: in “Delitto e castigo” di Fiòdor Dostoiévski, fra Razumichin e ????; in “Guerra e pace” di Leone Tolstoi, tra Piotr e Natascia; in “Loro e io” di Jerome Klapka Jerome. E le traduzioni non raggiungono certo l’intensità della commozione manzoniana. L’altra obiezione alla vastità ed anzi universalità della ispirazione manzoniana è stata espressa da Giovita Scalvini (1791-1843) e fu ripresa da Beneetto Croce: il moralismo dei “Promessi” toglierebbe spazio ed apertura a quella pienezza di vita umana, che comprende anche il peccato ed il disordine. La risposta è la trama stessa del romanzo, che oppone un amore casto e fedele ad un capriccio erotico, che giunge alla delinquenza del doppio tentativo di rapimento. Che se si vuol sussumere la obiezione, dicendo che proprio la condanna morale appesantisce e chiude la prospettiva dell’opera, come risposta si può invitare a rileggere la conversazione alla mensa di don Rodrigo nel c.5, la conversazione fra lui ed il conte Attilio nel c. 11, quella fra Attilio ed il conte zio nel c. 18 e la allocuzione dei monatti a Renzo, saltato sul loro carro (c. 34), per trovarsi di fronte alla più spericolata celebrazione del punto di vista malizioso e malvagio, in cui non si pronuncia nessuna sentenza morale, lasciando al buon senso del lettore di giudicare della balordaggine e delinquenza, espresse e praticate da quei signori viziosi e supponenti, che definiscono “galantuomini” i nobili dominanti e chiamano “mascalzoni” i poveri diavoli, siano essi borghesi, contadini od operai. [71] Vedi l’inizio dell’inno sacro Il Natale (“Qual masso che dal vertice...”: religione, radice necssaria di vita morale); e la riflessione sulla virtù propria solo della religione cristiana a dare senso e conforto ad ogni stato di vita, ad ogni suo accadimento (c. 10: il brano che inizia “E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana...”: religione, radice e culmine della vita morale). [72]
Lo testimonia tutto il senso globale degli Inni
sacri e del romanzo, come si può arguire più chiaramente dalle
invocazioni che chiudono i primi e da alcuni episodi salienti del secondo
(il voto di Lucia, la vita del cardinal Federigo, di cui possiamo rileggere,
intera, la frase del c. 22, già citata in parte: “Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni,
ma per tutti un impegno, del quale ognuno renderà conto, cominciò da
fanciulloa pensare come potesse rendere la sua utile e santa”;
e l’ immolazione dei cappuccini al Lazzaretto, a servizio bensì degli appestati, ma per amore di Dio.
[73] “Come rugiada al cespite| dell’erba inaridita,| fresca negli arsi calami| fa rifluir la vita,| che verdi ancor risorgono| nel temperato albor;|| tale al pensier, cui l’empia| virtù d’amor fatica,| discende il refrigerio| d’una parola amica,| e il cuor diverte ai placidi| gaudii d’un altro amor.|| Ma come il sol che reduce| l’erta infocata ascende,| e con la vampa assidua| l’immobil aura incende,| risorti appena i gracili| steli riarde al suol;|| ratto così dal tenue| obblio torna immortale| l’amor sopito e l’anima| impaurita assale,| e le sviate immagini| richiama al noto duol.||... Muori e la faccia esanime| si ricomponga in pace;| com’era allor che improvida| d’un avvenir fallace|, lievi pensier virginei| solo pingea. Così|| dalle squarciate nubi| si svolge il sol cadente,| e dietro il monte imporpora| il trepido occidente:| al pio colono augurio| di più sereno dì”. [74] Un’eccezione è nel c. IV: “Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità dei monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendii, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie, rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero...” [75] Tra le poesie inedite o rifiutate, ricordiamo l’idillio Adda (1803), che è un tentativo infelice di descrizione, per bocca della ninfa del fiume, del paesaggio lun le sponde; meno infelice nel ricordo di Parini (“Or tace il plettro arguto, e ne’ miei boschi| è silenzio ed orror”); ricordiamo La gibigiana, versi improvvisati durante un passeggio lungo i bastioni di Milano col fiorentino Guglielmo Libri (“Del sole il puro raggio,| rotto dall’onda impura,| su le vetuste mura| gibigianando va”): il termine “gibigiana” (riflesso del sole da uno specchio di vetro o d’acqua) era già stato usato dal Porta in “La guerra dei preti” (v. 41); ricordiamo Volucres, distici latini, recitati durante una visita al giardino zoologico di Milano (esaltano la libertà perduta, con riferimenti al cielo, alle acque, alle piante che sono loro ormai vietate per sempre). [76] Manzoni imita l’autoritratto dell’Alfieri, non i due del Foscolo, che furono editi solo in seguito. Neppure il Foscolo potè riferirsi a quello del Nostro, perchè il Manzoni non pubblicò mai il sonetto, edito postumo nel 1878. Ecco i versi del Manzoni: “Capel bruno, alta fronte, occhio loquace:| naso non grande e non soverchio umìle:|tonda la gota e di color vivace:| stretto labbro e vermiglio e bocca esìle:|| lingua or spedita or tarda, e non mai vile,| che il ver favella apertamente o tace.| Giovin d’anni e di senno; non audace: duro di modi, ma di cor gentile.|| La gloria amo e le selve e il biondo iddio.| Spregio, non odio mai: m’attristo spesso:| buon ai buon, buono al tristo, a me sol rio.||A l’ira presto, e più presto al perdono:| poco noto ad altrui, poco a me stesso:| gli uomini e gli anni mi diran chi sono.” [77] L’ira di Apollo (1816) mette in campo una apaprizione al poeta del dio del sole e della poesia, per canzonare il classicismo e la mitologia e celebrare la ispirazione spontanea giustamente auspicata dalla scuola romantica: è un’ode che somiglia molto ad una canzone, con strofe di endecasillabi, sostituiti da settenari in 2 e 5 posizione. L’ottava al Grossi fu scritta fra il 1822 ed il 1825 (i primi anni in cui il Manzoni lo ospitò in casa sua, dove stette sino al matrimonio nel 1838), per scusarsi della dimenticanza di un appuntamento con lui. E’ in tono tra il serio ed il faceto, con l’aggravante di essere presentata come citazione da un poema, di cui costituirebbe la 62^ strofa della quarta parte! A Gaetano Cattaneo scrisse dei quinari per elogiarlo della abilità a trinciare finemente del tabacco da fiuto, mandato in dono, con dei versi di accompagnamento, al Manzoni. Perplessità non è esplicitamente autobiografica, ma non si sbaglia certo a vedere un’autocanzonatura dietro quei settenari già riportati. Si può aggiungere l’autoironia nei due versi (stesi in due versioni leggemente diverse) per la iscrizione tra gli “Accademici sepolti” di Volterra. [78] E’ la lettera 156 dell’edizione Manodadori a cura di C. Arieti, 1970. E’ del 1821. [79] La pubblicazione da parte del Grossi del romanzo “Marco Visconti” (1834) suscitò, coi consensi, anche polemiche sula lingua usata. Manzoni ed il Grossi prepararono allora una risposta, con il progetto di uno studio intitolato “Sentir Messa”, che è il trattato più organico sul problema della lingua uscito dalla penna del grande scrittore. Incompleto, per altro ed inedito anch’esso, vide la luce solo nel 1923. [80] Avviandoci a trattare dei motivi ispiratori centrali dell’arte di Manzoni, ci spiace di trascurare quei motivi che diremo “occasionali” nel senso che, pur occupando magari la sua mente e la sua prosa critico-filosofica, per anni, trovano però negli scritti propriamente letterari solo qualche riscontro fugace, anche se spesso poeticamente vivo. Ecco il problema della lingua, di cui si sono elencati i numerosi scritti che sono il frutto di mezzo secolo di riflessioni e puntualizzazioni: dal 1823, almeno (cioè dal tempo della stesura della seconda Introduzione al Fermo e Lucia, che pone chiaramente il problema della lingua) alla soglia della morte, visto che ancora nel 1871 si occupava della questione nella Lettera la marchese Alfonso della Valle Casanova. Ebbene, tale tema si travasò in poesia solo (se ricordiamo bene) in due casi. Il primo è nella finale della stessa Introduzione che, elevata quasi tuttta ad espressione lirica (per lo più caricaturale), già nella stesura per I Promessi Sposi del 1827 termina con una nota umoristica dolcissima, che riportiamo, ovviamente, nella forma ultima del 1840. Si tratta della motivazione alla rinuncia di giustificare la lingua usata nella stesura del romanzo: “Veduta la qual cosa (cioè che le giustificazioni risultavano nella mole di un libro vero e proprio), abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile di un altro, potrebbe parer cos aridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo”. Ma vi sono, poi, anche due endecasillabi autoironici al genero G.B. Giorgini (chiedendo notizie nel 1869 per il “Novo vocabolario”): “Anche per noi pigroni è poca cosa:| non chiedo che due versi, e versi in prosa”. E c’è di peggio: il motivo estetico non ha dato alcun segno di commozione lirica, nonostante fosse stato un problema sentitissimo dal Manzoni, che addirittura aveva mutato scuola poetica ed aveva scritto una acuta Lettera al Marchese Cesare d’Azeglio: Sul Romanticismo, esponendo motivazioni chiarissime alla sua conversione letteraria. Certo, non potendosi facilmente tracciare una linea di seprazione netta fra prosa critico-filosofico-scintifica e scrittura poetico-letteraria, si potrebbero trovare espressioni briose ed immaginose anche in tale lettera, ma nel complesso nessuno ha mai pensato di aggregarla alle opere esteticamente significative del Manzoni. Spulciando ora tra i versi giovanili, ripudiati o postumi, ecco un argomento marginale: il gioco. Si comincia con la trdauzione da Virgilio, Eneide, c. V, vv.286-361: si tratta dei giochi funebri in onore di Anchise, fatti tenere da Enea in Sicilia. Il gioco non è del tutto assente nel capolavoro. Menico è abilissimo a giocare a rimbalzello, lanciando sassi sull’acqua dei fiumi o del lago (c. 7); e i bravi che giocano alla morra (anzi, alla “mora” come scrive Manzoni: id.) o, comunque, a danari (c. 20). L’antidclericalismo inizia già al collegio Longoni (1798-1801), con pochi settenari contro il padre barnabita Gaetano Volpini e continua in forme più generalizzate contro la Chiesa e la religione in genere, nel poemetto in terzine Il trionfo della libertà (I, 121-191; III, 238-246) per culminare nei vv. 146-51 del carme In morte di Carlo Imnbonati. Esplicitamente in riferimento a questi ultimi versi, verrà, il 12 febbraio 1847, una lettera al p. Francesco Calandri che ritratta, con vivo rimorso, questo atteggiamento giovanile: “Il male, come devo finalmente convincermene, non è tanto nell’uso che si possa fare di quelle mie infelici parole, quanto nelle parole medesime; e non si tratta di disdirle in un’occasione particolare, ma di rifiutarle assolutamente. La prego dunque di voler dare immediatamente pubblicità a questa lettera, che scrivo a questo solo intento e confidando che vorrà aiutarmi ad adempiere un dovere di cui mi ha fatto accorgere. Per quanto sia forte la ripugnanza che provo a parlare al pubblico di me, non posso riguardarla come un ostacolo, e l’altra ripugnanza, che pur vorrebbe farsi sentire, del parlare di me per condananrmi, diventa, grazie al cielo, un nuovo stimolo, poichè è troppo più che compensata dalla consolazione di non portare almeno intero al gran giudizio, a cui mi avvicino, il carico d’ingiurie dette a più che fratelli.” Il tema del perdono avrà tanta parte, come motivo ispiratore, sia nel coro di Ermengarda, sia nel romanzo (c. 8, la preghiera di p. Cristoforo prima della fuga dei due sposi, rimasti promessi, verso Milano; c. 35, la fermezza dello stesso padre nel condurre Renzo a perdonare a don Rodrigo). Ma la prima vena manzoniana risuona di sentimenti di odio contro la tirannia, il clero, la stessa Francia che invade l’Italia anzichè liberarla, i profittatori di ogni genere (veri “Girella” avanti lettera): si leggano i versi focosi (anche se liricamente poveri, proprio perchè passionali anzichè emotivi) dei quattro canti de Il trionfo della libertà (1801). La passione amorosa sarà esclusa dagli scritti del maggior Manzoni, almeno come descrizione diretta, perchè troppo pericolosa per la vita morale (Fermo e Lucia, tomo II, -Digressione- di apertura). Ma prima della conversione essa aveva trovato espressione audace in varie composzioni. Così avviene nell’Ode per Luigina Visconti (1801: imitata su quella del Foscolo “All’amica risanata”, salvo la presenza di tre endecasillabi anzichè del solo ultimo). Già più pudico il sonetto alla stessa dell’anno successivo: la esalta come operatrice di purificazione dell’animo, quasi angelicata donna che colle sue virtù ammansisce le passione del diciasettenne innamorato. Ma nei Sermoni (1803), persa ormai la speranza e il pungolo di Luigina, il “giovin signore contino Alessandro Manzoni”, abbandonato quasi a se stesso nella casa fastidiosa del padre (ma in realtà, trovandosi a Venezia fra l’ottobre del 1803 e la primavera successiva, ospite dell’avvocato Cromer) ritorna ad una sfrontatezza che va al di là di quella del “Trionfo” precedente. Il secondo sernone, “La cena di Trimalcione” e soprattutto“Amore e Delia” (il primo composto, anche se collocato per ultimo) divengono socncertanti per i pesanti accenni alla impotenza di Trimalcione (“rimediata” dall’adulterio della sposa, che attribuisce il parto ad intervento della divinità); per la seduzione di vedova quarantacinquenne, divenuta saggia quando ha cessato di essere bella; o di altre donne di ogni condizione. Su ben diverso versante è l’abbozzo di un poemetto sulla vaccinazione, tentato in ottave, fra il 1809 ed il 1812, a modo di “visione” montiana: è l’ultimo componimento profano prima degli Inni sacri. L’argomento scientifico-medico avrà sviluppo ben più razionalmente spazzante ed emotivamente drammatico nei capitoli dal 31 al 37 del romanzo. La rinuncia al titolo di conte in nome dell’uguaglianza democratica, la adesione al romanticismo che celebrava il popolo e gli si professava amico, la vivacità della fede cristiana nel Manzoni sfociano nell’interesse per gli umiliati ed offesi di ogni categoria: se Enrichetta soccorreva i poveri con l’aiuto materiale, il marito se ne interessava più intellettualmente, sia nel romanzo, celebrando la magnanimità verso i diseredati di Federigo Borromeo (c. 23 e 28), la discreta carità del sarto (c. 24) e la generosità di tanta gente, dallo stesso Federigo al suo clero, da molti benestanti ai cappuccini al Lazzaretto, durante la peste (c.31 e 32, 35 e 36); sia nello schema a lungo accarezzato per una terza tragedia, che, intitolata “Spartaco”, voleva celebrare la ribellione degli schiavi dell’anno 73 A. C. in Italia (bellum servile: guerra degli schiavi). Ancora nella Pentecoste ritorna il tema della schiavitù, ma in un contesto soprannaturale, cioè come caso estremo di vita apparentemente fallita qui in terra, che trova però un riscatto adeguato in Cielo: “Perchè, baciando i pargoli,| la schiava ancor sospira?| e il sen che nutre i liberi| invidiando mira?| Non sa che al Cielo i miseri| seco il Signor solleva?| Che a tutti i figli d’Eva| nel suo dolor pensò?”|| Nova franchigia annunziano| i cieli, e genti nove...” Manzoni ecologista e protettore degli animali? Certo che non dovevano essere molti i milanesi che avrebbero preferito vedere in libertà gli uccelli esotici esposti allo Zoo, piuttosto che poterli contemplare ingabbiati per tutta la vita: egli invece espresse la opzione in favore della loro libertà nei sette distici latini “Volucres” (Uccelli). Il patriottismo egli non potè esprimerlo facilmente in scritto, visto che la censura austriaca gli aveva proibito persino di stampare Il cinque maggio , temendo che troppi avrebbero visto nell’esaltazione di Napoleone la celebrazione della libertà, che egli aveva promesso a parole; e della unità d’Italia, che egli aveva realizzato, parzialmente ma realmente, nel “Regno italico”. Di qui il fatto che Marzo 1821 potè essere edita solo nel 1848, dopo le “cinque giornate di Milano”; la stessa sorte ebbero i versi del Proclama di Rimini, scritto nel 1815 in favore di Gioachino Murat ed edito nel 1848, dopo essere stati affidati alla sola memoria, essendo stato stracciati anche gli autografi. Inediti rimasero invece i versi scritti, probabilmente nella seconda metà degli anni 1820, che ironizzano su un imperatore ed un generale austriaco. Di quest’ultimo egli commentò così la lapide mortuaria che ne portava solo il nome: “Lunge le insegne araldiche| e i titoli sonanti!| All’ossa che qui giacciono| un nome e nulla più,| Bubna! Il remoto postero| a questo nome avanti| fermerà il passo, e, attonito,| domanderà: chi fu?” Nell’ultimo verso vi è il riecheggiamento del “Carneade! Chi era costui?”, all’inizio del c. 8 nel romanzo. Il monumento a “Francesco I pio massimo augusto” aveva come dedica un endecasillabo (“i negozianti di Milano eressero”) uscito con tutta probabilità inconsapevolmente dalla penna di chi l’aveva pensata. Manzoni deve averlo sentito subito nel suo orecchio di poeta e, alleando arte e patriottismo, ve ne aggiunse un altro in rima: “per quanto poca volontà ne avessero”. [80]
[81] La Divina Commedia è una ascesa continua dell’uomo, salvato dalla redenzione di Cristo con un’opera che gli arriva attraverso al Chiesa, alla visione della SS. Trinità. Per questo si può intendere ed accettare la definizione della Divina Commedia come “poema trinitario” (Mario Apollonio). [82] Dicendo che il racconto di Giovanni Verga “Rosso Malpelo” incarna a pefezione il programma verista del “romanzo che sembra essersi fatto da sè”, non vogliamo dire nè che il carattere del personaggio è del tutto coerente o che stimoli univocamente l’animo del lettore. In concreto, il racconto ci sembra interesante come studio di un soggetto caratteriale, (un po’ squilibrato, anche se, nel caso, ricco di doti) che non come opera d’arte. Tanto che lo si legge “incuriositi” (con suspense) la prima volta; lo si rilegge un po’ delusi la seconda volta (per la contraddizioni inspiegate nella psicologia del ragazzo); se lo si rilegge una terza, è per motivi di studio critico, non di gaudio estetico. E’ un’opera d’arte mancata o appena sufficiente, perchè non sa decidersi a scandire una figura drammatica od a compassionarne una elegiaca. [83] Il capitolo ottavo contiene la notte che Manzoni stesso chiama “degli imbrogli e de’ sotterfugi”. Anche la psicologia implicita, lasciata, cioè, intendere solo attraverso il comportamento e le parole de personaggi, vi ha rilievo notevole. Si comincia con Tonio, l’amico di Renzo che viene a fargli da testimone nel tentativo di matrimonio di sorpresa: recita da grande attore la sua parte, dimostrando nei fatti la sua vanteria di aver ricevuto anche la parte del cervello negata al fratello minorato Gervaso: non fa capitolare solo l’imprudente Perpetua, ma anche il rintanato e guardingo don Abbondio, che –all’idea, all’dea di quel metallo (la restituzione del prestito fatto al suo parrocchiano)- mette a tacere i propositi di reclusione assoluta, fatti dopo che Renzo aveva saputo della proibizione di don Rodrigo al proprio sposalizio. E si continua con le nostalgie amorose di Perpetua, che la rendono succube della troppo più avveduta Agnese. [84] “Ne’ tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, soffian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse nè fine nè misura. Ma per contrappeso, c’è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s’adoprano per produrre l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de’ fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità de’ voleri crea un concerto istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e muoia, son le parole che mandan fuori più volentieri; e chi è riuscito a persauderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser portato in trionfo: attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: che cosa è stato?. Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene: sono quasi due anime nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo muovere. Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte.” (c. 13). [85] La crescita di Renzo è parallela, ma diversa da quella definita da Giuseppe Tomasi di Lampedusa come il passaggio da “gentiluomo indifeso a cafone innocuo”: nel romanzo “Il gattopardo”, si tratta di mutamenti all’interno di una coscienza mondana che si perfeziona nella sua malizia; in Renzo, si tratta di un abito cristiano che matura nella sua virtù di prudenza. [86] Sono citazione dal c. 6: Renzo ingaggerà Tonio e Gervaso come testimoni al matrimonio di sorpresa, pagando il loro debito al curato e permettendo di riscattare, così, la collana della moglie di Tonio, data in pegno per un prestito. [87] Ecco il giudizio, messo in bocca al presunto autore secentesco dello scartafaccio con la trama del romanzo, sull’oste del paese nativo dei “promessi” (Olate?): “Il nostro autore, osservando il diverso comportamento che teneva costui nel soddisfare alle domande, dice ch’era un uomo così fatto che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale, ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che avessero riputazione di birboni. Che carattere singolare, eh?”. In realtà questo “carattere” lo si indovina immediatamente dal suo comportamento. Ai bravi di don Rodrigo, che chiedono notizie su Renzo, Tonio e Gervaso (siamo a poche ore dal tentativo del matrimonio di sorpresa), egli spiattella nome, cognome e professione; a Renzo che chiede altrettanto sul conto degli sconosciuti sospetti che sono di guardia all’osteria, l’oste, dopo aver dichiarato di non conoscerli, li definisce però galantuomini e, incalzato da Renzo, così descrive l’uomo onesto: “Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce dalle azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo; che pagano il conto senza tirare, che non mettono su lite con altri avventori e, se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo: quelli sono i galantuomini”. Era un don Abbondio in grembiule e tra arnesi di cucina; un vinattiere, disinvolto diplomatico; e un ristoratore, tempestivo voltagabbana. Ma questa figura non esce da un esame del temperamento (intùito psicologico geniale), ma da un’analisi del carattere (studio intellettuale riflesso): in questo caso il carattere, cioè il modo di comportarsi voluto anche contro la propria spontaneità e liberamente assunto come propria divisa, è forgiato dalla programmata sequela della persona all’ambiente: non è un debole come don Abbondio, ma un furbo che sa sfruttare anche i vizi altrui. [88] Dell’oste della luna piena, descritto come si è visto anche nel fisico, non esiste una fotografia psicologica diretta: essa esce, però, platealmente chiara dal suo tacere, pensare, parlare ed agire. Dotato di non comune intuito psicologico lui stesso, possiede però anche la prudenza in sommo grado; il tutto, messo a servizio di una politica semplice e coerente: salvarsi dalle conseguenze di parole ed azioni di una clientela spesso loquace e sfacciata, quando non manesca e violenta; difendersi da una autorità sospettosa ed ostile; avanzare un legittimo guadagno con la maggior pace possibile. Insomma è una piccola volpe, che ha imparato a difendersi dai vecchi lupi. Lupo è lo spione che accompagna Renzo fra la sua clientela: per l’oste è una vecchia, detestata conoscenza, che egli apostrofa tra sè, appena lo vede: “maledetto!... che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei!”. Deve allora “fare il suo dovere”, chiedendo le generalità e le intenzioni di Renzo, che vuol dormire nella sua locanda. Al rifiuto allegro e baldanzoso del giovane, egli insiste al punto che comincia a giocarsi il birro diplomatico: è il sedicente Ambrogio Fusella, di professione spadaio, ad arrendersi, col dire all’oste: “lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene”. E l’oste: “ora ho le spalle al muro”. Il finto spadaio ottiene da Renzo, tradito dal vino, i dati che questi ha negato all’oste; e se ne va, apparentemente vincitore: il vecchio lupo si illude di aver teso una trappola infallibile alla lepre. Ora tocca alle guardie in divisa arrestare il giovane; lui, ha diritto alla sua tangente legale per denuncia di sedizioso colto in fragrante. Ma l’autorità subisce una prima sconfitta da parte dell’oste navigatissimo: tanto scettico quanto rispettoso (“Lo so anch’io che ci son delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un montanaro!...e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo”), egli respinge, battuta su battuta, le insinuazioni del notaio criminale, da cui è costretto a recarsi per fare la denuncia. L’ufficiale lo vuol far complice di quelli che chiama “clienti”, ma che l’oste definisce come “urloni che parlan tutti insieme”, sicchè quelle che il primo cataloga come “cose di fuoco, parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori”, il secondo ammucchia sprezzantemente come “spropositi”, che non possono riguardare lui che porotesta” Io devo attendere ai miei interessi”; e che conclude: “Io? per carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste”, riuscendo a riservarsi anche l’ultima parola (“Spero che l’illustrissimo signor capitano saprà che son venuto subito a fare il mio dovere. Bacio le mani a vossignoria”). In secondo luogo, essa arriva a svegliare Renzo troppo tardi al mattino. Ma questo lo diciamo nel testo. [89] Tra le conseguenze di una sbornia, il Manzoni annota, unico fino ai suoi tempi, la mancanza di perseveranza ne i prigionieri del vino: “...L’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar parere...” (c. 15). Ma la psicologia dell’ubriaco è sciorinata con un’ampiezza di particolari che davvero sorprendono, oltre a divertire: Manzoni era bevitore convinto ma sobrio; eppure sapeva immaginare gli effetti del troppo vino. Anzitutto vi è un’esaltazione che scioglie la lingua e fa perdere la prudenza della parola (in Renzo, tale abbassamento della soglia dell’autocontrollo era aggravato dalle troppe emozioni della giornata, cui aveva partecipato da vincitore). In secondo luogo si rafforza l’abitudine più solita nell’uso della parola: è quella spontaneità, che rivela uno spirito fin troppo sincero: “in vino veritas” è il proverbio che certo Manzoni ha in mente, ma che non ha occasione di citare. In terzo luogo è il piacere di parlare ad ogni costo, anche al vento, cioè senza aver più ascoltatori. Si prosegue: l’uso di espressioni popolareggianti e troppo confidenziali (“baggianate” le definisce lo scrittore, quando Renzo afferma, a proposito di un avventore allegro perchè vincitore: “To’... è un poeta, costui”). La tendenza ancora alle ripetizioni: “Ah oste, oste...oste che tu sei!...”; “Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Sono proprio celie”). La confusione mentale che cresce in proporzione del vino bevuto: “Ma, a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero che s’era presentato vivo e risoluto alla mente, s’annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettare un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di quegli istinti che, in tante cose, rovinano gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica” (c. 14). E ancora, più a fondo: il ritorno, nel discorso arruffato, delle idee che più stanno a cuore. Nel caso di Renzo, si tratta della onestà, dei “galantuomini” e dei “buoni figliuoli”; il perseguire la giustizia, ma senza spargimento di sangue; la protesta contro la sopraffazione dei prepotenti, cui vengono disinvoltamente accomunate tutte le persone istruite, cioè quelli che parlano latino come don Abbondio ed usano “carta, penna e calamaio” come il dottor Azzeccagarbugli (sebbene qui il presunto latino è lo spagnolo di Ferrer, ripetuto arbitrariamente come “siès baraòs trapolorum”), perchè ritenute ipocrite (“scribi e farisei” le aveva chiamate nella sua allocuzione in piazza del duomo); la fede religiosa, in certe espressioni immaginose, come “quel bel foglio di messale” e “son venuto a Milano per confessarmi...”; il pensiero di Agnese, di p. Cristoforo, di Lucia.; la sentimentalità “accorata e svenevole”, perchè la emotività si avvia verso stati d’animo patetici od enfatici, fuori del controllo della ragione; la difficoltà e lentezza a capire lo stato in cui si trova ed i rimedi per uscirne: l’oste deve gridargli più volte: “letto, andare a dormire”. [90] Accenniamo qui ad alcune “perle” di analisi psicologiche, che abbiamo trascurato a torto finora. Nel c. 3, la finale della descrizione sulle disavventure dei poveri “polli di Renzo” (quelli che egli porta al dottor Azzeccagarbugli, come omaggio per il parere da chiedergli) è una frecciata all’umanità litigiosa: le teste degli animali maltrattati da Renzo, nei bruschi movimenti del braccio , agitato dalla intensità del suo animo appassionato “s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. “Nel c. 5 si legga: “L’uomo onesto, in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti) immaginarselo con la fornte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguagnolo ben sciolto. Nel fatto però, per fargli prendere quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si incontrano insieme...”. Nel c. 7 Renzo, disperato per gli scrupoli di Lucia contro il matrimonio di sorpresa, perde il lume degli occhi e minaccia di tendere davvero un’imboscata a don Rodrigo, ucciderlo e mettersi in salvo nella repubblica veneta; Lucia reagisce dichiarandosi indisponibile a sposare un assassino; Renzo, allora, le rinfaccia di non cooperare ad essere marito e moglie secondo i suggerimenti della madre Agnese, in tono tale che Lucia si arrende: andrà dal curato la sera con lo sposo, la madre e i due testimoni. Ecco le riflessioni messe in animo all’inesistente autore dello scartafaccio: “In mezzo alla sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; ed io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene... Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.” Sempre in questo capitolo, lo scrittore, introducendo Menico, il ragazzo che Agnese, sua parente, sceglie come portaordini fra il convento di p. Cristoforo e casa sua, lo presenta con ogni ammirazione in una sua abilità (“Bisogna saper che Menico era bravissimo nel far a rimbalzello”), per concludere con tutto divertimento in questa osservazione arguta a carico dell’umanità intera: “e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciamo volentieri le cose alle quali abbiamo abilità; non dico quelle sole”. Alla fine del capitolo, Manzoni fa sua un’intuizione psicologica del suo grande, fraterno collega Shakespeare, trovando modo, di striscio, di mettere in burletta Voltaire, l’autore della frase posta tra parentesi: “Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure”. Nel c. 11, vi sono osservazioni acute sul rapporto fra convinzioni personali e opinioni dominanti: qui è Renzo che condivide l’errore “che la scarseza del pane fosse cagionata dagli incettatori e dai fornai”. Un’altra perla è la sentenza assiomatica: “Il vortice attrasse lo spettatore”: ma la esamineremo come nota di psicologia indiretta, in sede di stilistica. Nel c. XIII, leggiamo una sentenza scettica ed allegra sulla storiografia, che sa di pirronismo razionalista: “Del resto quel che (il vicario di provvisione, asseditao dalla folla) facesse precisamente non si può sapere, giacchè era solo; e la storia è costretta ad indovinare. Fortuna che ci è avvezza” . E ancora: “... per grazia del cielo, accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento”. Ed infine: “Alzandosi tutti, vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti s’alzavano”. Nel c. 15, l’oste, che sente il bisogno di osservare Renzo che dorme, è a sua volta sottilmente indagato dallo scrittore: “Poi, per quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore; e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso...”. In apertura del c. 17, ecco una dissezione della mente agitata di Renzo, appena uscito dall’osteria di Gorgonzola: “Basta spesso una voglia, per non lasciare ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra con l’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresicuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo”. E, nell’insonnia di Renzo, nel capanno agricolo presso l’Adda, c’è posto per acute notazioni di fisiologia psicologica, che coinvolge maliziosamente dottrine estetiche troppo sicure di sè: “Ma appena ebbe chiusi gli occhi cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno...” (id.). A proposito del barcaiolo dell’Adda, che traghetta Renzo sulla sponda bergamasca, Manzoni trova l’occasione per anatomizzare una intera categoria di persone: “...quell’uomo, pregato spesso d’un simile servizio da contrabbandieri e da banditi, era avvezzo a farlo; non tanto per amore del poco e incerto guadagno che gliene poteva venire, quanto per non farsi de’ nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni volta che potesse esser sicuro che non lo vedessero nè gabellieri, nè birri, nè esploratori. Così, senza voler pià bene ai primi che ai secondi, cercava di soddisfare tutti, con quell’imparzialità, che è dote ordinaria di chi è obbligato a trattar con cert’uni, e soggetto a render conto a cert’altri” (ib.). E, dopo che Renzo ha pranzato in terra di Venezia e dati gli ultimi soldi che lgi rimanevano in elemosina, ecco Manzoni a commentare sornione ma psicologicamente ineccepibile: “La refezione e l’opera buona (giacchè siamo composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri...” (ib.). Al c. 21, abbiamo l’esclamazione della vecchia addetta al castello dell’Innominato: “Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione”. Nel c. 24 è Agnese che sentenzia azzeccatamente: “I poiveri, ci vuol poco a farli comparir birboni”. Nello stesso capitolo, parla don Abbondio, in endecasillabi e settenari, parla “pro domo sua”, cioè a sua commiserazione: “Come finiscono queste faccende?| I colpi cascano sempre all’ingiù;| i cenci vanno all’aria”. E ancora sempre nel c. 24, la psicologia dei ragazzi (i figli del sarto) incontenibili perchè emozionati: “... avevan visto troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d’ascoltatori”. Alla fine, vi è l’analisi fisiologica, prima che psicologica, del bisogno di sonno nell’innominato, nonostante i rimorsi, le preoccupazioni per rimediare ai mali del passato e quelle per ricomporre un ordine nella sua casa, dopo che egli stesso aveva demolito, con la conversione, quello precedente. “Eppure aveva sonno” è la costatazione inesorabile che chiude le varie parti nell’elenco degli impegni, che attanagliano la sua coscienza, ma che devono cedere il passo a questa elemenatare necessità fisiologica. Nel c. .27 vi è la sottile e divertita ricerca sulle vie astute con cui gli interessi più vivi dell’animo (si tratta dell’amore di Lucia per Renzo) si ripresentano alla mente, nonostante tutti gli sforzi per tenerli lontani: “Ma quell’immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s’introduceva di soppiatto dietro all’altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c’era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebeb stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte... E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò...”. Al c. 30 vi è una radiografia interiore dei rifugiati al castello del grande convertito, che sono visti dividersi in tanti gruppi, quanti sono gli umori affini: chi non sa liberarsi dalla tristezza per la troppo facile previsione dei danni inferti dai lanzichenecchi alla loro roba; altri “ non... rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarsci”; altri infine che si davan da fare per “non mangiare il pane a ufo”; “alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri” (c.30). Nel c. 31, di striscio, una sentenza ineccepibile: i cappuccini accettano di servire gli appestati al lazzaretto “senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata”. “Nel c. 33, vi sono un paio di osservazioni acute: una su “quel benedetto istinto di riferire e di subordinare tutto a noi medeismi”, istinto per il quale Renzo, parlando con Bortolo sulla decisione di tornare in cerca di Lucia nel milanese, lui che è ormai al sicuro dal contagio perchè ne è guarito, afferma “Se lascio scappare un’occasione così bella (la peste!...); l’altra è sull’amicizia, quando Renzo, tornato al paese dall’esilio bergamasco, incontra e diventa ospite di un coetaneo: “ E, dopo un’assenza di forse due anni, si trovarono a un trattao molto più amici, di quello che avessero mai saputo d’essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; poichè all’uno e all’atro..., erano toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo sia all’animo la benevolenza; tanto qualla che si sente, quanto quella che si trova negli altri”. [91] Il comportamento di Lucia durante il rapimento (c. XX) è coerente e verosimile, ma esteticamente poco significativo; ed anche psicologicamente non pare aver nulal di nuovo da insegnare: è uno dei pochi capitoli scialbi del romanzo. [92] Giuseppe Ripamonti, Storia patria, citato dal Manzoni. [93] E’, quella enunciata come irrazionale dall’innominato (cioè dal suo inventore, il Manzoni) la conclusione troppo logica cui giungono tutti gli evoluzionisti atei: “caso e necessità” regolano la vita e la morte dell’uomo, animale tra gli altri animali, con la maledizione della coscienza morale che lo pungola e tormenta, gli chiede sacrifici e lo riempie di rimorsi. [94] In concreto, il cardinale permise la condanna di streghe e fu del parere che qualcosa di vero, nella tragica favola degli untori, ci fosse. Dante, cattolico sempre ma non mai clericale, non avrebbe ceduto ad una simile tentazione; Luigi Russso, anticlericale sistematico, non manca di farlo notare nel suo commento al romanzo, edito dalla Nuova Italia di Firenze nel 1960. Il Russo pecca di serenità nella espressione partigiana, però non ha tutti i torti nei suoi rilievi; così come quando ricorda che le suore al servizio di Geltrude, erano tre, tutte ferite, anche se ne muore una sola. Il Russo non fa cenno, però, ai motivi “estetici” che hanno indotto probabilmente il Manzoni ad una sintesi più succinta: non appesantire la tragedia di dettagli e distinzioni, perchè avrebebro diminuito l’intensità dell’orrore, anzichè aumentarlo. [94] Sono gli stessi argomenti, come già si è detto (argomenti affini all’ “esprit de finesse” di cui parla Pascal nei suoi “Pensieri”), che indussero alla fede la mente del Manzoni e lo portarono alla conmversione. [94] “Marionette”: Manzoni stesso ricordava la gioia negli anni di composizione estrosa di Fermo e Lucia (1821-23), quando, al mattino, tirava fuori dal cassetto della scrivania i personaggi del suo romanzo ormai iniziato, anzi le “marionette” della sua “cantafavola” e le faceva danzare a suo piacimento. Il sarto rischia davvero di riuscire non un personaggio, ma una “macchietta”. Definiamo “macchietta” un soggetto letterario che non ha la pienezza (complessità) della umanità, perchè scorciato unilateralmente nella dimensione isolata di un suo tratto caratteristico, piuttosto negativo (la vanità, nel caso del sarto). Anche donna Prassede e don Ferrante rischiano il ruolo della “macchietta” ma, come il sarto, rivelano sempre altri lati, meno clamorosi e meno sottolineati dall’autore, ma pur sempre segnalati in modo da ricondurli alla persona, sia pure limitata, anzi disorientata. Naturalmente la “macchietta” vera e propria non esiste nella vita reale, se non come malato (Gervaso è una vera “macchietta”); eistono, invece, nelle opere di fantasia, ma non interamente nelle opere del Manzoni: i suoi “attori” sono abbastanza complessi da risultare verosimili: la carità del sarto e della stessa donna Prassede, la cultura di don Ferrante li rendono persone verificabili nel “gran teatro del mundo” (vario ed avariato!). [97] Cioè, che egli intendesse levare l’assedio a Casale, per i due incidenti concomitanti della presa de La Rochelle da parte del cardinale Richelieu (che la sottraeva agli Ugonotti, rendendosi così pronto ad intervenire in Italia, per sostenere i Nevers nella successione al Monferrato) e dei tumulti di Milano dell undici novembre 1628. [98] Manzoni sta parlando della inefficacia del sonetto famoso di Claudio Achillini “Sudate, o fochi, a preparar metalli” sulle decisioni del cardinale Richelieu che, una volta rioccupata Casale, se ne tornò in Francia anzichè aggredie (come auspicava il poeta) la Lombardia spagnola. [99] Come già detto, la condanna della irrazionalità della “massa” è già nel “Critone” di Socrate-Platone: “òi pollòi”, i più, la moltitudine sono quelli che oggi son disposti ad ammazzare una persona, solo chiaccherata come disonesta; e domani, se lo potessero, a risucitarla, scoperta la calunnia. Questo aiuta a non meravigliarsi di fronte al diverso comportamento della folal di Gerusalemme tra l’accoglienza trionfale di Cristo la domenica delle palme e l’abbandono degli osannanti, se non per gridare essa stessa, almeno per dar campo a chi gridava il “crucifìge”, il venerdì successivo. [100] (Alle collera) “piace di più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli ad una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”. Altre notazioni psiclogiche prese a prestito: quella del c. VII, da Shakespeare, “Giulio Cesare”, II, 1, che è già stata segnalata; quella al c. IV, del rimorso che perseguita il delinquente come l’ombra di banco, è in Macbeth; al c. 28 vi è una frase celebre del Wallenstein (Albrecht Wenzel Eusebius, von: 1583-1634) “esser più facile mantenere un esercito di centomila uomini che uno di dodicimila”. [101] Lettera a Francesco Vettori. [102] Alle doti anche politiche di Napoleone, Manzoni pare accenni nei versi “Ei si nomò: due secoli,| l’un contro l’altro armato,| sommessi a lui si volsero,| come aspettando il fato;| Ei fe’ silenzio, ed arbitro| s’assise in mezzo a lor”. [103] Paci di Utrecht e Rastadt, 1713-4, alla fine della guerra di successione spagnola. Vi subentrano gli Austriaci. [104] Filonapoleonico nel complesso, in fatto di libertà dei popoli il Manzoni non condivideva la concezione imperiale del despota invitto, anche se apprezzava la discreta libertà di pensiero ed i residui di democrazia amministrativa conservati dal suo governo. [105] Meno importante per un giudizio sulla sua grandezza ci pare questo silenzio, benchè anche Federigo credesse alla natura diabolica delle streghe, tanto che ne lasciò condannare a morte più di una. Qui, l’uomo di Chiesa non faceva altro che prestare il suo ossequio alla scienza: se i medici (anche il grande Ludovico Settàla, protofisico dello stato milanese!) attestavano la presenza di fenomeni preternaturali, il giudice ecclesiastico non poteva sostituirsi alla loro competenza. Si noti, per comprendere la fiducia della Chiesa nella scienza, che nel Medioevo, i teologi pensavano abitualmente che non si desse aborto se non dopo il terzo mese di gravidanza, perchè la scienza filosofica predicava che solo verso quell’epooca di gestazione l’anima umana poteva essere infusa nel feto, prima incapace di riceverla! [106] Tra i nobili, troviamo, nel capitolo ultimo, anche l’erede di don Rodrigo, che è tra le persone ottime della “cantafavola”: amico del cardinal Federigo, egli vuol riparare il male fatto dal parente morto e, perciò, tratta con ogni riguardo il parroco don Abbondio e gli sposi non più solo promessi, ma finalmente divenuti marito e moglie. Ma non ci pare figura interessante: egli ha tutta l’aria di entrare in scena solo per assicurare un lieto fine alle disavventure di Renzo e Lucia; ed anzi, per assicurarlo celermente, coronandolo con un bel mucchietto di soldi che la nuova famiglia (Agnese compresa) si porterà nel paese del bergamasco, dove Renzo ha un lavoro sicuro e dove presto diverrà addirittura, con il cugino Bortolo, impresario. E’ un personaggio che la critica letteraria trascura (ci pare) giustamente. Unica nota interessante: “v’ho detto che era umile, non già che fosse un portento di umiltà. N’aveva quanto ne bisognava per mettersi al di sotto di quella brava gente, ma non per istar loro alla pari” (ha invittao a pranzo i due sposi ed Agnese al castello, ma li lascia soli a mangiare, per ritirarsi in sala separata con don Abbondio!). Una funzione simile ci pare abbia la figura della buona e ricca vedova, compagna di Lucia nella capanna del Lazzaretto e con lei guarita; presente al matrimoinio e, poi, fattasi da parte, non potendo tenere più con sè Lucia, come si era offerta di fare, al posto di donna Prassede (cc. 36 e 38). [107] E’ l’elenco che dà la grida di don Gonzalo de Cordoba del 15 dicembre 1627, che il dottor Azzeccagarbugli legge all’attonito Renzo nel c. 4. [108] Geltrude, mentre era tenuta segregata in casa, per aver scritto la lettera al padre con cui annunciava il suo rifiuto a farsi monaca, si era innamorata di un paggio e, scoperta mentre gli scriveva un biglietto, era stata trattata come scostumata e le si era fatto capire che ormai il rinchiudersi in convento era la sola espiazione adeguata del fallo. [109] La ingenuità nel credere alle menzogne appare dal riferito colloquio con Attilio nel c. 18; la modestia delle sue relazioni “in alto” affiora dalla banalità degli scambi di parole col “conte-duca”, cioè con don Gaetano Guzman, conte d’Olivares, duca di San Lucar e primo ministro di Ferdinando IV, re di Spagna, quando aveva avuto la ventura di incontrarlo a Madrid, in occasione di una missione (“el conte-duque” gli domanda quanto gli piacesse Madrid ed ammette che il duomo di Milano è il tempio più grande di tutti i territori della corona spagnola!); la fatica a destreggiarsi tra gli affari pubblici la dimostra “soffiando” ad ogni ricordo od impressione di difficoltà (rapporti coi religiosi, con padre Cristoforo in particolare, col padre provinciale, infine,quando si accorge che non bastano le accuse fantastiche di Attilio per indurlo a perseguitare padre Cristoforo e deve confessare il motivo dello scontro col nipote). [110] Ci si accorgerà che “galantuomo” e “mascalzone, dal loro significato morale, sono trascinati ad un senso puramente sociale (significano rispettivamente “nobile” e “plebeo, anche arricchito, cioè borghese”). [111] Come ci informa il Nicolini (o. c.), don Gonzalo non volle la guerra contro Casale, anzi la sconsigliò insistentemente a Madrid. Inoltre va tenuto presente (visto che il Manzoni ha di mira tutto il comportamento spagnolo durante l’assedio alla città, che Casale fu in definitiva presa, anche se don Gonzalo era già stato destituitio da governatore di Milano e, quindi, da capo delle operazioni militari. Fu la pace di Cherasco a ritoglierla agli Spagnoli per assegnarla ai Nevers (1631); ed a rendere inutile anche la conquista ed il tremendo sacco della città di Mantova da parte delle truppe imperiali, portatrici di peste e di violenza senza nome ma, ahimè!, ben efficienti come guerrieri.. [112] Al c. XXXI: “Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevan per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia; tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa di amici, che per sorte era vicina...” [113] Non attori della cantafavola, ma scrittori che han fornito dati storici al Manzoni, sono gli autori da lui citati: Benedetto Varchi (1503-65: Storia di Firenze: c. 28), Giuseppe Ripamonti (Historiae patriae Decades: c. 28; De peste quae fuit anno 1630, libri quinque: c. 31); Alessandro Tadino (Ragguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica et malefica, seguita nella città di Milano: edito nel 1648, citato al c. 28); Lorenzo Ghirardelli (Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630: citao l’autore al c. 33); Francesco Rivola (Vita di F. Borromeo, Milano 1666: c. 19). [114] Potremmo affiancare al dottor Azzeccagarbugli, il notaio criminale che troviamo nel c. 16, alle prese coll’oste della Luna piena, prima e, poi, con Renzo. Ma lo si è già a giudicato dalle sue imprese: aggressivo sempre e sempre perdente. [115] In “Fermo e Lucia”, Manzoni aveva fatto di Chiuso il paese della conversione dell’innominato e della visita pastorale di Federigo; ed aveva trasferito all’epoca del romanzo il suo esimio curato Serafino Morazzone, di cui è introdotta la causa di beatificazione. Riteniamo che il motivo di ripiegare sull’anonimato del paese e del parroco siano puramente estetici, pur non escludendo l’intenzione di alleggerire la parte religioso-apologetica dell’opera. [116] E si poteva immaginarlo, posto l’esempio e le direttive del cardinal Federigo: “Federigo dava a tutti, come era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, prìncipi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette alle istanze con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: “siate disposti ad abbandonare questa vita mortale, piuttosto che questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come ad un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo” (c. 32). La conseguenza di questi princìpi di fede furono quelli che il Manzoni descrive poco prima: “Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze”. [117] Ci si permetta una osservazione. Nella genialità poetica di Manzoni vi era tutta la forza emotiva e la potenza intellettuale del Manzoni convertito (il passo famso del carme In morte di C. Imbonati lo sta a dimostrare), come in Ludovico vi era tutta la potenzialità all’eroismo di padre Cristoforo (il fatto che si costituisse “protettor degli oppressi” lo insinua a sufficienza). Ma è la conversione che mette quell’ordine e forza nella concezione della vita del primo, onde si rendono possibili quella elevatezza di motivi ispiratori (convinzioni, ideali...) che facilitano l’innesco della emotività e permettono così l’espressione frequente di una poesia sublime; ed è la conversione di Ludovico, che permette di purificare le spinte generose, originate dal suo temperamento e dalla sua educazione e di tradurle in gesti coerenti fino in fondo, sino al dono della vita a servizio degli appestati. [118] Anche padre Michele Pozzobonelli guarì dalla peste ma, caso rarissimo ma possibile, vi ricadde e ne morì, sicchè l’unico che uscì vivo dalla missione fu padre Casati. [119] Per comprendere la frase trascritta dal romanzo, la si completi con questi altri passi, sempre dal c. 9: “...Gertrude, l’infelice, sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua resistenza all’insinuazione de’ suoi maggiori, nella scelta dello stato, fossero una colpa..” ; “Era legge che una giovine non potesse venir accettata monaca, prima d’esser stata esaminata da un ecclesiastico, chiamato il vicario delle monache... affinchè fosse certo che ci andava di sua libera scelta. E questo esame non poteva aver luogo, se non un anno dopo ch’ella avesse esposto a quel vicario il suo desiderio , con una supplica in iscritto”. [120] Tanto meno Lucia sapeva di un’altra, drammatica liceità, ma pur sempre tale: la donna aggredita fisicamente, può soccombere senza difendersi (ma senza collaborare attivanmente) alla violenza erotica altrui, per salvare la propria vita o quella di persona acara (marito, figli...) o quella di un innocente. [121] Benchè figure di un momento, tra le persone decisamente incamminate sulla via della onestà e della carità, troviamo il barcaiolo ed il barrocciaio, che, su richiesta di padre Cristoforo, conducono i due promessi ed Agnese rispettivamente a Monza ed a Milano. Il barcaiolo “ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorchè Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito.” (c. 9). Anche il barrocciaio, che li prende in consegna alla sponda destra dell’Adda, a Monza “ritirò le mani anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia”, perchè “aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante” (id.). Prima ancora, dobbiamo ricordare il vecchio servitore nel palazzotto di don Rodrigo, che, residuo della servitù degli antichi padroni, timorati di Dio, non condivide la vita scapestrata del nuovo e afferma a p. Cristoforo “Ma io vorrei salvar l’anima mia” e si presta, con suo gran rischio, a mandare notizie al convento, sul progettato rapimento di Lucia, appena saprà qualcosa di preciso. Menico, il piccolo parente di Agnese, che fa da trait-d’union tra p. Cristoforo e lei,, sarà avvertito, seppur troppo tardi, ma servirà almeno a indirizzare con prestezza gli sposi “rimasti promessi” verso la la salvezza nel convento di Pescarenico (c. 8). [122] Il risentimento per il silenzio della figlia circa il voto fatto e così a lungo taciuto, ritorna (c. 26), “ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo proprio”. [123] C’è il “vecchio malvissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di voler attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse” (all’assedio della casa del vicario di provvisione: c. 13); c’è l’uomo che scambia Renzo per un untore (c. 34); la donna alla finestra della casa di don Ferrante, che tratta malamente il povero Renzo, rifiutandosi di dargli spiegazioni; la donna che lo osserva, mentre stringe il martello della porta per annunciarsi ancora e lo denuncia come untore, attirandogli addosso uno sciame di gente invelenita, disposte a farlo fuori (id.). [124] Egidio, il tentatore e drudo della monaca di Monza, può essere considerato un “bravo”? Certo, è al servizio dell’innominato: “Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove lapovera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato” (c. 20). Forse non si può confonderlo con loro : è una delinquenza esercitata ad un gradino più elevato, di un ordine più politico ed organizzativo che immediatamente e volgarmente operativo. Dei bravi si parla brevemente anche nel c. 28, dove si dice della miseria cui erano ridotti, per la carestia, gli abitanti della Lombardia nell’anno 1629, prima che arrivasse la peste. Tra i mendicanti, che riempivano penosamente le vie della città di Milano, “C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato , ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascinavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umilmente la mano, che tante volte avevano alzata a minacciare, o traditrice a ferire.” [125] E’ la interpretazione di Gaspare Bugatti, “Istoria universale dal principio del mondo all’anno 1569”; altri pensano a derivazione dal “malnàt”= malvivente, pronunciato in qualche posto “monàt”. [126] Che il console sia un individuo incerto e dubitante (giusto l’opposto di un vero capo), lo si ricava ancor meglio dall’ultimo sua comparsa, sempre nel c. VIII: “Fatti però, non ce ne furono altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e un piede sul vangìle; stando, dico, a speculare tra sè sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccasse fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re di Francia della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non erano que’ medesimi. Costoro, con fare ancor meno cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non fare deposizione al podestà dell’accaduto, di non rispondere il vero, nel caso ne venisse interrogato, di non ciarlare, di non fomentare le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia”. [127] E’ noto l’assioma italiano: “La paura fa sempre novanta”, cioè un sogno od un incidente che ha provocato paura, vale il gioco del numero novanta, nelle puntate al lotto (come è scritto nella “Sgorbia” , il libro che pretende rivelare i presunti rapporti fra cose viste, sperinmetate ecc. ed il numero vincente, da puntare, quindi, in una giocata a quella fabbrica di sogni e di illusioni, quale è appunto quel primo tra i giochi d’azzardo. Nella realtà della psicologia umana, la paura, come fuga dal dolore e dalla morte, è l’istinto più forte: ben più travolgente che non la stessa fame e sete, già più forti, a loro volta, dell’erotismo. [128] Il governatore, esonerato don Gonzalo, era Ambrogio Spinola, che si trovava all’assedio di Casale: questi, alla seconda ambasceria da parte della città di Milano (14 di novembre), per comunicargli la certezza della pestilenza, aveva risposto manifestando il suo profondo dispiacere e commozione, ma aveva dichiarato che “le preoccupazioni per la guerra erano preponderanti” (belli graviores esse curas). [129] L’accenno alle virtù medicamentose del vino lo troviamo due volte: al c. 1 (“ prendendo il bicchiere con la mano non ben ferma e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina”; ed al c. 30, al ritorno dal castello dell’Innominato, quando Manzoni descrive il saccheggio dei lanzichenecchi nella casa del povero curato, col bruciamento di parti della botticella “dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio”. [130] “Ma c’era qualchedun altro in quellos tesso castello” sono le parole che Manzoni scrive subito dopo il voto ed il sonno di Lucia, per parlare della notte insonne e decisiva dell’innominato; e per lasciar intuire il collegamento, misterioso ma certo, fra il sacrificio di Lucia e la soluzione positiva nella crisi del suo carceriere. Noi, pur avendo invertito l’ordine della esposizione, non abbiam voluto rinunciare alla significativa espressione del Manzoni. [131] “Fermo e Lucia” è diviso in 4 tomi, per un totale di 37 capitoli (8+11+9+9); l’edizione “ventisettana” de I Promessi Sposi è divisa in tre soli tomi e con numerazione continuativa degli ormai definitivi 38 capitoli. Nell’edizione del 1840-1842, Manzoni lasciò i 38 capitoli e tolse al romanzo la suddivisione in tomi. [132] Manzoni parla indistintamente di “passione”, un termine che ci è giunto dalla cultura greca (aristotelica in particolare: nella “Poetica” dello Stagirita la questione della “purificazione delle passioni – càtharsis tòn patemàton- è centrale, come si è visto studiando i commentatori dell’operetta nel Rinascimento). Ancora nel secolo XIX la parola aveva un uso quanto mai denso ed equivoco: non essendosi stabilita la distinzione fisio-psicologica fra istinto, emozione e sentimento, neppure Manzoni si arrischiava a precisare troppo. In realtà, egli finisce, poi, per sotituire “sentimento” a “passione”, chiarendo maggiormente che intendeva parlare dell’aspetto affettivo dell’amore sessuale, che si completa poi nell’erotismo (istinto sensuale, venereo, che diventa, vissuto secondo natura integrale, lecito e santo nel matrimonio) e nella generazione (che è il frutto naturale dell’esercizio dell’istinto). Si noti fin d’ora che non ha senso parlare di “emozione sessuale”, perchè l’emotività non è così specificata, ma sostanzialmente ferma alle due espressioni di “soddisfazione-insoddisfazione” (“stress|delight) a livello di sistema neurovegetativo (non, quindi, a livello periferico-sensibile, come è proprio dell’istinto): allo stesso modo, non esiste nè una emozione religiosa nè una patriottica. La soddisfazione-inosddisfazione elementari possono essere vissute in una misura più o meno forte (onde, per scopi di critica estetica, la suddistinzione in due livelli: tenue o contemplativo, di idillio ed elegia; forte o drammatico, di epopea o tragedia); o addirittura combinate dalla intelligenza in sinergismi raffinati e complessi, come la tenerezza e la commozione, l’estasi e la comicità. [133] Si riferisce al presunto manoscritto secentesco, da cui trarrebbe la trama. [134] La sentneza è intenzionalmente, potenzialmente comica (che sia tale anche in atto, nel risultato, non direi), ma ha un senso serio: di passione-sentimento amoroso il nostro organismo è sproporzionatamente impregnato rispetto al suo fine principale,da non aver bisogno di incentivi ulteriori, come quelli letterari. Nella condizione di egoismo profondo che l’umanità storica rivela, la spinta sessuale (sentimento ed istinto) rischia di non bastare a mantenere nelle coppie di sposi la voglia di un numero di figli sufficiente a conservare la specie umana: occorre proprio una sollecitazione sproporzionata, perchè si raggiunga un risultato di minima conservazione. [135] Il resto della “Digressione” non intressa più il nostro studio: Manzoni si aggroviglia in considerazioni storico-letterarie (di cui Racine è il punto di riferimento autorevole), così che ad un certo punto si accorge della complessità della questione e sente la necessità di un discorso etico-sociologico molto meno superficiale di quello iniziato coll’ideale obiettore, discorso che però sarebbe inattinente rispetto al romanzo. E lo tronca di netto :“Sparisci (o personaggio ideale, che obietti al mio modo di trattare l’amore); e torniamo alla storia”. [136]
Inserito in questa tematica
religioso-storico-morale, l’estro manzoniano trova il suo optimum
dimensionale ed esprime un capolavoro, in cui si alternano elegia, dramma ed
epopea, ma soprattutto s’impone la commozione delle ultime strofe, che
sono un acquisto per sempre forse non solo per l’arte poetica. Se una
prospettiva in cui una Provvidenza divina
garantisca giustizia oltre la tomba, rasserena, esalta, commuove
il cuore dei fruitori, non sarà, tale
visione etico-religiosa, così adeguatamente conforme alla natura
uamana, da risultare e necessaria alla vita dell’umanità e, quindi, vera
nella misura in cui non si voglia perversamente considerare la vita umana
uno scherzo ed un caos? [137] Per capire come una personalità così lontana da ogni scrupolo, così ottimistica, così eccezionalmente armoniosa, quale ebbe il fondatore dei Salesiani, potesse essere sfavorevole al romanzo, van tenute presenti due particolari: non solo egli si specializzò nella educazione degli adolescenti, cioè di un’età fragile e ipersensibile proprio in materia sessuale, ma tendeva anche a far maturare, là dove era pur incipientemente presente, la vocazione alla verginità per il sacerdozio o per una vita tutta consacrata al servizio del Vangelo. Ora (e sono i soli motivi che egli adduce esplicitamente) la presenza di un parroco vigliacco e di una suora sacrilega non aiutavano certo lo sbocciare di vocazioni di speciale consacrazione. Riconoscendo questo, non vogliamo approvare il forse unico atteggiamento eccessivamente severo del santo di Castelnuovo d’Asti in campo educativo: vogliamo solo far presenti le attenuanti di un giudizio di non giustificato timore, che non tiene conto dell’atmosfera drammatica di condanna con cui è trattato il caso di suor Verginia de Leyva; e l’atmosfera di ironia continua di cui è circondato don Abbondio; e che non tien presenti gli esempi opposti di sublime fedeltà al dovere di un cardinal Federigo, dell’erosimo dei parroci milanesi, dei frati cappuccini durante la peste e di un padre Cristoforo in particolare. [138] Non si è mai riletta abbstanza la sentenza, con cui il Manzoni commenta la ingenua persuasione di Renzo e chiude il c. 3: “Tanto è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica”. [139] E’ il prinmcipio morale del probabilismo, che è metodo lecito a render certa la coscienza nell’urgenza dell’agire, quando essa fosse confusa: basta avere un punto di riferimento solidamente probabile, per cerziorare la coscienza. Scegliere, invece, l’azione più piacevole o più utile con coscienza dubbia costituisce oggettivamente peccato, perchè non è lecito neppure rischiare l’amicizia con Dio (“la vita di Grazia”), che è il valore supremo della vita. Necèssita, dunque, un metodo sicuro per accertare la coscienza, quando non si possa consultare un manuale od un competente di scienza morale perchè l’azione è urgente. Lucia denuncerà all’arcivescovo tale tentativo per sè probito, irregolare, ma lecito come atto di legittima difesa; nè il cardinal Federigo li rimprovererà per una simile azione. Un altro “metodo” per rendere “certa la coscienza è l’equiprobabilismo, mentre sono stati condannati il “tuziorismo|rigorismo ed il suo opposto, cioè il “lassismo”. [140] In realtà, nonostante che Manzoni soggiunga “Giova sperare, caro il mio Renzo” (che una simile epidemia non ritorni), una garnde diffusione pestilenziale si ebbe ancora negli anni 1656-7, da Genova a Palermo (dove si esalta l’intervento di santa Rosalia a difesa della popolazione). [141] I versi più “innamorati” ci sembrano compresi fra il ventiduesimo e l’ottantesimo del c. XXX del Purgatorio, appunto. Nessuno dei molti nella “Vita nova” ci sembrano così efficaci nel rendere lo stato di animo innamorato, come questi della Commedia. [142] E’ quella del c. 25: “Volete aver molti in aiuto? cercate di non avenre bisogno”. [143] Si citano di solito il verso 138 di Inferno V (“Quel giorno più non vi leggemo avante”: Paolo e Francesca) o di Paradiso 3 , 3, 108 (“ E Dio si sa qual poi mia vita fusi”: Piccarda Donati). [144] La carità cristiana ha, poi, delle sue cartteristiche particolari, che sono e umane e divine: umana è l’esigenza di estendersi a tutti gli uomini (mentre, prescindendo dal Vangelo, l’amore è d’obbligo soltanto nella famiglia, per legge naturale; e nella amicizia, per decisione personale); soprannaturale è la intenzione di vedere Dio nel prossimo, di perdonare al di là della prudenza umana, di amare e servire, perciò, anche i nemici; e la certezza di una comunione con Dio, che, insensibile per lo più sulla terra, si realizza però, oggettivamente, già quaggiù, per completarsi in Paradiso. Nell’idea perfetta dell’amore è implicta, più o meno chiara, l’esigenza dell’unione fra i due amanti: nei figli, sostanzialmente; nell’atto che li genera, accidentalmente; sempre più unanimi e concordi nei pensieri e nelle azioni, psicologicamente. [145] Come è noto la giustizia è la virtù morale che dà a ciascuno il suo (dovuto): “io do una cosa a te e tu dai una cosa a me”. La carità è “dono di bene”, cioè è dare il bene anche a chi non può renderti altrettanto. Siccome da quando il Vangelo l’ha resa concetto comune dove il cristianesimo si è diffuso, occorre sottolineare un paio di aspetti della carità che sfuggono facilmente. L’amore attivo di carità è dono soltanto di bene: non è permissivismo (o collaborazione) anche del male: abbiam già detto che Socrate insegnava che fra malvagi non può esserci amicizia, perchè non possono (se non occasionalmente) fare gratuitamente del bene all’amico. In secondo luogo, non è che l’amore-carità dia sempre (il bene) gratuitamente: una vita di tale eroismo è di pochi; solitamente anche tra amici vige la legge della giustizia; ma è la disponibilità a donare gratuitamente, se càpita l’occasione, il bene, che crea sempre lo spirito d’amore-carità e, più o meno frequentemente, la donazione (anche della vita) di fatto. Tale ultima distinzione riguarda anche l’amore sessuale-coniugale-parentale; l’amore di fatto solo attivo è più facile si crei per motivi di fede religiosa che per motivo di amicizia o di amore sponsale (si pensi ai grandi santi). [146] Certo, anche il male (ma non quello sensitivo dell’oscenità od espressione dell’erotismo: lo abbiamo dimostrato nel nostro studio “Musica in parole, cit.) ed il falso possono destare emozioni ed essere espresse razionalmente in forme artistiche. Ma la famosa sentenza scolastica “Verum et bonum convertuntur” (si implicano e richiamano a vicenda) va forse completata come “Verum pulchrum et bonum convertuntur”: anche il bello è affine e intercambiabile con la verità e la bontà. Nel romanzo abbiamo della poesia che nasce dall’egoismo, che è sempre una forma di odio implicito, che attende l’occasione di venir esternato, come lascia sospettare p. Cristoforo, in una spiegazione a Renzo: “.. -tu sai perchè io porto quest’abito.- Renzo esitava. – Tu lo sai!- riprese il vecchio. –Lo so.- rispose Renzo. Ho odiato anch’io: io che t’ho ripreso per un pensiero, per una parola, l’uomo ch’io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso.- -Sì, ma un prepotente, uno di quelli...- -Zitto!- interruppe il frate: -credi tu che, se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah! s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l’uomo ch’io odiavo! S’io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!...-”. Ebbene, il romanzo pullula di motivi ispirati dall’odio, cioè da una forma più o meno grave di amore al male o di impotenza contro di esso. Dall’egoismo accidioso e pauroso di don Abbondio, a quello curioso, non rappacificato con il mancato matrimonio, di Perpetua; da quello supponente, gaudente e menzognero di Attilio, a quello pure libertino, ma anche prepotente fino al delitto, di Rodrigo ( quest’ultimo e il Griso si meritano la definizione di “fastidiosi ribaldi” nel c. 7); da quello ambizioso e vanitoso del conte zio anche vecchio, a quello ribelle e tirannico dell’innominato prima della conversione; da quello, frutto di oppressione altrui e di sensualità propria, in Maria Anna de Leyva, a quello dispotico fino alla violenza contro il suo sangue nel principe padre; da quello disperato e vile dei bravi, a quello venale e cinico dei monatti., è tutto un “un inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevizie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando” (Introduzione). [147]
Ripetiamolo: dopo neppure due secoli, nel
1814, Giuseppe Prina, in una situazione simile a quella di Melzi d’Eril
nel 1628, non riuscirà a salvarsi, perchè la popolazione era peggiorata al
punto da poter esprimere gentaglia come
Antonietta Fagnani Arese e suo marito,
ladri fino al delitto; e come il gruppo dei muratori da loro
assoldati, che eseguirono materialmente l’assassinio di colui che aveva
finanziato i loro acquisti all’asta, perchè impedito di farlo lui stesso
da una legge proba fino alla
prudenza. Lui aveva aggirato a proprio vantaggio la legge civile, fidandosi
di complici nella rapina; ma siccome non c’è amicizia tra malvagi,
l’avvocato Arese e la sua degna moglie avevano eliminato lui per tenersene
i beni, infischiandosi della legge divina. [148] Non si domandi l’efficacia dei suoi interventi per rendere economicamente redditizie le seicento pertiche di terreno di quella eredità Imbonati: sarebbe chiedere al Manzoni doti pratiche che egli era cosciente di non possedere in generale, ma che ignorava che tale mancanza si estendeva alla organizzazione di qualunque impresa pratica, anche quella agricola. [149] Ricito da l commento di Giovanni Titta Rosa alla edizione de I Promessi Sposi, Milano, Mursia, 1963, p. 856. [150] E’ la tarda estate (fine di agosto) del 1630. [151] In verità a noi quest’agiata mercanatessa non ha detto gran che, salvo che nello scambio di battute con don Abbondio, una volta che questi, sicuro della morte di don Rodrigo, si apre a note serene e scherzose. E’ naturale, allora, che la disinvoltura di una persona di città, affiatata volente o nolente con un certo grado di cultura, sia quella più disinvolta e chiaccherona con il parroco, che (finalmente, in un paesino di analfabeti) trova una persona, confratelli a parte, che sappiano usare le parole anche per gioco e allegria. La si veda in azione nel c. 38. Si sarebeb tentati di sentire come un po’ favolistico anche marchese erede di Rodrigo, che aiuta Renzo a passare da operaio- contadino a benestante, comprando a sovrapprezzo le possessioni di Renzo e di Agnese. Ma il marchese, con una sua psicologia ben definita (la tristezza per la famiglia disastrata dalla peste; la sua umiltà che si ferma di fronte al mettersi alla pari coi poveri, che invita a pranzo al castello, lasciandoli poi soli e ritirandosi a tavola con don Abbondio), gli dà una concretezza sufficiente per diventare verosimile e, quindi, accettabile in un romanzo quanto mai realista, come quello manzoniano. Che poi il salire nella classe sociale di Renzo, da operaio a imprenditore, da popolano a borghese, sia motivo di scandalo per i marxisti “doc”, è una conferma della bontà delal soluzione: il rammaricarsi di un simile successo è una conferma della assurdità della loro ideologia e della ragionevolezza di quanti la rifiutavano, anche prima del suo clamoroso fallimento nel 1989. [152] E’ causa di sorriso il ricordare che il Manzoni, volendo mettere in versi una condizone inevitabile a dar successo anche al prodotto letterario (la pubblicità), non si sovvenne d’altro paragone che di quello degli osti per la loro merce: “Vino non c’è cui non bisogni frasca:| autor che non annunzia non intasca”. [153] Inferno, 27, 123: il demonio a Guido da Montefeltro, consigliere fraudolento, illuso di poter essere assolto senza pentimento e proposito. Fra poco citeremo Inf. 22, 109: parole su Ciampolo di Navarra, barattiere in Malebolge. [154] Si sa che Manzoni credette essere quello il significato del nome tradizionale dato a quel forno in dialetto milanese (“el furnu di scansc”): in realtà, era la pronuncia dialettale del cognome dei proprietari antichi: Scanzi. [155] “Frullone” è il cassone in cui cade la farina setacciata dal buratto. “Gramola” è l’arnese che serviva a battere e rassodare la pasta. [156] Solecismo è errore di grammatica o di sintassi (dalla città di “Soli” dove se ne commettevano di frequente). [157] L’elogio equivoco è riferito all’avventore, che vuol spiegare il fatto che “tutti quelli che governano il mondo, voglian far entrare dappertutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria!...” in questa maniera comica: “La ragione è questa... che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano” (c. 14). [158] Un pigmeo, al confronto di don Ferrante, ma suo affine per esemplare acrisia nel tipo della erudizione sviluppata e del suo uso, ci pare il podestà di Lecco, quale si rivela al banchetto di don Rodrigo (c. 5). La sua cultura gli permette di ragionare a regola d’arte (“Risponda un poco a questo sillogismo... Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo...”); e sa citare i sacerdoti “feciali”, incaricati, con Numa Pompilio, di portare la dichiarazione di guerra , di trattare le paci, di stabilire alleanze (il conte Attilio non ha mai sentito un tale termine e lo traduce senz’altro in “ufiziali”: lui è uomo di cappa e spada, non di cultura). Ma a che pro, se tutta questa erudizione è messa a servizio della prassi ancora barbarica del duello, delle sfide, del punto d’onore? [159] Ironia per ironia, visto che è in argomento, le frecciate passano dal bersaglio “don Ferrante” alla dottrina stessa di Aristotile, di cui Manzoni trova modo di sottolineare alcuni punti meno semplici e meno trasparenti: e la accusa è tanto più comica, in quanto è messa in bocca ad un suo seguace informatissimo: “Del rimanente, quantunque, nel giudizio de’ dotti, don Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una volta disse, con gran modestia, che l’essenza, gli universali, l’anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere.” (c. 27). Dobbiamo aver già detto che nella mente del Manzoni agivano dei pregiudizi seminati in lui dalla cultura illumnistica, in cui si era formato fuori del curriculum scolastico: la conversione religiosa non aveva implicato anche quella filosofica (nè, d’altronde, quella politica), senza dire che egli non aveva letto direttamente Aristotile nè Tommaso. Anche il suo pensiero filosofico che riuscì a costruire con la coerenza che Romano Amerio ha dimostrato, si limita ai problemi riguardanti Dio, l’uomo, l’estetica, la morale ela politica, cioè i problemi esistenziali od umanistici, rifiutandosi di entrare in quelli ulteriori dell’essere in generale (ontologia o metafisica) e di quello sensibile (cosmologia): gli tornava tanto più facile sorridere delle proposte altrui su tali complicate tematiche, in quanto lui si dispensava dall’affrontarle. [160] A proposito, però, della “ingenuità” del procedere sillogistico vorrei far notare l’altra faccia dellamedaglia. D’accordo: la correttezza del ragionamento formale (sillogistico, appunto) non garantisce la verità del processo intellettuale, perchè condizione prima per la sua riuscita è la esattezza delle premesse (cioè dei contenuti di partenza): la clamorosa sciocchezza della dimostrazione donferrantesca sta proprio nel pretendere che le sostanze siano solo quattro (aria, fuoco, acqua, terra) e che i nostri sensi siano in grado di percepire tutte le sostanze esistenti. In concreto, egli ignora che i germi patogeni delle malattie infettive sono sostanze microscopiche, assolutamente al di là della percezione sensoria naturale, ma tragicamente reali. Il suo ragionamento pecca, dunque, per quel limite che tecnicamente si chiama “defectus elenchi”, cioè incompletezza dell’elenco dei dati in discussione. Questi limiti, però, non sono solo proprio del ragionamento sillogistico, ma di ogni ricerca, più o meno geniale od intuitiva: se si trascura un dato del processo, la conclusione sarà sempre più o meno errata. Val la pena di ricordare che anche A. Einstein, in un primo momento, non volle credere alla espansione dell’universo, non essendo specializzato nella spettrografia e ignorando, quindi il valore degli spostamenti delle componenti cromatiche nella fascia totale dello spettro. Ma il ragionare “in formis”, cioè per triadi sillogistiche, ha due vantaggi enormi: da una parte, la verità ottenuta (quando il ragionamento è esatto in tutto) diventa così lampante da essere immediatamente comunicabile con forza dimostrativa incomparabile; dall’altra, un errore del processo diventa facilmente visibile ed inmnediatamente identificabile: il caso di don Ferrante è solo un esempio. Viceversa, il procedimento per intuizioni sorprende e affascina, bensì, ma anche disorienta e fuorvia facilmente. A testimoniarlo bastano i libri di filosofia scritti almeno da Kant in poi: un bengala di intuizioni, inconfutabili solo perchè gratuite, cioè senza tentativi di dimostrazione. Si noti: “intuizione” (“visione”, in latino) è il vedere una verità come trasparente, evidente, non necessitante di un ragionamento per essere accettata; “ragionamento” è il raggiungere per “gradi” o “rationes” la verità, attraverso il passaggio dal collegamento fra due verità conosciute alla conclusione risultante, fino allora sconosciuta. [161] I fatti contro il Carmagnola sono elencati dal Manzoni nelle note storiche premesse alla tragedia: la liberazione dei prigonieri (varie migliaia) dopo la vittoria di Maclodio nel 1427 (era uso comune di guerra); l’essere caduto nell’inganno del castellano di Soncino, che finse voler consegnare la fortezza e, invece, riuscì a far prigionieri i veneziani andati a prelevarla: lo stesso Carmagnola si salvò a stento (1431); il non esser riuscito ad impedire la sconfitta della flotta veneziana sul Po, perchè trattenuto dalle truppe dello Sforza e del Piccinino, comandanti per i ducheschi di Milano (1431); l’aver fatto assalire Cremona senza riuscire a prenderla (il popolo si sollevò a stormo, quando già i veneziani vi erano penetrati). [162] Il “gran capitano” è Gonzalo Fernadez de Cordoba (noto come “Consalvo de C.” in Italia: vinse i francesi in battaglie decisive per la conquista del Napoletano (Cerignole, Seminara, Garigliano: 1503), dando inizio ad una dominazione spagnola che durerà due secoli, sino cioè alle paci di Utrecht e di Rastadt nel 1714. [163] Abbiamo già detto, al seguito di F. Nicolini, l’errore storico di Manzoni in proposito: don Gonzalo subì la guerra, voluta da Madrid, contro la sua opposizione. Facciamo anche notare che alla fin fine, sotto lo Spinola, Casale fu conquistata dagli Spagnoli, anche se poi i trattati di Ratisbona e Cherasco (1630 e 1631) la riasegnarono ai Gonzaga-Nevers, sostenuti dalla Francia. [164] In realtà egli ebbe ancora parte nella guerra dei Trenta anni, combattendo sia in Fiandra che nel Palatinato; ritornò in spagna nel 1534, morendovi l’anno dopo. [165] Inferno, 22, 109, già citato. [166] Veramente la frase del c. 11 è riferita a don Rodrigo, che stava pensando di far bandire Renzo dallo stato di Milano, attraverso qualche imbroglio del dottor Azzeccagarbugli. Ma essa va bene bene anche per il tristo proposito di Attilio. [167]
Vi possono essere dei punti di contatto fra Manzoni e d’Annunzio? Sì,
perchè anche Gabriele aveva un piccolo tesoro di poesia nel suo cuore e
risultava perciò, rispetto al Manzoni, tanto più “un cervello bizzarro e
un po’ balzano” in quanto nient’affatto
filosofo e tantomeno cristiano. Eccone dei punti di contatto: non fidarsi
delle banche e non fidarsi degli avvocati. Manzoni visse di prestiti da
parte di privati, dopo i debiti insolubili, contratti nel fallito tentativo
di arricchirsi con il farsi
editore della stampa definitiva
del romanzo. D’Annunzio spenderà sempre più soldi di quanti ne avesse a
disposizione, non avendo quindi alcuna occasione di deposiare soldi in
banca; e siccome aveva spesso bisogno di chiederne, preferiva anche lui il
ricorrere a case di prestito contro deposito di oggetti preziosi che non far
mutui presso i normali istituti di credito. Quanto ad avvocati, Manzoni ne
ebbe amico uno, Tommaso Grossi, fino ad ospitarlo in casa per vari anni, ma
preferì farsi proprio difensore in molte delle questioni che dovette
affrontare in tribunale [168] Anche il podestà di Lecco doveva essere un avvocato, vista la tradizione plurisecolare della laurea legata all’ufficio. Ma di lui come tale non si vede se non la complicità con i prepotenti signorotti (c. 5) e la distanza mantenuta all’arrivo del cardinal Federigo nel territorio di Lecco (“Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana anche lui, perchè, se non aveva i bravi, aveva i birri”: c. 25). [169] Luigi Pasteur aveva sistemato il processo di immunizzazione contro malattie infettive, attraverso la vaccinazione sistematica; ma, quanto alla cura di malattie ormai esplose, non aveva potuto far nulla neppure lui. Si ricordi, ad esempio, che fino alla metà del secolo XIX, il modo spiccio per abbassare la febbre di un ammalato consisteva nel salasso: la povera Enrichetta Blondel, moglie del Manzoni, fu aiutata a morire da una simile pretesa terapia: ammalata di etisia e bisognosa quanto mai di cibo sostanzioso, quando era assalita dalla febbre che accompagna il decorso dle morbo, veniva salassata, cioè debilitata e resa più esposta alla virulenza del microbo. Manzoni seguiva con interesse le nuove proposte mediche, sebbene sia caduto nell’errore di prendere sul serio metodi di diagnosi, come “il pendolino”, che risultavano, al più, indicatori di un certa carica elettrica ma, per il resto, erano parte della “stregoneria”, che procedeva per innovazioni ridicole se non rischiose. [170] Lo studio è del parroco descrive così l’opera dei medici: essi non entravano nel lazzaretto; non avevano contatto con gli appestati; si limitavano a fermarsi ad ognuna delle “degent’ottantotto” (c. 28) finestrelle e domandare notizie della febbre e dello stato generale di salute di ciascuno dei molti ospitati in ognuna delle stanzette che corrispondeva a cisascuna finestra. In base alle notizie date loro da monatti-infermieri, essi prescrivevano le cure! [171] La colpa era stata quella di aver calnmierato il prezzo del pane a un costo popolarissimo, ma ingiusto: “Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l’assedio sotto Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide , e chi non l’avrebbe visto? che l’essere il pane a un prezzo giusto è per sè una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo oordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così è chiamata qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatrè lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovanire, alterando la sua fede di battesimo” (. 12). [172] Nello stesso capitolo ventotto, Manzoni ricorda che fra i miserbali radunatisi a Milano in cerca di elemosin ve n’erano “Alcuni che, invase le terre e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n’eran di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere le loro provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale”. [173] Il “trattato di economia politica” era probabilmente l’opera di Melchiorre Gioia: “Nuovo prospetto delle scienze economiche” (1815). [174] Manzoni dice che si tratta di una conclusione giusta, “benchè trovata da povera gente”: in realtà egli ha ridotto ad un nocciolo minimo il profondo e complesso significato della vicenda, sia per una scrupolosa forma di umiltà, sia per non concludere il romanzo con un trattato critico-morale, memore che “di libri ne basta uno per volta” (Introduzione). [175] Siccome i versi già altamente poetici del carme In nmorte di Carlo Imbonati sono ispirati saldanmente all’ideale di una forte, anche se parziale, moralità, mentre prescindono totalmente dalla fede religiosa (Manzoni era ben lontano dalla conversione!), si può essere tentati di domandarsi se la più profonda vena poetica del Manzoni non sia piuttosto quella morale che quella religiosa; e se, di conseguenza, anche senza la conversione, egli non sarebbe riuscito ugualmente il sommo poeta che diventò. La risposta ci pare duplice. Anzitutto la religione è un’attività morale e, più precisamente, l’espressione suprema della giustizia, quella appunto verso Dio. In secondo luogo, la religione, per la concreta situazione dell’uomo che la rivelazione biblica attribuisce al peccato roiginale, non è solo la moralità più alta, ma anche l’inizio e la condizione di ogni moralità perfetta. Ne discende che, senza la conversione, la ispirazione moralistica del manzoni sarebbe rimasta senza quella completezza ed ordine che solo permette l’inquadranento in essa di ogni altro motivo ispiratore e, quindi, la celebrazione o condanna, per essa, di tutte le più diverse situazioni della umana esistenza. No, senza la conversione, Manzoni non sarebbe stato che un poeta “disperso”, con sprazzi di poesia altissima, ma slegati fra loro e quasi acefali: come le rime del Carducci. Gli sarebbe mancata l’aureola dell’ispirazione universalmente umana, che affronta e risolve i problemi più profondi della esistenza con coerenza radicale e spazzante. Avrebbe potuto darci altri versi grandi come quelli del primo coro dell’Adelchi (“Dagli atri muscosi, dai fori cadenti...”), che prescindono persino da un problema propriamente morale e si ispirano soltanto al patriottismo: senza il livello, però, della ispirazione più alta. Avremmo avuto, ripetiamolo, una specie di Carducci, grande ma dispersivo; non un poeta da accostare a Dante e Shakespeare, Goethe e Virgilio, Foscolo e Omero, Eschilo e Sofocle. E’ notevole infatti che tutti i più grandi poeti si siano ispirati alla problematica etico-religiosa della vita e storia umana, quasi presagendo che altrimenti i loro versi sarebbero stati, presto o tardi, sentiti come “full of sound and fury, signifying nothing” (Macbeth, V, 5), come quelli dell’Ariosto e del Marino. Ma si noti, anche, la costatazione opposta: se senza il legame religioso, la poesia del Manzoni rimarrebbe frammentaria, senza la componente morale i versi di Manzoni non risultano sublimi: i primi quattro Inni sacri sono bensì buona poesia, ma non sublime. Carducci faceva male a “gettarli dalla finestra” (“Le risorse di San Miniato”), ma si deve riconoscere che solo quando, nella Pentecoste, Manzoni riesce ad alleare l’ispirazione religiosa a quella etica (le due pericopi di preghiere per ogni genere di condizione umana), giunge a superare li genere “sacro” e ad approdare a quella grandiosità che è commozione ed estasi, epopea, elegia ed idillio fusi assieme. [176] Va notato, infatti, che solo la Provvidenza particolare per il popolo eletto, garantisce il rapporto delitto e castigo| virtù e premio quaggiù in terra: non è una legge naturale, ma soprannaturale quella che permea la storia sacra dell’Antico Testamento. [177] Che la Provvidenza manzoniana non realizzi qui in terra la giustizia (concezione “eudemonologica”), non siamo noi i primi a dirlo: si veda l’edizione delle Osservazioni sulla morale cattolica, curata da Romano Amerio, nel terzo volume (“Studio delle dottrine”), Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, pp. 169-187: ivi sono riprese conclusioni già dedotte da Michele Barbi (Annali manzoniani, II, 87-8) e fatte proprie da Umberto Bosco (Giudice Bruni.????????...). [178] La moglie Antonietta e la figlia Matilde svengono al rumore dei carcerieri che vengono a portare alla decapitazione il conte. [179] Il conte di Carmagnola, coro, vv. 90-2. Più sotto, id. vv. 113-20. [180] Adelchi, atto IV, coro, vv. 97-108. [181] Questo tema della Provvidenza nei Promessi Sposi, è stato studiato da Umberto Colombo, nel suo scritto “Invito al mondo della cantafavola”. Manzoni chiamava “cantafavola” e peggio il suo romanzo: vedi ad esempio la lettera ad Alfonso Casanova. [182] Don Rodrigo, accortosi del fallimento, accoglie il Griso (che gli compare dinanzi “con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso”) con rimproveri e peggio: “ebbene –gli disse o gli gridò:- signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame? (c. 11). [183] Ricitiamo dalle Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di Romano Amerio, Milano. Napolki, Ricciardi, 1966, vol. III, Studio delle dottrine, p. 183, n. 2 [184] Altri accenni sono rintracciabili spesso nel racconto. Padre Cristoforo nel c. 5 si rivolge a Lucia ed Agnese con le parole: “Dio vi ha visitate”, dopo aver esclamato, in un impulso tutto umano di impazienza di fronte ai tempi lunghi, imprevedibili della Provvidenza "“ Dio benedetto! fino a quando!...”. Ed a Renzo che stava cercando amici per toglier di mezzo don Rodrigo con l’assassinio, egli , dopo il rimprovero adeguato, chiede con forza: “Renzo, vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio?”. E quando, nel c. 19, riceve l’ubbidienza inaspettata di portarsi a Rimini, “Renzo, Lucia, Agnese gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sè: -oh Dio! che faranno que’ meschni, quando io non sarò più qui?-. Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’aver mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualcosa”. Nel c. 8 , dopo aver organizzato la fuga dei tre perseguitati, egli conclude “Dio vi guardi, il suo angelo vi accompagni”. Il cardinal Federigo alle paure di don Abbondio (“bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino”) risponde: “Il Signore è sempre vicino”. Padre Felice Casati, nel c. 36, non esita ad insegnare ai pochi guariti dalla peste, che si avviavano alla “quarantena” : “Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, bendetto nella misericordia! benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto fare di noi! Oh! perchè l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi?...”. Padre Cristoforo, appena vista Lucia al lazzaretto, la saluta così: “Ebbene, Lucia! da quante angustie v’ha liberata il Signore! Dovete esser ben contenta d’aver sempre sperato in Lui.” Sono parole che riecheggiano quelle del cardinal Federigo al c. 24: “Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v’ha anche fatto vedere che non aveva levato l’occhio da voi, che non v’aveva dimenticata. V’ha rimessa in salvo; e s’è servito di voi per una gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo”. [185] Non ci sovviene che altri prima di Manzoni abbia insinuato con tanta evidenza un simile congiungimento di vicende psicologiche, senza spendervi una parola per segnalarne esplicitamente la dipendenza di causa ad effetto. Lo imiterà il Fogazzaro nella tacita connessione fra la preghiera di Franco per la moglie, nella chiesa di S. Francesco di Paola, a Torino e il superamento del fascino del suicidio in Luisa, dopo la morte della figlia Ombretta-Maria (“Piccolo mondo antico”, p. 3, c. 1): ma la connessione è troppo marcata e le circostanze della preghiera hanno qualcosa di romanticamente soprasensibile, quasi mistiche, che non riescono gran che artistiche. [186] Questi altri rimandi li troviamo già studiati da U. Colombo, che perciò seguiamo senz’altro. Aprile 1814 (vv. 56-65: “Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto,| che a ragion si rallegra il popol nostro”); Il proclama di Rimini (nei vv. 37-51: vi si anticipa rispetto a Marzo 1821 ed al coro del Carmagnola, il concetto della Provvidenza che sembra abbandonare un popolo allo strazio di gente straniera, ma alla fine lo richiama a libertà, come già fece col popolo ebraico, suscitando Mosè o la “maschia Giaéle”); Marzo 1821 (vv. 57-72); Il cinque maggio (vv. 105-6: “Il Dio che atterra e suscita,| che affanna e che consola”); Il conte di Carmagnola (coro, vv. 113-120); Adelchi (II, 167: il diacono Martino spiega il modo sorprendente con cui ha attraversato le Alpi ed ha raggiunto il campo di Carlo Magno: “Dio gli accecò, Dio mi guidò”; id. 257-60: “e vidi... oh !vidi| le tende d’Israello, i sospirati| padiglion di Giacobbe: al suol prostrato,| Dio ringraziai, li benedissi e scesi”. L’imperatore Carlo commenta così: “ Empio colui che non vorrà la destra| qui riconoscer dell’Eccelso!” Cui fa eco il diacono: “E quanto| più manifesta apparirà nell’opra,| a cui l’Eccelso ti destina!”; id. III, 98-102: Anfrido conforta Adelchi, tanto nobile di sentimenti, quanto infelice nelle riuscite: “Soffri e sii grande: il tuo destino è questo,| finor: soffri, ma spera: il tuo gran corso| comincia appena;| e chi sa dir, quai tempi,| quali opre il cielo ti preparara? il cielo| che re ti fece, ed un tal cor ti diede”; id. V, 139-41: “Decisa ha il cielo| la nostra contesa; e più non resta| di che garrir...”; ib, 182-4; 187-92); Opere inedite o rare, vol. II, p. 207 (“La Providence m’ordonne de faire le bien que je puis, et règle le tout selon Ses lois”); Osservazioni sulla morale cattolica, Appendice al c. III, -Del sistema che fonda la morale sull’utilità- (“Levata dal conto –di questa vita- la vita futura, non c’è il verso di raccoglierlo”); Dialogo dell’Invenzione (“C’è egli bisogno di dimostrare, d’insegnare alla massima parte degli uomini, che la giustizia è una cosa diversa dall’utilità, e indipendente da essa? Quando Aristide disse al popolo ateniese, che il progetto comunicatogli all’orecchio da Temistocle, era utile ma non giusto, fu inteso da tutti: sarebbe stato inteso ugualmente da qualunque moltitudine, in qualunque tempo. E sapete il perchè? Perchè l’intelletto intuisce l’idea di giustizia e l’idea d’utilità, come aventi ognuna una sua essenza, una verità sua propria, e quindi come distinte, come inconfusibili, come due. La moltitudine poi “che apprese a creder nel Figliuol del fabro” sa, o piuttosto queste tante e così varie moltitudini sanno di più -e lo dicono a ogni occasione, non in termini, ma implicitamente- che quelle due verità, quantunque distinte, si trovano, appunto perchè verità, riunite in una verità comune e suprema; sanno che, per conseguenza, non possonoi trovarsi in contradizione tra di loro; e riguarderebbero come stoltezza, non meno che come empietà, il pensare che la giustizia possa essere veramente e finalmente dannosa, l’ingiustizia, veramente e finalmente utile. E sanno ancora che non solo queste due verità distinte sono legate tra di loro, ma una di esse dipende dall’altra, cioè che l’utilità non può derivare se non dalla giustizia. Ma sanno insieme, che questa riunione finale non si compisce se non in un ordine universalissimo, il quale abbraccia la serie intera e il nesso di tutti gli effetti che sono e che saranno prodotti da ogni azione e da ogni avvenimento, e comprende il tempo e l’eternità. E dico che lo sanno, perchè quest’ordine ha un nome che ripetono e che applicano a proposito ogni momento: la Provvidenza”). [187] La distinzione tra posizione filosofica e poetica del Manzoni, nei Promessi sposi, è già in R. Amerio, o. c. III, 185-6, che cita Michele Barbi, cui va aggiunto Umberto Bosco. [188] Fattori di questa “avvedutezza” che appiana l’eccesso di fantasticità, ci sembrano questi due: non solo è studiata la differenza fra Renzo, Lucia, don Abbondio, da una parte (prendon la peste ma ne guariscono) ed Agnese-Bortolo, dall’altra (schivano la peste), ma la differenza è coerente con il temperamento dei cinque personaggi: immediati e lineari nelle loro decisioni (candidi e impulsivi, si potrebbe dire) sono i primi tre che, quindi, è ovvio caschino nel contagio; avveduti, furbi, prudenti al sommo sono gli altri due (che, quindi, se la scapolano fuori). Entrambi gli accorgimenti rendono più verosimile una peripezia... troppo favorevole ai buoni! [189] Li riportiamo, completandoli con quelli precedenti: “Gioja il suo dir mi porse, e non ignota| bile destommi; e replicai: -Deh! vogli| la via segnarmi, onde toccar la cima| io possa, o far, che s’io cadrò su l’erta| dicasi almen: su l’orma propria ei giace.| -Sentir- riprese- e meditar; di poco| esser contento: da la meta mai| non torcer gli occhi, conservar la mano| pura e la mente: de le umane cose| tanto sperimentar, quanto ti basti| per non curarle: non ti far mai servo;| non far tregua coi vili: il santo Vero| mai non tradir: nè profferir mai verbo,| che plauda al vizio, o la virtù derida” [190] Della grande poesia, dopo la conversione,.che eviti il problema etico-religioso, abbiamo praticamente solo il primo coro dell’Adelchi (tema socio-politico e patriottico). Abbiamo, poi, delle composizioni o scherzose (L’ira di Apollo, Il canto XVI del Tasso, ) od occasionali (Volucres) che ne prescindono, ma si tratta di cose minori. [191] Ne Il nome di Maria si può intravedere la funzione singolarissima della madre di Cristo per la salvezza dell’umanità negli ultimissimi versi (“...o Stella ai periglianti scampo,| inclita come il sol, terribile come| oste schierata in campo”), ma la poesia è quasi tutta una testimonianza della realizzazione della profezia proferita da Maria nel canto del Magnificat (“d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”), con solo poco spazio concesso ai benefici psicologici e fisici della intercessione di Lei per i suoi figli spirituali. [192] “Tu” è la Fede, che ha riportato Napoleone sulla via del rimorso e dellla conversione. [193] Si potrebbe anche avanzare l’ipotesi che la terza tragedia, “Spartaco” (per la quale ha lasciato la collezione dei passi storiografici che la riguardano, ricavandoli dai “Frammenti” di Sesto Tullio Frontino, con la delineazione di tutti i movimenti dell’esercito dei gladiatori nel corso del loro “bellum servile” che si svolse fra il 73 ed il 71 a. C.; e per la quale preprarò una stesura in sei parti di tutto il materiale scelto per la composizione della tragedia) non giunse a maturazione, proprio per un groviglio morale praticamente insolubile. Difatti, alla chiara giustizia generica della ribellione di questi schiavi, destinati altrimenti a divertire il popolo romano uccidendosi tra di loro, non corrispondeva la giustizia del loro caso concreto: la lotta era perduta in partenza ed era quindi illecito moltiplicare inutilmente il numero dei morti su entrambi i fronti (ai gladiatori si erano uniti moltissimi semplici schiavi, non destinati necessariamente alla morte, anche se teoricamente anch’essi nella condizione di combattere, per la libertà personale, una guerra prevedibile come vittoriosa, senza danni superiori a quelli da difendere o rivendicare). [194] Ha dunque torto Giovita Scalvini a parlare di ??????????????????????? [195] “Sommamente importante” è il giudizio sul dolore nella vita, perchè noi temiamo e fuggiamo più la sofferenza di quanto desideriamo e cerchiamo il piacere, tanto che la morfina finisce per avere il sopravvento sulla eroina nei tossicodipendenti. Addirittura la nostra vita fisica è tutta “dolore medicato”, perchè solo la produzione di endorfine da parte dell’organismo tacita in noi la pena, la fatica, il dolore di ogni minima attività, compresa quella della respirazione e del battito cardiaco!. [196] La distinzione fra “deboli” e “malvagi” la possiamo apprendere da Perpetua mentre difende don Abbondio contro l’incalzare delle domande di Renzo: “il mio padrone non vuol far torto nè a voi nè a nessuno: e lui non ci ha colpa.... Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, de’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...” (c. 2). I “deboli sono dei vili e fanno il male per paura, non per amore del male. Li chiameremo anche “mediocri”, come si deve esser già fatto altra volta. [197] I tre punti su cui Manzoni non ci sembra necessariamente condivisibile nella problematica o sentenziosità morale sono i seguenti. Al c. 1, il linguaggio di Perpetua nel battibecco con don Abbondio, rischia la volgarità, che è impedita dall’intervento inibitorio del padrone (“... e appunto perchè lei non vuol mai dir la sua ragione, siamo ridotti a segno che tutti, vengono, con licenza, a..” –Volete tacere?- Io taccio subito; ma è certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calare le..” – Volete tacere? E’ tempo ora di dire queste baggianate?”). Ora, che un romanzo realista si permetta simili attentati di volgarità, è coerente e può avere, in un contesto dantesco ed infernale, la sua redenzione artistica; ma che a Manzoni non convengano simili sfagli, ce lo dice il caso di scrupolosità morale del capitolo sesto. Ivi, parlando del servitore che si era soffermato alla porta ad origliare, testimone dello scontro fra don Rodrigo e padre Cristoforo, Manzoni si domanda: “Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti, ma che il lettore risolverà da sè, se ne ha voglia. Noi non intendiamo dar giudizi: ci basta d’aver de’ fatti da raccontare”. Orbene, se le parole conclusive tendono a riportare lo scrittore verso la mentalità e lo stile naturalsita, il solo fatto di porsi la domanda è indizio che in lui la preoccupazione morale è così vivace, che affiora anche là dove non ce ne sarebbe proprio motivo (come in questo caso): non si capisce perchè si faccia un problema per un principio di moralità solo strumentale (i grado secondario), superabile in caso di necessità come la regola del pudore è superata nel caso del matrimonio non solo, ma anche della salute (visite mediche, operazioni chirurgiche, necessità di salvataggio in pericoli estremi, in cui i vestiti siano d’impaccio al nuoto...). Manzoni non era così esperto di scienza morale da conoscere o riconoscere i diversi livelli di obbligazione morale e, quindi, la subordinazione del grado di moralità inferiore ad esigenze di ordine morale superiore. Solo le regole di moralità primaria (non bestemmiare, non uccidere l’innocente, non odiare, non usare l’erotismo fuori del matrimonio...) è insuperabile. Si può vedere in proposito il nostro libro RAGIONE, RELIGIONE, MORALE, Menaggio e Milano (NED), 1989, II, pp. 113-6; 121-30; 133-8 (parte V, cc. 4 e 5). Il terzo caso, nel c. 33, è molto meno grave in sè ed alleggerito ancor più per una vena di comicità umoristica che avvolge la figura di Bortolo che, della dichiarazione di volontà realistica, è l’oggetto. Si tratta di questo: Bortolo ha appoggiato Renzo presso un diverso filatoio di seta, trovando il modo di cambiargli anche il nome, perchè lo sa oggetto di ricerca da parte del magistrato di Venezia, su pressione di don Gonzalo, governatore di Milano. Ma una volta che Venzia e Milano (la Spagna) han rotto le relazioni diplomatiche perchè Venezia voleva approfittare del cattivo andamento della guerra del Monferrato per annettersi qualche altro territorio della Lombardia, “Bortolo s’era dato premura d’andarlo a prendere, e di tenerlo ancora con sè, e perchè gli voleva bene, e perchè Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penan in mano. Siccome anche questa ragione c’era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla. Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo”. La battuta finale (ci pare) vuol costatare, senza scandalizzarsene troppo, la complessa motivazione del più solito agire umano, che consta quasi sempre di una spinta disinteressata e di una componente utilitaria (il che equivale spesso ad “egoistica”) e vuol quindi sorridere maliziosamente (ma anche compassionevolmente) sulla umana condizione di essere e di agire. Ma nella misura in cui la snobbatura del lettore, che esige nelle persone una moralità disincarnata, fosse sincera, avremmo un ultimo caso di Manzoni che rifiuta un giudizio morale ed accetta l’attività umana comunque sia, senza esercitarvi il senso critico della distinzione fra malizia, bontà, mediocrità, ecc. Il che, ripetiamolo, è contario alla coscienza del Manzoni (ricordiamo: “ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero”). [198] E, giova richiamarlo, moltissime notazioni morali del romanzo testimoniano anche della acutezza di penetrazione psicologica del Manzoni, una delle grandissime attrattive (anche se minore rispetto al fascino artistico) del capolavoro. [199] Ecco le parole del Manzoni: “Gertrude domandò sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare del fallo di Geltrude...”. L’espressione “sospensione molto penosa” è usata dal Manzoni stesso per esprimere l’ansia del principe nel tempo del colloquio della figlia con il vicario moniale, che era l’esame di vocazione praticamente definitivo per la monacazione di Virginia-Geltrude. [200] Anche il card. Federigo rimprovera direttamente l’innominato, ma lo fa con la delicatezza paterna: “Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno...”: c. 23). [201] Gli “apparitori” annunciavano, col suono di un campanello, l’arrivo dei monatti e dei carri coi cadaveri o malati o robe infette. [202] Di mediocri è zeppo il romanzo, perchè è piena la società. Dai governatori, che fan le gride e non sanno farle rispettare, al piccolo Menico, che cerca di avere la ricompensa prima di aver fatto il servizio; da Tonio, che non vuol vedere alcun problema morale nel matrimonio di sorpresa e pensa soltanto a risolvere alla meno peggio il problema dell’appetito, a Perpetua, che vuol sostenere ad ogni costo la volontarietà del suo stato nubile e pensa a difendere il proprio padrone più che la verità, di fronte a Renzo (oltre tutto, senza riuscirci); dagli osti, pressochè costretti dal mestiere ad una imparzialità di giudizio che rischia di diventare scetticismo intellettuale e cinisno morale; da don Ferrer che cede alla pressione della folla e stabilisce un prezzo al pane che è contro la giustizia rispetto ai costi della farina, alla indecisione delle autorità amministrative milanesi sulle prescrizioni contro l’ingrresso in città di individui eventualmente portatori di peste; dai giudici nel processo contro Gian Giacomo Morra sino alla più parte degli imputati, che, credendo liberarsi dalla condanna a morte o almeno dalla tortura, accusano altri innocenti (eccetto l’eroico Guglielmo Piazza); dagli umili fraticelli cappuccini Galdino e Fazio, che vivono nella sicurezza del loro piccolo mondo, sereni e ignari del grande dolore che passa loro vicino, al padre provinciale, che sacrifica padre Cristoforo alla protezione dei potenti o forse soltanto al quieto vivere con essi, senza indagare quali innocenti il confratello proteggeva e, partendo, lasciava scoperti alla mercè della tirannia più iniqua.... E il console del villaggio di Renzo e Lucia (c. 8)? Ed i compaesani, che credono presto alla notizia che li libera da un impegno pericoloso, come l’inseguimento del Griso e dei suoi bravi (id.); e, poi, si offrono a custodire la casa di Agnese, quando il lupo che la minacciava è assente (c. 25)? Insomma, il mondo è composto da pochi uomini del bene, da un maggior numero di uomini malvagi e da una massa di ominicchi, ruffiani e quacquracquà, come Manzoni ci ha insegnato, analizzando l’anima della folla nel capitolo tredicesimo. [203] Non è che a Renzo fosse moralmente illecito almanaccare, in astratto, di togliere di mezzo don Rodrigo: la offesa permetteva una difesa adeguata che, nel caso, difficilmente avrebbe potuto esser altro che la uccisione del prepotente. Ma a Renzo tale proposito era illecito per due motivi: primo, perchè il nemico era così potente, che attentarne la vita significava quasi soltanto perdere al propria; in secondo luogo perchè (come egli si figura molto bene nel c. 7, quando parla “dei tre salti” con cui può raggiungere il territorio veneziano dopo l’assassinio), l’uccisione non sarebbe servita a fargli sposare Lucia, ma ad esporlo alla pena di morte in Lombardia od all’esilio perpetuo nel Veneto. In questo caso, non si tratterebbe di legittima difesa, ma di pura, inutile vendetta: si tratterebbe di odio, non di difesa dei propri diritti. [204] La prima frase è l’interpretazione che della vita umana danno gli uccelli, il cui linguaggio Elsa Morante finge sia compreso dall’ipersensibile (ed epilettico) ‘Useppe, nel romanzo “La storia” (Einaudi, 1974); la seconda interpretazione è di padre Pio, alla figlia spirituale Antonietta Vona, nella lettera del 4 giugno 1918: v. Padre Pio da Pietrelcina, Epistolario, San Giovanni Rotondo, Edizioni “p. P. da P.”, 1977, III, p. 862. [205] Ha torto, quindi, Antonio Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 72-78) ad attribuire l’origine del sorriso manzoniano alla volonmtà di snobbare gli umili, quasi in un sussulto illuministico di disprezzo per i poveri. No, il riso di Manzoni ha una sorgente del tutto religiosa; si base cioè sulla poca incidenza del male tentato o addirittura sulla speranza di conversione del debole in colpa. Pel resto, i piccoli come Renzo ubriaco, come Perpetua ingenua, come i monatti depravati; od i grandi come i governatori e le loro inutili gride, il conte zio, il nipote Attilio, Ferrer e la “coppia d’alto affare” (don Ferrante e donna Prassede), tutti sono presi di mira, per condannarli quasi sempre amabilmente, per aiutarli fraternamente (si direbbe) a convertirsi: ironia benevola, umorismo amichevole, proprio nello spirito della migliore commedia “ridendo castigat mores” (corregge i costumi col ridere). Ma, una volta letta la “Letteratura e vita nazionale” val la pena di preoccuparsi delle impressioni e convinzioni del suo autore? Onore a lui per la coerenza nelle idee, che gli han fatto sopportare il carcere fascista e, probabilmente, hanno accelerato la sua morte, ma non confondiamo le cose: la mediocrità del suo potere di analisi critica è tale, da indirre a rifiutare a priori le dottrrine, qualunque fossero, cui aderiva! [206] Non ci pare sia da accettare la proposta di Lugi Russo (I P. S., commento critico, Firenbze, La nuova Italia, 1960), che parla di armonia delle emozioni, nel senso che il Manzoni volutamente si asterrebbe dall’esprimere quelle più altisonanti (tragedia ed epopea) e, quando le esprime, dal soffermarcisi sopra troppo a lungo. Mi pare invece che Manzoni affonda la sua emozione anche in scene di altissimo dramma e di lunghezza fissata dall’oggettiva necessitàà della logica del fatto, non da intenzioni moderatrici dell’autore (ad esempio, nel c. 6, il colloquio tempestoso con don Rodrigo); quanto all’epopea, ne vedremo qualche caso: pochissimi, ma perchè il romanzo è così prevalentemente drammatico, da non lasciar spazio per esultanza e celebrazioni festose. Quanto all’apertura del romanzo (Quel ramo del lago di Como.... e orna vie più il magnifico de l’altre vedute”), essa è modestamente bella e la si legge volentieri solo perchè appartiene al capolavoro (dove è una delle poche pagine al di sotto della grandezza poetica): Ma che Manzoni abbia voluto incominciare in “tono minore” volontariamente, non ce lo fa credere nè l’autorità del Russo nè di qualunque cattedratico: stiamo sicuri che se a Manzoni fosse riuscita una pagina più emotivamente profonda, l’avrebbe scritta. Ma tale inizio in sordina, si ripete anche nelle liriche, dal Natale alla stessa Pentecoste: gli è che Manzoni, come moltissimi poeti (se non tutti: si pensi al poco valore lirico del primo canto dell?inferno dantesco) ha bisogno di qualche momento di “rodaggio” del motivo ispiratore, di un tempo di riscaldamento della fantasia, di un processo di crescita nella partecipazione affettiva alle idee ispiratrici. Gli inizi sono spesso scialbi: involontariamente tali! [207] Attilio Momigliano, ebreo ma non credente, non poteva parlare di “Provvidenza o di volere divino”. [208] “Come la luce rapida| piove di cosa in cosa,| e i color vari suscita| dovunque si riposa...”; “i doni tuoi, benefica,| nutra la tua virtude;| siccome il sol che schiude| dal pigro germe il fior;|| che lento poi sull’umili| erbe morrà non colto,| nè sorgerà coi fulgidi| color del lembo sciolto,| se fuso a lui nell’etere| non tornerà quel mite| lume, dator di vite,| e infaticato altòr”. [209] Ecco i vv. 37-48: “E i vegliardi che ai casti pensieri| della tomba già schiudon la mente,| chè non tentan la turba furente| con prudenti parole placar?|| Come assiso talvolta il villano| sulla porta del cheto abituro,| segna il nembo che scende lontano| sopra i campi che arati non ha;| così udresti ciascun che sicuro| vede lungi le armate coorti,| raccontar le migliaia di morti,| e la piéta de l’arse città.”. Ed i vv. 65-68: “Come il grano lanciato dal pieno| ventilabro nell’aria si spande;| tale intorno per l’ampio terreno| si sparpagliano i vinti guerrier”. [210] “Come rugiada al cespite| dell’erba inaridita,| fresca negli arsi calami| fa rifluir la vita,| che verdi ancor risorgono| nel temperato albor;|| tale al pensier, cui l’empia| virtù d’amor fatica,|discende il refrigerio| d’una parola amica,| e il cor diverte ai placidi| gaudii d’un altro amor.” I versi finali (115-20: li riporteremo presto) ci sembrano colorati di tenerezza, non riuscendo a scuotersi del tutto la elegia che, più evidentemente, nei versi precedenti si mescola all’idillio. [211] “Non tirava un alito di vento; il lago giaceva lisccio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiare leggiero della luna, che vi si specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti e vi si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido.” [212] Dal c. 7: “C’era in fatti quel brulichio, quel ronzio che si sente in un villaggio, sulla sera, e che dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini,e tenendo per mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le devozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le poevere cene: si sentivano i tocchi misurati della campana, che annunziava il finir del giorno”. Dal c. 35: “Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come nel piccol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra materassine, o guanciali, o lenzuoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d’innocenti, quale il luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo o quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito con un senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt’e due”. [213] “O Dio pietoso, tu le involi a questo| crudel momento; io ti ringrazio. Amico,| tu le soccorri, a questo infausto loco| le togli; e quando rivedran la luce| di lor... che nulla da temer più resta”. [214] Vv. 1-24: “Sparsa le trecce morbide |sull’affannoso petto,| lenta le palme e rorida| di morte il bianco aspetto,| giace la pia, col tremolo| sguardo cercando il ciel.|| Cessa il compianto: unanime| s’innalza una preghiera:| calata in su la gelida| fronte, una man leggiera| sulla pupilla cerula| stende l’estremo vel.|| Sgombra, o gentil, dall’ansia| mente i terrestri ardori;| leva allì’Eterno un candido| pensier d’offerta, e muori:| fuor della vita è il termine| del lungo tuo martìr.| Tal della mesta, immobile,| era quaggiuso il fato:| sempre un obblio di chiedere| che le saria negato;| e al Dio de’ santi ascendere,| santa del suo patìr”. Vv. 90-6: “Sgombra, o gentil, dall’ansia| mente i terrestri ardori;| leva all’Eterno un candido| pensier d’offerta, e muori:| nel suol che dee la tenera| tua spoglia ricoprir,|| altre infelici dormono,| che il duol consunse; orbate| spose dal brando, e vergini| indarno fidanzate;| madri che i nati videro| trafitti impallidir.” [215] “Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non un indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più nè un gelso , nè una vite, nè altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suiscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell’orazioni per i morti”. [216] “ Noi T’imploriam! Ne’ languidi| pensier dell’infelice| scendi piacevol laito,| aura consolatrice:| scendi bufera ai tumidi| pensier del violento;| vi spira uno sgomento| che insegni la pietà.|| Per te sollevi il povero| al ciel, ch’è suo, le ciglia,| volga i lamenti in giubilo,| pensando a cui somiglia:| cui fu donato in copia,| doni con volto amico,| con quel tacer pudìco,| che accetto il don ti fa.|| Spira de’ nostri bamboli| nell’ineffabil riso;| spargi la casta porpora| alle donzelle in viso;| manda alle ascose vergini| le pure gioie ascose;| consacra delle spose| il verecondo amor.|| Tempra de’ baldi giovani| il confidente ingegno;| reggi il virìl proposito| ad infallibil segno;| adorna le canizie| di liete voglie sante;| brilla nel guardo errante| di chi sperando muor”. [217] Ecco i vv. 25-30; 37-54; 79-84: “Dall’Alpi alle Piramidi,| dal Manzanarre al Reno,| di quel securo il fulmine| tenea dietro al baleno;| scoppiò da Scilla al Tanai,| dall’uno all’altro mar.||... La procellosa e trepida| gioia d’un gran disegno,| l’ansia di un cuor che indocile| serve pensando al regno;| e il giunge, e tiene in premio| ch’era follia sperar;|| tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio,| la fuga e la vittoria,| la reggia e il triste esilio:| due volte nella polvere,| due volte sugli altar.|| Ei si nomò: due secoli| l’un contro l’altro armato,| sommessi a lui si volsero,| come aspettando il fato;| ei fe’ silenzio, ed arbitro| s’assise in mezzo a lor.|| .... E ripensò le mobili| tende, e i percossi valli,| e il lampo de’ manipoli,| e l’onda dei cavalli,| e il concitato imperio,| e il celere obbedir....” [218] “Soffermati sull’arida sponda,| volti i guardi al varcato Ticino,| tutti assorti nel nuovo destino,| certi in cor dell’antica virtù,| han giurato: Non fia che quest’onda| scorra più tra due rive straniere:| non fia loco ove sorgano barriere| tra l’Italia e l’Italia, mai più!|| L’han giurato: altri forti a quel giuro| rispondean da fraterne cointrade,| affilando ne l’ombra le spade| che or levate scintillano al sol.| Già le destre hanno strette le destre;| già le sacre parole son porte:| o compagni sul letto di morte,| o fratelli su libero suol.||... “O stranieri, nel proprio retaggio| torna Italia, e il suo suolo riprende;| o stranieri, strappate le tende| da una terra che madre non v’è.| Non vedete che tutta si scote| dal Cenisio alla balza di Scilla?| Non sentite che infida vacilla| sotto il peso de’ barbari piè?”. [219] “S’ode a destra uno squillo di tromba;| a sinistra risponde uno squillo:| d’ambo i lati calpesto rimbomba| di cavalli e di fanti il terren.| Quinci spunta per l’aria un vessillo;| quindi un altro s’avanza spiegato:| ecco appare un drappello schierato;| ecco un altro che incontro gli vien.|| Già di mezzo è sparito il terreno;| già le spade respingon le spade; | l’un dell’altro le immerge nel seno;| gronda il sangue; raddoppia il ferir....||... Un corriero è salitoin arcioni;| prende un foglio, il ripone, s’avvia,| sferza, sprona, divora la via;| ogni villa si desta al rumor....” [220] Dopo 5 strofe drammatico-tragiche, eccone altre cinque volgenti all’epopea: “Udite! Quei forti che tengono il campo,| che ai vostri tiranni precludon lo scampo,| son giunti da lunge, per aspri sentier|: sospeser le gioie dei prandi festosi,| assursero in fretta dai blandi riposi,| chiamati repente da squillo guerrier.|| Lasciar nelle sale del tetto natio| le donne accorate, tornanti all’addio,| a preghi e consigli che il pianto troncò:| han carca la fronte de’ pesti cimieri,| han poste le selle sui bruni corsieri,| volaron sul ponte che cupo sonò.||A torme, di terra passarono in terra,| cantando giulive canzoni di guerra,| ma i dolci castelli pensando nel cor:| per valli petrose, per balzi dirotti,| vegliaron nell’arme le gelide notti,| membrando i fidati colloqui d’amor.|| Gli oscuri perigli di stanze incresciose,| per greppi senz’orma le corse affannose,| il rigido impero, le fami durar;| si vider le lance calate sui petti,| a canto agli scudi, rasente gli elmetti,| udiron le frecce fischiando volar...” [221] “Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu uno di quegli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi di una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio.... In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sè, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso insomma, se non quanto fosse strettamente necessario... Del suo, poi, era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto.... Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, e incapace di disegni elevati, se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse con tanto dispendio, da’ fondamenti... La carità inesausta di quest’uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo...” [222] “Oltraggio” significa originalmente “andare al di là del dovuto, eccedere, passare il limite”: nel bene, in questo caso. La parola è usata in questo senso da Dante, Paradiso, 33, 57. [223] “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna. il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle ad un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era solo il suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa al collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimevano ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno nè disprezzo, -no- disse: non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete-. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d’intorno, nè di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento, da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: -addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.- Poi, voltatasi di nuovo al monatto, -voi- disse,- passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. Così detto, rientrò in casa e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finchè il carro non si mosse, finchè lo potè vedere; poi disparve. E che altro poteva fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce, che pareggia tutte l’erbe del prato. –O signore! –esclamò Renzo:- esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!” [224] “-Ah Renzo! prchè siete qui?- -Perchè?- disse Renzo avvicinandosele sempre più: -mi domandate perchè? Perchè ci dovevo venire? Avete bisogno che ve lo dica? Chi ho io a cui pensi? Non mi chiamo più Renzo, io? Non siete più Lucia, voi?”- -Ah cosa dite! Ma non v’ha fatto scrivere mia madre?...- -Sì: pur troppo m’ha fatto scrivere. Belle cose da far scrivere a un povero disgraziato, tribolato, ramingo, a un giovane che, dispetti almeno, non ve n’aveva mai fatti!- -Ma Renzo, Renzo! giacchè sapevate... perchè venire? perchè?- Perchè venire? Oh Lucia! perchè venire, mi dite? Dopo tante promesse! Non siam più noi? Non vi ricordate più? Che cosa ci mancava?- - Oh Signore?- esclamò dolorosamente Lucia giungendo le mani, e alzando gli occhi al cielo: -perchè non m’avete fatto la grazia di tirarmi a Voi?... Oh Renzo! cos’avete mai fatto? Ecco; cominciavo a psperare che... col tempo... mi sarei dimenticata...- -Bella pseranza! belle cose da dirmele sul viso!- -Ah, cos’avete fatto! E in questo luogo! tra queste miserie, tra questi spoettacoli! qui dove non si fa altro che morire, avete potuto....!- -Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro, e sperare che anderanno in un buon luogo; ma non è giusto, nè anche per questo, che quelli che vivono abbiano a vivere da disperati...- -Ma Renzo! Renzo! voi non pensate a quel che dite. Una promessa alla Madonna!... Un voto!- E io vi dico che son promesse che non contan nulla.- -Oh Signore! Cosa dite? Dove siete stato in questo tempo? Con chi avete trattato? Come parlate?- -Parlo da buon cristiano; e della Madonna penso meglio io che voi; perchè credo che non vuol promesse in danno del prossimo. Se la Madonna avesse parlato, oh, allora! Ma cos’è stato? una vostra idea. Sapete cosa dovete promettere alla Madonna? Promettete che la prima figlia che avremo, le metteremo nome Maria; chè questo son qui anch’io a prometterlo: queste son cose che fanno ben più onore alla Madonna: queste son divozioni che hanno più costrutto, e non portan danno a nessuno.- - No no; non dite così: non sapete quello che vi dite: non lo sapete voi cosa sia fare un voto: non ci siete stato voi in quel caso: non avete provato. Andate, andate, per amor del cielo!- E si scostò impetuosamente da lui, tornando verso il lettuccio. –Lucia!- disse Renzo, senza muoversi: -ditemi almeno, ditemi: se non fosse questa ragione... sareste la stessa per me?- -Uomo senza cuore! –risposeLucia, voltandosi, e rattenendo a stento le lacrime: -quando m’aveste fatte dir delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbero forse peccati, sareste contento? Andate, oh andate! dimenticatevi di me: si vede che non eravamo destinati! Ci rivedremo lassù: già non ci si deve star molto in questo mondo. Andate; cercate di far sapere a mia madre che son guarita, che anche qui Dio m’ha sempre assistita, che ho trovato un’anima buona, questa brava donna, che mi fa da madre; ditele che spero che lei sarà preservata da questo male, e che ci rivedremo quando Dio vorrà, e come vorrà... Andate, per amor del cielo, e non pensate più a me... se non quando pregherete il Signore.- E, come chi non ha più altro da dire, nè vuol sentire altro, come chi vuol sottrarsi a un pericolo, si ritirò ancor più vicino al lettuccio, dov’era la donna di cui aveva parlato. –Sentite, Lucia, sentite! –disse Renzo, senza però accostarlese di più.- No, no; andate per carità.- Sentite: il padre Cristoforo...- Che?- -E’ qui.- -Qui? dove? Come lo sapete?- -Gli ho parlato poco fa; sonos tato un pezzo con lui; e un religioso della sua qualità, mi pare...- -E’ qui! per assitere i poveri appestati, sicuro. Ma lui? l’ha avuta la peste?- -Ah! Lucia! ho paura, ho paura pur troppo... – e mentre Renzo esitava a proferir la parola dolorosa per lui, e che doveva esserlo tanto a Lucia, questa s’era staccata di nuovo dal lettuccio, e si ravvicinava a lui: -ho paura che l’abbia adesso!- -O povero sant’uomo! Ma cosa dico, pover’uomo? Poveri noi! Com’è? è a letto? è assistito?- -E’ levato , gira, assiste gli altri; ma se lo vedeste, che colore che ha, come si regge! Se n’è visti tanti e tanti, che pur troppo... non si sbaglia. Oh poveri noi! E’ proprio qui!- -Qui, e poco lontano: poco più che da casa vostra a casa mia... se vi ricordate...!- -Oh Vergine santissima!- -Bene, poco più. E pensate se abbiam parlato di voi! M’ha detto delle cose... E se sapeste cosa m’ha fatto vedere! Sentirete; ma ora voglio cominciare a dirvi quel che m’ha detto prima lui, con la sua propria bocca. M’ha detto che facevo bene a venirvi a cercare, e che al Signore gli piace che un giovine tratti così, e m’avrebbe aiutato a far che vi trovassi; come è proprio stato la verità; ma già è un santo. Sicchè, vedete!. –Ma, se ha parlato così, è perchè lui non sa...- -Che volete che sappia lui delle cose che avete fatte voi di vostra testa, senza regola e senza il parere di nessuno? Un brav’uomo, un uomo di giudizio, come è lui, non va a pensar cose di questa sorte. Ma quel che m’ha fatto vedere!- E qui raccontò la visita fatta a quelal capanna: Lucia, quantunque i suoi sensi e il suo animo, avessero, in quel soggiorno, dovuto avvezzarsi alle più forti impressioni, stava tutta compresa d’orrore e di compassione. –E anche lì –proseguì Renzo- ha parlato da santo: ha detto che il Signore forse ha destinato di far la grazia a quel meschino... (ora non potrei proprio dargli un altro nome)... che aspetta di prenderlo in un buon punto; ma vuole che noi preghiamo insieme per lui... Insieme! Avete inteso?- -Sì, sì; lo pregeheremo, ognuno dove il Signore ci terrà; le orazioni le sa mettere insieme Lui.- - Ma se vi dico le sue parole...!- -Ma Renzo, lui non sa...- -Ma capite che, quando è un santo che parla, è il Signore che lo fa parlare? e che non avrebbe parlato così, se non dovesse esser proprio così...? E l’anima di quel poverino? Io ho bensì pregato, e pregherò per lui: di cuore ho pregato, proprio come se fosse stato per un mio fratello. Ma come volete che stia nel mondo di là, il poverino, se di qua non s’accomoda questa cosa, se non è disfatto il male che ha fatto lui? Che se intendete la ragione, allora tutto è come prima: quel che è stato è stato: lui ha fatto la sua penitenza di qua...- -No, Renzo, no. Il Signore non vuole che facciamo del male, per far Lui misericordia. Lasciate fare a Lui, per questo: noi, il nostro dovere è di pregarlo. S’io fossi morta quella notte, non gli avrebbe dunque potuto perdonare? E se non son morta, se sono stata liberata...- -E vostra madre, quella povera Agnese, che m’ha sempre voluto tanto bene, e che si struggeva tanto di vederci marito e moglie, non ve l’ha detto anche lei che l’è un’idea storta? Lei, che v’ha fatto intender la ragione anche dell’altre volte, perchè, in certe cose, pensa più giusto di voi...- -Mia madre! volete che mia madre mi desse il parere di mancare a un voto! Ma, Renzo! non siete più in voi.- - Oh! volete che ve lo dica? Voi altre donne, queste cose non le potete sapere. Il padre Cristoforo m’ha detto che tornassi da lui a raccomntargli se v’avevo trovata. Vo: lo sentiremo: quel che dirà lui...- Sì, sì, andate da quel sant’uomo; ditegli che prego per lui, e chepreghi per me, che n’ho bisogno tanto tanto! Ma, per amor del cielo, per l’anima vostra, per l’anima mia, non venite più qui, a farmi del male, a... tentarmi. Il padre Cristoforo, lui saprà spiegarvi le cose, e farvi tornare in voi; lui vi farà mettere il cuore in pace.- -Il cuore in pace! Oh! questo, levatevelo dalla testa. Già me l’avete fatta scrivere questa parolaccia; e so io quel che m’ha fatto patire; e ora avete anche il cuore di dirmela. E io in vece vi dico chiaro e tondo che il cuore in pace non lo metterò mai. Voi volete dimenticarvi di me; e io non voglio dimenticarmi di voi. E vi prometto, vedete, che se mi fate perdere il giudizio, non lo racquisto più. Al diavolo il mestiere, al diavolo la buona condotta! Volete condannarmi a essere arrabbiato per tutta la vita, e da arrabbiato viverò... E quel disgraziato! Lo sa il Signore se gli ho perdonato di cuore; ma voi... Volete, dunque, farmi pensareper tutta la vita che se non era lui....? Lucia! avete detto ch’io vi dimentichi; ch’io vi dimentichi? Cone devo fare? A chi credete ch’io pensassi in tutto questo tempo?... E dopo tante cose! dopo tante promesse! Cosa v’ho fatto io, dopo che ci siamo lasciati? Perchè ho patito, mi trattate così? Perchè ho avuto delle disgrazie? perchè la gente del mondo m’ha perseguitato? perchè ho passato tanto tempo fuori casa, tristo, lontano da voi? perchè, al primo momento che hio potuto, son venuto a cercarvi?- Lucia, quando il pianto le permise di formular parole, esclamò, giungendo di nuovo le mani, e alzando al cielo gli occhi pregni di lacrime: - o Vergine santissima, aiutatemi voi! Voi sapete che, dopo quella notte, un momento come questo non l’ho mai passato. M’avete soccorsa allora; soccorretemi anche adesso!- Sì, Lucia; fate bene d’invocar la Madonna; ma perchè volete credere che Lei che è tanto buona, la madre delle misericordie, possa aver piacere di farci patire... me almeno...per una parola scappata in un momento che non sapevate quello che vi dicevate? Volete credere che v’abbia aiutato allora, per lasciarci imbrogliati dopo?... Se poi questa fosse una scusa; se è ch’io vi sia venuto in odio... ditemelo... parlate chiaro.- -Per carità, Renzo, per carità, per i vostri poveri morti, finitela, finitela; non mi fate morire... Non sarebbe un buon momento. Andate dal padre Cristoforo, raccomandatemi a lui, non tornate più qui, non tornate più qui.- Vo; ma pensate se non voglio tornare! Tornerei se fosse in capo al mondo, tornerei.- E disparve.” Ci fermiamo qui, ma anche le pagine seguenti, fino alla assoluzione di Lucia dal voto da parte di padre Cristoforo, fino al lascito del “pane delperdono” come ricordo ” del “povero frate” ai due, tornati “promessi”, sino al distacco anche da Renzo ed alla fine del capitolo, sono della stessa natura: la commozione ne impregna quasi ogni battuta, formando un corpo poetico di una potenza e di una estensione eccezionali. E sì che Manzoni si era proposto di non far sentire il sentimento dell’amore sessuale nel romanzo, come stato d’animo già troppo diffuso e non sempre edificante! [225] “Qual masso che dal vetice| di lunga erta montana,| abbandonato all’impeto| di rumorosa frana,| per lo scheggiato calle| precipitando a valle,| batte sul fondo e sta;|| là dove cadde, immobile| giace in sua lenta mole;| nè per mutar di secoli,| fia che riveda il sole| della sau cima antica,| se una virtude amica| in alto nol trarrà:|| tal si giaceva il misero| figliuol del fallo primo,| dal dì che un’ineffabile| ira promessa all’imo,| d’ogni malor gravollo,| donde il superbo collo| più non potea levar.|| Qual mai tra i nati all’odio,| qual era mai persona| che al Santo inaccessibile| potesse dir: -perdona-?| Fra novo patto eterno?| Al vincitore inferno| la preda sua strappar? “. [226] Strofa prima: “O tementi dell’ira ventura,| cheti e gravi oggi al tempio moviamo,| come gente che pensi a sventura| che improvviso s’intese annunziar.| Non s’aspetti di squilla il richiamo;| nol concede il mestissimo rito:| qual di donna che piange il marito,| è la veste del vedovo altar”. Strofa quarta: “Egli è il Giusto che i vili han trafitto,| ma tacente, ma senza tenzone,| Egli è il Giusto; e di tutti il delitto| il Signor sul suo capo versò.| egli è il Santo, il predetto Sansone,| che morendo francheggia Israele;| che volente alla sposa infedele| la fortissima chioma lasciò”;. Strofa nona: “Su nel cielo in sua doglia raccolto| giunse il suono d’un prego esecrato.| i celesti copersero il volto:| disse Iddio: -Qual chiedete sarà-| E quel Sangue dai padri imprecato| sulla misera prole ancor cade,| che mutata d’etade in etade,| scosso ancor dal suo capo non l’ha”. [227] “ ....Ahi sventura! sventura! sventura!| Già la terra è coperta d’uccisi;| tutta è sangue la vasta pianura;| cresce il grido, raddoppia il furor.| Ma negli ordini manchi e divisi| mal si regge, già cede una schiera;| già nel volgo che vncere spera| della vita rinasce l’amor.|| Cadon trepidi a piè de’ nemici,| gettan l’arme, si danno prigioni:| il clamor delle turbe vittrici| copre i lai del tapino che muor.||... || Perchè tutti sul pesto cammino| dalle case, dai campi accorrete?| Ognun chiede con ansia al vicino,| che gioconda novella recò? Donde venga, infelici, il sapete,| e sperate che gioia favelli?| I fratelli hanno ucciso i fratelli:| questa orrenda novella vi do.” [228] Riportiamo i vv. 73-108: “ Ma come il sol che reduce| l’erta infocata ascende,| e con la vampa assidua| l’immobil aura incende,| risorti appena i gracili| steli riarde al suol;| ratto così dal tenue| obblio torna immortale| l’amor sopito, e l’anima| impaurita assale,| e le sviate immagini| richiama al noto duol.|| Sgombra, o gentil, dall’ansia| mente i terrestri ardori;| leva all’Eterno un candido| pensier d’offerta, e muori:| nel suol che dee la tenera| tua spoglia ricoprir,|| altre infelici dormono,| che il duol consunse; orbate| spose dal brando, e vergini| indarno fidanzate;| madri che i nati videro| trafitti impallidir.|| Te dalla rea progenie| degli oppressor discesa,| cui fu prodezza il numero,| cui fu ragion l’offesa,| e dritto il sangue, e gloria| il non aver pietà,| te collocò la provvida| sventura infra gli oppressi:| muori compianta e placida,| scendi a dormir con essi:| alle incolpate ceneri| nessuno insulterà” [229] Fra i brani notevolmente drammatici che tralasciamo del tutto, si pensi al tormento interiore di Ludovico per gli impegni presi, i soldi che diminuivano, il non senso complessivo della sua vita, ecc; e, poi, il diverbio col signor Tale prima del duello ed il racconto del duello stesso (c. 4); si pensi alla parte che, nel c. 8, vi hanno Lucia (timida e straziata) ed il popolo (svegliato dalla scampanio di Ambrogio, impaziente di saperne il motivo, accorso alla casa di Agnese, incerto fra inseguimento e desistenza); alla intera vicenda della monaca di Monza (cc. 9-10; 20); al dialogo, teso come un interrogatorio, che l’oste della Luna piena ha con il notaio criminale (c. 15); all’arresto e fuga di Renzo (c. 15) e alla sua ultima tappa verso l’Adda, sfinito nelle forze, nel buio della notte, in un terreno –la sodaglia- scoraggiante e deprimente (c. 17); all’episodio del rapimento di Lucia (c. 20); al colloquio fra il cardinale e don Abbondio, splendido di massime etico-spirituali, ma sofferto e teso come le due anime di chi assedia e di chi è assediato, perchè si tratta di espugnare la resistenza di un sacerdote alla voce della coscienza (cc. 25-6); a tutta la narrazione delle forme estreme della carestia (c. 28: la folla degli affamati in Milano, per le strade, al lazzaretto); alle pagine, impregnate di pietà e di denunce, dedicate alla peste (cc. 31-32). Si dovrebbe aggiungere tutta la trattazione sulla radice ultima della ingiustizia nel processo contro gli untori, affidata alla Storia della colonna infame. [230] Ecco un altro caso in cui il Manzoni è cosciente della emozione che gli sta dettando le parole: ira e, dunque, dramma. Più sopra, definisce la voce di Lucia “accorata, ma risoluta”: la risolutezza si riferisce ancora alla drammaticità; l’accoratezza al complesso emotivo (commozione) che caratterizza quella sua parlata (“non v’importa più dunque d’avermi per moglie...”) e le ultime delle sue parole riportate (“tornate quello di prima; verrò”). [231] Il particolare, a detta di Giuseppe Rovani (I cento anni, libro 17, c. 4), sarebbe tolto dalla realtà della uccisione del ministro delle finanze pel Regno italico, Giuseppe Prina, nel 1814, alla caduta di Napoleone. [232] Su questo punto, Manzoni potrebbe sembrare scrupoloso. In realtà non lo è. Era dovere morale di Renzo prestare a Lucia, come a qualunque persona innocente nel momento dell’aggressione, tutto l’aiuto necesario a liberarla, salva la propria incolumità: sino a uccidere gli aggressori, se non ci fosse altra via (i moralisti dicono “ cum moderamine inculpatae tutelae”, cioè col minimo di danno possibile al rapitore-aggressore). Questa legittimità-doverosità vale(va) finchè l’aggressore teneva prigioniera Lucia (o la persona innocente), posto che non ci riusicisse la forza della giustizia (i birri del Milleseicento o la polizia dei nostri giorni). Rapita e violata Lucia, poi lasciata libera (o uccisa) da don Rodrigo non esssendoci più la necessità-possibilità di salvarla, non gli era più lecito uccidere, anzi neppure ferire, ma poteva solo ricorrere ai tribunali, pronto a vedersene deluso (non solo allora: si rilegga al c. VIII: “Così va spesso il mondo... volevo dire, così andava nel secolo decimosettimo”). Una “lega” tra molti cittadini per toglier di mezzo il tiranno, vista al impotenza della giustizia, sarebbe stata lecita solo al ripetersi frequente di simili prepotenze. [233] Nella lettera ai Colossesi (1, 24), S. Paolo afferma: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa”. “Dio ha bisogno degli uomini” è il titolo (da integrare come è stato fatto: “Dio vuole aver bisogno degli uomini”) di una famosa pellicola dell’inizio degli anni Millenovecentocinquanta. [234] Abbiamo detto “umanamente prevedibile”: difatti l’innominato si converte, ma per la già vista mediazione del sacrificio eroico di Lucia; anche don Rodrigo non è detto che non si converta, sebbene le condizioni in cui Renzo lo trova al lazzaretto non lascino sospettare la possibilità di un ritorno alla coscienza e della possibilità, quindi, della conversione. La Provvidenza, conmunque, conduce sempre alla esecuzione i suoi disegni, nonostante la ostilità pervicaci dei malvagi e la mediocrità ora debole, ora impulsiva, ora irriflessiva della massa degli uomini. Essa si serve anche delle colpe, programmate o solo occasionali, della meschinità dei buoni e della malizia degli scellerati, per sublimare il risultato, preordinato sin dalla eternità, al capolavoro di un gioco di cause indirette, di trame imprevedibili, in cui i fini sono raggiunti attraverso vie e mezzi umanamente incongrui o addirittura contrari, ma elevati da Dio ad occasioni per un successo tanto più sorprendente quanto più inatteso, tanto più ricco ed arricchente, quanto più sofferto e pazientemente sperato da Lui solo. La Provvidenza crea cioè una eterogenesi dei fini, che ottiene la crescita spirituale degli umili e dei poveri che hanno fede e fiducia in lei (Lucia, che si eleva al voto di verginità; p. Cristoforo che muore martire dell’amore al prossimo...) e solo ritarda i benefici terreni, per accrescere i beni spirituali nei cooperatori volonterosi ed estenderli anche ai mediocri di cui si è parlato. [235] A dir il vero, don Rodrigo è sorpreso in un momento di ilarità due volte, ai cc. 5 e 11, come già documentato. [236] Veramente, per questa acrisia mentale ed egoismo morale, Manzoni ha anche parole di compassione pura: “Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paargonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile che tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire” (c. 31). [237] Letteralmente: “ idoli della tribù, della piazza, del palcoscenico”: Francesco Bacone voleva combattere i miti atavici della tradizione del popolo cui si appartiene, quelli creati dalle voci di piazza e quelli imposti da personaggi famosi che danno autorità alle loro opinioni, anche se erronee. [238] G: Parini, “Alla musa”, versi finali. [239] Al candore del preteso estensore della trama, Manzoni, nella Introduzione, fa attribuire i troppi ed eccessivi disordini dell’umanità all’opera del demonio: “altra causale trovar non si può” (per spiegare l’ “inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando”), “se non se arte e fattura diabolica.”. E non è detto che il Manzoni non condivida tale causa preternaturale al caos della storia morale umana, sebbene essa sia solitamente indimostrabile, perchè sperimentabile solo in casi di santi ed indemoniati, genere di gente piuttosto rara. [240]
Una controprova circa l’importanza della componente etica
nella genesi dell’umorismo manzoniano, la si può intravedere nel
capitolo decimoterzo: finchè non è in vista la salvezza (materializzata
nell’arrivo del gran
cancelliere Ferrer) per la vita
del povero vicario di provvisione.,
la narrazione è tesa e drammatica; da quando compare la fatidica carrozza,
il racconto si fa allegro e sorridente. Nella prima parte del capitolo, sta
anche la figura sopra riportata del “vecchio mal vissuto”; nella seconda
parte si comincia a sorridere sulla psicologia della folla che, per vedere
il gran personaggio in arrivo, si alza compatta in punta di piedi,
attirandosi il commento scanzonato dello scrittore. “Alzandosi tutti,
vedevano nè più nè meno che se fossero stati tutti con le piante in
terra; ma tant’è, tutti s’alzavno”. E il capitolo continua con le
esclamazioni (in uno spagnolo tanto più divertente quanto più
approssimativo) del Ferrer, che si sdoppia in persona e personaggio: ora
commentando secondo quel che sente davvero (“por mi vida, que de gente!|
Adelante, Pedro, con juicio| Aqui esta el busillis; Diòs nos
valga!...”...) ed ora pronunciandosi secondo l’esigenza del fine
programmato: ingraziarsi la folla per poter strapparle dalle mani il povero
Ludovico Melzi d’Eril, notaio e vicario di provvisione per ora, conte fra
non molto (“Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato| pane e
giustizia....) [241] Crediamo di avere già segnalato che la comicità è uno stato d’animo complesso, che nasce dalla fusione di due sentimenti diversi: la gioia per la scoperta-segnalazione di una “sproporzione”, cioè di un difetto fisico o morale; l’atteggiamento di condanna, contestazione, rimprovero più o meno drammaticamente gestito, a seconda della benevolenza (amicizia, fraternità comprensione e tolleranza) o dell’ostilità (rimprovero, condanna amara, disprezzo, gioia del male...), con cui lo scrittore sente la carenza nel personaggio e la esprime. Nel caso di una segnalazione benevola, avremo l’umorismo (gioia di tipo idillico, con un sottofondo di dramma lievissimo, di rimprovero amichevole); nel caso di una espressione ostile, potremo avere ironia, satira, sarcasmo, farsa, grottesco, a seconda della pesantezza o meno dell’animosità che la anima. Nella farsa si giunge alla risata grandiosa, al divertimento spiegato, dimentico di ogni rispetto e carità verso il deriso; nel caso del grottesco, riso e dolore si mescolano assieme, in una miscela cinica, affine alla incoscienza. Non basta però svelare un difetto per creare comicità: si può semplicemente fare dello studio etico-psicologico oppure esplodere in denuncia drammatica. Il segreto della comicità sta nel modo “malizioso”, cioè intelligentemente acuto ed inaspettato, con cui la distanza dalla perfezione viene rimarcata. Tale intelligenza si può manifestare o come improvvisa, inattesa rivelazione di un difetto sotto un’apparente virtù (comicità diretta); o nella attribuzione apparente di un merito-valore (di una virtù), fatta però in un contesto tale, che nega implicitamente quanto detto esplicitamente (comicità allusiva). [242] Per non parlare dell’autoironia, che dipende però specificamente dal culto dell’umiltà, tipico di Manzoni: dai “miei venticinque lettori” (c. 1 e passim) alla canzonatura dei poeti nelle parole di Renzo ubriaco (“To’ –disse Renzo- è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch’io, e qualche volta ne dico di curiose... ma quando le cose vanno bene.- Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator del Pindo, un allievo delel Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti, abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?” (c. 14). [243] Si potrebbe fiorse inserire fra costoro anche il Griso: egli, facendo portare a tradimento don Rodrigo al lazzaretto, anzichè farlo curare in casa, gli anticipa forse lo stato di incoscienza e ne impedisce (probabilmente) la conversione: anch’egli è un ostacolo alla salvezza di un’anima e la sua ostinatezza parrebbe più forte della Grazia divina, della Provvidenza. [244] Oggettivamente, almeno: è chiaro che la compassione per i sofferenti di ogni genere è sentimento cristiano, ma nel cuore del poeta-scrittore, non nel contesto del poema-romanzo. [245] “Intendo –disse il conte zio:- e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso dalal natura, velato poi e coperto a più mani, di politica, balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere” (c. 18). [246] Manzoni ha scritto “celibe” e non “nubile” e, con tutte le occasioni per correggere dal 1827 (il termine non c’era in Fermo e Lucia, ove la domestica è detta vecchia e si chiama Vittoria) al 1838, ha lasciato l’errore. Nemesi storico-letteraria della sua poca umanità verso Perpetua, in questo caso? [247] In realtà “el prestìn di scansc” era una traduzione dialettale del cognome “Scanzi”, la ricca famiglia che possedeva il forno (in dialetto milanese “prestìn”) già nel 1200. [248] Nella prima parte vi è solo la stoccata contro gli storiografi, che spesso devono riscostruire i fatti senza i documenti: “e la storia è costretta ad indovinare. Fortuna che c’è avvezza.”. [249] “Entelechia” è la realtà nella sua perfezione: alcuni seguaci di Aristotele (che ha introdotto la terminologia) la facevano coincidere con la “realtà in atto” e non solo “in potenza” (la pianta, rispetto al seme); altri distinguevano fra atto come “azione” che dà la perfezione e “cosa in atto”, che è la perfezione stessa (nel suo genere): sottigliezze che davvero rasentano il ridicolo. Quanto alle “cose vive” che potevano, nel 1821-23 quando Manzoni stendeva la prima redazione del romanzo, attirargli qualche “scappellotto”, erano certamente le discussioni sull’arte fra scuola classica e romantica: di esse scrive il Manzoni, in quegli stessi anni, al marchese Cesare d’Azeglio, che erano molto più chiare le cose negative (ciò che i romantici rifiutavano del classicismo) che non quelle positive (che cosa intendessero in concreto per arte e poesia i romantici).. [250] Come sappiamo, nel 1835, rievocando la morte di Enrichetta, tenterà di scrivere il Natale 1833, e, nel 1847, un nuovo Inno sacro, Ognissanti: ma non gli riuscirà di terminare nè l’uno nè l’altro. Naturalmente, versi sparsi e strofe più o meno improvvisate saranno ancora possibili e qualcheduno di tali versi abbiamo citato o meriterebbero di essere conosciuti, ma non si tratta più di cose impegnative. Il poetare, da attività professionale è divenuto un hobby occasionale. [251] Tra gli Inni sacri, diamo un commento più particolareggiato al Natale ed alla Pentecoste, i due migliori a giudizio comune. IL NATALE: è il terzo degli inni sacri (1813). Trama e motivi ispratori: a) prendendo lo spunto dal peccato originale con una immagine grandiosa (“Qual masso che dal vertice| di lunga erta montana...”), espone il significato essenziale della Incarnazione: redimere l’uomo dallo stato di schiavitù al peccato ed all’inferno e sollevarli alla figliolanza divina ed al Paradiso (str. 1-8); espone poi alcuni particolari della nascita a Betlemme, con l’adorazione dei pastori (str. 9-14) e conclude con una allocuzione al divino Fanciullo, re del mondo nonostante le apparenze umili e indifese (str. 15-16). b) L’immagine iniziale è bensì presente in Antonio Arnauld (1612- 94), uno dei maestri più influenti del giansenismo, ma è perfettamente cattolica, tanto che la si trovava anche nel breviario per la diocesi di Parigi (De dedicatione ecclesiae: festa della consacrazione della chiesa) ed era stata già fatta propria dal Tasso e dal Metastasio, senza dire che il suggerimento potrebbe venire addirittura da Virgilio (IV Egloga, vv. 5 e 13) ed Eneide, XII, 684-9). c) Va notato anche l’affiorare del “democratismo manzoniano” nella strofa 11 (“non de’ potenti volgesi| alle vegliate porte...”). I toni lirici: dopo le strofe drammatiche iniziali sulla colpa originale, l’inno varia fra idillio ed epopea, proprio perchè rimane incerto fra la celebrazione della divinità e il vagheggiamento della tenera dolcezza del Bambino, in cui Dio si nasconde. Questa incertezza deve essere alla origine delle strofe meno belle, per il solito fenomeno delle dissolvenze incrociate (retoriche la 4, 6, 9). Note stilistiche: 16 strofe di sette settenari ciascuna, coi vv. 1 e 3 sdruccioli; 2 e 4 piani, rimanti fra loro; 5 e 6 piani e in rima anch’essi; 7 tronco, che rima con l’ultimo verso della strofa seguente. Il linguaggio è spesso biblico: “nati all’odio” del v. 22 vien da san Paolo, lettera agli Efesini, 2, 3; “novo patto” è il Nuovo testamento (profetizzata da Geremia, c. 31); v. 29: “ecco ci è nato un pargolo...” riecheggia Isaia, 9, 6; il v. 38 (“borron de’ triboli”) è suggerito da Gioele, 3, 18; il v. 46 (“non ti comprende il giro”) riecheggia Re, 1, c. 8; il v. 64 (“La mira Madre”) riprende Luca, 2, 7. Ma vi sono riecheggiamenti anche da Virgilkio (immagine di apertura, come detto); da Dante (v. 61, cfr. Purgatorio, 20, 22-5; v. 64: cfr. Paradiso, 28, 53). Difetti: manca un discorso unitario, che leghi le varie parti fra loro: si tratta di spezzoni di buona poesia, ma non di un inno che leghi con coerenza le varie intuizioni; qua e là vi è retorica residua (domande); i vocaboli arcaici sono poco armonizzati nel contesto (borron, triboli, bronchi, empiro, portato, retaggio). LA PENTECOSTE: ultimo degli Inni sacri, ebbe gestazione lunghissima (1817-1822), ma è anche di gran lunga il migliore, un capolavoro sublime. Trama e motivi. a) descrizione degli effetti per la discesa dello Spirito santo: coraggio e fervore nella Chiesa apostolica, che si era mostrata prima timida e latitante, durante la passione e morte di Cristo (str. 1-6); b) valore telogico-morale di tale avvenimento: gli uomini sono chiamati ad una vita nuova, a nuova libertà e dignità (str. 7-10); c) preghiera allo Spirito santo, per tutta l’umanità, sorpresa amorevolmente in ogni sua condizione ed età, perchè perpetui la Pentecoste con la conversione dei traviati e la perfezione dei buoni (str. 11-18); d) questa volta il “democratismo” manzoniano è di natura essenzialmente religiosa: gli uomini sono tutti uguali, perchè tutti (vincitori e vinti, schiavi e liberi...) sono innalzati alla figliolanza divina ed al premio del Paradiso. Ma due notazioni non si possono tralasciare: Manzoni ha sempre un pensiero particolare per gli schiavi ed i reietti (non va dimenticato che nel 1821 Manzoni raccoglieva materiale per la progettata tragedia “Spartaco”); anzi tali preoccupazioni “sociali” del poeta nella tormentatissima stesura, in un primo tempo avevano il sopravvento (tutte le prove, correzioni e riscritture dell’inno sono state edite in un volume a se stante!). Tonalità liriche. Complessivamente La Pentecoste è in tono epico, grandioso, salvo il dramma delle strofe iniziali (1-4) in cui rimprovera ad apostoli e discepoli la paura ed il tradimento nella Passione del loro Signore; e tranne l’idillio delle due immagini (luce solare: str. 6; il fiore, str. 14). Note stilistiche. a) La Pentecoste consta di 18 strofe di 8 settenari l’una: il primo, il terzo ed il quinto sono sdruccioli e liberi; il secondo ed il quarto sono piani e rimano; l’ottavo è tronco e rima coll’ultimo della strofa seguente. b) è ricca di immagini: oltre quelle della luce e del fiore, già ricordate, vi è la serie di quelle usate per celebrare la Chiesa apostolica del Cenacolo, nei primi dieci versi. La forza artistica nasce anzitutto dalla espressione di idee grandi, magnanime che sostanziano la composizione; nella prospettiva esauriente della vita, che è adeguata ai sentimenti più profondi dell’uomo; nella apertura sociale a tutti i popoli e settori di popolazione, per i quali tutti si annunciano ed auspicano i valori più alti e nobili: libertà interiore, virtù morali, fratellanza universale nella famiglia di Dio. La pregheira finale è quella di un’anima che respira la carità di Dio e della Chiesa per un’umanità stimata e proiettata in una prospettiva di perfezione e di solidarietà fraterna: vi è un pensiero ed una preghiera competente per ricchi e poveri, giovani e adulti, vecchi e moribondi, ragazze, spose e vergini consacrate, depressi da confortare al bene e violenti da scoraggiare dal male... A tale vastità di orizzonti ideali, corrisponde l’ampiezza dei periodi, che ricollegano varie strofe fra loro, a cominciare dalle prime cinque, suddivise in soli due periodi! [252] La composizione dell’ode per Napoleone interrompe così la stesura di “Fermo e Lucia”, così come questa scrittura aveva interrotto al secondo atto la versificazione dell’Adelchi. [253] Il “Tu” è riferito alla fede cristiana, che, “bella, immortal, benefica” aveva probabilmente strappato Napoleone alla tentazione del suicidio (“Ahi! forse a tanto strazio| cadde lo spirto anelo,| e disperò, ma provvida| venne una man dal cielo| e in più spirabil aere| pietosa il trasportò”). [254] Per la “o” vi è un caso in più, perchè, oltre i quattro versi piani che rimano con la ictazione su una “o”, vi sono anche due sdruccioli (“gloria| vittoria) che, nei vv. 43 e 45, eccezionalmente fanno rima. [255] Documentiamo solo con la prima strofa, trascurando le parole che equilibrano i due gruppi cotrastanti e complementari: mortal| sospiro| spoglia| orba| attonita| terra... [256] “Marzo 1821” ha una redazione definitiva del giugno 1848, quando il Manzoni offriva l’ode ed altri versi patriottici (Proclama di Rimini...) per una stampa a favore della “Commissione delel offerte per la causa nazionale”. I critici più maligni sospettano che l’ode sia stata composta in quesi mesi fra le “cinque giornate di Milano” e la messa a disposizone della poesia, onde raccogliere fondi per la prima guerra di indipendenza. La versione più diffusa afferma invece che l’ode fu composta nel 1821; che Manzoni la affidò solo alla propria memoria, per timore di perquisizioni e conseguenze spiacevoli e che la rifinì e fece stampare nel 1848, durante i pochi mesi di assenza degli austriaci e di governo indipedente a Milano. [257] Richiamiamo qui le ragioni principali per cui Manzoni rifiuta le regole di unità di tempo e di luogo, che Aristotele enuncia come dato di fatto nella prassi delle tragedie greche e che Lodovico Castelvetro eresse a regole obbligatorie. 1) E’ falso il presupposto che la poesia classica abbia conseguito la perfezione e che così possa diventare l’archetipo esemplare di ogni poesia: l’intelletto umano è infinitamente perfettibile; 2) Si tratta di poche regole fra le innumeri deducibili dai modelli accessibili: difatti non derivano dal concetto di bellezza, ma da alcuni suoi inferiori (le opere di bellezza o d’arte), sicchè sono accidentali e moltiplicabili. E sono regole bensì difficili da osservare, riducendo i fatti ad un solo luogo ed a sole ventiquattro ore, ma anche poche, sicchè uno scrittore per teatro finisce per riuscire ad attenervisi: automaticamente deve ritenersi un grande scrittore. Al contrario, l’osservare le regole finisce per lo più per condurre alla pedanteria di esser fedeli ad ogni costo a un certo schema, anzichè attendere alla espressione della bellezza. 3) Dal momento, poi, che osservare quelle regole è difficoltoso, chi vi riesce è stimato grande: ma la bellezza è altra cosa che la fatica e l’impegno!. 4) Il fatto solo che ai grandi scrittori si concedono delle eccezioni all’obbligo delle regole, testimonia che esse non sono necessarie e, quindi, false in quanto obbligatorie. 5) Aristotele, scrivendo che “la tragedia si sforza di restringersi in un giro di sole o di variarne di poco” si riferiva alla durata della rappresentazione delle opere, nelle feste panelleniche, non alla durata dell’azione rappresentata. 6) Le unità di tempo e di luogo confondono due verosimiglianze diverse: quella della vicenda rappresentata (al che basta l’unità dell’azione e la sua verosimiglianza psicologica) e la verità storica, concreta! 7) Contro tale pretesa, stanno però troppe altre circostanze, come quella che il fatto avvenga in presenza di spettaori innumeri, odierni; che esso si estenda per 24 ore, mentre la rappresnetazione ne dura solo tre; che esso sia rappresentato in luogo chiuso, mentre si suppone avvenuto in spazio molto più ampio, in regioni e tempi lontani migliaia di anni o di miglia; che gli attori non sono i personaggi, ma finzioni di essi.... 8) In pratica, le inverosimiglianza non sono superabili con la restrizione all’unicità del posto ed alle 24 ore di tempo, ma sono superate dalla esigenza psicologica dell’uomo che richiede, in pittura come in letteratura, una pura credibilità (verosimiglianza) dei fatti, non la loro riproduzione reale! [258]
Le notizie storiche premesse ad Adelchi
furono perfezionate in seguito ed edite nel 1847 col titolo Discorso
sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. [259] Lo scritto Del romanzo storico e, in genere, de’ componimeni misti di storia e d’invenzione (1845) non vuol condannare nè i romanzi di W. Scott nè, tanto meno, I promessi sposi, ma solo esorcizzare la dizione “romanzo storico” come incongruente, perchè contradditoria: ciò che è romanzo (invenzione) non è storia; ciò che è reale (storico) non è invenzione nè, quindi, romnanzo. Tanto è vero che egli cita, fra le opere classificabili come scritti misti di storia e di invenzione, anche l’Eneide e la Gerusalemme liberata. In verità, la dimostrazione del Manzoni è tanto ovvia quanto inutile. Non è forse proprio Manzoni che ha predicato l’uso dei parlanti come preminente alle leggi della grammatica, analogia e razionalità nella costruzione del linguaggio? Ebbene, anche in questo caso, l’uso ha imposto, contro la logica razionale, l’unione di due vocaboli che fanno a pugni fra loro: si potrà parlare di un “ossimoro”, ma non tentare di esorcizzarne l’uso, almeno a brevi termini. La gente intuisce che un “romanzo storico” vuol presentare alcune verità documentabili, come punti di riferimento a vicende inventate e fantastiche. Al più si potrà giungere ad imporre alla edizione di ogni scritto di fantasia con agganci storici (a cominciare, oggi, dalle “telenovelas”): “Attenzione! l’opera non è tutta e neppure in moolta parte lo specchio della realtà, ma fantasia e capriccio dell’ scrittore, che ha scritto il lavoro per esprimere emozioni (opera d’arte, come intenzione), per offrire un passatempo ai fruitori o per puro scopo di lucro”. Sì, purtroppo, esistono persone che necessitano di simili avvertimenti, perchè, a forza di vivere di fantasia, tendono a confonderla con la realtà. Ma, per l’amor del cielo!, il fatto che la vita umana presenti anche malati di mente o peccatori non è un motivo per auspicare la soppressione della vita stessa: si curino, più che si può, la malattia e mentale e morale. [260] E’ scritta in latino, col titolo “Histariae patriae decades”. [261] Meno tempestiva ed utile fu invece la “Filosofia della statistica” dello stesso Gioia, perchè uscì solo nel 1826. [262] Vi sono due versioni diverse dell’opera in cui il Manzoni avrebbe trovato il testo della grida. La figlia Vittoria Manzoni-Giorgini, nel 1869, ebbe dal padre la confessione di averla letta nelle “Decadi di storia patria” del Ripamonti (cfr. Memorie di famiglia, edite dalla figlia Matilde nel 1910 e riedite in “Manzoni intimo”, vol. I). Questa versione è confermata da Stefano (in realtà Giuseppe, Antonio, Carlo Maria) Stampa in “Alessandro Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici”. Invece Cristoforo Fabris, in Memorie manzoniane (Milano, Cogliati, 1901 e Firenze, Sansoni, 1959) riferisce che il marchese Lorenzo Litta Modignani in una conversazione serale, cui era presente anche il Fabris, si sentì spiegare dal Manzoni come la grida la trovasse nell’opera di Melchiorre Gioia “Sul commercio de’ commestibili e caro prezzo del vitto. Opera storico-teorico-popolare” (Milano, 1802). Quanto agli apporti giunti da fonti letterarie al Manzoni, come stimolo a scrivere l’opera o come suggerimento per singoli particolari, abbiamo già riferito nello studio dell’Ambiente letterario. [263] Ma vi sono anche limiti e difetti di esattezza storigorafica in Manzoni. Per lo più sono reticenze o mutazioni volute per l’economia estetica dell’opera o per la prevalenza della cronologia assegnata alla vicenda romanzesca rispetto a quella reale della storia. Così l’attività dell’innominato si svolge a cavallo fra i due secoli e la sua conversione avviene all’inizio del Milleseicento, non alla fine del 1628. Nella vicenda di suor Virginia, non è mutato solo il suo nome, ma anche quello del seduttore, che è Gian Paolo Osio, non Egidio; inoltre sono tre le converse coinvolte nella vita peccaminosa dei due e non solo Caterina de Cassini, di Meda (che è quella uccisa); infine, il processo contro suor Virginia de Leyva avvenne nel 1607, sicchè la penitente, murata in una stanza (come le altre due converse, ferite dall’Osio, ma guarite e processate), quando avrebbe incontrato Lucia, doveva avere ormai 53 anni, essendo nata nel 1575. Altre sono contraddizioni all’interno della stessa vicenda romanzesca: nel c. 9 si accenna al banchetto nuziale che si sarebbe dovuto tenere nel mercoledì, giorno del matrimonio, mentre nel c. .3 si prevede il bamchetto come da tenersi la domenica successiva. Una svista, di cui egli non si è accorto e che nessuno, durante la sua vita, ha segnalato. Luigi Russo, nella sua edizione commentata dei Promessi sposi (Firenze, La Nuova Italia, 1960) trova modo di offuscare qualche aspetto della figura del cardinal Federigo; ed anche gli scrittori della Storia di Milano ( Fondaz. Treccani, 1957, vol. X) presentano meno favorevolmente la statura culturale di Federigo, pur confermandone la grandezza morale ed ascetica. Forse si può rimproverare al Manzoni che la simpatia per elevatezza religiosa del grande arcivescovo lo ha reso troppo benevolo nel giudizio sulla sua cultura; non certo una voluta mistificazione dei fatti. Ma il limite più grave sta nel giudizio sul governo e la situazione sociale sotto gli Spagnoli nel Milleseicento lombardo, senza tener presente il costume dei secoli precedenti e dei paesi europei in quello stesso secolo. E’ l’abate Hugues-Félicité-Robert de Lamennais (1782-1854) che, ricevuto il romanzo in omaggio, rispondeva, nella lettera del 30 novembre 1827, alla contessa di Senfft, moglie di un diplomatico austriaco, che gli aveva fatto pervenire l’opera: “L’auteur peint avec énergie les énormes abus de la féodalité... Mais qu’on lise l’Histoire des Rèpubliques pendant les siècles XIV, XV et XVI siècles, celle de Florence, par exemples; c’est un ruisseau de sang. Il en faut revenir au mot de Montaigne: -Il n’y a point de pire bète à l’homme que l’homme”. Fausto Niccolini in “Arte e storia nei Promessi Sposi” (Milano, Longanesi, 1958 ) ha potuto assolvere don Gonzalo dalla creduta iniziativa e ardore nella guerra del Monferrato, che invece egli non volle e subì obtorto collo per la volontà di Madrid. [264] A dir il vero, non si trovano solo due categorie di segnalazioni psicologiche: quelle a tutto campo, esplicite (primo caso che si incontra: “don Abbondio -il lettore se n’è già avveduto- non era nato con un cuor di leone...”) e quelle lasciate intravedere solo dalle parole e dal comportamento. No, anche in questo caso, vi è una terza categoria di personaggi che sono esplicitamente sbozzati con qualche rapido accenno, ma che il lettore deve rifinire per suo conto. Si pensi a Renzo: don Abbondio tenta di definirlo due volte, ma, col poco cervello che i genitori gli hanno trasmesso, resta a mezz’aria: “E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih!” (c. 1); “Don Abbondio disse ch’era un giovine un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico. Ma, a più particolari e precise domande, dovette rispondere ch’era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto far tutte quelle diavolerie che avevan detto” (c. 25). Insomma, Manzoni, l’analisi psicologica l’ha nei cromosomi (un tempo, si sarebbe detto “nel sangue”) e, anche quando non se la propone, gli sfugge di penna qualche abbozzo. Così si hanno quasi tre tipi di formule psicologiche, come in chimica organica: di struttura (analisi esplicite), razionali (abbozzate, come per Renzo), grezze (quelle abbandonate all’intuito del lettore, da ricavarsi da parole e fatti dei vari personaggi. [265] Attualizzazione del principio, in tempi recenti. In presenza della fede nella paterna Provvidenza di Dio, S. Pio da Pietrelcina poteva scrivere alla figlia spirituale Antonietta Vona, malata terminale: “Tutto è scherzo d’amore di Gesù” (lettera del 4. 06. 1918). Senza questa fede, Elsa Morante fa pigolare dagli uccelli, che guardano sbalorditi la vita insensata degli uomini, questo giudizio che l’epilettico ‘Useppe capisce e che, noi, lascia sgomenti: “E’ uno scherzo, uno scherzo; è tutto uno scherzo” (La Storia, Torino, Einaudi, 1974). I due complementi di specificazione rovesciano il significato del giudizio e, con esso, di tutta la esistenza umana e della stessa morte. [266] Manzoni lo chiama “proverbio” (“il nostro anonimo credè bene bene di formare un proverbio: “volete aver molti...”). Veramente è una masima o assioma: perchè si possa parlare di “proverbio” occorre che il giudizio morale sia espresso in una immagine, non direttamente (si veda sopra, la massima dell’oste –Gli uomini si conoscono dalle azioni” e i proverbio del Vangelo: “Dai loro frutti li conoscerete”). Per trasformare la massima in proverbio, si può proporre: “In assenza del gatto, tutti i topi si sentono valorosi e si offrono volontari per formare un esercito in difesa della razza”. [267] “La collera aspira a punire” è sentenza di Manzoni; la motivazione psicologica è di Pietro Verri (Osservazioni sulla tortura), come segnala lo stesso Manzoni. Aggiungerei che, oltre la collera, è implicata qualche altra passione, a cominciare dalla paura, dalla avarizia e dalla pigrizia: ammettere una causa non localizzata, vuol dire sentirsi persi e disperati; accettare le prescrizioni di bruciamenti e isolamenti, vuol dire sentirsi toccati nella “roba” e nella pigrizia: occorre, infatti, darsi da fare in mille modi per evitare il contatto o contagio. E’ anche per questo ultimo istinto –l’accidia- che l’attribuzione della peste agli influssi astrali faceva presa: dispensava da ogni precauzione e fatica; era una motivazione molto adatta a don Ferrante, introverso e pigro quant’altri mai. [268] Tutto il romanzo offre innumeri altre espressioni affidate alla distinzione ternaria. Soffermandoci sulla crisi dell’innominato e vita del cardinal Federigo, ecco un altro paio di frasi: “Che diavolo hanno costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?” (c. 21); “vanità de’ piaceri, ingiustizia dell’orgoglio, vera dignità e veri beni” (c. 22). [269] Nella lettera a Victor Cousin del 2 ottobre 1833, le distinzioni sono triadiche quanto ai sostantivi, ma quaternarie quanto ai verbi: “Heuresement voici un petit capital de disputes que je tenais en reserve, que je vous avais offert par légéreté, que vous réclamez par trop de bonté et que je vous envoi par excès de loyauté”. [270]Con Vincenzo Courir (Autori e correnti, Firenze, ed. remo sandron, 1965, pp. 179-80), possiamo aggiungere la descrizione di don Abbondio che, prima di incontrare i bravi, recita il breviario ritorrnando a casa ,”buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero” (c. 1); e quella di Perpetua “ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto” (id.)... Ma ci sembra che l’essenziale sia stato ormai detto. [271] “I versi nei Promessi sposi di A. M., Parma, 1889. [272] P. Bellezza chiude lo studio così: “In minor misura, il fatto si ripete nelle altre prose. Basti questo esempio nella Colonna infame (III) dove si susseguono tre endecasillabi: “Avrà fatto sentire a vicenda| il terror di soffrirli di nuovo,| e l’orrore di farli soffrire”. Nel c. 17, “Quel cielo di Lombardia| così bello quando è bello,| così splendido, così in pace” , diventa una tripletta di ottonari, con minime modificazioni che si fanno d’istinto citando la frase, illudendosi di riportarla a memoria: “Quel bel ciel di Lombardia,| così bello quando è bello,| così azzurro, così in pace”. Questo c. 17 ci è servito per questo tentativo di lettura poetica, con un minimo di sostituizioni, completamenti, ecc. [273] “Ma ringrazia il saio” è un senario; le prossime due parentesi racchiudono novenari; le ultime due, quinari. [274] Abbiamo aggiunto “bel” e tolto la “o” finale di “cielo” per ridurre a ottonario il pirmo comma; abbiamo sostituito “azzurro” a “splendido” nel terzo comma. [275] Sul romanticismo –Lettera al marchese Cesare d’Azeglio- (1823; redazione definitiva, 1870: parte finale). [276] Mentre le prime due finalità della “Introduzione” sono ovvie ad ogni lettore attento, i secondi fini (smussamento alla sentenziosità morale e occasioni moltiplicate di umorismo), li abbiamo tratti da Giuseppe Pontiggia, Manzoni e l’anonimo, in “Manzoni europeo”, Milano, Cariplo, 1985, pp. 9-57.
[277] Ricito da Marino Parenti, Immagini della vita e dei tempi di Alessandro Manzoni, Firenze, Sansoni, 1973, p. 13. [278] Mario Martelli, Introduzione ad A. M., Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1973, p. XXV. [279] Adelchi era stato iniziato il 7 novembre 1820 e finito il 21 settembre del 1821(salvo revisione generale, organizzazione delle “Notizie storiche” e stesura dei due cori, prima dell’edizione nel’ootobre 1822). Siccome la scrittura dei singoli atti occupava il Manzoni circa un mese (salvo il primo, finito solo il 4 gennaio, perchè egli aveva cambiato radicalemnte l’atteggiamento del personaggio Adelchi, che aveva ideato, daprima, come sostenitore del progetto, antistorico, di armare i latini per chiamarli a contribuire a combattere i franchi), nei mesi ulteriori dell’inverno dovette comporre il secondo atto della tragedia (l’unico per cui non siano segnate le date d’inizio e fine della stesura), salvo a fermarsi, poi, per dar inizio alla scrittura di “Fermo e Lucia” il 24 aprile (e sino alla fine di maggio, visto che la composizione del terzo atto dell’Adelchi inizia il 2 giugno). [280] “Sentir Messa” era il titolo di una sintesi della grande opera sulla lingua, mai realizzata. L’idea di tale libro nacque immediatamente dalla volontà di rispondere alle obiezioni al “Marco Visconti”, dell’amico Tommaso Grossi, mosse dall’abate Michele Ponza, nella recensione sull’Annotatore piemontese ossia Giornale della Lingua e Letteratura italiana, del 2 agosto 1835 (il romanzo era uscito nel dicembre 1834). Dapprima progettato come lavoro a quattro mani, poi divenuto impegno solitario del Manzoni, il “Sentir messa” (era una delle espressioni che l’abate criticava nel Marco Visconti) venne alla luce solo nel 1923, per opera di Domenico Bulferetti. [281] L’uso, a sua volta, può dipendere da fattori esterni, socio-politici; o da leggi interiori, psicologiche. L’uso che supera leggi razionali (quella dell’analogia, ad esempio: la vedremo, con Manzoni, fra poco) e sociali (come quella dello insegnamento scolastico), deve pur dipendere da fattori umani. Che possono essere più di uno. Da una parte vi è il motivo utilitario (militare-politico-economico) che può imporre la lingua della nazione dominante, come rischiò di avvenire nel Millesettecento col francese in mezza Europa; e come rischia di avvenire adesso con l’inglese. Un tempo era la preponderanza coloniale ed economuica a rendere l’inglese lingua franca internazionale; oggi è la necessità della tecnologia e delle comunicazioni (si pensi ai trasporti aerei, ai messaggi fra torri di controllo e velivoli in partenza, in arrivo, in viaggio). Dall’altra, vi è un motivo musicale, inconsapevole ma efficientissimo nello stabilire la voce finale accettata dal “genio della lingua nazionale”, partendo dalla imitazione-deformazione di una parola metaforizzata nella stessa lingua o riciclata da lingua diversa. Il termine “slavo” è divenuto dapprima “schiavo”, perchè il suono “SCH” è meno arduo al “genio musicale veneziano” che non l’ “SL”, per lui disarmonico. Poi, però, si è degradato a “sciao”, perchè il suono “SCI” è più dolce di quello “SCH” e, quindi, più accetto allo stesso gusto musicale. Una volta, però, superati i confini della “Serenissima repunbblica veneziana”, dovendo far i conti col “genio musicale toscano”, si è accorciato in “CIAO”, suonando meno armonioso, all’orecchio fiorentino, quel suono complesso “SCI”. Non per nulla Benedetto Croce, trasformando una legge psicologica in un principio metafisico, ha relegato tutta la creazione del fatto linguistico alla attività estetica dell’uomo, anzichè limitarsi a sottolineare il forte impatto del fattore emotivo-musicale, cioè collegato con l’arte (seppur secondario, rispetto alla ragione), nella creazione di nuovi vocaboli. D’altronde anche Manzoni parla di tale componente musicale, nel c. IV della sua progettata opera Della lingua italiana: ma ne tratta senza la coscienza della sau importanza. [282] Questo voler “regolamentare l’uso attuale”, stabilizzandolo e rendendolo obbligatorio, è una inconscia contraddizione al principio del dominio assoluto dell’uso vivo e parlato. Manzoni fa rientrare dalla finestra ciò che, così genialmente, aveva scacciatoi dalla porta: mettere un criterio di lingua nazionale al di sopra dell’uso concreto. Difatti non è garantito che la lingua fiorentina debba necessariamente rimanere la lingua d’uso accettata in tutta Italia. Egli, senza accorgersi, fissa un modello da difendere e conservare: era un rischiare di fondare un nuovo classicismo, divenire scudiero dell’uso fiorentino nel secolo XIX, anzichè di quello dell’aureo Trecento e dell’argenteo Cinquecento! [283] Il senese od il pisano, ad esempio. Ma il Manzoni, sempre discreto, non fa nomi. [284] In realtà, se l’uso del popolo italiano accetta parole proprie solo di altre città toscane e non del fiorentino, accade come per parole straniere entrate nell’uso e accettate anche a Firenze: diventano parte delal lingua italiana. D’altronde la linguaitaliana (e, benchè a fatica, anche Manzoni, almeno nelle Osservazioni e nel romanzo) ha tradotto la “o breve” del latino nel dittongo “UO”, nonostante il rifiuto fiorentino (onde Manzoni, nelle prose dopo il romanzo, usa “bono, core, nora, novo, percotere, rota, scola, , socera, voto=vuoto; votare=vuotare...”, ecc. con gran pena dei lettori...). Certo che del fiorentino rimangono la due esigenze fondamentali che lo caratterizzano: la prima, i vocaboli, anche se presi dalle lingue straniere, devono adattarsi a terminare in vocale, salvo finali in liquida o nasale (l’articolo “IL”, le preposizioni semplici “IN| CON| PER” od articolate “DEL, DAL, COL”; aggettivi e sostantivi e voci verbali tronche, specie in poesia (amar, ben, cammìn, fior...); sostantivi stranieri accettati , come “alco(o)l”); la seconda, non sono ammessi i suoni offuscati della “OE”| e della “UE” : nessun mezzo suono può essere sentito come toscano-fiorentino. [285] Ricordiamo qui tutte assieme titoli e date degli scritti da Manzoni progettati, lasciati incompleti oppure condotti a termine sul tema: “Della lingua italiana”, progettata durante la trasposizione di “Fermo e Lucia” ne I promessi sposi (cfr. lettera di Giulia Beccaria Manzoni a mons. Tosi: 14 gennaio 1824, ove è data come pronta per la pubbicazione); “Sentir Messa”, progettato come risposta alle obiezioni linguistiche dell’abate Michele Ponza al romanzo di T. Grossi “Marco Visconti” (1835: lettera di Cristina Manzoni del 2 dicembre 1835; 1836: lettera dello stesso Manzoni dell’8 febbraio a Gaetano Cioni). Nel 1852 lo scrittore riprese in mano gli studi sulla lingua con l’intenzione (ancora una volta, vana) di condurli a termine nell’opera progettata (la data è stabilita da Fausto Ghisalberti e Michele Barbi); Lettera a Giacinto Carena, del 26 febbraio 1847, edita migliorata nel 1850; “Saggio di vocabolario italiano secondo l’uso di Firenze, scritto in collaborazione con Gino Capponi ed edito nel 1856 (si tratta di 98 voci, dalla preposizione “A” all’avverbio “Abbenchè”); “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. Relazione al Ministero della Pubblica Istruzione (febbraio 1868; Appendice, edita nel maggio 1869, in risposta alla diversa relazione Francesco Lambruschini-Gino Capponi, comparsa sulla Nuova Antologia nel maggio 1868, che riproponeva la dottrina dantesca della lingua di ogni regione d’Italia); all’Appendice è allegato un “Saggio comparativo del Dizionario dell’Accademia francese col Vocabolario degli Accademici della Crusca”); Lettera intorno al libro “De vulgari eloquio” di Dante Alighieri (21 marzo 1868: la lingua italiana dev’essere il fiorentino e non “il buon toscano”); Lettera intorno al vocabolario (30 aprile 1868); Lettera al Marchese Alfonso della Valle Casanova (30 marzo 1871: confronto fra la edizione ventisettana e quella definitiva ). [286] “Tradizionalismo”: la lingua è quella usata in una certa generazione del passato, al di fuori di ogni “pericolo” di innovazioni; “Classicismo”: la lingua è quella che va selezionata dagli autori più eleganti -esteticamente pregevoli- del passato (i perfetti scrittori toscani e fiorentini in particolare); “Purismo”: coincdendo col tradizionalismo, si preoccupava, in più, di escludere ogni apporto di lingue straniere (reazione all’infranciosamento del Millesettecento). [287] L’amico del Casanova era Federico Persico che, in un opuscolo intitolato “Due letti, lettera critica ad A. Della Valle Casanova”, edito a Napoli nel 1870, aveva elogiato la revisione linguistica operata dal Manzoni, nel passare dalla ventisettana alla edizione definitiva 1840-2. [288] Emilia Luti era a servizio in casa di Massimo d’Azeglio e fu assunta addirittura in casa Manzoni, proprio per consultazioni sulla lingua fiorentina; a sua volta essa si rivolgeva per lettera alla madre, per avere indicazioni precise. Ad Emilia, Manzoni regalerà una copia della edizione definitiva, con la dedica arguta: “Madamigella E. L., accetti questi cenci da lei sciacquati in Arno, che le offre, con affettuosa riconoscenza, l’autore”. [289] A parte la contraddizione in cui cadde il Manzoni, con il ridurre l’uso al fiorentino, vi è un’altra sua svista (ma di secondaria importanza, rispetto a quella) nella sua teoria linguistica: riguarda la causa dell’imporsi di un certo corpo espressivo (di un vocabolario) come lingua di una nazione. Lo ha indicato per la prima volta il maggior esponente della scuola storico-filologica impostasi nel secondo Ottocento, Isaia Graziadio Ascoli (1829-1907). Questi combattè la teoria della necessità di una localizzazione geografica (Parigi, Castiglia, Firenze), dove ritrovare la lingua nazionale di un popolo, con argomenti storicamente e psicologicamente decisivi (“Proemio all’Archivio glottologico italiano”: 1872, vivente ancora il Manzoni!). Sul piano storico, egli ricordò che la lingua tedesca si è affermata nella forma da tutti accettata, semplicemente attraverso l’imporsi degli scrittori più dotati e del commercio epistolare fra loro, senza bisogno di alcun centro geografico di riferimento. Sul piano psicologico, egli sottolineò che il fiorentino era divenuto lingua nazionale attraverso il suo primato ed artistico-culturale ed economico: cessato questo dominio, essa non è più modello di riferimento per gli italiani. Ormai l’apporto di neologismi stava giungendo e sarebbe sempre più arrivato dai centri culturalmente ed economicamente più sviluppati (nel secondo dopoguerra, si è parlato del triangolo industriale di Milano-Torino-Genova). A sua volta, l’Ascoli dimenticava che i nuovi vocaboli avrebbero dovuto rientrare nel sistema “estetico-musicale” del “sostrato” tosco-fiorentino, col rifiutare sia le vocali dimezzate “OE|UE” sia quelle terminanti in consonante. E questo vale anche oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo; e si può sospettare che la cosa resisterà ancora almeno per qualche generazione, fino a quando, cioè, si sentirà la necessità o il dovere di connotare, come diversa da altre, la lingua italiana; finchè essa non verrà diluita poco a poco in una lingua universale, che faccia capo ad altri idiomi come a base di riferimento (l’inglese?). Ma, in questo caso, il fiorentino finirà per essere considerato lingua morta e patrimonio di specialisti, come avviene già oggi per la lingua latina e per il greco classico. [290] Ci si domanderà allora perchè non si dica che l’italiano di oggi è quello del Baretti o dell’Alfieri, ma quella dle Manzoni. La risposta sta anzitutto nella diffusione diversa delle tre opere citate: solo I promessi sposi han raggiunto una fama tale, da imporli come testo scolastico, cioè come libro di universale lettura, modello efficace, quindi, di affermazione, anche fra il popolo, della lingua tosco-italiana; in secondo luogo, perchè il Manzoni, colla sua, sia pure imperfetta, teoria della lingua fiorentina parlata, da assumersi come paradigma per la lingua nazionale, diede una svolta così decisa e così decisiva alla questione, nella coscienza dei dotti italiani, che ebbe il risultato di far accantonare il mito del vocabolario cruscante e di iniziare a scriverne di nuovi, con valore (finalmente!) non storico od estetico, ma puramente linguistico: con funzione, cioè, non di “memoria” di come si parlava la lingua nel Milletrecento-Cinquecento; nè di prontuario per il linguaggio specializzato della poesia classica, ma semplicemente come collezione dei vocaboli usati, parlando, dai fiorentini colti nella generazione contemporanea alla edizione del vocabolario, vocaboli inventati da loro o da loro solamente adattati al genio del loro “dialetto” , assurto ormai a lingua nazionale. [291] Forse uno solo è lo svarione è di carattere anche logico, non solo grammaticale. E’ al c. 8: “intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell’accaduto” avrebbe dovuto essere “si guardasse bene dal fare...”. Manzoni non si è accorto che il comando di “guardarsi bene” è già negativo e rifiuta, perciò, il “non”. Fuori del romanzo, troviamo “obblio” in Adelchi, coro di Ermengarda; Gian Giacomo Mora (anzichè “Morra”) nella Storia della colonna infame. [292] La punteggiatura serve a segnare le pause del pensiero (e, di conseguienza, della lettura) nella espressione scritta. La riflessione umana, nel trascorrere di secoli, ci pare giunta a queste regole che noi stessi abbiamo cercato di precisare e riordinare, nell’articolo citato nel testo. Il punto fermo segna la fine del periodo (espressione di senso compiuto) sia semplice (una sola proposizione o frase) che complesso (periodo di più frasi o proposizioni). Al posto del punto fermo ci può essere il punto esclamativo (finale di proposizione o di forza particolare o col senso di sorpresa, ammirazione, divertimento) oppure quello interrogativo (chiude una frase-periodo di domanda vera o finta –retorica-). Per la restante interpunzione, distinguiamo l’uso della punteggiatura nel periodo semplice da quello nel periodo complesso. Nel periodo costituito da una sola proposizione o frase (periodo semplice), si possono usare la virgola e i due punti; nel periodo complesso vi è posto anche per il punto e virgola. Esaminiamo prima la interpunzione nella semplice frase|proposizione. Diciamo subito che, davanti ad E|O|NE’, la regola esclude la virgola, ma non (quando ci vuole) il punto e virgola. Anche siamo d’accordo sulla virgola davanti a “ma”, salvo che questo inizi il periodo o che sia seguìto da altra virgola immediatamente richiesta da un avverbio od interfernza di complemnento o da frase secondaria. La virgola è il segno più debole di interprunzione e, quindi, della separazione o pausa fra le diverse componenti della frase o proposizione (come anche nel periodo complesso). Essa si usa anzitutto, per separare ogni parola che interrompa la successione logica minima del pensiero inserendosi fra uno dei suoi elementi fondamentali, che sono soggetto, il verbo, il complemento oggetto, il complemento di termine. Tale regola non si applica, quando la parola inserita sia o il predicato nominale (aggettivo o sostantivo) dopo la copula (verbo essere) o un attributo o un complemento di specificazione del soggetto, del predicato nominale o di uno dei complenti indicati. Fra tutti questi componenti della proposizione (frase) “standard” non si dà pausa nè, quindi, interpunzione di sorta. Se la frase è passiva, al posto del complemento oggetto si troverà, a costituire parte essenziale della sua struttura, il complemento di agente o di causa efficiente. La rottura della successione continuata, tra le componenti minime suindicate della frase-proposizione, può essere costituita da un avverbio o da una apposizione (sostantivo e aggettivo o espressione a ciò riducibile, che specifichi il soggetto o il predicato nominale o uno dei complementi) o da un complemento meno essenziale, che non venga dopo la serie indicata, ma si inserisca fra gli elementi essenziali stessi o li preceda. Si usa anche per indicare la assenza di una parola, sottintesa in una frase. Esemplifichiamo con frasi riferite al romanzo manzoniano. Frase con predicato verbale attivo e complemento oggetto: “I bravi malvagi di don Rodrigo prepotente proibirono la celebrazione del matrimonio al timido don Abbondio”. Frase con copula e predicato nominale: “I bravi di don Rodrigo furono la causa del rifiuto del matrimonio a Renzo e Lucia da parte di don Abbondio”. Frase passiva: “Il matrimonio di Renzo e Lucia fu impedito dai bravi di don Rodrigo e dalla vile paura di don Abbondio.” Frasi complicate da interferenze di complementi, che rompono l’ordine logico minimo: “Nell’anno 1628, i bravi, mandati da don Rodrigo, proibirono la celebrazione del matrimonio fra Renzo e Lucia”. “Signor curato, quel matrimonio non s’ha da fare nè domani nè mai”. “Don Abbondio, dopo quel comando, fu preso da una paura terribile” (o anche: “Dopo quel comando, don Abbondio...”; sarebbe tollerabile, invece: “Don Abbondio fu opreso da una paura terribile dopo quel comando”). “Lucia, senza gli interventi indiscreti, aggressivi e controproducenti di donna Prassede, sarebbe potuta giungere, col tempo, a dineticarsi di Renzo?”. La virgola segni di frase ellittica (mancante di parola sottintesa): “Le gride servono agli onesti per difendersi; ai malvagi, per offendere” La virgola si usa ancora, nella semplice frase o proposizione per separare tra loro gli elementi (sostantivi od aggettivi, solitamente) di un elenco di uguale valore logico (elenco di soggetti, di predicati nominali, di attributi, di complementi oggetti, di complementi di specificazione ecc.): “Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde....., due lunghi mustacchi arricciati in punta, una cintura lucida di cuoio...., un piccol corno ripieno di polvere..., un manico di coltellaccio..., uno spadone...” (c. 1: serie di complementi oggetti). “Erano uomini, donne, fanciulli” (c. 20: tripletta di soggetti) “a brigate, a coppie, soli” (id.: tripletta di complementi di modo). I due punti sono il segno di punteggiatura che 1) annuncia una spiegazione 2) di un dato già annunciato genericamente prima, 3) spiegazione introdotta senza congiunzione (il porre una congiunzione esplicativa, fa sostituire i due punti con una virgola). Due condizioni, dunque, esige la legittimità dell’uso dei due punti: presenza di una spiegazione di qualcosa già accennato; assenza di congiunzione che connetta il generico con la specificazione. Gli elementi grammaticali, che preannunciano genericamente un dato da esplicitare sono generalmente un numero o un pronome indefinito (molti, pochi., alcuni.. .) o uno dimostrativo (questi, tali....). “Ecco alcuni nomi dei bravi di don Rodrigo: il Griso, lo Squinternotto, il Tanabuso, il Grignapoco, lo Sfregiato, il Tiradritto, il Montanarolo....” (pronome indefinito, cui segue un elenco di soggetti). Renzo aveva molte colpe di cui accusarsi, molte cose da imparare dalle traversie del suo matrimonio: non mettersi nei tumulti,... non predicare in piazza, non alzare troppo il gomito.... Lucia, invece, aveva questo unico sproposito da rimproverarsi: aver voluto bene a Renzo”. Ma, con la congiunzione “cioè” è esigita la virgola e non i due punti: “....da imparare, cioè...”| questo unico sproposito, cioè aver voluto...”). Uso della virgola col “ma”: “Pareva che dicesse: - Ma perchè non avete saputo voi essere il più forte...?-” (c. 1: inizio di periodo); “Perpetua sapeva tollerare le fantasticaggini del suo padrone, ma sapeva, a suo tempo, fargli tollerare le proprie”; “Perpetua... del padrone ma, a suo tempo, sapeva fargli...” (vicinanza immediata di due virgole: si toglie quella davanti al “ma”. Ed eccoci alla punteggiatura nel periodo compesso, composto di più frasi, coordinate fra loro (cioè dello stesso genere sintattico: tutte principali o tutte oggettive o tutte temporali o tutte causali...); oppure subordinate (eccetto le principali, tutte le altre: oltre le tre or ora dette, elencheremo presto le rimanenti). Come regola generale, la virgola serve a separare le frasi subordinate (dipendente) dalla loro reggente (o sovraordinata). Va notato che, in concreto, in italiano si segue tradizionalmente una regola più sfumata, a secondo del tipo di subordinate. Si vengono in pratica a distinguere tre tipidi dipendenti: quelle che fanno blocco talmente unito alla sovraordinata, che rifiutano assolutamente la virgola (sono le soggettive, le oggettive, le interrogative indirette); quelle che invece sono così distinte dalla sovraordinasta da esigere sempre la virgola (condizionali od ipotetiche, concessive, causali, temporali, comparative e modali); quelle che si possono considerare ora molto legate, ora abbastanza separate dalla reggente, da accettare o far a meno della virgola a secondo di circostanze ulteriori (relative: se definiscono il sostantivo cui si riferiscono, bloccano con la reggente e rifiutano la virgola; se aggiungono particolari secondari, se ne distinguono e vogliono o almeno preferiscono la virgola; finali e consecutive: se brevi, possono far a meno della virgola; se lunghe, la esigono). Se la subordinata è al modo infinito, allora la si sente come più legata e, salvo una lunghezza particolare, non si mette la virgola; ma se il modo indefinito è, invece, è il gerundio, allora la virgola ci vuole sempre. Venendo a qualche esempio, addurremo solo quelli in cui la virgola è richiesta, salvo a segnalare fra parentesi la costruzione che può farne a meno. Con questa premessa, non faremo esempi di soggettive, oggettive, interrogative indirette, perchè non vogliono mai la virgola. Condizionali o ipotetiche: “Se don Abbondio non avesse dato retta ai bravi, non ci sarebbe stato materia per il romanzo de I promessi sposi” (anche in frasi brevissime: “Se sì, sì; se no, no). Concessive: Benchè don Abbondio fosse paurosa sino alla viltà, tuttavia non era malvagio (brevissima: Benchè vile, don A...). Causali e modali: Il cardinal Federigo rimproverò seriamente don Abbondio, perchè non aveva fatto il matrimonio, come era suo dovere (brevissima: “Vengo, perchè ho bisogno di un favore”; anche in forma infinitiva: “Per aver difeso Lucia, padre Cristoforo dovette allontanarsi da Pescarenico.). Temporali (ed oggettiva): Quando don Abbondio si accorse che i bravi aspettavano lui, fu subito preso dalla paura (anche brevissima: Quando fu sera, Renzo andò all’osteria con Tonio e Gervaso). Comparative (in due principali coordinate da una “E”, ma staccate fra loro: “Quanto più uno ama, tanto più trova coraggio per compiere il suo dovere; e quanto più uno prega, tanto più impara ad amare”. Relativa connessa colla reggente: - L’innominato convertito “era quell’uomo che nessuno aveva potuto umiliare e che s’era umiliato da sè”” e “quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lomostrava nel non fare nè l’una nè l’altra cosa”- (c. 29: ma sarebbe anche tollerabile la virgola sia dopo “coraggio” che dopo “quell’uomo”). Relativa non strettamente connessa colla reggente: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno...” (inizio del romanzo: potrebbe anche farne a meno, però). Finali brevi: “richiamò al cuore gli antichi spiriti e gli comandò che reggesse” (c. 17); “Renzo raccolse tutte le sue forze (perchè=) affinchè potesse giungere all’Adda (per poter giungere all’Adda” : in entrambi i casi, anche con la virgola; ma si noti che, se la finale precede, la virgola è esigita sempre: “Affinchè potesse giungere all’Adda, Renzo raccolse tutte le sue forze”; “Per poter giungere all’Adda, Renzo...”). Finali lunghe: “Menico fu mandato a Pescarenico tutto quel giorno, affinchè portasse gli ordini di padre Cristoforo”. Consecutiva breve|lunga: “Attilio fu così astuto che convinse il conte zio” (anche con la virgola, rifiutata invece con la forma indefinita: “...così astuto da convincere...). “Attilio presentò le cose con tanta astuzia, che il conte zio gli credette”. “Don Abbondio entrò nel salotto ocn un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmeno bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per scoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero” (c. 1). Gerundi e participi passati equivalenti: “Essendosi recato (Recatosi) dal dottor Azzeccagarbugli, Renzo ne tornò sbalordito ed irritato in sommo grado”. Inutile dire che la virgola, come separa l’interferire di un avverbio o complementoo secondario, così serve a separare una frase intera che si inserisca in una reggente già iniziata: “ Renzo, per assicurarsi contro la giustizia milanese, si fece rilasciare un benservito dal padrone, dove aveva lavorato col falso nome di Antonio Rivolta”. Il punto e virgola: ultimo segno di punteggiatura entrato nel mondo occidentale (e fu opera di Pietro Bembo, nella edizione aldina pel Canzoniere del Patrarca, nel 1501), è usato solo in un periodo complesso e serve a separarvi le frasi coordinate, cioè gli elenchi di frasi dello stesso genere (soggettive, oggettive, ecc.): il punto e virgola fa, rispetto alle proposizioni coordinate, la funzione che la virgola fa nella semplice proposizione rispetto agli elenchi di soggetti, attributi, complenti dello stesso tipo: “Lecco aveva l’onore, essendo un castello, di ospitare una stabile guarnigione di soldati, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese; che accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito e a qualche padre; che non mancavan mai, sul finir dell’estate, di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve e, così, alleggerire ai contadini la fatica della vendemmia” (c. 1, con adattamenti: serie di proposizioni relative). Esempi di errori del Manzoni nell’uso della interpunzione. Introduzione: “Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perchè, in quanto storia...a me era parsa bella...” (virgole, non il punto e virgola, a meno di non usare “infatti” che è causale ececzionalmente coordinante, non subordinante). Procediamo in questa frase e troveremo altro errore, che darà modo di ricordare regole secondarie: “a me era parsa bella, come dico; molto bella” (solo la virgola anche qui, ma per altro motivo non ancora detto: frasi intercalari del tipo “come dico| come sembra...” si usa separarle colla sola virgola, prima e dopo, dal contesto, senza preoccupazioni delle regole sopra esposte. c. 1: “La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come ad esempio di su le mura di Milano, che guardano a settentrione, non lo discerna tosto...” (non i due punti, ma la virgola: subordinata consecutiva). c. 1: “Non fu di questo parere Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes...; non fu di questo parere, e per buone ragioni” (non la virgola, perchè vi è di già la congiunzione “e”; ci vuole il punto e virgola, perchè la espressione “e per buone ragioni” corrisponde ad una intera frase, con ellissi del verbo “; e non lo fu per buone ragioni”. Qui ci si accorge che, se la “e” non tollera mai la virgola prima di sè, accetta però il punto e virgola quando vi sono di mezzo frasi intere da unire-separare. [293] Solitamente è questa pregiudiziale di miscredenza religiosa generica (immanentisti, marxisti in particolare) o cristiana specifica (massoneria oggi; musulmani, c’è da temere, ben presto...) o anticattolica in particolare (testimoni di Géova?...) che vuol escludere lo studio obbligatorio de I promessi sposi dalla scuola. Aveva tentato già Benedetto Crioce, forse davvero non accorgendosi che era il pregiudizio irreligioso a fargli negare la sublimità artistica del romanzo e relegarlo, invece, fra leopere di oratoria moralistica e religiosa (stroncatura del 1926, in Conversazioni critiche, III, pp. 247-256). Ad ogni modo, dovette ricredersi poco prima di morire (Lo spettatore italiano, marzo 1952). Ma, poi, il marxismo imperante nella cultura italiana del secondo dopoguerra, ha dato fiato ancora all’ostilità, due volte iniqua: e per la il non riconoscimento di una arte grandiosa (che è il peccato imperdonabile di negare la verità conosciuta); e per le motivazioni ideologico-politiche troppo facilmente indovinabili e talora puntigliosamente dichiarate. |
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